Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

LA MAFIOSITA’

SETTIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia della mafia.

L'alfabeto delle mafie.

La Gogna.

Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

In cerca di “Iddu”.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

E’ Stato la Mafia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa Nostra - Altare Maggiore.

La Stidda.

La ‘Ndrangheta.

La Mafia Lucana.

La Sacra Corona Unita.

La Mafia Foggiana.

Il Polpo: Salvatore Annacondia.

La Mafia Lucana.

La Camorra.

La Mafia Romana.

La Mafia abruzzese.

La Mafia Emiliano-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Milanese.

La Mafia Albanese.

La Mafia Russa-Ucraina.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Cinese.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Antimafiosi.

Non era Mafia.

Il Caso Cavallari.

Il Caso Contrada.

Il Caso Lombardo.

Il Caso Cuffaro.

Il Caso Matacena.

Il Caso Roberto Rosso.

I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

 

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

I tifosi.

Femmine ribelli.

Il Tesoro di Riina.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caporalato.

Il Caporalato Agricolo.

Gli schiavi dei Parlamentari.

Gli schiavi del tessile.

Dagli ai Magistrati Onorari!

Il Caporalato dei giornalisti.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Usuropoli.

Aste Truccate.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Nimby lobbisti.

La Lobby.

La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby dei Giornalisti.

La Lobby dell’Editoria.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Fuga dall’avvocatura.

La Lobby dei Tassisti.

La Lobby dei Farmacisti.

La lobby dei cacciatori.

La Lobby dei balneari.

Le furbate delle Assicurazioni.

 

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massoneria Occulta.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Sanità: pizzo di Stato.

Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Spettacolo mafioso.

La Mafia Green.

Le Curve degli Stadi.

L’Occupazione delle case.

Il Contrabbando.

La Cupola.

 

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Massoneria Occulta.

Estratto dell’articolo di Piera Amendola per “il Fatto quotidiano” il 14 novembre 2022.

Gli iscritti alla loggia massonica P2 gestita dal burattinaio Licio Gelli non erano, non sono, 962. L'elenco sequestrato dai giudici Colombo e Turone negli uffici della fabbrica Giovane Lebole di Castiglion Fibocchi era incompleto. […] esiste un secondo elenco di iscritti alla P2, di 1599 nominativi, tutti piduisti che per un certo periodo sono stati, per così dire, in servizio attivo, e hanno continuato negli anni ad essere a disposizione del maestro venerabile o di chi, nella scala gerarchica, ha avuto o ha, ancora, un ruolo di comando superiore a quello che ebbe, prima di morire, Gelli.

La storia di un secondo elenco di iscritti alla P2 […] è stata ampiamente provata nel corso di una delle ultime udienze della Corte di assise di Bologna […] […] getta un fascio di luce nuova su tutta l'organizzazione. I motivi sono molti. Non si può certo escludere che un nucleo attivo possa tuttora agire con finalità sconosciute, ma illegali. Tra i membri della vera P2 può essere nata una fabbrica di ricatti e di veleni, in grado di intorbidire la Repubblica.

[…] in un'intervista rilasciata a L'Espresso il 10 luglio del 1976, Gelli aveva dichiarato che gli affiliati alla sua loggia erano 2.400, un numero che grosso modo corrisponde alla somma tra il primo e il secondo elenco, quello mai ritrovato (962 più 1.600).

Diversi anni dopo, nel corso della sua audizione alla Commissione P2, il generale Ennio Battelli, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, fa mettere a verbale di avere appreso dal Gran Segretario Spartaco Mennini che i nomi di 1.600 piduisti si trovano in cassette di sicurezza in Svizzera. […] 

[…] O le dichiarazioni rese ai giudici palermitani Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato da Lia Bronzi Donati, aderente alla Loggia di Montecarlo: "Ricordo che Giunchiglia, una sera, mi telefonò spaventato e mi disse che aveva letto i nomi degli iscritti negli elenchi della P2 non ritrovati dalla magistratura, e che era impressionato dal numero e dall'importanza degli iscritti, che neppure immaginava [...] se avesse fatto i nomi di tutti gli iscritti alla P2, poteva venirsi a creare in Italia un grave vuoto di potere".

E cosi ancora, attingendo alle dichiarazioni dello stesso maestro venerabile, che nel corso di una intervista rilasciata nel 2011 (andata parzialmente in onda su La7 nel dicembre del 2015) lascia intendere che anche l'ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi dal 1984 al 1991, a suo dire nominato ai vertici del Servizio dalla P2, ne faceva parte. […] 

La Commissione si è trovata di fronte a un gravissimo attentato alla sua attività, compiuto con il mancato arrivo in Italia dell'archivio che Licio Gelli custodiva in Uruguay, archivio del quale si impossessò la Cia. […] la piccola parte di archivio che arrivò dall'Uruguay non contenesse elementi utili per chiarire definitivamente la natura della P2 e la sua consistenza numerica. Negli ultimi tempi qualche spiraglio sembra essersi aperto negli Stati Uniti, dove il presidente Biden ha disposto di rendere pubblici tutti gli atti compiuti in Italia all'epoca della cosiddetta strategia della tensione. Potrebbe esserci qualche sorpresa.

[…] Molti indizi convergono sul ruolo del principe Alliata che appare un personaggio troppo "pesante" per essere ridotto alla funzione di "gentiluomo" di Gelli. Alliata è davvero un gentiluomo di casa reale, naturalmente dei Savoia. Soprattutto, dimostra un'astuzia non comune e una rete di relazioni personali di primissimo ordine. […]

Numerosa la partecipazione tarantina guidata dall'Ispettore provinciale Antonio Ortini. Gran Loggia d’Italia, i massoni pugliesi si danno appuntamento a Roma. La Redazione la voce di manduria giovedì 23 giugno 2022.

Il prossimo 25 giugno la Gran Loggia d’Italia celebrerà la cerimonia del solstizio d’estate. L’evento che si svolgerà nella prestigiosa cornice dello Sheraton Hotel Parco de’ Medici di Roma, farà convergere nella Capitale 2700 “sorelle e fratelli” provenienti da tutte le giurisdizioni d’Italia. 

Numerosa la partecipazione pugliese guidata dal Delegato Magistrale, dottor Gianfranco Antonelli, e dall’Ispettore Provinciale per Taranto, Antonio Ortini.

La città eterna sarà il “luogo” di elezione della cultura dell’incontro, che per la Massoneria è il primo motore della convivenza democratica. «La manifestazione ha una valenza altamente simbolica, nel giorno astronomicamente più lungo - spiega Luciano Romoli, Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli ALAM - il nostro sguardo deve spingersi ad abbracciare l’universo. Nel mondo interconnesso la fraternità è lo strumento che può rifondare la geopolitica e riaffermare il valore della comunione e il bene supremo della pace, messa a repentaglio dalla grave crisi scoppiata nel cuore dell’Europa. Quello che ci apprestiamo a vivere è un momento particolare: questa data collocata all’inizio dell’estate, ci invita alla riflessione, al superamento delle diversità, che si traduce nel mondo di oggi in una positiva propensione al confronto, come strumento possibile di crescita comune».

L’etimologia può aiutare a comprendere la molteplicità dei simboli che bisogna maneggiare per interpretare correttamente il senso di questa festa. Solstizio deriva dal latino “solstat”, che vuol dire: "il sole si ferma". Sembra infatti che la stella più luminosa del firmamento indugi in questa posizione, prima di riprendere il suo cammino discendente, raggiungendo la sua massima declinazione positiva rispetto all'equatore celeste, per poi riprendere il cammino inverso con l’inizio dell'estate astronomica. In quel tempo sospeso sembra di sentire il respiro dell’universo, una “pausa” spiritualmente intensa in cui possiamo ricevere il massimo della potenza solare.

«Si tratta di un intervallo propizio che dobbiamo saper sfruttare - riprende Romoli - perché se cielo e terra secondo la liturgia antica possono dialogare avvicinandosi idealmente, anche noi possiamo abbattere le distanze e ritrovare l’altro nel rispetto dei diritti universali, che sono il fondamento della “buona società” che dobbiamo costruire insieme. Ricordiamoci che nel giorno del trionfo il sole, non possiamo permetterci di sottovalutare l’insidia delle ombre, senza stancarci mai di continuare idealmente a cercare il modo per cancellarle».

La cerimonia della pergamena bruciata nel tripode rappresenterà la fase culminante della cerimonia. La combustione servirà allegoricamente a consumare tutto quello che di negativo questo periodo nefasto ha prodotto per l’umanità intera, dalla pandemia a tutte le guerre e ai conflitti presenti sul nostro pianeta. «La verità - conclude il Gran Maestro - è un percorso, un tendere verso, nessuno può pensare di possederla, perciò dobbiamo sentire il dovere di perseguirla, al fine di creare le condizioni per uno sviluppo umano autenticamente universale».

Le rivelazioni dell'ex agente segreto sull'archivio di Licio Gelli: “Finì nelle mani della Cia”. Il Tempo il 15 giugno 2022.

Una testimonianza ha chiarito il destino dell’archivio di Licio Gelli, ex Maestro venerabile della loggia P2. A parlare è stato il generale Mario Grillandini, una volta agente del Sismi, nel corso dell’udienza dell’11 giugno 2021 del processo ai mandanti della strage di Bologna in cui ha raccontato passo passo della missione svolta in Uruguay per il recupero dei documenti di Gelli. “La scrematura - ha spiegato l’ex agente segreto - era stata fatta dalla Cia. A noi arrivarono una settantina di fascicoli senza grande importanza”. 

“L’incontro con l’ispettore Victor Castiglione, che aveva fatto parte della squadra messa in piedi per recuperare i dossier, fu piuttosto frettoloso perché - ha ricordato Grillandini in Corte d’Assise - il poliziotto aveva il fuoco di Sant’Antonio, non vedeva l’ora di andarsene, io gli presentai la mia richiesta, cioè di entrare in possesso dell’archivio di Gelli, e lui mi riferì che parte dell’archivio, buona parte dell’archivio, era stata requisita dalla Cia, una parte era stata trattenuta dai servizi uruguayani perché riguardavano la sicurezza nazionale interna e il resto era stato trasmesso ai Ministero degli Interni uruguagio”. Sono stati quindi gli agenti americani a prendere gran parte dei documenti scottanti sull’Italia, almeno stando alla testimonianza diretta di un ex spia.

Massoneria e mafia, cosa ci ha insegnato il processo Gotha. JOHN DICKIE su Il Domani il 15 giugno 2022.

In un’intercettazione del 2011, il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso dichiara: «La ’ndrangheta non esiste più! ... una volta... c’era la ’ndrangheta!... la ’ndrangheta fa parte della massoneria!»

 Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.

Il processo Gotha, che si è concluso in primo grado recentemente a Reggio Calabria, è uno dei più importanti processi contro la ’ndrangheta degli ultimi tempi. È importante, in parte, perché ha l’intento di gettare una luce processuale su uno degli aspetti più controversi della storia della mafia degli ultimi quarant’anni: il rapporto tra criminalità organizzata e massoneria.

Gotha è un processo complesso per due motivi: primo perché riguarda la struttura interna della ’ndrangheta—una struttura intricata e in continua evoluzione; secondo, perché ha avuto un iter processuale che adesso comincia a prospettarsi come particolarmente difficile dopo l’annullamento da parte della Cassazione di dieci condanne. Comunque sia, i risultati finora raggiunti ci permettono di trarre delle conclusioni significative sul legame ’ndrangheta-massoneria, conclusioni che dovrebbero indurre chi prende sul serio la lotta alle mafie a riflettere in modo assai profondo. Detto in poche parole, la lezione di Gotha è che i nostri luoghi comuni sulla massoneria non reggono il confronto con la realtà.

Prima di Gotha, gli esiti delle indagini delle forze dell’ordine e della magistratura sul rapporto mafia-criminalità erano stati deludenti. Tanto fumo e poco arrosto, tutto sommato. Emblematico il caso dell’ex-procuratore di Palmi Agostino Cordova che, partendo da un caso di certificati bancari rubati, nel 1992 fa partire una gigantesca inchiesta sulla massoneria che finisce per raccogliere qualcosa come 800 buste di documenti. Nel 2000, però, il processo viene archiviato dal GIP di Roma perché si rifà più «all’immaginario collettivo» sulla massoneria che a prove concrete. Verso la fine del 2021, Cordova perde una causa civile avviata contro il Grande Oriente d’Italia, il quale aveva definito l’inchiesta come «una caccia alle streghe finito con un buco nell’acqua».

Il processo Gotha, che rappresenta la confluenza di ben quattro inchieste separate, è partito da basi documentarie apparentemente più solide, anche se difficilmente componibili in un quadro coerente.

In un’intercettazione del 2011, il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso dichiara: «La ’ndrangheta non esiste più! ... una volta... c’era la ’ndrangheta!... la ’ndrangheta fa parte della massoneria!» La massoneria controllerebbe la ’ndrangheta, dunque? Invece la testimonianza dell’ex Gran Maestro del Grande Oriente, Giuliano Di Bernardo, propone uno scenario diametralmente opposto: cioè una massoneria controllata dalla ’ndrangheta. Secondo quanto gli è stato detto da un importante massone calabrese all’inizio degli anni ’90, la ’ndrangheta avrebbe infiltrato ben 28 logge calabresi su 32.

Ci sono altre testimonianze preoccupanti come queste, ma che insieme non aiutano a chiarire il panorama, anche quando vengono da collaboratori di giustizia ritenuti credibili in altra sede. Si è parlato tanto di logge “deviate”, “segrete”, “occulte”, o “coperte”, ma con poche indicazioni sul loro reale funzionamento.

IL NUOVO DIRETTORIO DELLA ‘NDRANGHETA

Alla fine, i giudici del processo Gotha hanno concluso (almeno in primo grado) che esiste un nuovo direttorio della ’ndrangheta, una specie di comitato d’affari apicale composto di “soggetti cerniera” tra il mondo della ’ndrangheta e quello delle istituzioni. Un risultato processuale altamente significativo, dunque. Ma dove è finita la massoneria? La risposta dei giudici, una risposta sulla quale il PM Giuseppe Lombardo non dissente, è deludente per i complottisti della situazione.

Il nuovo direttorio viene chiamato con due nomi dai pochi ’ndranghetisti che ne sono a conoscenza: “gli Invisibili” (perché alla maggior parte degli affiliati non è permesso vederli); oppure “la massoneria” (perché il direttorio opera secondo logiche affaristiche). Per la ’ndrangheta del processo Gotha, dunque, la massoneria è una metafora che non c’entra niente con massoni in carne, ossa e grembiulino. Soprattutto non c’entra niente con le obbedienze maggiori, con il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia d’Italia. Si vede dunque che la ’ndrangheta, come gran parte del resto della cittadinanza italiana, ha una visione della massoneria fondata su luoghi comuni: cioè, in base ad un vago ricordo della vicenda P2, pensa che "massoneria” sia sinonimo di “potere occulto”, di “rete di affari loschi”.

Tutto i massoni sono innocenti, dunque? Non credo. Tutti i processi contro la massoneria sono destinati a fare lo stesso buco nell’acqua? È questo il rischio se magistrati, poliziotti, giornalisti e cittadini non s’informano molto meglio sul misterioso oggetto “massoneria”. Se continuiamo tutti a parlare di massoneria senza distinguo, come se fosse un mondo unico uniformemente corrotto, e non invece una confusione di gruppi diversi, con intenti molto diversi, in mezzo ai quali è doveroso distinguere i soggetti cattivi dai tanti cittadini per bene.

Se persistiamo nella nostra ignoranza sul vero significato dei giuramenti massonici, e se continuiamo a trattarli come il segno di una specie di omertà per colletti bianchi, legittimando così una presunzione della colpevolezza collettiva. Se lasciamo andare senza commento le tantissime idiozie dietrologiche in circolazione, le quali attribuiscono ad oscure trame massoniche ogni evento storico, dalla Rivoluzione francese all’Unità d’Italia, dall’avvento al potere del fascismo, alla caduta di Mussolini, dal crollo dell’Unione Sovietica alle stragi di mafia del ’92. E se ci facciamo perdere nelle nebbie del sentito dire che da sempre si sollevano quando si parla di massoneria.

Il mondo massonico è un pezzo di società come gli altri. Come tale ha i suoi specifici punti di forza e di debolezza quando si tratta di affrontare il rischio mafia e/o malaffare. La storia della massoneria avrebbe molto da insegnarci su questi aspetti. Le logge in Italia oggi, come in moltissimi altri contesti, sono il prodotto di una storia particolare in cui l’affarismo è lontano dall’essere l’unico fattore in gioco.

È in Italia che troviamo la tradizione più profonda e duratura di miti complottistici, una tradizione che affonda le sue radici nell’ostilità teocratica della Chiesa cattolica nei confronti della Massoneria. In Italia la massoneria, fino alla sua messa al bando dal fascismo nel 1925, è più politicizzata che altrove. In Italia, nel dopoguerra, la Massoneria ha la specificità di dover sopravvivere in una società dominata da due forze politiche, la Dc e il Pci, tutte e due eredi di fortissime tradizioni di ostilità nei confronti delle logge. Sono questi le coordinate di base di un’altra specificità della storia italiana, la P2, una loggia dedicata all’affarismo e al sovversivismo di destra, che tanto ha fatto per insediare nella nostra memoria collettiva un’equivalenza semplicistica e fuorviante: P2 = massoneria. JOHN DICKIE 

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'8 maggio 2022.

Abiti blu della migliore borghesia e eminenza grigia della peggior politica, Eugenio Cefis è stato uno degli uomini di maggior potere, e meno appariscenti, degli anni '60 e '70 in Italia. È celeberrima la risposta che gli diede Enrico Cuccia quando Cefis, che a lungo aveva avuto la sua fiducia, gli annunciò obtorto collo le proprie dimissioni dalla Montedison: «Non mi aspettavo che accettasse, credevo che Lei avrebbe fatto il colpo di Stato». E forse avrebbe potuto. 

Influentissimo, ambiguo, misterioso. Di Eugenio Cefis, in fondo, è stato scritto molto di più di quanto realmente si sappia. Certo, fu personaggio di peso enorme: consigliere dell'AGIP, presidente dell'ENI dal '67 al '71 e poi della Montedison dal '71 al '77, Cavaliere di Gran Croce ma anche - si dice, e sono molti i «si dice» nella sua biografia - coinvolto, secondo alcune inchieste, nell'attentato a Enrico Mattei e nelle morti del giornalista Mauro de Mauro e di Pier Paolo Pasolini. E fino a qui nulla di nuovo. 

Le novità arrivano adesso, con la ripubblicazione di uno dei libri più misteriosi del nostro '900: L'uragano Cefis, scritto da un oscuro Fabrizio De Masi (è solo un nome de plume), stampato nel 1975, mai arrivato nelle librerie (sparì già in tipografia) e di cui si conserva una sola copia conosciuta, quella che nel marzo 2010 il senatore-bibliofilo Marcello Dell'Utri espose alla Mostra del libro antico di Milano (quando annunciò anche il ritrovamento di un capitolo perduto del romanzo Petrolio di Pasolini, intitolato «Lampi sull'Eni», che però subito dopo sparì). Comunque, da quel momento, apparso a sorpresa, L'uragano Cefis prese a circolare in fotocopia a mo' di samizdàt tra studiosi e complottisti. Come mai tanti segreti?

Perché il libro contiene informazioni esatte, dunque pericolose, sulla spudorata intraprendenza di Eugenio Cefis, uno dei più altolocati timonieri del management pubblico, eroe diabolico la cui vita è legata a filo doppio ai tanti misteri che hanno attraversato il Paese. Ricercato, citato, poco o nulla letto, ora L'uragano Cefis (che fa il paio con un altro titolo a lungo introvabile, Questo è Cefis, di un altrettanto fantomatico Giorgio Steimetz, apparso e subito sparito nel '72) è di pubblico dominio. Viene pubblicato dalla casa editrice Effigie di Giovanni Giovannetti il quale da dieci anni si dedica a ricerche su Cefis, il caso Mattei, i misteri d'Italia e Pasolini.

Ora, distinguiamo. Da una parte c'è quanto scrive l'enigmatico Fabrizio De Masi (pagato da qualcuno che vuole ricattare il suopermanager Cefis): pagine utili per ricostruire il brulicante arcipelago di società private che, per tramite di prestanome, fanno tutte capo all'«onorato presidente»: società immobiliari, petrolifere, finanziarie, del legno, della plastica, della pubblicità, ecc. affidate a suoi uomini di fiducia e che con Eni e poi Montedison sono a volte in affari altre volte in concorrenza, quando la mission personalissima di Cefis è privatizzare gli utili socializzando le perdite. 

E poi, dall'altra parte, c'è appunto tutto ciò che Giovannetti aggiunge per completezza di informazione in un breve testo introduttivo e soprattutto nella corposa postfazione intitolata «Anche questo è Cefis», cioè la parte che oggi interessa di più. 

Ed eccoci alle vere novità del libro. Uno: come nasce la potenza economica di Cefis.

In passato si è speculato su presunte fortune accumulate nei mesi in cui fu comandante partigiano; in realtà semplicemente Cefis dopo la guerra sposa Marcella Righi, ereditiera del cosiddetto «Prato buono» a Milano, un'area che negli anni '50 e '60 conosce un'espansione immobiliare pazzesca: fu lui, Cefis, a gestire il tesoro e ad accumulare attraverso vendite e investimenti un patrimonio che toccò l'incredibile cifra di cento miliardi delle vecchie lire.

Poi c'è il capitolo del Cefis ufficiale e partigiano, fra luci e ombre: è vero che fu tra i più importanti comandanti di area cattolica-monarchica e, proprio a partire da quegli anni, amico di Enrico Mattei, che poi affiancherà nell'attività di ristrutturazione dell'AGIP e quindi dell'ENI; ma è anche vero che nel '41 era stato sottotenente nella Slovenia occupata, teatro di efferatezze, deportazioni di civili, villaggi bruciati, fucilazione di «collaborazionisti»...

 Due: i rapporti con la politica. Nel libro Giovannetti tira fuori una vera chicca: una lettera inedita datata settembre 1962 in cui Aldo Moro, segretario della Dc, chiede a Enrico Mattei di «fare un passo indietro», cioè di rinunciare alla presidenza dell'Eni (il suo mandato era in scadenza nell'aprile '63); suggerimento rimasto inascoltato. Poco più di un mese dopo Mattei viene assassinato.

Tre: l'Italia dei Misteri.

Proprio nella morte di Mattei potrebbe aver avuto un ruolo attivo una misteriosa associazione - aristocratica, anticomunista e paneuropeista - chiamata «Cercle» (di cui nulla si è mai saputo in Italia) e che accoglieva la creme della destra politica e finanziaria europea, da Giulio Andreotti e il finanziere vaticano Carlo Pesenti al cancelliere Konrad Adenauer e Franz-Josef Strauss, lo spagnolo Alfredo Sanchez-Bella, ex ministro di Franco, il banchiere americano David Rockefeller, gli statisti francesi Jean Monnet, Robert Schuman, Antoine Pinay, Valery Giscard d'Estaing e il fondatore dell'Oas Jacques Soustelle, il tedesco Reinhard Gehlen, già capo dei Servizi segreti al tempo del nazismo.... Un buon numero di costoro rispondeva anche all'Opus Dei e all'Ordine sovrano dei Cavalieri di Malta.

Quattro: i legami con la P2. Secondo un informatore del Sismi, Samuele Turi, siamo nel 1983 - ma non ci sono altre prove a sostegno della "soffiata" - Eugenio Cefis, di certo massone, sarebbe stato il vero capo della loggia massonica P2. 

Infine, cinque, Cefis e la stampa. Il grand commis si infilò in tutti i grandi giornali. Aiuta Indro Montanelli tramite importanti contributi pubblicitari quando fonda il Giornale; e mette le mani soprattutto sul Corriere della Sera che dal '74 passa progressivamente sotto controllo piduista: formalmente, i proprietari (Crespi, Agnelli, Moratti) lo cedono al gruppo Rizzoli; in realtà i soldi li mette la Montedison presieduta da Cefis, garantendo un finanziamento senza interessi con una fidejussione ai Rizzoli della Montedison International Holding di Zurigo, assicurandosi - anche grazie a prestazioni pubblicitarie garantite per almeno 2 miliardi e mezzo l'anno una costante azione volta a sostenere l'attività industriale e commerciale del gruppo Montedison...

Sono gli anni in cui direttore del Corriere è Piero Ottone e il corsaro Pier Paolo Pasolini - in quel momento imbrattato di Petrolio e invischiato in molti misteri - attacca frontalmente la Dc e Andreotti (referente politico di Cefis dopo Fanfani, ormai in disgrazia) e scrive - in un articolo passato alla storia - «Darei l'intera Montedison per una lucciola...». Pochi mesi prima di venire ammazzato. Ma tutto ciò è solo letteratura. 

·        Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

Dagospia il 13 settembre 2022. “LA MASSONERIA INGLESE E' IN DECADENZA. È DESTINATA AD ALBERGARE IN UN MUSEO” – LE RIVELAZIONE DEL GRAN MAESTRO GIULIANO DE BERNARDO: “LA REGINA ELISABETTA? COME TUTTE LE DONNE NON POTEVA FAR PARTE DELLA MASSONERIA. ECCO PERCHE' IL RUOLO DI GRAN MAESTRO DELLA LOGGIA UNITA D'INGHILTERRA E' ANDATO AL DUCA DI KENT. IL RE CARLO SI E' RIFIUTATO DI PRENDERE IL RUOLO, MA I VERTICI INGLESI SPERANO CHE..."

Marco Antonellis per ilgiornaleditalia.it il 13 settembre 2022.

D. Professore, la morte della regina Elisabetta II potrà avere conseguenze sulla Massoneria inglese?

R. Indubbiamente, è l’occasione per riflettere sulla Massoneria e i suoi rapporti con la monarchia inglese, la quale non esclude le donne dall’ordine dinastico. Infatti, al trono d’Inghilterra sono ascese regine che hanno esercitato il potere esattamente come i re. La prima regina è stata Jane, pronipote di Enrico VII. Proclamata regina il 10 luglio 1553 fu deposta da Maria I nove giorni dopo.

Maria I, figlia di Enrico VIII, ha governato dal 1553 al 1558.

Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, è stata sul trono dal 1558 al 1603.

Maria II regnò congiuntamente con il marito Guglielmo III, dal 1689 al 1694.

Anna, figlia di Giacomo II, regnò dal 1707 al 1714.

Vittoria, nipote di Giorgio III, fu regina dal 1837 al 1901.

Elisabetta II, figlia di Giorgio VI, restò sul trono dal 1952 al 2022.

Alcune di queste regine hanno lasciato una traccia indelebile nella storia d’Inghilterra e di Europa. Maria I Tudor è stata regina d’Inghilterra e Irlanda dal 19 luglio 1553 alla morte (17 novembre 1558, Londra). È nota come “Maria la Cattolica” e “Maria la sanguinaria”, avendo fatto giustiziare almeno 300 oppositori religiosi. Maria I è ricordata soprattutto per il tentativo di restaurare il Cattolicesimo in Inghilterra dopo lo scisma del padre Enrico VIII.

La regina più famosa è stata Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, chiamata anche la “regina vergine”, ultima monarca della dinastia Tudor. Il suo lungo regno fu segnato da molti avvenimenti importanti. La sua politica di pieno sostegno alla Chiesa d’Inghilterra, dopo i tentativi di restaurazione cattolica da parte di Maria I, provocò forti tensioni religiose e diedero vita a congiure contro di lei. 

Uscì vittoriosa dalla guerra contro la Spagna, che le consentì di avviare le premesse per una futura potenza commerciale e marittima, che trovò attuazione nella colonizzazione dell’America settentrionale. La sua epoca, denominata “Età elisabettiana”, produsse anche un periodo di straordinaria fioritura artistica e culturale. Ma fu nella “filosofia occulta”, che segnò il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, che raggiunse il suo apice. Si tratta di un movimento quasi sconosciuto, anche se i suoi sostenitori sono molto noti.

Faccio riferimento, in particolare, a Marsilio Ficino e Pico della Mirandola in Italia, a Francis Bacon, John Dee e William Shakespeare in Inghilterra, al Albrecht Dürer e Johannes Reuchlin in Germania. È nel Rinascimento elisabettiano che la filosofia occulta europea si trasforma in “rosacrocianesimo” ed è proprio tale visione a ispirare la Confraternita dei Rosacroce in Germania agli inizi del XVII secolo (per approfondimenti su questi temi, si veda il mio volume “La Massoneria. Splendore e decadenza”, Amazon 2022). La regina Elisabetta I, anche per l’impulso dato alla filosofia occulta, sarà ricordata come uno dei più grandi sovrani d’Inghilterra.

Un’atra regina, che ha lasciato un’impronta importante, è Vittoria, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda dal 20 giugno 1837 e Imperatrice d’India dal 1876 fino alla sua morte. Il suo regno, durato 63 anni, è il secondo più lungo di tutta la storia britannica, superato solo da Elisabetta II. Il suo fu un periodo di sviluppo industriale, culturale, politico, scientifico e militare e fu segnato dall’espansione dell’Impero britannico. 

Arriviamo alla regina appena scomparsa, Elisabetta II. A differenza degli altri sovrani, è difficile tracciarne un profilo preciso. Il suo lungo regno, durato 70 anni, non è stato caratterizzato da eventi eclatanti. Si è trovata a svolgere il ruolo di regina, espressione più alta della Monarchia, in una società democratica e repubblicana. Lo ha svolto con grande realismo e saggezza.

Fatta questa premessa di ordine storico, riflettiamo sul ruolo svolto da Elisabetta II nei confronti della Massoneria inglese (la Gran Loggia Unita d’Inghilterra). La prima cosa che appare è una contraddizione circa il modo di considerare la donna. Nell’ordine dinastico, la donna ha esattamente gli stessi diritti dell’uomo. L’uomo o la donna possono assurgere al ruolo di regnante senza alcuna differenza. 

La donna è considerata esattamente alla stessa stregua dell’uomo. In Massoneria, viceversa, la donna non solo è subordinata all’uomo, ma ne è esclusa. Infatti, quando la Massoneria nasce modernamente a Londra il 24 giugno del 1717, alla donna non è consentito farne parte. Tale divieto, ribadito nelle Costituzioni massoniche del 1721 di James Anderson, è ancora vigente nella Massoneria inglese, ritenuta Gran Loggia Madre del mondo. Ciò significa che tutte le Massoneria esistite ed esistente riconosciute dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra, non possono ammettere le donne.

Io stesso, quando sono divenuto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, in seguito al riconoscimento inglese, ho dovuto escludere le donne. Ho continuato a farlo anche quando ho fondato la “Gran Loggia Regolare d’Italia”, dopo essermi dimesso dal Grande Oriente d’Italia. La regola da seguire, dalle origini del 1717 ai nostri giorni, se si aspira ad avere il riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, è quella di escludere le donne. 

Questa regola vale per la stessa Massoneria inglese e per tutte le Massonerie da essa riconosciute. Le donne saranno ammesse se, e solo se, lo delibererà la Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Un tentativo in tal senso è stato compiuto dal marchese Lord Northampton, nel periodo in cui ha svolto il ruolo di Pro-Gran Maestro (2001-2009), ma non ha ottenuto alcun successo.

D. Però, in molti paesi, le donne fanno parte della Massoneria.

R. È vero. Ciò non significa che non esistono Massonerie che ammettono le donne ma sono tutte al di fuori del mondo massonico governato dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. In molti paesi, vi è la proliferazione di Massonerie (Gran Logge o Grandi Orienti) cosiddette “miste”, proprio perché accettano uomini e donne. In Italia, ve ne sono molte tra cui primeggia la “Gran Loggia d’Italia”. Qual è il loro significato? In che rapporto sono con la Massoneria inglese?

La risposta a queste domande ci porta a indagare i concetti di “regolarità” e di “riconoscimento”. Una Gran Loggia è regolare se è stata riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Il Grande Oriente d’Italia, dopo che il Gran Maestro Costantino Nigra ne fece richiesta nel 1862, l’ha ottenuta nell’ agosto del 1972, esattamente 110 anni dopo. L’ha mantenuta fino al 1993, anno in cui l’ha persa (e mai più riavuta), dopo la mia fondazione della Gran Loggia Regolare d’Italia. Da allora ai nostri giorni, l’unica Gran Loggia riconosciuta in Italia dalla Massoneria inglese è quella da me fondata.

La Gran Loggia che riceve il riconoscimento inglese diventa “regolare” poiché presenta tutti i requisiti richiesti dalle Gran Logge d’Inghilterra, di Scozia e di Irlanda. Tra questi requisiti, vi è anche quello di escludere le donne. Da ciò segue che, in questo mondo massonico, le donne saranno ammesse se, e solo se, sarà stato deciso e deliberato dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Fino ad allora, le donne restano fuori. Le Gran Logge “miste”, dal punto di vista della Massoneria inglese, non sono Massoneria. 

D. La regina Elisabetta in che modo ha condizionato la Massoneria inglese?

R. Innanzi tutto, essendo donna, ha precluso la possibilità che il Gran Maestro potesse essere il re. Come conseguenza di ciò, è si è dovuto cercare all’interno dell’aristocrazia il nobile più vicino alla Corona. La scelta è caduta sul Duca di Kent (1935 -), che è Gran Maestro della Gran Loggia Unita d’Inghilterra da oltre 50 anni.

Nel 1992, quando partecipai a Londra alla celebrazione del 275° anno dalla fondazione della Gran Loggia di Londra del 1717, il Duca di Kent espresse il desiderio di essere sostituito nel rango di Gran Maestro, ma ancora oggi è seduto sul Trono di Re Salomone. La sua sostituzione non è ancora avvenuta perché i vertici inglesi sperano che, dopo il rifiuto categorico di Carlo (oggi Carlo III), uno dei suoi figli diventi Gran Maestro 

La Massoneria inglese, come tutte le altre Massonerie, mostra segni di decadenza. Il tempo in cui il Gran Segretario Michael Higham governava con rigore ed esigeva il più alto formalismo nell’applicazione delle Costituzioni e dei Regolamenti Generali, in Inghilterra e all’estero, appartiene ormai a un mondo morto e sepolto, anche se riguarda il tempo breve della mia Gran Maestranza nel Grande Oriente d’Italia (1990-1993).

Sono passati solo 30 anni. Oggi la Massoneria sta perdendo sempre di più la capacità, che le è stata propria per secoli, di guidare e innovare importanti regioni del pianeta Terra. Sembra che sia destinata ad albergare in un museo, dove potrà narrare la sua storia che è quella di una società di uomini che ha dato all’umanità una concezione della vita e dell’uomo che si ispira ai più alti valori morali (chi avesse interesse per ulteriori approfondimenti, può leggere “La mia vita in Massoneria”, Amazon 2021).

Ho elaborato e presentato questa concezione (che chiamerei più appropriatamente “antropologia”) nel mio già citato volume “La Massoneria. Splendore e decadenza”, in cui la Massoneria è presentata come un ideale, un dover essere, che trova un fondamento storico in documenti emanati dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra.

Dovrebbe esistere un rapporto biunivoco tra il piano ideale (l’antropologia) e il piano reale (attuazioni storiche dell’antropologia). Nel passato, soprattutto al tempo delle origini moderne, tale rapporto è esistito, soprattutto in Inghilterra, Scozia e Irlanda. Successivamente, lo scarto tra il piano ideale e il piano reale è andato sempre più aumentando fino ad arrivare alla perdita di ogni rapporto. Quando questo accade, la Massoneria non è più Massoneria.

L’antropologia massonica da me attuata vivrà finché vi sarà un solo uomo che crede in essa e lo fa assurgere come idealità per la sua condotta pratica. Anche quando non esistesse più quest’unico uomo, essa manterrebbe la sua validità perché le concezioni dell’uomo e della vita non sono falsificabili. Sono concezioni staccate e separate dalla realtà sociale. 

Potrebbero restare tali per tutto il tempo a venire, oppure nel futuro vi sarà un uomo (o più uomini) che la porteranno nel profondo della loro coscienza e la faranno rinascere come l’araba fenicia. È questa la mia speranza.

Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022

Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.

In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.

La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.

La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.

L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.

Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).

LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO

Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze: 

«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.

Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.

Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.

Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.

Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.

Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.

Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.

Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.

Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.

Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.

Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.

Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022

La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello

facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.

Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.

Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.

Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del

Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.

La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.

Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.

A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.

Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura. 

LA PISTA ELVETICA

Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.

È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.

E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).

Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.

Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.

 È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.

Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022

Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»

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Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.

Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.

Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros

È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi). 

E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.

Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.

E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).

LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI

Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.

Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».

Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».

In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nel portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.

Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».

[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».

In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.

E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.

E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».

E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Forza Italia non molla: «Ora “indaghiamo” su Mani Pulite». Il deputato azzurro Battilocchio invoca una Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, Gotor non ci sta: «Un’autoassoluzione collettiva». di Giovanni M. Jacobazzi Prado su Il Dubbio il 13 dicembre 2022.

«Dopo aver letto i libri dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara mi pare evidente che in questi anni ci sia stato nel nostro Paese un “uso politico” della giustizia», afferma il deputato di Forza Italia Alessandro Battilocchio. Il parlamentare azzurro, il mese scorso, ha presentato una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta “sugli effetti delle inchieste giudiziarie riguardanti la corruzione politica e amministrativa, svolte negli anni 1992 e 1993, sulla successiva evoluzione del sistema politico italiano”.

«Non ho vissuto il periodo di Tangentopoli (Battilocchio è nato nel 1977, ndr) ma ritengo che a trent’anni di distanza ci siano adesso tutte le condizioni per capire cosa sia successo», aggiunge il parlamentare che è anche coordinatore provinciale a Roma di Forza Italia. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul punto, la cui istituzione era stata proposta anche nella scorsa legislatura, oltre alla lettura delle carte processuali, dovrebbe interrogare i “protagonisti” dell’epoca e chiunque possa fornire utili contributi per far luce su una inchiesta giudiziaria che cambiò per sempre la storia del Paese. Battilocchio non lo dice, ma è evidente il riferimento al fatto che la Democrazia cristiana, il Partito socialista e i tre partiti laici (Pri, Pli e Psdi) furono travolti, mentre il Partito comunista fu solo sfiorato delle inchieste. La conseguenza di tale agire fu che il Pci, poi Pds, salvò per intero la sua classe dirigente.

L’incipit della proposta di legge riporta una intervista del settembre del 2017, durante una trasmissione televisiva, del pm Antonio Di Pietro. «Ho fatto una politica sulla paura e ne ho pagato le conseguenze. (…) La paura delle manette, la paura del, diciamo così, “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, bisogna rispettare anche le idee degli altri. (…) Ho fatto l’inchiesta Mani pulite e con l’inchiesta Mani pulite si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali», le parole dell’ex magistrato, poi eletto in Parlamento proprio nella fila del Pds

. «L’avere messo la “paura” al centro delle azioni che hanno guidato le dinamiche della stagione politica e giudiziaria dei primi anni novanta dello scorso secolo necessita un approfondimento per capire in che misura i risultati elettorali di quegli anni ne sono stati influenzati. La “paura delle manette”, a cui l’ex magistrato fa riferimento, potrebbe essere stato uno strumento di “politica giudiziaria” in mano alla magistratura», sottolinea allora Battilocchio che, comunque, non ha intenzione con la sua iniziativa legislativa di «cancellare i fatti emersi nell’ambito dell’inchiesta», limitandosi a voler fare «chiarezza sulle dichiarazioni di Di Pietro, in quanto per perseguire qualsiasi scopo, anche fosse il più nobile, fece ricorso alla “paura delle manette”».

Molto critico alla proposta di Battilocchio è Miguel Gotor, ex parlamentare dem ed ora assessore alla cultura del Comune di Roma. In un articolo ieri su Repubblica, Gotor afferma che Battilocchio sarebbe mosso da «intenzioni bellicose» con il ricorso ad un «armamentario nostalgico e reducista tipico di una certa tradizione socialista che ritiene Mani pulite il frutto di un golpe mediatico giudiziario». La commissione d’inchiesta avrebbe allora la funzione di «mera propaganda se non di disinformazione e intossicazione della pubblica opinione». Su un aspetto, però, Gotor concorda con Battilocchio, quello dell’uso (abuso) della carcerazione preventiva che venne fatto dai pm in quegli anni. Per il resto il mondo stava cambiando ed il finanziamento irregolare ai partiti non era più tollerato.

Nessun complotto, insomma. Gotor si lascia andare anche ad una considerazione sui trascorsi dell’attuale compagine di governo. Quando scoppiò Tangentopoli vi era chi usava il cappio (Luca Leoni Orsenigo delle Lega Nord, ndr) o chi, i giovani del Movimento sociale, accerchiava il Parlamento al grido di «arrendetevi siete circondati». E poi Silvio Berlusconi che nel 1994 sarebbe diventato presidente del Consiglio e che aveva appoggiato fin da subito l’operato del Pool di Milano con le indimenticabili dirette di Paolo Brosio. Per Gotor, dunque, il problema attuale è quella di una «autoassoluzione collettiva» da parte della classe politica che ha voluto rimuovere il passato nella migliore tradizione “gattopardesca”. L’Italia, aggiunge l’assessore romano, non ha bisogno di una commissione d’inchiesta su Tangentopoli ma di una «civica e culturale».

Gattopardi e nostalgici che vogliono riscrivere la storia di Tangentopoli. Miguel Gotor il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l'istituzione di qualsivoglia commissione d'inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni

Nelle ore in cui una presunta vicenda di corruzione si abbatte sul Parlamento europeo, un deputato di Forza Italia, Alessandro Battilocchio, chiede l'istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. A quanto pare non si tratta dell'iniziativa estemporanea di un singolo parlamentare, legato alla cultura politica socialista di derivazione craxiana e alla poco fortunata esperienza del Nuovo Psi, dal momento che il capogruppo di Forza Italia Alessandro Cattaneo avrebbe condiviso la proposta.

Forza Italia riapre lo scontro dopo 20 anni: “Commissione d’inchiesta su Mani Pulite”. Lorenzo De Cicco il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

Presentato un ddl in cui si cita un'intervista di Di Pietro: "Ho fatto una politica sulla paura delle manette"

Un'altra manina della maggioranza schiaccia sul tasto rewind. Forza Italia vuole una commissione d'inchiesta su Tangentopoli. Il nastro scorre veloce a vent'anni fa, allo scontro fra politica e magistratura. Cavallo di battaglia del berlusconismo rampante tra gli ultimi anni '90 e i primi 2000. Rieccoci. Dopo le picconate del Guardasigilli Carlo Nordio sulla separazione delle carriere, le intercettazioni "inutili", l'obbligatorietà dell'azione penale bollata come "intollerabile arbitrio", ecco un altro tassello del puzzle: la commissione parlamentare su Mani pulite.

La proposta di istituire una Commissione di inchiesta. Commissione di inchiesta su Tangentopoli: tra suicidi, abusi e diritti perché è giusto indagare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il  14 Dicembre 2022

Se mai aprirà le sue porte la Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, non ne varcheranno mai la soglia i testimoni più rilevanti dell’epoca, Severino Citaristi, Vincenzo Balzamo, Marcello Stefanini. I tre tesorieri dei principali partiti della Prima repubblica non ci sono più, e uno di loro, il socialista Balzamo, di Tangentopoli è addirittura morto, di crepacuore, con un infarto che l’ha annientato un mese dopo la prima informazione di garanzia per finanziamento illecito del partito.

Era il 2 novembre del 1992, si era ancora all’inizio. E, caduto il responsabile amministrativo del partito, tutto il vaso di pandora delle indagini si rovesciò direttamente sul segretario Bettino Craxi. Il quale non poteva non sapere, gli dissero i pubblici ministeri. E che subì la sorte peggiore, soprattutto nelle interessate vociferazioni di certa stampa e di un’opinione pubblica orientata. Forse anche perché gli mancò quel pungiball che porterà alla morte due anni dopo anche il tesoriere del Pds Stefanini, distrutto dalle inchieste giudiziarie e che immolerà per tutta la vita, fino al 2006, il democristiano Citaristi, uomo per bene morto nella semplicità di una vita sobria, inchiodato al ruolo insano di collettore di tangenti. Su cui si accaniranno, molti anni dopo, nella loro voglia continua di sangue, anche i voraci cultori della finta onestà, con la privazione di una parte del vitalizio.

Se coloro che, come l’assessore alla cultura del Comune di Roma del Pd Miguel Gotor, autore di un articolo sarcastico su Repubblica, ritengono che solo la propria categoria sia degna di mettere le mani sulla storia, vogliono provare a farlo con Tangentopoli, sanno da dove cominciare. Dalla riabilitazione di tre persone per bene. Ma non crediamo che ne siano capaci. Prima di tutto perché lo storico lascia intendere la stravagante convinzione che Forza Italia abbia presentato la proposta della Commissione per infierire sul Pd, su Panzeri e sull’inchiesta belga su presunti finanziamenti del Qatar. Nulla di più errato, visto che l’iniziativa era già stata presentata nella scorsa legislatura. E poi perché, forse sentendosi virtuoso per l’ammissione, si lascia andare a dire che «si può serenamente affermare che in quegli anni, in alcuni casi, si registrò un uso inquisitorio dello strumento e della carcerazione preventiva».

Un’affermazione gravissima perché lontana dalla realtà. Perché l’uso della custodia cautelare in carcere non fu una piccola degenerazione isolata di qualche pm eccessivo, ma lo strumento di vera tortura che portò a quarantun suicidi, oltre che alla distruzione di vite e carriere. Fu lo strumento che consentì di trasformare una “normale” inchiesta giudiziaria sul finanziamento illecito dei partiti e su alcuni casi di corruzione personale nella rivoluzione giudiziaria che ha mandato al potere toghe e divise. In questo senso un vero golpe. È inutile citare Sergio Moroni e la straziante lettera letta in aula alla Camera da un presidente Napolitano con la voce rotta. Pessima abitudine dello storico di stralciare un caso come fosse un unicum del panorama, quando invece proprio quel caso clamoroso è la spia di quel che è successo in generale. Come fatto politico e storico.

Il Pd, erede degli antenati Pci, Pds, Ds, proprio perché uscito quasi indenne dal “golpe” grazie all’alleanza strategica con i pubblici ministeri, dovrebbe evitare prima di tutto di mostrare paura di quella Commissione. Quella delle facce impietrite di Occhetto e D’Alema quando Bettino Craxi denunciò nell’aula di Montecitorio l’esistenza di bilanci falsi dei principali partiti. Facce impietrite e bocche ammutolite. E dovrebbe poi domandarsi, anche alla luce della propria “normalità” nel finire oggetto, o a volte preda, di una certa voracità giudiziaria che dal 1992 non è mai tramontata nonostante il terremoto che ha distrutto il Csm e la Procura di Milano, perché non ha colto l’occasione di fare propria una cultura riformatrice e costituzionale. Di fare della separazione tra i poteri la propria bandiera. Di esibire con orgoglio, quasi con spavalderia, la giustizia sociale anche come luogo dei diritti e delle garanzie, prime tra tutte, quella della libertà e del principio dell’habeas corpus.

Invece di scandalizzarsi se al fianco di uno stimato garantista come Nordio, sia nella difesa dei referendum sulla giustizia che nel suo programma di governo, ci siano gli uomini di Berlusconi e in parte anche quelli di Salvini e Meloni, si domandino le donne e gli uomini eredi di Berlinguer perché non ci sono loro. Perché prima si siano fatti tenere per mano dai pubblici ministeri e poi dai seguaci di Travaglio. Si diano una risposta decente, poi votino per la nascita della Commissione su tangentopoli, e ne rivendichino la Presidenza. Questa è la strada anche per affrontare momenti difficili come questo nato al Parlamento europeo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Dal centrosinistra a Tangentopoli. Ecco i “testimoni” di Ugo Intini…L’ex dirigente del Partito socialista racconta in un bel saggio l’ascesa e la morte della prima Repubblica. Francesco Damato su Il Dubbio il 13 novembre 2022.

Come gli è capitato di fare nel 2014 con una bella e orgogliosa storia del suo Avanti!, intrecciandola in 754 pagine con quella dell’Italia della Monarchia e della prima Repubblica, praticamente ghigliottinata dalla magistratura a mani cosiddette pulite, così Ugo Intini – che nel quotidiano socialista ha percorso tutta intera la carriera giornalistica, da redattore a direttore- ha fatto con i suoi Testimoni di un secolo, ancora fresco di stampa, edito da Baldini+Castoldi.

In 684 pagine scritte – come gli ha riconosciuto sul Sole- 24 Ore Sabino Cassese “in maniera avvincente, con verve e acume, grande attenzione per i particolari” ha ripercorso la storia del Novecento, non solo italiano, attraverso 48 protagonisti sistemati in una metaforica galleria di ritratti. Protagonisti – ha avvertito Cassese – “oltre a comprimari e l’autore del libro, auctor e agens”.

Del Psi del garofano guidato da Bettino Craxi all’insegna dell’autonomia e del riformismo Intini non è stato solo un dirigente, e portavoce del segretario, ma anche un ispiratore: per esempio, con il suo saggio, a quattro mani col compianto Enzo Bettiza, sulla compatibilità fra liberali e socialisti. Era il lib-lab.

Dal centro- sinistra col trattino degli anni sessanta, che si diede come segno distintivo i liberali sostituti al governo dai socialisti, si passò negli anni Ottanta, con Craxi in persona a Palazzo Chigi, al centrosinistra senza trattino – il famoso pentapartito – comprensivo dei liberali. Fu un’evoluzione pragmatica e ideologica al tempo stesso.

Vi confesso che la prima cosa che sono andato a cercare nella galleria dei ritratti del mio amico Ugo è stata la parte relativa alla tragedia di Tangentopoli gestita giudiziariamente, mediaticamente e politicamente in modo che diventasse una tragedia soprattutto socialista, pur essendo arcinota la diffusione generale del finanziamento illegale dei partiti, all’ombra di una legge a dir poco ipocrita sul loro finanziamento pubblico. Che stanziava a questo scopo meno della metà di quanto si sapeva che essi costassero.

Mi ha sorpreso, in verità, una certa comprensione di Intini verso Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale nel 1992, cioè all’alba già avanzata di Tangentopoli, grazie alla preferenza del Pds- ex Pci rispetto alla candidatura del laico Giovanni Spadolini, ma grazie anche, o ancor più, all’assenso dei socialisti.

Che fu motivato – ha spiegato Intini- dalla fiducia che Scalfaro da ministro dell’Interno di Craxi si era guadagnato tirando fuori dagli archivi del Viminale e dintorni un documento che confermava la convinzione dei socialisti, a cominciare dallo stesso Intini, che il nostro comune amico Walter Tobagi, del Corriere della Sera, fosse stato assassinato da aspiranti brigatisi rossi il 28 maggio 1980 per negligenza anche degli apparati di sicurezza della Repubblica. Ai quali era stato segnalato in tempo il progetto quanto meno di rapirlo.

Scalfaro che, consultando inusualmente nella crisi d’inizio della nuova legislatura anche il capo della Procura di Milano, rifiutò a Craxi il ritorno a Palazzo Chigi pur proposto dalla Dc di Arnaldo Forlani e dagli altri alleati, secondo Intini “ebbe certamente un ruolo nel salvare il salvabile” in quegli anni terribili.

Anche se poi, “almeno sul piano economico – ha aggiunto Intini– il merito è andato al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi”, mandato da Scalfaro a Palazzo Chigi nel 1993.

Ho storto il muso pensando a quanto quel rifiuto di Scalfaro di conferirgli l’incarico nel 1992 avesse indebolito Craxi nella caccia al “cinghialone”, come lo chiamava il magistrato simbolo dell’inchiesta Mani pulite: Antonio Di Pietro. Poi ho capito l’illusione procurata da Scalfaro a Intini con una difesa dei partiti espressa con queste parole “Demonizzarli, criminalizzarli è terribilmente pericoloso, poiché senza partiti non c’è democrazia”.

“Credevamo che questo fosse un argomento decisivo”, ha scritto Intini al plurale. “Ma ci sbagliavamo di grosso”, ha aggiunto, “perché non sapevamo che sarebbero arrivati i grillini a teorizzare la democrazia diretta, a individuare i parlamentari come il vertice della casta e a imporre a titolo punitivo e simbolico il taglio”. No, Ugo, prima ancora dei tagli grillini al Parlamento abbiamo avuto in Italia la demonizzazione dei partiti temuta sì da Scalfaro ma da lui non contrastata, o non contrasta a sufficienza.

I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022

Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.

Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.

Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).

Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato. 

Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».

IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA

In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.

Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.

In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).

Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.

E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,

Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Giustizia fanta-horror. Il reato di lesa maestà di Mani Pulite e la libertà di parola di chi non è magistrato. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022

Tre ex pm si sono offesi per un articolo di giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Tangentopoli, ma in passato uno di loro non si è fatto problemi con i parlamentari della Bicamerale

È passato quasi un quarto di secolo, ma molti ancora ricordano l’intervista di Gherardo Colombo a Giuseppe d’Avanzo sul Corriere della Sera del 22 febbraio 1998, in cui il pm della procura milanese fece esplodere una vera e propria bomba sotto il tavolo della Commissione Bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D’Alema.

La tesi sostenuta da Colombo era che la riforma della Repubblica, cui la Commissione stava mettendo mano, fosse figlia della “società del ricatto” che univa in un patto occulto forze politiche e organizzazioni criminali e dunque che il tentativo di riscrivere la seconda parte della Costituzione, facendo una serie di riforme in materia di giustizia, rispondesse alla necessità di quella “società” di occultare gli scheletri del passato. «La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto». 

A D’Avanzo, che gli chiese esplicitamente se intendesse la Bicamerale come «la strada obbligata per chi, partecipe degli illeciti di ieri, oggi è obbligato a scegliere l’accordo», Colombo rispose in modo molto sincero: «È detto in modo un po’ brutale, ma è quel che penso. Ecco perché, a mio avviso, la Bicamerale deve anche affrontare la questione della giustizia».

Non ricordo tutto questo per discutere se abbia qualche pregio o fondatezza storica la tesi di Colombo sul filo rosso criminale che legava la mediazione della mafia per facilitare lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943, la trattativa con la camorra per la liberazione di Ciro Cirillo, i fondi neri dell’Iri e la P2 alla proposta di separazione delle carriere dei magistrati inutilmente negoziata nella Bicamerale D’Alema. La cosa che mi interessa rilevare è che questi addebiti oggettivamente pesantissimi non solo rispetto al sistema dei partiti, ma soprattutto rispetto ai membri della Bicamerale chiamati ad attuare, per così dire, l’estorsione criminale trasfigurandola e sigillandola in innovazione costituzionale, fossero da Colombo presentati come un fattivo contributo alla discussione: «Le mie considerazioni non vogliono (come è ovvio) e non potrebbero (come è giusto) condizionare il lavoro del Parlamento nella riscrittura della seconda parte della Costituzione. Le mie sono soltanto osservazioni di carattere generale sul tema della giustizia e dei modi di amministrarla».

Malgrado le polemiche politiche, gli imbarazzati distinguo dell’Associazione nazionale magistrati e l’avvio di un’azione disciplinare, da cui Colombo uscì prosciolto, sul presupposto che si trattasse di opinioni compatibili con il suo ufficio di magistrato, la cosa che ai nostri fini importa è che Colombo non fu mai processato né condannato per avere calunniato o diffamato i parlamentari della Bicamerale, né i vertici politici impegnati a trovare un accordo dettato dalla “società del ricatto”.

Allora perché Colombo, insieme a due ex colleghi del pool milanese, Davigo e Ramondini, si è sentito personalmente diffamato da un articolo di Iuri Maria Prado su Il Riformista che descrive l’epopea di Mani Pulite, a partire dalla stessa denominazione, come una pagina di «terrore giudiziario… civilmente osceno e democraticamente blasfemo» e dichiara che la «cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava furono e rimangono la vergogna della Repubblica», e che «svergognata» è la magistratura «che ne rivendica la paternità»? Un giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Mani Pulite è più penalmente sensibile di un giudizio escatologico sulla trappola criminale che imprigionava la Bicamerale?

Dopo la querela presentata dai tre (due ex) magistrati, la Procura di Brescia, territorialmente competente, aveva chiesto l’archiviazione per Prado, sulla base del pacifico presupposto che il diffamato non è chi si senta offeso, in quanto parte di una categoria o di un gruppo sociale, dalle parole di qualcuno, ma quello cui la presunta offesa sia personalmente e inequivocabilmente rivolta. Insomma, Prado, chiamando in causa in quei termini l’esperienza di Mani Pulite non ha diffamato i membri del pool più di quanto Colombo un quarto di secolo fa avesse diffamato i membri della Commissione Bicamerale o i segretari e i dirigenti dei partiti del tempo, dicendo che la riforma costituzionale in preparazione era figlia di un ricatto criminale. Con una differenza rilevante: che Prado, diversamente da Colombo, non si è mai riferito a questo o quello specifico atto di ufficio di questo o quel magistrato, ma al clima e alla cultura del tempo e ai pubblici atteggiamenti di chi, fuori e dentro la magistratura, vi operava.

Il Gip di Brescia, contro la richiesta del pm, ha invece disposto l’imputazione coatta di Prado ritenendo che il combinato disposto della dicitura “Mani pulite” contenuta nel titolo (non scelto dall’autore) e nel testo dell’articolo, il riferimento al «manipolo meneghino di pubblici ministeri» e un’immagine di repertorio usata dal giornale a corredo dell’articolo (non scelta dall’autore), relativa a uno dei tre querelanti, cioè Colombo (l’unico citato per nome da Prado come «ottima persona»), permettano «in termini di ragionevole certezza di individuare in modo inequivoco i destinatari delle affermazioni diffamatorie negli odierni querelanti». In modo inequivoco, eh! 

Il Gip inoltre qualifica come in sé diffamatorio il riferimento a una «eversione giudiziaria organizzata» (anch’esso si suppone inequivocabilmente riservato ai tre querelanti) interpretando il termine “eversione” in un senso tecnico-criminale, e non nello stesso senso figurato e iperbolico per cui è consentito da decenni agli esimi rappresentanti della magistratura italiana – querelanti compresi – di qualificare come eversive o direttamente piduiste alcune proposte di riforma della giustizia, partendo – visto che tutto torna? – dalla separazione delle carriere di magistrati. 

Peraltro, per chi avrà la pazienza di leggerlo, risulterà chiaro che nell’articolo di Prado l’eversione contestata alla cultura di Mani Pulite riguarda soprattutto la proiezione extra-giudiziaria dei magistrati militanti e televisivi e la loro sinistra postura da soprastanti del potere politico-legislativo e da Consiglio dei Guardiani della morale della Repubblica.

L’articolo di Prado parla insomma di una temperie storica isterizzata e fanatizzata, di uno spirito pubblico avvelenato, di una cultura del chiedere e del fare giustizia che ha, a parere dell’autore e pure modestamente dello scrivente, irrimediabilmente corrotto la nozione e pervertito il funzionamento del sistema penale. 

Non addita le responsabilità di nessuno, ma chiama in causa quelle di tutti (non dei soli magistrati), in quella gigantesca autobiografia nazionale che si iniziò a scrivere nei corridoi delle procure, dilagò nelle piazze delle monetine contro il delinquente del Raphael che doveva marcire nelle patrie galere e infine giunse, con il maiosmo politico-giudiziario del Movimento 5 stelle, ad accomodare i peggiori e ultimi epigoni della retorica manipulitista ai vertici dello Stato. 

Prado scrive di tutto questo nello stesso modo risentito e scandalizzato con cui il “diffamato” Colombo un quarto di secolo prima faceva requisitorie in prima pagina, senza paura di scandalizzare e di diffamare (e senza timore di querele, ipotizziamo), sull’Italia della Bicamerale.

Il processo che si chiede contro Prado ha quindi molteplici profili di interesse e altrettanti di allarme. Sarà interessante verificare se per il giudice di Brescia la libertà di parola, di iperbole e di metafora dei non magistrati sia almeno pari a quello dei magistrati e se la diffamazione “categoriale” valga solo per questi ultimi o magari anche per i politici o per i giornalisti o (Prado non è né un politico, né un giornalista) per i cittadini civilmente impegnati, così da aprire nuove e funeste pagine di giurisdizione fanta-horror. 

Ma questo processo sarà anche interessante per capire se quelle cartelline “per una serena vecchiaia”, in cui Davigo dice di collezionare le querele e le richieste di risarcimento per le diffamazioni a mezzo stampa, interesseranno anche quella parte dell’informazione italiana che le querele da Davigo proprio non le rischia, ma farebbe bene comunque a preoccuparsene. Infatti a funzionare come “querele bavaglio”, con un effetto, neppure con un proposito, intimidatorio, non sono solo le querele minacciate dai politici – si pensi al notissimo e recentissimo caso del Ministro Crosetto – ma, da parecchi anni, anche quelle largamente dispensate dai magistrati a chiunque metta in dubbio la maestà delle loro persone o addirittura, come in questo caso, del fenomeno storico-politico di Mani Pulite.

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 27 luglio 2022.

“Vuoi pure queste, Bettino, vuoi pure queste…” Era il 30 aprile del Novantatré, l’Italia sull’orlo del precipizio, e Craxi, il capro espiatorio di ogni male italicus. Quella sera, quando il corpo imponente di Bettino lasciò l’hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, nel cielo già terso e primaverile della Capitale, il grido dei manifestanti divenne feroce. 

Avevo 13 anni, e a cena il nonno, vedendo le immagini mandate in onda da mamma Rai, non la smetteva di dire: ma che sta succedendo a Roma? Capivo nulla di politica, ma quelle urla, quelle monete sonanti che volavano sulla testa e sul corpo del gran capo socialista, mi rimasero impresse. Anche dalla provincia povera e, per certi versi, ignorante e retrograda, si capiva che la slavina stava prendendo forza e velocità e che avrebbe travolto la vecchia politica e tutti i mammasantissima del Palazzo.

A distanza di quasi trent’anni, sembra tutto sbiadito, per certi versi evaporato. La storia ha preso il sopravvento sulla cronaca. I politici della Prima Repubblica morti e sepolti e dimenticati. I partiti? Liquefatti. Le sezioni? Chiuse per sempre. 

In un Paese che non ha mai amato coltivare il vizio del ricordo, qualcuno, però, ancora si ostina a lucidare la recente storia patria… 

E così, in un sabato torrido, decido di lasciare la canicola e la sporcizia romane, per salire dalle parti di Orbetello, e raggiungere il buen ritiro di Stefania Craxi, la vera combattente della famiglia. 

A pochi metri dalla sua dimora, la sinistra borghese e noiosa, quella che si dà di gomito nei premi letterari e nelle stanze del potere capitolino, è sdraiata all’Ultima Spiaggia di Capalbio. 

La chiacchierata comincia quasi con una colazione e finisce a pranzo. 

Stefania Craxi non ha il viso pacifico, e pacificato, anzi. Quando i ricordi, ineluttabili, salgono su, fin negli anfratti più resistenti e respingenti della memoria, si rabbuia. I segni del dolore e della rabbia sono palmari, nonostante il sorriso contagioso. 

Con Tangentopoli – o la “falsa rivoluzione”, come l’ha più volte definita – Stefania Craxi non ha smesso di fare i conti, anzi. Appena può, prova a richiamare tutti alle loro responsabilità; appena può, rispolvera e riapre il vaso di Pandora, con i tradimenti, le colpe, le dimenticanze, le prese di distanze, di tutti, o quasi: socialisti, comunisti, democristiani, giudici e giornalisti…

Ripensando al suo j’accuse, una domanda, nei giorni successivi, mi ha accompagnato: riuscirà la Storia, una volte per tutte, e senza gli occhiali della ideologia, a chiarirci chi è stato veramente Bettino Craxi, e cosa ha rappresentato per il nostro Paese…? 

Stefania, cominciamo subito questa intervista con il botto: dov’era la sera del 30 aprile 1993, quando suo padre Bettino fu subissato di monetine dinanzi all’hotel Raphael?

Purtroppo non ero con lui, non mi trovavo a Roma, ma quella sera me la ricordo perfettamente. Ero a letto, a casa, perché incinta della mia terza figlia; una gravidanza che mi stava dando non pochi problemi. In serata, all’ora di cena, accendo la tivù e leggo sul Televideo di questo episodio assurdo, barbaro, un’aggressione squadrista, come l’avrebbe definita lui stesso.

A Giuliano Ferrara, che lo intervista poco dopo, in quello stesso pomeriggio, nel suo programma L’Istruttoria, e che gli chiede se ha avuto paura, Craxi risponde che no, non ha avuto paura, che ha provato solo vergogna per loro. 

E nonostante il suggerimento degli uomini della sicurezza, che lo invitano a uscire dal retro, Craxi decide di varcare il portone principale del Raphael, si infila in macchina, alza lo sguardo fiero. Alle 10 della sera, riesco finalmente a sentirlo; mi trova scossa, turbata, in lacrime. Stefania, mi dice, ricordati che una Craxi non piange. Il suo messaggio era chiaro: sei nata in una famiglia politica, quella politica che ha a che fare con la vita e con la morte, devi saper affrontare i momenti difficili che verranno.

Che emozioni provò? 

Rabbia, impotenza, un senso di ingiustizia, rammarico, forse, per non essere stata lì con lui. 

Che bambina era? 

Una bambina che ha amato trascorrere tanto tempo con suo padre… 

Addirittura. 

Da bambina, capii una cosa importantissima: se volevo relazionarmi con lui, dovevo imparare, e in fretta, il linguaggio della politica. Per questo amavo ascoltarlo tantissimo. Il fine settimana, quando tornava da Roma, io non uscivo con i miei amici fino a quando non capivo che mio padre non mi avrebbe portato con sé. Sentivo il respiro della Storia. Ma ricordo anche momenti intimi, per esempio, quando prendevamo la metropolitana e andavamo a San Siro, a vedere le corse dei cavalli. 

Perché suo padre scelse di vivere in un albergo? 

Non lo considerava un albergo: era di proprietà di uno dei suoi più cari amici, Spartaco Vannoni, personaggio straordinario e uomo coltissimo. Era stato in passato una spia della Stasi, poi divenne anticomunista. Mio padre ha sempre ritenuto Roma una città provvisoria, di passaggio, per la sua vita. E anch’io, in realtà, quando scendevo a Roma, consideravo il Raphael una seconda casa.

Quando le capita di passargli vicino, cosa prova? 

Faccio fatica a spingermi fino a largo Febo, i ricordi e le emozioni si rincorrono velocemente, sono ancora molto forti. Oggi, poi, essendo stato ristrutturato, la stanza di papà non c’è più. Una volta, ricordo, ebbi uno scontro con Filippo Ceccarelli, il quale, dalle colonne di Repubblica, scrisse che la camera di mio padre fosse lussuosa. Ma era vero l’esatto contrario. Possibile, gli dissi, che a nessuno dei giornalisti di Repubblica sia mai venuto in mente di intervistare Craxi nella sua camera? Solo Giampaolo Pansa, dalle pagine di Libero, rispose dandomi ragione.

Ha mai provato a mettersi nei panni e nella testa di quelli che lanciarono le monetine? Non erano mica tutti facinorosi e pazzi…  Lei, giustamente, pensava alle sorti di Bettino, loro, invece, al bottino e alle mazzette che, ogni giorno, spuntavano fuori. 

La campagna mediatica fu violenta, mistificatoria, denigratoria, e non stento a credere che le persone comuni possano avere creduto in toto a quello che leggevano sui giornali. Una cosa, però, ancora me la chiedo: perché da destra mi hanno chiesto scusa, e da sinistra ancora no? I leader della sinistra dovrebbero porsi una domanda: come mai l’elettorato socialista è confluito tutto nel centro-destra? 

Lo faranno, secondo lei? 

Finché c’è vita, c’è speranza… 

Che fine ha fatto il tesoro del partito socialista? L’ha mai chiesto a suo padre? 

Mio padre non si occupava della gestione amministrativa del Psi. In quel periodo ce n’erano tanti, di conti; e ogni corrente poteva disporre di denaro; qualcuno, probabilmente, sarà sparito, altri, invece, riposano in qualche banca, chissà. 

È stato un grave errore quello di aver lasciato fare… Un segretario di partito non può lasciare che fiumi di denaro scorrano senza lasciare tracce, senza controllo. È d’accordo?

Le rispondo con le parole che Bettino Craxi consegnò a Sergio Zavoli, che lo andò a intervistare ad Hammamet: ''Io, probabilmente, ho sopravvalutato il mio ruolo, la mia personalità, la mia capacità di tenere in mano, saldamente, le cose…C’erano circostanze di cui avevo perso completamente il controllo…Erano situazioni che andavano degenerando, a volte infracidendo''.  

Martelli ha dichiarato pubblicamente di aver restituito la bellezza di 550 milioni di lire, e suo padre, invece, no…

Perché non è stato chiesto ai prefetti di Milano, che non potevano non saperlo, qual era il tenore di vita di Craxi e dei suoi familiari? Mia madre, con il marito presidente del Consiglio, andava in Corso Vercelli a fare la spesa in tram. Mio padre non possedeva tutti quei soldi. Cosa avrebbe dovuto restituire? Tutti sapevano che Craxi aveva uno stile di vita per nulla sfarzoso e, del resto, sarebbe bastato chiederlo agli uomini della sua scorta, che gli stavano accanto 24 ore su 24. 

Perché non ha mai sopportato Martelli? Eppure era la punta di diamante del partito… Era invidiosa della sua brillantezza, intelligenza, dell’ascendente che aveva su suo padre?

Stimo Martelli per la sua intelligenza e per la capacità di analisi politica che ancora oggi farebbe bene a questo Paese. Ma a Claudio ho sempre detto, guardandolo negli occhi, che ha commesso un grandissimo errore, umano prima ancora che politico, ad abbandonare il segretario nel momento peggiore, quando il Psi stava fronteggiando l’avanzata di truppe assedianti, quelle giudiziarie e quelle mediatiche in primo luogo. 

Una volta ha detto: senza mio padre, Amato sarebbe ancora un professore universitario. Che cosa le ha fatto il dottor Sottile? Lo reputa vigliacco, fariseo, arrivista? 

Giuliano Amato è un uomo di grande esperienza, non gli mancano né le qualità e neppure l’intelligenza. E infatti è stato uno degli uomini più vicini a Craxi, suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché fra i massimi dirigenti del partito, commissario del Psi a Torino o a Milano quando scoppiava qualche grana. Dopodiché pongo una domanda: come mai il vice di Craxi viene periodicamente indicato come potenziale candidato alla presidenza della Repubblica, mentre mio padre dovette seguire la via dell’esilio? O sono manigoldi entrambi o entrambe sono delle brave persone… 

E De Michelis? 

Gianni è stato un politico di grande statura, un uomo di profondo spessore culturale, capace di anticipare con le sue analisi alcune delle dinamiche geopolitiche che avremmo vissuto negli anni successivi. E fu una persona vera; quando mio padre morì, le sue lacrime furono vere… 

Quante lacrime di coccodrillo ha visto cadere alla morte di Craxi? 

Tante, tantissime… 

Ci faccia qualche nome. 

Beh, tutti quelli che, per esempio, non sono mai venuti ad Hammamet. 

Chi erano le troie di regime, per dirla con De André, che affollavano le cene e i congressi? Se le ricorda? 

I congressi, e poi l’Assemblea Nazionale del Psi, rappresentano il primo tentativo di aprirsi alla società civile, parola, oggi, tanto abusata. Le ricordo alcune delle figure presenti: Strehler, Francesco Rosi, Portoghesi, Treu, Pera, Veronesi, Gassman. Ci sono stati i nani e le ballerine? Ma sicuramente… Vogliamo definire Sandra Milo una ballerina? Facciamolo pure, ma è stata una grandissima attrice! E Lina Wertmuller? Vuole che continui…? 

Chi sono stati, invece, politicamente parlando, i nani socialisti? 

Il socialista più nano sapeva suonare il violino con la punta dei piedi, altroché! La classe dirigente socialista, senza dimenticare quella locale, era composta da gente di prim’ordine… 

Come reagì, sua madre, quando si venne a sapere che suo padre aveva un’amante? 

A mio padre le donne piacevano, e lui piaceva loro, perché è sempre stato un uomo di grande fascino e carisma… Mamma, quando seppe delle fughe amorose di mio padre, ha messo in campo una capacità di comprensione e perdono che ancora le invidio. 

Pensò di mollarlo? 

Assolutamente no! E men che meno lui. Era facile sedurlo, difficile tenerlo. Ci è riuscita solo mia madre. 

E lei, invece?

Ero gelosissima; appena potevo, cercavo di fargli terra bruciata, confondendo, a dire il vero, un po’ i ruoli. Una volta, ora che ci penso, strappai un orecchino a una sua fiamma… 

Quali sono state, secondo lei, le colpe che suo padre ha commesso? 

Pensare che i comunisti potessero cambiare; e dare fiducia a uomini che non la meritavano affatto… 

Tipo?

Fare sempre i nomi non è gradevole. Sa, lui aveva una giustificazione per tutto. Quando qualcuno sbagliava, o lo tradiva, diceva sempre: poverino. Aveva sempre un atteggiamento giustificatorio verso le debolezze umane. Una volta, me lo ricordo come fosse ora, arrivò un caporedattore dell’Avanti, tutto trafelato e contento, e gli disse: 

Bettino, ho scoperto che alcuni giornalisti dell’Avanti sono a libro paga del Kgb. Mio padre, senza scomporsi, gli rispose: questo ha una brutta malattia, quest’altro ha un mutuo sulle spalle, quest’altro ancora ha quattro figli da mantenere… Cambierà la storia del mondo se li metto da parte? Lasciamoli stare… Ogni tanto, ho provato a fargli cambiare idea, ma lui niente: mi diceva che ero una bacchettona… Il tempo, però, mi ha dato ragione.

Come venne a sapere che suo padre si sarebbe dato alla latitanza? Ne era a conoscenza? 

Mio padre non si è dato alla latitanza… 

Ma come, uno che scappa, come la vuole chiamare…? Viaggio Alpitour? 

Mio padre è andato in Tunisia, a casa sua, con il suo passaporto… 

Tecnicamente, e non solo, si chiama latitanza… 

I giudici, tecnicamente, hanno commesso un abuso; avrebbero potuto emettere un provvedimento di rimpatrio, perché non l’hanno fatto? Tornando alla sua domanda, lui non mi disse che sarebbe andato ad Hammamet, ma io sentivo che avrebbe lasciato l’Italia. 

Temeva le patrie galere, Bettino…? 

No, non ha inteso sottomettersi a una giustizia politica, farsi umiliare da chi lo voleva vedere in ginocchio. Tanti politici, soprattutto quelli che si sono smarcati, farebbero bene a rileggersi quel famoso discorso che mio padre fece alla Camera, il 3 luglio del 1992, in occasione del dibattito sul voto di fiducia al governo Amato, che, lo voglio ricordare, non era per niente una chiamata in correità, bensì il tentativo di affrontare con gli strumenti della politica la crisi della Repubblica. Quell’invocazione si disperde nel silenzio dell’Aula, più eloquente di ogni parola, denso di verità, come avrebbe commentato lo stesso Craxi.   

Non pensa che, come fece anche Andreotti, che santo di certo non era, avrebbe fatto meglio a difendersi nelle aule giudiziarie? 

Ma cosa vuol dire, per lei, essere un santo? Lei lo è?

No, per niente, ma io non sono un politico…

Andreotti è stato un grande politico della Prima Repubblica, ma, a differenza di Craxi, aveva lo scudo da senatore a vita, oltre che l’ombrello protettivo del Vaticano. 

Quali giudici del Pool ha apprezzato? Non erano perfetti, ma, di certo, ispiravano fiducia… 

Se quei giudici avessero fatto un’opera di vera pulizia e giustizia, senza scopi politici, li avrei di certo apprezzati. Lei mi può dire perché quasi tutti hanno fatto politica? Di Pietro, Colombo, D’Ambrosio…Non dimenticherò mai quella lettera di Borrelli, scritta in un orrendo burocratese, indirizzata a don Verzé e agli avvocati, in cui praticamente vietava a mio padre di curarsi in Italia. Solo D’Ambrosio, eletto nelle file dei Ds, ammise, anni dopo, in un’intervista rilasciata al Foglio, che la molla di Craxi era la politica, non l’arricchimento personale, che Craxi per sé non aveva mai intascato una lira. 

Come mai, se se lo è mai chiesto, il Pci di allora fu, soprattutto nei suoi nomi grossi, salvato? Erano meno corrotti degli altri? Cosa le disse suo padre, a tal proposito?

Lei fa confusione tra i casi di corruzione che, disse Craxi in Parlamento, come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati, e il finanziamento illegale ai partiti. Perché, quando nel 1989 ci fu l’amnistia, votata anche dal Pci, nessuno osa aprire bocca? Lei pensa davvero che le tangenti in Italia siano girate solo nel biennio 1992-1994? Oggi pensa davvero che la corruzione sia diminuita…? 

Le rifaccio la domanda: perché il Pci, secondo lei, è stato “salvato”? 

Perché un partito di sistema serviva per mettere in atto la falsa rivoluzione. Da dove passava gran parte del finanziamento illegale comunista, se non dall’import-export delle Coop; e ancora, che fine ha fatto il famoso miliardo di cui parla Gardini, portato a Botteghe Oscure? E l’enorme flusso finanziario proveniente dall’Urss, una potenza militare nemica dell’Italia? Ci siamo dimenticati di tutto questo? 

“La politica è sangue e merda”, disse Formica. Perché lei, nonostante le sofferenze provate e la capitolazione invereconda di suo padre, ha deciso comunque di fare politica? Ostinazione, vanità, follia?

Vengo da una famiglia politica, per noi la politica è come l’acqua dove nuotano i pesci, non potevo di certo tirami indietro. Poi volevo, dopo quello che era successo a Craxi e al Partito socialista, provare a fare un’opera di verità e restituire a quella storia socialista il posto giusto che merita. Da questo punto di vista, l’essere stata eletta presidente della Commissione Esteri al Senato ha rappresentato una piccola rivincita della storia.

Non ha mai avuto paura nel fare politica? 

Se vuoi fare politica, la paura non può esistere nel tuo vocabolario. 

Tra le tante, cosa non amava di suo padre? L’arroganza, l’attaccamento al potere, la freddezza, la scarsa empatia… 

Mio padre non era né arrogante né attaccato al potere. Il suo difetto più grande? Che era gelosissimo… 

C’è un ricordo che non le dà pace, di quando suo padre era ad Hammamet? 

Più che un ricordo, forse il rimpianto di non avere fatto abbastanza per la sua vita, soprattutto quando stava male. Forse sono stata inadeguata… 

Quante volte ha messo in dubbio l’onestà e trasparenza di Bettino, soprattutto nei momenti in cui fioccavano le inchieste?

Mai! 

Quali sono i politici della Seconda Repubblica che disprezza e perché? Le faccio dei nomi: Rutelli, Fassino, D’Alema, Veltroni… 

Intanto, la parola disprezzo non appartiene al mio vocabolario. Direi disistima. A Rutelli ho dato del grandissimo stronzo. Fui querelata. Sono passati vent’anni, col tempo le arrabbiature passano e, di recente, ci siamo anche riparlati.

Ricordo che una volta, dopo che fui condannata a pagare una multa di cinquantamila lire per l’epiteto che gli rivolsi, mio padre commentò sarcastico che, “grazie a mia figlia, tutti adesso sanno quanto costa dare dello stronzo al sindaco di Roma”. 

Fassino, pur essendo stato un giustizialista feroce, ha provato, a differenza di altri, a fare un po’ i conti con la storia di Tangentopoli. D’Alema, che ci faceva la morale tutti i giorni, in quanto ad affari, non penso debba insegnare nulla a nessuno. Veltroni, invece, ogni tanto prova a raccontare sulle pagine del Corriere la storia a modo suo. Ma nessuno ha ancora fatto davvero i conti con Craxi. 

Come mai, secondo lei, tanti socialisti, crollato il partito, sono finiti nelle mani di Berlusconi, che con il socialismo non c’entrava proprio? 

Anche per reazione a quello che era successo. Una domanda che molti dovrebbero porsi! Forza Italia ha rappresentato l’approdo naturale per sanare la ferita che era stata inferta alla comunità socialista. O lei pensa che fosse possibile muoversi nell’alveo di Botteghe Oscure, dove avrebbe continuato a dominare l’antisocialismo viscerale?

Lei si sente più una socialista o una capitalista, visto il lavoro da imprenditore fatto per anni? 

Io mi definisco una socialista craxiana. 

Perché suo padre volle aiutare un parvenu come Berlusconi con quel famoso decreto? Re Silvio finanziava il partito? 

No, Berlusconi non ha mai finanziato il partito e, soprattutto, non ha mai fatto parte dell’establishment del Paese. Mio padre lo ha aiutato molto perché le televisioni commerciali rompevano il monopolio della Rai. Fu quella una battaglia di libertà, per il progresso dell’Italia. 

Perché suo padre detestava i giornalisti? Eppure, nei suoi anni d’oro, c’era la fila per leccargli i piedi… 

Non è vero che li detestava, anzi; con alcuni aveva anche ottimi rapporti personali… 

Giulio Anselmi mi ha raccontato di una telefonata furibonda di suo padre con annessa minaccia di fargli perdere il posto… 

Credo che non si apprezzassero a vicenda. L’atteggiamento di Anselmi nei confronti di mio padre fu a dir poco scandaloso, ma comunque Craxi non ha mai fatto cacciare nessuno. 

E perché? Scandaloso perché indipendente? Anselmi è stato uno dei pochi direttori veramente liberi…

La campagna di informazione fatta da Anselmi e da tanti altri fu denigratoria. Lei forse l’ha dimenticato, ma mi vengono in mente alcune prime pagine, con le pubblicazioni di conversazioni private tra me e mio padre. Un grafico importante, tale Muzi Falcone, colui che inventò il simbolo della Quercia, mandò una lettera ai giornali in cui affermava che la sottoscritta fosse ricoverata in una casa di disintossicazione… 

Faceva uso di cocaina, o era schiava della bottiglia?

Ma no! Avevano messo in giro questa voce solo per gettarmi del fango addosso. 

A proposito di grandi direttori: cosa pensa di Scalfari? 

Penso che, da un punto di vista politico, non ne abbia azzeccata una! 

Perché tra Scalfari e Craxi il rapporto è sempre stato burrascoso? 

Semplice: Scalfari imputava a mio padre la mancata elezione a deputato, sul finire degli anni Settanta. E, come si è potuto vedere, non gliel’ha mai perdonata.

C’era qualche giornalista, invece, che lui stimava? 

Nonostante i conflitti, stimava molto Giampaolo Pansa, e tutti i giovani cronisti che lo seguivano nei viaggi, penso a Massimo Franco, a Marcello Sorgi, a Paolo Mieli. Craxi amava in modo particolare gli irregolari, i “liberi di testa”: Giampiero Mughini, Vittorio Sgarbi, Roberto D’Agostino… 

Se non erro, anche gli stilisti, un tempo tutti socialisti, hanno abbandonato suo padre… Dico bene?

Craxi capi’ e seppe interpretare il Made in Italy, la capacitàla laboriosità degli italiani e se ne fece ambasciatore nel mondo. E così anche Milano soppiantò Parigi come capitale della moda. Questo era il motivo della riconoscenza di quel mondo verso Bettino. Mi ricordo, a onor del vero, una volta in cui Krizia sostenne di non conoscerlo a cui rispose mia madre con una garbata lettera in cui disse che Krizia, tra gli altri, le prestava gli abiti durante i suoi viaggi a fianco di Craxi, presidente del consiglio, e lei aveva pensato fosse un segno di amicizia…

“Io provo un rancore tanto grande che non ho posto per i piccoli rancori”. Mi ha incuriosito questa sua riflessione, per certi versi amara… 

Una riflessione figlia del fatto che l’ingiustizia subìta da mio padre è talmente grande, che non riesco a dimenticare. Ma il mio, voglio chiarirlo, è un rancore politico. Pretendo delle scuse, in primis dalla sinistra, che, a distanza di tanti anni, ancora non ha fatto i conti con sé stessa. 

Le scuse… ma non arriveranno mai… E’ un’illusa… 

Questo lo dice lei.

Per il cognome che porta, o che portava soprattutto quando suo padre era all’apice del potere, si è mai sentita usata? 

No, perché ho pochi amici, quelli di sempre, quelli che non ti tradiscono mai… 

Ha mai avuto paura di finire in miseria, quando stava crollando tutto? 

In miseria no, ho sempre lavorato, ma con mio marito abbiamo passato momenti di grande difficoltà, perché quando scoppiò Tangentopoli nessuno ci rispondeva al telefono, la nostra azienda rischiava di fallire… 

I nomi, Stefania… 

Neanche sotto tortura. 

Qual è stato il momento più doloroso della sua vita?

La morte di Bettino Craxi. 

Nel film su suo padre, Gianni Amelio tratteggia suo fratello Bobo in maniera poco tenera. C’ha visto giusto…? 

A naso, penso non si siano piaciuti… 

E il film, le è piaciuto? 

Ad Amelio, che stimo molto come regista, non interessava fare un film “politico”, ma tracciare un parallelo fra la parabola di Craxi e le grandi tragedie classiche. Nel film c’è quindi poca politica, e Craxi era un uomo “totus politicus”. Il merito della pellicola è stato quello di avere acceso i riflettori sulla sua storia. 

Al di là dell’affetto, ha stima per la carriera di Bobo? Eppure c’è chi dice che non abbia nessuna stoffa particolare e che senza quel cognome sarebbe stato un perfetto sconosciuto? 

Penso che mio fratello abbia fatto un grandissimo errore: quello di essere passato a sinistra, quella stessa sinistra che il nome Craxi non l’ha mai sopportato e accettato. 

Che rapporto ebbe l’Avvocato con suo padre?

A differenza di tanti politici di oggi, Craxi non si è mai inchinato dinanzi al gotha dell’imprenditoria, ai santuari del capitalismo. Lo muoveva la convinzione che la politica dovesse esercitare il primato sulla finanza e sull’imprenditoria… 

Agnelli, da uomo di potere, chiedeva continui favori a chiunque… Anche a suo padre? 

Ricordo che mio padre, commentando le assoluzioni in casa Fiat, una volta mi disse: cosa andava a fare Romiti nell’ufficio degli amministratori dei partiti? A parlare del nuovo modello della 500?

Cosa le disse suo padre prima di morire? C’è un ricordo che non riesce a dimenticare? 

Dopo la sua morte, trovai un foglietto scritto a mano: “In questo processo, in questa trama di odio e menzogne devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri…” Ero lì con lui, ad Hammamet, poche ore prima che se ne andasse, e continuava a parlare di politica e dell’Italia. Una mattina, appena sveglio, mi disse che aveva sognato Milano, di essersi ritrovato a passeggiare in piazza Duomo.  Aveva nostalgia del suo Paese e dei tanti posti che non era riuscito a vedere. Dopo pranzo, mi disse: vado in camera a sdraiarmi, portami un caffè. Lo raggiunsi in stanza e lo trovai riverso sul letto, ormai privo di vita… 

Chi fu il primo, dopo la sua morte, a raggiungere Hammamet? 

Yasser Arafat… E poi le persone a me più care, compresi Casini e Follini… 

Dall’Italia, invece? 

Dall’Italia mi chiamarono in tanti. Ricordo che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, tramite il sottosegretario Minniti, offrì i funerali di Stato. Ringraziai, e risposi di no. 

Perché? 

Delle due l’una: o Craxi era uno statista, e allora aveva diritto ad essere curato in Italia da uomo libero, oppure era un delinquente, e allora non meritava tutti gli onori che gli venivano offerti in quel momento dalle massime autorità italiane. Scelsi la coerenza e la dignità. 

Quanto conta, per lei, il denaro? 

Nulla, anche perché ho un rapporto pessimo con i soldi.

È stata una donna fedele? 

Abbastanza, ma ho avuto due mariti… 

Una donna noiosamente monogama… 

Questo lo dice lei! 

Che gioventù ha vissuto lei in mezzo a quel circo? 

Non lo definirei circo, ma una comunità, una bellissima comunità… 

Le è mancata l’intimità, però… 

Assolutamente sì. Era difficile poter stare da soli con mio padre, soprattutto quando era a Roma. 

Lei ama avere il controllo su tutti, e tutti si appoggiano a lei, almeno questo è quello che ho notato… Ha mai voglia di scappare? 

Assolutamente sì, mi basterebbero tre giorni. 

E con sua madre, che rapporti ha? 

Fantastici! Ci ha sempre consentito di vivere una vita normale; quando si trovavano ad Hammamet, e la tempesta in Italia non si era ancora placata, la sentivo sempre serena, tranquilla. Probabilmente, per non affrontare il dolore nei suoi risvolti più spietati, cercava di stare sempre in superficie. Era un modo, il suo, per tenere botta.

Qual è stato il suo, e ultimo, giorno spensierato…? 

Se vogliamo parlare di spensieratezza, come tutte le mamme l’ho persa quando sono nati i figli…Se parliamo di serenità, i giorni precedenti al dramma che si è abbattuto sulla nostra famiglia e sull’Italia. 

Torna ancora volentieri in Tunisia?

La Tunisia è un Paese che mio padre ha profondamente amato, che io amo profondamente. Un Paese straniero, ma non estraneo, diceva Bettino. Lì mio padre ha vissuto i giorni dolorosi dell’esilio, lì è sepolto nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, di fianco al cimitero musulmano. Tutto il popolo tunisino ha protetto, amato, difeso e garantito la libertà del presidente Craxi, nel rispetto delle leggi e del diritto internazionale, accogliendo la mia famiglia in un momento molto difficile. 

Ha il viso malinconico, a tratti sofferente; ha mai conosciuto momenti di felicità? 

Ho passato periodi difficili, difficilissimi, con Tangentopoli e tutto quello che poi ne è conseguito per la mia famiglia. Chiaro che, parlando a lungo di una vicenda ancora dolorosissima, il mio viso si rabbuia e intristisce. Ma le posso garantire che nella mia vita la felicità, seppur fuggevole, abita questa casa…

Gli Usa "tifavano" per il pool. E Borrelli riferiva al console. Felice Manti e Edoardo Montolli l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il ruolo di diplomatici e 007 americani nel nostro Paese tra il '92 e il '94 in un libro sugli archivi segreti degli States.

Ai tempi di Tangentopoli l'attenzione della segreteria di Stato e dei servizi di intelligence degli Stati Uniti fu particolarmente concentrata nell'assistere alla fine della Prima Repubblica. «L'America si schiera dalla parte dei giudici che danno fiato alle inchieste sulla corruzione... Domina, nei resoconti e nelle informative dell'universo a stelle e strisce, il disinteresse per le sorti del vecchio ceto di governo, prevale nella narrazione sul regime change l'esigenza di guardare avanti, di non attardarsi nella salvaguardia dell'esistente. Un approccio, anche questo, certamente favorito dal mutamento degli equilibri internazionali, e dalla perdita di centralità geopolitica dell'Italia nel più ampio contesto di marginalizzazione del ruolo europeo».

Lo scrive Andrea Spiri nel suo ultimo libro The End 1992-1994 - La fine della prima Repubblica negli Archivi segreti americani (Baldini + Castoldi) dopo aver spulciato decine di rapporti confidenziali dell'epoca ottenuti grazie al Freedom of Information Act, la normativa che regola la declassificazione e l'accesso alle carte ufficiali conservate negli Archivi federali. Si scopre anzi che vi era un filo diretto tra la Procura di Milano e il consolato yankee all'ombra del Duomo, che veniva informato sull'andamento di Mani Pulite, specie nei momenti decisivi. Il 29 aprile 1993, ad esempio, dopo che la Camera aveva respinto le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, il console statunitense Peter Semler incontrò «il numero due dei giudici milanesi» il cui nome è omesso nel rapporto inviato al segretario di Stato americano. Subito dopo quel diniego il Pds di Achille Occhetto aveva imposto il ritiro dal governo dei ministri Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli. E il giudice si lamentava con Semler che «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore politico del genere». Non solo. Il magistrato, andando ben oltre le prerogative giudiziarie, riteneva che quella di Botteghe Oscure fosse stata una decisione che «destabilizza l'esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate». Prospettiva che era «evitare a tutti i costi» anche perché Craxi «verrebbe financo rieletto». E la cosa evidentemente stizziva anche gli americani se si pensa che in un cablogramma del successivo 7 giugno, Daniel Serwer, incaricato d'affari dell'Ambasciata statunitense a Roma, scriveva a Washington dopo le amministrative: «Paradossalmente gli ex comunisti del Pds sono forse gli interlocutori per noi più affidabili in questo frangente storico che vede il declino inesorabile dei partiti con cui abbiamo lavorato a lungo e sui quali abbiamo fatto affidamento». Ma a parlare con gli americani non c'era solo il numero due dei giudici milanesi. C'era forse anche il numero uno degli inquirenti. In un cablogramma del 12 maggio, solo parzialmente desecretato, Semler sintetizza l'incontro con un magistrato, sempre coperto da omissis, che Spiri ritiene di poter individuare nientemeno che nel capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, perché il console faceva riferimento al fatto che il padre della misteriosa toga era la persona che aveva convinto Oscar Luigi Scalfaro a lasciare la magistratura per entrare in politica. E storicamente è risaputo che Scalfaro fu convinto della scelta da Manlio Borrelli, papà di Francesco Saverio. Il magistrato annunciava al diplomatico uno scenario «caratterizzato da un numero di casi ancora maggiore rispetto alle attuali settecento indagini milanesi», lasciando intendere che «ci saranno pochi patteggiamenti» e, per il resto, «verranno celebrati processi lunghi» che «metteranno a dura prova le energie del pool». Ma gli americani guardavano con attenzione anche a ciò che succedeva al Sud, dove i pentiti trascinavano nell'abisso i vertici della Dc. Sicché, quando Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia, chiese audizione all'ambasciata, partì dopo l'incontro il cablogramma riservato The Accused. Andreotti speaks, datato 2 luglio 1993. Il senatore a vita riteneva che dietro le accuse contro di lui ci fossero «mafiosi americani» e «spezzoni deviati dei Servizi segreti italiani» oltre che dello United States Marshals Service, ovvero l'agenzia federale che sovrintende alle operazioni giudiziarie dall'altra parte dell'Atlantico. Ma non il governo americano. Si lamentava però della diffusione da parte di Washington di un cablogramma molto particolare: «Ha chiesto informazioni in merito alla diffusione da parte del governo americano di un cablogramma del 1984 redatto dal Consolato di Palermo, nel quale veniva riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero stati confermati, allora sia Andreotti che l'intero sistema politico italiano sarebbero finiti nei guai». I diplomatici riconobbero «l'errore», ma anche che gli eventi avevano confermato la profezia. Salvo Lima, in effetti, fu il primo dei delitti che avevano sconvolto l'Italia tra marzo e luglio (così come predetto chirurgicamente da una circolare che allertava il Paese su un pericolo di destabilizzazione orchestrato all'estero) e che frantumò l'immagine del senatore a vita. Il secondo fu la strage di Capaci. Due giorni dopo al Quirinale fu scelto Scalfaro. Gli analisti del Dipartimento di Stato di Washington avevano scritto: «Le ultime speranze di Andreotti» di salire al Colle «sono svanite con l'assassinio di Falcone, per via dei rapporti che il capo del governo intrattiene con figure sospettate di essere in odore di mafia».

Lesa maestà. Mani Pulite non si può criticare, per questo Colombo mi vuole alla sbarra. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

Gentile Gherardo Colombo,

lei, in sodalizio con Piercamillo Davigo e Elio Ramondini (quest’ultimo a me, come immagino ai più, perfettamente sconosciuto), ha deciso di querelarmi per un articolo pubblicato da questo giornale. L’articolo di cui lei, con i suoi colleghi, si è doluto, argomenta in modo magari contestabile ma – almeno si spera – non meritevole di sanzione penale, che l’adozione della dicitura “Mani Pulite” costituisce in sé un pericoloso segno di inflessione autoritaria, e che la cultura che vi si richiama ha arrecato grave danno al Paese, al nostro ordinamento civile, al tenore della nostra democrazia.

Scrivere – come ho scritto qui – che “La cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava, furono e rimangono la vergogna della Repubblica”, è espressione di un giudizio civile e politico che può non essere condiviso, ma che soltanto in forza di un gravissimo pregiudizio può ritenersi vietato. Sostenere – come ho sostenuto qui – che è “civilmente osceno e democraticamente blasfemo” intestare all’iniziativa di una funzione pubblica un segno distintivo moraleggiante (“Mani Pulite”, appunto), specie sulla scena delle acclamazioni popolari e dei suicidi che non saranno stati colpa di nessuno, ma c’erano, significa manifestare un’inclinazione morale e un convincimento politico che ancora una volta potranno essere discutibili, ma che in un assetto di tutela minima dei diritti individuali dovrebbe essere tuttavia consentito.

Lei, dottor Colombo, che pubblicamente argomenta di aver lasciato la magistratura perché era stufo di togliere la libertà alle persone, reclama invece che sia applicata una sanzione penale a chi, come me, si è reso responsabile d’aver scritto – contro la maggioranza che ne fa invece apologia – che quello di cui lei è stato personaggio è uno dei capitoli vergognosi della storia d’Italia, e che verecondia vorrebbe che i protagonisti giudiziari di quegli eventi si limitassero semmai a dimostrare di aver solo applicato la legge piuttosto che impancarsi ad agenti del bene pubblico. Ci vuole la galera, per quelli che pensano e scrivono queste cose?

Caro dottor Colombo, grattata la superficie delle vostre recriminazioni, ciò di cui in realtà vi lamentate è la lesione della maestà di Mani Pulite. Perché evidentemente non vi identificate nei provvedimenti che voi avete tutto il diritto di rivendicare quanto gli altri hanno il diritto di criticare, ma appunto nell’immagine apologetica di quell’esperienza giudiziaria e nella cultura che l’ha ispirata e vi si è ispirata. Un’esperienza e una cultura che non soltanto chi scrive, ma chiunque, avrebbe il diritto di considerare pessime. Iuri Maria Prado

Michele Santoro, Funari e gli altri: quando il talk show inventò l’indignazione della gente comune. Trent’anni fa, ai tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni hater. Ma quello, a differenza di quanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo. Giandomenico Crapis su L'Espresso il 16 Maggio 2022.

La storica Simona Colarizi nel saggio “Passatopresente” (editori Laterza ), uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo.

Milano, da emblema di Mani Pulite a simbolo del flop. Luca Fazzo il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Trent'anni fa i pm erano gli eroi, oggi hanno perso consenso. Di Pietro: "In toga mai fatto sciopero".

La storia a volte ha una sua elegante circolarità. Così nel giorno che segna la fine di un'epoca nelle vicende della giustizia italiana, con i giornali pieni del flop dello sciopero dei magistrati, in un'aula del tribunale di Milano ci si imbatte in Antonio Di Pietro.

Se questo palazzo è diventato il simbolo di una certa stagione di fare giustizia, è merito (o colpa) soprattutto sua. Se la categoria in toga è diventata un mito collettivo di un pezzo d'Italia, la radice di molto sta nei cortei che inneggiavano al pm di Tangentopoli, «Borrelli e Di Pietro, non tornate indietro». Oggi Di Pietro fa un po' il pensionato, un po' il contadino, un po' l'avvocato. E la distanza profonda tra quella stagione e l'oggi sta in fondo nel vederlo qui, senza nessuno che se lo fili, a ragionare con un vecchio amico sullo sciopero fallito: «Ma meno male, dico io. Come gli salta in mente? I magistrati non sono gente qualunque, sono un potere dello Stato. E si mettono a scioperare contro gli altri poteri dello Stato? Se i deputati scioperassero contro i giudici cosa diremmo? Io quando facevo il pm non ho mai fatto uno sciopero. Quando il governo provò a varare una legge per fermarci, io e gli altri ci dimettemmo dalla magistratura, che è tutt'altra cosa».

Si potrebbe ragionarci a lungo, con Di Pietro, su quei fatti di trent'anni fa: se davvero il pronunciamento del pool contro il decreto «salvaladri» fosse più o meno rispettoso degli equilibri istituzionali. Ma la sostanza è netta. Quel giorno il pool milanese sbaragliò la politica, costrinse An e Lega al retromarcia, segnò per gli anni a venire il dominio della magistratura sulla vita del paese. Lo sciopero indetto dall'Anm, con parole d'ordine altrettanto giacobine, invece si sgonfia come un palloncino, scivola via, lascia la politica libera di fare le sue scelte. E toglie all'Anm di fatto quel potere di veto che le è stato riconosciuto per decenni sulle leggi in materia di giustizia.

Visto da qua, dal palazzo che dell'attacco in toga alla Prima Repubblica fu l'incrociatore Aurora, il day after della sconfitta ha il sapore della malinconia. D'altronde perché sarebbe dovuta andare diversamente? L'epoca dello strapotere giudiziario era figlia anche di una verve professionale, di una alacrità missionaria che faceva di aule e corridoi un brulicare di inchieste e di processi. I ritmi selvaggi di Di Pietro diventarono in quegli anni un esempio per i «dipietrini». Oggi quell'esempio si è perso, e corridoi e stanze dell'incrociatore sono deserti. La Procura non fa più inchieste, e quelle poche le perde. Come può candidarsi a guidare un paese una Procura che in un giorno in teoria di lavoro è deserta come in un giorno in teoria di sciopero?

Un'epoca si è chiusa, e non è un caso che si chiuda nel Palazzo dove le alleanze di un tempo si sono dissolte in faide. A raccogliere i cocci, e a cercare di dare un senso al futuro dell'Associazione magistrati, restano giovani giudici come Sergio Rossetti, della sezione fallimentare: che ha ben presente che «colmare il gap di fiducia con i cittadini è difficile», che «lo sciopero poteva essere meglio ponderato». E intanto si aggrappa all'analisi delle cifre, spiega che se a Milano lo sciopero è andato male invece l'adesione è stata alta nei tribunali del circondario. «Dove ci sono i colleghi più giovani, e che sono oggi i più decisi nel chiedere il rinnovamento». È il ritratto di una frattura anche generazionale dentro la magistratura. Dove ad abbandonare l'Anm è paradossalmente una generazione di magistrati che nella stagione delle correnti e dell'attacco al potere si è formata. Così a Milano il buco nero dello sciopero sono la Procura generale e la Corte d'appello, uffici dove il più giovane ha sessant'anni: e sono per forza di cose magistrati che ai tempi di Mani Pulite erano in prima linea, che quella esperienza hanno apprezzato e condivisa, e che lunedì scorso però erano quasi tutti al loro posto. «Ma la riforma Cartabia non piace neanche a loro - dice Rossetti -, è l'idea dello sciopero che non li ha convinti». Come se fosse un dettaglio.

L’ultima sede del Partito Socialista Italiano, ricordo di via del Corso. Marco La Greca su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

Correva l’anno 1997 ed ero agente di Polizia. Per una mattina e poi una notte venni mandato a svolgere il mio servizio all’Aran, a Roma, in via del Corso n. 476. Un indirizzo che aveva un significato ben preciso, perché lì c’era stata, sino al 1994, la sede del PSI, uno dei punti cardinali della “Prima Repubblica”, da poco seppellita dalla stagione di Tangentopoli. Mi avvicinai al palazzo, all’inizio del turno, con un misto di emozione e di curiosità. Al piano terra notai il busto di Sandro Pertini, in una collocazione, per la verità, non di gran risalto. L’attribuii al fatto che Bettino Craxi, secondo la vulgata, aveva avuto con l’ex Presidente della Repubblica un rapporto, a tratti, burrascoso.

Entrai nell’ascensore: “Piano terra”, recitava una voce registrata; poi: “L’ascensore va al quarto piano”. Una postuma esibizione di lusso, valutai allora. La mattinata passò senza scossoni, sino a quando, attraverso una porta semiaperta, non intravidi un busto di Garibaldi, di fronte a un tavolo ovale; era, capii immediatamente, la mitica “Sala Garibaldi”, appunto, destinata alle riunioni della segreteria politica del PSI. Per un attimo, ebbi l’impressione di avere di fronte a me Bettino Craxi e Gennaro Acquaviva, più in là Claudio Martelli, dalla parte opposta Claudio Signorile, poi gli altri componenti la segreteria. Fu durante il turno di notte, però, che il mio servizio prese i contorni del viaggio nella storia. Iniziai le perlustrazioni scendendo al terzo piano, non occupato dall’Aran. Gli ambienti, le sale, gli arredi erano ancora del PSI. Alle pareti i manifesti con le campagne propagandistiche, i titoli dei congressi e delle conferenze programmatiche che avevano segnato, in particolare, l’era craxiana. Una foto immortalava l’ex segretario in primo piano, di tre quarti, con una sciarpa e un cappello di colore beige. Nelle stanze, gettati a terra o poggiati in qualche residuo scaffale, carte e volantini. La sensazione era di trovarsi in un luogo abbandonato di fretta, come in fuga da un nemico. Attaccato con lo scotch, un avviso che dava il senso delle ristrettezze economiche dell’ultima fase: “Si ricorda ai compagni che l’acquisto dei francobolli deve essere autorizzato dalla segreteria amministrativa”.

La collocazione degli ambienti, nel ricordo, un po’ si confonde. Mi pare però che fosse proprio al terzo piano l’altra sala, più ampia, intitolata a Pietro Nenni; vi si riuniva la direzione del partito, con una frequenza assai minore della segreteria politica, secondo una dinamica verticistica e leaderistica che sembrava essere una prerogativa (negativa) del partito socialista. Ancora non sapevamo a cosa avremmo assistito negli anni a venire. Tornai al quarto piano e, superata la “Sala Garibaldi”, entrai nell’ufficio che attribuii a Craxi, poi nei due adiacenti, che invece immaginai destinati ai vice segretari (ed uno in particolare, ma non so perché, a Claudio Martelli). Erano ambienti moderni, con soppalchi e vetrate. Sembravano più studi di architetti che uffici di dirigenti politici; almeno, secondo l’idea che avevo io della classe politica della Prima Repubblica.

In quegli allestimenti si esprimeva la cultura milanese dell’attico, contrapposta alla concezione tradizionale che – a Botteghe Oscure come a Piazza del Gesù – voleva l’area nobile al primo piano, con l’ufficio del segretario e il balcone per i comizi delle serate di successo elettorale. Dallo studio di Craxi si accedeva a uno stanzino modesto, per dimensione e arredi, nel quale era posizionato un letto. Poggiato a terra, un quadro che raffigurava Garibaldi. La sensazione era di entrare in casa d’altri, in un luogo talmente identificato con chi ci aveva vissuto, che veniva da chiudere la porta. Feci così. Chiusi la porta alle mie spalle e scesi le scale, sentendomi un po’ in colpa. Avvertii l’esigenza di uscire sul terrazzo che si affaccia su Piazza Augusto Imperatore. L’aria di Roma era dolce, contrapposta alle asprezze che quei luoghi evocavano. Stava finendo il millennio, il secondo dai tempi in cui era stata edificata l’Ara Pacis, a pochi metri da me per una operazione posticcia di demolizione e ricostruzione in un sito diverso. Le persone, i luoghi, i momenti passano, pensai. Restano le loro storie. Che poi sono le nostre. All’uomo, di oggi e di domani, il compito di raccontarle. Con rispetto e verità, possibilmente. Con questa consapevolezza mi sentii, una volta di più, insieme alla comunità che aveva abitato in quelle stanze, una misteriosa e infinitesimale parte del tutto. Marco La Greca

Arrestati i leader di Potere operaio: nessuna prova. Chi era Pietro Calogero, il primo Pm che sottomise la politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Le prove generali ebbero inizio quel giorno, il 7 aprile del 1979 in cui la politica si consegnò ai Pm. Prove di Repubblica Giudiziaria, che avrà il suo epilogo tredici anni dopo con Tangentopoli e di lì non ci abbandonerà più. Con le sue carceri speciali, le infinite custodie cautelari, le trattative con i “pentiti”, le imputazioni che si modificano in corso d’opera, l’uso dei reati associativi in mancanza di fatti concreti, la legislazione d’emergenza diventata ordinaria. E il Pm caput mundi. E la politica con la testa china. Il bandolo della matassa è proprio lì, nel giorno in cui, con una grande complicità culturale e politica e forse anche altro, del Pci, il pubblico ministero di Padova Pietro Calogero diede l’ordine alla Digos per una grande retata, in diverse città italiane. In carcere un gruppo di docenti dell’Università di Padova, facoltà di scienze politiche, di cui il più famoso era Toni Negri, e poi Oreste Scalzone, Emilio Vesce, mentre in modo rocambolesco si era reso latitante Franco Piperno. Decapitata l’ex dirigenza di Potere Operaio, uno dei più agguerriti gruppi della “sinistra extraparlamentare” degli anni settanta che nel frattempo si era sciolto, e dell’Autonomia.

Il pm Calogero indagava su quel mondo della sinistra di quegli anni – un mondo che era sicuramente estremista ma anche creativo e intellettualmente appassionato – da almeno due anni prima del blitz del 7 aprile. In un’intervista a Panorama del 23 maggio 1978 aveva anticipato il suo pensiero, quello che passerà alla storia come il “teorema Calogero” e che terrà impegnato il mondo politico-giudiziario nei successivi sette anni, creando danni che diverranno permanenti all’amministrazione della giustizia e allo Stato di diritto. “Un unico vertice – aveva detto – dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega le Br e i gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato”. Occorre fare un tuffo nel passato per capire la pericolosità, che l’evoluzione processuale chiarirà alla fine di quei sette anni infuocati, di questo pensiero e questa dichiarazione. Che esistesse il terrorismo in Italia era un dato di fatto. Il culmine era stato raggiunto con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Ma gli anni settanta avevano prodotto movimenti e gruppi e gruppetti impetuosi di giovani, che andavano dagli indiani metropolitani fino a coloro che avevano impugnato le armi, come le Br e Prima Linea. Non erano proprio tutti uguali.

Lo Stato era impotente, questa è la verità. Non aveva saputo né trattare con i terroristi che avevano rapito Moro e avevano saputo tenerlo nascosto per 44 giorni, né essere inflessibile da vincente, e aveva lasciato ammazzare il segretario della Dc. Così la strampalata tesi del dottor Calogero sembrò essere la soluzione cui l’intera magistratura (con qualche riserva del giudice istruttore Giovanni Palombarini, esponente padovano di Magistratura democratica), il mondo politico e quello giornalistico, con la sola eccezione del manifesto (e in particolare di Rossana Rossanda), si aggrappò come a una soluzione salvifica della tragedia che l’Italia stava vivendo. Così Toni Negri divenne il simbolo di ogni male, non solo il capo di una sorta di spectre che di giorno era solo un “cattivo maestro” di sovversione e di notte il capo delle Brigate Rosse. Non solo era a capo di un tentativo insurrezionale, questo gli veniva contestato dalla magistratura padovana. Ma era anche il capo delle Brigate Rosse e il responsabile della strage di via Fani e del rapimento e assassinio di Aldo Moro e di una serie di altri omicidi. Questa l’imputazione che gli attribuiva il procuratore capo di Roma Achille Gallucci. Le prime incrinature allo Stato di diritto partono di qui.

Mai era successo che in Italia si contestasse a qualcuno il reato di insurrezione armata contro in poteri dello Stato, che prevede l’ergastolo e che comporta quanto meno un tentativo di colpo di Stato. E mai era stato applicato il concetto del “tipo d’autore” per cui, una volta individuato il soggetto deviante, gli si attribuiscono tutti i più gravi reati della fase storica. Poiché nella realtà a Toni Negri e gli altri arrestati potevano solo esser attribuiti scritti e discorsi di tipo sovversivo. Anche la teorizzazione di progetti insurrezionali. Infatti ben presto gli inquirenti finirono con l’accontentarsi di contestare altri due reati, e li distribuirono a centinaia di imputati: l’associazione sovversiva e la banda armata. Accuse che resteranno in piedi fino alla fine e saranno oggetto, per alcuni, di condanna. Mentre il “teorema Calogero” crollava. Mentre il Pci faceva appelli alla “vigilanza democratica” per difendere i magistrati da dubbi e critiche, i quotidiani si sbizzarrivano con la fantasia. Soprattutto dal momento in cui Toni Negri fu ritenuto il “telefonista” a casa Moro, insieme a un cronista padovano di nome Pino Nicotri, arrestato nello sbalordimento generale perché sospettato di un’altra chiamata da parte delle Brigate Rosse.

Queste storie, viste oggi da lontano, paiono solo grottesche, ridicole, ma tragiche se pensiamo che sono costate anni di carceri speciali a persone innocenti. Sarebbe bastato chiedere subito gli alibi a Negri e Nicotri dei giorni delle telefonate, che erano partite da Roma mentre uno era a Padova in redazione con molti testimoni e l’altro a Milano in compagnia di due persone. E magari anche saper distinguere una parlata marchigiana (il telefonista di casa Moro) dall’accento marcatamente veneto di Toni Negri. Il settimanale L’Espresso, recordman di forche appese, aveva addirittura regalato ai lettori due dischi con le registrazioni delle telefonate con il gioco “fai da te la perizia fonica”. Si è persino chiamato in causa Emilio Alessandrini, che era stato assassinato da Prima Linea tre mesi prima. Qui devo accennare a un episodio che ha visto coinvolta anche la mia persona.

Nel 1978, proprio nei giorni del rapimento Moro, avevo partecipato con mio marito a una cena a casa di un pm mio amico, Antonio Bevere, cui erano presenti, con relative mogli, sia Emilio Alessandrini che Toni Negri. Un anno dopo, e dopo il blitz del 7 aprile, i giornali, in particolare l’Unità, cominciarono a parlare di quella cena, insinuando che quella sera Toni Negri avrebbe “preso le misure” del personaggio per poi far uccidere Alessandrini. E anche perché Paola, la moglie del magistrato assassinato (che tra parentesi ha anche fatto finire in galera per due giorni per falsa testimonianza me e mio marito dicendo che alla cena non c’eravamo) si era ricordata che Emilio ascoltando il disco dell’Espresso aveva riconosciuto la voce di Negri, la stessa che aveva potuto ascoltare per un’intera serata a casa di Bevere. Peccato che Alessandrini non l’avesse mai denunciato. Sulla base di questo tipo di “prove” si fondò il processo “7 aprile”. E bisognerà aspettare il ”pentito” Patrizio Peci, che era un brigatista vero, per far smontare tutto. Ma l’assalto allo Stato di diritto continua, da quel 7 aprile 1979.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pietro De Sarlo per basilicata24.it il 9 maggio 2022.

Fresco di stampa il libro di Cirino Pomicino “Il grande inganno”. Per chi non ricordasse il suo contributo alla Prima Repubblica, basta sapere che fu ministro con De Mita e Andreotti sia alla funzione pubblica sia al bilancio e programmazione economica. Come dice lui stesso fu l’ultimo politico a essere ministro dell’economia.

Non ha mai goduto di buona stampa. La sua parlata stimola il vezzo, venato di razzismo anti meridionale, che si sostanzia in sottolineature denigratorie come “avvocato di Volturara Appula”, riferito a Giuseppe Conte, oppure “commercialista di Bari”, per Rino Formica, o il più garbato ‘intellettuale della Magna Grecia’ con cui Gianni Agnelli chiamò Ciriaco De Mita.

Persino Ferruccio De Bortoli, autore della prefazione, con riflesso pavloviano mette in guardia dalla “arguzia tutta partenopea” dell’autore. Già, a Milano e dintorni l’arguzia pare sia finita e da tempo.

Se però siete intellettualmente liberi e scevri da pregiudizi la lettura è interessante. La tesi del libro è che la Seconda Repubblica è stata un disastro e molto peggio della Prima che vide l’autore tra i protagonisti.

Molto “cicero pro domo sua”, certo, ma Pomicino le cose le sa. Qualcuna la dice, qualcun’altra gli scappa. Si tratta, pur nel morbido tono democristiano, di un pesante attacco al PD e al sistema della finanza e della informazione che protegge e di cui è strumento. 

Ecco il libro in pillole. 

L’informazione in Italia

Molto spazio dedica al tema della informazione, tema all’attualità visto che è appena uscita l’ultima classifica mondiale sulla libertà di informazione di Reporters sans Frontiere. L’Italia è precipitata in un solo anno dal 41 esimo al 58 esimo posto, tra la Macedonia del Nord e il Niger.

La genesi di questa situazione, con accuse pesanti, l’autore la fa risalire agli inizi degli anni novanta, quando il ‘salotto buono’ del capitalismo italiano, scelse di costruire la Seconda Repubblica dando credibilità e sostegno, con i propri media, a quelli che Cirino chiama i ‘vinti della storia’, ossia a quelli del vecchio PC, ora PD, sconfitti ideologicamente dalla perestroika e dalla caduta del muro di Berlino. 

Il salotto buono era costituito da Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Eugenio Scalfari. Gente che deve molto al pubblico potere e in specie al PD “che si trasformò nel braccio operativo della destra neoliberista europea”.

Ma attenzione, l’intreccio tra capitale, finanza e informazione genera: “Un’arma letale per le democrazie liberali… Una potenza di fuoco difficilmente sostenibile dalle istituzioni democratiche.” Anche perché operano: “utilizzando nel contempo le insinuazioni personali e la gogna contro gli avversari, manipolando pesantemente la verità”. 

In effetti il metodo si ripropone tutti i giorni su Repubblica e dintorni, e solo una narrazione farlocca può far ritenere che il PD sia stato, e sia, un partito di sinistra. A furia di ‘spiegoni’ e ‘zorate’ qualcuno ancora ci casca.

I giudizi su Ciampi, Draghi, Letta, Prodi …

C’è altro però nel libro. A partire da Carlo Azeglio Ciampi che fece “la peggiore legge finanziaria” e “a elezioni già avvenute e a capo di un governo dimissionario da due mesi” assegnò “all’amico Carlo De Benedetti” la gara per il secondo gestore di telefonia per 700 miliardi delle vecchie lire e a rate. 

Affare girato a Mannesmann per 14.000 miliardi di lire dopo poco tempo. Poi Romano Prodi e Arturo Parisi, “dovrebbero spiegare dopo trenta anni” perché “impoverirono un grande Paese come l’Italia” certamente “a loro insaputa”.

Su Letta c’è poco, giusto per chiedere, visti passati incarichi tra cui quello di autorevole membro della Trilateral Commission, fondata da Rockefeller nel 1973, se sia “completamente libero”. Identica domanda c’è su Mario Draghi, con lodi di circostanza, insieme ad alcune vicende imbarazzanti come il giretto a Goldman Sachs, l’autorizzazione dell’acquisto di Antonveneta e le norme europee sul sistema bancario. 

Lo stato della democrazia

Da buon DC fa quindi un invito, che pare ipocritamente strumentale, a Draghi a “trasformarsi da rappresentante delle élite finanziarie internazionali a rappresentante delle élite politiche”, come? Banalmente “candidandosi”. Perché? ” Il battesimo elettorali è essenziale per la legittimità politica in un paese democratico”. E come dargli torto.

Intanto ci ricorda che il parlamento è svuotato da ogni funzione tanto che l’ultima finanziaria di Draghi è stata approvata senza il parere della apposita commissione e senza che il Parlamento abbia avuto il tempo di leggerla. E Mattarella? Nella circostanza non pervenuto. 

Insomma, la democrazia è a rischio e occorre recuperare la centralità della politica e del parlamento a partire proprio da quella media e piccola borghesia che è stata massacrata nella Seconda Repubblica.

L’Italia e la Francia

Deprimente la narrazione di come l’Italia non abbia da Sigonella, ossia da Andreotti e Craxi in poi, una politica estera, e gli effetti si vedono. Sigonella non ci è mai stato perdonato dagli USA. In ogni caso la ininfluenza del Paese è certificata dalla completa assenza di una posizione autonoma dell’Italia, appiattita sugli USA più che sull’Europa, nel conflitto attuale tra NATO e Russia sul campo Ucraino. Tanto che Mario Draghi non fu neanche invitato alla riunione tra Biden, Macron e Sholzt.

In compendo sulla Seconda Repubblica sono piovute ‘Legion d’Onore’ a tanti politici italiani, specialmente del PD. Fatto è che l’elenco delle aziende cedute ai francesi nella Seconda Repubblica è lungo e di peso: BNL, poi Pioneer e CariParma, senza dimenticare Edison, Telecom, l’agroalimentare, la grande distribuzione e il settore della moda. Quando Fincantieri cercò di fare shopping oltralpe venne però immediatamente fermata e Draghi non ha rinnovato il mandato al protagonista di quella tentata acquisizione Giuseppe Bona.

Nell’accordo di Aquisgrana del 2019 tra Francia e Germania, a detta dell’autore, tra le cose non scritte pare ci sia la divisione dell’Europa in due aree di influenza: la Grecia e l’Est alla Germania, l’Italia alla Francia. “Il trattato del Quirinale” approvato sotto gli occhi di un “compiaciuto Mattarella” pur essendo paritetico nella forma rischia di trasformarci quindi in un protettorato francese.

L’economia, Conte e il M5S

Bocciata la Seconda Repubblica anche in economia con tanto di numeri e percentuali. In compenso vede Conte e il M5S come fumo negli occhi, invece di apprezzare il tentativo di porre fine alla Seconda Repubblica, che lui stesso giudica fallimentare. Qui è la pancia che prevale, non solo nell’autore, non riconoscendo al tentativo del M5S quell’embrione di rivolta piccolo borghese e popolare che poteva dare una spallata al sistema. La spalla se la sono invece lussata.

Conclusione

Peccato gli sia rimasta la cerchiobottista sindrome DC, per cui Cirino Pomicino non arriva mai a trarre le necessarie conseguenze dai fatti. Mattarella: fortuna che c’è. Draghi: idem. Tutti amici. 

I contenuti del libro non costituiscono un vero e proprio scoop, più che altro si tratta di un esercizio di memoria. Utile specialmente a chi per fatti anagrafici non ha dimestichezza con la storia recente del Paese.

Eppure la lettura si rivela preziosa per comprendere alcune dinamiche di oggi, come la santificazione di Draghi e la sua nomina a primo ministro. Da non far cadere la denuncia degli interessi in gioco della élite economica e finanziaria, più francofila che europeista, difesi dal PD e da una stampa sempre più asservita. 

Se dovessimo essere pignoli manca ancora molta ‘materia oscura’ per apprezzare fino in fondo il degrado della nostra democrazia descritto nel libro. Ci sarebbe molta materia di ‘scandalo politico’, ma temo che siamo talmente scorati e demoralizzati che tutto ci scivolerà addosso come nulla.

Parla il giurista e storico delle istituzioni. Intervista a Sabino Cassese: “Mani Pulite ha lasciato solo macerie”. Giada Fazzalari su Il Riformista il 9 Maggio 2022. 

E’ uno dei più autorevoli giuristi italiani dell’intero dopoguerra ed è una delle voci accademiche più prestigiose di un Paese smarrito. In questa intervista all’Avanti! della domenica, Sabino Cassese propone un’analisi argomentata dello stato della giustizia italiana e, pur considerando i prossimi referendum un «forte stimolo», li ritiene «poco adatti» a dirimere questioni complesse, sulle quali la politica ha sinora mostrato la propria impotenza.

A suo parere qual è lo stato di salute della giustizia in Italia?

«La giustizia italiana è in pessimo stato. Sei milioni di cause pendenti. Più di 7 anni per concludere i tre livelli di giudizio in sede civile e più di tre per il penale. 1000 carcerazioni preventive per anno dichiarate illegittime e risarcite dallo Stato. La fiducia dei cittadini nella giustizia crollata di 20 punti negli ultimi 10 anni. Si può dire che la giustizia non sia in sintonia con la società italiana, tanto che negli ultimi anni si registra addirittura una diminuzione degli accessi alla giustizia, prova ulteriore della sfiducia dei cittadini nella giustizia».

Nel suo ‘Il Governo dei giudici’ documenta il crollo della fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura. Per quale ragione secondo lei?

«Le ragioni le ho già indicate. Se ne può aggiungere qualcun altra. Il pessimo giudizio maturato nella collettività quando si è appreso come vengono prese le decisioni dal Consiglio superiore della magistratura. Siamo nella fase delle disillusioni, dopo le eccessive  illusioni, maturate durante gli anni 90 del secolo scorso, sulla magistratura come giudice della virtù. A questo si aggiunge l’esondazione di una parte della magistratura, impegnata in politica, nell’amministrazione, nella legislazione e, infine, la motivazione dello sciopero annunciato: ”vogliamo essere ascoltati”, che vuol dire in sostanza “vogliamo decidere noi”.

 Come giudica la riforma Cartabia passata in prima lettura alla Camera?

«La riforma Cartabia è il frutto necessario di una serie di compromessi raggiunti in un governo composto di forze politiche tra di loro opposte. Va nella direzione giusta e fa una buona parte della strada in questa direzione».

I referendum possono contribuire a incrinare la chiusura corporativa della magistratura e a contrastare la tendenza al ‘populismo giudiziario’?

«Ricordiamo innanzitutto che i referendum sono uno dei modi di partecipazione dei cittadini alla vita collettiva; sono previsti dalla Costituzione, richiedono partecipazione, senza della quale non c’è democrazia. Detto questo, va anche ricordato che i referendum sono uno strumento poco adatto a fare riforme complesse, che non possono essere decise con un si o con un no. Tuttavia, rispetto ad una classe politica tanto indecisa, possono costituire un forte stimolo. Quindi, sono uno strumento positivo e sarebbe grave se i cittadini non rispondessero o non recandosi alle urne o non votando» 

E’ giusto che  la responsabilità civile dei magistrati per gli errori commessi nei confronti di cittadini innocenti sia  diretta? Quanto può incidere sull’ indipendenza del giudice?

«Errori dei giudici possono esserci perché la giustizia è amministrata da uomini. Alla maggior parte di questi errori provvede il sistema degli appelli che sono previsti proprio perché il giudice in primo grado può sbagliare. Sulla responsabilità dei funzionari pubblici (anche i giudici lo sono), la Costituzione detta norme precise, che sono state in larga parte disattese. Non ritengo che questo tema debba essere affrontato in questa fase perché le norme esistenti bastano»

Dal 1992 al  2018 si sono registrati oltre 27.500 casi di vittime di errori giudiziari, in media più di mille innocenti in custodia cautelare ogni anno: perché accade e come si possono ridurre drasticamente queste cifre?

«La domanda solleva un problema di carattere più generale, quello delle procure composte da giustizieri. Il fenomeno detto popolarmente della gogna mediatica ha portato numerosi pubblici ministeri ad accusare, incolpare pubblicamente, ben sapendo che i processi arrivo con grande ritardo, quando tutti hanno dimenticato. Max Weber avrebbe parlato di una giustizia da cadì ».

 Come porre fine al cortocircuito tra magistratura, informazione e politica? Le porte girevoli tra magistratura e politica sono davvero un problema?

«I magistrati, sia quelli addetti alle funzioni requirenti ed inquirenti, sia quelli addetti alle funzioni giudicanti, dovrebbero essere obbligati ad astenersi da ogni impegno nella vita politica e a controllare le loro esternazioni. L’imparzialità dei giudici è connessa alla loro indipendenza e un magistrato che prende posizione a favore di questo o quell’altro partito politico o non è imparziale o non appare imparziale politici. L’Italia è l’unico paese al mondo dove due magistrati hanno costituito due diversi partiti». 

Sono 30 anni da Mani pulite. Cosa ha provocato quello tzunami mediatico-giudiziario? E cosa ne resta?

«Mani pulite: ne restano solo macerie. Non tanto per quello che fu deciso a quell’epoca, ma per quello che comportò, nel senso di diseducare l’opinione pubblica, di scaricare sulla magistratura il compito del controllo della virtù, di far maturare aspettative a cui nessun ordine giudiziario può corrispondere, di produrre, poi, un effetto di disillusione che ha finito per danneggiare gravemente la magistratura. »

 Lei ha definito i partiti “un ponte tra popolo e Stato, il veicolo della democrazia”. Ne ha descritto la crisi:  sembrano incapaci di elaborare proposte anche a causa della povertà della loro classe politica dirigente. Qual è allora la ricetta per ricostruire il ponte tra popolo e Stato?

«Domanda difficile. Qualcuno risponderebbe che, se il ponte tra società e Stato, tra  cittadini e governo, cioè i partiti, non funziona più, occorre che i cittadini entrino direttamente nella cittadella dello Stato. É la democrazia diretta. Ma la democrazia diretta, in una collettività di 60 milioni di persone, non può funzionare. Quindi, l’unica speranza è quella di ripristinare il ponte, ma questo richiede idee, programmi, uomini capaci di fare davvero politica, invece del battibecco quotidiano su problemi di breve durata.» Giada Fazzalari 

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2022.

Caro Dago, ti confesso che sono arrivato a un punto della mia vita in cui esito non una ma dieci volte prima di avviare la lettura un libro che di pagine ne ha non meno di 500. E invece ho esitato solo pochi minuti prima di cominciare la lettura di questo recente tomone da 700 pagine di Filippo Facci, La guerra dei trent’anni (Marsilio, 2022), da lui dedicato al terreno che vanga da tutta una vita. Nato nel 1967, aveva qualcosa più di vent’anni quando scattò il putiferio di Tangentopoli, quei dieci anni furibondi in cui venne distrutto il sistema partitico della Prima Repubblica e dunque cambiato alla grande il corso della nostra storia civile. 

Mi piacciono molto di questo libro i brani in corsivo, quelli in cui Filippo smette gli abiti dello storico/giornalista e diventa il narrante del sé stesso di allora, quando era un collaboratore esterno dell’ “Avanti!” diretto da Roberto Villetti e lo pagavano 25mila lire a pezzo pubblicato, e per giunta il più delle volte gli toglievano la firma affinché lui non campasse pretese ad essere assunto.

Erano del resto gli ultimi e stentatissimi anni del quotidiano socialista - come del resto di tutto l’universo socialista - il cui deficit stava diventando spaventoso e che pur tuttavia, al dire di Facci, pagava cifre esorbitanti i suoi collaboratori “di grido” nonché stipendi stellari. Per quel che mi riguarda  e siccome a quel tempo della mia vita sfioravo la casa socialista ed ero amico di Villetti, concordai e scrissi per il quotidiano socialista quattro pezzi. Che non mi vennero mai pagati.

Il fatto è che il Facci poco più che ventenne aveva a cuore la casa socialista pur non avendone favori né prebende, e mai un minuto è stato di quelli che il Bettino Craxi caduto in disgrazia fingevano di non averlo mai conosciuto. Tutto il contrario, lui non ha mai pensato un solo minuto che i magistrati d’accusa che fecero il bello e il cattivo tempo durante gli anni di Tangentopoli li avesse mandati a Iddio a correggere i vizi della gente. Tutto il contrario, lui fa shampoo barba e capelli ai tanti giornalisti che si occupavano di giudiziaria e che si misero in ginocchio innanzi ai magistrati d’accusa, il rude Antonio Di Pietro su tutti. 

Io non ho mai scritto una riga contro Di Pietro; di processi di colpevoli di innocenti non ne so abbastanza, non è il mio campo. Certo non ho mai scritto una riga ad adorarlo. Una volta che Di Pietro venne a una puntata di una trasmissione televisiva condotta da Piero Chiambretti, battibeccammo un istante. Lui aveva detto che gli imputati di Tangentopoli erano tutti dei malfattori, io gli obiettai se ritenesse un malfattore uno come Gabriele Cagliari, l’ex presidente dell’Eni che si suicidò in carcere il 20 luglio 1993 perché sfinito da una detenzione preventiva durata oltre quattro mesi. Non so se sia vero quello che qualcuno mi riferì, e cioè che gli autori della trasmissione non avevano gradito affatto che io contraddicessi Di Pietro.

Nel suo spassoso elenco di giornalisti “giustizialisti” Facci assegna il posto d’onore al quotidiano “L’Indipendente” allora diretto da Vittorio Feltri e di cui ero un collaboratore fisso. Quando vidi in televisione quel parlamentare/macchietta della Lega che agitava un cappio in direzione del Giuliano Amato capo del governo, subito telefonai a Vittorio dicendogli che volevo prendere le difese di Amato. Vittorio mi rispose che sarebbe stato felicissimo di pubblicare il mio pezzo, che mise in prima pagina. Accanto, e com’era nel suo pieno diritto, mise il pezzo di non ricordo più quale misirizzi che tirava calci negli stinchi ad Amato. Sì, era esattamente come scrive Facci, che nella buona parte dei giornali erano tenuti in palmo di mano i giornalisti della giudiziaria che si telefonavano ogni mattina con i magistrati d’accusa.

Sterminato è l’elenco delle piaggerie nei loro confronti documentate dal prode Facci. Sterminato è l’elenco di quel politici democristiani o socialisti o altro le cui imputazioni tuonavano dalle prime pagine dei giornali, e le cui assoluzioni per non avere commesso il fatto sonnecchiavano in basso a una paginetta del centro giornale. Sterminato è l’elenco delle anomalie procedurali e processuali di quel tempo in cui gli italiani “brava gente” si entusiasmavano al possibile nel vedere sbattuti in cella quei politici che un tempo erano apparsi onnipotenti. E a non dire dell’entusiasmo degli elettori dei partiti che avversavano i partiti degli inquisiti, a cominciare dagli elettori e simpatizzanti del Pci nel vedere Bettino Craxi e i craxiani sommersi dal fango delle accuse e dunque cancellati dalla prima linea della contesa politica.

Fu vera giustizia quella distruzione di una classe politica che aveva al suo attivo la ricostruzione democratica del Paese dopo i disastri della Seconda guerra mondiale? Sì o no la carcerazione preventiva venne usata come strumento di pressione sugli indagati affinché ne denunciassero altri? Sì no i magistrati d’accusa frugarono scrupolosamente nei retrobottega di alcuni partiti e molto meno in quelli di altri partiti? Sì o no il terremoto di Tangentopoli aprì la strada a rapporti più sani tra gli uomini dell’economia e gli uomini dei partiti?

A questa domanda lo stesso Francesco Saverio Borrelli aveva risposto qualche tempo fa di no, che Tangentopoli non aveva né sanato né migliorato alcuno dei parametri che governano il rapporto tra l’Italia dell’economia e l’Italia dei partiti. E  ammesso che quelli di oggi siano dei partiti per come noi eravamo abituati a intenderli durante la Prima Repubblica, per come noi eravamo abituati a conoscere gli uomini che avevano debuttato in politica negli anni Quaranta e Cinquanta. 

E non è un caso che quando leggiamo qualcosa che viene dai sopravvissuti di quelle generazioni, da un Rino Formica o da un Paolo Cirino Pomicino, e le paragoniamo con quello che ascoltiamo dai tanti che in tv fanno rumore con la bocca, ci vengono i brividi.

Mani Pulite non fu una rivoluzione ma guerra civile: le verità di Facci. Paolo Liguori su Il Riformista il 6 Luglio 2022. 

Guerra dunque, non rivoluzione, quella di Mani Pulite. Nessuna rivoluzione. Perché tutto nel potere giudiziario è rimasto come prima, anzi tra i rapporti tra i poteri, secondo il racconto che ne ha fatto Palamara, sono diventati ancora più confusi e torbidi. Quanto è stato scritto, detto, spiegato sull’epopea di Mani Pulite e i suoi protagonisti? Moltissimo, anche troppo. Sembra niente, a leggere il libro di Filippo Facci dedicato al tema.

“La Guerra dei Trent’anni” è il titolo e fa impressione per la scelta, il volume, la densità dei fatti narrati, la ridefinizione dei personaggi. Stiamo parlando di un’enciclopedia, di un lavoro monumentale, perfino sorprendente da parte di un giornalista, vista l’abitudine della categoria a scrivere instant-book, opere veloci, dedicate ad un singolo argomento, superficiali. In questo caso, si perdoni il paragone forte e irriverente, il contenuto ricorda più alcuni libri di Montanelli, che però scriveva in collaborazione con Gervaso e poi con Biazzi Vergani e Mario Cervi.

Filippo Facci, uno dei giornalisti più eclettici, ma apparentemente disordinati, ha fatto tutto da solo, anche per evidente mancanza di sodali. Ed ha scritto la sua Storia (di questo si tratta) con un lavoro  impressionante di ricostruzione di fatti, dettagli e persone. Non abbiate paura della mole di informazioni, vale la pena prendersi il tempo per leggere 7oo pagine scritte bene, anche per rendere omaggio all’autore che solo per le note divise per anno dal 1992, le fonti e l’indice dei nomi, pur con l’aiuto del computer non può averci messo meno di un mese. Come nella prima metà del ‘600 (1618-1648), una delle guerre più sanguinose si concluse con un riequilibrio precario dei poteri tra principi protestanti impero cattolico, così Mani Pulite viene definita da Facci una Guerra Civile tra i poteri dello Stato. Ma tanti cambiamenti significativi ci furono eccome: «la magistratura debordò e le Procure si attribuirono un ruolo di potere assoluto, l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, l’opinione pubblica debordò di conseguenza».

Facci ha scandagliato tutte le crepe di quel terremoto, senza risparmiare nessuno, sulla base dell’archivio del proprio lavoro di giornalista e collaboratore dell’Avanti. E l’aspetto più interessante è proprio quello che riguarda l’informazione, qui descritta con una lapidaria e assolutamente vera citazione di Indro Montanelli: «Gli storici avranno un serio problema. Non potranno attingere da giornali e telegiornali, perché i cronisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, il soffio della piazza. Volevano il rogo e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla».

Per chi, come me, ha vissuto nel fuoco delle polemiche quei primi anni, dalla direzione del Giorno, è una citazione da sottoscrivere senza riserve. E Facci ha il merito, con un lungo e certosino lavoro, di ricostruire una base di verità. Intanto, è l’unico, con una tesi inedita a mostrare come questa guerra di poteri inizia in Sicilia, prima che a Milano. E poi ripercorre la scalata delle Procure con minuziosa attenzione. Senza Facci, risulta poco spiegabile l’ascesa del modesto Palamara ai vertici di Csm e Anm.

Significativa la citazione di Piercamillo Davigo in una delle sue battute: «Con la Riforma, vi aspettavate Perry Mason e invece è spuntato Di Pietro». Di Pietro come simbolo ha funzionato per qualche anno, finché non si è schiantato in politica, ma intanto la Guerra dei Trent’anni continuava, proprio come quella reale: e gli Slovacchi e i Danesi e gli Svedesi e i Francesi. Gli episodi ricostruiti da Facci sono decine e affrontano la questione più interessante: il silenzio o, peggio, le menzogne interessate e servili dell’informazione. Per ogni episodio, potrete facilmente confrontare la ricostruzione di Facci con quanto credevate di conoscere e capirete.

Ma, tra tutti, un episodio vale la pena di citare, giudicato “minore” per il protagonista, ma per me gravissimo, perché si tratta di un suicidio e di una persona che ho conosciuto: Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Fu accusato falsamente sui giornali di aver preso una tangente di 400 milioni, si trattava di tutt’altro e Di Pietro faceva pressione per costringerlo a coinvolgere l’architetto Claudio Dini. Lui non resse e si uccise.

Scrive Facci, in sintesi: «Pareva complicata, ma era semplice. Renato Amorese, pur da morto, era divenuto la chiave per tenere in galera Claudio Dini. La dinamica era raggelante: Di Pietro aveva dato la notizia (falsa) secondo la quale Amorese era un semplice teste e non indagato; venti giorni dopo aveva dato la notizia (falsa) del ritrovamento di 400 milioni nelle cassette, mentre nello stesso giorno i giornali davano la notizia (falsa) dell’apertura delle cassette che in realtà erano ancora sigillate. E quei soldi, neppure trovati, erano diventati la giustificazione di un suicidio. Le cassette di sicurezza di Amorese vennero aperte il 16 e il 23 luglio, ma i soldi non c’erano. La notizia non comparve sui giornali. Neanche sul Corriere della Sera, che pure aveva scritto in prima pagina il contrario». “Mani Pulite, vite spezzate”, titolò il Giorno, dopo il suicidio di Primo Moroni. Filippo Facci spiega bene anche il senso di quel titolo.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Trent’anni dopo. Il trasformismo dell’onestà, il diritto come igiene e altri orrori nati con Tangentopoli. Carmelo Palma su Linkiesta l'8 aprile 2022.

Il libro di Filippo Facci (pubblicato da Marsilio) non è solo il diario di bordo personale di quegli anni, ma anche la descrizione del contesto (in senso sciasciano) in cui ebbe origine quella rivoluzione mancata, che ne spiega tanto il fallimento quanto l’eternizzazione.

Il nuovo libro di Filippo Facci – “La guerra dei trent’anni: 1992-2022. Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa” (Marsilio) – di anni, a dispetto del titolo, non ne racconta trenta, ma solo tre (1992, 1993, 1994). Sufficienti però per dimostrare che Mani Pulite non fu un regime change, né il punto di rottura tra un “prima” e il “dopo” della storia nazionale, ma una sorta auto-sovvertimento del sistema e della gerarchia dei poteri italiani, l’ennesimo ballo in maschera di un’epopea trasformistica, che ha accompagnato l’Italia dai suoi esordi unitari e che di certo non sarebbe potuta finire per mano di uno dei più straordinari campioni dell’arci-italianità, Antonio Di Pietro.

Se i libri su Tangentopoli sono diventati da tempo un genere letterario, Tangentopoli ha rappresentato da subito un genere politico e dal tintinnare delle prime manette, nel 1992, si è registrata una corsa grottesca a diventarne autori ed attori anche da parte leader e partiti (uno per tutti: Umberto Bossi), che sarebbero presto stati pizzicati dai loro beniamini giudiziari con le mani nella marmellata dei finanziamenti illeciti.

La retorica del “partito degli onesti” ha accompagnato da allora le evoluzioni della cosiddetta Seconda Repubblica fino al suo esito naturale: al trionfo dell’ò-né-stà grillina, cioè al rovesciamento delle istituzioni democratiche non dall’esterno, ma dall’interno, e alla liquidazione del sistema politico dei partiti come una sovrastruttura parassitaria e rinunciabile, per un immediato autogoverno popolare. Il compimento ideologico di Mani Pulite: i partiti come ladri non solo di soldi, ma anche di democrazia.

Il libro di Facci è una sorta di diario di bordo della sua personale traversata di quei tre anni assurdi e terribili, iniziati da cronista abusivo di un giornale ufficialmente “di ladri”, cioè L’Avanti, e terminati da autore di libri che nessuno pubblicava, ma che circolavano, suo malgrado, in forma di dossier anonimi. Però da questa cronaca esce anche un affresco realistico e convincente del contesto (in senso sciasciano: del viluppo inestricabile di relazioni e di ricatti), in cui ha preso avvio quella rivoluzione mancata e che ne spiegano tanto il fallimento, quanto l’eternizzazione. “Il tradimento di Mani Pulite” come “La “Resistenza tradita”; “Ora e sempre Mani Pulite” come “Ora e sempre Resistenza”.

Facci, a differenza di molti apologeti della Prima Repubblica, che invertono semplicemente le parti ai buoni e ai cattivi del copione delle procure, evita di raccontare la contro-storia della Repubblica più bella del mondo ammazzata da una magistratura brutta, sporca e fellona. Al contrario spiega molto bene, senza alcuna indulgenza, che ad essere aggredito da Tonino e dai suoi compagni d’arme era il corpo di una Repubblica economicamente collassata e politicamente svanita e alienata, che a Maastricht aveva firmato impegni che non avrebbero potuto essere mantenuti, senza svelare dolorosamente il bluff di una crescita e di un benessere drogati da deficit, debito e svalutazioni.

A partire dal 1992, le inchieste dilagano in un Paese in cui Amato e poi Ciampi devono fare manovre monstre per evitare il default: ne esce così confermata la diceria, propalata a piene mani da politici e gazzettieri di complemento, che l’Italia stesse fallendo perché qualcuno si era rubato i soldi. Un falso dopo l’altro, anzi un falso dentro l’altro. Non era vero che l’Italia era ricca quando si indebitava per mantenere un tenore di vita da “società signorile di massa”, come – ricorda Facci – l’avrebbe definita anni dopo Ricolfi. Ma non era neppure vero che le centinaia di migliaia di miliardi di sovra-indebitamento pubblico, che avevano pagato un patto sociale e un consenso democratico disfunzionale e insostenibile, fossero finiti nelle tasche dei politici. Erano finiti, banalmente, nelle tasche degli italiani; ma erano, per l’appunto, finiti.

Un altro merito e forse la maggiore originalità del libro di Facci è di incrociare le vicende giudiziarie di Tangentopoli con quelle delle inchieste contro la mafia di Falcone e Borsellino. Dal raffronto esce il paradosso di due storie che sembrano procedere esattamente al contrario. Da una parte una pesca a strascico che miete morti, feriti e vittime innocenti (metà degli inquisiti della Procura di Milano uscirà pulita dai processi), che non moralizza affatto la politica e che fa del finto moralizzatore Di Pietro l’uomo più famoso, amato e potente d’Italia. Dall’altra una strategia vincente, che dal maxiprocesso in poi porta alla disarticolazione di Cosa Nostra e che si conclude però con l’isolamento e la morte dei due principali protagonisti. Borsellino abbandonato nella gestione del dossier Mafia e Appalti, archiviato subito dopo la strage di Via D’Amelio. Falcone schifato dall’antimafia combattente, che ne avrebbe in seguito usurpato i titoli di nobiltà, e mascariato come lacchè andreottiano, dopo il suo trasferimento agli Affari Penali di Via Arenula, con l’allora ministro della giustizia Martelli.

Il bilancio di Tangentopoli è politicamente negativo. Ha rafforzato l’idea che la giustizia e lo stato di diritto non siano sinonimi e possano anche essere contrari, quando serve “fare pulizia” e che la tutela giudiziaria della politica sia un fattore, magari sgradevole, ma necessario, di igiene democratica. Dei due leader, a cui Facci riserva nel libro calorose parole di affetto e gratitudine, Craxi e Pannella, fu il secondo a definire icasticamente questo esorcismo, questo abracadabra trasformistico che avrebbe dovuto liberare l’Italia dal maligno del malaffare e della malapolitica e a svelarne la natura nichilista: se si accontenterà di «passare dal conformismo dei clienti alla rivolta dei pezzenti, che con rabbia vogliono solo distruggere il padrone di ieri, questo Paese si autodistruggerà», disse il leader radicale a Mixer il 1 febbraio 1993. È una frase che non è presente nel libro, ma che ne potrebbe essere l’esergo. Ed è una profezia molto precisa su quello che sarebbe accaduto nei trent’anni successivi.

Esce oggi “La guerra dei trent’anni” (Marsilio) e l’autore, Filippo Facci, anticipa per noi una sintesi e i temi principali del libro. Una ricostruzione di “mani pulite”, inchiesta che terremotò l’Italia. Da “Libero quotidiano” il 7 aprile 2022.

Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - ci furono le «elezioni terremoto» che secondo molti fecero da detonatore alla «rivoluzione» di Mani pulite, e secondo altri - sempre meno - originarono una Seconda Repubblica. 

A ripensarci, però, non fu una scossa così violenta, anche se i risultati furono clamorosi: la Dc scese al minimo storico (dal 34,3 al 29,7 per cento) con perdite eccezionali nel Nord-Est (-12 per cento nelle province di Verona e Padova; -18 in quella di Vicenza) e il Psi non cavalcò nessuna onda lunga, ma flesse dal 14,3 al 13,6 per cento: il quadripartito che aveva sostenuto il precedente governo Andreotti (Dc-Psi-Psdi-Pli) mantenne una risicata maggioranza, e il nuovo Pds erede del Pci, che aveva appena cambiato nome dopo la caduta del muro di Berlino, si attestò sul 16,6 per cento con la nuova Rifondazione comunista che non superò il 5,6 per cento. 

Ma un discreto successo ottenne La Rete, il movimento di Leoluca Orlando che puntava tutto sulla retorica antimafia (dodici deputati e tre senatori) e poi la vera trionfatrice: la Lega Nord di Umberto Bossi, personaggio che andava a letto alle 8 del mattino e si svegliava alle 6 di sera: dallo 0,5 per cento balzò all'8,7 nazionale (55 deputati e 25 senatori) e colonizzò il settentrione con il 25,1 per cento in Lombardia, 19,4 in Piemonte, 18,9 nel Veneto, 15,5 in Liguria e 10,6 in Emilia-Romagna.

Bettino Craxi raccolse 94mila preferenze, Bossi 240mila. Il partito «razzista» passò dalle salsicce di Pontida (dove nel Medioevo fu costituita la Lega lombarda dei comuni contro Barbarossa) a una truppa di parlamentari dapprima guidati in «tour» per conoscere la Capitale e distoglierli dalle tentazioni della grande meretrice. Il responsabile amministrativo, Alessandro Patelli, organizzò un pulmino per i deputati e mise in piedi un convitto dove dimoravano tutti gli eletti che la sera facevano gruppo e formazione. Anche la sola uscita in un ristorante della Capitale era considerato potenzialmente corruttivo e invischiante.

A titolare «Elezioni terremoto» fu soprattutto il Corriere della Sera, capofila di una stampa che in generale aprì un fuoco di fila contro la maggioranza. La sera dei risultati ci fu una prima telerissa (sensazionale, per l'epoca) fra il direttore del Tg1 Bruno Vespa e il segretario repubblicano Giorgio La Malfa. L'antipolitica montava soprattutto in tv. Su Raitre c'era Gad Lerner con il suo Profondo Nord poi diventato Milano, Italia, su Italia Uno c'era Gianfranco Funari con Mezzogiorno italiano, intanto Michele Santoro faceva sempre grandissimi ascolti: anche se nelle settimane preelettorali il direttore generale della Rai gli chiuse la trasmissione per quindici giorni: da immaginarsi che cosa ne venne fuori. Il 13 gennaio di quell'anno era anche partita l'era dei telegiornali Fininvest, che sostenevano l'inchiesta mani pulite più della Rai: Silvio Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano, non ebbe niente da eccepire.

Una settimana prima, il 30 marzo, l'indagato socialista aveva «confessato» al «gabbiotto», una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio di giustizia. C'erano settanta persone tra giornalisti, cameraman e fotografi, e si sentì tutto, perché avevano aperto una finestrella laterale: «Non chiedetemi più nulla di quelli lì, basta», disse Chiesa, «M'avete rotto i coglioni con quel nome». Il nome era quello di Vittorio «Bobo» Craxi, il cui padre era candidato alla presidenza del Consiglio. 

Ancor oggi si tramanda che Chiesa avesse confessato perché Craxi il 29 febbraio lo aveva definito «mariuolo»: ma non è vero, e lo dimostra una lettera di Chiesa che il libro La guerra dei trent' anni pubblica integralmente. Chiesa, infatti, non fece mai il nome di nessun Craxi. Molte cose non sono vere: anche la favola dell'imprenditore monzese che si offrì volontario per incastrare Mario Chiesa in flagranza di reato: in realtà fu costretto a farlo - perché aveva pagato tangenti - ma dapprima non aveva intenzione di denunciare nessuno, e si ritrovò suo malgrado a fare da infiltrato, anche perché la sua Ilpi, impresa di pulizie, stava fallendo, e infatti fallirà: dovrà pure difendersi dall'accusa di bancarotta fraudolenta.

Ancora nel 2012 raccontava: «Di Pietro era il pubblico ministero di turno, quella mattina: se non ci fosse stato lui, ma un altro, forse le cose sarebbero andate in un modo diverso». Disse pure che Di Pietro votava per il Msi. Non è neanche vero che Mario Chiesa cercò di occultare i 7 milioni della tangente nel water del suo ufficio, tirando lo sciacquone: non esiste infatti nessun atto o verbale che attesti il tentativo e in ogni caso riguardava un'altra tangente pagata dall'impresa che aveva ritinteggiato l'intero stabile, la Carobbi: a rivelarla fu lo stesso Chiesa.

Non è neppure vero che l'inchiesta Mani pulite aveva atteso le elezioni del 5 aprile per trasformarsi in rivoluzionaria: aveva cominciato prima, anche senza consenso popolare. Tre giorni prima del voto il gip «unico» Italo Ghitti aveva già detto che «il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». 

Sulla funzione anomala del gip «unico» si è già espresso definitivamente Guido Salvini, magistrato insospettabile che passò quegli anni proprio all'ufficio gip: Ghitti - racconterà - accentrò indebitamente tutti filoni di quell'indagine che evitò così di confrontarsi con posizioni e scelte di una ventina di giudici. Il fascicolo di Mani pulite non era neanche un fascicolo, ma un registro che riguarderà migliaia di indagati per vicende tra loro completamente diverse, unificate solo da numero (8655/92) esteso anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva.

Così, ancor prima del 5 aprile 1992, con o senza consenso e «dipietrismi», cominciò una nuova fase giurisprudenziale: ogni reato ipotizzato sarà inquadrato nell'affiliazione a un sistema, e la pretesa dimostrazione che l'indagato ne avesse fatto parte basterà a giustificare il protrarsi della galera preventiva. Chi parlava e denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema, come i pentiti con la mafia.

Quello che è vero - a proposito di mafia - è che la vera rivoluzione giudiziaria in realtà nacque al Sud, o avrebbe dovuto farlo. La prima vera bastonata alla vecchia Repubblica, infatti, coincise con la prima vera bastonata alla mafia, piaccia o meno l'accostamento: e sarà il preludio, per Cosa nostra, dei suoi ultimi e terribili colpi di coda; parliamo dell'omicidio di Salvo Lima e del dossier «mafia-appalti» che- è acclarato - fu la vera causa delle stragi che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in una terra dove Mani pulite preferì non mettere becco nonostante un sistema che vedeva sedute al «tavolino» politica, imprenditoria e criminalità organizzata. Lo strumento chiave di Mani pulite - il carcere preventivo - avrebbe fruttato ben poche confessioni, anche perché qualsiasi cella, se l'indagato avesse aperto bocca, sarebbe stata preferibile alle pallottole mafiose che potevano attenderlo una volta scarcerato.

«Parlare», al Nord, equivaleva a uscire da un sistema; al Sud equivaleva a entrare al camposanto. L'informativa «Mafia-appalti» era già nelle mani di Giovanni Falcone il 20 febbraio 1991. Il 15 marzo Falcone disse «la mafia è entrata in borsa». Paolo Borsellino, pochi giorni prima di morire, fece in tempo a farsi dire che i soldi di Totò Riina era confluiti in una grande azienda italiana: che no, non è la Fininvest. I verbali sono nel libro.

Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - la rivoluzione giudiziaria era appena nata. Neanche un anno dopo, la composizione del sesto raggio di San Vittore sarebbe stata la seguente: 

cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa; 

cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore; 

cella numero 3: Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat; 

cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli; 

cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese;

cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell'Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia; 

cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore; 

cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia. 

Almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. Poco più di due anni dopo, il 21 novembre 1994, qualcuno - una donna, come si racconta ancora nel libro - passerà a un cronista del Corriere della Sera il mandato di comparizione per Silvio Berlusconi, presidente del consiglio di stanza a Napoli per un convegno sulla criminalità.

E spariranno cinque partiti storici: la Democrazia cristiana (nata nel 1943), il Partito socialista italiano (1892), il Partito socialdemocratico italiano (1947), il Partito repubblicano italiano (1895) e il Partito liberale italiano (1922). La cinetica dell'inchiesta spazzò via anche la vecchia legge sul finanziamento pubblico e il sistema elettorale proporzionale. Benché quei partiti, oltre a foraggiare se stessi e il Paese, forse contribuirono anche a tessere quel poco tessuto civico che avevamo. 

Dagospia l'8 aprile 2022. Da «La guerra dei trent’anni, 1992-2022» di Filippo Facci, Marsilio, in libreria da oggi:

A carico di Silvio Berlusconi, il 21 novembre 1994, la procura opto per un «invito a comparire per persona sottoposta a indagine» (non un avviso di garanzia, come dicono ancora oggi) secondo l’articolo 375 del Codice di procedura penale: in pratica era un appuntamento obbligato per essere interrogati. Una convocazione. 

A scriverlo materialmente fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d’imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio e importante, perchè la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima. 

Il procuratore capo Borrelli diede un’occhiata al provvedimento prima di passarlo a Davigo affinchè procedesse all’iscrizione nel registro degli indagati. Poi Di Pietro parti per Parigi, si vedrà più avanti perchè: probabile, tra l’altro, che volesse sottrarsi a ogni sospetto in caso di fuga di notizie, perchè null’altro avrebbe giustificato una sua assenza in un momento del genere.

Dopodiche, eccezionalmente, Davigo scelse di non fidarsi del consueto passaggio dalla cancelleria (dove circolavano sempre una decina di persone) e decise che l’iscrizione dell’indagato dovesse passare dal computer del suo ufficio, che pero – si accorse – non era abilitato a quel genere di registrazioni. Allora si rivolse al capo della cancelleria e chiese se poteva mandargli un ingegnere per modificare il programma; cosi fu, anche se, tra una cosa e l’altra, se ne andò un’ora e mezza. I cronisti lo notarono.

Era quasi mezzogiorno e in corridoio, d’un tratto, transitarono rispettivamente il comandante regionale e quello provinciale dei carabinieri, Nicolo Bozzo e Sabino Battista, agghindati con la mantella di gala perchè probabilmente strappati a qualche cerimoniale. Alcuni giornalisti notarono anche loro. Gianluca Di Feo fece una prima telefonata al suo capocronista, Alessandro Sallusti, e gli disse che aveva notato movimenti strani. E vabbè, movimenti strani.

Si videro anche a pranzo. Il suo collega Goffredo Buccini aveva fama di apprensivo sino alla paranoia, ma Di Feo aveva invece posture da «mitomane», o perlomeno fu questa l’espressione che Buccini aveva utilizzato nel lamentarsene con il suo capocronaca: «Quando Ettore Botti mi ha comunicato che sarebbe stato il mio secondo», scriverà Buccini, «ho storto la bocca: le poche volte che ci eravamo parlati si atteggiava a segugio d’inchiesta e sosteneva di essere talvolta pedinato da qualcuno». 

Comunque i due alti ufficiali stavano andando da Borrelli, il quale, dopo i saluti di rito, chiese loro dove si trovasse quel giorno il presidente del Consiglio. Gli risposero che era a Napoli, ma che nel pomeriggio, per quanto sapevano, sarebbe rientrato a Roma. In realtà non c’era bisogno di convocare quegli alti ufficiali personalmente: fu un modo per responsabilizzarli in vista del delicato incarico che senza dubbio rappresentava recapitare a un presidente del Consiglio quella busta gialla, l’invito a comparire.

Il quale riemerse dal suo ufficio attorno alle 14 e accompagno gli alti ufficiali all’ascensore. Qui incrociarono ancora Gianluca Di Feo del «Corriere», figlio di un carabiniere ed esperto di cose di carabinieri: il quale, cortesemente e con la sua voce garrula, chiese quale gradevole ragione avesse portato i due alti ufficiali a transitare proprio da quelle parti.

Davigo rispose motivando la presenza dei due con una frettolosa cazzata: era il giorno della Virgo Fidelis – disse – patrona dell’arma dei carabinieri; ma Di Feo, da secchioncello, fece notare che durante la festa della Virgo Fidelis erano i magistrati che andavano in caserma dai carabinieri, non viceversa. Piccolo imbarazzo. E piccolo segnale, ma solo uno dei tanti, uno dei tantissimi che da settimane allertavano i giornalisti dopo il «preavviso» a Berlusconi annunciato da Borrelli nell’intervista del 5 ottobre. La gaffe sulla Virgo Fidelis verrà venduta come intuizione geniale, anche se da sola contava sino a un certo punto. 

I due ufficiali intanto, per via gerarchica, avevano passato la busta gialla al tenente colonnello Emanuele Garelli e al maggiore Paolo La Forgia, subito partiti per Roma vestiti in borghese e con un’auto con targa civile. La Forgia aveva già recapitato avvisi di garanzia a Bettino Craxi, al repubblicano Ugo La Malfa e al liberale Renato Altissimo, tre segretari di partito.

In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l’invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di «Avvenire». Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. Tutto il resto – gli ufficiali, il tecnico dei computer, mille altri dettagli – apparteneva alla sfera del sempiterno clima di preallerta che da settimane regnava tra cronisti ormai ipertesi.

Piu tardi, alla macchinetta del caffe, Davigo incontro ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell’«Avanti!» che era passata all’agenzia Adnkronos; parlarono ancora dei due ufficiali, e Davigo si lancio in un elogio del comandante Bozzo, del quale – disse – in procura si fidavano ciecamente. Quel suo volerlo sottolineare rafforzo altri sospetti. 

Con i soli sospetti, pero, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d’appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo. Il pool dei giornalisti, in quel periodo, si era ormai sfaldato e marciava stancamente, impigrito, diviso in base più ad amicizie personali che alla necessita di coprire le poche notizie che circolavano.

Buccini i primi di ottobre era stato promosso inviato e Paolo Mieli l’aveva addirittura trasferito a Roma (in albergo, per cominciare), si era quindi sganciato dalla cronaca di Milano e un po’ anche dal vecchio sodale Peter Gomez, passato intanto dal «Giornale» alla «Voce»; i cronisti della «Repubblica», del «Corriere» e della «Stampa» andavano sufficientemente d’accordo tra loro (Colaprico e Fazzo nella prima, Di Feo e Buccini nel secondo, Fabio Poletti nella terza) e poi, su un apparente altro fronte, c’era il solito Paolo Colonnello del «Giorno», affiancato dall’intelligenza timida e incattivita di Luigi Ferrarella, entrambi finalmente liberi dalle vessazioni dell’ex direttore Paolo Liguori.

Poi c’erano due grandi amici, Renato Pezzini del «Messaggero» e Paolo Foschini di «Avvenire»: Foschini era un educato e pigro pischello che nel suo primo giorno nella sala stampa del tribunale era stato accolto quasi con tenerezza, guidato in un tour in procura da Michele Brambilla del «Corriere» e appunto da Renato Pezzini, con cui lego molto. Poi c’era qualche eccezione solitaria e altri un po’ a rimorchio. 

Foschini aveva un discreto rapporto anche con Gianluca Di Feo del «Corriere» e tanto gli basto per tentare un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su «Avvenire». Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo e gli rivelo che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite.

Di Feo si disse d’accordo, accetto almeno formalmente: facile che pero immaginasse già tutto un altro film che tra i protagonisti non prevedeva testate concorrenti, neanche un peso piuma come «Avvenire»: corse dal capocronista Alessandro Sallusti e rivendette la notizia come solo sua; di Foschini non fece alcun cenno. Berlusconi era indagato e urgeva la presenza di Goffredo Buccini perchè aveva – era noto – una talpa particolare in procura che poteva rivelarsi decisiva. Foschini, invece, allerto l’amico Pezzini del «Messaggero» che quel giorno era fuori Milano per servizio.

Buccini intanto era «sul pezzo» come poteva esserlo uno che era stravaccato su una poltrona a intervistare Ignazio La Russa, a Roma. La telefonata di Di Feo lo riporto dal torpore capitolino alla consueta iperagitazione da cronaca giudiziaria: s’involo per Milano senza neppure ripassare dall’albergo e preallerto – o fece preallertare, più probabilmente – la sua fonte in procura, una donna che in precedenza non si era dimostrata insensibile al fatto che lui fosse un uomo, un rapportarsi che non era un segreto assoluto.

L’invito a comparire intanto stava per giungere nella capitale. 

Buccini atterro a Milano verso le 19 e passo direttamente dalla sua fonte «al solito posto», vicino alla procura. I colleghi si erano già salutati ed erano tornati nelle rispettive redazioni a scrivere oppure a non farlo. La fotocopia, o stampata che fosse, fu finalmente nelle sue mani, anche se alla fine era un foglio solo: il primo di quattro, ma questo lui non poteva saperlo. For- se era stata stampata in un solo foglio per errore o per fretta, vai a sapere. Buccini riapparve in redazione verso le 20.30 e intanto era tornato anche il direttore Paolo Mieli, rimasto fuori tutto il giorno – pur aggiornato per telefono – e reduce dalla presentazione di un libro.

Gli ufficiali dei carabinieri intanto erano giunti a Palazzo Chigi – erano ormai le 19.30 –, ma Berlusconi non lo trovarono: c’era solo un consigliere diplomatico che chiamo il sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta, che a sua volta chiamo Berlusconi il quale non si era mai mosso da Napoli. Verso le 20, gli ufficiali chiamarono Borrelli per sapere che cosa dovevano fare. 

Il procuratore, il quale aveva ricevuto un’ansiosa telefonata di Buccini a cui aveva risposto picche, aveva fretta che Berlusconi sapesse del provvedimento (figurarsi che cosa sarebbe successo se la notizia fosse trapelata prima della notifica) e li autorizzo a telefonare al Cavaliere per leggergli l’atto, cosa di cui si incarico il comandante Emanuele Garelli.

La chiamata, pero, duro meno di un minuto, perchè stava per cominciare il concerto di Pavarotti al teatro San Carlo. Berlusconi capi soltanto che c’erano grane in vista. Rimandarono a più tardi, e fu il Cavaliere a richiamare alla fine del concerto, verso le 23: si sorbi la lettura solo della prima pagina, perchè a un certo punto si stufo, e, seccato, diede appuntamento agli ufficiali per l’indomani, a Palazzo Chigi, alle 14.

Intanto, al «Corriere», Gianluca Di Feo viveva la sua ansia da tradimento e Goffredo Buccini viveva la sua ansia e basta. Mieli, in ogni caso, faceva la parte del direttore a cui nessuna conferma poteva bastare: in sostanza lo «scoop» di Buccini e Di Feo consisteva nella pubblicazione di una carta giudiziaria incompleta prima che degli alti ufficiali la consegnassero completa al destinatario, consistette nell’averla anticipata di qualche ora prima che il destinatario la rendesse nota comunque, consistette nell’aver impedito che il destinatario potesse gestirla mentre il nostro paese aveva puntati addosso gli occhi del mondo, consisterà – ma di questo il «Corriere» non ha colpa diretta – in una robusta spallata che quantomeno favorirà la caduta di un governo, consisterà nell’inizio di un procedimento penale che condurrà l’indagato a un’assoluzione per non aver commesso il fatto.

E consisterà in uno «scoop» che nei libri di Bruno Vespa, non per sua colpa, sarà descritto come la scoperta dello scandalo Watergate con tanto di inesistente «gola profonda» (che era un comandante generale della vicina caserma di via Moscova, che si limito a rassicurare Di Feo senza dirgli nulla) e sarà descritto prefigurando inesistenti e tenebrosi incontri in improbabili parcheggi sotterranei come in Tutti gli uomini del presidente con Robert Redford e Dustin Hoffman, quando invece la fonte primigenia era una donna che lavorava in procura, la quale aveva allungato una fotocopia a Buccini, anche se lui per anni parlerà di una «una fonte molto qualificata» che gli aveva confermato la notizia.

La notizia, dunque, fu scoperta da Paolo Foschini, non dal «Corriere», che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunche. Foschini fu sostanzialmente tradito dall’amico Di Feo e le «conferme» alla fine furono le seguenti: 1) un foglio passato da una femmina non estranea ai propri sentimenti che forni una sola fotocopia su quattro; 

2) una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che «mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente», anche se un’altra fonte sostiene che la risposta fu: «Come si permette di chiamarmi a casa e farmi questa domanda, non si permetta più di fare una cosa simile»;

3) poi un’altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente – questo almeno ha scritto Davigo in un suo libro – o che, secondo un’altra fonte, rispose cosi: «Ma le sembrano cose di cui parlare con un magistrato?». Clic; 

4) a questo aggiungiamo le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono «smentite non convincenti», perchè ormai al «Corriere» si basavano su questo: su quanto le smentite fossero «non abbastanza convincenti» o su quanto le smentite non fossero abbastanza smentite. Entrambi i giornalisti registrarono dei nastri con tutte le telefonate. Mieli non sembrava convinto per niente;

5) ma poi, verso le 23, Gianluca Di Feo fece un’ultima scappata in via Moscova, da un comandante dei carabinieri amico suo a cui fece una scena madre dicendogli che, se avesse sbagliato l’articolo, sarebbe stato rovinato per sempre, la sua famiglia sarebbe stata coperta di ridicolo, avrebbero chiuso il «Corriere»... cose del genere. In pratica chiese all’ufficiale di fermarlo prima che fosse troppo tardi. 

L’ufficiale diede a Di Feo una pacca sulla spalla e gli rispose soltanto: «Gianluca, vai a casa, sai che ti voglio bene». E questa e una frase che in via Solferino ritennero fondamentale, perchè, se la notizia fosse stata falsa, il generale amico avrebbe reagito diversamente. E lecito pensarlo, quell’uomo era un amico storico e familiare di Di Feo e l’amicizia era importante: anche se, forse, da principio l’aveva pensato anche Paolo Foschini. 

Di Feo tuttavia trasformerà quella banale «conferma» ottenuta nella caserma in via Moscova (e che era molto più conferma di tutte le altre messe insieme) in una serie di oscuri dialoghi telefonici con un’inesistente «gola profonda» di cui saranno infarciti i libri di Bruno Vespa. 

Nel contempo in via Solferino si era creato un surreale doppio binario: ai piani superiori c’erano il caporedattore Antonio Di Rosa, il vicedirettore Giulio Giustiniani e il vicecaporedattore centrale Paolo Ermini (non e chiaro se ci fosse anche il vicedirettore Ferruccio de Bortoli) i quali erano all’oscuro di tutto e avevano già disegnato una prima pagina senza la notizia su Berlusconi; mentre al piano inferiore, nella stanza chiusa del capocronista Alessandro Sallusti, assieme a lui c’erano Di Feo, Buccini e Mieli che preparavano un’altra prima pagina con l’ausilio di quello che in gergo si chiamava «proto», un tecnico di composizione tipografica.

Ma se l’atmosfera si stava facendo pesante non era solo per la tensione: era già da un po’ che i colleghi della giudiziaria avevano cominciato a chiamare per il consueto giro delle telefonate serali. Alle 21 aveva chiamato anche Foschini a cui Di Feo aveva risposto: «Nessuna novità». L’«Avvenire» di Foschini chiudeva prima degli altri perchè alle 23 andava già in stampa. Aveva chiamato anche Peter Gomez della «Voce», che per Buccini era più di un fratello: avevano fatto la scuola di giornalismo insieme, scritto libri a quattro mani, stretto alleanze di ferro quando il pool dei giornalisti non esisteva, avevano condiviso e sognato la stessa professione e, ora, lo liquidava con un secco: «Nessuna novità».

Gomez, proprio in quei giorni, stava aiutando Buccini e Di Feo a riaprire un canale con Di Pietro, che con il «Corriere» non aveva più voluto parlare dopo che l’amico Goffredo aveva raccattato una letteraccia amarissima che Di Pietro aveva scritto il giorno prima che morisse sua madre, a Vasto, dove Buccini oltretutto era andato facendo da autista a Davigo e Colombo: poi il Tonino sofferente aveva deciso di non farne più nulla e di non rendere pubblico quello sfogo di un momento troppo intriso di dolore privato, ma Buccini era riuscito a recuperare la bozza e l’aveva pubblicata sul «Corriere».

Strano che Di Pietro non volesse più parlargli. Ora Gomez si stava facendo in quattro per ricucire il rapporto, e ora pero drin, «Nessuna novità». Buccini la fama un po’ da stronzo ce l’aveva sempre avuta, Di Feo stava facendo un apprendistato con il turbo. Ora eccoli li, nel cabinozzo di Sallusti con i loro cellulari che suonavano e trillavano e loro ormai che non rispondevano più. Ma le telefonate continuavano, e più loro non rispondevano e più i trilli sembravano insistere, animarsi, pesare come sensi di colpa. 

Se ne accorsero anche Mieli e Sallusti. Nel libro Il duello di Bruno Vespa, tra le fantasticherie di Gianluca, c’è anche un passaggio che prefigura un Di Feo che fuori tempo massimo ha «un problema di coscienza» e spiega a Mieli che «ritiene che tra i colleghi degli altri giornali solo Foschini abbia capito che i giudici abbiano tirato l’affondo finale a Berlusconi». Lo ha «capito». E quindi «chiede a Mieli se può informarlo». Il direttore risponde di no, ora e tutto chiaro: lo stronzo e Mieli. Invece, nel libro di Buccini del 2021 sul trentennale di Mani pulite Foschini non viene neppure nominato.

Ecco infine la prima pagina, finita, approvata, quella vera: titolo di spalla (a destra del giornale) a sei colonne: Milano, indagato Berlusconi. Cosiddetto «catenaccio» o sottotitolo: «E l’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza». Si parlava di due soli capi d’imputazione perchè avevano avuto appunto un foglio solo (del quale Buccini e Di Feo peraltro negarono l’esistenza per anni, nei loro racconti romanzati) e circa la mancanza della terza imputazione, ancora nel 2021, Buccini spiegherà che su quella terza notizia «ci abbiamo messo le orecchie ma non gli occhi. Per eccesso di prudenza, sfumiamo». Certo, si.

Buccini si spingerà oltre: «Il fatto che proprio in quelle ore Berlusconi non lasci completare ai suoi interlocutori telefonici l’elenco delle accuse, chiudendo la comunicazione con i carabinieri proprio prima che quelli arrivino a citargli Videotime, induce alcuni astuti esegeti a fare due più due, producendo la straordinaria teoria che sia proprio lui la nostra fonte decisiva, cosi da potersi atteggiare a vittima la mattina dopo. Una tesi ovviamente sostenuta con qualche interesse anche da molti colleghi di altri giornali». 

Gli astuti esegeti, a dire il vero, sono i magistrati di Milano. Quella era la tesi della Procura di Milano e lo e ancora oggi. Dira Davigo: «Noi eravamo gli ultimi ad avere interesse che la notizia uscisse in quei tempi e in quei modi, essendo facilmente prevedibile l’uso che si sarebbe fatto di quella sciagurata fuga di notizie. Io resto convinto che la conferma al Corriere l’abbia data qualcuno dell’entourage di Berlusconi».

Chiesero a Borrelli nel 2010: «Davigo e convinto che la conferma dell’invito a comparire il «Corriere della Sera» l’abbia avuta dall’entourage di Berlusconi. E lei?»; Borrelli: «Si, questa e la convinzione che abbiamo tutti. Noi pensiamo che la conferma decisiva al «Corriere della Sera» l’abbiano data o l’indagato o ambienti vicini all’indagato». 

Quella sera ormai tarda il dado era comunque tratto: Mieli consegno la prima pagina autentica e raccomando che non fosse mandata ai tg della notte per le rassegne stampa, e di non fare la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma. Ma dimentico di dirlo ai suoi ragazzi.

Poi tutti alla Libera in via Palermo, li vicino, pizzeria che ai tempi aveva il pregio di chiudere tardissimo e oggi e un ristorante che chiude banalmente a mezzanotte. Mieli fece discorsi dapprima un po’ paranoici: «C’erano dei timbri sulle fotocopie? Perchè con i timbri vuol dire che il provvedimento e stato notificato alla presenza di un cancelliere; se invece non ci sono, vuol dire che il documento non e ancora passato in cancelleria»; «Mi pare di no, non mi ricordo». Allora poteva essere un falso, una trappola costruita per fottere il Corriere.

Per rallegrare l’ambiente, Mieli rievoco il caso di Marina Maresca, una cronista dell’«Unita» che nel 1982 aveva pubblicato dei documenti attribuiti al Ministero dell’interno dove si parlava di trattative tra i servizi segreti, le Brigate rosse, il boss della camorra Raffaele Cutolo e dei politici democristiani che volevano liberare l’assessore Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br: documenti che poi si rivelarono falsi, tanto che Marina Maresca fu arrestata, licenziata dal giornale e processata. Bene, altri argomenti? Mieli peraltro continuava a dire che non sapeva se avvertire o no l’avvocato Agnelli, l’editore del «Corriere».

Ultima parentesi: ci sarà chi sosterrà che Mieli stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato. Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d’appoggio cosi scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe.

Dirà il leghista Roberto Maroni in data 14 luglio 1998, intervistato dalla Prealpina: «Finora ho taciuto, ma Scalfaro seppe del provvedimento non il 21 novembre... ma prima. Qualche giorno prima. Me lo rivelo lui stesso. Nell’inverno del 1994 io ero di casa sul Colle. Scalfaro mi disse che Borrelli, con il quale aveva un franco rapporto di amicizia, l’aveva messo al corrente dell’iscrizione del premier nel registro degli indagati. Quando? Non mi preciso una data esatta. Tuttavia, sicuramente qualche giorno prima che s’aprisse la conferenza di Napoli».

Ed è vero che l’iscrizione nel registro degli indagati avvenne solo il giorno 21: ma il giorno fu senz’altro stabilito prima.

Erano le 2 passate del 22 novembre quando alla Libera di via Palermo il consumato attore Paolo Mieli cambio improvvisamente registro e passo a tutt’altro film. Era il film degli uomini soli prima che scocchi l’ora decisiva. Il film degli eroi stanchi prima dell’ultima carica. Perchè noi, vedete, «siamo giornalisti, e il nostro mestiere». Orgoglio. Commozione. Addirittura abbracci. 

Mieli lascio il ristorante per primo. Gli altri tre passarono dalla solita edicola di corso Buenos Aires, ma il «Corriere» pero non c’era. Mieli si era dimenticato di dire loro che la prima edizione sarebbe saltata. Nessun altro giornale comunque riportava la notizia, e questo si prestava a una doppia interpretazione. Alle 3, infine, a casa.

Gianluca Di Feo torno nel suo appartamento di via Paolo Sarpi: a Bruno Vespa racconterà che preparo una borsa per il carcere e che dentro mise anche una Bibbia, una raccolta di novelle di Pirandello e delle scatolette di tonno. L’ansiogeno Buccini, invece, aveva già spedito fuori casa la moglie e la figlioletta, ma di star solo non aveva voglia: divenne un problema di Sallusti, perchè Buccini si autoinvito a casa sua in via Uberti, in zona Porta Venezia. Nottata in bianco. Sigarette. Ansia contagiosa. Pessimismo cosmico.

Alle 5.40 Gianni Letta chiamo Berlusconi e gli disse che il «Corriere della Sera» aveva titolato come sappiamo.

Le prime conferme giunsero quando Mieli chiamo Sallusti: gli riferì che il Quirinale aveva confermato la notizia. Sempre il Quirinale. Il problema di avvertire Agnelli lo aveva risolto direttamente Berlusconi che aveva chiamato l’avvocato a New York (tre volte) quando li dovevano essere le 2. Pero poi Agnelli aveva chiamato Mieli.

I tre giornalisti del «Corriere» avevano pensato che, in caso di interrogatori, ritenuti certi, Sallusti sarebbe stato sentito per ultimo e che i nastri e la fotocopia li avrebbe tenuti lui. Sallusti chiese alla moglie, Elisabetta Broli, di nascondere tutto in un posto sicuro. Buccini e Di Feo, in effetti, vennero interrogati in mattinata dai carabinieri di via Moscova. Nel pomeriggio tocco invece a Sallusti in veste di testimone, trucchetto che serve per non avere avvocati tra le scatole. 

Si appello al segreto professionale come gli altri due, pero a un certo punto fu parcheggiato in una stanza a meditare, una cordiale forma di pressione: e la cosa si fece un po’ lunga. Abbastanza da spaventare l’irrequieto cronico, che decise di chiamare la moglie di Alessandro, perchè temeva che potessero perquisirle la casa. Lei rispose e cerco di tranquillizzarlo: disse che stava portando il materiale fuori citta e che si era soltanto fermata un attimo da una parrucchiera vicino a casa, in Porta Venezia.

All’ansiogeno non poteva bastare. In un nanosecondo era già dalla parrucchiera: si fiondo dentro urlando «Dov’e?, dov’è?», per poi mettersi a frugare nella borsa di Elisabetta in cui trovo ed estrasse una specie di malloppo. Nell’insieme, una scena da tarantolato che spavento a morte la proprietaria del negozio la quale stava quasi per chiamare il 113. Elisabetta cerco di spiegarle che si trattava di un giornalista, che non era un drogato e che nel fagotto non c’era droga, anche se l’invasato non aiutava, perchè intanto se n’era andato nel bagno del retrobottega e aveva gettato tutto in un water dopo avergli dato fuoco, compresi i nastri magnetici altamente infiammabili: il water erutto come il Krakatoa. 

Renato Pezzini del «Messaggero» telefono a Sallusti, suo amico di vecchia data, e gli disse che era un figlio di puttana: il loro rapporto non si ricuci mai. E la stessa espressione che uso con Di Feo, specificando che in passato aveva pensato che a esserlo fosse solo il suo compare. Insomma la prese bene. Luca Fazzo della «Repubblica» chiamo l’amico Di Feo e gli fece i complimenti «come professionista», ma aggiunse che «come amico sei uno stronzo, i conti li facciamo dopo». Paolo Foschini fu visto molto intristito.

Leggenda vuole – anzi, diversi cronisti lo credono ancora oggi – che Foschini venne poi assunto al «Corriere della Sera» in segno di risarcimento per l’ingiustizia patita. Niente porta a

crederlo. Anzitutto, con l’amico Pezzini, passo più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza. Poi si, la cronaca di Milano del «Corriere» aveva bisogno di un nuovo cronista polivalente da assumere: ma Gianluca Di Feo non indico Foschini, indico Luca Fazzo della «Repubblica». 

E Fazzo avrebbe anche potuto accettare, ma alla «Repubblica» lo vennero a sapere e gli offrirono un milione di lire in piu e il grado di inviato. Fazzo resto alla «Repubblica». Allora Michele Brambilla del «Corriere», l’ex cronista che all’inizio di Mani pulite aveva affiancato Buccini prima di tirarsi indietro e lasciare il posto proprio all’implume Di Feo, suggerì Paolo Foschini. Il quale ebbe un colloquio con il capo della cronaca milanese, Giangiacomo Schiavi, emiliano come lui. E sarà per questo, ma fu assunto con decorrenza dal 1° gennaio 1997. Il direttore era ancora Paolo Mieli. Di Feo, Foschini, se lo ritrovo a fianco. Tutti i giorni.

Dagospia il 30 aprile 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Ore 20.05, del 30 aprile 1993, Hotel Raphael, Roma.

Saliamo in macchina sotto una doccia di pietre, monetine e insulti.

È chiaro che siamo protagonisti di un evento epocale (anche se, incredibilmente, il giorno dopo nessuno ne scriverà).

In realtà, ovviamente, il protagonista era Lui, Bettino Craxi, ultimo segretario del PSI nel centesimo anno della sua fondazione. Noi altri tre in quella macchina, Nicola Mansi, storico autista e Umberto Cicconi, fotografo e ombra del segretario, eravamo solo birilli decorativi di quel tiro al piccione (io, seduto dietro e alla sinistra di Craxi, ero in quel momento segretario nazionale dei Giovani Socialisti). 

Siamo consapevoli dell’odio che s’infrange sui finestrini dell’auto, ma veniamo pervasi da un sentimento di tranquillità quello che ci porta a comprendere che quel passaggio rappresentava un calvario necessario, forse ruvido, forse ingiusto, verso una nuova Italia.

Nel viaggio verso gli studi televisivi al Palatino, dove Craxi avrebbe rilasciato un’intervista a Giuliano Ferrara, eravamo sollevati dall’aver intuito il significato di quell’aggressione. 

In quei pochi minuti di una Roma addobbata a forca ci si mostrava un domani diverso, dove capivamo non ci sarebbe stato posto per noi, ma la soddisfazione che tutto questo futuro sarebbe ricaduto sui nostri concittadini ci ripagava e rasserenava. 

Intanto i partiti avrebbero trovato subito un modo per finanziarsi in modo trasparente e la politica, tutta, si sarebbe liberata da quell’immensa ipocrisia che non consentiva ai più importanti attori delle istituzioni, i partiti appunto, di organizzare la costruzione del loro consenso. Persino i rappresentanti d’interessi, i lobbisti, avrebbero esercitato il loro talento ottenendo in pochi giorni una legge che li rendesse attivi alla luce del sole. Il Paese quindi avrebbe incontrato riforme costituzionali, che attendeva da decenni, per adeguare la sua struttura istituzionale al nuovo mondo. 

E anche i partiti e la selezione delle loro classi dirigenti se ne sarebbe avvantaggiata. Gli uomini compromessi da precedenti responsabilità o quelli difensori di ideologie fallimentari e fallite si sarebbero silenziosamente sottratti alla scena politica per lasciar spazio a una nuova classe dirigente finalmente costruita sul merito, la competenza e la passione civica. Il nepotismo sarebbe stato annichilito dal virtuosismo di una nuova selezione costruita sui titoli e le capacità tecniche (e di afflato etico indiscusso). Tutto questo avrebbe portato finalmente al Paese, stabilità, prosperità e crescita. 

Intanto cominciando a fare quelle cose così semplici che nessuno era mai riuscito a realizzare. Insegnanti, forze dell’ordine, infermieri, financo le guardie carcerarie, sarebbero state ripagate e riconosciute per la centralità del loro ruolo di sviluppo e di rappresentanza dello Stato (soprattutto quando lo Stato incontra il suo unico azionista, il cittadino, nei suoi momenti di maggiore debolezza e necessità); e lo avrebbe fatto nel modo più semplice: con un riconoscimento economico e di prestigio sociale del loro ruolo.

Poi, si sarebbe dato il via al più grande progetto di ricostruzione di scuole, ospedali e infrastrutture pubbliche che aspettavano ancora un segnale da questa Repubblica tanto giovane quanto incerta e distratta nel mettere mano alle primarie urgenze dei suoi cittadini. 

La Prima Repubblica aveva lasciato un grave debito pubblico giustificandolo con l’aver dovuto affrontare un’economia da guerra fredda, poi il terrorismo, quindi scontri sociali violentissimi, il tutto dentro a un’inflazione pandemica a doppia cifra, ma sapevamo che anche questo vulnus sarebbe stato presto domato e riportato all’equilibrio e ribaltato in prosperità.

Infatti il terminare di ogni litigiosità politica e la comparsa dei civil servant, immolati solo agli interessi della collettività, annunciavano una strada che avrebbe reso una passeggiata il raggiungimento di questi obiettivi. Come infatti è stato. A cominciare dalla redistribuzione della ricchezza coniugata con un’accettazione sociale della stessa riconosciuta come premio del talento e non bersaglio d’invidia. 

Qualcuno avrebbe preteso di cedere i nostri gioielli pubblici nel settore energetico, infrastrutturale o del mondo delle comunicazioni. Le nuove forze politiche avrebbero però respinto questa scellerata prospettiva o l’avrebbero, contro voglia, applicata solo per risanare, definitivamente, il nostro debito pubblico e ripartire verso nuove avventure di un Paese che era stato capace di raggiungere primati impensabili per una nazione così piccola (come l’essere stati i terzi a lanciare un satellite nello spazio o i leader nella scienza atomica o, in un settore non secondario come quello delle comunicazioni, veri pionieri).

Avremmo fatto di necessità virtù dell’assenza di materie prima, rendendoci energeticamente, se non autosufficienti, liberi da ogni ricatto; poi ci saremmo focalizzati sulla nostra capacità manifatturiera di elaborare e migliorare il prodotto, rendendo lo Stato complice del cittadino e delle sue attività produttive, levigando quella catena montuosa di tassazioni che tratteneva risorse senza restituirle, in modo plastico, in servizi e infrastrutture.

E grazie a tutto questo, sarebbero rinate le città; e in effetti oggi è davvero una soddisfazione camminare tra strade abbaglianti per il loro decoro, lucidate da una pulizia ossessiva e maniacale, avvolti in un clima di sicurezza e serenità che solo a immaginarlo allora ci sembrava un sogno utopistico. I giovani sapevamo avrebbero ritrovato fiducia nel futuro e gli anziani la serenità per la loro meritata età. 

Queste cose così semplici, solari, di plateale buon senso, erano state tradite solo dall’incompetenza della nostra Prima Repubblica, ma avrebbero trovato una lineare soluzione.

E senza negare la fraternità italica e il sentimento di riconoscenza verso i nostri “liberatori” occidentali avremmo primeggiato nella nostra capacità di dialogo col mondo senza mostrare sudditanza per alcuno (ancor meno adombrata da miseri interessi economici travestiti da cause più nobili). Perché mai, e poi mai, queste nuove classi dirigenti, avrebbero tradito quel carattere fondato sulla lealtà, sulla gratitudine, sulla difesa degli impegni e delle promesse che ne avrebbe costituito il carattere fondativo e distinguente.

Certo sapevamo che non tutto sarebbe stato risolto subito, anche in ragione della nostra eredità, ma l’enorme talento inespresso a cui era stato negato di mostrarsi scalciava per cominciare la sua cavalcata verso questo Eden che attendeva il Paese. 

Ecco, questo accadde la sera di 29 anni fa. Per cui si trattò di un sacrificio necessario.

Stava terminando la nostra vita politica, ma quelle che potevano scambiarsi per urla di un’Italia inferocita contro di noi, era invece la voce del Paese nascente e del suo liberatorio vagito: quello del “né-né”. Luca Josi

Tangentopoli, perché il nome "Mani pulite" fu una pessima idea. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Mi occupo da trent' anni di criminalità giudiziaria, cioè dei delitti perpetrati in nome del popolo italiano dalla piovra in toga. Che non è "la" magistratura, come la mafia non è la Sicilia: ma ne è l'agente plenipotenziario, dotato tuttavia di un potere che è usurpato e si impone su un consorzio sociale intimidito e omertoso.

Ora sono stato querelato da tre famosi magistrati per aver scritto che la cultura di "Mani Pulite", sin dal nome che essa ha prescelto per accreditarsi in questo Paese di giustizia corrotta, rappresenta un'oscena e proterva manifestazione di prepotenza, che ha insultato irrimediabilmente il poco residuo della civiltà giuridica (anzi della civiltà punto e basta) del nostro ordinamento sociale.

Allora, aprano bene le orecchie i querelanti, che chiedono la galera per chi scrive queste cose: non solo rivendico quel mio convincimento, e il diritto di esprimerlo, ma mi impegno a diffonderlo nuovamente e ulteriormente per quel che posso, appunto come faccio da decenni.

Rivendico il diritto di dire che la dicitura "Mani Pulite" è oltraggiosa, e che è eversiva e incivile la cultura che l'ha adottata. Così come rivendico il diritto di dire che l'azione giudiziaria che ha preteso di ispirarvisi ha danneggiato molto gravemente questo Paese, le istituzioni repubblicane, il decoro nazionale. Posso comprendere che sia inconcepibile, per i magistrati poco impensieriti dalle adunate del popolo onesto che sotto ai balconi delle procure strillava di gioia per l'ordine di arresto quotidiano: ma c'è chi crede, querela o non querela, che essi abbiano fatto molto male il loro lavoro e che abbiano fatto molto male a molte persone. È chiaro?

Riflessione su “tangentopoli” trent’anni dopo. CARLO BOLOGNESI  il 29 aprile 2022 su avantionline.it.

Trent’anni fa iniziava quell’evento che i mass media hanno chiamato “Tangentopoli”. Diverse trasmissioni televisive e vari giornali si sono occupati di rievocare ed avviare dibattiti critici su quella stagione politica e giudiziaria. Molti di questi media hanno cambiato impostazioni ed hanno espresso giudizi rispetto al passato. Accanto all’azione giudiziaria che eliminò un’intera classe politica, alcuni ricordano quel 1992 come un “anno orribile”, in cui furono anche eliminati dalla mafia (e non solo da essa) i magistrati Falcone e Borsellino e furono orditi attentati terroristici contro lo Stato, la Chiesa e le rispettive istituzioni.

Nelle scorse settimane è stato edito un documentassimo libro di oltre settecento pagine, scritto da Filippo Facci dal titolo “La guerra dei trent’anni – la rivoluzione mancata”, dove il giornalista (uno dei pochi che all’epoca si era espresso controcorrente e avvertiva i pericoli insiti nelle inchieste giudiziarie) evidenzia l’uso di manette facili praticato dal pool di magistrati di Milano e poi da altre procure, l’uso criminale della stampa allo spiccare di semplici avvisi di garanzia (date subito ai giornali ed in pasto all’opinione pubblica, sapientemente stimolata a reagire con i più ignobili sentimenti giustizialisti e di vendetta, come la “richiesta della forca”), in un paese dove si trovano troppi falsi cattolici opportunisti e giustizialisti. Da quel momento la partecipazione alla vita politica è scesa vertiginosamente, l’astensionismo è aumentato fortemente, i partiti sono stati snaturati ed indeboliti, l’intervento dello Stato in economia ed il Welfare State ridimensionati progressivamente.

Oggi vi sono tanti pentiti. L’allora capo della Procura di Milano, Saverio Borrelli, prima di morire, come riporta nel suo libro Filippo Facci, ha affermato che: “Non valeva la pena di buttare all’aria un mondo precedente per cascare in quello attuale”. Il giornalista ripercorre quegli anni in cui vi furono molti suicidi (tra quelli eccellenti, Cagliari, Gardini, Moroni) e dove tanti personaggi politici ebbero stroncata la carriera solo per aver ricevuto un avviso di garanzia. Moltissimi tra questi sarebbero poi stati assolti con formula piena. Le indagini colpivano intere Giunte regionali, per cancellarle e sostituirle con uomini graditi. Così è stato per la Giunta Regionale Lombarda e, poi, per quella abruzzese. I politici inquisiti venivano lasciati in pace solo se si fossero ritirati a vita privata, al di là dei fatti commessi.

Alle riflessioni di Facci, si possono aggiungerne altre da parte di chi, come molti di noi, hanno vissuto quel periodo. Tra le “leggende” costruite in quella circostanza, vi è quella che vuole “Tangentopoli” nata per puro caso, con l’arresto di Mario Chiesa, a causa di una piccola tangente estorta ad un impresario delle pulizie, neo fascista. Tra l’altro, questo imprenditore, nonostante l’amicizia con Antonio di Pietro, è fallito pochi anni dopo. In realtà si è saputo dopo, ma non conveniva diffondere la notizia, che i veri personaggi che hanno svelato a Di Pietro il meccanismo delle tangenti ed i luoghi dove i Partiti (tutti!) tenevano i soldi, soprattutto all’estero, sono stati l’ex segretario del Partito Socialista, Giacomo Mancini ed Eugenio Cefis, già presidente dell’Eni. Cefis è stato implicato nella morte di Enrico Mattei per prenderne il posto (così come è avvenuto) e trasformare l’Ente energetico in un’azienda di sola raffinazione del petrolio, in omaggio alle grandi compagnie internazionali del settore. Durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopoguerra Cefis svolgeva la funzione di agente del servizio segreto britannico ed il suo braccio destro era un giovane Gianfranco Miglio, in seguito divenuto l’ideologo della Lega Lombarda (poi Lega Nord) e fautore, insieme al venerabile maestro della loggia deviata P2, Licio Gelli, della nascita di tante leghe nelle regioni italiane, soprattutto al Sud, zeppe di esponenti mafiosi. Così hanno reso noto varie inchieste giudiziarie successive. Anche questo ci fa capire la natura internazionale della cosiddetta “Tangentopoli” e cioè il tentativo di ridurre l’Italia, uno dei quattro paesi al mondo più forti economicamente, ad una nazione “in svendita”, ad economia debole, ad un’entrata nell’Euro con ruolo subalterno e riduzione drastica della propria sovranità. Infatti, dopo Tangentopoli, il Prodotto Interno Lordo (PIL), che, fino ad allora, era cresciuto ogni anno costantemente oltre il 3%, crollò improvvisamente ed il debito pubblico, per la prima volta, superò il PIL. La crescita produttiva, durata oltre cinquant’anni, si era fermata. Le maggiori aziende pubbliche, alcune vere leaders mondiali nel loro settore (Eni, ecc.), altre forti aziende e banche pubbliche e private, sono state svendute a compagnie italiane e straniere, a fronte di somme ridicole. Persino aziende strategiche nazionali, come Telecom, sono state vendute agli stranieri. Il bersaglio da colpire per attuare questo disegno di svendita dell’ “Azienda Italia”, era, anzitutto, Bettino Craxi, che aveva ben governato l’Italia dal 1983 al 1987, rilanciando la sua immagine nel mondo e superando un difficile periodo di crisi. Craxi, infatti, si opponeva fortemente a tale disegno e ad un’Italia succube di potenze straniere.

Quasi rutti gli osservatori e gli storici sono finalmente concordi nel ritenere che tanti magistrati, oltre ad aver commesso veri e propri abusi, abbiano sostituito prepotentemente la politica. La maggioranza dei media ha accompagnato questo processo perverso, costruendo l’immagine del magistrato onesto, Antonio di Pietro e, per contro, quella negativa dei politici disonesti e corrotti che andavano spazzati via, messi alla forca, eliminati. Anche i potenti media di proprietà di Silvio Berlusconi, quotidiani, riviste, radio e televisioni, si sono messi al servizio dei magistrati e, in particolare, di Antonio di Pietro. Indicative, in tal senso, sono state, tra l’altro, la copertina del diffusissimo “Sorrisi e canzoni” dove appare, a tutta pagina, l’immagine del magistrato con l’appariscente scritta “Di Pietro facci sognare”, oppure le note trasmissioni di Funari dirette sempre contro Craxi ed i socialisti, o, ancora, i collegamenti di Emilio Fede con il giornalista Brosio, davanti al Tribunale di Milano. Berlusconi, furbescamente, aveva appoggiato in pieno Tangentopoli ed i magistrati per non essere inquisito, essendo uno dei maggiori sovvenzionatori di tangenti a uomini politici, a dirigenti pubblici e ai partiti, come lui stesso ha ammesso anni dopo dichiarando “giravo con l’assegno in bocca” per fare andare a buon fine le questioni interessanti la mia azienda. Tutto questo era accompagnato da cortei e fiaccolate organizzati dalla borghesia milanese, specie quella parassitaria e immobiliarista, a favore del pool di Milano.

Per quanto riguarda Di Pietro, sempre Filippo Facci ha pubblicato, qualche anno fa in un altro libro (“Di Pietro – la storia vera”), i misfatti del personaggio: dagli abusi del giovane magistrato in prova “dimenticando” in galera alcuni inquisiti (e per questo sconsigliato agli organi superiori di farlo diventare magistrato), ai regali della Mercedes e dei prestiti erogati dall’imprenditore Garini, ai regali inviati sotto forma di prestiti al suo amico Rea (che ha fatto assumere come comandante dei vigili dal sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, considerato suo amico, poi fatto inquisire), alle consulenze procurate alla moglie da alcuni Ministeri dove lui era collaboratore, alla consulenza milionaria affidata al giudice di Brescia che non aveva dato il consenso a processare Di Pietro, fino ad aver lasciato sola e senza documentazione la collega Tiziana Parenti nelle famose indagini sulle “tangenti rosse”. Per questo era stato ricompensato, poi, con la candidatura nel fortissimo e sicuro collegio comunista del Mugello per l’elezione alla Camera dei Deputati. Ironia della sorte, candidato in un collegio comunista, Di Pietro era, in realtà, di idee neo fasciste, sospettato, oltretutto, di essere uomo di particolari settori dei servizi segreti italiani ed internazionali (tante sono le dichiarazioni di vari politici in tal senso, ad esempio, più volte vi sono state dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto in proposito). Mirko Tremaglia, autorevole esponente fascista della Repubblica di Salò e neo fascista nel dopoguerra, è sempre stato considerato da Di Pietro il suo “maestro politico”. Un altro magistrato del pool, Piercamillo Davigo, in un’assemblea di cittadini a Vigevano, ripreso dalla tv locale e poi dai giornali nazionali, ha dichiarato che i magistrati di Milano tenevano in galera i politici, anche dopo aver confessato e dopo la scadenza dei termini, con la motivazione che, se li avessero liberati “la gente si sarebbe incazzata”. Altri episodi gravi hanno contrassegnato lo strapotere di diversi magistrati, come quando il procuratore capo della Procura di Milano, Borrelli, ha chiesto pubblicamente al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, l’incarico di formare un governo di soli magistrati! Oppure quando, in violazione di una precisa legge, ha mandato agenti di polizia a far man bassa delle cassette personali appartenenti ai deputati del Parlamento. Tutte queste infamie ed illegalità venivano osannate dai mass media come operazioni tese alla moralità e alla pulizia!

Più tardi, nell’ottobre 2012, un’inchiesta avviata dalla trasmissione televisiva su Rai Tre “Report”, in merito ai rimborsi elettorali, decretò la morte politica del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, accusato di una gestione opaca dei finanziamenti pubblici, in parte utilizzati per l’acquisto di cinquantasei proprietà: case, terreni e casolari agricoli. Da questo momento, il giustizialismo migrò dalla casa di Di Pietro nella casa di Beppe Grillo.

In pratica, i “poteri forti” che avevano sostenuto fino ad allora il principale protagonista di “Mani Pulite”, visto anche il fallimento della lista Di Pietro – Ingroia presentata in occasione delle elezioni politiche, l’hanno abbandonato per appoggiare Matteo Renzi e Beppe Grillo. Così si è completata la progressiva azione anti – politica, attraverso un Pd maggioritario, con a capo Renzi, spostato al centro e, a volte, a destra, (sull’esempio di Macron in Francia che aveva distrutto il socialismo francese) e facendo leva, d’altro lato, su un movimento qualunquista, sguaiato e populista all’opposizione, capeggiato da Beppe Grillo. Nell’ambito dei finanziamenti ad entrambi i due esponenti (almeno in quelli dichiarati e visibili) si trovano somme elargite dalla JP Morgan, un grosso gruppo finanziario americano, cui vennero date le grandi consulenze per la svendita del patrimonio pubblico italiano prima ricordate..

A livello politico, si è arrivati a costituire tre poli contrastanti: centro destra, Pd e Cinque Stelle, cambiando vari governi senza ottenere stabilità ed efficienza. Infine, sono stati chiamati tecnici a presiedere il Governo, com’è avvenuto con Conte e poi con Draghi, vista l’incapacità dimostrata dagli schieramenti politici.

Nonostante le rivelazioni dell’ex magistrato Palamara (vendite delle Procure, lottizzazioni politiche, poteri occulti interni, ecc.), non si riesce a riformare la Magistratura autocratica e i Ministri che hanno tentato di farlo sono stati costretti a dimettersi. Allo stesso modo non va avanti la riforma proposta dall’attuale Ministro Cartabia, è snaturata quotidianamente ad ogni dibattito parlamentare e rischia di scontrarsi anche con l’Unione Europea che l’ha richiesta perentoriamente. Siamo l’unico paese al mondo in cui la Magistratura è un potere autocratico. Recentemente, l’illustre costituzionalista Sabino Cassese ha affermato che la doverosa indipendenza dei magistrati nel loro lavoro d’indagine e di giudizio non può significare in alcun modo autogoverno della stessa Magistratura, alterando così l’equilibrio dei poteri. L’autogoverno è chiaramente anticostituzionale e nocivo per i cittadini. Ma ancora oggi molti non lo vogliono capire. 

Mani Pulite: libro di Facci svela retroscena su avviso Berlusconi tra tradimenti e spie. Redazione l'8 aprile 2022 su lasicilia.it.

Tradimenti, intrighi e falsi miti. Nel libro 'La guerra dei trent'anni' (Marsilio editore) il giornalista Filippo Facci ricostruisce il periodo che dall'inizio di Mani Pulite arriva ai giorni nostri e lo fa intrecciando cronaca e ricordi personali, indagine giornalistica e psicologica, restituendo - pagina dopo pagina - una storia su cui si accende ancora oggi lo scontro politico e storiografico. Lo sguardo dell'allora giovane cronista restituisce un quadro dove protagonisti e comprimari si mescolano, insospettabili derive prendono forma rimuovendo ogni patina di ipocrisia e aneddoti segreti travalicano i corridoi della procura di Milano dove l'inchiesta Tangentopoli ha preso vita.

E tra gli episodi più curiosi c'è quello del 21 novembre 1992 che riguarda l'invito a comparire a carico di Silvio Berlusconi, una convocazione che finì sulle pagine del Corriere della Sera prima che nelle mani del diretto interessato. "A scriverlo materialmente (l'avviso, ndr) fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d'imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio è importante, perché la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima". Movimenti e presenze 'estranee' mettono in allarme i cronisti che seguono la cronaca giudiziaria e che del quarto piano conoscono ogni centimetro.

"In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l'invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di 'Avvenire'. Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. (...) Più tardi, alla macchinetta del caffè, Davigo incontrò ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell'Avanti! che era passata all'agenzia Adnkronos. (...) Con i soli sospetti, però, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d'appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo".

E così chi aveva lo scoop tra le mani tentò "un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su 'Avvenire'. Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo (Gianluca, giornalista del Corriere, ndr) e gli rivelò che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite". La storia andò diversamente e la notizia - verificata anche da Goffredo Buccini, altro cronista del Corriere della Sera - fu scritta solo dal quotidiano di via Solferino con un titolo a sei colonne 'Milano, indagato Berlusconi'. Nell'articolo si citavano solo due soli capi d'imputazione, quelli contenuti nella prima pagina del provvedimento.

Facci, nel suo libro edito da Marsilio, riparte dai fatti. "La notizia fu scoperta da Paolo Foschini, non dal 'Corriere', che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunché. Foschini fu sostanzialmente tradito dall'amico Di Feo e le 'conferme' alla fine furono un foglio passato da una femmina (che lavorava in procura, ndr) non estranea ai propri sentimenti che fornì una sola fotocopia su quattro; una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che 'mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente', (...) poi un'altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente, le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono 'smentite non convincenti' (...)". La prima pagina autentica del Corriere non fu mandata ai tg per le rassegne stampa e non ci fu la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma.

"Ci sarà chi sosterrà che Mieli (l'allora direttore, ndr) stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato - continua Facci - . Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d'appoggio così scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe". Diversi cronisti credono ancora oggi che Foschini venne poi assunto al 'Corriere della Sera' "in segno di risarcimento per l'ingiustizia patita. Niente porta a crederlo. Anzitutto, con l'amico Pezzini, passò più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza", si ricorda nel libro. Sarà assunto solo nel 1997, Foschini si ritrovò tutti i giorni al fianco Di Feo.

Messo alla gogna e perseguitato da De Pasquale. Addio all’assessore Colucci, inseguito con le manette in ospedale e fatto sfilare in barella davanti alle telecamere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Mentre ricordavamo, con l’articolo della sua compagna Francesca, “L’inutile martirio di Enzo”, diventato il simbolo della cattiva giustizia, ci lasciava a Milano Michele Colucci, grande socialista e pure lui diventato simbolo di quel che abbiamo scritto quel giorno: “L’Italia è ancora in mano ai signori della gogna”. Fu la gogna più violenta e disumana – mai si era visto e in seguito si vedrà qualcosa di simile – quella che colpì Michele Colucci quella notte del 1992. Mi piace ricordarlo però prima di tutto per come era, il brindisino Michele, il socialista generoso e per bene, appassionato di pesca come il fratello Ciccio (che fu anche presidente della Federazione Italiana pescatori), approdato a Milano negli anni sessanta, descritto oggi in un’immagine firmata “Gli amici e i parenti” della sua Puglia come il compagno che “Ti ascoltava con interesse sincero e partecipato e ti dimostrava, senza ombra di dubbio, che ti aveva compreso in ogni tua emozione, in ogni tuo bisogno”.

Pronto ad aiutare tutti, come lo ricorda anche Serafino Generoso, che condivise con lui le ingiustizie dei primi anni novanta (due volte arrestato, due volte assolto). Così erano i politici di un tempo. Immagino ne abbia un ricordo diverso il pubblico ministero Fabio De Pasquale, e anche gli uomini della Guardia di Finanza che lo inseguirono con le manette di ospedale in ospedale, mentre era stato appena operato e poi mentre era collassato, fino a farlo sfilare in barella davanti alle telecamere, mentre giornalisti assatanati cercavano gli infilargli il microfono tra le labbra e le cannucce dell’ossigeno. Fu la Grande Gogna della giustizia ma anche dell’informazione, quella notte. Non piacque neanche al procuratore Saverio Borrelli, che se ne lamentò. Dobbiamo aggiungere che, a trent’anni da quei fatti, non c’è traccia di condanne? Inutile.

Michele Colucci era stato assessore ai servizi sociali e in seguito capogruppo del Psi alla Regione Lombardia, che sarà l’ultima governata da un pentapartito. Il Presidente era un democristiano, come tutti i suoi predecessori, Giuseppe Giovenzana. Siamo nel maggio 1992, sono i primi mesi delle inchieste dopo l’arresto di Mario Chiesa, Tonino di Pietro già spopola sui giornali e tv, quando un altro pm milanese, Fabio De Pasquale, che non è interno al pool, ma come la gran parte dei colleghi è uomo di sinistra e altrettanto attivo, apre un’inchiesta su corsi di formazione professionale finanziati dalla Regione Lombardia con fondi della Comunità economica Europea. Nel mirino c’è l’assessore della partita, Michele Colucci, ma le indagini si sviluppano subito ad ampio spettro, fino a coinvolgere tutta la giunta e altri, 48 persone in tutto. Secondo l’accusa qualcuno aveva fatto un affare da 200 miliardi di lire, mentre Giovenzana e i suoi colleghi di giunta avevano addirittura cambiato le carte in tavola, modificando in corso d’opera il contenuto della delibera sull’uso dei finanziamenti, in seguito a un accordo politico con Colucci. Il quale era accusato di aver gestito i soldi senza mai fare i corsi.

Per la cronaca: tutti gli assessori assolti sette anni dopo. Naturalmente intanto la giunta era caduta. Seguirà il primo governo regionale rosso-verde. Il pm De Pasquale e il gip inizialmente mandano Colucci, convalescente da un’operazione, ai domiciliari in una sua casa della campagna pavese. Ma poi lo vogliono in carcere. Evidentemente non erano stati sufficienti gli striscioni e i volantini che lo bollavano come “ladro” con cui era stato accolto al paese, era ora di preparare la “Grande Gogna”. Davanti a una piccola folla urlante (allora erano i leghisti a svolgere il ruolo che sarà poi dei grillini), una notte quattordici agenti con mitragliette spianate avevano fatto irruzione nella villetta di Colucci e lo avevano prelevato per portarlo nella caserma milanese di via Fabio Filzi, dove lo aspettavano i magistrati per interrogarlo.

Ricordare le scene di quella sera fa male al cuore. L’esibizionismo degli agenti che arrivavano alla caserma a sirene spiegate portando con sé i candidati al carcere e, pur potendo entrare in auto dal passo carraio, preferivano fermarsi davanti all’ingresso principale per far sfilare a piedi ogni indagato davanti ai giornalisti. Michele Colucci non si regge, lo trascinano tenendolo sotto le ascelle due agenti. Entra e crolla a terra, collassato. Uscirà dalla caserma per salire in ambulanza, ma ancora sfilando in barella, mentre i giornalisti gli si accalcano intorno, cercano di farlo parlare, ignorando il suo pallore e la somministrazione dell’ossigeno. È stata, quella notte, forse la più brutta pagina di tutta Tangentopoli, dal punto di vista dell’informazione e della giustizia. “Chi vive per gli altri vive per sempre”, hanno scritto i familiari nel necrologio. Ricordiamolo così.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2022. 

Questa la non ricordavate: ma accadde lo stesso, e proprio il 28/29 maggio di trent' anni fa, collateralmente all'inchiesta Mani Pulite. Sì, perché il pm Fabio De Pasquale non faceva parte del Pool dei magistrati: non ce lo volevano. 

Lui e Antonio Di Pietro, poi, erano cane e gatto: nel tardo settembre 1993 un litigio furibondo tra i due risuonò per i corridoi dopo che un latitante, sbarcato a Linate, si era consegnato a Di Pietro nonostante fosse ricercato proprio da De Pasquale; volarono urla, al pm più famoso d'Italia furono ricordate certe sue ambigue frequentazioni e la sua futura moglie, Susanna Mazzoleni, denunciò che un capitano che collaborava con De Pasquale le aveva rivolto insinuanti domande sulle frequentazioni di Di Pietro.

De Pasquale non nascose mai la sua fede di sinistra («il capitalismo è una cosa sporca», disse al Giornale) e sicuramente non ricordate che per l'inchiesta sui fondi neri Assolombarda (1992-93) l'intero Parlamento, sinistre e forcaioli compresi, respinse le richieste di autorizzazione a procedere chieste da De Pasquale per Altissimo e Sterpa (liberali) e per Del Pennino e Pellicanò (repubblicani) perché il loro intento fu giudicato «persecutorio» da tutto l'arco costituzionale. 

Voi ricordate un'altra cosa: il caso di Gabriele Cagliari, quando lui promise la scarcerazione al detenuto e manager dell'Eni («Lei me l'ha messo in culo, io devo liberarla») ma poi cambiò idea senza neppure avvertire le difese e se ne andò in vacanza in Sicilia, e seguì suicidio. Ma questo deve ancora succedere. Dal raccapricciante episodio di quel fine maggio 1992, tuttavia, prese le distanze anche il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli.

I FALSI CORSI CEE

L'odissea del 60enne Michele Colucci era cominciata il 4 maggio: la notizia del suo arresto l'aveva colto alla clinica Città di Milano dove l'avevano appena operato alla prostata: accusato di presunti «falsi corsi Cee» organizzati dalla Regione Lombardia, la sua convalescenza avrebbe dovuto seguire un certo decorso ospedaliero, ma De Pasquale non fu dello stesso avviso: ordinò che la degenza fosse interrotta e che entro il 14 del mese il detenuto fosse trasferito «in confino» nella sua abitazione di Ruino (provincia di Pavia) agli arresti domiciliari con obbligo di firma.

Il confino (ex articolo 283) era una soluzione di norma adottata per i mafiosi. All'arrivo a Ruino trovò un nugolo di giornalisti e degli striscioni che lo bollavano come «ladro», mentre la strada era tappezzata da volantini della Lega stampati col refrain «Benvenuto Colucci, ladro». 

In questo scenario si giunse alla sera del 28 maggio, giorno in cui fu improvvisato un «manette show» che costringerà il procuratore Borrelli a prendere dei provvedimenti. 

IL MANETTE SHOW

Una telefonata agli avvocati di Colucci, Domenico Contestabile e Dino Bonzano, li avvertì che il loro cliente era stato prelevato da Ruino e lo stavano portando alla sede milanese della Guardia di Finanza di via Fabio Filzi, assieme a un gruppo di altri arrestati. A esser precisi, quattordici agenti avevano fatto irruzione nella casa di Colucci a mitragliette spianate.

Era sera, e fuori dalla caserma si era già formato una sorta di happening dove in trepidante attesa c'erano amici degli arrestati, parenti, ovviamente giornalisti e fotografi e cameramen, curiosi, un vecchio clochard che cantava, il tutto con la via transennata e illuminata a giorno e circolazione di panini e birra. 

Un cronista dell'Indipendente, Enrico Nascimbeni, si era portato la chitarra e intonava canzoni di Lucio Battisti. In mezzo alla folla spiccava un signore benvestito che pareva furibondo: era l'avvocato Bonzano, che l'invito allo show aveva ha ricevuto per ultimo: «Ancora una volta nel mirino degli inquirenti sono gli intrecci d'affari tra politici, amministratori e mondo imprenditoriale...», esordiva un comunicato diffuso dalla Guardia di Finanza. Sinché lo spettacolo ebbe a incominciare.

IL COLLASSO

Di lontano s'intravidero le auto delle Fiamme Gialle che fecero la loro parte: rallentarono a una cinquantina di metri dal bivacco di gente, per dar modo alla stampa di prepararsi, e poi ripartirono a sirene spiegate senza neppure passare - come sarebbe stato normale - dal passo carraio, ma bloccandosi davanti alle scalinate dell'ingresso pedonale così che gli arrestati fossero costretti a sfilare uno ad uno: per i giornalisti, una manna. 

E fu subito ressa: flash, spintoni, risse tra parenti e fotografi, le telecamere che scivolarono fin dentro la caserma, sin quando da un auto ecco scendere anche il Michele Colucci prelevato a Ruino, malfermo sulle gambe e trascinato a braccia nella calca. Dopo quel trambusto, una volta dentro, durante le operazioni di identificazione, Colucci crollò a terra secco.

Chiamarono un cardiologo, che diagnosticò un edema polmonare e dispose l'immediato ricovero. I finanzieri, imbarazzati, optarono per infermeria di San Vittore.

Pochi minuti dopo ancora sirene, ma era solo l'ambulanza che era venuta a prendere Colucci: ma neanche quella fu fatta passare dall'ingresso carraio, e Colucci a sua volta venne fatto ripassare in barella tra le forche caudine dei giornalisti. 

LA BARELLA E LE TV

La ressa si strinse attorno a un corpo che venne fatto sfilare in barella coperto da un sudario e privo di sensi, e un cronista della Fininvest alzò addirittura il lenzuolo che copriva il volto per facilitare le riprese e demenzialmente infilò il microfono davanti alla maschera dell'ossigeno. Le immagini sarebbero state trasmesse l'indomani.

«Tutto il regime in manette» titolerà L'Indipendente: su una macrofoto, raffigurante Colucci trascinato da due agenti, la scritta «Il vero volto dei partiti»; Avvenire - il giornale dei vescovi- pubblicherà direttamente le foto segnaletiche; il quotidiano pomeridiano La Notte proporrà un paginone di sole foto con didascalie ragionate. 

COME UN MAFIOSO

Fabio de Pasquale dispose che Colucci non dovesse incontrare nessuno per sette giorni. Neppure i suoi legali. La salute di Colucci, tra continui interrogatori e trasferimenti dal carcere al Tribunale sempre ammanettato- non farà che peggiorare sinché i medici saranno costretti a disporne il ricovero in una struttura più attrezzata dell'infermeria del carcere. 

Il 7 agosto i termini del trasferimento inclusero le seguenti raccomandazioni: manette dal carcere all'unità dell'ospedale Niguarda; piantonamento giorno e notte da parte di poliziotti in divisa, armati; vietato ricevere visite; il detenuto non può alzarsi dal letto; non può parlare con altri degenti e neanche con le guardie; non può andare in bagno senza l'autorizzazione di quest' ultime. 

MANETTE

Nei fatti fu una detenzione, o anche peggio. Una relazione dell'Università di Milano non fu presa in considerazione, anche se spiegava che nel cranio di Colucci c'erano due ematomi che rischiavano, muovendosi, di schiacciare un'altra parte del cervello. Il 20 settembre Daniela Colucci, giornalista Rai e figlia di Michele, lanciò un appello: «In tutta la mia vita non avevo mai visto piangere mio padre, mentre da quattro mesi non l'ho più visto sorridere. Mi chiedo a cosa possa servire l'eventuale risarcimento quando questa detenzione mette a rischio il bene insopprimibile della vita. I mali che stanno distruggendo mio padre sono veri e dimostrati... Non chiediamo nient' altro se non la possibilità di salvarlo». 

Sempre agli arresti, mesi dopo giunse finalmente la data di un cosiddetto incidente probatorio che in Tribunale doveva far luce sulle reali condizioni di Colucci. Durò sette ore. De Pasquale sostenne con durezza che l'anziano socialista doveva tornare a San Vittore a basta. Il gip Fabio Paparella invece ritenne che le perizie non fossero acqua fresca e autorizzò perlomeno gli arresti domiciliari col permesso d'incontrare i conviventi: moglie e fratello. 

La figlia, Daniela, ottenne il permesso di vederlo solo in dicembre. Alla madre residente in Puglia, ottantaseienne, venne concesso un permesso d'eccezione: telefonare.

Inquisito anche per violazione del finanziamento pubblico dei partiti, il 28 ottobre scaddero i sei mesi di carcerazione preventiva ma gliene rifilarono altri tre, in quanto- sostennero - poteva inquinare le prove. Non da solo, probabilmente: per alzarsi abbisognava di robusti infermieri.

BUCO NELL'ACQUA

L'inchiesta sui falsi corsi Cee coinvolse in tutto 48 persone, ma undici mesi di indagine porteranno a escludere la responsabilità di 20 degli indagati iniziali: archiviazione. Il 28 gennaio 1999 la settima sezione del Tribunale assolse trentatré posizioni, tra le quali quelle dell'ex presidente regionale Giuseppe Giovenzana e gli ex assessori Giuseppe Adamoli, Claudio Bonfanti, Francesco Rivolta, Ugo Finetti, Maurizio Ricotti e Pietro Sarolli. 

Assolto anche Serafino Generoso, ex assessore che, nel caso, raggiunse l'assoluzione numero quattro su quattro processi. Risulta che la posizione di Colucci per i reati di finanziamento illecito dei partiti sia stata stralciata per motivi di salute, e che sia finita in niente. Risulta che, per i corsi Cee, Michele Colucci sia stato assolto in Cassazione. E non abbiamo citato il caso del regista Giorgio Strehler, accusato di truffa e malversazione e assolto con formula piena l'anno prima di morire.

Quei "metodi" della magistratura milanese che in 30 anni sono entrati nel sistema giudiziario all’italiana. Huffpost Italia su huffingtonpost.it. l'08 Aprile 2022

Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci: La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria.

Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci (La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria) che si addentrano in certi «metodi» della magistratura milanese e che, dal 1992 in poi, sono in parte rimasti prassi del sistema giudiziario all’italiana. Una «rivoluzione» o una lotta tra poteri dello Stato – è una delle la tesi del volume di 750 pagine, ampiamente documentato – che non diede vita a una seconda Repubblica, ma fu un pezzo di prima Repubblica scappato di mano, qualcosa che gli italiani decisero di fermare quando fu chiaro che le inchieste avrebbero smascherato anche loro, o meglio, quando fu chiaro che non si poteva processare un sistema mentre era ancora vivo e che non si poteva fare un’autopsia su un corpo che ancora respirava.

Forse non esisteva – non esiste – un carcere a tutt’oggi piazzato ancora così vicino al centro di una città, anzi, nel centro di una città, una vetusta e a suo modo bella struttura all’americana con sei bracci a stella, i «raggi» sovraffollati da centocinquant’anni, in un’area dove tutti dicono che costruiranno qualsiasi cosa, ma poi non succede mai niente: San Vittore, sempre lì, imperiale, incurante delle velleitarie modernità di Opera e Bollate. Chiesa era al sesto raggio, dove spesso mettevano chi non era il caso di scaraventare subito nella mischia: qualche tossico, transessuale, parente di pentiti, gente accusata di aver violentato donne e bambini, e che la comunità galeotta non accettava. C’erano loro, e c’era Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio 1992: un politico, che cosa strana. Neanche un anno dopo la composizione del sesto raggio però sarà la seguente: cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa; cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore; cella numero 3:  Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat; cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli; cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese; cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell’Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia; cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore; cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia16. A occhio e croce, almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. A occhio e croce, oggi, nessuno finirebbe in carcere preventivo per il tipo di accuse che si portavano appresso. A occhio e croce, Mario Chiesa sarebbe stato l’unico politico in galera.

Gli imprenditori, invece, confessavano qualcosa e niente galera, anzi, immediato sblocco dei conti bancari. Coadiuvato dai suoi legali Stella e Dinoia, l’imprenditore Fabrizio Garampelli proseguì la sua attività di infiltrato e convocò una riunione ri- servata con i suoi colleghi costruttori per delle tangenti sugli appalti ospedalieri. Segnarono tutto su un foglietto. Il giorno dopo, Garampelli lo portò a Di Pietro.

Mario Chiesa decise di parlare alle ore 10 di lunedì 23 marzo 1992 e chiuderà il suo verbale il 27, dopo aver tirato in ballo socialisti e democristiani di rango elevato ma non elevatissimo. Era politicamente finito, non aveva più un lavoro né una moglie; suo figlio non gli scriveva da un mese e la sua nuova compagna era incinta da sette: parlò essenzialmente per questo. Ammise versamenti a vari big politici, e sin dal primo interrogatorio fece la sua comparsa un tizio basso con la barbetta mai notato prima: il gip (giudice delle indagini preliminari) Italo Ghitti, il malriuscito «giudice terzo» che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà «Nano ghiacciato», benché bramoso di una porzioncina di celebrità tra i più sanguigni colleghi del pool. Tenterà di ritagliarsi l’autonomia che le procedure gli assegnavano (è il gip ad autorizzare gli arresti chiesti dall’accu- sa), ma ogni volta saranno rondini che non faranno primavera: si opporrà, per dire, agli arresti di quattro consiglieri dell’Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della Torno Costruzioni Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jürgen Ferling, del socialista Loris Zaffra: ma la mancanza di terzietà di un intero paese, oltre ai ricorsi dei pm e alla duttilità della giurisprudenza, lo ricaccerà in un ruolo da comprimario. Con un Codice stravolto dalla prassi, mai completato con una necessaria separazione delle carriere (giudici e pm) e con la fine di quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale», la figura del gip diverrà e resterà quella di un vidimatore delle carte dell’accusa.

Sulla funzione pressoché unica del gip Italo Ghitti, giusto trent’anni dopo, si è espresso in maniera eloquente Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su piazza Fontana, caso Parmalat e Abu Omar, tra varie altre. Salvini fu uno dei pochissimi a non aver mai aderito ad alcuna corrente organizzata della magistratura e passò quegli anni proprio all’ufficio gip:

«Posso narrarlo in prima persona... Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni di quell’indagine rivolta pressoché all’intero mondo politico e imprenditoriale... L’ufficio gip in quel momento era un passaggio decisivo perché era chiamato ad accogliere o respingere la richiesta di cattura presentate dal Pool e poi le istanze di scarcerazione o di arresti domiciliari, un meccanismo da cui in pratica dipendeva il funzionamento e lo sviluppo di quell’inchiesta «sistemica». Era co- modo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo crea- re difficoltà alle indagini o comunque costringere chi le conduceva a confrontarsi con punti di vista diversi. Così il Pool escogitò un semplice ma efficace trucco, costituendo, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un «registro» che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conosce- vano tra loro e vicende tra loro completamente diverse, unificate solo dall’essere gestite dal Pool. Il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Invece le regole, nella sostanza, volevano che a ogni notizia di reato fosse attribuito un numero e a ogni numero seguisse la competenza di un gip non individuabile priori. Ma questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell’unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool... I principi dell’Ufficio furono quindi sovvertiti radicalmente e non si trattava di regole puramente organizzative, ma dovevano presiedere al principio del giudice naturale e cioè che il giudice fosse del tutto indipendente e non fosse scelto da altri, soprattutto non dalla Procura. Ci fu anche un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per «sbaglio»... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92. Nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere su al- cune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti, evitando così che non solo io, ma che qualsiasi altro gip dell’ufficio interferisse nella macchina di Mani puli- te. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell’ufficio gip. Feci loro notare con una nota documentata la situazione del tutto illegittima che si era creata. Le mie osservazioni furono semplicemente cestinate. Non era il tempo di seguire le strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream».

La testimonianza dell’ex gip Guido Salvini non attesta solo che l’inchiesta Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, fondamento della civiltà giuridica e pilastro della parità tra accusa e difesa. È interessante anche perché permette di retrodatare la decisione della procura di direzionarsi preliminarmente verso una «rivoluzione» che i magistrati di Mani pulite, in interviste e testimonianze, hanno invece sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava. Nel febbraio-marzo 1992, quando Ghitti diviene l’anomalo gip unico e il riferimento di ogni indagine sulle tangenti, si era ancora lontani dalle successive elezioni «terremoto» del 5 aprile 1992, che pure registreranno una sostanziale tenuta dei partiti; mentre è prossimo, invece, l’affiancamento all’inaf- fidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. In altre parole, l’inchiesta Mani pulite co- minciò a correre da sola con le sue anomalie e progressive forza- ture delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare che le permetterà addirittura di volare.

Detto questo, nel tentativo di trarre un bilancio da Mani pulite, neppure i numeri possono dirci molto. Le statistiche nascondono colpevoli che erano innocenti, innocenti che erano colpevoli e gente di passaggio che non era niente; diversamente da chi, invece, era tutto, ma in quegli anni scelse di rimanere in tribuna a scommettere su chi avrebbe vinto, senza capire chi avrebbe perduto in ogni caso: lui, anche lui. Ora però interessano le condizioni del campo a fine stagione, interessa chiederci se la stagione sia mai finita e quale ne sia seguita: più del bilancio numerico, importa capire come sia stato ottenuto, che prezzo abbia comportato, che cosa abbia lasciato dietro di sé. Importa meno, pur lasciando sgomenti, che degli 88 parlamentari eletti nel 1992 – destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure –, i prosciolti o gli assolti furono 61. Importa pure meno, anche se lascia atterriti, l’alto numero di suicidi che si concentrò proprio in quei tre anni. È più interessante notare, fermandoci all’inchiesta milanese, l’alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero, come spiegato, colpevoli che la sfangarono con poco, ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera; su 3.200 persone di cui la Procura di Milano chiese il giudizio, 1.300 sono risultate colpevoli, anche se il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento – molti non l’hanno ancora capito – è un accordo tra accusa e difesa che implica un’ammissione di colpevolezza da parte dell’indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia.

La cancellazione dell’articolo 513 tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini) nel periodo di Mani pulite portò a molte sentenze basate sulla resistenza in carcere o su un malinteso diritto al silenzio, recepito come negazione di una sorta di «pentitismo coatto». Anche qui: molti incolpevoli ne fecero le spese, molti colpevoli la fecero franca, e molti processi sbagliati furono dirottati altrove per non rovinare le statistiche dell’inchiesta. Il pool, pur abituato a dettar legge in fatto di competenza territoriale, trasmise ad altre procure ben 1.320 posizioni: sarebbe interessante conoscerne i destini processuali, visto che molti casi, anche celebri, hanno registrato assoluzioni o prosciogli- menti che sfuggono alle statistiche meneghine. Tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, a Milano, comunque, si arriva a circa il 46 per cento delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che al Palazzo di giustizia non avrebbero neppure dovuto entrare, e sono quasi la metà.

Moltissime però ci entrarono, e da lì traslocarono direttamente al gabbio (a San Vittore chi non «parlava», a Opera i più collaborativi), anche a seconda del reato contestato. La prassi di Mani pulite tendeva a ipotizzare reati sempre i più gravi possibile, così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva, anche se, in certe fasi calde, per far scattare le manette bastava- no ipotesi di violazioni amministrative come il finanziamento il- lecito dei partiti o talvolta l’abuso d’ufficio. Moltissimi dei 1.230 condannati di Mani pulite hanno subito carcerazioni preventive a dispetto di condanne poi risultate inferiori ai due o tre anni; tutte persone che non sono mai andate in carcere, anche se gli arresti complessivi, durante le indagini preliminari, hanno superato quota 900. Da qui l’abitudine di sostenere che per Mani pulite di vere condanne al carcere non ce ne sono quasi state (si menzionano sempre le eccezioni di Sergio Cusani e Walter Armanini), anche se la regola procedurale, in teoria, sarebbe chiara: se è presumibile che tizio sarà condannato a meno di due anni, non lo si dovrebbe mandare in carcere preventivo; la regola implica, ovviamente, la capacità «prognostica» di saper prevedere a quanti anni tizio sarà probabilmente condannato, e tra i compiti del magistrato vi è appunto cercare di presumerlo. Diciamo, allora, che a Milano hanno sempre presunto molto male. Antonio Di Pietro in questo si era dimostrato maestro sin dai tempi del suo esordio da magistrato, a Bergamo: ipotizzare reati gravissimi e sbattere tizio immediatamente in galera, per- ché tanto, per derubricare un reato, ossia per cambiare imputa- zione al ribasso, c’era sempre tempo.

Se dei numeri importa poco, neppure per un istante si vuole però occhieggiare al «tutti colpevoli, nessun colpevole», e nep- pure al «tutti colpevoli» e basta: nella pratica, c’era un intero paese di colpevoli in un sistema disinvoltamente colpevole che fu corrivamente rastrellato con metodi colpevoli, metodi che la giustizia di uno Stato di diritto non dovrebbe permettersi mai, non in tempi normali e neppure in tempi rivoluzionari. Qualcuno, ancora oggi, sostiene che certi mezzi fossero gli unici possibili, e si sofferma sui fini, ma furono mezzi imperdonabili, e i fini raggiunti furono desolanti.

Giuliano Spazzali, avvocato di formazione comunista e difensore di Sergio Cusani, ha riassunto a modo suo:

«In quegli anni era in corso una grande trasformazione sociale e politica. Declinavano la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi, il Pli. Il Pci stava cambiando nome e natura. Era nata la Lega, poi arrivò con il suo partito Silvio Berlusconi. Non fu Mani pulite a provocare tutto ciò; Mani pulite fu al massimo l’ostetrica, l’assistente al parto. Mani pulite è cresciuta enormemente tutta sulle confessioni degli indagati: e non è una buona inchiesta, quella che si fonda non sulle indagini, ma sulle confessioni. Era un’inchiesta contenitore da cui erano via via aperti, a piacimento del Trio Lescano [Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, N.d.A.] i vari processi. Si è in gran parte giocata con le confessioni e i patteggiamenti, l’unico vero processo è stato il processo Cusani, con Di Pietro che esibiva mezzi ultramoderni, mai visti prima d’allora in un’aula giudiziaria, come le proiezioni di schemi dal computer. Ma poi concludeva con frasi come «ma che c’azzecca» e conquistava il pubblico tv».

Neanche lo stravolgimento dello Stato di diritto e le procedure inquisitorie decollarono con il voto del 5 aprile 1992, bensì qualche mese dopo: corrisposero a una scommessa che la corporazione togata aveva fatto autonomamente e che solo in seguito fece da abbrivio all’implosione più drammatica della ribellione. Dall’autunno 1992, lo spettatore plaudente di Mani pulite si rese conto che il tenore di vita stava calando per davvero e che la pretesa di abbassare la spesa pubblica era fondata: si fece rivoluzionario quando capì che i sacrifici non avrebbero risparmiato nessuno e che il futuro si preannunciava fosco. A insorgere fu soprattutto la gran parte di popolo evasore e assistito che non aveva mai cementato il proprio consenso attorno a valori civici, e non sappiamo, ora, se dare la colpa alle vicissitudini storiche degli italiani o alle classi dirigenti del dopoguerra. Sappiamo che quelle classi dirigenti, il consenso di quegli italiani, non furono più in grado di comprarlo.

Ne andrebbe dedotto che nel giro di pochi mesi, dai primi mesi del 1992, fosse cambiato qualcosa nella procedura penale o nella giurisprudenza. In genere è con questo argomento che il peggior manipulitista gioca la sua carta più falsa, e lo fa, di passaggio, anche per liquidare la classica e imbarazzante domanda che ai tempi sorse spontanea quando le inchieste si fecero devastanti e gli arresti presero a viaggiare con il pilota automatico. Il quesito è noto: perché la magistratura si era mossa tutta d’un tratto, dopo aver dormito per quasi mezzo secolo? Non è che la precedente inerzia del corpo giudiziario – domanda conseguente – fosse funzionale allo stesso campo di gioco che la magistratura, da giocatrice titolare, era andata improvvisamente a diserbare?

La spiegazione più fallace, ai tempi e in parte a tutt’oggi, fa coincidere la neo intraprendenza della magistratura con l’entrata in vigore del Nuovo Codice di procedura penale, varato il 24 ottobre 1989: è il cosiddetto «Codice Vassalli» (da Giuliano Vassalli, ex ministro della Giustizia, socialista peraltro legato a Bettino Craxi) e cioè un ordinamento che era stato elaborato dallo stesso guardasigilli insieme a una commissione presieduta dal già citato giurista Giandomenico Pisapia, padre dell’avvocato Giuliano, futuro sindaco di Milano. E questa, forse, resta la spiegazione storicamente più falsa tra quelle che hanno attribuito la nascita di Mani pulite a cause meramente tecniche. Anche perché quel Codice, senza timor di smentita, auspicava procedure diametralmente opposte a quelle che le procure imposero con il benestare dei più alti livelli della magistratura: lo stesso Codice, non a caso, fu dapprima osteggiato e contestato dai medesimi magistrati che poi si fecero «rivoluzionari», appunto stravolgendolo e tessendone le lodi. Sin dai primi anni novanta, e basterebbe questo, non si contavano i togati che avevano lanciato grida d’allarme contro una codificazione che ritenevano troppo garantista: lo stesso procuratore generale della Cassazione, Vittorio Sgroi, ossia il primo magistrato italiano, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, due mesi prima dall’inizio di Mani pulite, definirà le nuove norme addirittura come «ipergarantiste». Dello stesso tenore le relazioni dei procuratori generali delle Corti d’appello. E allora che cos’era successo?

Non serve essere giuristi per capirlo: i principi del Nuovo Codice furono letteralmente rovesciati. Partorito faticosamente come ibridazione tra il sistema inquisitorio e accusatorio, ossia tra la vecchia normativa fascista del 1930 e il diritto di matrice anglosassone, questo rinnovato ordinamento, nelle intenzioni, si proponeva di raggiungere una pari dignità giuridica tra accusa e difesa, una totale segretezza delle indagini e, viceversa, una totale pubblicità del successivo processo, ma soprattutto auspicava che la riproposizione e la formazione delle prove (comprese le confessioni e le testimonianze) avessero luogo rigorosamente nell’aula dello stesso processo, altrimenti non avrebbero avuto valore. Non ultima, e peraltro notissima, infine, fu la sostituzione del carcere preventivo con una «custodia cautelare» da adottarsi come «extrema ratio», intesa come rimedio eccezionale, ultima possibile soluzione dopo aver tentato invano ogni altra via.

Quello che varò un Codice tanto ambizioso, o forse pretenzioso, era un paese ancora scottato dal caso di Enzo Tortora e in sostanza cercò d’inventarsi ciò che non esiste, e forse non può esistere: un sistema misto tra il sistema all’italiana e quello anglosassone; perciò non introdusse la separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici (le due figure fanno lo stesso concorso, seguono lo stesso percorso formativo, passano da un ruolo all’altro e spesso sono vicini di pianerottolo) e neppure abolì quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale» (che non esiste, perché i pm mandano avanti solo i procedimenti che a loro interessano), anche perché l’introduzione di questi due pilastri del processo accusatorio avrebbe reso necessario un cambiamento delle norme costituzionali. Morale: sappiamo com’è andata, e sappiamo, in buona parte, come va ancora oggi.

Ha scritto la fondatrice del «manifesto» Rossana Rossanda:

«Certi pm vogliono abbattere quel tanto di democratizzazione che nel dopoguerra si era raggiunto con il nuovo Codice e consisteva nell’imporre un tempo ragionevole fra rinvio a giudizio e processo per non fare già del processo la pena, nello spostare l’accento sul di- battimento orale, cioè pubblico, anziché sull’inchiesta delle procure».

Ha chiosato l’ex magistrato Carlo Nordio:

«L’Italia si è data un Codice alla Perry Mason, cioè accusatorio di tipo anglosassone, ma non può goderne gli effetti a causa di una Costituzione di tipo fascista... la nostra Costituzione, nata dalla lotta contro il fascismo, ha inghiottito sano sano il basamento stesso del Codice Penale fascista».

Ha detto l’ex pm Piercamillo Davigo: «Aspettavano Perry Mason. Invece è arrivato Di Pietro».

La pari dignità giuridica tra accusa e difesa è rimasta un sogno, ma, soprattutto, la custodia cautelare è stata dispensata come regola anche a fronte di reati (presunti) che non prevede- vano il carcere neppure in caso di condanna. I magistrati milanesi, con una giurisprudenza tutta loro, inquadrarono ogni reato (presunto) come affiliazione a un sistema, e, per prolungare a piacimento le carcerazioni preventive di chi non confessava (o meglio non confessava ciò che volevano loro) era sufficiente che dimostrassero come l’indagato avesse fatto parte di questo sistema. Chi denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema. Il segreto istruttorio, poi, sempre per interpretazione della magistratura, divenne una barzelletta buona per sputtanare determinati soggetti (e non altri) i quali, per evitare l’arresto, pellegrinavano in procura dopo aver letto il proprio nome sui giornali.

L’apparente battuta «non incarceriamo la gente per farla parlare, ma la scarceriamo quando parla» divenne la regola dei magistrati milanesi e poi di tutte le procure d’Italia, spiegata in questo modo: solo parlando l’inquisito si rende inaffidabile agli occhi del mondo criminoso cui appartiene, dunque parlan- do svaniscono il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove – ossia i requisiti per cui dovrebbe scattare l’arresto.

Disse il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli: «Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».

Disse il procuratore generale di Milano Adolfo Beria di Argentine: «Con il clamore e la tensione collettiva che si sono cre- ati attorno a Mani pulite, oggi l’opinione pubblica accetterebbe anche la tortura per estorcere le confessioni».

L’insistenza sul punto è motivata dal fatto che, a distanza di trent’anni, c’è ancora chi ha il fegato di sostenere che Mani pulite non abusò del carcere preventivo, o non ne fece lo strumento fondamentale delle sue inchieste. Ormai lo ammette anche Piercamillo Davigo:

«Potrei cavarmela dicendo che abbiamo arrestato le persone sem- pre rispettando la legge. Però devo aggiungere che uno strumento essenziale per accertare la corruzione è l’isolamento dei complici. Bisogna allontanare uno dall’altro, impedire la comunicazione. E come si fa? Con la custodia cautelare».

In questo modo, però, l’eventualità che un soggetto non avesse nessun complice da cui isolarsi, e soprattutto alcunché da confessare – dunque non appartenesse ad alcun mondo criminoso – non veniva considerata.

Pochi esempi tra mille. Il brigadiere G.F., per esempio, fu convocato da Antonio Di Pietro il 21 luglio 1994 per l’inchiesta sulla corruzione nella guardia di finanza. Il pm gli contestò delle tangenti pagate da alcune aziende, ma lui negò l’addebito. Il brigadiere allora venne arrestato il giorno dopo, nel perio- do, purtroppo, in cui sua moglie stava rischiando di perdere il figlio in gestazione dopo averne già perso uno l’anno prima. Allora, per dirla con il pool, parlò e venne scarcerato, ma poi, il 6 marzo 1995, in aula, mise a verbale: «Signor Presidente, ho confessato di aver preso soldi durante le verifiche fiscali per uscire dal carcere, ma non è vero niente. Non ho negato quanto mi veniva contestato da Antonio Di Pietro perché dopo cinque giorni di assoluto isolamento nel carcere di Peschiera pensavo che, solo ammettendo, potessi riacquistare la libertà». Risultato: fu inquisito per calunnia. Domanda lecita: e se il brigadiere non avesse parlato, se non avesse – dal suo punto di vista – mentito? Possibile risposta: l’ex colonnello C.C., indagato nella stessa in- chiesta, colpevole o meno che fosse, fu arrestato il 5 luglio 1994 e, senza aver parlato, fu scarcerato il 17 luglio... ma dell’anno successivo, il 1995.

La confessione come unica possibilità per essere scarcerati non fu solo l’indegna sintesi di una più complessa interpreta- zione giurisprudenziale: fu proprio messa nero su bianco. Un altro piccolo esempio. R.T., normalissimo geometra dell’Anas di Milano, venne incarcerato il 1° marzo 1993 con l’accusa di aver favorito un appalto in cambio di una decina di milioni. La richiesta d’arresto era firmata dai pm Antonio Di Pietro, Ghe- rardo Colombo e Piercamillo Davigo, convalidata dal gip Italo Ghitti. Un classico. A leggere le motivazioni veniva da pensare, come si dice, che buttassero via la chiave: «Sussistono gravi in- dizi di colpevolezza...», «per i reati la legge prevede una pena superiore a tre anni», «la legge prevede pene edittali elevate» senza «beneficio della sospensione condizionale». La custodia cautelare era necessaria perché esisteva un concreto pericolo «di inquinamento probatorio», in quanto «l’indagato ha co- stanti legami con pubblici amministratori che possono proce- dere a un’alterazione documentale»; esisteva poi un concreto pericolo «di reiterazione di comportamenti criminosi gravissimi ed analoghi», e i fatti «denotano in modo più che evidente l’inserimento dell’indagato... all’interno di un sistema», sicché «la misura richiesta appare sicuramente idonea ed adeguata... la custodia cautelare è l’unica proporzionata».

Una settimana dopo il gip respinse una richiesta di scarcerazione o concessione degli arresti domiciliari, perché non era an- cora chiaro «il quadro complessivo» ossia «un più vasto ambito che deve essere dettagliatamente delineato». Doveva delinearlo l’incarcerato, forse: e infatti. Cinque giorni dopo, il 12 marzo 1993, cambiò tutto. Le motivazioni addotte dal gip non valevano più, perché R.T. aveva «parlato», assecondando la linea dell’accusa. Il gip Ghitti concesse gli arresti domiciliari, e val la pena di riportare un passo dell’ordinanza:

«Il Giudice per le Indagini preliminari... Rilevato che il pm ha espres- so il proprio parere... Rilevato che all’esito degli ulteriori atti istruttori le esigenze cautelari poste a base del provvedimento restrittivo si sono quanto meno attenuate, sia per quanto concerne il pericolo di inquina- mento probatorio sia per quanto concerne il pericolo di reiterazione di fatti analoghi a quelli per i quali si procede, in quanto l’indagato ha reso dichiarazioni confessorie in ordine ai fatti contestati... »

Il gip lo scrisse testualmente: l’indagato poteva uscire perché «ha reso dichiarazioni confessorie», cioè aveva parlato.

Lo stesso accadde per molti altri, tra cui una segretaria dell’ex ministro Gianni De Michelis, M.C. che venne arrestata il 3 luglio 1993. I magistrati volevano sapere chi, come e per- ché pagava i conti dell’ex ministro. Lei rispose che per l’attività pubblica e istituzionale faceva riferimento all’apposito fondo ministeriale, mentre per le spese personali utilizzava contanti o assegni che le passava direttamente De Michelis. L’indagata però negò l’accusa principale: disse che non aveva mai ricevuto denaro da Giorgio Casadei, segretario particolare del ministro. I magistrati non le credettero. Tra le motivazioni con cui il gip Gioacchino Termini e il pm Rita Ugolini negarono la scarcera-zione, si legge:

«Considerato che il comportamento dell’indagata non è sostanzialmente mutato, giacché le sue ammissioni e i chiarimenti forniti se- guono sempre a specifiche contestazioni... considerato che manca un chiaro segno di resipiscenza e ripensamento sul comportamento reti- cente, contraddittorio e riduttivo, questo giudice, su parere conforme del pm, rigetta l’istanza di scarcerazione».

L’indagata, in altre parole, si era limitata a rispondere alle domande dei magistrati senza raccontare episodi a loro scono- sciuti, ma che ritenevano dovessero probabilmente esistere. È un altro classico di Mani pulite, anche se quest’ultimo episodio capitò a Venezia.

Molteplici sono gli esempi dell’uso della custodia cautelare secondo la prassi di quel periodo, comprendente anche la temuta tecnica dei cosiddetti «arresti a grappolo»: in pratica il malcapitato rimaneva in carcere sin quando, poco prima che scadessero i tre mesi di custodia cautelare (termine massimo), si spiccava un nuovo ordine d’arresto legato a un episodio delittuoso che l’accusa serbava in un cassetto, o che, peggio, era stato lo stesso detenuto a confessare tempo prima: sicché restava dentro altri tre mesi, alla fine dei quali non poteva escludere che gli riservassero lo stesso trattamento.

Per comprendere la più feroce coltellata inflitta al Nuovo Codice è però richiesto un ultimo sforzo. Come detto, la magistratura aveva stravolto e sovrainterpretato il Nuovo Codice di procedura penale varato nel 1989 non avendolo mai gradito: era stato neutralizzato e poi ridestato come un Frankenstein inquisitorio/accusatorio gradito alle toghe ma non alle intenzioni originarie del legislatore. A un Di Pietro usato come ariete, in- fatti, si era affiancata una controlegislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 255 del 3 giugno 1992) e una legge suicida (la 371, che consentiva l’arresto del testimone colto in flagranza a mentire o reticente di fronte al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria) avevano di fatto ristabilito e rafforzato lo strapotere delle indagini preliminari. Da un paio di lustri, ormai, ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli meramente in pro- cessi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dal- le trattative ossia da quanto l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse.

In teoria le prove e le confessioni, per essere avvalorate, dovevano essere riproposte nell’aula del processo: era nel corso del dibattimento, cioè, e non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia, che una testimonianza doveva diventare una prova. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene durante il processo semplicemente non esiste. In pratica nel corso di Mani pulite la procedura fu rovesciata. Ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre dal faldone alcuni verbali d’interrogatorio ottenuti in carcere e riversarli nel processo, che a quel punto non contava più nulla, ridotto a vidimazione notarile delle carte in mano all’accusa; se l’imputato o il testimone non ne dava conferma, ossia non ripeteva in aula quanto dichiarato durante le indagini, magari dopo mesi di galera, veniva immediatamente incriminato per calunnia. Un imputato, per capirci, poteva denunciare un altro cittadino, patteggiare una pena simbolica e quindi «uscire» dal processo senza neanche presentarsi in aula, cioè senza mai confrontarsi con la persona che aveva accusato: c’è gente, in Mani pulite, che ha subito condanne senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore. Era sufficiente che l’accusa rileggesse in aula i verbali delle indagini preliminari perché diventassero prove. Tutto questo, ovviamente, non sarebbe potuto accadere senza una controlegislazione operata dall’alto.

Va da sé che a quasi nessun indagato interessava aspettare un processo da celebrarsi chissà quando: gli interessava uscire il prima possibile dalla galera preventiva e veder dissequestrati i conti bancari inaccessibili da mesi alla sua famiglia o alla sua azienda, ergo poter uscire dal procedimento (uscire di scena), colpevole o innocente che si ritenesse. Da qui, a primeggiare nelle statistiche dell’inchiesta, l’altissimo numero di patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati e alle concessioni che l’indagato fosse disposto ad accettare: e le condanne con patteggiamento, in Mani pulite, sono state 847 su 1.254, ottenute, ripetiamo, quando il carcere preventivo era la regola e tutto si esauriva nelle indagini, complice la stampa e le sue storture. Il ricorso al patteggiamento, in altri termini, divenne una scorciatoia pagata a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne del rito ambrosiano; chi non accettava restava ostaggio della macchina giudiziaria, o in molti (moltissimi) casi – se non parlava, e resisteva perché magari non aveva niente da dire – la sua posizione veniva spedita per competenza ad altre procure: è successo in ben 1.320 casi, con percentuali di proscioglimento altissime. Tutta gente non colpevole che però non figura nella casistica ufficiale di Mani pulite, come se a Milano avessero teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria.

Detto questo, esistono espressioni giuridiche complesse che il cittadino pur informato avrà udito più volte pur affrontandole con reverenza: terzietà del giudice, obbligatorietà dell’azione penale, competenza territoriale, responsabilità oggettiva («non poteva non sapere») più molte altre che hanno spesso fatto parte di ordinari dibattiti giurisprudenziali anche interni alla corporazione togata. Si potrebbe dire anche, attorno a questi snodi, che per una breve ma decisiva stagione, vecchi e giovani magistrati, politicizzati o no, arrembanti o defilati, galantuomini o soggetti da sanatorio, tutti insieme superarono ogni contrasto, e l’ultimo scalcinato pretore e il più prestigioso degli ermellini si ritrovarono a remare all’unisono nella stessa dire- zione. A nessun magistrato spiacque veder accrescere il proprio potere corporativo.

Ma non c’è soltanto la maledetta questione del carcere. C’è – e forse gli italiani discussero più che altro di questo – la percezione e la possibilità che un’inchiesta sia condotta bene o male, in tutte le direzioni o solo in alcune, con il necessario approfondimento oppure con imperdonabile sciatteria; insomma: c’è il modus, la discrezionalità esercitata nell’azione giudiziaria; se un’inchiesta fosse una storia, corrisponderebbe alla differenza tra raccontarne una o un’altra, raccontarla tutta o una parte, raccontarla veritiera o inventata: senza che i narratori – i magistrati – siano per forza dolosamente responsabili dei risultati raggiunti o non raggiunti, ma corrispondano talvolta solo ai li- miti buoni o cattivi che le loro scelte hanno comportato.

Può non sembrare chiarissima, messa così. Forse fu più esaustivo il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, intervistato nel 2002:

C’è stata una gestione «politica» dell’inchiesta, nel senso di procedere per gradi, scegliendo gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento?

«Dipende dal significato del termine «politico». Io la paragonerei a certe forme di Blitzkrieg, di «guerra lampo», la tattica tipica degli eserciti germanici... penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali, le piú difficili da sfondare. Di Pietro agiva allo stesso modo: tendeva ad arrivare rapidamente a risultati certi, lasciando ai margini una quantità di altre vicende da esplorare in un secondo momento. Da questo punto di vista possiamo parlare di «gestione politica»: nel senso di una strategia processuale che, a essere rigorosi, costituisce un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine».

Un primo dubbio sorge spontaneo: le vicende da esplorare «in un secondo momento» furono poi esplorate? Se no, perché? Se sì, quando? Soprattutto, furono esplorate in coincidenza con il celebre sostegno e attenzione dell’opinione pubblica?

Sono domande inutili e che, soprattutto, non vanno certo nella direzione – non sia mai – di rimpolpare le solite accuse di parzialità dei magistrati verso la sinistra, tema che si affronterà più avanti. Sono domande inutili perché, a difesa dei magistrati, va ricordato che trattasi comunque di uomini, e che nessuno, pregiudizi a parte, condurrebbe un’inchiesta nello stesso identico modo di un altro. Anche le prove di eventuali deviazioni, lassismi, approssimazioni e scarsa diligenza – in seno a una magistratura che tende peraltro ad autoproteggersi – comportano, quando va male, violazioni deontologiche da valutare in sede disciplinare.

Il punto, infatti, è molto più grave. Il punto è che il metodo di un’inchiesta rivoluzionaria e già definita «un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine» ha per esempio portato a tralasciare – travisare, non vedere, insomma non «esplorare» – ciò che altre procure scopriranno essere stato il vero epicentro della Tangentopoli nazionale: Pierfrancesco Pacini Battaglia, puerilmente definito dal gip Italo Ghitti «un gradino sotto Dio», un banchiere che per anni, a mezzo di conti esteri e offshore, aveva riempito le casse delle principali forze di governo e funto da collaudato intermediatore per segretari di partito, grandi imprenditori, alti ufficiali dello Stato, magistrati, militari, faccendieri internazionali, lobbisti d’alto bordo, grand commis di aziende multinazionali: e che, non bastasse, dall’alto delle sue relazioni o dal basso della sua villa in Toscana, posta accanto a quella di Susanna Agnelli, era in grado di condizionare o ricattare mezzo paese e nondimeno fu in grado di orientare la stessa inchiesta Mani pulite. È questo che interessa, ora: non anticipare il ruolo di Pacini Battaglia nel procedere dell’inchiesta, e tantomeno prenderlo a pretesto per riparlare del suo particolare rapporto con Antonio Di Pietro. Interessa come funzionava l’inchiesta Mani pulite.

Molti esempi illustrano come funzionò per casi noti o meno noti. Per il caso di Pierfrancesco Pacini Battaglia, chiamato in causa da un dirigente della Saipem (gruppo Eni), andò nel modo seguente: il banchiere anzitutto riuscì a evitare l’arresto e, dalla Svizzera, decise di avvalersi come difensore dell’avvocato Giuseppe Lucibello, non altri. In quei corridoi milanesi dove miriadi di arresti non verranno risparmiati, il banchiere ottenne la fissazione di una cosiddetta «presentazione spontanea» durante la quale anticipò (in un memoriale) parte delle contestazioni che gli aveva mosso il dirigente della Saipem. Parte, appunto: delle contestazioni mancanti non gli chiesero nulla, anche se riguardavano filoni e provviste che si sarebbero rivelate milionarie. Durante l’interrogatorio, le informazioni fornite da Pacini Battaglia venivano messe a verbale quasi acriticamente: spesso presentò documentazioni incomplete o alterate (ciò risulterà) e rilasciò dichiarazioni su fatti che i magistrati già sapevano. Non faceva mai nomi nuovi, non introduceva altre responsabilità se non di qualche nemico dichiarato (lo riveleranno anni dopo alcune intercettazioni telefoniche) e in definitiva i pm del pool non fecero mai una sola indagine sui conti bancari della banca di Pacini Battaglia, la Karfinco, riferibili personalmente a lui. Ci furono poi altri interrogatori che si tradussero in una memoria in cui il banchiere spiegava di aver trasferito in Italia quaranta miliardi di lire illegali con discriminazioni tra la veridicità dei versamenti basati sulla mera parola del banchiere: con questo criterio, per esempio, l’amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci – amico personale di Pacini Battaglia – rimase fuori da Mani pulite ma non dall’inchiesta sull’Alta velocità ferroviaria, scoperta successivamente – però non dal pool di Milano, bensì dalla Procura di La Spezia, la stessa che smascherò il vero ruolo di Pacini Battaglia nella Tangentopoli nazionale. L’inchiesta di La Spezia, anni dopo, rivelerà che il banchiere tosco-elvetico aveva cercato di salvare i suoi amici e di inguaiare i suoi nemici, omettendo di parlare di una quantità infinita di fondi esteri.

Intercettato a La Spezia, Pacini Battaglia si vanterà: «A Milano non mi hanno rinviato a giudizio... ho fatto archiviare un’indagine su Necci». Senza contare una famigerata «ho pagato per uscire da Mani pulite» che si presterà a infinite preoccupazioni.

Dirà Piercamillo Davigo:

«Nel momento in cui è rientrato in Italia e si è presentato a noi spontaneamente, e con le sue dichiarazioni ci ha svelato una serie di episodi fino a quel momento sconosciuti, sono cessate le esigenze di custodia cautelare... Certo, oggi l’esperienza di Mani pulite ci dice che quasi mai gli indagati ci hanno detto tutto. Ma la tortura non è prevista dal nostro ordinamento. E noi, per farlo parlare, non potevamo mica picchiarlo».

Infatti non picchiavano, in genere: incarceravano.

Ha testimoniato in sede giudiziaria il pm Francesco Greco:

«Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si tornava a quello dopo... Di Pietro era sempre proiettato alla scoperta di nuovi filoni investigativi e raramente tornava sui suoi passi... anche Pacini Battaglia ha sicuramente taciuto molte sue verità illecite... ha omesso in particolare i suoi rapporti finanziari con i singoli dirigenti dell’Eni... in seguito è emerso un suo ruolo nelle vicende Allied e Cragnotti e di volta in volta è stato interrogato da Di Pietro o dalla sua struttura... di Pacini se ne occupò prevalentemente lui».

Ha confermato, sempre in sede giudiziaria, il pm Gherardo Colombo:

«Accadeva spesso che chi collaborava non collaborasse a 360 gradi e tacesse parte di quanto a sua conoscenza... succedeva a volte di richiamare questi indagati senza procedere a nuova cattura... Quan- to leggo nei documenti che mi mostrate non fa altro che confermare quelle che erano le mie convinzioni in ordine al fatto che, con ogni probabilità, Pacini, come tanti altri, aveva svelato soltanto una parte delle realtà penalmente rilevanti che erano a sua conoscenza».

Ha scritto il giornalista Antonio Galdo nel suo libro Gli sbandati:

«Davigo era diventato consigliere della quarta sezione penale... Speravo di portare a casa qualche spunto autocritico, e invece Davigo mi sorprese e mi fece capire, con un’analisi molto lucida, quale era stata la vera bussola che guidava le scelte del pool. Iniziò con un riferimento religioso: «Nei testi induisti compare questa domanda a un profeta: “Da che parte devo stare?”. E lui rispose: “Pensa a combattere, non spetta a te cambiare il mondo”».

Messa così, par di capire che l’inchiesta Mani pulite fu un’indagine irresponsabile, condotta superficialmente e imperniata sul carcere, in cui la velocità prevalse sulla qualità e sull’accuratezza. Sembra di capire questo. Dev’esserci un errore da qualche parte.

Ancora Borrelli:

«Si impose la necessità di fare in fretta, di puntare molto rapidamente a uno scopo. Non, come si è detto polemicamente, quello di abbattere il regime o l’assetto politico di allora. Ma quello di raggiungere al piú presto risultati investigativi da presentare anche all’opinione pubblica con un buon grado di certezza. Di qui la necessità di suggellare tutte quelle situazioni di corruzione che potevano essere agevolmente dimostrate e accertate, lasciando da parte altre aree piú difficili da afferrare, che si sarebbero esplorate successivamente. Di fatto, poi, la rappresentazione di quel panorama avvenne soprattutto nei grandi processi Cusani-Enimont. Poi Di Pietro lasciò la presa, e gli altri colleghi andarono avanti, ma inevitabilmente molto materiale rimase accantonato».

Rimase accantonato un intero Paese. 

La guerra dei trent’anni. Le connivenze della stampa nel raccontare Mani pulite. Filippo Facci su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Filippo Facci ha sintetizzato per Linkiesta la parte del suo nuovo libro che tratta del problema degli storici nell’affrontare i primi anni Novanta – come intrappolati in una «eterna transizione» che perdura ancor oggi – e i giornalisti che in quel periodo abdicarono al loro ruolo. 

I giornalisti non fecero il loro lavoro e ora gli storici non riescono a fare il loro. Indro Montanelli, in parte, aveva anticipato il problema: «Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della nostra storia nazionale, avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani dalle fonti dei giornali e dei telegiornali, e sai perché? I giornalisti, tranne le ovvie eccezioni che confermano la regola, durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza, e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani, che volevano il rogo, e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla. Una cosa che complicherà il lavoro dei poveri storici».

Si registrano almeno gli ottimi ma incompleti lavori di Giovanni Orsina che denotano quantomeno uno sforzo in direzione di una rinnovata ricerca delle fonti: per il resto, sulla storia di quegli anni, c’è davvero poco, salvo epistole tra accademici piazzate nei settori più impolverati delle librerie. Si deve tornare alla «Grande slavina» di Luciano Cafagna per capirci qualcosa a dispetto del limite, nonostante una notevole preveggenza, di interrompersi ed essere pubblicato a metà del 1993. Finirà che noi peones ci limiteremo a sostituire la monumentale «Storia d’Italia» di Indro Montanelli con la puntuale annalistica di Bruno Vespa, o, nel caso di analfabeti funzionali wikipedia-dipendenti, di scambiare per Storia lo sterminato faldone giudiziario titolato «Mani pulite» di Barbacetto-Gomez-Travaglio che è un mero riversamento di un dischetto informatico contenente tutti gli atti dell’inchiesta, consegnato agli autori personalmente da un magistrato del pool milanese. In compenso, il volume di oltre 800 pagine è stato definito «La più analitica e accurata ricostruzione dei fatti che io abbia letto». Parola di Piercamillo Davigo.

Sta di fatto che anche Aurelio Lepre, docente universitario di Storia contemporanea e già autore per varie case editrici, ultima Il Mulino, è autore di una «Storia della prima Repubblica» giudicata «la più convincente ed equilibrata» da Giovanni Sabbatucci, altro accademico di Storia contemporanea tra i più accreditati. Tuttavia, fermandosi alla fine del millennio scorso, anche Lepre sembra essersi arreso:

«L’editore mi chiede di aggiornare la mia Storia della prima Repubblica e mi crea qualche difficoltà. Per due motivi: il primo consiste nel fatto che negli ultimi anni la cronaca della vita politica italiana ha assunto frequentemente, anche a causa della pressione mediatica, l’aspetto di un teatrino… Tranne poche eccezioni, gli attori recitano sopra le righe, davanti a un pubblico perplesso, tra gli applausi di claques sempre più ristrette. Anche per uno storico, perciò, la tentazione di trattarne in chiave ironica è forte. Ma il nostro mestiere ci insegna proprio a distinguere tra cronaca e storia e bisogna perciò riuscire a cogliere dietro la maschera spesso buffonesca della cronaca politica giornaliera il volto severo della storia. Con la speranza che ci sia davvero.

La seconda difficoltà è costituita dal fatto che stiamo vivendo una transizione infinita, che non sembra offrire punti certi di riferimento. La prima edizione di quest’opera si chiudeva con gli avvenimenti del 1992, una data che pareva assumere un significato epocale a causa della drammatica atmosfera creata dalle inchieste… Era diffusa la convinzione che la società italiana fosse arrivata a una svolta. Ma così non era stato…. Nel 2003 siamo però ancora in mezzo al guado. E nessuno, se non per motivi di polemica giornalistica, si azzarda a sostenere che è cominciata una seconda Repubblica… Sono ancora convinto che un’epoca della nostra storia si è chiusa, anche se non è ancora cominciata una nuova».

E veniamo alle colpe dei giornalisti. Tra la primavera del 1992 e la fine del 1994, in Italia, si creò un’alleanza tra procure e mezzi di informazione come non si era mai vista in nessun Paese occidentale, e come probabilmente non si vedrà mai più. In sintesi accaddero tre cose: L’informazione non si fece solo gregaria della magistratura «rivoluzionaria, ma divenne autenticamente uno strumento di indagine della medesima; 2) La stessa informazione si fece uniformata da testata e testata – comprese quelle televisive, pubbliche e private – in quella che fu definita una «redazione giudiziaria» unificata tra cronisti, alcuni dei quali avevano rapporti diretti e preferenziali coi magistrati in particolare del Pool Mani pulite di Milano; 3) La stessa saldatura si traspose tra i livelli più alti di alcune testate, attraverso un patto tra direttori che furono così in grado di condizionare l’opinione pubblica al punto da stravolgere o vanificare ogni iniziativa del potere legislativo.

Cominciamo con l’informazione come strumento d’indagine. Il ruolo della stampa in pratica di fece fisiologico all’inchiesta milanese: travestita da libera circolazione delle notizie, la pubblicazione di determinati verbali (piuttosto di altri) si traduceva in un irresistibile effetto richiamo per decine di soggetti che si ritrovavano il proprio nome sui giornali.

Il pm Antonio Di Pietro aveva prospettato un uso della stampa a fini istruttori sin dal primo giorno, quando lasciò filtrare la notizia – falsa – che su un conto bancario della madre di Mario Chiesa ci fossero oltre 4 miliardi. Uscita la notizia sui quotidiani, convocò la poveretta e le chiese: «Quanti soldi ha sul conto?». «Quattro miliardi e mezzo» rispose lei. Ma erano quasi 7, e questo potè dimostrare che quel denaro non era gestito da lei. Ma molte e troppe furono le strumentalizzazioni di una stampa compiacente: soprattutto in un periodo in cui un avviso di garanzia, o mezza notizia ben filtrata, erano in grado di squadernare ogni trattativa politica.

Una sola notte di prigione era poi in grado di trasformare i primi imprenditori arrestati in terribili accusatori: una sola chiamata in correità divenne presto un presupposto sufficiente per far scattare le manette. Ammetterà il pm più noto dell’inchiesta Mani pulite: «Per l’imprenditore la convenienza è soprattutto imprenditoriale. Qual è il suo primo problema quando viene coinvolto? I giornali, la televisione, l’arresto, la confessione, tutto questo produrrà effetti a catena disastrosi per la sua impresa. Le banche ritireranno i fidi, i committenti non daranno più gli appalti, i lavoratori contesteranno, sarà costretto a chiudere».

Una prima fase dell’inchiesta tenderà perciò a inquadrare l’imprenditore più nel ruolo di concusso da un potere politico ricattatore, sin da subito vero obiettivo dell’indagine: un Di Pietro stanchissimo confidò al cronista del Giorno, Paolo Colonnello: «Potrei arrivare a Craxi, ma bisogna andarci piano».

In realtà, nelle carte, non c’era nulla che facesse presagire quel punto d’arrivo. Quella stessa sera, Il 21 aprile 1992, alla pizzeria Gambarotta di via Moscova, i cronisti di giudiziaria lanciarono l’idea di riunirsi in pool «per trovarci a scrivere un pezzetto di storia», ha scritto il cronista del Corriere Goffredo Buccini. La motivazione ufficiale era non disperdere notizie, verificarle al meglio, evitare trappole, gestire la sovrabbondanza, prevenire le censure, in sostanza disciplinare la strumentalizzazione che di loro faceva palesemente Di Pietro, ottenendone i cronisti considerazione e vanagloria giornalistica.

In quella prima fase non c’era notizia o carta o verbale che uscisse senza che i magistrati lo volessero, benché, materialmente, spesso provvedevano avvocati che facevano i propri interessi. A sorvegliare il collo di bottiglia da cui passavano le notizie c’erano al massimo quattro o cinque giornalisti, ciascuno coi suoi contatti preferenziali in procura. Per buona parte erano dei cronisti ragazzini che si ponevano nell’unica strozzatura dove certe notizie potevano passare, anche se questo implicava un rapporto personale e di tacito accordo con alcuni magistrati.

Da principio a rappresentare una novità furono i telegiornali Fininvest, dapprima guardati in cagnesco e sospettati di intelligenza col nemico: spesso qualche telecronista diffondeva il panico nei servizi della notte e i cronisti della carta stampata venivano richiamati per verificare e ribattere. Circolavano elenchi di arrestati veri e falsi, e Di Pietro era letteralmente idolatrato e i cronisti l’avevano soprannominato «Dio» o «Dio Zanza» o «Zanzone» (imbroglione in milanese) mentre il capitano Zuliani dei Carabinieri era «Mago Zu». Il decano dell’Ansa, storico punto di riferimento, chiamava i più agguerriti «quelli che ce l’hanno sempre duro». Un mensile di categoria, Prima Comunicazione, li descrisse come «Un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato».

Di fatto, l’informazione si fece uniformata da giornale a giornale, ma soprattutto militante. L’entusiasmo e la giovane età, in qualche caso, giustificarono episodi al limite del fanatismo: per esempio la produzione della maglietta «Anch’io seguo Mani pulite» o il primo avviso di garanzia a Craxi appeso in sala stampa (dopo aver brindato a champagne, come accadde anche per l’arresto di Salvatore Ligresti) e più in generale una dedizione che portò alcuni ragazzi a sentirsi parte dell’inchiesta anziché strumento della medesima. Ha scritto ancora Buccini: «Che noi trentenni di allora avessimo più o meno tutti una formazione di sinistra è vero. L’inchiesta ci dava la conferma di ciò che noi avevamo sempre pensato dell’Italia: dei socialisti, degli andreottiani, di Ligresti e poi dello stesso Berlusconi. E quando ritieni di vedere la conferma di quello che pensi, non cerchi altre verità… E questo è stato senz’altro lo sbaglio di noi giovani giornalisti di allora. E lo sbaglio di tutti quanti, poi, è stato pensare che un Paese si possa riformare per via giudiziaria: i processi sono una scorciatoia solo apparente. La storia di Mani pulite dimostra che la rivoluzione giudiziaria non esiste».

Anche l’estrazione politica della maggior parte dei cronisti sembrava univoca: «Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Brambilla, un cattolico perbene», è sempre Buccini a parlare, «noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra. In qualche modo, l’inchiesta contiene, almeno in potenza, la conferma del male che abbiamo sempre pensato di certi socialisti craxiani traditori della nostra causa, certi andreottiani mafiosi e maleolenti, certi imprenditori tentacolari e, in generale, di un potere costituito che sempre si oppone alle «magnifiche sorti e progressive» di cui abbiamo deciso di non essere alfieri sin dai licei e dalle università. Tutto questo può non pregiudicare il lavoro nell’immediato: ma può metterlo a rischio più in là».

Non erano tutti di sinistra, comunque. E se è vero che Michele Brambilla del Corriere era un cattolico moderato, lo è anche che presto, arcistufo, lasciò il gruppo e cedette il posto al più esaltato Gianluca Di Feo. Paolo Foschini di Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva poco da fare il compagno di sinistra. Frank Cimini del «Mattino» lo era pure, di sinistra, ma in stile «manifesto», un garantista sovrastato dai fatti. Annibale Carenzo dell’Ansa, il decano, si limitava a dare notizie senza interpretazioni. Lo stesso valeva per Mario Tomaino e Salvatore Carloni dell’Agenzia Italia. Cristina Bassetto dell’Adn-Kronos era un ex giornalista dell’Avanti! passata ad altri lidi quando il giornale chiuse. Maurizio Losa della Rai, molto vicino a Di Pietro, era un ordinario reggi-microfono alla pari di altre due comparse rispettivamente in quota repubblicana e socialista. Andrea Pamparana del Tg5 era figlio del portinaio di casa Pillitteri ed era un bravo ragazzo senza ideologie e con limiti precisi. Enrico Nascimbeni dell’Indipendente, figlio del noto Giulio del Corriere, non era nulla che abbia senso classificare.

Piallato su una sinistra giustizialista (più giustizialista che sinistra) era semmai lo zoccolo duro composto da Goffredo Buccini (Corriere) e Paolo Colonnello (Il Giorno) e Peter Gomez (Il Giornale) e ovviamente Marco Brando e Susanna Ripamonti (Unità) più ovviamente il duo inossidabile Luca Fazzo e Pietro Colaprico (Repubblica) a cui si aggiungeva Cinzia Sasso, futura consorte dell’avvocato e sindaco Giuliano Pisapia. Nell’ammettere onestamente che «rifarei tutto», Luca Fazzo (oggi al Giornale) nel 2011 ha ammesso che l’inchiesta non sarebbe stata possibile «con il rispetto formale delle regole», e che ci fu la «sospensione temporanea delle garanzie».

Fazzo racconterà della sparizione sostanziale dell’articolo 318 del Codice Penale, sostituito regolarmente dalla contestazione dell’articolo 319 che semplicemente distingue la «corruzione per atto d’ufficio» dalla «corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio»: il primo non prevedeva l’arresto, il secondo sì. Ha raccontato ancora Luca Fazzo: «Tacitamente erano stati suddivisi i compiti: a L’Espresso si davano i verbali, al Corriere le interviste. Ricordo quando Borrelli si affacciava nel corridoio e diceva «Chiamatemi Buccini». Voleva dire che c’era un problema e che aveva bisogno di essere intervistato».

Servire e accorrere alla corte di un magistrato, per qualche ragione, suonava diverso dal servire e accorrere alla chiamata di un politico. Solo l’espressione «servire» restava identica, e andare a rivedersi la radice latina del verbo «servire» pare irrispettoso. Comunque anche alcuni avvocati facevano la loro parte. Magari il magistrato dava la dritta, i carabinieri fornivano l’ordine di cattura e i legali i verbali di interrogatorio. Con in mano i verbali, poteva capitare che i giornalisti arguissero in anticipo chi sarebbe stato arrestato o indagato di lì a poco. Ancora Luca Fazzo: «Lo chiamavamo il pigiamino, forse perché arrivavamo a chiedere interviste anche la sera tardi, nelle case di persone che non immaginavano che cosa stesse per cascare loro addosso. Erano veri agguati».

C’erano verbali autorizzati e altri che lo erano di meno. Anche allo scrivente capitò di pubblicare (sull’Avanti!) degli stralci di verbale che secondo le vecchie regole violavano il segreto istruttorio: ma non facevano parte di nessuna dinamica prevista e unificata, insomma non erano condivisi. Ufficialmente non esistevano. In un verbale che pubblicai più volte, in particolare, si chiamava in causa un democristiano moralizzatore d’ambiente addirittura curiale, Antonio Ballarin, un archetipo da «società civile» che, di passaggio, era anche cugino del pm Gherardo Colombo. Il pool dei giornalisti quel verbale non l’aveva avuto, tanto che un collega che conoscevo da quando scrivevo su Repubblica, Piero Colaprico, mi disse che a suo dire era «un falso, e altri colleghi mi sbeffeggiarono definendolo «una patacca». Invece era autentico. Lo era al punto che il moralizzatore pellegrinò in Procura, con l’Avanti! sotto il braccio, e dopo un po’ i cronisti lo videro lasciare il palazzo con lo status di indagato. Ballarin fu costretto a un imbarazzante confronto con Maurizio Prada, il cassiere milanese della Dc.

Ha scritto quasi trent’anni dopo ancora Goffredo Buccini, cronista del Corriere della Sera rimasto impigliato nel reducismo: «Dal 17 febbraio 1992 ogni interrogatorio, verbale, arresto s’è sempre tradotto in un passo verso il primo, vero bersaglio dell’inchiesta, il Cinghialone. Dovremmo chiederci se sia normale che un’inchiesta abbia un bersaglio, peraltro marchiato con un nomignolo così feroce. O se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo l’atto di accusa contro un indagato. Ma è inutile nascondersi dietro le ipocrisie». Il «Cinghialone» era Bettino Craxi.

Mentre l’inchiesta impazzava capitava che le notizie fossero depositate nelle edicole prima ancora che nelle mani degli avvocati. Il democristiano Giorgio Moschetti, nel settembre del 1992, raccontò: «Alle 16.45 di oggi mi è stata notificata un’informazione di garanzia. Il Tg ne aveva già dato notizia verso le 14».

Un altro democristiano, Roberto Mongini, ha raccontato che accese la radio e seppe di essere stato arrestato un paio d’ore prima. Poi c’erano altri casi, particolari, come quello raccontato dal cassiere democristiano Severino Citaristi: «Consegnai degli elenchi a Di Pietro. Conoscendo le poco corrette abitudini di Milano, gli raccomandai di fare in modo che l’elenco non fosse reso pubblico. Me lo assicurò. Infatti, due giorni dopo, quotidiani e settimanali pubblicarono integralmente i tre elenchi consegnatigli, contenenti nomi di oblatori che prima non erano mai apparsi, come per esempio Pietro Barilla. Anche in questo caso il cosiddetto Pool di Milano continuò nella sua poco corretta abitudine».

Il cronista Bruno Perini, che seguiva l’inchiesta per «il manifesto», scrisse sul mensile «Prima Comunicazione»: Bisogna pur dire che a Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura. Molti giornali si sono messi sull’attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati. È stato rispettato più il Codice Di Pietro che non il nuovo Codice penale. C’è stata una specie di identificazione totale con l’ufficio del pm, tanto che alcuni periodici [«L’Espresso» e «Panorama»] sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d’interrogatorio. I giornali si sono così abituati a singolari trattative sulla carcerazione preventiva o sulla consegna degli imputati, come se fosse una cosa normale … anche in questo caso ha funzionato la forte dipendenza dalle fonti di informazione. Con un’aggravante: soprattutto nell’inchiesta Mani pulite, le fonti di informazione erano univoche».

Tanta confidenza portò per esempio un cronista di giudiziaria del Corriere della Sera a fare da autista ai magistrati Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo nel percorso tra Milano e Montenero di Bisaccia – quasi 700 chilometri – per partecipare ai funerali della madre di Antonio Di Pietro. Al Corriere della Sera peraltro avevano un Cerved, un monitor che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva qualche favore. Se con certa malignità i cronisti di giudiziaria potevano essere definiti camerieri delle notizie, l’alta cucina era però materia dei gran cuochi: i direttori delle testate.

È ormai acclarato che a un pool di cronisti se ne affiancasse un altro che concordava titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa mentre Paolo Ermini chiamava l’Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C’era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l’apertura del Corriere, dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell’Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito.

Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c’era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni… Lo sbaglio è stato di aver riproposto l’idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese… abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità». Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente criticabile (a esser gentili) è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell’Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti… c’era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi».

Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l’ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l’oggetto era tentatore e l’idea nemmeno campata in aria… Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere “decreto salvaladri” e il gioco era fatto».

Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali… alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono… Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde».

Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c’era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era «L’Indipendente», dove ai brindisi all’avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al «manifesto», storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste.

Sarebbe poi fuorviante soffermarsi su certo giornalismo più di costume, affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e anche molti uomini che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti. Ma il dipietrismo, rivisto oggi, fa quasi parte del comico e non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all’operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l’azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c’era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera).

Anche l’informazione televisiva meriterebbe un trattato a parte. Satira a parte (onnipresente) dalle tonalità del Tg3 sembrava sempre che l’Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il consueto Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento nell’avvicinare la politica alle casalinghe) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano – e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale – si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.

Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» per 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell’edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa.

Resta il mistero – si fa per dire – di come anche la più appariscente violazione del segreto istruttorio, con l’inchiesta Mani pulite, divenne regola. Il Codice di procedura penale era anche chiamato «Pisapia-Vassalli» e allo scrivente, all’inizio del 1992, capitò di intervistare il professor Giandomenico Pisapia (morto nel 1995, dopo che, come detto, era stato presidente della commissione per la riforma del Codice) il quale disse testualmente: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è, e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione».

Va aggiunto che, sempre nel 1992, l’allora vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio».

Dopodiché, come è noto, non successe niente del genere: allora come oggi, l’interesse dei media e dell’opinione pubblica si concentrò sulle indagini preliminari, mentre il successivo processo, sempre che abbia avuto luogo, si perse nel dimenticatoio. In sostanza che cosa fosse o non fosse il segreto istruttorio, al di là delle intenzioni del legislatore, i vari pool dei magistrati e dei giornalisti presero a raccontarselo da soli.

Il 19 dicembre 1992, al Circolo della stampa, ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (un gruppo di cronisti orientati a sinistra) alla presenza dei succitati Pool, e Piercamillo Davigo la mise così: «Se una cosa la sappiamo in tre, e io sono tenuto al segreto altrimenti commetto un reato, un altro è tenuto al segreto altrimenti commette un illecito disciplinare, ma il terzo non è tenuto al segreto, allora la notizia non è più segreta…. c’è un equivoco di fondo: il segreto istruttorio è posto a tutela dell’attività investigativa, non dell’onorabilità dell’inquisito».

Disse invece il pm Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza di tutti noi va tutelato, ma quando la via di tutti, il progredire di tutti confligge con l’interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». I cronisti, ovviamente, erano d’accordo. Il giornalista della «Repubblica» Piero Colaprico avrà a vantarsi che «nessuno di noi, in dieci mesi di inchiesta, ha ricevuto una sola querela. Ciò significa che abbiamo lavorato bene, ma anche che nessuno di noi ha mai violato il segreto istruttorio».

Un sillogismo che si commenta da solo. Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, ebbe modo di spiegare che il segreto istruttorio in pratica non esisteva più. Corso Bovio, legale dell’Ordine dei giornalisti lombardi, nella prima estate 1992, aveva detto all’Avanti!: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho dovuto sostenere decine di cause per violazione del segreto istruttorio, promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga anche in ogni circostanza, e non solo nell’inchiesta sulle tangenti».

Invece Marcello Maddalena della procura di Torino sosterrà che il diritto alla riservatezza dell’indagato «comunque è secondario rispetto all’esigenza primaria di scoprire la verità». Una buona sintesi potrebbe essere che la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio dal Codice perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque, ciò bastava e basta a tutt’oggi. Chi il Codice l’aveva scritto, però, aveva intenti diametralmente opposti. E anche chi non l’aveva scritto, ma si chiamava Giovanni Falcone, non la pensava diversamente: «L’informazione di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato (…) I motivi dei miei contrasti, spesso con colleghi un po’ più anziani di me, derivavano proprio da questa differenza di mentalità. A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e con- testare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario».

Una violazione perpetrata all’infinito non la trasforma in regola: eppure, nove anni dopo Mani pulite, i primi vagiti forcaioli del giornalista Marco Travaglio – non per niente molto legato a Piercamillo Davigo – cercheranno di storicizzare quella che appare come una menzogna interpretativa: «Lo spirito del nuovo Codice, almeno su questo punto, è chiaro e nobile. Il diritto dell’opinione pubblica a essere informata sulle indagini e sui processi è più forte di quello dell’indagato alla riservatezza. Soltanto un altro valore può sopravanzare il diritto all’informazione: la salvaguardia delle indagini… La stragrande maggioranza delle notizie pubblicate dai giornali negli anni caldi di Tangentopoli, spacciate dagli imputati per “fughe di notizie” e “violazioni del segreto istruttorio”, non erano affatto segrete e non costituivano reato. A cominciare dall’avviso di garanzia, che per definizione è pubblico, essendo fatto apposta per informare l’indagato».

Non una sola cosa vera, come visto. Anche a proposito dell’avviso di garanzia, definito addirittura pubblico «per definizione», se non si vuole credere a chi il Codice l’ha concepito (Pisapia) si può sempre andare a leggersi il Codice stesso, all’articolo 369 che appunto regola l’informazione di garanzia («avviso» in gergo giornalistico) e che recita così: «Solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere, il pubblico ministero invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa una informazione di garanzia con indicazione delle norme di legge che si assumono violate».

La «garanzia» è rivolta alla persona e mira a garantire l’esercizio del diritto di difesa, perché il destinatario attraverso «l’informazione» ha la possibilità di farsi assistere da un avvocato.

Se fosse un atto pubblico, non si capirebbe la necessità di spedirlo «in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno», tantoché, già dai primi mesi di Mani pulite, anche questa regola prese a sparire. L’avviso di garanzia si consegnava a mano all’indagato e così pure ai giornalisti, all’occorrenza. Si azzarderà a dire anche Giovanni Galloni, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, il 4 dicembre 1992: «Rendere pubblico un avviso di garanzia è voler indicare un colpevole. È dunque necessario mantenere segreto l’avviso di garanzia che non è indizio di reato, ma solo la volontà del magistrato di approfondire i fatti. L’avviso di garanzia deve essere protetto dal segreto istruttorio».

Pochi giorni dopo, il 18 gennaio 1993, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale Giulio Catelani dirà che a Milano non c’era e non c’era stata nessuna violazione del segreto istruttorio. Quasi dieci anni dopo farà, diciamo così, del revisionismo: «C’era una corrente di pensiero che partiva da Oscar Luigi Scalfaro e arrivava fino alla gente nelle piazze… In quegli anni, il segreto istruttorio non esisteva più. Ora arriva l’ex giudice delle indagini preliminari, Italo Ghitti e ci dice che c’era eccome: adesso che il reato di violazione del segreto istruttorio è prescritto». Ghitti in realtà non aveva detto niente di speciale, se non questo: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del Pool».

Le notizie, però, uscivano anche dall’ufficio del gip Ghitti. Da sole. Lo scrivente ha buone ragioni di fidarsi della seguente testimonianza: «Salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta. Io ero mimetizzato tra altri tre o quattro, complici i buoni rapporti con due dei cronisti e l’apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d’arresto che lui aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Un’altra cosa me l’avevano raccontata e basta: che era sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c’era neppure bisogno di appoggiare l’orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano persino barzellette. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero».

La testimonianza, manco a dirlo, è dello scrivente. 

Il libro “La guerra dei trent’anni. 1992-2022 Le inchieste la rivoluzione mancata e il passato che non passa” esce oggi, venerdì 7 aprile. Di Filippo Facci, Marsilio, 2022, pagine 750, euro 25.

Trent'anni da Tangentopoli. Grazie a Mani Pulite oggi abbiamo il deserto della politica. Biagio Marzo su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

Come nella guerra del Trent’anni – tra il 1618 e il 1648 – ci furono una serie di conflitti che coinvolsero diversi paesi, così, a trent’anni dall’inizio dell’era di Tangentopoli (1992), non ancora conclusasi, vi sono coinvolti diversi partiti e leader politici. Purtroppo è una vicenda senza fine, una lotta di potere senza quartiere, in cui la politica è soccombente. Diciamocela tutta: è sotto scacco della magistratura. Tutto iniziò a Milano, con l’arresto di Mario Chiesa il 17 gennaio 1992, per cui la Procura di Milano costituì il pool Mani Pulite, nome non nuovo per chi conosce la storia dell’Unione Sovietica, laddove, ai tempi delle grandi purghe staliniane, operava un gruppo di magistrati che lavorava a tempo pieno. Il pool Mani Pulite, applicando la custodia cautelare a proprio piacimento, portò a termine il “golpe bianco” che fece tabula rasa del pentapartito salvando la sinistra Dc e il Pci-Pds.

Non è che gli esponenti dei due partiti non ebbero dei guai giudiziari, ma tutto sommato parecchi di meno dei dante causa. Per Gerardo D’Ambrosio, all’epoca vice procuratore, il pool non avrebbe avuto successo senza il supporto di quelle forze politiche. Oltre a queste, c’era la corazzata dei mass media scritti e parlati ad alimentare il furore di una parte degli italiani, quelli che, probabilmente, sono chiamati oggi “No Vax”. Sempre sul piede di guerra contro le istituzioni e, nello stesso tempo, illiberali.

Il pool riduceva lo Stato di diritto a una specie di formaggio svizzero e faceva crescere a vista d’occhio il cosiddetto “panpenalismo”, ovvero la necessità di penalizzare al massimo. Mentre il consenso attorno a Mani Pulite raggiungeva il diapason, la classe politica giocava in difesa tanto da suicidarsi, abolendo l’autorizzazione a procedere per i parlamentari. Vale a dire la riforma dell’art. 68 della Costituzione, avvenuta sotto la spinta del combinato disposto di mezzi di informazione e di opinione pubblica. Il risultato di questa riforma ha portato a uno squilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, incidendo negativamente sul regime democratico e liberale.

Il fenomeno corruttivo chiamato Tangentopoli è complesso, ed esprime una realtà economico-politica che non si può ridurre al finanziamento illegale delle Partecipazioni statali ai partiti, come scrive Franco Debenedetti sul Foglio dello scorso 25 febbraio. Il quale, in verità, non tiene conto che i principali gruppi imprenditoriali privati sono stati indagati. D’altro lato, non va sottaciuto l’arricchimento personale, piccola cosa di fronte al mansalva del finanziamento illegale ai partiti. Insomma, se Tangentopoli è stata la causa, Mani Pulite è stato l’intervento delle Procure per estirpare il cancro del “malaffare”, conosciuto dall’universo mondo e sempre taciuto. Se Tangentopoli è stato il cancro, Mani Pulite è stata l’aspirina esiziale nel curare il male. Al che Francesco Saverio Borrelli, ex procuratore generale di Milano e capo del pool di Mani Pulite, aveva tirato le somme: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in questo attuale”. Chiaramente un autodafè. Dall’inizio di Tangentopoli, la realtà sotto l’aspetto politico e giudiziario è peggiorata, con il giustizialismo pandemico in cui affondano l’idea di diritto liberale e il processo penale. Siccome il pool Mani Pulite avrebbe dovuto rivoltare l’Italia come un calzino – secondo il davighismo, il Davigo-pensiero, il “rivoltatore di calzini” -, ci siamo trovati con il sovranismo e il populismo che hanno acuito la crisi della democrazia rappresentativa. E poi, con lo scoperchiamento del vaso di Pandora giudiziario, si è visto il passaggio dall’ordinamento della magistratura al potere del partito dei pm, senza alcuna responsabilità.

L’effetto Luca Palamara è stato dirompente, ha fatto venire alla luce il sistema su cui si appoggiava la magistratura che regolava, di conseguenza, la vita politica, economica e finanziaria del Paese. Attraverso i due libri di Sallusti e Palamara – Il sistema e Lobby & logge – si comprendono molti avvenimenti che hanno sconvolto in qualche misura la politica. La magistratura non ha avuto un potere salvifico, come tanti italiani credevano. Anzi, è accaduto tutt’altro. Di fatto, c’è stato il sorgere, sull’onda giudiziaria-populista, del Movimento 5 stelle, che ha fatto fare passi indietro all’Italia, di cui oggi paghiamo amaramente il prezzo. Portatore dell’“uno vale uno e l’uno vale l’altro”, sicché il sapere e l’ignoranza sono uguali. Siamo, insomma, al “trionfo degli apedeuti”. Non è tutto. Il ministro della Giustizia Bonafede, con la sua legge “spazza corrotti”, aveva annunciato la fine della corruzione e Di Maio, con il suo provvedimento sul lavoro, proclamò da un balcone di Palazzo Chigi la fine della povertà. E, di seguito, la decrescita felice, il reddito di cittadinanza concepito con i piedi…

Chiacchiere e distintivo. Con gli altri partiti che non hanno aiutato l’Italia a uscire dalla crisi. La Lega di Salvini ha cambiato pelle rispetto alla Lega Nord di Bossi, diventando soggetto nazionale ma non con i risultati sperati nel Mezzogiorno. Così come un pendolo oscilla fra partito di lotta e di governo, entrando talvolta in palese contraddizione. Infine, l’unica cosa buona che ha fatto il “Capitano” è stato l’aderire ai referendum sulla giustizia del Partito radicale. Ancora. I Fratelli d’Italia della Meloni hanno dimostrato i propri deficit culturali e politici, nascondendosi sotto il fatuo patriottismo, lo statalismo assistenziale, l’anti-scienza allacciando alleanze in politica estera con forze reazionarie, come i filo-franchisti e i sovranisti di Vox, e con quelle conservatrici del Gruppo di Visegrad, l’alleanza composta da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia . Al dunque, lo stesso Partito democratico, senza alcuna identità, oscilla sul terreno delle alleanze, avendo come unico obiettivo stare al governo.

Un quadro desolante, in cui il trasformismo ha frazionato il sistema partitico e accresciuta la conflittualità politica. La presenza di tecnici alla guida degli esecutivi che si sono succeduti in questi decenni e la riproposizione del secondo mandato ai presidenti della Repubblica di questi ultimi 16 anni, è la prova provata della crisi della politica e della mancanza di una classe dirigente patriottica nel vero senso della parola e a misura del vuoto politico di questi tempi malvagi. Da tutti i punti di vista si vede che l’Italia è corrosa dal vuoto politico. Proprio a trent’anni dal discorso di Craxi alla Camera, quando il leader del Psi sostenne che: “Nella vita democratica di una nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno e amico (Pietro Nenni, ndr), che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, io ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone”. Non a caso il vuoto dei partiti è stato occupato dal potere giudiziario.

Biagio Marzo

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 26 febbraio 2022.

30 anni dopo è tempo di processare Tangentopoli e di concedere agli avvocati il diritto di esercitare un mea culpa.

Con questo spirito ieri la Camera Penale di Milano, che rappresenta in città gli esponenti del foro in ambito penale, ha organizzato a Palazzo di Giustizia il convegno Mani pulite: voci a confronto.

L'incontro è stato l'occasione per mettere a nudo storture e abusi di Tangentopoli e comprendere quanto quella stagione giudiziaria abbia cambiato in modo irreparabile i rapporti della magistratura con politica, giornalismo e società civile. Tanto per cominciare, secondo gli avvocati presenti al convegno, Tangentopoli nacque da un complotto e si risolse in un colpo di Stato.

«Dobbiamo chiederci come il fatto giudiziario è nato», dice l'avvocato Nerio Diodà, già legale di Mario Chiesa, primo arrestato dell'inchiesta e allora presidente del Pio Albergo Trivulzio. 

«Fu un complotto organizzato da parte di Di Pietro. Si era rivolto a lui un imprenditore, il quale gli aveva raccontato che da anni pagava a destra e a manca. Di Pietro e il suo capitano prepararono 7 milioni in cui una banconota ogni dieci era sottoscritta dallo stesso Di Pietro.

Successivamente (dopo la consegna dei soldi dall'imprenditore a Chiesa, ndr)si presentarono al Pio Albergo Trivulzio, si fece la perquisizione e nel cassetto vennero rinvenuti 7 milioni». 

Fu l'inizio di un'inchiesta condotta non per appurare singole responsabilità penali ma «per dimostrare che il sistema politico era marcio», come nota l'avv. Gaetano Pecorella. «Non si trattò di una rivoluzione giudiziaria», continua, «ma di un colpo di Stato» che «trasformò i magistrati da funzionari in una forza politica».

Ma con quali metodi venne condotto questo "colpo di Stato"? Il principale fu l'uso sistematico e spropositato da parte dei pm della custodia cautelare, con arresti usati come strumento di indagine e spesso finalizzati a ottenere confessioni e chiamate in correità, in cambio di liberazioni e sconti di pena in prospettiva.

«La custodia cautelare come dolce tortura», la definisce Pecorella. O come «vulnus alla libertà personale e alla presunzione di innocenza», per dirla con l'avv. Daniele Ripamonti. 

Anche se Gherardo Colombo, ex pm, tra i protagonisti del pool di Mani Pulite, nega le dimensioni esagerate del ricorso alle misure cautelari e l'obiettivo politico dell'inchiesta. 

«Ho detto più volte che la custodia cautelare è stata applicata secondo il Codice», dice ai nostri taccuini. «Noi abbiamo proceduto per reati commessi da persone. Se poi queste persone svolgevano funzioni politiche non possiamo farci niente». Di certo, nell'applicazione di questo metodo di indagine, contò l'accondiscendenza di molti avvocati che, anziché pensare al rispetto del diritto, badarono a far sì che i loro clienti subissero i minori danni possibili, scendendo a compromessi col sistema adottato da Di Pietro. 

Fu un periodo di «frustrazione e travaglio» degli avvocati, come lo definisce l'avv. Monica Barbara Gambirasio.

A queste storture se ne sommarono altre, dall'eccessiva complicità tra pm e giornalisti, che peccarono di «voyeurismo», come ammette l'allora cronista di giudiziaria Paolo Colonnello, alla «trasformazione del magistrato in una star», come avverte il direttore di Libero Alessandro Sallusti, «con la nascita della giustizia spettacolo» e la convinzione che i «pm vivessero di consenso, non di merito» e, una volta popolari, fossero «intoccabili». 

La degenerazione di quel periodo può ben essere riassunta nei versi fulminanti dell'avvocato Jacopo Pensa: «Giro giro giro tondo qui si indaga tutto il mondo; molto a destra, poco a manca, di indagar non ci si stanca». 

L'altro anniversario di Mani Pulite: "La storia di Craxi narrata dai vinti". Luca Fazzo il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Amarcord a Milano con Bobo e Pillitteri: "Poteva essere curato". Milano. Alla fine, il vero protagonista di questo contro-anniversario è un piede. Un grande piede martoriato dalla cancrena, poggiato sulla sabbia di Hammamet e inquadrato in primo piano, a lungo, più volte. È il piede di Bettino Craxi, che l'altro giorno avrebbe compiuto 88 anni. E che invece dal gennaio del 2000 riposa nel cimitero del suo esilio tunisino. Quel piede malconcio era il segno del male che segnava Craxi, e che si sarebbe potuto curare se la Procura di Milano gli avesse consentito di tornare senza passare per la prigione; o se Francois Mitterrand, l'amico e compagno di un tempo, lo avesse accolto in Francia come tanti fuggiaschi politici.

Invece finì tutto diversamente. E i sopravvissuti socialisti dell'epoca di Mani Pulite si ritrovano in un cinema milanese, la sera del compleanno di «re Bettino», a celebrare a loro modo il trentennale di Mani Pulite. Si proietta il film che Paolo Pillitteri, cognato di Craxi e travolto dalla medesima tempesta, ha voluto realizzare due anni fa. É «La Tesi», girato da Ettore Pasculli che fu un regista di dichiarata fede socialista, e che ora dice: «È la storia più importante della mia vita, una storia di cui tutti abbiamo pagato le conseguenze». La storia dell'ascesa e del crollo di Craxi e del craxismo, tra potere assoluto e trionfante, inchieste, lanci di monetine. E la fine ad Hammamet, a trascinarsi in caffetano tra mercati e catapecchie.

Eccoli, i sopravvissuti: vecchi, vecchissimi, a volte malconci. Si conoscono tutti tra di loro, portano Borsalino improbabili, si mandano ghignando a quel paese raccontandosi i tempi antichi. Pasculli arriva con un garofano all'occhiello e lo infila nel taschino di Bobo Craxi, incanutito pure lui. Pillitteri ha dimenticato l'apparecchio acustico, e così Dario Carella - che fu vicedirettore craxiano del Tg2 - deve urlargli le domande. «Il film si chiama la Tesi perché è di parte, è una provocazione, è la storia raccontata dai vinti», dice l'ex sindaco di Milano. Poi racconta della prima volta che conobbe Craxi, allora giovane assessore all'economato, presentato da Carlo Tognoli. «Quando seppe che mi occupavo di cinema mi disse: non capisci un tubo, la politica è più importante di tutto».

In sala sorridono, si danno di gomito sui cappotti fuori moda. Perché quello è proprio il loro Bettino, il leader splendido e arrogante che per quindici anni fece a pezzi i loro sensi di colpa, e sfidò a fronte alta il Moloch comunista. Eccolo il filmato clou, con Berlinguer attonito e livido sommerso di fischi al congresso del Psi, e Craxi che infierisce: «Non mi unisco a questi fischi (pausa) solo perché non so fischiare». Che nostalgia.

Dell'indagine che trent'anni fa spazzò via il loro mondo il film racconta ai reduci la tesi di allora e di oggi, la porcheria orchestrata da un ex poliziotto di oscuri trascorsi. Come tutti i reduci, aspettando che si spengano le luci di sala, fanno i conti di chi c'è ancora e di chi è morto: «Ah sì? Quando?». Sopra l'Anteo svettano nel cielo stellato le tre torri milanesi di Citylife. Pillitteri: «Belle, eh. Ma la mia giunta venne fatta cadere su una variante edilizia che aveva la metà di queste cubature».

30 anni da Tangentopoli. I tre pool che volevano la repubblica giudiziaria. Angela Stella su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022. 

“A Trenta anni da Tangentopoli e da mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria” è il titolo della conferenza promossa dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà. Molti gli ospiti intervenuti, tra cui il nostro direttore Piero Sansonetti, e moderati dal direttore del Dubbio Davide Varì.

Ad aprire i lavori Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: “Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari, chiediamo un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno”. Allora vi fu “un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente”.

Presente anche l’ex magistrato Luca Palamara: “Tanti dovevano parlare per uscire, durante gli interrogatori bisognava fare questo o quel nome: una prassi che purtroppo poi si è protratta molto nel sistema giudiziario italiano, da Tangentopoli a Mafiopoli”. Non poteva mancare il giornalista Enzo Carra, che fu condotto dal carcere al tribunale con gli “schiavettoni” ai polsi per essere incriminato da Davigo, suscitando vasto clamore: “Questo è un Paese che vive in uno stato di eccezione dal 1969, da Piazza Fontana, con cui coincide la fine della verginità di questo Paese: sia chiaro questo”. A lui è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: “Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era – diciamo – il clima dell’epoca”.

Tra i politici anche l’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “Le storie che ho sentito mi pare che siano ancora molto attuali. Avete ricordato come il pm si scegliesse il gip, Italo Ghitti. Lo ha raccontato persino il giudice Salvini. Oggi succede la stessa cosa. Ho presentato un’interrogazione al Governo, chiedendo di sapere quante sono in percentuale le richieste di custodia cautelare respinte dai gip. La direzione statistica del Ministero della Giustizia non possiede questo dato. Capite in che in che situazione siamo! Probabilmente il dato si avvicina allo zero per cento. Così come non sappiamo quante richieste di intercettazione e di proroga delle indagini preliminari vengano rigettate”.

Le conclusioni sono state affidate a Fabrizio Cicchitto, Presidente della Fondazione Riformismo e Libertà: “Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi, a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne dalla Fiat, alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il “partito diverso” dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione. Molto prima di Forza Italia e ovviamente in termini del tutto rovesciati il primo partito-azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo e Ernesto Rossi fecero denunce assai precise essendo del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e con il trattato di Maastricht il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quella della Dc e del Psi. Anche in seguito al ’68 nella magistratura e nel giornalismo sono maturate tendenze radicali. Di qui è scattato il circo mediatico-giudiziario fondato su tre pool fra loro collegati: il pool dei pm di Milano, il pool dei direttori di giornali, il pool dei cronisti giudiziari. Tutto ciò fu fondato su due pesi e due misure. Il sistema di Tangentopoli coinvolgeva tutti e invece un numero assai ristretto di alti dirigenti del Pds e della sinistra Dc poteva non sapere, invece Craxi, tutti i dirigenti del Psi, i leader di centro-destra della Dc, i segretari dei partiti laici non potevano non sapere”. Angela Stella

Mani pulite: la parabola del pool tra politica, inchieste e polemiche. 1993 Milano, il Pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco. GIULIA MERLO su Il Domani il 22 febbraio 2022

Guidati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, i magistrati che hanno svolto le indagini di Mani pulite sono  rimasti al centro della storia politica e giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni.

Alcuni si sono candidati in politica, in particolare Antonio Di Pietro che ha fondato l’Italia dei Valori, Gerardo D’Ambrosio che si è candidato con l’Ulivo e Tiziana Parenti che ha lasciato il pool ed è stata eletta con Forza Italia.

Fino alla presunta loggia Ungheria dove Greco e Davigo si sono trovati su posizioni contrapposte, al culmine dello scontro interno alla procura di Milano. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Ma no, la Milano da bere non è mai esistita. E i partiti non prendevano tangenti. Michele Serra su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Nel trentennale di Tangentopoli l’Italia è divisa. Alcuni dicono che i partiti non prendevano tangenti. Gli altri vanno in processione con san Di Pietro.

Nel trentennale di Tangentopoli si moltiplicano le commemorazioni. Come ogni anno i nostalgici di Tonino Di Pietro, convenuti da tutta Italia, si sono ritrovati a Montenero di Bisaccia, paese natale del Santo, per la suggestiva Benedizione dei Faldoni Giudiziari, portati in processione per le vie del borgo e deposti ai piedi dell’altare. Nel prezzo della trasferta erano compresi anche un pranzo sociale in trattoria, una fotografia autografa di Beppe Grillo e un abbonamento al Fatto Quotidiano.

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 27 Febbraio 2022.

Allora, sentite questa. L’altro giorno mi chiamano dalla direzione del Corriere e mi chiedono di provare a intervistare Antonio Di Pietro. Siamo dentro l’anniversario di Mani Pulite, trent’anni esatti: l’idea sarebbe di andarlo a trovare a Montenero di Bisaccia, parlarci, vedere che fa adesso e, soprattutto, sapere cosa pensa di tutto quanto è successo dopo quei memorabili e tremendi giorni, quando da Milano, dal Palazzo di Giustizia rotolò giù l’inchiesta che scosse violentemente il Paese, lasciandolo traballante e con crepe ancora piuttosto profonde.

Prendo la vecchia agendina telefonica e cerco alla lettera “D”: trovo due numeri fissi e un cellulare. È ancora buono. Al terzo squillo, risponde una voce pastosa, forte, inconfondibile, e come sempre gentile. Saluti di cortesia (per i cronisti, prima nella stagione da magistrato, poi in quella di politico, andarlo a trovare nella sua masseria era una gita classica, che i giornali ti costringevano a fare almeno un paio di volte l’anno).

Di Pietro va subito al sodo: «Guardi, so già cosa sta per chiedermi. Ma la mia risposta è: no. E sa perché? Perché io ho deciso di sparire. Voglio farmi dimenticare. Di Pietro, quel Di Pietro, non esiste più». 

Così, netto. Allora ci salutiamo, mi stia bene, buona fortuna, e io intanto me lo immagino con una camicia a quadri e un maglione un po’ slabbrato, le scarpe grosse da contadino e la barba un filo lunga: lo vedo in piedi dietro al cancello, dove lo lasciai l’ultima volta, lungo la strada per Palata.

Una siepe curata e i suoi tremila ulivi, i vigneti sulle colline basse, il rumore lontano di un trattore. Laggiù, la terrazza che ha trasformato in veranda, diventata il suo ufficio: un po’ contadino e un po’ avvocato, di nuovo avvocato, dopo essere stato emigrante (a 21 anni, per andare a fare il metalmeccanico a Bohmenkirch, in Germania), commissario di polizia, magistrato leggendario, deputato, senatore, due volte ministro (nel Prodi 1 e nel Prodi 2), fondatore dell’Italia dei Valori e parlamentare europeo (più una mezza intenzione di candidarsi a sindaco di Milano nel 2016 e il corteggiamento di qualche grillino ribelle, a caccia di un leader credibile). Quante cose, in questi primi 71 anni, caro Di Pietro. E che progetto gigantesco: farsi dimenticare. Ma davvero pensa di riuscirci?

Pietro Senaldi: "Di Pietro, Colombo e Davigo? Che brutta fine che ha fatto il trio di Mani Pulite". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022. 

Anniversario di Mani Pulite: Pietro Senaldi, condirettore di Libero, lo ricorda parlando nel suo video editoriale della fine che hanno fatto i tre eroi di allora. "Gherardo Colombo", inzia Senaldi, "il migliore di tutti gira da 15 anni in Italia dicendo che le carceri vanno abolite e che Mani Pulite non avrebbero mai dovuto risolversi in un processo perché era un'impresa titanica e si sapeva da subito che non si sarebbe andati da nessuna parte. Secondo lui dovevano semplicemente fare una sorta di amnistia che allontanasse chi aveva preso soldi dalla politica per qualche anno, salvo poi ritornare. Quindi", puntualizza il direttore, "da pm a testimonial dell'inutilità delle carceri". Senaldi prosegue con Antonio Di Pietro: "Sappiamo tutti che ha lasciato la toga in circostanze misteriose dopo che lo hanno accusato di tutto; ha fondato un partito che, non per colpa sua, m di fatto, si è dimostrato un comitato d'affari e quindi si è sciolto come neve al sole". "Ricordiamo nel partito", insiste il direttore, "oltre lui solo Razzi e Scilipoti. Di altri nessuno si ricorda. Partito tra l'altro coinvolto anche da uno scandalo immobiliare Adesso Di Pietro è sul suo trattore, fa l'avvocato di ignoti clienti". Senaldi racconta poi di Piercamillo Davigo. "È quello che ha fatto più carriera di tutti: è stato membro del Csm e adesso è indagato. È accusato", spiega il direttore, "dalla maggioranza dei suoi ex colleghi. Quando era magistrato ha subìto 36 contestazioni e le ha vinte tutte. Da non magistrato è diventato un imputato al quale non facciamo i migliori auguri". Conclude Senaldi: "Questo dice tutto di cosa è stata Mani Pulite".

I girotondi dei missini, il cappio in Parlamento della Lega, le “lezioni” del Pds. Come è potuto accadere? Il ricordo di Riccardo Nencini su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Giugno 1992, un ricordo nitido: i consiglieri comunali fiorentini del Msi in girotondo attorno alla federazione provinciale socialista di Firenze. Urlano: “Ladri”. Giorni dopo, socialisti additati dal Pds come esempio di corruzione, mentre la Lega mostra il cappio dell’impiccato a Montecitorio e le tv di Berlusconi imperversano di fronte al palazzo di giustizia di Milano.

Una tenaglia politico-mediatica alimentata dalla magistratura e un’ondata populista che si abbatte con veemenza soprattutto sui socialisti, rei di aver snaturato il loro dna (parole di Berlinguer) per cavalcare il sogno di un’Italia nuova, dinamica, che la cultura comunista proprio non riesce a incrociare. Lo slogan è semplice, tanto efficace quanto falso come bisante: la politica è malata, la società è sana. Conseguenze: chi imbraccia la questione morale è pulito, tutti gli altri appestati.

Attenzione. Non era una novità per nessuno che i partiti fossero finanziati anche illecitamente e che vi fossero politici che dell’arricchimento personale avevano fatto la loro bussola. Tutto vero. Il punto è che, da un certo momento in poi, ciò che era stato tollerato viene perseguito. Qual è quel certo momento? L’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e il contestuale crollo del muro di Berlino. Le politiche di spesa vengono imbrigliate nelle regole ferree del Trattato, c’è un trasferimento di sovranità verso Bruxelles; il ruolo geopolitico dell’Italia cambia, si immiserisce, la presenza del più grande partito comunista d’Occidente non è più un pericolo ora che l’Urss è alle corde.

Di nuovo attenzione: non è che di scandali non ce ne fossero stati in passato, non è che fossero ignote le fonti sovietiche di finanziamento al Pci, non è che le grandi società di Stato evitassero di invitare a pranzo i tesorieri di tutti i partiti. Se vi annoiano i documenti, leggete almeno “Il tesoriere”, il bel romanzo di Gianluca Calvosa edito da Mondadori. La differenza è che la classe politica aveva reagito compatta, si era ribellata alla gogna. Tutta la classe politica. Quando Aldo Moro era intervenuto alla Camera (1977) dichiarando che la Dc non si sarebbe fatta processare (scandalo Lockheed), il Pci era rimasto in silenzio, protagonista com’era del governo Andreotti. Aggiungo che l’ombrello americano proteggeva ancora il sistema politico.

Veniamo al dunque. Con i primi anni Novanta la storia si avvita, la presunzione di innocenza si rovescia in presunzione di colpevolezza, si annuncia la rivoluzione ora che il mondo è cambiato. A morte i partiti, ma non tutti i partiti. Tuttavia, poiché “le rivoluzioni sono tristi” (Dahrendorf) e tradiscono i sogni, la generazione sessantottina allocata tra stampa e magistratura che invoca la tempesta perfetta sui partiti sacrileghi s’imbatte nell’uomo di Arcore. Storia nota, storia recente. La novità è che oggi conosciamo anche i numeri del lavoro svolto da Mani Pulite: condannato solo il 54% degli indagati.

Gli effetti: privatizzazioni selvagge, personalizzazione della politica, rottura degli equilibri costituzionali, fine del garantismo. Non sono ingenuo. Molti di questi fattori si sarebbero presentati comunque, figli di profondi cambiamenti sociali e della globalizzazione. C’è un però. In Italia sono calati come una mannaia, altrove, pur in presenza di altrettante tangentopoli (Khol sotto inchiesta in Germania, Gonzales in Spagna, uomini di Mitterrand in Francia), gli effetti sono stati più contenuti, la democrazia parlamentare ha retto senza offrire il fianco all’antipolitica.

Un’ultima domanda: perché Craxi capro espiatorio? Le tesi si rincorrono. Sigonella, Israele, complotti. Che Di Pietro frequentasse il consolato americano a Milano è un fatto accertato, e nei documenti leggi anche dell’altro e non era il the delle cinque. Ma io vedo di più. Condannato per una colpa politica. L’aver rappresentato un’eresia, il riformismo del socialismo umanitario, una minoranza invisa sia alla cultura comunista che a quella cattolica dominanti in Italia, l’aver rotto una consuetudine consociativa, l’aver difeso economia di mercato e stato sociale in un paese dove il profitto viene considerato peccato. Questo, non perché i socialisti fossero più malandrini di altri.

L’oggi è sintetizzato nelle parole di Gherardo Colombo, uno dei protagonisti del pool: “Sono finite le indagini ma non la corruzione. La sfiducia cresce, il tessuto sociale è liso, logoro, consumato”. Nutrita dallo scontro “buoni contro cattivi” la Seconda Repubblica è nata defunta. Servirebbe normalità, la normalità di un paese civile.

Sembra ieri, ma è oggi. Come uscire da questi trent’anni di Tangentopulismo. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 17 febbraio 2022.

Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori

A un diciottenne di oggi, le decine di articoli che da giorni riempiono le pagine dei quotidiani per il trentennale di Mani Pulite devono fare l’effetto che ai diciottenni del 1992 avrebbero fatto altrettante pagine dedicate alla nazionalizzazione dell’energia elettrica o alla riforma della scuola media, alla nascita del quarto governo Fanfani o all’elezione di Antonio Segni al Quirinale. Un conto è il dovere della memoria e anche il gusto per le ricorrenze, un altro è l’ossessione.

Forse però non è proprio così. Forse sarebbe più esatto dire che ai diciottenni di oggi dovrebbero fare quell’effetto, trattandosi di vicende di trent’anni fa, se solo da trent’anni in qua gli eventi avessero seguito il loro corso naturale (diciamo pure un corso qualsiasi, invece di ristagnare in questa enorme pozzanghera da cui non riusciamo a uscire). La differenza, infatti, è che mentre i principali fatti politici del 1962 erano a tutti gli effetti, per un ragazzo dei primi anni novanta, materiale per musei e libri di storia, lo stesso proprio non si può dire, oggi, per Mani Pulite, per lo scontro tra politica e magistratura, per le polemiche su questione morale e stato di diritto, giustizialismo e garantismo.

Basta accendere la televisione per trovarci, quasi ogni giorno, Piercamillo Davigo intento a concionare su questi argomenti, accompagnato da numerosi colleghi (tanto quelli ancora in servizio quanto quelli nel frattempo diventati ministri, parlamentari e capi partito), sempre attorniati da uno stuolo di giornalisti amici, ma forse bisognerebbe dire compagni d’arme, perché è in quella stagione, nel fuoco della battaglia di trent’anni fa, che si sono saldate relazioni e solidarietà indistruttibili. Lo spettacolo è sempre lo stesso, gli stessi i protagonisti, lo stesso persino il lessico. Ieri, oggi e domani.

Sin dai primi anni novanta, si è pensato che riforme elettorali e istituzionali avrebbero chiuso quella fase drammatica dando vita a un nuovo sistema, fondato sulla legittimazione reciproca tra gli schieramenti in un quadro di regole condivise. Sfortunatamente, abbiamo avuto invece il tentativo di entrambi i poli di scriversi le regole a proprio vantaggio, in un contesto di delegittimazione reciproca sempre più violento, che ha prodotto di conseguenza l’esplosione del populismo e dell’antipolitica, a destra e a sinistra.

Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante. Trent’anni di tangentopulismo, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori.

Le elezioni del 2018 sono state, c’è da augurarsi, il punto più estremo di una simile deriva, cominciata con Mani Pulite, o per meglio dire con l’illusione che i magistrati non dovessero limitarsi a mettere in galera i corrotti (possibilmente dopo un regolare processo e non prima), cioè accertare precise e ben determinate responsabilità penali di ben precisi e determinati individui, ma potessero guidare l’abbattimento di un «sistema» e addirittura decidere le caratteristiche del nuovo, conservando una sorta di perpetuo potere di «moral suasion», diciamo così, sulla politica.

Ma anche per smontare una simile alterazione del nostro dibattito pubblico e della stessa divisione dei poteri è necessario ricostruire un sistema politico realmente pluralistico, non ingabbiato nella logica della coalizioni pre-elettorali. Altrimenti, per non stare coi farabutti, anche i riformisti più ragionevoli finiranno sempre per schierarsi con i mozzorecchi, e al tempo stesso anche i liberali meglio intenzionati, per non stare con i mozzorecchi, finiranno sempre per schierarsi coi farabutti. E non ne usciremo mai.

L’Altra Opinione. La stagione di Tangentopoli, cosa ne rimane 30 anni dopo. Sonia Modi su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.

La storia di una strana rivoluzione nostrale, breve, intensa, travolgente e controversa 

C’era una volta un Paese democratico nel quale i partiti erano arroccati al potere fin dai primi passi della Repubblica; c’era una volta un Paese schiacciato tra due blocchi – quello del “mondo del bene”, cioè gli USA, e quello del “mondo del male”, ovvero il blocco comunista dominato dall’URSS – nel quale circolava uno strano  virus chiamato “corruzione”, un virus ineluttabile che sembrava anche  inestirpabile e refrattario a qualsiasi tipo di vaccino; c’era una volta un Paese nel quale un giorno tutto ciò che pareva durare in eterno sembrò cambiare definitivamente; quel giorno era il 17 febbraio 1992 e quel Paese era l’Italia.

Ai più giovani sembrerà strano, eppure il nostro Paese ha conosciuto un’inedita stagione, travolgente e rivoluzionaria, appassionante e controversa, in cui i grandi partiti politici, assieme ai loro leader incontrastati e ai potenti manager dei maggiori gruppi imprenditoriali italiani, furono repentinamente spazzati via dal vento del cambiamento. In quegli stessi giorni la stampa internazionale raccontava questa storia descrivendola come un’epopea che avrebbe portato l’Italia finalmente in Europa.

Questa che vi sto raccontando è la storia di “Tangentopoli”, la storia curiosa del nostro Paese improvvisamente innamorato della legalità. Quella lontana fase del Paese è la stagione delle “Procure d’assalto”. L’infatuazione degli italiani, va detto, è durata molto poco. Il suono del tintinnio delle manette ci ha accompagnato esattamente per due anni, dal febbraio 1992 a fine 1993, dopodiché tutti hanno cominciato a pensare che l’Italia fosse cambiata, finalmente liberata dal fenomeno della corruzione.

Questa, come vi ho già detto, è la storia di una rivoluzione, e come in tutte le rivoluzioni, ad un certo punto, repentinamente, tutto cambia. Cambia almeno fino alla restaurazione, quando tutto, anche se con forme diverse, torna più o meno come prima.

E come in tutte le rivoluzioni, sempre piene di contraddizioni e misteri, anche in questa ci sono i carnefici e le vittime, gli eroi e i potenti da decapitare, i morti e i sopravvissuti. Gli eroi sono gli inquirenti, mentre i potenti che ci rimettono la testa sono i politici e gli imprenditori. I morti sono i tanti che, per vergogna o perché sentendosi innocenti si vedono già condannati dall’opinione pubblica, decidono di non affrontare l’ondata del cambiamento e si tolgono la vita. I sopravvissuti sono i tanti che, anche in questa strana rivoluzione nostrale, riescono a riciclarsi nella “Nuova” era.

Ma ritorniamo al 17 febbraio 1992. Tutto inizia in un pomeriggio di un lunedì, un lunedì qualsiasi. Tutto parte da un ospizio per anziani, il più grande istituto di ricovero per vecchi indigenti della città più frenetica di Italia: Milano. E nella città dove tutti lavorano, sempre, passa inosservata una notizia: l’ennesima tangente versata da un anonimo piccolo  imprenditore ad uno sconosciuto amministratore locale.

Un piccolo caso di ordinaria corruzione, dunque. E tuttavia, quella notizia di piccola cronaca cittadina si rivelerà come il minuscolo sassolino che pian piano cresce e si trasforma in una terribile valanga.

Eppure di strani affari si vocifera da anni.  E che questo accada soprattutto a Milano, nella Milano degli anni ottanta, nella “Milano da bere”, in quel lontano 1992 non meraviglia proprio nessuno. E tuttavia, alla fine il fenomeno apparirà di dimensioni gigantesche, al di là delle più catastrofiche previsioni degli stessi inquirenti.

Quel sassolino che prenderà poi la forma di valanga si chiama Mario Chiesa, ingegnere, socialista e presidente, appunto, dell’ospizio Pio Albergo Trivulzio. Per cinque settimane questo amministratore rimane sulle sue, tace e rimane tranquillo in carcere. Dalla sua cella, ovviamente, è in grado di venire a sapere tutto ciò che su di lui viene detto fuori dal carcere: il partito e i compagni che prendono le distanze da lui e dai fatti contestategli, nonché le voci sugli imprenditori pronti a parlare e a coinvolgerlo. Insomma, si sente messo in un angolo, lasciato solo e abbandonato al suo destino.

Così quel “Mariouolo” – definito in tal modo dal Segretario del PSI, Bettino Craxi – per non sentirsi più solo prende la decisione di chiamare in causa gli altri mariuoli, vuotando il sacco su tutto ciò di cui è a conoscenza, lavandosi la coscienza e coinvolgendo chi doveva essere coinvolto, magari anche contando – chissà – su di un minimo di riconoscenza da parte di quei pubblici ministeri ai quali stava per regalare momenti di gloria.

I sodali, a loro volta, per paura di andare a San Vittore a fare compagnia al primo sassolino, adotteranno lo stesso comportamento e “spintaneamente”, come diranno in seguito gli inquirenti, affolleranno i corridoi della Procura di Milano per confessare.

Evidentemente, in quei freddi giorni di febbraio, i grandi esponenti politici dovevano essere in più importanti faccende affaccendati per non accorgersi dell’onda anomala appena partita da Milano che da lì a poco li avrebbe travolti.

Di lì a breve però, questo meccanismo esponenziale porta i penitenti a confessare il meccanismo di finanziamento illecito dei partiti e gli arricchimenti personali. Il risultato sarà, come in una reazione a catena, una valanga di denunce, ammissioni e chiamate in correità. In questo prematuro “Grande Fratello” giudiziario, tutto – arresti, confessioni, condanne, suicidi – diventa uno show.

In poche settimane, con un effetto domino, questa bizzarra sorta di confessione collettiva travolge tutto e tutti: potenti, partiti e aziende. Il culmine sarà raggiunto con la “maxi tangente” di 150 miliardi di lire. Sarà definita, e non a torto, la madre di tutte le tangenti. Risulterà essere versata dalla Montedison di Raul Gardini a favore di tutti i partiti. Sarà corrisposta per favorire la spregiudicata fusione con l’Eni, multinazionale di controllo nazionale.

Sotto processo però è principalmente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Quest’ultimo, alla fine, lascerà Roma e Milano per rifugiarsi ad Hammamet. Esule o latitante lo si consideri, il vecchio “Cinghialone” resterà in Tunisia fino alla sua morte. Nei suoi ultimi anni di vita l’ex presidente del Consiglio appare sicuramente stanco e malato, l’ombra del grande leader socialista che fu un tempo. La sua scelta di vivere lontano dall’Italia, ingenererà in molti italiani e nel mondo intero il dubbio che, nel nostro Paese, gli scontri politici si risolvono non nelle sedi istituzionali bensì attraverso l’azione della magistratura e insinuerà in molti il sospetto del “golpe giudiziario”.

Anche il suo diretto rivale Antonio Di Pietro, il protagonista assoluto di questa stagione, lasciando la magistratura prematuramente e, soprattutto, abbandonando l’inchiesta che lo ha reso popolare per gettarsi e rifugiarsi nella politica, non ne esce assolto. Alimentando il mito dell’inchiesta di “Mani Pulite mutilata” farà crescere il populismo e il malcontento nel Paese che proseguirà fino ai nostri giorni.

Orbene, comunque si voglia leggere questa lontana storia ormai sbiadita, resta il fatto che alla fine del 1993 quasi tutti i partiti storici saranno spazzati via, prima dalle inchieste giudiziarie e poi dalle elezioni.

A conclusione di questo biennio gli italiani penseranno che l’Italia sia cambiata davvero e che da quel momento la legge sarebbe stata uguale per tutti. Si comincia a parlare di “Seconda Repubblica”, di un sistema elettorale diverso e di partiti e leader nuovi.

Mentre l’Italia si perde dietro a queste illusioni non si accorge che i benefici effetti del cambiamento sono già svaniti e hanno lasciato velocemente il posto alle vecchie abitudini.

Dalle macerie della vecchia “Prima Repubblica” nasce un modo di fare politica “nuovo” solamente di nome, ma di fatto figlio di quello passato che era stato appena sepolto. La somiglianza genetica la si ravvisa principalmente nella corruzione che non è affatto scomparsa ma piuttosto si è mimetizzata, ha cambiato vesti, si è “polverizzata” – così è stato raccontato – in micro corruzione e comunque rimane sempre presente in ogni istituzione.

La novità invece è rappresentata dal nuovo nemico, la magistratura definita “politicizzata”, responsabile di aver sconfinato dal proprio ambito istituzionale e di aver compromesso gravemente il fragile equilibrio politico-economico che aveva finora tenuto in piedi il Paese.

Dalle ceneri di quell’era cupa della democrazia italiana nasce, dunque, solo questo, non un profondo cambiamento della politica e della società.

Così a trent’anni di distanza da quel 17 febbraio 1992, “Mani Pulite” appare non più tanto il nome di un’indagine che ha fatto storia, quanto la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, fatta da una politica mediatica, priva di principi e di ideali, ma infiocchettata da slogan, una nuova epoca caratterizzata da un perdurante scontro tra poteri dello Stato. Un lungo e costante conflitto tra politica e magistratura, dunque, che diviene cronaca anche di questi giorni; ma questa è un’altra storia…

Mani Pulite 30 anni dopo, Cusani: "Ho un primato, sono l'unico pregiudicato condannato in quest'aula".  Edoardo Bianchi su La Repubblica il 17 Febbraio 2022.

"Sono assolutamente certo di avere oggi un primato in quest'aula: essere l'unico pregiudicato condannato". Inizia così il discorso di Sergio Cusani, condannato per la maxitangente Enimont, durante l’incontro dal titolo "Mani pulite 30 anni dopo  - Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli" organizzata dall’Associazione Nazionale Magistrati di Milano (ANM) presso l'aula magna del Palazzo di Giustizia in occasione dei 30 anni dall'inizio di Mani Pulite, ovvero dall'arresto d Mario Chiesa. "Ho commesso la colpa e non ho cercato il perdono, in quanto io stesso non mi perdonerò mai per gli errori commessi", ha aggiunto Cusani, ammettendo successivamente di aver provato un coinvolgimento forte ed emotivo nel ritornare in tribunale: "Non venivo in questo palazzo da tantissimi anni. E un po' come tornare a trent'anni fa". "So che quando sarà, me ne andrò con un pesante fardello. Per quanto in cuor mio mi renda assolutamente conto di aver commesso errori di sistema, quegli errori portano la mia firma individuale. E' una responsabilità personale che non può essere in alcun modo sottaciuta", ha concluso Cusani.  

L’Anm celebra mani pulite senza nessun “mea culpa…” L’evento si è svolto ieri presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 febbraio 2022.

Non poteva mancare, nel luogo del “delitto” e, soprattutto, nel giorno del trentennale dell’inchiesta che cambiò la storia del Paese, un convegno per ricordare cosa fu Mani pulite a Milano. Organizzato dalla locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati, l’evento si è svolto giovedì presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo o Sergio Cusani, l’imputato eccellente del processo per la maxi tangente Enimont. Fra i relatori, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il professore Giovanni Fiandaca, l’ex componente del Csm e giudice costituzionale Gaetano Silvestri, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano Vinicio Nardo. Tre le sessioni trent’anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: “Poteri e magistratura prima di Mani pulite”, “Mani pulite la parola ai testimoni”, “Mani pulite un bilancio”.

Una premessa: chi si aspettava un serio mea culpa sulle decine di persone che si sono tolte la vita perchè finite nel tritacarne giudiziario o sull’abuso della custodia cautelare da parte di magistrati, sarà rimasto sicuramente deluso. I lavori del convegno non hanno approfondito, come forse sarebbe stato opportuno, tali aspetti. «Prima le indagini non decollavano», hanno esordito ii relatori, cercando di spiegare perché una «banale inchiesta giudiziaria» si sia poi trasformata in un fenomeno epocale. L’antefatto è sempre lo stesso: la svolta milanese nelle indagini per corruzione che segnò un cambio di passo rispetto a quanto accadeva nelle palude romana che metteva su un binario morto tutti i procedimenti nei confronti dei “potenti”. Tesi da prendere con le molle. Le regole del gioco erano diverse. Ad esempio, si potevano riprendere le persone con le manette ai polsi. Ed il nuovo codice di procedura penale, con il grande potere dato ai pubblici ministeri, fece da volano all’inchiesta.

Fu con Mani pulite che l’avviso di garanzia divenne un marchio d’infamia. La degenerazione dei partiti agli inizi degli anni Novanta non era una novità. Da tempo «la gente aveva la percezione che qualcosa non stesse funzionando», ha ricordato Benedetta Tobagi. L’inchiesta, è stato sottolineato, venne raccontata da giornalisti giovani, senza esperienza ma volenterosi, che sposarono ciecamente le tesi dei pm, mitizzando così le loro figure, come quella di Antonio Di Pietro, trasformato in un eroe nazionale. Significativa, come nelle attese, la testimonianza di Cusani. «Non voglio minimizzare il danno della pratica tangentizia», ha esordito l’ex manager, ma quello che è successo dopo gli arresti non ha certamente raggiunto lo scopo, dal momento che la corruzione c’è ancora. «Mi hanno cambiato 16 volte i capi d’imputazione in un processo che doveva durare tre giorni ed invece è durato mesi», ha aggiunto Cusani, ricordando la storia di Enimont e le tante “novità”, come la diretta televisiva del processo, martellante, che accompagnava le giornate degli italiani, esponendo al pubblico ludibrio i politici dell’epoca.

Significativo il passaggio in cui Cusani ha evidenziato come lo Stato non volesse lasciare la chimica ad un privato: «Era interesse pubblico mantenere il controllo di un grande comparto industriale». Come poi ricordato dall’avvocato Nardo, i processi di Mani pulite furono caratterizzati da «poca pena» e da tantissimi patteggiamenti. Un meccanismo che permetteva agli inquirenti di andare avanti. Oggi è tutto cambiato. Le pene per questi reati sono aumentate in maniera esponenziale e la corruzione è stata equiparata ai reati per mafia. Ad essere sempre uguali le tante storture del processo penale, l’appiattimento dei gip sul pm, il ruolo dell’avvocato difensore che non è più “accompagnatore” dell’indagato davanti ai magistrati, ma fatica comunque a ritagliarsi il suo spazio. Da parte di Santalucia, infine, un accenno alla crisi attuale della magistratura, con livelli oggi di consenso presso l’opinione pubblica ben diversi rispetto a trenta anni fa.

I pm processarono un sistema politico, ma spesso i giudici ebbero la forza di dire no. La politica ha il diritto di capire le ragioni di questa anomalia. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Le indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “mani pulite” sono iniziate trent’anni fa e da quella data si attende una riforma della giustizia che metta ordine nel rapporto tra la politica e la magistratura e adegui l’ordinamento giudiziario alle nuove esigenze e al nuovo ruolo che il magistrato deve assumere nella società. Il governo a distanza di tanti anni presenta una riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM molto timida e incerta che può essere solo considerata una bozza per far lavorare il Parlamento. È strano che il Presidente Draghi e la ministra Cartabia non abbiano avuto più coraggio per rendere moderno il sistema giudiziario e non abbiano tenuto conto della sovraesposizione del giudiziario che determina uno squilibrio istituzionale dannoso per la democrazia, proponendo una riforma che potesse incidere sul ruolo da attribuire alla magistratura coerente con la Carta Costituzionale.

Draghi ha di fatto confessato che non poteva fare di più e ha sfidato il Parlamento a trovare un’intesa più larga promettendo di non ricorrere al voto di fiducia.

Si è parlato tanto in questi mesi della prevalenza delle decisioni del Governo che non lasciano libero il Parlamento per le molteplici questioni della pandemia; dobbiamo riconoscere che in questo caso il Parlamento ha la possibilità di dimostrare la sua autonomia e la sua capacità di trovare punti di incontro tra i gruppi parlamentari.

È una occasione preziosa e forse unica per fare una riforma che riaffermi la prevalenza del potere legislativo sull’ “ordine giudiziario“ così come statuito dalla Costituzione.

La proposta del Governo è dunque parziale e quindi suscettibile di approfondimenti.

Avremo modo di intervenire sulle singole norme e dare suggerimenti; qui ci limitiamo a dire che la riforma elettorale per le elezioni dei componenti del CSM lungi da scoraggiare la invadenza delle correnti ne accentua le caratteristiche negative. Sì è riportato nell’ambito della magistratura lo schema della legge cosiddetta “mattarellum” utilizzata per le elezioni del Parlamento, una legge maggioritaria e un po’ proporzionale che tanti danni ha procurato alla politica e alla “rappresentanza” e che creerebbe danni all’organo di autogoverno, incrementando il potere delle correnti più organizzate.

Se i quattordici consiglieri saranno eletti con il sistema maggioritario con collegi binominali è evidente che la corrente più consistente verrà premiata anche se le candidature non avranno bisogno di firme di presentazione e quindi possono essere personali e proprio per questo subordinate a gruppi di pressione organizzati. Il personalismo è dannoso in politica e in ogni consultazione elettorale perché elimina qualunque riferimento ideologico e culturale, estremizza le posizioni e alimenta le clientele Invece anche per il CSM il sistema elettorale proporzionale renderebbe più trasparente le contrapposizioni tra le liste diverse che fanno riferimento a contenuti a programmi, a idee collegiali. Questo è l’unico sistema che potrebbe eliminare la degenerazione delle correnti.

Naturalmente l’ipotesi, che pur viene proposta, del sorteggio tra i magistrati per accedere al CSM è perversa e inaccettabile: ho sempre ritenuto questa una proposta vigliacca perché elimina la responsabilità della scelta e naturalmente offende la Costituzione.

Dunque finalmente il Parlamento ha la possibilità, alla fine della legislatura di poter qualificare le sue scelte perché è davvero arrivato il momento di affrontare alcune questioni che sono fondamentali e pregiudiziali per porre rimedio ad una crisi che investe il modo di fare giustizia da parte di chi, per tutti gli eventi che sono venuti alla luce, non ha una legittimazione adeguata per essere considerato al di sopra delle parti.

Per tutto quello che è stato evidenziato le disfunzioni della magistratura hanno inciso e incidono nelle decisioni giurisdizionali, mettendo in dubbio la sua tenuta morale e, il cittadino ha capito che i nemici del “indipendenza“ non sono i politici o i contestatori di turno ma gli stessi magistrati.

È per riconquistare la fiducia dei cittadini che gli stessi magistrati dovrebbero chiedere riforme adeguate. Dobbiamo constatare che la magistratura ha assunto un ruolo politico anomalo non in linea con la Costituzione configurando una Repubblica giudiziaria che ha messo in discussione l’autonomia della Repubblica parlamentare e la separazione dei poteri.

L’espansione del potere giudiziario ha di conseguenza acuito la crisi del potere legislativo che ha perduto credibilità anche per aver esso stesso dato per legge una delega ampia al giudice di decidere le controversie sociali e quindi di incidere politicamente.

Gli accadimenti politici e giudiziari dagli anni 90 in poi, cioè dalle indagini di “Tangentopoli” che hanno colpito i partiti e tanti rappresentanti politici, hanno aggravato questo contrasto istituzionale e hanno determinato uno squilibrio tra i poteri dello Stato, hanno avvilito le istituzioni considerate dai più ostili e corrotte.

Le indagini di “mani pulite” sono finite con la assoluzione degli imputati in una alta percentuale con motivazioni a volte molto severe da parte dei giudici nei riguardi dei pubblici ministeri; le loro indagini non hanno costituito prova per una possibile condanna! Anche le indagini per “mafiopoli” sono state considerate fasulle, e hanno sancito la sconfitta dei pubblici ministeri ridando prestigio allo Stato e ai rappresentanti dello Stato.

Dobbiamo prendere atto oggi che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico per cui il Pool “mani pulite” di Milano considerato rigeneratore di uno Stato etico e della legalità, ha operato una rivoluzione giudiziaria fasulla e dissacrante.

La maggior parte delle decisioni giurisdizionali hanno cancellato la pretesa dei magistrati inquirenti di accreditare una storia falsa per screditare i partiti politici e l’apparato dello Stato.

La sentenza ha il valore giuridico di verità processuale, in base a fatti accertasti senza la pretesa di ricostruire una storia generale.

A questo punto la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?!

La classe dirigente che ha governato il Paese fino agli anni 90 deve pretendere una risposta perché a distanza di tanti anni è possibile fare un’analisi non in contrapposizione ai magistrati ma insieme a loro e alla Associazione che li rappresenta coinvolgendoli sulla necessità di una comune rivoluzione culturale.

L’associazione Nazionale magistrati il 17 prossimo organizza un convegno a Milano per ricordare quelle indagini con la partecipazione di uno dei principali imputati di quel periodo Cusani. Bisognerà capire se si tratta di una celebrazione per esaltare o per criticare il metodo che soprattutto la procura di Milano ha adottato con la partecipazione costante singolare del giudice Ghitti.

L’Associazione ha sempre ritenuto che le indagini di “mani pulite” fossero normali, fatte secondo le regole del codice e ora invece individua un potere della magistratura di prima e di dopo tangentopoli. Avremo modo di valutare Intanto gli avvocati, gli uomini di cultura e i politici e i giornalisti si confronteranno in un convegno a Roma il 23 febbraio sul significato che quell’indagine ha avuto per tracciare una storia vera o per indicare quella immaginata dai magistrati.

Gherardo Colombo che faceva parte di quel gruppo milanese di sostituti procuratori ha ripetuto in una trasmissione televisiva con molta forza che il “sistema” finanziamento pubblico dei partiti e corruzione è stata una scoperta importante e decisiva, e questo è il merito di quelle indagini.

Io dico da tanti anni che è stato indagato appunto il “sistema“ e non i singoli fatti, i singoli imputati, e questa è la patologia che dovremmo tutti insieme riconoscere.

Luigi Ferraioli dice che il processo penale può diventare “storia di errori” e il diritto penale “storia di orrori”.

Dobbiamo verificare questo perché a distanza di trent’anni il giudizio può avere valore storico.

Bobo Craxi e Gherardo Colombo, scontro in tv sulla P2. Il Tempo il 17 febbraio 2022.

Scontro totale negli studi di Porta a Porta tra Bobo Craxi e Gherardo Colombo. Si parla del sistema di corruzione nella Prima Repubblica e Bobo Craxi descrive il funzionamento dell'apparato corruttivo. "Il sistema politico si finanziava illegalmente - ha spiegato Bobo Craxi negli studi di Vespa - Tutti i partiti della Prima Repubblica si finanziavano illegalmente. Tutto questo era tollerato con la compiacenza della magistratura che faceva parte integrante del regime. O i giudici voltavano la faccia dall'altra parte o avrebbero dovuto cambiare mestiere". 

A questo punto viene chiamato in causa Gherardo Colombo che conferma la compiacenza della magistratura fino al 1992: "E' indubbio che la magistratura chiudeva un occhio - conferma Colombo - Fino al 1992 non è stato possibile aprire un cassetto del potere. A me sono successe due occasioni personalmente per scoprire il sistema della corruzione. Diventa anche spiacevole dirlo ma il nome di tuo papà l'ho trovato per la prima volta nelle carte della P2. Comunque non ho detto che stava nella P2".     

Bobo Craxi non ci sta e replica stizzito per correggere subito Colombo: "Non fare così sulla P2 - sbotta Bobo Craxi - Non devi guardare me perdonami. Non puoi venire in tv a dire che mio padre stava nella P2. Ogni riferimento è fastidioso. Ci ascoltano milioni di italiani e i disastri li avete già combinati. Ci sono carte e libri che dicono che voi, invece, eravate legati a servizi stranieri. Il riferimento alla P2 è fastidioso".     

"Le monetine su Craxi? Nessuna ipocrisia se adesso le critico". Francesco Boezi il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex pm: "Dalla cittadinanza comportamenti scorretti. Non volevamo fare la rivoluzione".

Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite, si chiede il perché delle «domande al plurale» ma è chiaro come quella fase storica italiana abbia avuto per protagonista anche un certo modo d'intendere i rapporti tra giustizia e politica. «Possibile - annota - che abbiamo commesso errori». E che «cambiare idea», in fin dei conti, non è ipocrita.

Dottor Colombo, lei ha detto che la scena delle monetine su Craxi le fece un effetto negativo. Qualcuno, però, ritiene che sia ipocrita dolersi oggi.

«Credo di aver detto e scritto più volte che sono stati tenuti comportamenti scorretti da parte della cittadinanza seppur non riferendomi nello specifico alle monetine. Ma non è questo il punto. Vuole dire che se non l'ho detto allora non potrei dirlo oggi? Credo di averlo detto e scritto, e sicuramente lo pensavo, ma mettiamo che non l'avessi pensato, non potrei aver cambiato idea? È ipocrita cambiare idea?».

Lei forse non voleva fare la rivoluzione. L'impressione è che nel pool ci fosse chi voleva farla eccome.

«Nessuno di noi voleva fare la rivoluzione. Solo accertare i fatti corruttivi - e le relative responsabilità - che purtroppo erano gravi e molto diffusi. C'era certo una forte richiesta di cambiamento che veniva dalla cittadinanza e che era alimentata dai media, le tv che mettevano in pianta stabile giornalisti davanti al palazzo di giustizia a raccontare le malefatte di chi veniva coinvolto nelle indagini. Che spesso sbattevano il mostro in prima pagina. E forse hanno impropriamente alimentato anche reazioni emotive di rabbia nella cittadinanza».

Perché Mani pulite ha defenestrato soltanto una parte del sistema partitico italiano?

«Mani pulite non ha defenestrato nessuno. Ha svolto indagini nei confronti di persone in ordine a reati per i quali esistevano elementi per indagare. Queste persone facevano parte di tutti i partiti ad eccezione di Msi e Dp, se ricordo bene. Se si riferisce all'ex Partito comunista le posso fare l'elenco delle persone per le quali abbiamo chiesto al gip, e ottenuto, l'applicazione della misura cautelare in carcere. Abbiamo chiesto anche il rinvio a giudizio di un esponente di particolare rilievo, che il tribunale poi ha assolto. Non ricordo critiche per quel rinvio a giudizio».

I rapporti tra politica e giustizia sono ancora oggetto di discussione. Oggi sembra spirare un vento garantista.

«C'è indubbiamente un vento garantista e ne sono davvero contento. Mi dispiace che riguardi soprattutto alcune categorie (sembrano esclusi i ladri e i piccoli spacciatori). C'è anche un vento negazionista, che non considero funzionale ad una narrazione storica corretta».

La soluzione politica, ai tempi di Mani pulite, sarebbe stata preferibile a quella giudiziaria?

«Avevo suggerito l'idea che sarebbe uscito dal processo (e non sarebbe quindi andato in carcere) chi avesse raccontato come erano andate le cose, avesse restituito ciò di cui si era appropriato indebitamente, si fosse allontanato per un periodo di tempo ragionevole dalla vita pubblica. Qualcosa di analogo a quel che ha fatto il Sudafrica con la Commissione per la verità e la riconciliazione, fatti i necessari distinguo circa la drammaticità di quel conflitto. Era il luglio del 1992, il suggerimento non è stato neppure preso in considerazione».

Lei no, ma altri suoi colleghi hanno scelto la via della politica. Che ne pensa delle «porte girevoli»?

«Ho da tempo e a più riprese detto di avere una regola: se mi fosse venuto in mente di candidarmi mi sarei dimesso dalla magistratura (e quindi non vi sarei mai rientrato) e avrei lasciato passare un periodo consistente, diciamo due o tre anni, dalle dimissioni alla candidatura. Era la mia regola».

Le è capitato di affermare che «il carcere non risolve». Figurarsi la custodia cautelare.

«Se è per quello ho scritto da oltre 10 anni un libro, Il perdono responsabile, in cui dico che il carcere andrebbe abolito. Sono dell'idea che da un'altra parte (che non è il carcere) ci debba stare soltanto chi è pericoloso (e solo per il tempo in cui è pericoloso), e che questa altra parte debba essere un luogo in cui tutti i suoi diritti che non confliggono con la tutela della collettività siano garantiti e tutelati, che si debba smettere di considerare la pena una retribuzione del male commesso, che sia necessario riparare la vittima per il dolore subito e recuperare alla società chi il male lo ha agito. Ancora le regole non sono cambiate. Allora, e facendo il lavoro che facevo, dovevo rispettarle. E condividevo, peraltro, l'idea che il carcere, per quanto non mi piacesse mandarci le persone, fosse educativo, servisse a prevenire. Cosa che tanti lettori condividono e io non più. Anche per questa ragione mi sono dimesso una quindicina di anni fa. La custodia cautelare non è uno strumento punitivo, ma serve appunto ad evitare il pericolo di inquinamento della prova o la commissione di nuovi reati. Cose che pare vadano bene per i ladri d'auto ma non per i colletti bianchi. Possibile che abbiamo commesso errori, siamo esseri umani, ma personalmente ho sempre cercato di evitarli, e credo altrettanto abbiano fatto i miei colleghi».

Siete consapevoli di aver spinto, a distanza di anni, una parte di questo Paese ad allontanarsi in modo deciso dal giustizialismo?

«Non capisco perché mi rivolge costantemente le domande al plurale. Le ho già detto che apprezzo il garantismo, che non sia negazionismo, di cui ho cercato di essere interprete nei limiti del possibile anche in Mani pulite (così come nelle indagini sulla P2, sui Fondi neri Iri e così via). Però non mi pare che ci sia in giro tanto garantismo se non per i reati dei colletti bianchi. Non mi pare ci sia tanto di nuovo sotto il sole rispetto a quando era vietato aprire i cassetti del potere. Se mi sbaglio sono molto contento».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Mani Pulite, dopo trent'anni i magistrati star si dicono toghe eroiche a loro insaputa. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022

Curioso l'argomento degli influencer in toga, che a trent' anni dall'inizio del teatro di Mani Pulite vengono ora a spiegare di essere stati senza lor colpa trasformati in eroi dai giornalisti. Non che l'argomento sia inedito. Il guaio è che questa loro impassibilità si manifestava nell'eterno esibizionismo delle conferenze stampa, negli ettari di interviste, nelle maratone e nelle piazze pulite della tv consacrante.

E che a quell'argomento ricorrano ora, dopo l'apologetica trentennale che ha fatto del magistrato eponimo la guest star dell'Italia onesta contro quella corrotta, ecco, lascia perplessi. L'altro giorno, sul Corriere, Gherardo Colombo dichiarava che «i media giocarono un ruolo determinante nel trasformarci in "eroi"».

All'intervistatrice, la quale obiettava che forse alcuni si erano prestati alla consacrazione, Colombo ha risposto «neanche tanto»: e a dar forza all'assunto ha raccontato che lui rifiutò di dare al quotidiano Repubblica delle foto da bambino, che avrebbero dovuto guarnire un articolo di Giorgio Bocca. Diciamo che questa, pur encomiabile, ritenutezza non è stata decisiva per fermare il cantiere del monumento al pool. 

Colombo: mai pensato di fare la rivoluzione. Mani Pulite poteva arrivare prima. Diego Motta su Avvenire il 16 febbraio 2022.  

La giustizia è cambiata. Trent’anni dopo lo scoppio di Tangentopoli, la corruzione resta un costume nazionale, la politica rincorre ancora vecchi fantasmi e i magistrati non sono più eroi da prima pagina. «Manca il senso della comunità, dello stare insieme» sottolinea oggi Gherardo Colombo. Figura simbolo di Mani Pulite, da quindici anni ha lasciato la toga ed è diventato una delle voci più ascoltate della società civile, per il suo impegno nelle scuole e nell’associazionismo sui temi della legalità. Dai corsi di formazione con i gesuiti alle battaglie per i migranti, è rimasto in prima linea, pur lontano dai riflettori. Per questo può raccontare adesso cosa è stata quella stagione e cosa occorre cambiare, dai limiti dell’azione penale alla necessità di percorsi nuovi, «che permettano il recupero di chi ha sbagliato», sottolinea Colombo.

Trent’anni dopo Tangentopoli, si tende a parlare di quella inchiesta come di una rivoluzione mancata. Lei stesso ha detto che «Tangentopoli è finita, ma non la corruzione». Quale fu il merito storico di quell’indagine e quali i suoi limiti?

Dal punto di vista storico, perché l’indagine non venisse bloccata sul nascere fu senz’altro decisiva la caduta del Muro di Berlino, perché di fatto segnò anche in Italia la fine del sistema dei blocchi di potere contrapposti. Infatti Mani Pulite poteva scoppiare dieci anni prima, se solo fossero rimaste a Milano le indagini sulla P2 o sui fondi neri dell’Iri, dei quali nessuno più si ricorda. Invece finì tutto a Roma e le relative inchieste evaporarono. Mani Pulite nacque da un episodio solo, quello di un imprenditore che andò dai carabinieri a denunciare un fatto di corruzione. Fu insomma la prima volta che si potè investigare sui reati delle persone che rivestivano posizioni di potere.

E sulla rivoluzione dei giudici?

Non abbiamo mai pensato di farne e non ne abbiamo mai fatte. Il nostro lavoro non consisteva nel cambiare il sistema politico: noi dovevamo semplicemente verificare la responsabilità penale delle singole persone. È quello che prima come giudice, poi come sostituto procuratore e infine ancora come giudice, ho cercato di fare e penso di aver fatto nel mio percorso dentro la magistratura.

Quale fu il vostro rapporto con l’opinione pubblica all’epoca? E con i media? Le strumentalizzazioni legate alle vostre indagini non sono mancate...

Ci sono stati momenti diversi. Sono dell’idea che non sia corrispondente ai valori della nostra Costituzione sbattere il mostro in pagina.

Quali sono i livelli di corruzione presenti oggi nel nostro Paese?

Oggi non esiste più un sistema della corruzione, come invece esisteva allora, intimamente connesso al finanziamento illecito, occulto, dei partiti, che mi pare essere, con quelle modalità, quasi scomparso. A mio parere è diffusa più o meno come un tempo la corruzione non sistematica, quella un po’ anarchica che coinvolge anche cittadini comuni.

È una responsabilità legata ai limiti dell’azione penale in sè o c’è dell’altro?

Io credo che il sistema penale non serva, eventualmente, che ad ottenere obbedienza, mentre la democrazia richiede consapevolezza. Peraltro quando la trasgressione è così sistematica come lo fu ai tempi di Mani Pulite, il sistema penale non è idoneo a marginalizzarla. Occorrerebbe invece lavorare molto sull’educazione, sulla cultura, accompagnare le persone ad osservare le regole perché le condividono, non perché hanno paura della sanzione.

I 15 anni fuori dalla magistratura cosa le hanno dato?

Dopo la mia uscita dalla magistratura ho intrapreso un’attività, soprattutto nelle scuole ma non solo, per aiutare a capire le regole ed arrivare a condividerle, a partire dalla Costituzione. I ragazzi che incontro sono molto disponibili al dialogo e al coinvolgimento, si lavora bene con loro se oltre che a parlare li si ascolta.

Anticipazione da “Oggi” l'11 febbraio 2022.

«Mani pulite? Credo che l’unico effetto di un certo rilievo sia consistito nel separare la corruzione dal finanziamento illecito dei partiti politici, che mi pare adesso non così diffuso come allora». 

Gherardo Colombo, intervistato dal settimanale OGGI, diretto da Carlo Verdelli, a trent’anni da Mani Pulite traccia il bilancio di quella stagione: «L’inchiesta sulla corruzione svolta dalla Procura di Milano, cominciata nel 1992 nel settore degli appalti pubblici, si è conclusa, con i processi, nel 2005, e ha svelato la commissione di migliaia e migliaia di reati».

Ma la sintesi dell’ex giudice del pool è chiara: «Non la magistratura, ma la politica, in senso generale, avrebbe potuto trovare una soluzione». 

È però sulle speranze, gli entusiasmi e il consenso che quelle inchieste sulla corruzione generarono che Colombo fa la considerazione più amara: «Quando è finita Mani Pulite? Quando le prove hanno cominciato a portarci verso la corruzione spicciola, dei cittadini comuni (…) 

Quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per 200 mila lire segnala all’agenzia di pompe funebri un decesso, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: Ma cosa vogliono questi?».

E alla domanda su cosa abbia significato personalmente, quell’impegno, dice: «È stata la conferma finale che l’amministrazione della giustizia non arriva al termine quando riguarda i reati delle persone potenti. Lo avevo visto a cominciare dal 1981, da come finirono le indagini sulle carte della P2... La mia originaria convinzione, che sarebbe stato sufficiente che le persone sapessero perché venisse marginalizzata la trasgressione nelle alte sfere della società, ha subito gli ultimi colpi. Non è così».

Giustizia e paradossi. Renzi, Berlusconi, Salvini e Craxi: quando bisogna difendersi “dai” processi e non “nei” processi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

I protagonisti del processo Open sono quattro. I loro nomi sono questi: Giuseppe Creazzo, (Procuratore ), Antonio Nastasi (Procuratore aggiunto), Matteo Renzi (senatore ed ex premier), Luca Turco (sostituto procuratore). La posizione dei primi tre è chiarissima. Il procuratore e il suo vice hanno commesso reati, il senatore non ne ha commessi. La domanda che assilla un po’ tutti è: ma il sostituto Turco è anche lui colpevole o è innocente?

Chiariamo meglio.

Il Csm ha accertato che il procuratore Creazzo ha commesso atti di molestia sessuale (che nel codice penale equivalgono a violenza sessuale) e lo ha punito con una piccola multa. Il reato non è più perseguibile penalmente perché la vittima non lo ha denunciato entro un anno. Però ha confermato che la violenza c’è stata e il Csm ha ratificato. E uno. Il Procuratore aggiunto invece è stato interrogato ieri in Commissione parlamentare, sulla vicenda del suicidio o omicidio di David Rossi del Monte dei Paschi. Gli hanno chiesto se quel pomeriggio era stato sulla strada dove giaceva il corpo di Rossi. Ha negato. Il parlamentare dei 5 Stelle Migliorino ha insistito: “cerchi di ricordare…”. No, no, no, ha insistito a sua volta il Procuratore aggiunto. “Non ci sono andato”.

Allora Migliorino gli ha fatto vedere una fotografia dove c’era un signore proprio lì nella strada, vicino al corpo, e gli ha chiesto: “lo riconosce questo signore?”. Era proprio lui. Il procuratore aggiunto è diventato rosso rosso e poi ha balbettato: “può darsi, che vuole, io non mi ricordo neppure come ero vestito la settimana scorsa…” Già. Succede. Mi piacerebbe sapere come si comporta lui con un imputato che vistosamente mente e poi si giustifica dicendo che la sua memoria è debole… Comunque: e due. Stavolta, a occhio e croce, il reato potrebbe essere quello di falsa testimonianza. O magari di intralcio alla giustizia, chissà.

Poi c’è il senatore Renzi. Ha creato una fondazione, l’ha finanziata con donazioni spontanee dichiarate. Niente in nero. E siccome è legittimo finanziare una fondazione, è evidentemente innocente. È sul quarto uomo che c’è il mistero. Il dottor Turco. Lui dice di essere innocente, come Renzi, ma Renzi dice che anche lui è colpevole e lo ha denunciato. Colpevole di avere commesso degli illeciti durante le indagini, che in ogni caso, se fosse un reato, certo sarebbe un reato minore rispetto a quelli commessi dai suoi due colleghi. Deciderà il tribunale di Genova, chiamato a giudicare se Turco sia dalla parte dei colpevoli o degli innocenti. Però questa vicenda, abbastanza paradossale, ne richiama alla mente molte altre. Quelle di Berlusconi, soprattutto, ma non solo.

Per esempio quelle di Salvini o, tornando indietro nel tempo, di Craxi. Tutte queste storie ci dicono che quel luogo comune che spesso sentiamo ripetere (“bisogna difendersi nel processo e non dal processo), come quasi tutti i luoghi comuni è una fesseria. Il processo a Renzi, cioè il caso Open, essendo il più recente, credo che lo conosciate un po’ tutti. Non lo accusano di avere rubato ma di avere fondato di nascosto un partito mentre in realtà era un dirigente di un altro partito. Cioè i magistrati dicono che la Fondazione Open era un partito, anche se senza sedi, senza iscritti, senza congressi, senza simbolo, senza candidati alle elezioni comunali, regionali, provinciali, nazionali, senza un segretario, senza federazioni, senza sezioni… Scusi – chiede un passante – ma come può essere un partito? Loro non rispondono. Sono giovani, forse non sanno bene neppure cosa sia un partito politico. Però vogliono Renzi. Alla sbarra. Lo braccano. Sono sicuri che riusciranno a portare a casa la sua pelle.

Ora, dico, a parte il paradosso di essere indagati da un magistrato che ha molestato una donna (anzi una sua collega) e da un altro che ha reso falsa testimonianza dinanzi al Parlamento (non deve essere una bella sensazione da parte di un imputato sapere che il livello dei suoi inquisitori è questo) il problema vero è che per Renzi è stato chiesto il rinvio a giudizio in totale assenza di reato. E questa è una brutta storia. Del resto proprio Mattarella ha detto recentemente, nel suo discorso di insediamento, che la magistratura ha perso credibilità e che gli imputati non si sentono più sicuri. Ha ragione da vendere, mi pare, il caso Open è la prova provata che Mattarella aveva ragione. Come si può, francamente, avere fiducia in questi magistrati?

Poi c’è il caso Salvini, quello del processo per sequestro di persona. Voi magari sapete quanto male io pensi di Salvini, e quanto dissenta dalla sua politica di respingimento dei profughi: ma cosa diavolo c’entra l’accusa penale e addirittura il sequestro di persona? Voi direte: vabbé ma è stato il Senato a dare l’autorizzazione a processare Salvini, con il voto persino di Renzi. Obiezione giustissima. Il guaio è proprio questo: che i politici si difendono quando li mettono in mezzo a loro, e invece fanno il sorriso e l’inchino ai magistrati quando questi mettono sotto processo i loro avversari. Per questo i magistrati sono molto potenti e i politici no. Avete visto come ha reagito l’Anm all’attacco di Renzi alla Procura di Firenze? Facendo muro, come un sol uomo. Ha avvertito Renzi che la corporazione è tutta schierata coi suoi tre magistrati, sia con l’innocente che coi due colpevoli…

Vogliamo parlare di Berlusconi? Novanta processi dei quali 89 finiti con l’assoluzione e uno con una condanna – il famoso processo sull’evasione fiscale – molto scombiccherata e che con ogni probabilità verrà presto cancellata dalla Corte europea. Voi pensate che un signore che viene processato per novanta volte senza ricevere condanne sia sfortunato o perseguitato? Poi c’è Craxi. Un pezzo della magistratura, 30 anni fa, decise che andava annientato perché era lui l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Era l’ostacolo all’instaurazione della repubblica giudiziaria. Era un socialista, un democratico, un liberale. Tutte parole da cancellare. Lo massacrarono, anche perché nessuno lo difese. Fu costretto a fuggire in Tunisia. Stava male. Gli negarono persino il diritto a venire a curarsi in Italia, lo lasciarono morire, solo, in un ospedale scalcinato. Che orrore.

Vogliamo invece parlare degli sconosciuti? L’ottanta per cento delle persone che ricevono l’avviso di reato alla fine saranno assolte, ma dopo essere state massacrate, economicamente, moralmente, professionalmente. La pena viene eseguita senza condanna, ed è durissima. La pena si chiama processo. E allora? Se vogliamo ristabilire lo Stato di diritto bisogna difendersi dai processi. Non nei processi: dai processi. Impedire che le Procure massacrino miglia di persone, fuori da ogni principio del diritto e senza condanna. Non è giusto lasciare ai giudici il potere di fare di noi ciò che vogliono. Renzi e Berlusconi si difendono dal processo? Beh, se lo fanno bisogna applaudirli. E seguirne l’esempio se si può. In attesa che i tempi cambino e torni la Giustizia. Chissà quanto dovremo aspettare. La riforma del Csm proposta ieri non fa ben sperare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Caro Caselli, l’accostamento tra Renzi e le Br è un po’ eccessivo. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, il riferimento di Caselli agli anni di piombo e ai terroristi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Francesco Damato su Il Dubbio il 12 febbraio 2022.

Con tanto ritardo rispetto alle aspettative da cogliermi di sorpresa, ve lo giuro, i politici che resistono, reagiscono e quant’altro alle iniziative giudiziarie che li investono, di solito mentre sono più esposti sul loro terreno professionale, diciamo così, sono stati paragonati addirittura a quei terroristi che contestavano allo Stato borghese, capitalistico e altre scemenze simili il diritto di processarli. E qualcuno ammazzava anche per strada che si ostinava a fare il suo mestiere. O minacciava di morte i giudici popolari, anch’essi borghesi, capitalisti e scemenze simili, selezionati con incolpevole sorteggio.

Sentite che cosa ha appena sostenuto sulla Stampa non un Camillo Davigo particolarmente polemico in qualcuno dei salotti televisivi più o meno di casa ma un magistrato molto più accorto di lui nell’uso delle parole, iperboli e simili come Gian Carlo Caselli: «In Italia dai primi anni Novanta del secolo scorso si riscontra una pessima anomalia: l’ostilità verso la giurisdizione, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; una sorta di impropria edizione del cosiddetto processo di “rottura”, utilizzato però da uomini dello Stato, anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi».

Con quel riferimento esplicito agli “anni di piombo” non credo di avere esagerato nel vedere tra le righe e le parole di Caselli una certa affinità, ripeto, fra i terroristi che rifiutavano i processi e i politici che dagli anni Novanta in poi – o gli inquisiti “celebri”, come li chiama l’ex capo di celebri Procure italiane – contestano i magistrati che si occupano di loro e le iniziative che assumono nell’esercizio delle proprie funzioni. E mi perdonerà il buon Caselli, col quale ho avuto già altre occasioni di polemiche, se mi permetto di dissentire ancora una volta da lui. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, questo riferimento agli anni di piombo e ai terroristi mi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Qui si spara solo – se si spara- con parole e carte bollate, come ha appena fatto Matteo Renzi contestando i magistrati che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio, insieme col cosiddetto “cerchio magico” degli anni altrettanto magici della sua fulminante carriera politica, per finanziamento illegale dei partiti e tutti gli altri reati che di solito – dai tempi lontani di “Mani pulite”- si porta appresso una simile imputazione.

Sono il primo a riconoscere, per carità, che Renzi fa poco, anzi assai poco, per risultare simpatico, persino a uno come me che votò con molta convinzione nel 2016 la “sua” riforma costituzionale, anche dopo che lui l’aveva imprudentemente personalizzata a tal punto da farne un plebiscito su di lui perdendolo. Ma vederlo direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, a ragione o a torto, come uno di quelli che dietro le sbarre gridavano contro la Corte di turno che doveva giudicarli, mi fa mettere le mani fra i capelli che fortunatamente mi sono rimasti.

“FRONTIERE” PRESENTA “DOPO MANI PULITE… LA GUERRA DEI TRENT’ANNI”.  Da spettacolomusicasport.com il 12 febbraio 2022

Qual è il bilancio di Mani Pulite a trent’anni dall’inizio dell’inchiesta che ha cambiato la storia del nostro Paese? Lo scontro fra magistratura e politica, la deriva della giustizia spettacolo e la nascita del giustizialismo, sono i temi al centro della puntata di Frontiere di sabato 12 febbraio “Dopo Mani pulite… la guerra dei Trent’Anni”, in onda alle 16.30 su Rai3. Doveva essere una rivoluzione all’insegna della lotta alla corruzione, ma da allora siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione. 

In studio con Franco Di Mare Stefano Cagliari, autore del libro “Storia di mio padre” in cui ha raccolto le lettere scritte in carcere dall’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e Goffredo Buccini, editorialista del Corriere della Sera.  Interverranno Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali e i giornalisti Sergio Rizzo e Paolo Guzzanti.

Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent'anni" a Frontiere. Conduce Franco Di Mare. Rainews il 19 febbraio 2022

Magistratura e politica: a trent’anni dalla più importante inchiesta della storia italiana siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione. La riforma Cartabia riuscirà a realizzare quei cambiamenti tante volte rinviati? E possiamo considerare davvero archiviati i mali che affliggono la giustizia: l’uso disinvolto delle intercettazioni e le loro pubblicazioni, il carrierismo e il correntismo venuto alla luce con il caso Palamara, le porte girevoli che consentono di passare dalla magistratura alla politica per poi farvi ritorno? Insomma, la magistratura è un potere o uno stra-potere? Questo il tema al centro della puntata di “Frontiere” in onda sabato 19 febbraio alle 16.30 su Rai 3 dal titolo “Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent’anni”. In studio con Franco Di Mare il giornalista Enzo Carra, arrestato simbolo di Mani Pulite e Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera. Intervengono Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, la storica Simona Colarizi e i giornalisti Alessandro Sallusti, Sergio Rizzo, Paolo Guzzanti e Piero Colaprico.

30 anni di Mani Pulite: la fine della prima Repubblica. "Un giorno in Pretura" racconta il processo Enimont. Rainews il 17 febbraio 2022.  

A trent’anni dall’inizio “Tangentopoli”, lo scandalo che ha travolto l’Italia degli anni Novanta, RaiPlay propone in boxset da giovedì 17 febbraio, “30 anni di Mani Pulite: la fine della Prima Repubblica”, uno speciale con 25 puntate del programma “Un giorno in Pretura” di Roberta Petrelluzzi, Tommi Liberti e Antonella Nafra, andato in onda su Rai 3 dalla fine del 1993 fino a metà del ’94. I contenuti si concentrano sul principale processo di Tangentopoli, quello Enimont, che vede coinvolti i maggiori leader politici dell’epoca, accusati a vario titolo di essersi spartiti una tangente di 150 miliardi di lire per favorire la fusione della chimica privata della Montedison con quella pubblica di Eni. Imputato è Sergio Cusani, consulente finanziario, accusato di falso in bilancio e illecito finanziamento ai partiti. Il processo ha subito un grande clamore, tocca punte di quasi cinque milioni di spettatori, a dimostrazione della qualità della trasmissione che, specialmente in quegli anni, costituisce uno strumento di approfondimento e conoscenza della realtà. Cusani viene condannato e, nel giro di pochi anni, tutta la classe politica è spazzata via, determinando la scomparsa di due grandi partiti: la Dc e il Psi. E’ la fine della Prima Repubblica. 

Tangentopoli per chi non c’era. Il post il 17 febbraio 2022.

Cosa fu il pool di Mani Pulite, chi fu coinvolto dalle inchieste, chi era “il compagno G.”, cosa successe all'Hotel Raphael, e cosa cambiò dopo

Il 17 febbraio 1992, trent’anni fa, venne arrestato a Milano Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Partito socialista. I carabinieri lo colsero in flagranza di reato subito dopo aver ricevuto una tangente da sette milioni di lire. In quei giorni il caso non destò grandi attenzioni a livello nazionale, ma l’arresto di Chiesa sarebbe poi diventato famoso come quello da cui cominciò l’insieme di inchieste note come Mani Pulite, o Tangentopoli, che riguardarono l’esteso sistema di corruzione e concussione che coinvolgeva quasi tutti i principali partiti di allora e un pezzo dell’imprenditoria nazionale.

Spesso si dice che Tangentopoli mise fine alla Prima Repubblica, cioè al sistema politico e partitico che si era consolidato in quasi cinquant’anni dopo la Seconda guerra mondiale, favorendo l’ascesa di nuove forze e nuove ideologie. I nomi delle persone coinvolte nelle vicende politiche e giudiziarie di quegli anni, i posti in cui si svolsero le vicende, sono in molti casi entrati nell’immaginario collettivo, citati ancora oggi di frequente sui giornali e in tv per fare confronti e rimandi con la politica contemporanea. A questi nomi sono associati in molti casi concetti ed espressioni gergali ben noti a chi seguì o studiò quelle vicende, ma talvolta più confusi per chi nei primi anni Novanta era troppo giovane oppure nemmeno era nato.

Mario Chiesa

Soprannominato “il Kennedy di Quarto Oggiaro” per la sua ambizione, Chiesa iniziò a fare politica con il PSI negli anni Sessanta. Tra gli anni Settanta e Ottanta ottenne una serie di incarichi pubblici, dal posto di direttore tecnico all’ospedale Sacco all’assessorato ai Lavori Pubblici. Erano anni in cui a Milano i socialisti erano potentissimi: il PSI aveva espresso il sindaco della città ininterrottamente dal 1967, e Chiesa aveva legami sia con Paolo Pillitteri che con Carlo Tognoli, due esponenti di spicco del PSI milanese (il primo fu sindaco dal 1986 al 1992, il secondo dal 1976 al 1986).

Nel 1986 Chiesa venne nominato presidente del Pio Albergo Trivulzio, una nota e antica casa di cura chiamata “la Baggina” dai milanesi, dal fatto che la sede si trova sulla strada che va verso Baggio e che un tempo si chiamava appunto via Baggina. In quegli anni Chiesa coltivava l’ambizione di diventare sindaco, perciò si allontanò dagli esponenti locali socialisti e cercò di costruirsi un legame con Bettino Craxi, segretario del partito e presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987. 

Nel 1992 Chiesa finì però coinvolto in un’operazione dei Carabinieri. La ditta di pulizie dell’imprenditore brianzolo Luca Magni, per assicurarsi l’appalto al Pio Albergo Trivulzio, pagava regolarmente tangenti a Chiesa. Magni, stanco e sfibrato dalle continue richieste economiche di Chiesa, denunciò il fatto ai Carabinieri, i quali lo portarono dal magistrato Antonio Di Pietro. Insieme a lui organizzarono l’operazione. Colto in flagrante mentre accettava una tangente di 7 milioni di lire, Chiesa venne arrestato. Pochi giorni dopo l’arresto, Craxi cercò di sminuire l’accaduto definendo Chiesa un «mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito» fatto di gente onesta.

Sull’arresto di Chiesa si sviluppò la prima fase dell’inchiesta di Di Pietro, a cui vennero presto affiancati altri magistrati – il “pool di Mani Pulite” – e che si allargò fino a coinvolgere centinaia di persone prima a Milano e poi in tutta Italia, prima nel Partito socialista e poi in quasi tutti gli altri.

Perché “Tangentopoli”

Oggi Tangentopoli è diventato un termine che descrive genericamente gli eventi di quegli anni, dalle inchieste partite nel 1992 alle loro conseguenze politiche, e viene usato anche per descriverne gli effetti sui media e sull’opinione pubblica. Ma come raccontò poi Di Pietro, l’arresto di Chiesa fu l’innesco di una macchina giudiziaria e di indagine che era stata costruita meticolosamente e da molto tempo, mentre la procura di Milano indagava sui tanti episodi di corruzione e concussione in città.

Questi episodi finivano periodicamente sui giornali anche prima del 1992, e proprio da uno di questi nacque il nome “Tangentopoli”. Lo inventò Piero Colaprico, all’epoca inviato speciale di Repubblica. Il caso riguardava un funzionario impiegato all’urbanistica del comune di Milano che aveva messo in piedi un percorso parallelo per accettare in cambio di tangenti le pratiche che ufficialmente rifiutava. Colaprico ricorda così la genesi di Tangentopoli come definizione:

Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti, quelle che poi finiscono immancabilmente male: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli.

Milano, “la città della tangenti”: sarebbe meglio dire “la città delle tangenti che venivano scoperte”, perché non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste “cronache di Tangentopoli”. Non se ne accorse nessuno.

Finché non arriva il caso Chiesa, e con il passare dei giorni il caso monta fino ad arrivare in prima pagina, con un riferimento a Tangentopoli nel titolo.

Col tempo la definizione attecchì anche su altri giornali e nelle televisioni, nel vocabolario collettivo e soprattutto entrò nel gergo giornalistico il meccanismo inventato da Colaprico: ci furono perciò in seguito gli scandali di Calciopoli e Vallettopoli, solo per citare i più famosi.

Il pool di Mani Pulite

Dopo le elezioni del 5 aprile 1992, definite un «terremoto» per il calo di consensi dei partiti di governo e per l’ascesa di nuovi movimenti come la Lega Nord e La Rete, la magistratura continuò a indagare. Chiesa, dopo settimane di interrogatorio, aveva descritto un sistema di corruzione organico al finanziamento di tutti i partiti, dalla DC al Partito comunista. In seguito cominciarono a stabilire contatti con la magistratura anche altri imprenditori. L’indagine insomma si stava allargando e il capo procuratore Francesco Saverio Borrelli decise di costituire un “pool”, un gruppo di magistrati incaricati di seguire le varie inchieste condividendo le informazioni.

È una soluzione che le procure adottano di rado, quando ci sono casi molto grossi e delicati da seguire e il lavoro di un solo pubblico ministero non basta. Al sostituto procuratore Di Pietro ne furono aggiunti altri due: Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. 

Colombo era già allora un magistrato molto noto, aveva indagato sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli e sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Davigo si era concentrato invece sulla criminalità organizzata, sui reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. In seguito, Davigo raccontò della sua ritrosia ad accettare la richiesta di entrare nel pool, perché sapeva che Mani Pulite avrebbe avuto conseguenze enormi, e che i magistrati avrebbero passato con ogni probabilità qualche guaio: «Accadde però che in concomitanza con la mia risposta ci fu la strage di Capaci e allora io mi vergognai anche solo di aver pensato che potevo passare dei guai».

L’inchiesta venne chiamata Mani Pulite dalle iniziali dei nomi in codice usati dal comandante dei Carabinieri Zuliani e da Di Pietro durante le comunicazioni via radio (rispettivamente “Mike” e “Papa”). Di Pietro, Colombo e Davigo ne diventarono gli uomini immagine, personaggi mediatici a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze del caso, oggetto di venerazione e cori dedicati durante le manifestazioni (“Colombo, Di Pietro, non tornate indietro!”).

Il “Compagno G.”

Primo Greganti fu uno dei pochi esponenti comunisti a essere coinvolto nelle indagini di Mani Pulite. Venne arrestato il 1° marzo 1993, quando già il PCI si era trasformato in Partito Democratico della Sinistra (PDS). Fu accusato di aver ricevuto per conto del partito una tangente di 621 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, una nota società agroalimentare che anni prima aveva acquistato la maggioranza del gruppo Montedison, una importante società chimica italiana sui cui rapporti illegali con partiti e amministrazioni il pool si concentrò a lungo.

L’arresto di Greganti incluse anche il PDS tra i partiti accusati di corruzione, insieme a quelli che si erano trovati al governo negli anni precedenti (DC e PSI, oltre al Partito Socialdemocratico, il Partito Liberale e quello Repubblicano). Ma lo stesso Greganti divenne famoso perché – a differenza di altri accusati che confessarono in fretta per timore della carcerazione e per le pressioni pubbliche – durante i tre mesi che passò in arresto a San Vittore a Milano si dichiarò sempre innocente e si rifiutò di ricondurre al PCI il ricco conto bancario denominato “Gabbietta” a lui intestato. 

Sui giornali dell’epoca divenne noto con il soprannome di “signor G.” e poi “compagno G.”, dopo che il PDS ne aveva preso le distanze chiamandolo “il signor Greganti”: ma al tempo stesso il suo comportamento gli guadagnò paradossali stime sia tra gli elettori del PDS che tra quelli del centrodestra nemici delle inchieste di Mani Pulite. Greganti fu scarcerato il 31 maggio 1993. Venne poi condannato, ma il suo limitato coinvolgimento rese il PDS l’unico dei partiti tradizionali che subì poche conseguenze da Tangentopoli (e anzi beneficiò della crisi che travolse i partiti suoi avversari).

Cusani, Gardini, Cagliari e il processo Enimont

Ci fu un lungo periodo in cui le indagini del pool andarono avanti, scandite dalle notizie di avvisi di garanzia arrivati a diversi esponenti politici, ciascuno trattato come un inequivocabile indizio di colpevolezza. Poi iniziarono i processi. Tra tutti, quello più seguito fu il processo Enimont, che iniziò nell’autunno 1993 e vide il coinvolgimento di esponenti politici di primo piano: Bettino Craxi, Umberto Bossi, Paolo Cirino Pomicino, Arnaldo Forlani e Giorgio La Malfa, tra gli altri. Il processo cercò di stabilire se il gruppo Ferruzzi avesse versato ai partiti una “maxi-tangente” di 150 miliardi di lire, definita impropriamente dai giornali la “madre di tutte le tangenti”. 

Il principale imputato era Sergio Cusani, all’epoca consulente finanziario del gruppo Ferruzzi. Cusani era accusato di aver avuto un ruolo centrale nell’organizzare il pagamento di varie tangenti attingendo da quel fondo di 150 miliardi.

Poco tempo prima c’era stata una vasta operazione finanziaria per unire due grandi poli della chimica italiana, quello dell’Eni, in mano pubblica, e quello di Montedison, posseduto dal gruppo Ferruzzi. La fusione aveva fatto nascere il gruppo Enimont.

I personaggi chiave di questa operazione erano i due presidenti dei rispettivi gruppi, Gabriele Cagliari, che trattava con Montedison per conto dello Stato, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi. La fusione però fu un insuccesso: Gardini avrebbe voluto “scalare” il gruppo, come si dice in gergo finanziario, ossia rilevare la quota di maggioranza di Enimont, ma i partiti fecero resistenza. Gardini allora si sfilò dall’affare, cercando di convincere l’Eni a rilevare le sue quote a un buon prezzo: secondo il pool di Mani Pulite attraverso il pagamento di tangenti ai vari partiti.

Il processo si concluse con le condanne definitive di molti importanti politici, tra cui Forlani, Bossi, Renato Altissimo e il tesoriere della DC Severino Citaristi. Cusani fu condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere.

Prima del processo, durante le indagini, Gabriele Cagliari era stato arrestato per un’altra presunta tangente. Dopodiché, mentre si trovava in carcere, gli furono contestati altri reati che avevano a che fare con una rete di “fondi neri” dell’Eni. In tutto, Cagliari rimase in custodia cautelare a San Vittore quattro mesi e mezzo: si suicidò il 20 luglio 1993. Tre giorni dopo, si uccise anche Gardini nella sua casa di Milano a palazzo Belgioioso.

Prima e Seconda Repubblica

Tangentopoli fu una cesura così evidente, un momento da “prima e dopo”, che fu interpretato come un passaggio tra due Repubbliche, nonostante non ci sia mai stata nessuna riforma dell’assetto istituzionale come invece avvenne in Francia (dove di Repubbliche ce ne sono state cinque). La Repubblica in Italia rimase invece sempre la stessa, eppure dopo il 1992 la politica cambiò in modo così radicale, dalla classe dirigente ai partiti stessi, che sembrò un’altra. In seguito alcuni storici e studiosi misero in discussione questa lettura ridimensionando l’effettiva trasformazione della politica, che conservò comunque molti esponenti di spicco.

La cosiddetta Seconda Repubblica, caratterizzata da un bipolarismo tra la destra di Silvio Berlusconi e la sinistra erede del PCI, viene fatta cominciare di fatto con le elezioni politiche del 1994. Con Prima Repubblica, invece, ci si riferisce convenzionalmente a tutto il periodo prima di Tangentopoli, dominato dalla contrapposizione tra DC e PCI.

Berlusconi

La rapida scomparsa dei partiti della Prima Repubblica lasciarono un vuoto enorme nella politica, alimentato dal sentimento di rigetto tra gli elettori e le elettrici, evidente prima nelle elezioni dell’aprile del 1992 e poi in quelle del 1994. Questa situazione fu abilmente sfruttata da Berlusconi, all’epoca ricco imprenditore proprietario tra le altre cose della squadra di calcio del Milan e della società Fininvest, con cui controllava molte reti televisive private. Attraverso la sua società, Berlusconi raccolse dati sui suoi telespettatori preparando con cura il suo ingresso in politica – ricordato come la “discesa in campo” – e proponendosi come “uomo nuovo”, lontano dalle trame affaristiche della vecchia politica (sebbene da imprenditore conoscesse molto bene gli ambienti politici e fosse amico personale di Craxi). 

Nel 1994 dunque entrò in politica e alle elezioni di quell’anno ottenne oltre il 42 per cento dei voti con una coalizione larga, in cui c’era il suo partito (Forza Italia), Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini e la Lega Nord. Formando il primo governo, Berlusconi offrì il ministero dell’Interno a Di Pietro, che aveva pubblicamente sostenuto più volte, per motivi di consenso. Di Pietro rifiutò, e negli anni seguenti i due sarebbero diventati acerrimi rivali. Il governo comunque rimase in carica meno di un anno, per via dei litigi tra Berlusconi e la Lega Nord.

«Un clima infame»

Tangentopoli fu anche causa di eventi tragici. Oltre alle citate storie di Cagliari e Gardini, ci furono diversi altri suicidi, tra cui quello del deputato socialista Sergio Moroni, il 2 settembre 1992. Saputo il fatto, Craxi andò in visita a casa di Moroni, e poi all’uscita venne assaltato dai giornalisti con microfoni e telecamere. Craxi disse solo cinque parole, che diventarono poi assai famose e citate nei contesti più diversi: «Hanno creato un clima infame». Non si sa se si riferisse ai magistrati o ai mezzi di informazione, o all’insieme delle due cose. 

Hotel Raphael

Sempre Craxi fu protagonista di un altro episodio, forse ancora più celebre. Era il 30 aprile 1993, Craxi era l’obiettivo più grosso a cui il pool di Mani Pulite puntava nelle sue indagini. Quel giorno il Parlamento respinse quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro di lui. Nello sdegno generale, alimentato da toni estremamente polemici da parte dei media, una piccola folla di manifestanti andò sotto la residenza romana di Craxi, l’Hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, rimanendoci a lungo per aspettarlo.

Craxi decise che non si sarebbe fatto intimidire e scese comunque, affrontandoli. Non appena lo fece partirono prima i cori e poi, quasi subito, una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine. Chi non lanciava nulla – alcuni la definirono “un’aggressione” – teneva in mano banconote da mille lire e cantava «Bettino vuoi pure queste?». 

Un po’ di numeri

I numeri imponenti di Tangentopoli hanno generato negli anni un po’ di confusione. Secondo il pool, soltanto a Milano, per l’inchiesta Mani Pulite, ci furono 620 patteggiamenti davanti al giudice per le indagini preliminari mentre 635 persone vennero prosciolte. Tra i rinviati a giudizio ci furono 661 condanne e 476 assoluzioni. Ci furono diversi suicidi, ma non è noto con esattezza quanti: alcune fonti parlano di 31 persone, altre ancora di 41, ma si tratta di una stima evidentemente difficile e controversa.

L’unica stima dei costi di Tangentopoli che si conosca è quella, molto citata, di Mario Deaglio: 10mila miliardi di lire annui per la cittadinanza; tra i 150mila e i 250mila miliardi di lire per il debito pubblico; tra i 15mila e i 25mila miliardi di lire per gli interessi annui sul debito. Le opere pubbliche arrivarono a costare fino a quattro volte di più rispetto agli altri paesi europei.

Noi, campioni di autoassoluzione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022. 

Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite.

Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. «Adesso l’Italia cambierà», dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo?

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite — la risposta giudiziaria a Tangentopoli — non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa.

La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci.

Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio — classe 1992, coetaneo di Mani Pulite — cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: «Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?».

Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo.

Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ’92: «Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi». Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’.

Dopo trent’anni stiamo ancora pagando l’illusione di una democrazia senza partiti. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO su Il Domani il 19 febbraio 2022

Tangentopoli fu la miccia che innescò l’implosione di un sistema politico già in difficoltà da un paio di decenni, costretto ad adattarsi ad un mondo reso differente dalla caduta del Muro di Berlino e dai processi di europeizzazione.

Si pensò di risolvere la crisi passando a un modello di democrazia “maggioritaria”. In realtà, è molto difficile che una democrazia cambi “tipo” in modo radicale. L’unico precedente storico di significativo era la Francia di De Gaulle e il passaggio al semipresidenzialismo. La nostra transizione si è bloccata presto.

 Nel biennio 1992-1994 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in modo drastico il sistema partitico: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e la sua classe dirigente. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO

L'anniversario dell'inchiesta. Tangentopoli ha corrotto le regole, quell’epoca ha distrutto lo stato di diritto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Febbraio 2022. 

Il dibattito su Tangentopoli, in occasione del suo trentennale, è ovviamente inquinato dalle consuete logiche di contrapposizione tra opposte tifoserie politiche. Troppo profonde sono state le cicatrici che quello tsunami ha lasciato impresse nella storia politica del nostro Paese, per pensare di poterne parlare con un minimo di equilibrio e di onestà intellettuale. La strada più comunemente liquidatoria è quella di schiacciare la riflessione sul tema della corruzione politica, come se i critici di quella indagine dovessero automaticamente iscriversi tra i paladini della corruzione politica, o di quella classe dirigente più in generale.

Ovviamente, nessuno di noi critici di quella storia giudiziaria pensa di negare che vi fosse una diffusa corruzione nella vita pubblica, in gran parte innescata dal complesso fenomeno del finanziamento della politica; né tanto meno pretende di sostenere che questa meritasse l’impunità. Il tema è tutt’altro, ed è innanzitutto il tema delle regole che una inchiesta giudiziaria dovrebbe sempre e comunque rispettare. Per esempio, l’idea di iscrivere tutte le notizie di reato per i più svariati reati contro la Pubblica Amministrazione mano a mano emergenti in un solo, gigantesco fascicolo di indagine, con quell’unico numero di registro, e soprattutto con un solo Giudice delle Indagini preliminari, fu una scelta totalmente estranea alle regole.

Nessuno ha mai fatto questo prima, nessuno ha mai fatto questo dopo, né a Milano né in qualunque altra Procura d’Italia. Dunque è lecito denunciare quella clamorosa violazione delle regole, e soprattutto è legittimo interrogarsi sulle ragioni di un fatto così clamoroso ed anomalo. Perché si volle quell’unico Gip, visto che è quel Giudice che decide se accogliere o meno le richieste di arresto o di sequestro o di intercettazione formulate dagli inquirenti, ed è suo il compito di controllare la legittimità delle indagini? E che dire dell’uso della qualificazione giuridica del fatto per ottenere confessioni o dichiarazioni accusatorie?

L’imprenditore che è sospettato di aver dato denaro al politico, sa che se nega il fatto sarà considerato corruttore, e come tale andrà a San Vittore; se accusa si salva, perché il premio sarà di considerarlo vittima di una concussione del politico. Ed anche qui, siamo fuori da ogni regola di uno stato di diritto, perché la qualificazione giuridica del fatto non è, ovviamente, uno strumento di polizia. E mentre l’indagine montava con questa idea e questa pratica delle regole procedimentali, ci si rese progressivamente conto che essa si stava trasformando in qualcosa di assolutamente inedito. Una Procura della Repubblica aveva tra le mani le sorti della vita politica ed istituzionale del Paese. Ciò accadde grazie alla formidabile sinergia sapientemente creatasi con gli organi di informazione.

Per i quali i quotidiani arresti di politici, imprenditori, pubblici amministratori, costituivano materiale di prima scelta per appassionare legioni di lettori o telespettatori. È esattamente questa l’inchiesta giudiziaria che sposta clamorosamente l’attenzione mediatica e della pubblica opinione dal processo alla indagine, dalla sentenza alla incriminazione. È l’anticipazione della potestà di giudizio, agli occhi della pubblica opinione e della società civile, dal Giudice al Pubblico Ministero. Che decide così, in una inchiesta-monstre sulla politica italiana, la vita e la morte non più di alcuni dirigenti, ma di intere storie di leaders e di partiti politici, modificando equilibri e determinando cruciali scelte istituzionali.

Non si torna più indietro da un potere così immenso, così totale, così incontrollabile; è stata questa la vera eredità tossica di Tangentopoli. È da allora che le Procure sono diventate il soggetto regolatore della vita politica ed economica del Paese. È da allora che la gente si è abituata a pensare che un arresto equivale ad una condanna. È da allora che la cronaca giudiziaria ha perso ogni interesse per il processo, cioè per il luogo deputato a verificare la fondatezza dell’accusa. È da allora che un politico raggiunto da un’accusa deve concludere la sua carriera politica, a prescindere da ogni successiva verifica di fondatezza.

È da allora che è definitivamente saltato ogni equilibrio tra i poteri dello Stato, tutto a favore nemmeno del potere giudiziario, ma di una parte di esso, cioè del potere dei Pubblici Ministeri. È da allora che la rappresentanza politica ed associativa della Magistratura è in mano ai Pubblici Ministeri, pur essendo costoro nemmeno il 20% dei 9000 magistrati italiani. È da allora che una Procura della Repubblica vale dieci ministeri, e dunque diventa oggetto non di assegnazione di merito ma di conquista politica da parte di questa o quella fazione della magistratura italiana. Con ciò che ne è conseguito, e che è oggi testimoniato dalla clamorosa crisi di credibilità ed autorevolezza della stessa magistratura italiana. Questa è stata Tangentopoli, questo è il disastro che ci ha lasciato in eredità. Ovviamente senza che il problema della corruzione politica si sia, da allora, modificato di una virgola. Auguri.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

1992, Michele Serra, direttore di Cuore: "Quel titolo che non rifarei". La Repubblica il 17 febbraio 2022.

Nel 1992 Michele Serra era direttore del settimanale satirico "Cuore", che commentava i fatti di Mani Pulite con titoli sarcastici passati alla storia. La clip è tratta dal documentario di Antonio Nasso "1992 - L'anno del diluvio".

Bene Michele Serra su Mani pulite. Non è mai tardi per piangere sul sangue versato. ANDREA MARCENARO su Il Foglio il 18 febbraio 2022.  

L'intellettuale ha ammesso che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: "Scade l’ora legale, panico tra i socialisti". E sbaglia chi gli rinfaccia questo e quello.

Scade il trentesimo anniversario di Mani pulite e ciascuno tira il bilancio che ritiene più opportuno. Evito di far presente il mio. Ma non nego di aver ricordato in particolare i 41 suicidi dovuti a quella stagione. Ed essendo un inguaribile fazioso, non nego di aver ricordato con particolarissimo dispiacere i suicidi del segretario socialista di Lodi Renato Morese, del deputato socialista Sergio Moroni, del manager socialista Gabriele Cagliari e del segretario socialista Bettino Craxi, vittima quest’ultimo di un omicidio ma in realtà, per alcune somiglianze, perfino di un suicidio sui generis. E mi scuso con i troppi non nominati. Bon. E’ stato con particolare piacere, perciò, che ho ascoltato e letto la dichiarazione di Michele Serra dove l’importante intellettuale di sinistra ammetteva ieri che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: “Scade l’ora legale, panico tra i socialisti”. Con trent’anni di ritardo, però, hanno voluto sottolineare alcuni. Non è importante. Aggiungendo che s’era fatto prendere dalla foia dell’opinione pubblica, gli hanno contestato altri, laddove era proprio lui a eccitarne una parte. E anche questo, vero o no che appaia, importante non è. La cosa importante è questa: mentre sul latte versato piangere resta inutile, beh, sul sangue versato non è mai troppo tardi.

Andrea Marcenaro. E' nato a Genova il 18 luglio 1947. E’ giornalista di Panorama, collabora con Il Foglio. Suo papà era di sinistra, sua mamma di sinistra, suo fratello è di sinistra, sua moglie è di sinistra, suo figlio è di sinistra, sua nuora è di sinistra, i suoi consuoceri sono di sinistra, i cognati tutti di sinistra, di sinistra anche la ex cognata. Qualcosa doveva pur fare. Punta sulla nipotina, per ora in casa gli ripetono di continuo che ha torto. Aggiungono, ogni tanto, che è pure prepotente. Il prepotente desiderava tanto un cane. Ha avuto due gatti.

Giampiero Mughini per Dagospia il 19 febbraio 2022.

Caro Dago, mi è piaciuta molto la pagina odierna del “Fatto” dedicata alla questione se sì o no l’ex direttore di “Cuore”, l’ottimo Michele Serra, ha fatto bene a dirsi “pentito” di quando il suo giornale _ trent’anni fa _ aveva fatto un titolo spregiante sul Bettino Craxi su cui erano piovute le accuse di Tangentopoli. E del resto sono tanti i sintomi che ci dicono come Serra oggi non sia più l’uomo che era trent’anni fa. E come potrebbe essere diversamente se uno ragiona e guarda le cose con un altro e più maturo punto di vista? Solo gli imbecilli non cambiano mai idea.

Gli ex collaboratori del “Cuore” intervistati dal “Fatto”, o meglio la più parte di loro, ritengono che quello di esagerare era il mestiere del “Cuore” e che quei loro titoli e quelle loro vignette andavano incontro allo spirito del tempo, il che è indubbio. L’ottimo Claudio Sabelli Fioretti dice che non esiste “la satira buona” e che il loro giornale non poteva non nutrirsi di titoli borderline. Dovevano far ridere, e il loro pubblico di quello rideva: di titoli sfregianti nei confronti del “cinghialone” Bettino Craxi, il politico che aveva avviato nei confronti del Pci “berlingueriano” una sfida culturale di cui i fatti dimostreranno che aveva ragione su tutta la linea. Ci provi qualcuno a dimostrarmi il contrario. Ci provi. 

Certo che la satira ha il diritto di esagerare nei confronti di chi non sta simpatico agli autori della satira. In una sua rubrica di trent’anni fa il “Cuore” mi elesse come “lo scemo della settimana”. E questo perché avrei dichiarato che alle elezioni per il sindaco di Roma il mio voto lo avrei dato a Gianfranco Fini (candidato della destra) e non a Francesco Rutelli (candidato della sinistra). Ora in punta di fatto si fosse votato duemila volte il sindaco di Roma, duemila volte io avrei votato Francesco (come del resto ho fatto), che stimo molto oltre che essere il padrino di suo figlio.

“Cuore” aveva esagerato? No, aveva mentito. Il fatto è che io stavo antipatico al loro pubblico e dunque perché mai non infilzarmi? Telefonai a Serra con un tono di voce che ancora ne stanno tremando le mura della redazione di “Panorama” di cui ero un giornalista. Serra mi disse che glielo avevano detto in quattro che io avrei votato Fini. E comunque mise sul giornale la mia smentita, aggiungendo di suo che Rutelli era mal messo se gli arrivava persino il voto di uno come me. Se lo perdono? Ma certo che sì, il Serra di oggi mi piace moltissimo.

Laddove non perdono un altro degli autori del “Cuore”, il quale era nel frattempo trasmigrato su “Repubblica”, dove firmò un corsivo in cui in buona sostanza mi diceva che io non conoscevo la lingua italiana. C’era che durante una trasmissione televisiva io aveva pronunziato il termine “càrisma” con l’accento sdrucciolo e non “carìsma” come viene pronunziato quasi sempre. Si tratta difatti di un termine nato nella lingua greca (“càrisma”) e poi passato nella lingua latina (“carìsma”).

Sta a te pronunziarlo come vuoi e preferisci, ciò che il semianalfabeta che voleva offendermi non sapeva. Ne scrisse come se da un reietto quale il sottoscritto (ero l‘autore di “Compagni addio”) non ci si poteva aspettare che conoscessi la lingua italiana. Ebbene, io non l’ho mai incontrato in questi trent’anni. Ove ciò avvenisse e lui non mi chiedesse scusa degli insulti di trent’anni fa, gli farò fare il giro di piazza Navona a calci in culo. Proprio perché il sacrosanto diritto alla satira eccessiva qui non c’entra affatto. 

Il giudizio su Mani pulite passa per quei quesiti…Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli. Francesco Damato su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Consulta voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede.

A «Ma alla fine “Mani Pulite” vi è piaciuta?» Ecco la vera domanda dietro ai 5 quesiti

Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli

Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Corte costituzionale voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. E che – quasi illuminando l’altra faccia della luna – potremmo così formulare, anche a costo di scandalizzare i giudici costituzionali, a cominciare dal loro presidente Giuliano Amato, “sottile” in dottrina e in tante altre cose, compresa la politica da lui servita come sottosegretario, ministro e due volte capo del governo: siete scontenti o no degli effetti di “Mani pulite”, di cui si celebra quest’anno il trentesimo anniversario?

Se siete scontenti, come d’altronde lo fu persino l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli scusandosene pubblicamente alla presentazione di un libro evocativo scritto da Paolo Colonnello, uno dei cronisti giudiziari che le aveva raccontate più diligentemente, potete tranquillamente rispondere si alla proposta di abrogare le norme che le avevano permesse, o sopraggiunte per rafforzarne il risultato complessivo. Che fu quello di sottomettere la politica alla giustizia, rovesciando i rapporti di forza voluti dai costituenti, a cominciare dall’amputazione dell’immunità parlamentare scritta nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione per finire con la violazione largamente consentita a quel poco rimastone ancora in vigore, specie in materia di intercettazioni. Luciano Violante, promotore di quella modifica costituzionale, se n’è appena un po’ pentito sul Foglio.

Se non siete invece scontenti, o addirittura siete pienamente soddisfatti delle esaltazioni che ancora si fanno di quelle gesta, potete tranquillamente rispondere no all’abrogazione delle norme che ancora consentono, per esempio, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il ricorso abbondante alla carcerazione preventiva, prima del processo cui spesso neppure si arriva col rinvio a giudizio, o l’applicazione retroattiva di norme, pene e sanzioni introdotte successivamente a “Mani pulite” per rafforzarne, diciamo così, la logica.

Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, alla cosiddetta legge Severino, contestata da uno dei referendum per fortuna ammessi dalla Corte Costituzionale e costata nel 2013 il seggio del Senato a Silvio Berlusconi con votazione innovativamente palese disposta dall’allora presidente del secondo ramo del Parlamento, casualmente ex magistrato: Pietro Grasso.

Che ancora se ne compiace e casualmente, di nuovo – si è appena doluto come senatore semplice di maggioranza del disturbo che può procurare la campagna referendaria all’esame parlamentare in corso di alcune reali o presunte riforme parziali della giustizia che il governo di Mario Draghi ha ereditato dal precedente proponendosi però di modificarle in senso più garantista, o meno giustizialista, come preferite, considerando la militanza grillina dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che è quello – per darvi un’idea riuscito a strappare all’epoca della maggioranza gialloverde il consenso anche di una senatrice e avvocata come la leghista Giulia Bongiorno all’introduzione, come una supposta in una legge contro la corruzione, di una norma per la soppressione della prescrizione all’arrivo della sentenza di primo grado.

Coraggio, elettori referendari: riflettete e datevi da fare con molta e molto buona volontà.

Tanto, Travaglio in cabina non vi vede, come si diceva di Stalin nelle storiche elezioni del 1948 stravinte dalla Dc contro il fronte popolare contrassegnato dall’immagine dell’incolpevole Giuseppe Garibaldi. Cito Travaglio perché egli ha appena scritto che quella di «Mani pulite», con tutti gli effetti che ne sono derivati, «fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra», testuale.

Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio. Andrea Amata su Il Tempo il 19 febbraio 2022.

Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.

Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.

L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.

Da Mani Pulite all’inchiesta di Brescia, Davigo: «Non cambio idea: ho fiducia nella giustizia italiana».  

L'ex pm di "Tangentopoli" parla del suo presente: «Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Mani Pulite iniziò il 17 febbraio del 1992. Trent’anni dopo si tirano le somme. Quale è la lezione di Tangentopoli? «Nel tempo ho compreso che le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto». A rispondere all’Adnkronos è Piercamillo Davigo, all’epoca uno dei pm dell’inchiesta del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli che nel 1992 sconvolse l’Italia, il suo sistema politico ed economico.

«All’inizio delle indagini sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici, neppure tutti, e alle imprese che avevano rapporti esclusivi o prevalenti con la pubblica amministrazione. In seguito tuttavia ci siamo resi conto che il malaffare era dilagato ben oltre questi limiti: le falsità contabili erano diffuse. Oggi l’evasione fiscale riguarda, secondo alcune stime, 12 milioni di persone, cioè un quinto della popolazione italiana».

«Il merito cede il passo a clientele, raccomandazioni e servilismo, sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Nella cittadinanza non sembra esservi riprovazione e neppure la consapevolezza che tali comportamenti, oltre a essere illegali, sono dannosi».

Lei sta dicendo che non c’è più etica? «Nessun popolo, cioè l’insieme dei cittadini, può vivere se non vi è un’etica condivisa e in Italia non sembra più esserci. Fra i valori predicati e i comportamenti praticati vi è una differenza abissale».  «E anche nel caso in cui si conviene su alcuni principi, come per esempio “non rubare”, scattano poi i distinguo nella sfera pubblica e interviene lo spirito di fazione, così radicato in nel nostro Paese. Si ricorre a un cavilloso richiamo a norme costituzionali anche quando si va in campi diversi da quelli regolamentati dalla Costituzione».

A cosa si riferisce? «Quando a carico di qualcuno emergono indizi di reato, è frequente che costui (e i suoi sostenitori) invochino la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 della Costituzione), anche al di fuori del processo penale, quando non si discute di diritti dell’imputato, ma di valutazioni di opportunità o di prudenza nella vita sociale». «I cattivi non vincono sempre – sostiene Davigo – La consolazione, per quanto magra, è che neppure loro sono (per ora) riusciti a vincere. Le leggi per farla franca hanno attirato l’attenzione di organismi internazionali e i loro rilievi sono stati un deterrente a continuare su quella strada».

«Numerose leggi sono cadute sotto le pronunzie della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità. I tribunali e le corti italiane hanno adottato interpretazioni volte a salvaguardare il sistema legale. Le elezioni hanno messo in evidenza una minore presa dei poteri locali e nazionali sull’elettorato, molto più volatile che in passato, consentendo anche un’alternanza di schieramenti al governo del Paese che è un’esperienza relativamente nuova in Italia».

Rimangono i poteri criminali e le loro collusioni con la politica e l’economia, i più difficili da affrontare. «La magistratura italiana ha fronteggiato varie emergenze come la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione pervasiva e il degrado ambientale, senza riuscire a eliminarle del tutto. Ma anche senza farsene travolgere.

Dopo la vicenda Palamara che accade? «Il discredito gettato sull’ordine giudiziario dalle intercettazioni operate nei confronti di Luca Palamara, e ancor più la sua linea difensiva di tentare di accreditare l’idea che i suoi comportamenti fossero condivisi e perpetrati da larga parte della magistratura -cosa non vera- richiederà molto tempo per essere superato». «Il bilancio complessivo rischia di assomigliare a uno stallo, in cui nessuno dei vari soggetti e dei loro valori riesce a prevalere sugli altri, e ciò è fonte di scoramento».

Lei stesso sta attraversando una vicenda giudiziaria complessa, non ancora chiarita: quella collegata alle dichiarazioni di Pietro Amara sull’esistenza della loggia massonica segreta “Ungheria” e alla sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. A che punto è? «Attualmente sono in udienza preliminare che dovrebbe concludersi proprio il 17 febbraio con il rinvio a giudizio o con il proscioglimento. Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento» (di Rossella Guadagnini/Adnkronos)

Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.

Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.

A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.

L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.

Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.

“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.

“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.

Tangentopoli 30 anni dopo, la parabola degli 'intoccabili' che fecero sognare l'Italia degli onesti. Piero Colaprico su La Repubblica il 17 febbraio 2022.  

Che cosa resta del pool Mani pulite: Di Pietro si è ritirato tra i vigneti, Davigo è rimasto impigliato nei verbali del caso Amara ed è in rotta con Greco, Colombo non crede più nel carcere 

Il pool 'Mani pulite', ei fu. A trent'anni di distanza dall'inchiesta che ha cambiato per sempre la storia d'Italia, è impossibile non osservare, con qualche sconcerto, l'amaro testacoda del più famoso gruppo di magistrati italiani. Cinque anni prima del cruciale 1992 era uscito un magnifico film, The Untouchables, Gli intoccabili: e c'era uno scherzoso manifesto, incollato dietro una porta del quarto piano, che lo citava.

Mani Pulite, l'avvocata Bernardini de Pace che difese la moglie di Chiesa: "Così il divorzio ci fece scoprire i suoi conti”. Luca De Vito su La Repubblica il 16 febbraio 2022.  

Parla la legale che seguiva Laura Sala, la moglie di Mario Chiesa, nella causa di divorzio: "Passammo gli estratti conto del marito alla procura, fu la ciliegina sulla torta per loro che stavano già indagando". 

L'avvocato Annamaria Bernardini de Pace ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda di Mario Chiesa, il caso che dette il via a Tangentopoli. Da matrimonialista era la legale di Laura Sala, la moglie del presidente del Pio Albergo Trivulzio, nella causa di divorzio. E fu lei ad aiutare le indagini passando documenti importanti ad Antonio Di Pietro.

Mani Pulite 30 anni dopo, dalla scrivania alla porta rossa: cosa resta dell'ufficio di Craxi. Edoardo Bianchi su La Repubblica il 14 febbraio 2022.

Del vecchio studio di Bettino Craxi - da lui occupato dai tempi in cui era assessore della giunta di Milano fino alla fine della sua carriera politica -  rimangono solo la famosa porta rossa ormai sigillata e in disuso, le vetrate antiproiettile e le pareti in noce con gli infissi delle porte color magenta.

La famosa scrivania con la cassettiera e i mobili del suo salottino personale sono stati traslocati in un deposito del Comune, alle porte di Milano, in attesa di altro utilizzo. E l'ex assessore Lorenzo Lipparini, ultima persona ad aver adoperato la stessa scrivania del leader Psi, racconta: "Lo studio di Craxi verrà smantellato e messo a reddito. È destinato a fare spazio ad un albergo o a un'altra struttura in affitto". E' un pezzo di storia d'Italia, che in questi giorni torna alla memoria: il 17 febbraio del 1992, 30 anni fa, l'ingegner Mario Chiesa viene arrestato per una tangente alla Baggina, è l'inizio del terremoto politico e istituzionale di Mani Pulite.

"Quando mi è stato assegnato questo ufficio nel 2007 la scrivania era posizionata verso l’affaccio sulla Loggia dei mercanti”, ricorda l’attuale occupante dello studio, Dario Moneta, a capo della Direzione Specialistica Autorità di Gestione e Monitoraggio Piani del Comune di Milano. "Era una scrivania scomoda, alta e imponente. Poi è stata traslocata più volte fino a finire in un deposito comunale".

Da “la Repubblica” il 16 febbraio 2022.

Caro Merlo, se 30 anni fa non ci fosse stata Mani Pulite, l'Italia sarebbe molto differente? Marco Sostegni

Risposta di Francesco Merlo:

Tra le tante rievocazioni, spesso declamatorie, ho molto apprezzato nello speciale di Metropolis - l'ormai imperdibile programma di Gerardo Greco sul sito di Repubblica - il confronto tra Gherardo Colombo e il figlio di Gabriele Cagliari, il presidente dell'Eni che si suicidò in prigione nel 134° giorno di quella carcerazione preventiva di cui, dopo trent' anni, in Italia si continua ad abusare. (E sono persino peggiorate le già terribili carceri che violano la dignità invocata da Mattarella.)

Colombo, che ha invitato a cena Stefano Cagliari, ha detto con amara ironia che il 17 febbraio da ricordare non è quello del 1992, ma del 1600, quando fu bruciato Giordano Bruno. E mi pare che ci abbia voluto dire che non ci sono eroi della libertà in Mani Pulite. 

E arrivo alla domanda: penso che la corruzione della partitocrazia fosse soffocante e insostenibile, ma che fu una sbronza collettiva credere che l'indagine penale potesse liberarcene.

Mani Pulite svelò la corruzione politica ma non la risolse. E la si può vedere anche come una storia di eccessi: troppi reati, troppo carcere, troppa complicità tra i Pm e i giornalisti, troppi accanimenti. 

Paghiamo ancora quegli eccessi che ora confusamente affidiamo a una riforma impossibile e a 6 referendum. Con il bisogno di una giustizia che non riesce a diventare "giusta", dolentemente ci portiamo dietro un finto giornalismo che ancora spaccia per scoop i verbali di questura. 

Mani pulite trent'anni dopo. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il 17 febbraio del 1992 fa l’arresto di Mario Chiesa avviò l’indagine che travolse la Prima Repubblica. Fu una tangente da sette milioni di lire la prima scossa di un terremoto che avrebbe travolto la classe politica della Prima Repubblica e i più grandi gruppi industriali italiani, e che da Milano si estese in tutto il Paese. Quella mattina di trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, primo giorno di Mani Pulite, nessuno poteva immaginare che l'arresto del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, avrebbe sconquassato in pochi mesi il Pentapartito, coinvolto il Pci-Pds e macchiato anche la Lega in vorticosa ascesa al grido di "Roma Ladrona".

"Mazzette vere e personaggi da fumetto, così nacque il nome Tangentopoli". Piero Colaprico su La Repubblica il 15 febbraio 2022.

Era il 17 febbraio del '92 quando scoppiò il caso giudiziario Mario Chiesa e Pio Albergo Trivulzio. L'inchiesta Mani Pulite "andò avanti a un ritmo forsennato, cambiando radicalmente la storia d'Italia", racconta l'inviato di allora di Repubblica che cominciò a scrivere tra i primi del "Kennedy di Quarto Oggiaro". 

La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un funzionario comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, condomini, proprietari terrieri, architetti di ampliare verande e sottotetti e realizzare piccole e grandi costruzioni.

Piero Colaprico per “la Repubblica” il 15 febbraio 2022.

La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un dipendente dell'assessorato comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, proprietari terrieri e architetti di ampliare verande e realizzare piccole e grandi costruzioni. Ma al pomeriggio apriva una sua agenzia, a circa 400 passi di distanza. 

E là, non più mezzemaniche, bensì consulente in giacca di cammello, studiava le stesse pratiche che poi, come funzionario, sarebbe riuscito a far approvare. Si pagava ancora in lire: bastava un milione, vale a dire 500 euro attuali, per sentirsi dire sì quando si erano incassati una serie di no. Insomma, un'idea criminale, con una dinamica involontariamente umoristica.

Il funzionario-consulente era andato avanti un bel po' di tempo a inglobare piccole e grandi somme quotidiane, finché la sua epopea era finita all'improvviso. E si era ritrovato a San Vittore. Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli. Milano, "la città della tangenti": sarebbe meglio dire "la città delle tangenti che venivano scoperte".

Non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste "cronache di Tangentopoli". Non se ne accorse nessuno. Fra Milano e l'Italia intera si ripeteva infatti il medesimo schema giudiziario: veniva scoperto un corrotto, si indagava su politici, amministratori e funzionari, e qualcuno di loro entrava in carcere. Nessuno o quasi accettava però di rispondere agli interrogatori dei magistrati.

Quel sistema, che verrà definito dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro «dazione ambientale», non veniva intaccato. Mai. Ma l'Italia è anche il Paese dei "Finché". Uno crede sempre di avere successo, potere e potersela cavare, finché: finché, in un pomeriggio buio e freddo, il 17 febbraio 1992, viene arrestato nel suo ufficio il socialista Mario Chiesa. Era sfottuto come il "Kennedy di Quarto Oggiaro", dal nome di un quartiere di periferia, aveva non nascoste ambizioni da sindaco e millantava una forte amicizia con i Craxi. Era il presidente del Pio Albergo Trivulzio. La "Baggina", casa di riposo amata dai milanesi, un'istituzione dotata di un grande patrimonio immobiliare.

Chiesa aveva intascato le banconote di una tangente senza poter immaginare di essere caduto in trappola. Accanto alla filigrana delle 50mila ci sono le firme di un capitano dei carabinieri, Roberto Zuliani, e di Pietro. Il caso viene seguito dai cronisti giudiziari. Sono un inviato speciale da oltre due anni, nei primi giorni non me ne occupo, finché - c'è sempre il finché - vengo convocato dall'allora capo redattore Guido Vergani, che chiude la porta e dice: «Piero, non puoi dire di no. Devi darci una mano, a Scalfari non piace come stiamo lavorando, ci ha chiesto di dare il massimo in questo servizio. Tanto, quanto durerà? Un paio di mesi al massimo, poi torni a girare».

Non avrei detto "no" comunque. Quando con il collega del Giorno Paolo Colonnello, restando cinque ore davanti a San Vittore, scopriamo che Mario Chiesa sta parlando, quel termine mi rispunta. E lo riutilizzo nelle settimane successive. Cronache di Tangentopoli. Nessuno se lo fila. Sarà infatti un ignoto titolista delle cronache nazionali di Repubblica a "spararlo" in grossi caratteri. Ed è così che entra nell'immaginario. 

Le televisioni lo riprendono subito, mentre i giornali, specie i diretti concorrenti, ci mettono un po' di più. Poi cedono. Com' è noto, l'inchiesta non durò "due mesi", ma anni, e il termine ha purtroppo figliato i vari Calciopoli, Concorsopoli e Vallettopoli, come se "poli", invece di "città", significasse "scandalo", ma in qualche modo è rimasto nel tempo.

Viceversa, la storia dell'inchiesta subisce continue riletture, aggiustamenti, ritocchi. Anche se la sostanza vera non cambia: c'era un fortissimo e ramificato sistema di corruzioni negli appalti, nelle assunzioni, negli incarichi, in grado di uccidere ogni merito, pesare sui bilanci pubblici, sostenere le casse dei partiti, e anche di non pochi singoli personaggi. Tangentopoli, per l'appunto. L'edificio simbolo Il palazzo di giustizia di Milano.

Tangentopoli, Colombo e Cagliari jr: “Una cena per ricordare che senso ha la giustizia”. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il confronto tra il pm del pool e il figlio di un indagato morto suicida in carcere tre giorni prima di Raul Gardini. “Sembrava tutto più grande di noi”. Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool di Mani Pulite, e Stefano Cagliari, il figlio di Gabriele Cagliari, l'ex presidente di Eni morto suicida in carcere, il 20 luglio 1993, dopo 134 giorni di carcerazione preventiva. Si ritrovano trent'anni dopo il primo arresto di Tangentopoli a Metropolis Live, la trasmissione sul sito di Repubblica condotta da Gerardo Greco, insieme al vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini e al direttore dell'Espresso Marco Damilano.

Mani Pulite, quando Gabriele Cagliari accusò i magistrati prima di suicidarsi. Le missive di Gabriele Cagliari, suicida in carcere e indagato in "Mani Pulite", contro i giudici e i pm milanesi. Lettere che sono un atto di accusa contro i metodi dell'epoca. Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

Trent’anni fa iniziò Mani Pulite. Lunedì 17 febbraio 1992, nel suo ufficio in via Marostica 8 a Milano, al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa fu arrestato per concussione per una tangente da 14 milioni di vecchie lire che gli venne consegnata dal giovane imprenditore Luca Magni. Ma in carcere finirà anche Gabriele Cagliari. Ecco una delle lettere scritte dall’ex presidente dell’Eni, nel luglio del 1993, in cella ai suoi familiari e al suo avvocato. Un atto di giustizia contro le decisioni della magistratura dell’epoca. Le missive sono tratte dal sito gabrielecagliari.it

Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto.

Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta di identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho 67 anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti.

La lettera di Gabriele Cagliari al suo avvocato

Caro Avvocato, da quattro mesi ormai siamo in prima fila, meglio in prima linea, bersagliati da provocazioni e ingiustizie. Non è ulteriormente tollerabile essere colpiti da questi provvedimenti, illegittimi e applicati in modo discriminatorio. Questa dei magistrati è un comportamento che ha come unico scopo quello di coprirci di vergogna e di rancore. Deve assolutamente cessare.

La ringrazio per tutto il brillante lavoro che ha svolto e voglia con questo, ringraziare anche il proc. dott. Gianzi. Vi prego di stare vicini a mia moglie e di aiutarla a superare questo momento per lei molto difficile, tragico. Le confermi, La prego, che le ho inviato una lettera per posta, per lei e i ragazzi. Ho scritto ai miei cari, e confermo qui, che intendo che il mio corpo sia cremato e le ceneri siano affidate a mia moglie. Di nuovo grazie. Una cordiale stretta di mano. 

TANGENTOPOLI. ESCE “L’ULTIMA NOTTE DI RAUL GARDINI”. PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci il 15 Febbraio 2022.

“L’ultima notte di Raul Gradini” è il titolo di un fresco di stampa per le edizioni di ‘Chiarelettere’. Lo firma il giornalista e scrittore Gianluca Barbera. Ecco, di seguito, i passaggi salienti di una intervista rilasciata a Sara Perinetto per ‘Affaritaliani’.

“Nel libro ripercorro un fatto reale grazie a un protagonista fittizio, Marco Rocca, giornalista d’inchiesta che segue la vicenda Enimont, innestata nel filone Mani Pulite, il processo chiave di tutte le inchieste nate da Tangentopoli e che riguarda una ipotetica maxitangente da 150 miliardi che i Ferruzzi avrebbero pagato ai partiti. Rocca entra in scena la mattina del 23 luglio 1993 a Palazzo Belgioioso, dove è appena stato trovato il cadavere di Raul Gardini. Subito si rende conto che le indagini verranno archiviate per suicidio, ma non è convinto che questa sia la verità”.

“La sentenza che stabilisce che si è trattato di suicidio è legata a un elemento probatorio chiave ma ambiguo, un bigliettino trovato sul comodino con cui Gardini dice addio ai propri familiari. La prima perizia stabilisce che la scrittura era sì di Gardini, ma di 11 mesi prima. La seconda data il bigliettino a pochi minuti prima della morte, il cui orario però non è mai stato accertato”.

“Sulle mani di Gardini, poi, il guanto di paraffina non ha rivelato polvere da sparo. I magistrati dell’epoca dissero che c’era stato un errore nel rilevamento tecnico: non sarebbe una novità, ci sono spesso errori nelle inchieste italiane che inquinano il quadro indiziario. Altro elemento dubbio è la pistola, all’inizio nelle mani di Raul e in un secondo momento sul tavolo: chi l’ha spostata?”.

“Per tutto il romanzo le due ipotesi, omicidio e suicidio, rimangono in equilibrio, ma alla fine non mi sottraggo e propongo, attraverso il parere del protagonista, una ricostruzione plausibile dei fatti. Diciamo che il protagonista scopre la verità, che però, comunque, rimane ambigua. Ma questo libro non è solo un giallo: la mia intenzione era raccontare la storia familiare dei Ferruzzi, che è importante e non è stata mai raccontata”.

“Alla morte del fondatore Serafino Ferruzzi, nel 1979, anche quello un evento misterioso, il genero Raul Gardini viene messo a capo di questo gruppo, che porterà a essere leader anche internazionale”.

“E’ all’apice fino alla fine degli anni ’80 ma poi decide di mettere gli occhi su Eni, la cassaforte dei partiti, la più grande azienda statale italiana. Gardini dà così vita ad Enimont, una joint venture tra le due società più grandi della chimica, Eni e Montedison, di cui il 40 per cento è controllato da Gardini, un altro 40 per cento da Eni e il restante 20 per cento sono azioni sul mercato. Quindi nessuno comanda”.

“Questa operazione produce un guadagno per la Montedison di Gardini, su cui avrebbe dovuto pagare mille miliardi di lire di tasse allo Stato. Gardini aveva acconsentito all’operazione in cambio di uno sconto su queste tasse: una promessa che De Mita fa ma non riesce a mantenere. Allora Gardini comincia a comprare le azioni sul mercato diEnimont per acquisirne il controllo, fino a dichiararlo pubblicamente, ‘la chimica sono io’. Craxi se lo lega al dito e blocca tutto. Da lì nasce la maxi tangente con cui Gardini voleva sbloccare la situazione, ma la famiglia, terrorizzata dalla politica, lo esautora dai suoi incarichi”.

“Quella mattina Gardini doveva recarsi in procura per parlare con Antonio Di Pietro. Per lui è stato un colpo durissimo perché la testimonianza di Gardini avrebbe cambiato la storia d’Italia, rivelando dove erano andati a finire quei 150 miliardi della maxi tangente”.

“Se davvero è stato un suicidio, è spiegato dal fatto che Gardini in quel periodo era molto teso, aveva passato tutto il giorno precedente con i propri avvocati. L’idea di finire in prigione lo terrorizzava, anche perché in quel periodo i magistrati usavano il carcere preventivo per far leva sui testimoni. Tre giorni prima era morto Gabriele Cagliari, suo concorrente, arrestato per tangenti e tenuto in uno stato psicologico di pressione per indurlo a parlare e che invece l’ha portato al suicidio”.

“In realtà, non è stato chiarito praticamente nulla: primo fra tutti, non si sa dove siano finiti i due terzi della madre di tutte le tangenti”.

La Voce ha scritto diversi pezzi sul giallo della morte di Gardini. Potete   trovare i principali cliccando sui link in basso. E leggerete cose ancora oggi molto interessanti suo ruolo giocato da Antonio Di Pietro in quella tragica story.

Raoul Gardini, gli insulti alla vedova a di un morto suicida: che roba è stata Mani Pulite. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 21 febbraio 2022.

Il 23 luglio i funerali dell'ex presidente dell'Eni Gabriele Cagliari sfilavano mentre una la folla di scalmanati gridava «ladri», «vergogna» e «nessuna pietà» alla vedova Bruna Cagliari e i suoi figli Silvano e Stefano, che stavano raggiungendo il feretro. Il sindaco di Milano Marco Formentini aveva rifiutato di partecipare con la benedizione di Umberto Bossi, che quel giorno però disse una frase profetica su Bettino Craxi: «I re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l'esilio». Al viaggio definitivo per Hammamet mancava ancora un anno. Alle 9.40 le esequie erano ancora in corso quando l'agenzia Ansa batteva una notizia: «Gardini si è suicidato». La ricostruzione è ormai definitiva ma apre squarci inquietanti. Gardini si sparò con la Ppk calibro 7,65 fuori produzione dopo aver letto i giornali che avevano accuse come queste: "Tangenti, Garofano accusa Gardini", "Ferruzzi allo sbando, ora tremano i big". A pagina quattro: "Cinque eccellenti nel mirino di Mani pulite", e c'era la sua foto. I giornali traevano la notizia da alcune anticipazioni del settimanale Il Mondo che pubblicava un articolo scritto da una giornalista sotto pseudonimo che in realtà era Renata Fontanelli del manifesto. I verbali li aveva avuti solo lei dal carabiniere Felice Corticchia, anche perché il pool dei giornalisti si stava un po' sfaldando. Quando lo trovarono, affianco aveva i giornali e un biglietto con scritti i nomi della moglie e dei figli, più un «grazie». Il proiettile gli aveva trapassato il cranio, ma era ancora vivo. Morì alle 9.07.

PUNTI DI VISTA

Antonio Di Pietro scese dall'auto tra gli applausi mentre poco più in là c'era il funerale di Cagliari. Racconterà sempre che una mancanza di tempestività nell'arrestare Gardini fu uno dei grandi errori della sua vita. Lo dirà, però, cambiando sempre versione. "Il mio errore su Raul Gardini. Non lo arrestai per una promessa": questo per esempio fu il titolo di un'intervista che rilasciò ad Aldo Cazzullo del Corriere del 21 luglio 2013, e già qui i fatti appaiono distorti: sia perché Gardini figurava già formalmente arrestato (l'ordine era firmato da tempo, come ben sapevano il pm Francesco Greco e il gip Italo Ghitti) e sia perché era stato lo stesso Di Pietro, in precedenza, a spiegare che era stato semplicemente un problema di orario: varie versioni si accavallano in "Intervista su Tangentopoli" (Laterza, 2000, con Giovanni Valentini) ene "Il guastafeste" (Ponte alle Grazie, 2008, con Gianni Barbacetto) e in "Politici" (Ponte alle Grazie, 2012, con Morena Zapparoli Funari) più qualche intervista che prefigura, direbbe Di Pietro, una reiterazione del reato di omissione. Di Pietro disse ad Aldo Cazzullo, nella citata intervista: «Il 22 luglio, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso, e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Domanda: ma voleva arrestarlo o no? Risposta: «Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità». Il quadro prefigura un Di Pietro quasi umano che adottava le manette come remota ipotesi. Questa versione, data anche in passato, venne sintetizzata verso la fine dell'intervista: «Avrei dovuto ordinare di arrestarlo. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data». Sul valore della parola di Di Pietro i testi a discarico riempirebbero uno stadio, ma vediamo come andò davvero. Già nel libro scritto con Giovanni Valentini cambia tutto: «C'erano perquisizioni da eseguire, si rischiava di cominciare la sera e di finire a notte inoltrata, per cui decisi di rinviare tutto all'indomani». Rinviare che cosa? L'arresto già firmato: la parola data non c'entrava niente.

RICHIESTA RESPINTA

Ma per comprendere lo stato d'animo di Gardini (di una persona, ossia, poi giunta a suicidarsi) occorre tornare alla prima estate 1993, quando il finanziere aveva ragione di pensare che avrebbe potuto fare come Cesare Romiti e Carlo De Benedetti e Romano Prodi: accordarsi con la Procura e presentare un decoroso memoriale al momento giusto, possibilmente non gravemente omissivo come si rivelò quello di Cesare Romiti. Ma per Gardini c'erano segnali di presagio diverso: venne a sapere che il pm Francesco Greco (non Di Pietro: Francesco Greco) aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, e lui, Gardini, quasi non ci credette: il gip Antonio Pisapia, in ogni caso, respinse la richiesta. Greco tornò tuttavia a lavorarci, sinché un altro gip, Italo Ghitti, il 16 luglio accolse il mandato di cattura, che però rimase sospeso come una spada di Damocle. Il 16 luglio 1993, dunque, Gardini venne a sapere che il mandato d'arresto contro di lui era già stato firmato: e a quel punto, coi suoi due avvocati, predispose qualcosa di più di un decoroso memorialetto: si dichiarò disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont e anche di soldi ai partiti e di paradisi fiscali. Chiese un interrogatorio spontaneo, come altri avevano ottenuto, e mandò l'altro avvocato, Dario De Luca, in avanscoperta. Con una lettera: «Con la presente desidero portare a Loro conoscenza la mia più ampia e illimitata disponibilità a ragguagliare le S.V. Ill.me su tutti i fatti che saranno ritenuti per Loro di interesse».

Il riferimento era alle mazzette Enimont e a «dazioni di denaro a partiti politici e, più specificatamente, a personalità politiche in occasione di vicende attinenti la joint-venture Enimont ein altre occasioni. Si leggeva che avrebbe spiegato il sistema che consentiva alla Montedison di finanziare le attività con sedi nei paradisi fiscali di mezzo mondo e che avevano alimentato gli ingenti fondi neri della contabilità parallela del gruppo Ferruzzi. Non era poco, anzi. Ma quando l'avvocato De Luca tornò con le pive nel sacco, il segnale si fece preciso: non volevano interrogarlo, volevano espressamente arrestarlo. O meglio: volevano interrogarlo, arrestarlo e poi reinterrogarlo da galeotto. Vent' anni dopo, nell'intervista al Corriere, Di Pietro la girò così: «Io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo». Sì, ma per arrestarlo: tanto che è sempre il contraddittorio Di Pietro, nel libro con Valentini, a precisare che «Gardini non viene sorpreso dal provvedimento restrittivo, i suoi legali lo informano già dalla sera prima». Gardini, in sintesi, fu lasciato "in cottura" per un tempo insopportabile con un mandato d'arresto sopra il cranio; il 20 luglio, di passaggio, apprese che il manager socialista Gabriele Cagliari si era suicidato nello stesso luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire, e questo con un mandato d'arresto che intanto era sempre lì, sospeso. Sinché i legali confermarono a Gardini che il mandato d'arresto era firmato, e che la galera doveva farsela.

LETTURE FATALI

Dissero che avevano ottenuto di rimandare l'arresto al giorno dopo, ma, stando a Di Pietro, fu solo per evitare che le perquisizioni proseguissero sino a notte: cosìcchè, con le sue gambe o col cellulare della polizia, Gardini l'indomani sarebbe andato in procura e poi in galera. Ma non resse la tensione. Il mattino dopo lesse i giornali con le confessioni di Garofano pubblicate prima ancora che lui potesse raccontare la sua versione, vide la prova della verità: non ci sarebbe stato un margine di trattativa, volevano arrestarlo e basta, non c'era una disponibilità che lui potesse offrire senza l'umiliazione delle manette. Si uccise. La reazione a caldo di Di Pietro (il Corriere la riporta) fu questa: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». Aveva ragione: qualcuno si ammazzava prima ancora di finirci. E comunque, per farsi perdonare, Di Pietro, nello stesso giorno, il 23 luglio, mandò ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani. Il gip Italo Ghitti fu piu che d'accordo: «Eccezionalmente», dirà, «su quei provvedimenti ho indicato l'ora, Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti».

Più che la giustizia, gli arresti. Il lettore potrà farsi l'idea che vuole circa la perdurante excusatio non petita di Antonio Di Pietro. Ma nulla esclude che Gardini quest' ultimo potesse anche temere, una volta incarcerato, che dalle fogne del Paese potesse tracimare di tutto. E qui si torna al dossier mafia -appalti che probabilmente fece saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si ricordano, succintamente, le parole del pentito Antonino Giuffrè: «Una indagine dei Carabinieri mise a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra, il mondo imprenditoriale e quello politico per la spartizione delle commesse. Falcone e Borsellino capirono subito l'importanza di questo legame... Il "tavolino" controllato da Angelo Siino sedevano personaggi molto importanti... L'ingegnere Bini, il tecnico che si occupava di calcestruzzi per conto della Ferruzzi, divenne il punto di collegamento con i mafiosi e con i politici». Si ricorda pure quanto disse a Paolo Borsellino, nei suoi ultimi giorni, il pentito Leonardo Messina: «Totò Riina i suoi soldi li tiene nella Calcestruzzi». Angelo Siino, il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra", a proposito del suicidio di Gardini, sarà nondimeno esplicito: «Credo che abbia avuto paura per le pressioni del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina... Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall'orbita mafiosa in cui era entrato». Mani pulite non è storia vecchia. È storia nuova, tutta da riscrivere.

Tangentopoli: in un libro idee, cronache e interviste trent'anni dopo l'inchiesta. La Repubblica il 14 febbraio 2022.

Un crocevia della storia, uno snodo cruciale per il Paese che segna un prima e un dopo. A trent'anni dall'inizio dell'inchiesta che portò alla fine dei partiti figli del dopoguerra, svelando il sistema corruttivo che li teneva in piedi, Repubblica torna su quel biennio caldissimo. Lo fa con un libro, "L'Italia di Mani Pulite" (in edicola da giovedì 17 febbraio in abbinamento a Repubblica, L'Espresso o La Stampa a 14,90 euro più il prezzo della testata) che, in circa 400 pagine, raccoglie gli articoli più significativi di quei lunghissimi mesi, scritti dalle firme che quotidianamente raccontavano le inchieste, le manette, i protagonisti di un'epoca che stava cambiando. Nel libro c'è spazio pure per una riflessione più profonda sulle parole chiave di quella stagione, a 30 anni di distanza, portata avanti dai direttori delle testate del gruppo Gedi, Maurizio Molinari, Ezio Mauro, Massimo Giannini, Marco Damilano, Mattia Feltri e dai cronisti che seguivano in prima linea Tangentopoli, da Gianluca Di Feo a Piero Colaprico a Carlo Bonini. Tra le testimonianze inedite dei protagonisti (il socialista Gennaro Acquaviva, il democristiano Paolo Cirino Pomicino, l'ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto), il libro contiene anche una mole di numeri e di infografiche che aiutano a comprendere cosa accadde in quegli anni di svolta per tutta l'Italia.

Tangentopoli 30 anni dopo: la rivoluzione legale è finita, la corruzione continua. Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa scoperchia il sistema delle mazzette e dei fondi neri ai partiti. Da Colombo a Davigo, dal pm veneziano del Mose a Francesco Greco, da Giuliano Pisapia all’ex presidente dell’Anac, magistrati, avvocati e studiosi spiegano perché è esplosa l’inchiesta, come fu fermata e le nuove tecniche di malaffare tra politici e imprese nell’Italia di oggi. Paolo Biondani su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Una tangente di 3500 euro che fa crollare il sistema dei partiti. A dispetto di tante dietrologie, il vero mistero di Mani Pulite è la modestia dell’innesco: 7 milioni di sporche vecchie lire. Banconote fotocopiate da Antonio Di Pietro, trent’anni fa pubblico ministero a Milano, e consegnate da un piccolo imprenditore monzese, Luca Magni, a un politico che lo taglieggia.

Per gli italiani mafia e corruzione sono una malattia inevitabile. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Il 17 febbraio 1992 partiva l’inchiesta Tangentopoli che ha cambiato la storia repubblicana. Oggi su criminalità organizzata e malaffare i cittadini hanno più consapevolezza ma tendono a considerarli una patologia consolidata. Come rivela la ricerca Demos-Libera.

Le vicende legate alla corruzione, alle mafie e alle organizzazioni criminali, in Italia, hanno una storia lunga. I cittadini ne sono consapevoli. E si rendono conto che i programmi e i piani avviati, dal governo, per affrontare le emergenze economiche e sanitarie, attirano l’attenzione e “l’interesse” (…gli interessi) di soggetti con “altri e diversi interessi”. Che vanno oltre ogni limite di “legalità”.

Da "il Giornale" il 16 febbraio 2022.

L'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, risponde piccato a Cirino Pomicino che, commentando dopo trent' anni la stagione di Mani Pulite, aveva parlato di un disegno ben preciso per eliminare per via giudiziaria, un intero sistema politico. Il magistrato non ci sta e, intervistato a «Monetine - cinque storie di Mani Pulite», il podcast originale di Radio 24 da un'idea di Simone Spetia replica: «Mani Pulite un disegno politico? Ci diano le prove. Le aspetto da trent' anni».

«La corruzione era un sistema e come tale andava resettato». «Bisogna intervenire sull'educazione: la corruzione fa male anche a chi la pratica». Poi risponde a Cirino Pomicino: «Ormai è lecita qualsiasi affermazione senza nessuna base scientifica. Perché nessuno è mai venuto in trent' anni a supportare questa affermazione con una minima dimostrazione?».

Quell'uragano che spazzò l'Italia. Paolo Guzzanti il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La resa del Parlamento sfidato alla tv dal Pool di Milano. Craxi sconvolto dal suicidio di Cagliari: "Stai attento c'è gente che ammazza..." 

A sentire e leggere quello che dice oggi Piercamillo Davigo, uno dei magistrati che scatenarono l'inchiesta «Mani Pulite» contro Tangentopoli 30 anni fa, la storia si dovrebbe ripetere ripete ciclicamente e quindi, lui prevede, fra poco si ripeterà anche con i soldi del Pnrr perché a suo parere ci sarà un magna-magna colossale. Ecco un caso in cui un vecchio magistrato sogna di tornare Ghostbuster a caccia di fantasmi con i vecchi compagni del Pool che sfidò il Parlamento. Magistrati come profeti? È normale? Tre decenni dopo l'Inquisizione di Mani Pulite il bilancio è semplice e terribile; si sono rotti gli argini che avrebbero dovuto contenere le esuberanze di alcuni magistrati e i danni seguitano a produrre altri danni.

Proviamo a mettere insieme il contesto. Partirò da un mio ricordo, anzi una testimonianza: nel 1980, in anticipo di 12 anni per puro caso inciampai in Tangentopoli provocando grande clamore, del tutto inutile. E quando poi nel 1992 il fattaccio venne definitivamente a galla, tutti avevano nel frattempo perso la memoria di quel che era già emerso e ficcato di nuovo sotto la sabbia. Nel 1980 fui mandato dunque da Eugenio Scalfari a intervistare il ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti in quotidiana comunicazione con il suo omologo del Partito comunista Antonino Tatò.

Lo dovevo intervistare per una faccenda di assegni irregolari pubblicata sul settimanale L'Espresso. Evangelisti mi accolse in modo festoso e appena lo estrassi, mi chiese di rimettere in tasca il bloc-notes perché, disse, prima, mi doveva spiegare il retroscena. E lo fece con queste parole: «Qua abbiamo rubato tutti, dal primo all'ultimo. Tutti! I comunisti prendono soldi dai russi e noi, che non siamo più scemi di loro, i soldi li prendiamo dove è possibile e li chiediamo agli industriali e agli enti pubblici e ai Paesi amici».

Mi fece l'esempio di un industriale che mensilmente faceva il giro dei partiti offrendo assegni. Quando arrivava il suo turno, l'industriale gli diceva: «A Fra' che te serve?». Bastava specificare la somma. Poi pretese di dettarmi che cosa scrivere pronunciando parole innocue e generiche. Tornato in redazione, io invece scrissi invece tutto ciò che mi aveva detto e feci senza volerlo uno scoop eccezionale. Grande clamore, ma tutti facevano finta di non aver capito che cosa Evangelisti avesse confessato nel 1980: che tutti i partiti senza eccezione estorcevano denaro in barba alla legge.

Il clamore fu dirottato sul linguaggio volgare del ministro, una questione di stile. Non un solo magistrato aprì un fascicolo ma Evangelisti fu costretto a dimettersi.

Anche i magistrati di allora facevano parte del Sacro Graal del silenzio? So soltanto che tutto ciò che aveva confessato Evangelisti coincise con quanto dirà il segretario del Partito socialista Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio del 1992, quando chiamò come correi degli stessi crimini di cui era stato accusato (e per cui fu costretto a rifugiarsi fino alla morte nella sua casa in Tunisia) tutti i capi di tutti i partiti, che avevano fatto ricorso a finanziamenti illeciti per mantenere in piedi le loro baracche della politica.

Ma fra la surreale confessione di Evangelisti e Tangentopoli qualcosa di nuovo era stato introdotto come elemento morale: dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine dei foraggiamenti al Pci, era stato introdotto con grande e ben diretto sforzo comunicativo, il principio etico secondo cui «rubare per il partito, è cosa buona; mentre rubare per le proprie tasche è criminale».

Era un criterio capovolto essendo vero il contrario: chi pompa denaro illecito in un partito, manomette la raccolta del consenso e dunque la base del sistema democratico perché i soldi portano voti grazie ad un reato, mentre paradossalmente chi intascava soldi destinati al partito commetteva un reato ma non un attentato alle istituzioni.

La stampa in modo pressoché unanime accolse quella ipocrita gerarchia capovolta di valori perché lo scopo finale dell'operazione era quello di far fuori i partiti che avevano governato dal 1948, lasciando indenne il solo Partito comunista velocemente ribattezzato Partito democratico della sinistra affinché conquistasse il potere senza concorrenti e con il pieno consenso degli americani (ma non solo) che da tempo sognavano di togliersi dai piedi una classe dirigente che aveva sfruttato la posizione di geografica di cerniera fra Est e Ovest dell'Italia per fare il porco comodo di alcuni politici e di molti poteri economici.

Questo era lo scenario in cui esplose uno scandalo che diventò un uragano, qualcosa di simile a una rivoluzione alimentando nel Paese un limaccioso sentimento di vendetta nei confronti dei politici montando la cupa idea che fossero soltanto una banda di ladri. Come giornalista della Stampa fui incaricato di seguire il procuratore più visibile del Pool: Antonio Di Pietro con i suoi buffi errori di italiano, il suo passato agreste, l'emigrazione in Germania. Intervistando più tardi la famiglia Setti Carraro dopo l'uccisione a Palermo del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro, seppi da loro che Di Pietro faceva parte del gruppo del capo dell'antiterrorismo.

Il giorno in cui Gabriele Cagliari presidente dell'Eni arrestato dal Pool fu trovato soffocato in carcere con un sacchetto di plastica sul volto, incontrai Bettino Craxi seduto in un piccolo ristorante di via dell'Anima poco prima che fuggisse in Tunisia. Mi chiamò pallido e agitato, dicendomi: «Stai attento a quello là. Stai attento a tutti loro. È gente che ammazza». Di Cagliari dissero che era suicidato. Provate un po' voi a suicidarvi (facendovi assistere) ficcando la testa in un sacchetto. Lo show arrivò alla fine. Le sentenze furono irrisorie, le morti assurde. Ma la democrazia della prima Repubblica cadde quando il Pool di Mani pulite sfidò, davanti alle telecamere, il Parlamento. E il Parlamento si arrese. Paolo Guzzanti

Il "fattore umano" e i segreti del Pool. Quelle primedonne che si detestavano. Luca Fazzo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Erano tutti permalosi. Borrelli non si fidava di Di Pietro. Ed era odiato da D'Ambrosio.

Gerardo D'Ambrosio detestava Borrelli. Borrelli, che un po' subiva e un po' usava Di Pietro, in cuor suo non se ne fidava né umanamente né professionalmente. Eccetera. Archiviato - grazie al cielo - il trentennale, e in attesa del quarantennale, cosa resta da dire dell'inchiesta Mani Pulite? Forse per capire come nacque e imperversò l'indagine su Tangentopoli manca, nelle lodevoli ricostruzioni di questi giorni, qualche sprazzo sul «fattore umano» che, come spesso accade, ebbe nelle tempestose vicende di quei mesi il suo bel peso. Lo ebbe nei comportamenti degli indagati, che io non conoscevo. Ma lo ebbe anche in quello degli indagatori: che invece ebbi modo di frequentare quotidianamente. E che mi fa un po' impressione rivedere oggi, a trent'anni di distanza, alle prese con i guai e le rughe.

Con loro ci si dava del tu, con due eccezioni: Borrelli, cui ovviamente tutti davano del lei (tranne Chiara Beria, che però era figlia di un suo augusto collega), e Davigo. Di Pietro aveva un caratteraccio, diceva un sacco di balle, e infatti tra di noi lo chiamavamo lo «zanzone», l'imbroglione. Ma di fondo era un lineare, un buono e a suo modo un fragile, come dimostrano in parte le sue vicissitudini successive. Un pomeriggio, nella sua stanza, insieme a Maurizio Losa della Rai lo vedemmo scoppiare in lacrime senza motivo apparente: capimmo solo dopo che sulla sua testa si addensavano le nubi che poco dopo lo avrebbero costretto a dimettersi dalla magistratura. D'Ambrosio non poteva essere buono per definizione, perché nella cultura del Pci dell'epoca - forgiata nella Resistenza e temprata trent'anni dopo nella lotta al terrorismo - per i sentimenti non c'era molto spazio: ma era l'unico del gruppo a pensare che la politica avesse ruolo e dignità quanto la magistratura, e non a caso fu l'unico a tenere fino all'ultima la porta aperta al rientro di Bettino Craxi dall'esilio.

Gherardo Colombo era e resta un moralista cattolico, ma proprio questa sua matrice lo portò all'epoca a esporsi con coraggio proponendo una soluzione politica che - se fosse stata accolta - avrebbe cambiato il corso dell'inchiesta; e lo ha portato di recente a una sincera resipiscenza. Francesco Greco non amava mandare la gente in galera, e forse anche per questo scelse di curare la parte economica dell'indagine, dove il ricorso alle manette era meno fisiologico. Ho stima di lui, e credo che si sia pentito di avere chiesto e ottenuto la guida della Procura di Milano, con tutto quello che ne è seguito nel gigantesco pasticcio del caso Eni e della loggia Ungheria.

Erano tutti permalosi, non amavano le critiche e i dissensi. Per questo Fabio De Pasquale, che era un giovane e ambizioso pm, restò sempre fuori dal pool, viaggiando per la sua strada che lo portò per primo a far condannare Craxi, ma che porta ancora oggi a associare il suo nome alla morte in carcere di Gabriele Cagliari. Anche con lui mi davo del tu, ma mi ha tolto il saluto (e querelato) dal 1995 perché scrissi che si era fatto sfuggire un serial killer. È in buona fede ma è animato da una assenza di dubbi che sta alla base dei suoi problemi recenti.

Fu questo cocktail di caratteri diversi a rendere possibile una offensiva giudiziaria senza precedenti. Borrelli, che era una mente superiore, rivendicava come proprio principale merito l'oculatezza con cui aveva assortito la squadra (ma anche lui fece un errore, cooptando Tiziana Parenti). Sui loro metodi si è discusso molto, e non li ho mai visti davvero disperati per il suicidio di un indagato. È valsa la pena di quel carcere e quei lutti, o era meglio tenersi la politica pagata dai Gardini, dai Romiti eccetera? Boh. Di sicuro, rispettando le regole non si sarebbe mai fatta Mani Pulite. Come è noto, la rivoluzione non è un pranzo di gala.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Da adnkronos.com il 17 febbraio 2022.

"Non parlo di politica. Non ho titoli per farlo. Anche se per anni mi è parso che vantare un’inscalfibile incompetenza risultasse una precondizione abilitante per essere candidabili a tutto...". 

Ultimo segretario dei giovani socialisti, poi braccio destro di Bettino Craxi in tutti gli anni di Hammamet, quindi produttore televisivo di celebri trasmissioni fino all’ultima vita di comunicatore del mondo Tim (suoi gli spot dal ballerino in poi; oggi è uscito dal gruppo telefonico), Luca Josi, interpellato dall'Adnkronos sui trent'anni da Tangentopoli, spiega di essere stato interrotto in una riunione sul metaverso. Dopo trent’anni tre minuti ce li dedica? "Grazie no". Ancora timori? "Guardi, l’opportunismo mondano e tattico, di cui diventare craxiano nel ’92 rappresenta l’epifania, non è il mio obiettivo esistenziale".

Alla fine Josi una riflessione la fa: "Tangentopoli? Parliamo di una stagione che si alimenta dei fatti consumatasi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della 'prima repubblica'). 

Una finestra di poco meno di tre anni che rappresenta la ragione del lavacro degli ultimi trenta in cui l’italiano ha affinato un suo carattere: ferocemente calvinista col prossimo; generosamente cattolico con se stesso". 

"Dopo trent’anni la politica scivola ancora sul materialismo storico di uno scontrino, di una sovvenzione o di un’erogazione di una fondazione dimenticandosi che tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico - osserva - Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito. 

Chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere..." Il finanziamento illecito, secondo Josi, "è stato definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti. A meno che non si desideri una plutocrazia, che non sarà la democrazia di Minni e Topolino, ma quella di un manipolo di paperoni che si autofinanzierà per governare un universo di paperini".

Pessimista? "Assolutamente no, forse consapevole dei rischi - sottolinea Josi - Come quello che si passi, senza soluzione di continuità, dai 'no vax' ai 'fiat lux”, per la bolletta elettrica. Per poter philosophari occorre prima vivere. E una volta detto grazie al vaccino ritroviamo il cretinismo emotivo incistato nelle politiche energetiche di chi è contro il nucleare, ma non si preoccupa di accendere il suo tostapane grazie all’energia atomica francese (nel clima del ’92 si sarebbe configurato il reato di 'ricettazione energetica' essendo il nucleare in Italia bandito dal referendum del 1987). 

È una società buffa quella in cui molti parlano in modo illiberale grazie a una libertà che non hanno conquistato; vivono e godono di un benessere che non hanno prodotto; sentenziano su un passato che non conoscono. Insomma forti di quel senso del nuovo, dell’ideale, che comunque si incarni non permetterà a un cretino di essere altro che un cretino".

Josi dice all'Adnkronos di non essere pentito delle posizioni sostenute in quegli anni. "Ma no! Perché se sei così pessimista da non voler difendere la tua storia non puoi essere così ottimista da sperare che qualcuno lo faccia al posto tuo. Sono nato da socialisti, vissuto tra socialisti e morirò socialista. Scoprendo, forse, un giorno cosa questa parola - così maltrattata dalla storia - voglia dire nel suo fondo".

Ci voleva coraggio? "Non era coraggio, che a volte è solo la misura della codardia e del tradimento altrui. Ho trovato giusto parlare quando altri tacevano e poi tacere quando in tanti hanno ricominciato a parlare. In verità da noi vige una certa forma di coraggio tombale. Viene dopo e si crede abbia effetti retroattivi (condonando le pavidità del prima). Comunque, continuo a pensare che se non affronti i problemi, loro, presto o tardi, affronteranno te". 

Quanto all’antipolitica, "non è che la politica di qualcun altro in cui il parlamentare non è più il percorso finale di una selezione ma quello casuale della sua designazione", sottolinea Josi, che poi, alla domanda se abbia in mente di tornare a fare politica, si schernisce: "Sì sì, certo. Tra trent’anni".

Antonio Di Pietro: «Craxi era solo uno dei tanti. Io puntavo ad Andreotti, mi hanno fermato». L'ex pm riscrive la storia di Mani Pulite: «L'inchiesta nasce a Palermo, con Falcone e Borsellino, ucciso per quel che poteva ancora scoprire». E poi: «Gardini doveva farmi il nome di Salvo Lima, avrei chiuso il cerchio e aperto il processo mafia-appalti». Sul segretario Psi: «Un politico normale, ha agito come gli altri. Non fatelo più grosso di quel che è». Susanna Turco su L'Espresso il 16 Febbraio 2022.    

«Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti». D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo - Antonio di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta già l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto.

Di Pietro: "Non è cambiato nulla, prima di morire metto 'Mani Pulite' in rete". Affari Italiani.it Giovedì, 17 febbraio 2022

A 30 anni da Tangentopoli, Antonio di Pietro dice la sua verità sull'inchiesta Mani Pulite. Tantentopoli, Di Pietro: "Il nostro paese era malato di corruzione endemica, ma dopo 30 anni non è cambiato niente".

"Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica".

Così Antonio Di Pietro in un post su Facebook sui trent'anni di tangentopoli. "Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi - aggiunge. "Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.

Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima. Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato. Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi - come me - li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?".

Sorgi su Mani Pulite/ “Di Pietro disse a console Usa che sarebbe arrivato a Craxi e…” Silvana Palazzo su ilsussidiario.net il  17.02.2022 

Marcello Sorgi a L’Aria che tira svela un retroscena su Mani Pulite: “Antonio Di Pietro disse al console Usa di Milano che sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani”. Ma l’ex magistrato…

Marcello Sorgi svela un retroscena sull’inchiesta di Mani Pulite che riguarda Antonio Di Pietro. Lo fa a L’Aria che tira, parlando di un incontro tra l’allora magistrato e il console statunitense a Milano. Quattro mesi prima di arrestare Mario Chiesa, andò a trovarlo: «Gli disse che avrebbero arrestato un personaggio di seconda fila ma poi sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani». Il giornalista spiega che ancora oggi non è chiaro il motivo per il quale rivelò un segreto istruttorio al console americano che poi parlò con l’ambasciatore a Roma.

«Non gli credette, gli disse che parlava ogni giorno con Craxi, Andreotti, Forlani e Cossiga che era presidente della Repubblica e diceva che erano tranquilli. Sta sui documenti della Cia che sono stati desecretati», aggiunge Sorgi nello studio di Myrta Merlino. Il console in questione era Peter Semler. «Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene», sono le parole di Semler raccolte nel 2012 da La Stampa.

Peter Semler al quotidiano piemontese raccontò anche che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite. «Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici. Ci vedevamo in luoghi diversi. Di Pietro mi piacque molto». Parole a cui Antonio Di Pietro rispose spiegando che il console era stato impreciso, come sulle rivelazioni riportate anche oggi da Marcello Sorgi.

«Nel novembre 1991 non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e Psi perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare. Nel novembre 1991 non potevo anticipargli ciò che non sapevo», disse nel 2012 Antonio Di Pietro, il quale sostenne di non aver mai violato il segreto istruttorio. In merito agli incontri con Peter Semler spiegò: «Perché lo incontravo? Perché lo desiderava, faceva il suo lavoro. Voleva capire e infatti capì perfettamente, a differenza di altri suoi connazionali. E incontrò un sacco di altre persone». 

Facebook. Antonio Di Pietro il 17 febbraio 2022

Ci volevano fermare.

Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud.

Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica.

Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi.

Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.

Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima.

Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato.

Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?

Il post di Antonio Di Pietro: "Mani Pulite? Tutto è nato dalle indagini di Giovanni Falcone..." Sandra Figliuolo, Giornalista, il 19 febbraio 2022 su palermotoday.it.

L'ex pm del pool milanese spiega l'origine del terremoto giudiziario di 30 anni fa: "Non ho scoperto nulla, furono le rivelazioni di Buscetta al giudice sul patto tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia a far partire il nostro lavoro". Per la famiglia Borsellino è proprio questo legame tra le due inchieste che andrebbe approfondito per trovare la verità su via D'Amelio

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"Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce all'esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui venne trasferito". A scriverlo è l'ex pm componente del pool milanese che coordinò le indagini su Tangentopoli, Antonio Di Pietro.

Ed è uno spunto interessante, quello che Di Pietro, perché è proprio su questo nesso tra "Mani Pulite" (che partì in questi giorni, 30 anni fa) e gli appronfondimenti svolti invece dai magistrati palermitani che la famiglia di Paolo Borsellino ha cercato di puntare i riflettori per tentare di arrivare ad una verità a 30 anni dall'eccidio di via D'Amelio e dopo enormi despistaggi.

Lo stesso Di Pietro, qualche mese fa, in un confronto televisivo in cui era presente una delle figlie di Borsellino, Fiammetta, aveva dato sostegno a questa pista, esattamente come aveva fatto deponendo nel primo grado del processo sulla così detta trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.

Secondo le motivazioni di quella sentenza, però, Borsellino sarebbe stato invece eliminato perché avrebbe appunto scoperto, a meno di due mesi dall'uccisione di Falcone, l'esistenza di questo presunto patto. Una sentenza che è stata in buona parte rivista in appello. Si attende nelle prossime settimane il deposito delle motivazioni, dopo una proroga richiesta dai giudici. 

30 anni di Mani Pulite, Di Pietro rompe il silenzio: "Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete". Da ilgiornaledelmolise.it il 17 Febbraio 2022.

Per mesi è rimasto in silenzio. Niente dichiarazioni, niente interviste, nessuna apparizione in tv. Antonio Di Pietro negli ultimi tempi ha scelto di spegnere i riflettori su di lui. E alla vigilia del trentesimo anniversario dell’inchiesta Mani Pulite ha fatto rumore il silenzio del protagonista principale di quella pagina di storia italiana. L’ex pm trascorre gran parte del tempo in Molise, nella sua masseria di Montenero di Bisaccia. A quanto pare sta dedicando molte giornate per mettere posto il suo archivio di documenti. Forse anche questa la ragione del silenzio. Rotto ora attraverso i social, proprio nel giorno dell’anniversario dell’arresto che nel 1992 diede avvio all’inchiesta che sfocio’ in Tangentopoli: “Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima – ha scritto l’ex magistrato sul suo profilo Facebook ricordando quei giorni – Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinche’ qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verita’ rispetto a quel che e’ stato raccontato”. “Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani Pulite e’ stata fermata, anche perche’ mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi – ha proseguito Di Pietro – l’unica cosa che e’ cambiata e’ che adesso c’e’ desolazione da parte dell’opinione pubblica”. “Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell’inchiesta e’ nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica piu’ per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi”, ha sottolineato l’ex magistrato. Di Pietro ha scritto il suo post pubblicandolo con una foto dell’epoca che lo ritrae insieme a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, gli altri due protagonisti di quell’inchiesta. Sotto l’immagine c’e’ un interrogativo: “Sono una vergogna per il paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l’inchiesta Mani Pulite?” Poi sempre nel post scrive ancora: “Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; e abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica”.

IL TESORIERE DELL’UNICO PARTITO SOPRAVVISSUTO A MANI PULITE. La tangente Enimont raccontata dal (quasi) fedelissimo tesoriere di Bossi. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 23 febbraio 2022

A trent’anni dall’innesco di Mani Pulite, l’ex tesoriere della Lega Lombarda Alessandro Patelli racconta come il suo movimento, antisistema e antipartito, sia finito invischiato nell’affare della maxitangente Enimont nel 1992.

Condannato, insieme al leader Umberto Bossi, per finanziamento illecito, fu rimosso dal capo nonostante lo avesse difeso anche in aula e assistette alla fine della Lega bossiana.

Si è laureato a quasi settant’anni con una tesi sul suo Carroccio, e la Lega di oggi non gli piace: Salvini, a suo dire, scimmiotta Bossi senza averne le qualità e rincorre la Meloni dimenticando il vero progetto leghista: il regionalismo.

FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.

30 anni di Mani Pulite. Il Compagno G. ha scelto di parlare: intervista esclusiva a Primo Greganti. Quando Tangentopoli colpì il Pci-Pds: "Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”, racconta l'ex cassiere. Giorgio Santelli su Rainews.it 17 febbraio 2022 

Il Compagno G., Primo Greganti, ex cassiere di Pci e Pds, tra i pochi a rifiutare ogni collaborazione con i magistrati ai tempi di Tangentopoli, ricorda per Rainews.it e Rainews24 gli anni di quell’inchiesta che cambio la faccia all’Italia a trent’anni dall’arresto di Mario Chiesa.

Il primo marzo 1993, su richiesta del pm Antonio Di Pietro, il Giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti emise un ordine di custodia cautelare nei confronti di Greganti. Era accusato di corruzione per aver ricevuto in Svizzera 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per alcuni appalti dell'Enel, tra il 1990 e il 1992. Ripercorrendo quel giorno, racconta di aver deciso di presentarsi a Milano con il suo avvocato difensore, dopo essersi riconosciuto nelle dichiarazioni dell’amministratore della Calcestruzzi di Ravenna, Lorenzo Panzavolta, rese in un interrogatorio riportato dai giornali: “Chiamai Di Pietro, fissai l’incontro ma quando arrivai in Procura vidi che con il magistrato c’erano anche dei poliziotti con gli stivali sporchi di fango, il fango di casa mia. Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”. Quel denaro, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti.

Primo Greganti ricostruisce quegli anni, il suo arresto, il rapporto con il magistrato Antonio Di Pietro, gli arresti preventivi a San Vittore, l’incontro in carcere con Gabriele Cagliari. Difende l’inchiesta del pool di Mani Pulite e non perdona ad Achille Occhetto la richiesta di scuse agli italiani per conto del Pds: “Noi non eravamo come gli altri partiti. Non ci sono mai state mazzette per il partito”.  

Negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che quei soldi erano il pagamento di consulenze personali fatte alla Ferruzzi. Alla fine dell’inchiesta Greganti venne condannato a tre anni e sette mesi per finanziamento illecito al suo partito, pena successivamente patteggiata e ridotta a tre anni e infine confermata dalla Corte di Cassazione nel marzo 2002, pur decurtata dei sei mesi che Greganti aveva già scontato in regime di carcerazione cautelare preventiva a San Vittore durante le indagini. 

“Quell’inchiesta fece male alla mia famiglia - dice ancora Greganti - Di Pietro mi disse: 'Quando tornerai a casa i tuoi figli ti sputeranno in faccia'. In carcere io non mi abbattei. Ero convinto di stare nel giusto, forse per questo non fui preso dallo sconforto”.

Secondo il Compagno G., in conclusione, “si cancellò la prima Repubblica per dare in mano il Paese ai poteri finanziari, senza una nuova classe politica. I risultati di quell’inchiesta li viviamo quotidianamente”. 

Feltri, Mani Pulite “graziò” solo i comunisti: “Chiesi il motivo a di Pietro e lui…” Gabriele Alberti venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Fa bene Vittorio Feltri a ribadirlo anche a trent’ anni dall’inizio di Mani pulite. Il pool che indagò sui partiti poi spazzati via dal ciclone delle inchieste salvò solo l’ allora partito comunista poi Pds. E a tal proposito il direttore editoriale di Libero fornisce anche una rivelazione interessante per mettere a posto le tessere di un mosaico composito. Già, si tratta di una circostanza che i più trascurano, “un particolare su cui tutt’ ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza”. E invece trattasi di un particolare rilevantissimo.

Feltri: Mani Pulite salvò i comunisti. “Di Pietro mi disse…”

Scrive Feltri: “Antonio (Di Pietro, ndr), cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n’era uno che non avesse profittato della mangiatoia; compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l’insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica?”.  La risposta di Di Pietro alla domanda cruda fu attendista “Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai“.

Feltri: “Il Pds si accomodò al governo”

Sappiamo come sono andate le cose. Mentre il pentapartito fu spazzato via, “il Pds si accomodò al governo”. La conclusione a cui è giunto Feltri è la seguente: gli ex comunisti furono risparmiati dalla ventata di Tangentopoli “per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti”. Un solo esempio, ricorda Feltri: ” Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure”. Ebbene, si arrivò a una bizzarra conclusione delle indagini: “nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono”. Sprizza indignazione il direttore di Libero: “Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo”. 

“Un particolare su cui tutt’ora si sorvola”

Feltri già si è scusato qualche giorno fa per avere all’epoca cavalcato l’onda di Tangentopoli, che lui ha definito una “strage degli innocenti”, per i risvolti giustizialisti e la furia manettara che palesò . La sua lettura trova conferma nelle rivelazioni di qualche giorno fa di Cirino Pomicino. Ossia la volontà di voltare la pagina politica verso sinistra a determinata con l’appoggio dei grandi gruppi industriali. L’ex  ministro Dc ha rivelato  come dietro la rivoluzione giudiziaria che azzerò la politica italiana ci fosse uno schema ben preciso. L’establischment industriale disegnò un vero e proprio disegno politico: virare a sinistra, cambiando lo schema precedente. Fu De Benedetti, mesi prima che scoppiasse mani Pulite a farglielo capire in un colloquio riservato. Ora si capiscono tante cose. Fa bene Feltri a rammentare che l’esclusione dei comunisti dalle indagini di Tangentopoli non può essere derubricato a particolare insignificante. 

"Perché la magistratura ha graziato i comunisti": Mani Pulite, Vittorio Feltri e una sporca verità sui compagni. Vittorio Feltri su Mani Pulite: "Perché la magistratura ha graziato i comunisti". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022.

Oggi è il 17 febbraio e Vittorio Feltri, direttore di Libero, dedica il suo video editoriale al 30esimo anniversario dell'inizio di Mani Pulite. "Fu un episodio piuttosto importante per la vita del nostro Paese", dice Feltri facendo notare che "si dice che quella inchiesta abbia fatto piazza pulita di tutti i politici corrotti. Ma non è del tutto vero". E spiega: "Il finanziamento ai partiti era illegale per cui erano quasi costretti a rubacchiare qua e là. C'è da chiedersi come mai il pentapartito che all'epoca governava non avesse cercato di legalizzare il finanziamento ai partiti". Ma soprattutto, fa notare il direttore, "di tutta la vicenda di Mani Pulite ho potuto constatare che tutti i partiti furono spazzati via, la Democrazia Cristiana, il partito socialista, i socialdemocratici, i repubblicani e persino i liberali. Solo uno riuscì a sopravvivere: il vecchio partito comunista che nel frattempo aveva cambiato nome, ma solo il nome". "Come mai si è salvato", chiede provocatoriamente Feltri. "Il sospetto può essere uno: la magistratura ha favorito un partito che, secondo Antonio Di Pietro che lo disse a me personalmente, era coinvolto come tutti gli altri nella spartizione del denaro sgraffignato". "Dicono i magistrati che furono trovate delle prove", continua Feltri, "ma in realtà le prove non le hanno mai cercate, mentre per gli altri partiti le hanno cercate e le hanno trovate per poi fare quel massacro che tutti sappiamo". Conclude Feltri: "Noi vogliamo solo sapere come mai la magistratura era tanto affezionata e voleva tanto bene al partito comunista". 

Mani Pulite, l'affondo di Vittorio Feltri: "L'unico tabù del pool furono i comunisti. E chissà perché..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

A trenta anni dall'inizio di Mani pulite, la famosa o famigerata inchiesta che ha frantumato la Prima Repubblica, c'è ancora qualcosa che non è stato detto ad alta voce. E non riguarda una mia idea bislacca, ma una realtà evidente, come dire che il mare è salato. Il pentapartito, che all'inizio degli anni Novanta era la maggioranza di Governo, fu completamente massacrato da Di Pietro e soci togati. Il povero e rimpianto Citaristi, segretario amministrativo della Dc, fu messo in croce: gli rifilarono un numero spropositato di avvisi di garanzia, relativi al reato di finanziamento illegittimo, tale da costituire un record mondiale. A lui, che era ricco di suo, e non aveva certo bisogno di incassare tangenti. Ma allora questi erano considerati dettagli ininfluenti. Egli pur essendo persona specchiata fu trattato quale delinquente incallito. Poi la faccenda si chiarì, ma intanto il mio concittadino bergamasco per lungo tempo rimediò una figuraccia, per quanto immeritata. Di Craxi, la Malfa ed altri personaggi schiaffeggiati dalla magistratura sappiamo tutto, incluse le persecuzioni di cui furono vittime.

C'è solo un particolare su cui tutt' ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza. Antonio, cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n'era uno che non avesse profittato della mangiatoia, compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l'insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica? Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai. Infatti chi ha buona memoria rammenterà che mentre il pentapartito fu sgominato e finì in galera, il Pds si accomodò al governo.

Io, persona semplice, pensai e penso tuttora che i compagni furono risparmiati, pur avendo incassato denaro sporco, per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti. Un solo esempio. Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure. Una prova inequivocabile che anche i rossi amavano i soldi in nero. Alla conclusione delle indagini, nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono. Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo.

"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.

“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.

Che ricordo ha di quegli anni?

“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.

Non sono stati, quindi, tempi semplici?

“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.

Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?

“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.

Chi è stato più penalizzato?

“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.

Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?

“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.

Quali sono state le conseguenze?

“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.

Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…

“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.

Da Tangentopoli a mafiopoli: la lunga egemonia dei pm. Cicchitto, Gargani, il pg Marino e Sansonetti ricordano gli anni di Tangentopoli: fu un blitz contro i partiti ordito dai poteri forti con giornali e toghe. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 febbraio 2022.

«Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne, dalla Fiat alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il partito diverso dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione». Partiamo dalle conclusioni di Fabrizio Cicchitto per darvi conto del convegno “A Trenta anni da Tangentopoli e da Mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, organizzato dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà, e moderato dal nostro direttore Davide Varì.

Secondo Cicchitto «molto prima di Forza Italia, e ovviamente in termini del tutto rovesciati, il primo partito- azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto, compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo ed Ernesto Rossi fecero denunce assai precise: rimasero del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e, con il trattato di Maastricht, il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale, quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quello della Dc e del Psi».

Ad aprire i lavori della conferenza Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: «Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’ opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari: chiediamo, come ho fatto per tanti anni, un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno, la politica, la giustizia, i magistrati, l’informazione, per riconoscere le degenerazioni derivanti dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo».

Allora vi fu «un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente. Il pubblico ministero aveva solo funzioni di giudice etico, di far vincere il bene sul male, che riscatta la società, punisce in maniera emblematica il male ed esaurisce nell’indagine la fase giurisdizionale che ha bisogno del processo».

A Gargani è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: «Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era, diciamo, il clima dell’epoca».

Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, si è soffermato sul ruolo della stampa: «Allora i giornali lavorarono in maniera unificata: Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Vi posso raccontare il giorno in cui arrivò il decreto Conso che depenalizzava il finanziamento dei partiti. Io ero all’Unità. Arrivò un editoriale di Cesare Salvi, molto favorevole al decreto. Poi la sera ci fu come al solito la consultazione fra i direttori verso le sette e si decise di buttare a mare il decreto. Fu cambiato l’ editoriale dell’Unità, fu fatto un editoriale contro il decreto. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono contro il decreto e a mezzogiorno Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto. Esso non cadde per l’opposizione politica, cadde per l’opposizione dei giornali. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tutto il dibattito e gli interventi degli altri numerosi ospiti si possono riascoltare su Radio Radicale.

Mani Pulite, Sallusti: “C’era un patto. I giornalisti concordavano le prime pagine. Ma su Greganti”…Redazione venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Sallusti conferma: è vero. C’era un patto fra direttori negli anni di Mani pulite: concordavano le prime pagine. E aggiunge addirittura che in quel periodo si crearono persino due pool di testate e giornalisti: uno di serie A e uno da girone minore. E, soprattutto, guardando a ritroso rilancia: «è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti. E in quel momento che i cronisti– ricostruisce il direttore di Libero – divennero gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali»…Quella in corso in quegli anni di rivolgimenti e dramma, fu una vera caccia all’ultimo scoop. Una guerra spietata tra le testate – dai direttori in giù – per carpire l’ultimo dato e aggiornare il bollettino delle vittime. Poi divenne impossibile tenere quel ritmo e continuare su quel crinale: e si dichiarò una tregua. Descrive così Alessandro Sallusti all’Adnkronos, l’atmosfera e il modus operandi di quegli anni: quasi come un’ossessione, l’estenuante ricerca di nomi e notizie dell’ultimo minuto. Un incubo in cui si erano infilati i giornalisti nelle anni di Mani Pulite, pronti a «scannarsi per un nome in più o uno in meno». Fino a ritrovarsi in un incubo insostenibile… 

Mani Pulite, Sallusti conferma: il patto fra direttori? C’era eccome

«Sì, si era creato un pool di direttori, che avevano, ovviamente, i loro capiredattori. I loro terminali interni. E si coordinavano per i titoli e le prime pagine». Così Alessandro Sallusti, conferma all’Adnkronos l’esistenza del cosiddetto “patto fra direttori” negli anni di Mani Pulite. «Però attenzione allo scambio di carte», racconta direttore di Libero, che in quegli anni era caporedattore centrale del Corriere della Sera: «Ci sono state due fasi. All’inizio c’era la guerra, nel senso che si faceva a gara per avere l’esclusiva. Ogni giorno era un bollettino, ogni giorno c’era l’elenco degli indagati, degli arrestati, e così via. Inizialmente fra i giornali, che allora si vendevano, c’era una concorrenza spietata. Questa gara portò sostanzialmente a uno sfinimento quasi fisico dei partecipanti. Era diventato un incubo. Un’ossessione. Non si mollava mai la presa. Ricordo che è ad un certo punto il segretario di redazione del Corriere mi disse “Alessandro, hai battuto il record di permanenza consecutiva al giornale: 136 giorni senza mai staccare un giorno”. Ma non ero l’unico, ovviamente»…

«Si crearono due pool tra le testate giornalistiche: uno da Champions League e uno minore»…

Poi, prosegue Sallusti, «a un certo punto, almeno secondo la percezione con cui io l’ho vissuto, si è detto basta. La vita era diventata impossibile. E anche la professione. Tutte le notti svegli fino alle due a correre nelle edicole notturne, era diventato un incubo. E allora si dichiarò tregua. Invece di stare a scannarci per un nome in più o uno in meno, ci si metteva d’accordo scambiamoci le informazioni. E sostanzialmente – rammenta Sallusti – si crearono due pool. Uno da Champions League, diremmo oggi, formato da Corriere della Sera, Repubblica e Stampa, che al suo interno era mediato dall’Unità che triangolava tra Corriere e Repubblica, che anche per una questione di stile non si parlavano direttamente. E poi c’era un altro pool, diciamo minore, formato, se non ricordo male, da Messaggero, Avvenire e Giorno. Questi due pool erano in concorrenza fra loro, ma all’interno di ogni poll c’era un patto. Ovviamente il patto fra Corriere, Repubblica e Stampa aveva una valenza giornalistica e anche politica».

Sallusti: «Così i giornalisti diventarono gli addetti stampa delle Procure»…

E allora, continua la sua ricostruzione Sallusti: «Verso le cinque o le sei del pomeriggio, quindi prima di iniziare a pensare alla prima pagina, c’era questo scambio di telefonate per chiedere quello che si sarebbe fatto il giorno dopo. Che cosa si pensava e così via. Poi si arrivava anche a informarsi reciprocamente del titolo in maniera letterale. Ma non era tanto una questione di titolo letterale, ma di dire “oggi si va addosso a Tizio, domani a Caio”. E questo era un lavoro che avveniva quotidianamente: non c’è il minimo dubbio. Nessuno può smentirlo”. “E comunque sì, si può dire anche che il ruolo del giornalista fu quello di fare il passacarte della procura – sottolinea Sallusti -, si sperimentava non solo un nuovo modo di fare le inchieste giudiziarie, ma anche un nuovo modo di fare il giornalismo. Fino a quel momento tirare fuori una carta delle procure era impensabile. Ed è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti, ma non nacque perché ci fu una riunione per deciderlo, nacque. Ed è ovvio che tra il furore cieco dell’opinione pubblica, tra i giornali che ogni giorno vendevano 10mila copie in più, fra l’ebrezza di partecipare a un’impresa, si è diventati, non per scelta, gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali».

«Ma quando mi venne cassato il titolo su Primo Greganti, cassiere del Pds, indagato…»

E ancora: «Quando tu per giorni fai titoli “indagato Craxi”, “indagato Forlani”, e così via. Poi a un certo punto, per sbaglio, le procure mettono gli occhi su Primo Greganti, cassiere del Pds, e io faccio il titolo “indagato il cassiere del Pds”, e mi viene cassato perché non si poteva fare: allora lì cominci a chiederti “ma com’è questa storia?“. E quindi poi maturano certe considerazioni e certe scelte»… E a tal proposito, Sallusti con l’Adnkronos conclude la sua disamina soffermandosi su quanto scritto oggi dal direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Secondo il quale «quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo». «Diciamo che i giornalisti alle procure da quel periodo in poi hanno leccato il culo a lungo – chiosa Sallusti –. E qualcuno lo fa ancora adesso in maniera totalmente acritica e omertosa. Quindi sì: Travaglio ha ragione. Talmente ragione che siamo ancora in una stagione di giornalisti leccaculo. Solo che adesso lecchiamo il culo alle procure. Ora non so se il culo delle procure è più profumato del culo di qualcun altro, ma sempre culo è…».

"Il pool non toccò i Ds perché aveva bisogno di un sostegno politico". Francesco Boezi il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex pm di Mani pulite: "Io avrei dovuto essere il trait d'union, ma non ho accettato".

L'avvocato Tiziana Parenti, l'ex pm e parlamentare soprannominata «Titti la Rossa», ricorda il sostegno dei Ds a Mani Pulite, «l'imprevisto» Berlusconi ed i motivi per cui decise di lasciare.

Come mai soltanto alcune forze politiche vennero defenestrate?

«L'interrogativo su cui ancora oggi ci si interroga per cui tutti i partiti di governo furono travolti da Mani Pulite e in primis il PSI e la DC, quest'ultima seppure con i dovuti distinguo, mentre rimase fuori dalla tempesta il PCI -PDS, ad eccezione di alcune posizioni per responsabilità personale, si può risolvere solo se pensiamo alle contingenze politico-economiche e alla fine del comunismo che ormai rendeva accettabile, anche oltre Oceano, come referente l'ex Pci, ormai PDS».

Lei avrebbe voluto indagare sui Ds ma qualcuno la fermò?

«È pacifico, solo se si rileggono i giornali dell'epoca che, il PDS, dopo un momento iniziale di esitazione, appoggiò in toto, sul piano politico, Mani Pulite. Al tempo stesso Mani Pulite aveva bisogno, secondo le stesse parole di D'Ambrosio, di avere una forza politica, che fosse stata forza di governo, che li appoggiasse a prescindere da se, come e quanto anche questo partito avesse partecipato al finanziamento illecito o tangentizio, che di sicuro, almeno per una buona parte degli anno ottanta, si era svolto in modo diverso dagli altri partiti».

In che senso ne «aveva bisogno»?

«Perché, a prescindere dalle simpatie politiche di alcuni e non certo di tutti i componenti del pool, un'operazione del genere ed una loro conquista diretta del potere non sarebbe stata possibile senza l'appoggio di un grande partito popolare che comunque sarebbe restato sotto scacco proprio perché salvato».

E lei?

«Avrei dovuto essere lo strumento dell'operazione e questo non l'avevo capito in perfetta buona fede all'inizio. Ho ritenuto che il mio compito fosse quello di un normale Pm che svolge le sue indagini. Ma non era questo che mi si richiedeva. Quando ho avuto chiara la situazione, non ho lasciato equivoci circa il fatto che o mi veniva ritirato l'incarico o non potevo fare altro che andare avanti secondo i miei doveri, a prescindere e magari anche contro le mie idee».

C'è chi pensa che l'obiettivo del pool non fosse la rivoluzione.

«Che cosa perseguisse il pool non lo so e neppure so su quali basi potesse ritenere di conseguire il risultato di andare al potere. Ho l'impressione che non si sia mai detta la verità da parte di tanti soggetti e non solo del pool».

Poi arrivò la discesa in campo di Silvio Berlusconi...

«Di certo Berlusconi è stato l'imprevisto che nessuno aveva calcolato ma che nelle pianificazioni della strategia politica sempre dovrebbe essere calcolato. Il fatto è che quella strada era stata fin troppo liscia, solo se si pensa che in due anni scarsi è stata distrutta una classe politica, che pur con tutti i torti e peccati ha reso questo Paese ricco, libero e sicuro. L'unico che ha avuto il coraggio di impersonare questo imprevisto è stato Berlusconi».

Craxi, Berlusconi e oggi Renzi. Siamo alle solite?

«Con Berlusconi e la lunga sequenza dei processi a suo carico, poi finiti nel nulla con una sola eccezione che peraltro nulla aveva a che fare con la sua attività politica, inizia una nuova epoca che in qualche misura resiste come nel caso di Renzi. Ma questi scontri non sono più contro un intero sistema come all'epoca, ma sono contro la singola persona».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la 

La “confessione” del compagno Ranieri ignorata da giornali e politica. Lo storico dirigente del Pds riconosce la deriva giustizialista ai tempi di Tangentopoli. Ma nessuno (o quasi) se n'è accorto...di Francesco Damato su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.

Umberto Ranieri, storico dirigente napoletano del Pd, cinque volte deputato, una volta senatore, tre volte sottosegretario agli Esteri, un migliorista a 24 carati di quello che fu il Pci, ha scritto per Il Mattino una lunga, onestissima e sotto molti aspetti inedita “riflessione” su Mani pulite da lui vissute non certo come un passante.

Riconosciuto ad Enrico Berlinguer il merito di avere sollevato per primo la cosiddetta questione morale denunciando l’esorbitante spazio occupato dai partiti in una situazione bloccata dalla mancanza di alternative agli equilibri politici formatisi a livello sovranazionale dopo la seconda guerra mondiale, Ranieri ha contestato all’allora popolarissimo segretario del Pci di non avere praticamente fatto nulla per andare oltre alla denuncia e rimediarvi. All’alternativa da costruire con gli scomodi cugini o compagni socialisti, specie quando Bettino Craxi ne assunse la guida, pur non citati né gli uni né l’altro stavolta da Ranieri, il segretario comunista in effetti preferì il compromesso storico con la Dc. Che pure era la prima beneficiaria del blocco politico in cui l’economia “ampiamente statalistica” la faceva da padrona. E alla cui ombra, tra appalti e simili, si sviluppava la pratica del finanziamento “irregolare” che “in una certa misura riguardava anche il Pci”, per cui “sarebbe una manifestazione di ipocrisia negarlo”, ha scritto Ranieri.

Quando esplose il bubbone con Tangentopoli, Mani pulite e varianti «il Pci/ Pds fornì un acritico sostegno all’azione giudiziaria persuaso che l’attività repressiva potesse favorire quel rinnovamento che non si era capaci di produrre per via politica. Un appoggio – ha insistito Ranieri- che non venne meno neppure di fronte all’emergere di riserve sulla legittimità o correttezza delle modalità operative della procura di Milano», specie con l’abuso delle manette.

«Fu Gerardo Chiaromonte – ha raccontato Ranieri- a denunciare senza incertezze ed esitazioni lo sconfinamento della giurisdizione penale e la messa in mora dei principi di garantismo. Fu un drammatico errore che Gerardo denunciò assecondare gli umori giustizialisti e non prevedere che “gli effetti di un terremoto giudiziario sulla evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi».

Infatti «all’orizzonte comparve il cavaliere Berlusconi» vincendo le elezioni del 1994 non solo o non tanto per le capacità manipolatrici e di fuoco mediatico attribuitegli dagli avversari quanto perché «in realtà, una parte considerevole degli elettori non ritenne giusto che a essere spazzata via dalle inchieste fosse solo l’area dei partiti di governo, che non corrispondesse alla realtà quella sorta di “univocità di colpa”».

A proposito del tentativo fallito dal governo Amato, col famoso decreto legge del ministro della Giustizia Giovanni Conso, per una uscita cosiddetta politica da Tangentopoli, e non solo giudiziaria o manettara, Ranieri ha scrupolosamente testimoniato, da deputato qual era a quei tempi, che la Commissione degli affari costituzionali della Camera se n’era già occupata convenendo con un complesso di «sanzioni amministrative e pecuniarie per l’illecito finanziamento dei partiti, e clausole che comportavano insieme alla confessione l’uscita dei responsabili del reato dalla vita politica». «Altro che colpo di spugna», ha scritto Ranieri aggiungendo che «furono il pool di Mani Pulite e l’Associazione nazionale dei magistrati a impedire che si adottasse il provvedimento» varato da governo «minacciando fuochi e fiamme e intimorendo il presidente Scalfaro, che rifiutò di firmare il decreto».

Di fronte ad “una politica rimasta debole”, che “ha continuato a subire negli anni successivi un forte condizionamento da parte del potere giudiziario”, per cui “non si è riusciti a ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale”, i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale “forse aiuteranno il Parlamento a misure di modernizzazione del sistema giudiziari”, ha scritto Ranieri esortando a “impegnarsi perché accada”.

Ebbene, sapete dove Il Mattino ha pubblicato domenica questa pò pò di riflessione, testimonianza e quant’altro? A pagina 43, senza un rigo – dico un rigo – di richiamo in prima pagina. Dove invece si è preferito il richiamo che meritava, per carità, ma non meno dell’articolo di Ranieri, il drammatico ricordo del suicidio del padre e parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni da parte della figlia Chiara: un dramma che senza la “riflessione” di Ranieri non si potrebbe certo valutare appieno.

Ma ieri, lunedì, non so per caso o per una qualche graduatoria politica, ho trovato sulla prima pagina dello stesso Mattino il giornale al cui allora direttore Giovanni Ansaldo chiesi e ottenni da studente universitario di scrivere, vedendomi commissionare un bel pò di recensioni di libri politici- il richiamo in prima pagina di un’intervista di Luciano Violante in cui si dà “ragione a Craxi”. Ma allora cosa avrà mai fatto Ranieri al Mattino, mi chiedo cogliendo l’occasione per attribuire anche a noi giornalisti la responsabilità della crisi della politica.

Gustavo Bialetti per “La Verità” il 22 febbraio 2022.  

Il gruppo Gedi della famiglia Elkann ha pensato bene di ricordare i 30 anni di Mani pulite con un agile libercolo in vendita in edicola. Sono quasi 380 pagine. Il titolo è L'Italia di Mani Pulite. 

A trent' anni dall'inchiesta che segnò la fine dei partiti figli del dopoguerra, svelò la corruzione di un sistema e cambiò il volto del Paese. Ci sono articoli dell'Espresso, di Repubblica e della Stampa.

Ritroviamo così gli autori dell'epoca, di ieri e di oggi. Eppure a un certo punto, a pagina 360, compare un articolo non firmato preso da Repubblica del 28 maggio 1995. 

Il titolo è inequivocabile. Il giorno della Mondadori. Tocca al manager Urbano Cairo. Nel catenaccio si legge: «Il dirigente, 37 anni appena, è coinvolto, attraverso una piccola società controllata dalla sua famiglia nel giro di fatture false che ruota intorno a Publitalia». La storia dell'attuale azionista di maggioranza del Corriere della sera sotto Tangentopoli è nota sebbene non sia così importante. Fu uno dei pochi a chiedere il patteggiamento.

«Ancora uno degli uomini più vicini a Silvio Berlusconi viene interrogato dai sostituti procuratori dell'inchiesta di Mani pulite ed è sotto inchiesta per false fatturazioni. 

Si tratta di Urbano Cairo, attuale amministratore delegato della Mondadori pubblicità, giovane ed emergente manager del gruppo del Biscione, che, senza dire una parola, ma rilassato e sorridente, esce alle 14 dalla stanza dell'interrogatorio, cominciato tre ore prima dai pm Gherardo Colombo e Francesco Greco».

Va detto, per amor di cronaca, che nel tomo si ricordano anche le inchieste sulla Fiat e Cesare Romiti. In quel caso non si indagò proprio. 

I trent'anni di Mani Pulite. "De Benedetti sapeva già tutto pochi mesi prima". Stefano Zurlo il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria.

Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria. «Nella primavera del 1991 - è il racconto al Giornale del politico democristiano, allora ministro del Bilancio nel governo Andreotti - venne a trovarmi Carlo De Benedetti con cui avevo un rapporto di amicizia, anche se la pensavamo in modo diverso. In pratica mi spiegò che con altri imprenditori legati al «salotto buono» di Enrico Cuccia voleva modificare gli assetti politici del Paese e spostarli verso i post-comunisti che al congresso di Rimini, in febbraio, avevano fondato il Pds e si erano convertiti a posizioni riformiste».

Insomma, l'establishment italiano aveva annusato l'aria e aveva intuito, o sapeva, che il vento stava cambiando e si stava preparando una nuova stagione. Non era ancora Mani pulite, ma certo con la caduta del Muro gli equilibri nati nel 1945 erano saltati e l'epoca del bipartitismo imperfetto, la Dc al potere e il Pci all'opposizione, era arrivata ai titoli di coda.

Servivano schemi diversi e combinazioni inedite e il gotha dell'industria tricolore aveva fatto le sue scelte, sposando la sinistra.

È esattamente quel che Cirino Pomicino ha narrato a Simone Spetia per il podcast di Radio 24 Monetine, confezionato per l'anniversario di Mani pulite. «Parlare di golpe sarebbe una fregnaccia», mette le mani avanti il neurologo da sempre nel Palazzo - piuttosto direi che De Benedetti voleva cavalcare quei rivolgimenti e dunque mi lanciò l'idea: Fai il mio ministro. Fai tu il nostro industriale replicai capovolgendo la frittata e chiamando in causa anche Andreotti. Insomma, la questione finì sul ridere, ma De Benedetti capì che non condividevo quel progetto».

Cirino Pomicino aveva già accennato a questa vicenda nei suoi scritti, ma ora si sofferma su quelle settimane cruciali che portarono al tramonto della Prima Repubblica: «Io condussi le mie verifiche e scoprii che la trama c'era ed era molto articolata. Dunque, preoccupato e inquieto, informai i capi della Dc ma ho sempre avuto il privilegio di non essere creduto e la cosa finì lì».

Insomma, la Dc e il governo scivolarono verso il baratro senza prendere alcuna contromisura, impreparati all'appuntamento con la storia e a quello ancora più drammatico con la cronaca giudiziaria.

«A dicembre '90 la corrente andreottiana si era riunita e in quel convegno c'erano state presenze importanti, a cominciare dallo stesso De Benedetti, dal Presidente di Confindustria Sergio Pininfarina e da imprenditori del calibro di Giorgio Falck. Sembrava che tutto filasse per il meglio, ma era solo un abbaglio. A settembre '91, al Forum Ambrosetti di Cernobbio, mi accorsi che il clima era completamente cambiato. I cosiddetti poteri forti ci avevano abbandonato, i grandi giornali, dal Corriere alla Repubblica, iniziarono a criticarci pesantemente, e mi avvidi che la Dc e il pentapartito avevano perso la sintonia con le classi dirigenti del Paese».

Un altro campanello d'allarme, pochi mesi prima dell'avvio della grande inchiesta condotta da Antonio Di Pietro. Il 17 febbraio 1992 finisce in manette Mario Chiesa, il potente presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio e il vecchio sistema di potere comincia a sfaldarsi. Molti leader assistono sbigottiti e increduli all'escalation delle manette e immaginano complotti e macchinazioni, magari orchestrate da potenze straniere; intanto la procura guidata da Francesco Saverio Borelli falcia i big socialisti e democristiani che cadono come birilli uno dopo l'altro. «A giugno '92, con Amato a Palazzo Chigi - prosegue l'ex deputato napoletano, autore di numerosi libri - Gerardo Chiaromonte, uno dei pezzi da novanta della nomenklatura rossa, mi fece sapere riservatamente che il Pds aveva scelto la via giudiziaria per andare al potere. E so che la stessa comunicazione arrivò al leader liberale Renato Altissimo. Cosa questo significasse in concreto non me lo chiarì, ma certe anomalie sono evidenti anche oggi, a distanza di tanto tempo e, in parte, restano inspiegabili: il Pds e la sinistra democristiana, insomma i soggetti che poi formarono l'Ulivo, schivarono miracolosamente la tempesta. Solo non avevano calcolato tale Silvio Berlusconi. Ma quella è un'altra storia». Stefano Zurlo

Pomicino su Mani Pulite: "Non fu golpe giudiziario ma disegno politico. De Benedetti ebbe un ruolo". Rec News dir. Zaira Bartucca il 15 febbraio 2022.

Le dichiarazioni del politico sul filone di inchieste che scompaginò gli assetti e travolse i partiti.

A trent’anni da Mani Pulite, Paolo Cirino Pomicino: “Non fu golpe giudiziario ma disegno politico”. “Definirlo solo un golpe giudiziario è una fregnaccia”. “Sapevo già tutto dal 1991, Carlo De Benedetti mi parlò del suo disegno politico”. “Avvertii i miei riferimenti nazionali ma non fui mai ascoltato”. Così Paolo Cirino Pomicino a “Monetine – cinque storie di Mani Pulite”, il podcast di Simone Spezia su Radio 24 che racconta dal suo punto di vista Mani Pulite e quello che accadde nel 1992.

Alla domanda “Ma nel 1992 aveva capito che stava per succedere qualcosa di enorme?” Pomicino risponde: “Mi avevano avvertito da un anno prima di quello che sarebbe successo perché nel 1991, in primavera, venne da me Carlo De Benedetti per dirmi che stava preparando un disegno politico, insieme ad altri imprenditori, per modificare l’assetto politico del paese. Io dissi, ironicamente, che mi stava spiazzando, dicendogli che con Andreotti stavamo pensando a un progetto industriale e gli volevo chiedere, sempre ironicamente, se volesse essere il nostro imprenditore. La portai sullo scherzo sottolineando il primato della politica, ma nella verità De Benedetti si convinse che non ero d’accordo con il suo disegno. Avvertii i miei riferimenti nazionali di questa cosa ma non fui mai ascoltato. Non lo definisco golpe giudiziario ma disegno politico. Definirlo solo golpe giudiziario è una fregnaccia”.

30 anni di Mani Pulite, dall’arresto di Chiesa alla scoperta del sistema. il racconto di Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo al Fatto. Il Fatto quotidiano il 17 febbraio 2022.

Sono passati 30 anni quando Antonio Di Pietro ha arrestato Mario Chiesa. Era il 17 febbraio 1992: allora iniziò l’inchiesta giudiziaria che ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana: Mani pulite. Mario Chiesa finisce in carcere per aver intascato una mazzetta, dopo pochi giorni inizia a collaborare e l’inchiesta ha una svolta. Chiesa, socialista vicinissimo a Craxi, scaricato dal partito, chiama in causa alcuni imprenditori e tutti gli imprenditori improvvisamente collaborano.

“In realtà c’erano delle altre cose, la prima è che Chiesa all’inizio non parla – spiega Piercamillo Davigo -. Decide di parlare per due fattori. Secondo me. Il primo fattore riguarda la sua causa di separazione. Di Pietro era venuto a conoscenza dell’esistenza in Svizzera di due conti intestati al nome di acque minerali. E aveva fatto una rogatoria credo ottenendo il sequestro delle somme. Aveva detto all’avvocato di Chiesa: dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita. L’avvocato disse che non capiva, Di Pietro rispose capirà lui. E la seconda cosa fu che Craxi, il segretario del Partito Socialista cui apparteneva la Chiesa, disse che lui si trovava nei guai per colpa di un isolato mariuolo e che in 50 anni nessun amministratore del suo partito nella città di Milano era mai stato condannato con sentenza definitiva per reati contro la pubblica amministrazione”.

E questo, secondo il racconto dell’ex magistrato, è un passo falso da parte di Craxi: “Chiesa l’ha presa come l’essere scaricato e isolato. Pochissimo tempo dopo, il 3 luglio, Craxi alla Camera pronuncia un famoso discorso in cui dice che fin da quando sono ragazzino che so che si fanno queste cose ecc. il sistema di finanziamento della politica è in larga misura irregolare o illegale eccetera eccetera”.

Ma perché gli imprenditori iniziano a parlare proprio nel 92? Perché non prima? “Fino a quel momento – spiega Davigo – gli imprenditori erano riusciti tranquillamente a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, attraverso la revisione e le varianti in corso d’opera o le revisioni dei prezzi, i costi che c’erano. Nel 92, anzi forse già nel 91, c’era stata una stretta di bilancio imposta dal governo. Ovviamente la stretta di bilancio serviva a impedire la traslazione dei costi delle tangenti sulla Pubblica Amministrazione, quindi improvvisamente questi costi andavano a incidere non più sul costo delle opere ma sul profitto degli imprenditori i quali hanno cominciato a sentirsi concussi. La concussione quando uno è costretto o indotto a pagare in una situazione di inferiorità rispetto al pubblico ufficiale”.

A Piercamillo Davigo fa eco un altro ex magistrato, componente del pool di Mani Pulite, Gherardo Colombo: “Adesso la vulgata, il senso collettivo di questa roba qua è che Mani pulite è stata una specie di invenzione, che la corruzione non c’era, e che abbiamo messo in prigione le persone per fare un colpo di Stato e addirittura se chiediamo che sia accertato che quel che si dice in proposito non è vero da parte delle autorità giudiziarie ormai il diritto di critica copre praticamente tutto…”. Poi, conclude raccontando il sistema: “Sulla sanità lombarda abbiamo trovato proprio lo schema di distribuzione degli appalti con le percentuali per ciascuna impresa, riferite a ciascun ospedale. Io credo che alla fine noi siamo arrivati a 700 rogatorie internazionali rivolte a una trentina di paesi, sopratutto alla Svizzera, tutte indirizzate a ottenere conti correnti bancari o documentazione societaria. Ogni volta che ci arrivava una risposta erano decine e decine di corruzioni in più che noi scoprivamo… e invece adesso c’è questa credenza popolare secondo cui ci siamo inventati tutto…”

Caso Calvi, ecco i segreti della polizia di Londra svelati quarant'anni dopo. Alessandra Zavatta su Il Tempo il 17 giugno 2022.

"È alle 7,50 di venerdì 18 giugno quando un passante sul marciapiede sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra, si è sporto dal parapetto e ha visto un corpo appeso per il collo con un nodo di corda agganciato all’impalcatura che era stata eretta sul letto del fiume la prima notizia di polizia di Mister Calvi". Inizia così la lettera inviata da John Goddard del Ministero dell’Interno di Sua Maestà a R. Osborne del Foreign Office. Una lettera spedita il 16 luglio 1982 e che fa parte dei fascicoli di documenti riservati, secretati, confidenziali che a quarant’anni dal delitto la Gran Bretagna ha trasferito all’Archivio di Stato. Documenti che "Il Tempo" è ora in grado di mostrare in esclusiva. Molte delle carte sulla morte di Roberto Calvi, l’ex presidente del Banco Ambrosiano, sono ora Storia. La missiva del ministero dell’Interno riepiloga i primi concitati momentidelle indagini: "L’impalcatura è stata eretta dalla Metropolitan Waterloo Board e la corda non è stata lasciata lì dagli operai. L’origine è al momento sconosciuta. La posizione dell’impalcatura è tale che è quasi interamente coperta con l’alta marea mentre il letto del fiume in quel punto è in secca con la bassa marea". Ne consegue, perciò, che "Roberto Calvi potrebbe aver raggiunto la posizione in cui è stato trovato sia arrampicandosi sul ponteggio (c’è una scala di ferro fissata proprio in questo punto), sia arrivando dal letto del fiume, sebbene questo avrebbe probabilmente significato la discesa dalla stessa scala, oppure da una barca». «Non c’è nessuna evidenza che indichi quale di queste tre possibilità raccordi con i fatti", conclude il ministero dell’Interno.  

Quando il Banchiere di Dio viene ritrovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri sono trascorsi sette giorni da quando è scomparso dalla propria abitazione, a Roma. È appena stato condannato in primo grado per reati valutari a quattro anni di reclusione e 15 miliardi di lire di multa, è in attesa dell’appello e non può lasciare l’Italia perché ha il divieto di espatrio. Ma a Londra ci arriva lo stesso. Con un passaporto falso intestato a Gian Roberto Calvini, come accerteranno gli investigatori della polizia della City of London che si occupa delle indagini che riguardano crimini avvenuti nella Cittadella degli Affari. 

Ma come fa la polizia a sapere che c’è un cadavere sotto al ponte? Viene chiamata da Stephen Edwin Pullen, un impiegato del Daily Express dopo che il collega Antony Iames Huntley arriva sconvolto in ufficio raccontando della macabra scena che ha visto camminando lungo la banchina del Tamigi. Pullen e Huntley ritornano sul posto, con gli agenti John Palmer e Gerald Saint, che redigono così il primo verbale. Quello che descrive il corpo senza vita di uomo appeso per il collo con una corda arancione fissata alla seconda barra dell’impalcatura, con i piedi e parte delle gambe nell’acqua perché in quel momento la marea è alta. La foce del Tamigi, ad estuario, fa sì che il livello del fiume risenta delle maree. "Il corpo è stato rimosso dalla polizia fluviale e posto sul Waterloo Pier - scrive Goddard a Osborne - La morte è dovuta ad asfissia per strangolamento e non ci sono apparenti ferite esterne tranne il segno della corda sul collo e alcune abrasioni minori sulle gambe. È stimato che la morte sia occorsa tra 8 e 12 ore prima che il corpo venisse trovato". Ed ecco come i funzionari del ministero britannico descrivono il ritrovamento del misterioso impiccato al Blackfriars Bridge: "Sul corpo sono stati rinvenuti tre pezzi di pietra e mezzo mattone. Due pezzi sono stati forzati nelle tasche dei pantaloni provocando la rottura delle cuciture, e altri due pezzi erano davanti alle mutande". Nella giacca vari appunti, 7.500 sterline e il passaporto che "apparirebbe essere il suo ma che sembra essere stato alterato per trasformare il nome in Gian Roberto Calvini". La ricostruzione di come il presidente dell’Ambrosiano sparisce da Roma e riappare, morto, a Londra viene spiegata così dai britannici: "Calvi è arrivato in questo paese con un uomo di nome Silvano Vittor, impiegato come guardia del corpo. Il viaggio è stato organizzato da Flavio Carboni, che ha anche organizzato per i due uomini una sistemazione in un appartamento del Chelsea Cloisters. Sconvolto dallo scadente standard della sistemazione, Calvi chiese che Flavio viaggiasse immediatamente in Inghilterra per organizzare un migliore alloggio". E Carboni volò a Londra. "Giovedì 17 giugno - riportano gli inquirenti londinesi - Flavio e Silvano uscirono per cena lasciando Calvi nell’appartamento". Il banchiere, che in Inghiltera era sbarcato il 15 giugno alle 17,45 con un volo privato giunto dalla Svizzera, rifiutò di lasciare l’albergo perché spaventato da qualcuno». E quando Vittor tornò a tarda sera "trovò che Calvi era scomparso e affermò di non averlo più visto".

Per gli investigatori di Londra fin da subito «non c’è nessuna evidenza che suggerisce qualcosa di diverso da un caso di suicidio». Gli inquirenti romani propendono invece per l’omicidio. Le indagini porteranno alla luce un complicato intreccio di finanziamenti operati dall’Ambrosiano, collegamenti con lo Ior, la banca del Vaticano, oltre al riciclaggio di soldi della criminalità organizzata e sovvenzioni a Solidarnosc, il sindacato polacco che diede la prima spallata che disintegrò l’Unione Sovietica. Il 17 ottobre 2013 il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone archivierà il procedimento a carico di Flavio Carboni, Licio Gelli, il capo della Loggia P2 (a cui Calvi era iscritto) e degli altri quattro indagati perché "gli elementi probatori di cui si dispone non hanno assunto il valore di prove certe". Nel frattempo Vincenzo Casillo, indicato da cinque pentiti di mafia come l’esecutore materiale del delitto, era già morto. 

La verità su Tangentopoli: ecco i verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Le confessioni di Chiesa, il primo arrestato. Le rivelazioni di Larini, il tesoriere del Psi di Craxi e Martelli. La maxicorruzione Enimont. Le tangenti rosse di Primo Greganti. Le ammissioni di Romiti, De Benedetti, Scaroni. I fondi segreti di Pacini Battaglia. Le buste di denaro da Pomicino a Salvo Lima. I soldi della Montedison alla Lega. Le mazzette Fininvest mentre Berlusconi è al governo. Tutta l’inchiesta Mani Pulite raccontata dai protagonisti: 15 big della politica e dell’economia che spiegano ai magistrati «il sistema». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 Febbraio 2022.

Trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, un arresto a Milano ha fatto partire un'inchiesta giudiziaria, chiamata Mani Pulite, che ha cambiato la storia del nostro Paese. In meno di tre anni quell'indagine ha fatto emergere migliaia di casi di corruzione, svelando un sistema organizzato, gerarchico, diffuso da decenni a tutti i livelli, di saccheggio delle risorse pubbliche. Tra gli oltre 1200 condannati per tangenti e fondi neri ci sono i più importanti imprenditori dell'epoca e tutti i leader e tesorieri dei partiti che hanno governato l’Italia per quasi mezzo secolo, tutti liquidati con le elezioni del 1994 e la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Da allora la corruzione è cambiata, ma non è certo finita. E non si mai fermate le polemiche, contrapposizioni e riletture di quel periodo di svolta storica, in un'Italia che sembra ancora spaccata in due, pro o contro Mani Pulite.

Per dare ai lettori la possibilità di capire direttamente, senza filtri o mediazioni, cosa è stata Tangentopoli (un fortunato neologismo coniato da un cronista giudiziario di Repubblica, Piero Colaprico) abbiamo deciso di pubblicare i verbali integrali dei protagonisti: il sistema della corruzione raccontato dai big della politica e dell'economia che ne hanno fatto parte o l'hanno dovuto subire. Sono gli interrogatori e i memoriali che hanno svelato la storia segreta del potere in Italia. Le confessioni del primo arrestato, Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, che mettono in moto la valanga giudiziaria. Le ammissioni di Gianstefano Frigerio, il tesoriere della Dc lombarda, poi diventato parlamentare di Forza Italia, dopo tre condanne, e riarrestato nel 2014 per le tangenti dell'Expo. Le rivelazioni di Silvano Larini, il tesoriere del Psi che portava le buste di contanti a Bettino Craxi e ha prestato il suo conto svizzero per incassare i soldi della P2: 7 milioni di dollari versati dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, con la regia di Licio Gelli e dell'ex ministro Claudio Martelli.

E ancora, le tangenti rosse di Primo Greganti, il «compagno G», l'ex funzionario comunista che incassava all'estero i bonifici della Calcestruzzi, la società di costruzioni del gruppo Ferruzzi, confessate dal manager Lorenzo Panzavolta. L'interrogatorio cruciale di Pierfrancesco Pacini Battaglia, il banchiere segreto dell'Eni, che ammette di aver mandato dalla Svizzera in Italia almeno 50 miliardi di lire (25 milioni di euro), consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e in parte minore della Dc.

All'aprile 1993, l'anno delle indagini sulle grandi aziende pubbliche e private, risale il memoriale di Cesare Romiti, con l'ammissione che anche i manager di sei società del gruppo Fiat «non hanno potuto resistere» e hanno dovuto accettare «un sistema altamente inquinato» di finanziamenti illeciti ai partiti di governo. In maggio arriva la confessione di Carlo De Benedetti che diverse società del gruppo Olivetti, osteggiate da «un regime politico prevaricatore», hanno dovuto versare, «a partire dal 1987», circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri. E poi ci sono le ammissioni di moltissimi altri capitani d’azienda, come il super manager Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan, che negli anni di Tangentopoli guidava la Techint e raccoglieva anche da altre imprese i soldi che lui stesso poi consegnava ai tesorieri socialisti, per ottenere appalti per le centrali a carbone dell'Enel, di cui poi è diventato il numero uno.

Al processo simbolo di Mani Pulite si arriva con gli interrogatori per la maxitangente Enimont, con tutti i nomi dei politici che si sono spartiti oltre 150 miliardi di lire: segreti rivelati dal cervello finanziario del gruppo Ferruzzi-Montedison, Giuseppe Garofano, dopo i suicidi Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e di Raul Gardini, che aveva guidato per anni il colosso chimico privato. Tra i politici, spicca il verbale di Paolo Cirino Pomicino, ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, che nel novembre 1993 confessa di aver intascato più di cinque miliardi di lire in titoli di Stato, consegnatigli «in tre buste» da Luigi Bisignani, che li aveva riciclati allo Ior, la banca del Vaticano. Davanti al pm Antonio Di Pietro, l'allora parlamentare spiega di aver usato quei soldi per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente andreottiana, precisando di aver girato un miliardo e mezzo a Salvo Lima, il politico siciliano colluso con la mafia (secondo numerose sentenze) che fu ucciso dai killer di Cosa Nostra dopo la conferma in Cassazione delle condanne del primo maxiprocesso.

Tra le sorprese politiche, c'è il verbale del tesoriere della Lega, Alessandro Patelli, che nel dicembre 1993 viene arrestato e confessa di aver incassato una tangente di 200 milioni di lire, già ammessa dai manager della Montedison. Umberto Bossi, fondatore e segretario del partito, nega di aver saputo, ma il 20 dicembre consegna alla procura un assegno con il rimborso integrale del finanziamento illecito.

Il capitolo finale di Mani Pulite è l'indagine sulla corruzione per evadere le tasse, che coinvolge anche la Fininvest di Silvio Berlusconi, capo del governo in carica. Nel luglio 1994 il manager Salvatore Sciascia ammette che tre società del gruppo hanno versato tangenti a diversi militari della Guardia di Finanza, che lo hanno già confessato. Sciascia dichiara che a dare l'autorizzazione e a fornire i fondi neri era Paolo Berlusconi, mentre il fratello Silvio non ne sapeva nulla. Condannato in primo grado, il leader di Forza Italia ottiene la prescrizione in appello e una trionfale assoluzione in Cassazione, che conferma solo le condanne dei manager, compreso Sciascia, poi diventato parlamentare.

Il sipario su Mani Pulite si chiude il 6 dicembre 1994, quando il pm Antonio Di Pietro, simbolo e motore delle indagini, lascia la procura all'improvviso, dopo la requisitoria del processo Enimont, proprio alla vigilia dell'interrogatorio di Berlusconi. Che una settimana dopo, interrogato nell’ufficio del procuratore Borrelli, polemizza con i magistrati: «E voi per una cosa del genere indagate il capo del governo? Ma vi rendete conto del danno all’Italia?». Lasciata la magistratura, nel 1995 Di Pietro viene indagato e poi assolto a Brescia.

Attenzione: tutti i documenti che pubblichiamo negli altri articoli di questo sito sono verbali d'interrogatorio, non sentenze di condanna. Hanno valore di prova solo nelle parti in cui l'indagato confessa i propri reati. Tutte le altre persone chiamate in causa per ipotetiche accuse, invece, vanno considerate innocenti, fino a prova contraria, perché nei successivi processi potrebbero aver dimostrato la propria estraneità o essere stati prosciolte per prescrizione, amnistia o altre ragioni. Gli interessati possono inviare commenti, repliche o precisazioni a L'Espresso (all'indirizzo p.biondani [chiocciola] espressoedit.it), che le pubblicherà integralmente su questo stesso sito, all'interno dell'articolo in questione. Abbiamo deciso di pubblicare integralmente questi quindici verbali di Mani Pulite perché sono documenti di interesse pubblico e di importanza storica, che riguardano problemi ancora attuali: contengono le ricostruzioni del sistema della corruzione fornite direttamente dai protagonisti, da personaggi che hanno segnato la vita politica ed economica del nostro Paese e che durante le indagini, assistiti dai loro avvocati di fiducia, si sono assunti la responsabilità di deporre davanti alla magistratura, ripetendo più volte di voler dire tutta la verità.

Gianstefano Frigerio, il tesoriere nero della Dc lombarda: condannato, diventato onorevole di Forza Italia e riarrestato. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.

Milano, 17 febbraio 1992: il presidente del Pio Albergo Trivulzio viene ammanettato mentre intasca una mazzetta. A fine marzo, ammette vent’anni di corruzioni. Ecco l’atto d’inizio di Tangentopoli

L'inchiesta Mani Pulite inizia trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, con un arresto in flagranza. Quel pomeriggio a Milano i carabinieri ammanettano un dirigente pubblico di nomina politica, il socialista Mario Chiesa, nel suo ufficio di presidente dello storico ospizio Pio Albergo Trivulzio. L’ingegner Chiesa ha appena intascato sette milioni di lire in contanti, pari a 3500 euro.

Le rivelazioni di Larini: le buste di soldi per Bettino Craxi, i 7 milioni della P2 gestiti da Martelli. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

L’architetto socialista ammette di aver prestato il suo «Conto Protezione» per incassare in Svizzera le tangenti pagate dal banchiere Calvi con la regia di Licio Gelli. Ecco l’accusa che nel febbraio 1993 fa dimettere l’allora ministro della giustizia. Silvano Larini, architetto e faccendiere socialista, è stato per anni uno degli amici più fidati di Bettino Craxi. Nel febbraio 1993, indagato e ricercato come collettore delle tangenti del metrò di Milano, si costituisce dopo una latitanza all'estero e confessa ai magistrati di Milano quindici anni di tangenti.

In questo storico verbale di Mani Pulite, Larini spiega di aver avuto da Craxi in persona (e dal suo padrino politico, il defunto parlamentare milanese Antonio Natali) l’incarico di «incassare per il Psi il denaro versato dalle imprese per gli appalti della metropolitana (...)

Quando gli Stati Uniti scaricarono Bettino Craxi. L'incontro tra il presidente Bush e Falcone a Roma. E il colloquio segreto tra Cuccia e il leader Psi. Così, tra il 1989 e il 1990, si preparò la fine della Prima Repubblica. Fabio Martini su L'Espresso l'8 gennaio 2020.

Bettino Craxi Anticipiamo in queste pagine uno stralcio del nuovo libro di Fabio Martini “Controvento. La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino editore, in uscita il 9 gennaio, in occasione del ventesimo anniversario della morte del leader socialista, avvenuta il 19 gennaio 2000 nella sua casa di Hammamet, in Tunisia.

Quel saggio su Proudhon con cui Bettino Craxi segnò la storia della sinistra in Italia. Nell’agosto del 1978 il segretario del Psi pubblicava sull'Espresso il "vangelo" del suo socialismo. Uno spartiacque per ?la sinistra di ieri. Un modello ?per gli aspiranti leader di oggi? Marco Damilano su L'Espresso il 30 agosto 2018.

Bettino Craxi Il Vangelo socialista, lo titolò il direttore dell’Espresso Livio Zanetti, con malizia, perché dopo tanto girovagare il popolo socialista aveva finalmente trovato il suo messia: una buona novella, soprattutto per lui, l’autore del testo, il segretario del Psi Bettino Craxi. 

«Un baedeker ideologico e un argomento di discussione», si leggeva nel sommario, «il segnale d’avvio di un’offensiva destinata a tenere alta la temperatura tra il Pci e il Psi per molte settimane», precisava nell’introduzione Paolo Mieli, giornalista del settimanale di via Po, come ci chiamavano all’epoca sugli altri giornali, ma alla fine il saggio firmato da Craxi si rivelò molto di più.

Hammamet, un grande Pierfrancesco Favino per un piccolo film. Superba la prova dell’attore che interpreta Bettino Craxi. Ma il resto lascia a desiderare. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 14 gennaio 2022.

Il vecchio carroarmato è arenato nella sabbia africana dai tempi dell’ultima guerra. Imponente ma inoffensivo, trasmette una hybris luciferina e insieme una solitudine definitiva, minerale. Insomma è la perfetta metafora di quell’uomo malato e costretto all’autoesilio, un esilio che molti chiamano fuga. Così, davanti a quel residuato bellico il Presidente (nel film Craxi resta innominato) decide di parlare.

Il tesoriere della Lega confessa la tangente Montedison. E Umberto Bossi risarcisce la Procura. Paolo  Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

Nel 1993 il Carroccio vince le elezioni a Milano attaccando «Roma ladrona», ma in dicembre finisce in carcere Alessandro Patelli, che ammette di aver ricevuto 200 milioni di lire dal gruppo chimico. Il senatur nega di aver saputo, ma viene condannato in tutti i gradi del processo Enimont insieme ai big dei vecchi partiti

Dopo i primi boom di voti alle regionali del 1990 (oltre il 18 per cento in Lombardia) e alle elezioni politiche del 1992 (8,7 a livello nazionale) la Lega Nord nel giugno 1993 conquista il Comune di Milano. Il partito fondato da Umberto Bossi cavalca le indagini di Mani Pulite con una dura campagna contro la corruzione e i vecchi partiti di «Roma ladrona» che tartassano il Nord produttivo. 

L’ex ministro dell’ultimo governo Andreotti, dopo le confessioni dei dirigenti ammette di aver ricevuto tre buste di fondi neri riciclati in Vaticano. E spiega di averli usati per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente, dalla Campania alla Sicilia, Puglia, Toscana e Veneto

Paolo Cirino Pomicino, parlamentare democristiano dal 1976 al 1994 e ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, ha superato da tempo la bufera di Tangentopoli: è stato parlamentare europeo fino al 2006 e tuttora viene intervistato da giornali e televisioni come un grande saggio della politica italiana. Pochi ricordano che a Milano ha dovuto patteggiare una storica condanna per lo scandalo Enimont: della maxitangente pagata dalla Montedison, ha incassato più soldi lui di tutta la Dc.

Carlo De Benedetti: «L’Olivetti costretta a piegarsi ai ricatti dei politici, mi assumo la responsabilità». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

L’industriale ed editore consegna al pm Di Pietro, nel maggio 1993, una memoria con l’ammissione che il suo gruppo ha dovuto versare circa 20 miliardi di lire dal 1987 “al regime prevaricatore dei partiti”. «I ministri perseguitavano l’azienda».

Tra l'autunno 1992 e la primavera 1993 anche il gruppo Olivetti entra nelle indagini di Tangentopoli, prima per le forniture di alcune società controllate alle aziende pubbliche dei trasporti, poi per gli appalti del ministero delle Poste. Domenica 16 maggio 1993 Carlo De Benedetti consegna personalmente ai pm Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Paolo Ielo, nella caserma di via Moscova dei carabinieri di Milano, un memoriale di undici pagine, con l’ammissione che diverse società del suo gruppo hanno versato, «a partire dal 1987», finanziamenti illeciti per circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri.

Silvio mi disse: sono più forte di Craxi. L'Espresso il 19 gennaio 2012.

"Nel '90 Berlusconi aveva cominciato a maturare l'idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. "Sai", mi disse, "se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie tv, lo faccio fuori in cinque minuti"".

L’INIZIO. LA STORIA. Mani Pulite e Tangentopoli: cosa sono state e perché non hanno cambiato niente. anni '90 archivio storico Mani pulite (comunemente nota anche come tangentopoli) è il nome giornalistico dato ad una serie d'inchieste giudiziarie, condotte in Italia nella prima metà degli anni novanta da parte di varie procure giudiziarie, che rivelarono un sistema fraudolento ovvero corrotto che coinvolgeva in maniera collusa la politica e l'imprenditoria italiana. nella foto: Tangentopoli. Busta n° 6241. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 16 febbraio 2022

Prima dello scoppio della più grande inchiesta di corruzione della storia recente, l’Italia era un paese in crisi e con una classe politica distante e disprezzata: trent’anni e migliaia di arresti dopo, la situazione non sembra essere cambiata.

Sono passati esattamente 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite e Tangentopoli, lo scandalo giudiziario che ha segnato un’epoca, tra gli eventi più importanti tra quelli che hanno contribuito a creare l’Italia di oggi.

Tangentopoli fu l’insieme di inchieste della magistratura che tra 1992 e 1994 scoperchiò un vasto sistema organizzato di corruzione utilizzata da tutti i partiti per finanziare le loro attività e, in molti casi, per arricchire singoli politici e dirigenti.

Mani Pulite è il nome della prima è più vasta di queste inchieste, quella condotta dal gruppo di magistrati di Milano di cui facevano parte nomi entrati nella storia italiana: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombro, Ilda Boccassinni, il procuratore Francesco Saverio Borrelli. Altre inchieste furono condotte in tutte il paese, coinvolgendo centinaia di politici e imprenditori. Tra il 1992 e il 1996, ci furono una media di duemila persone indagate per corruzione, concussione o altri reati cosiddetti “contro i doveri d’ufficio” ogni anno. Cifre mai raggiunte in precedenza e mai più raggiunte negli anni successivi.

Tangentopoli portò al crollo degli storici partiti che avevano guidato la Prima repubblica, ma non generò una moralizzazione della vita italiana. I problemi alla radice della corruzione e della generale percepita immoralità della vita pubblica non sono cambiati.

La scomparsa dei grandi partiti ha messo fine al finanziamento illecito organizzato, ma il nostro paese rimane uno dei più corrotti dell’Europa occidentale secondo tutti i principali indicatori, anche se in forme e modi diversi rispetto al passato.

L’eredità stessa di Tangentopoli e dell’azione dei magistrati è divenuta controversa. I metodi di indagine che in certi casi hanno superato il confine delle garanzie per gli indagati, lo stretto rapporto creato dai magistrati con la stampa, sono diventati l’elemento centrale in un processo di “revisionismo” ancora in atto. 

MANI PULITE

L’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo di Tagentopoli iniziano il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, politico socialista di seconda fila e presidente della più grande struttura di cura e ricovero degli anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio.

Chiesa viene arrestato da Antonio Di Pietro, quello che sarebbe divenuto il più carismatico e popolare dei magistrati del “pool” di Mani Pulite, mentre riceveva una tangente da un imprenditore. Durante l’arresto, Chiesa si liberò di un’altra tangente che teneva nel cassetto gettandola nello scarico del water (il racconto sullo scarico bloccato e la fuoriuscita di liquami, per quanto suggestivo, è probabilmente apocrifo e Chiesa nega di aver gettato qualsiasi cosa nel gabinetto).

Da quel momento gli arresti si susseguirono uno dopo l’altro. Come in un gigantesco domino, ogni indagato conduce ad altri indagati. Gli imprenditori denunciano i colleghi che hanno pagato insieme a loro tangenti per ottenere appalti pubblici. I politici di seconda fila coinvolti si affrettano a denunciare i superiori non appena questi accennano a scaricarli.

In breve diviene chiaro che i magistrati non avevano di fronte numerosi casi di corruzione slegati l’uno dall’altro, ma un sistema strutturato e preciso, in cui per vincere appalti o realizzare opere pubbliche era necessario pagare tangenti, attentamente calcolate sull’importo totale dei lavori.

Queste tangenti venivano poi redistribuite a tutti i partiti. A Milano, il 50 per cento di quanto raccolto spettava al Partito socialista italiano (il Psi), fortissimo in città, il 20 per cento alla Dc, il 20 per cento al Pds (partito erede del Pci) e il resto ai partiti minori.

Inizialmente, i leader nazionali e locali parlano di poche mele marce. Bettino Craxi, il potente e carismatico leader del Psi, dice che il suo partito era vittima del cattivo comportamento di «pochi mariuoli». Ma le inchieste stavano rapidamente assumendo una dimensione che era impossibile trascurare.

Erano ormai decenni che la corruzione della classe politica veniva data per scontata, così come veniva dato per scontato che i politici non pagassero mai. Le indagini stavano dando la stura a un sentimento diffuso.

Alle elezioni politiche dell’aprile 1992, a meno di due mesi dall’inizio dell’inchiesta, i partiti tradizionali subirono un tracollo di fronte all’ascesa della Rete, movimento del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e la Lega Nord di Umberto Bossi, che a Milano divenne il primo partito.

LE POLEMICHE

I magistrati di Mani Pulite vengono accolti come eroi da un’opinione pubblica non solo stanca di corruzione e soprusi, ma che all’inizio degli anni Novanta, per la prima volta da molto tempo, sente venire a mancare la spinta verso la crescita che c’era stata fino a quel momento. L’Italia è entrata in quel lungo trentennio di stagnazione che dura ancora oggi. Molti italiani hanno la sensazione che non solo la classe politica è corrotta, ma che ha anche smesso di fare il suo lavoro.

Di Pietro diventa uno dei personaggi più popolari del paese. Si organizzazione manifestazioni e fiaccolate di solidarietà con il pool. A Milano, sui muri compaiono graffiti con scritto “Grazie Di Pietro”. I media si accodano. Le procure sono presidiate dagli inviati della cronaca giudiziaria, dai fotografi e dalle telecamere. L’arrivo di un nuovo arrestato, la notizia di un nuovo inquisito vengono accolto da torme di giornalisti che fanno a gara per seguire l’inchiesta. 

Anche se gran parte dell’opinione pubblica e dei media è dalla parte dei magistrati, non mancano le voci critiche. Craxi è il più deciso e fermo oppositore del pool, mentre la Dc appare più timorosa. «Non è tutto oro quel che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite», scrive Craxi ad Agosto sul suo giornale di partito, l’Avanti.

Per Craxi e un gruppo di opinionisti e intellettuali, ristretto, ma capace di far sentire la sua voce, le azioni del pool sono frutto di un disegno politico. Un modo di eliminare per via giudiziaria avversari politici, al quale collaborano insieme forze di estrema destra e sinistra, forse persino col beneplacito degli Stati Uniti, a cui non piacerebbe l’atteggiamento troppo indipendente di Craxi. 

Le critiche colpiscono anche i metodi dei magistrati. Le inchieste procedono veloci e di allargano a macchia d’olio perché gli indagati confessano a decine. E quasi tutti i protagonisti ammetteranno di aver confessato perché terrorizzati dal carcere. I magistrati fanno ampio uso della carcerazione preventiva. Centinaia di persone, spesso anziani, quasi tutti ricchi e potenti e abituati a comandare, si ritrovano arrestati, a volte di sorpresa e in piena notte, condotti fuori di casa o in tribunale circondati da fotografi e giornalisti, sottoposti alla rituale umiliazione della camminata in manette in mezzo a due ali di folla. Poi finiscono sbattuti nelle stanze anguste delle carceri, con compagni di cella che a loro sembrano alieni. Lo shock è enorme e quasi tutti parlano.

Alcuni, invece, non reggono alla prospettiva di passare attraverso tutto questo. Il 17 giugno si uccide Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Era stato interrogato da Di Pietro il giorno prima. Il 2 settembre si uccide il deputato socialista Sergio Moroni, molto vicino al leader socialista. «Hanno creato un clima infame», commenterà Craxi all’uscita dalla camera ardente.

IL FINALE

Tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, le inchieste continuano ad allargarsi e altre procure in tutta Italia seguono le orme del pool di Mani Pulite. I magistrati iniziano a puntare ai leader di partito. Il sistema capillare di corruzione e finanziamento dei partiti, sostengono, non può essersi svolto all’insaputa di segretari e presidenti. 

E tra loro, il bersaglio numero uno è lui: Craxi. Il politico più influente del paese, la figura carismatica che ha preso il mantello della difesa della classe. Il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore dell’Indipendente ed entusiasta sostenitore del pool (posizione che ha poi rinnegato), soprannomina Craxi “il chiangolone”: l’animale più pregiato della partita di caccia.

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico 1992 Bettino Craxi Benedetto Craxi, detto Bettino (Milano, 24 febbraio 1934 – Hammamet, 19 gennaio 2000), è stato un politico italiano, Presidente del Consiglio dei ministri dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987 e Segretario del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1993. nella foto: Bettino Craxi Photo  

I magistrati iniziano ad aprire indagini sui più importanti personaggi politici italiana. I telegiornali sembrano i bollettini della pandemia, dove al posto di nuovi casi e decessi vengono letti i numeri di avvisi di garanzia spediti quel giorno. L’edizione del Tg3 del 15 marzo inizia con questa lettura: «Dieci avvisi di garanzia ad altrettanti parlamentari tra cui esponenti politici di primo piano. Renato Altissimo, segretario del Pli al primo avviso di garanzia, Bettino Craxi all'ottava informazione di garanzia, Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc, alla 17esima, Antonio Cariglia, Partito socialdemocratico, al primo avviso di garanzia. Terzo avviso per Antonio del Pennino, ex capogruppo del Pri alla Camera».

Dopo un anno di indagini, oltre cento parlamentari e quasi tutti i principali leader di partito coinvolti nello scandalo, in molto iniziano a temere per la stabilità delle istituzioni democratiche. Dove si fermeranno i magistrati e come si può governare legittimamente il paese in queste condizioni?

Il governo, guidato dal socialista Giuliano Amato, tenta una soluzione e approva il decreto Conso, dal nome del ministro della Giustizia Giovanni Conso. L’idea è semplice: depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti e inasprire le pene per gli arricchimenti personali, così da mettere un chiaro confine tra condotte personali e quello che invece era frutto del modo di funzionare del sistema. 

Il decreto però viene bloccato. Gran parte dei giornali attacca quello che viene accusato di essere un “colpo di spugna”, ci sono manifestazioni in piazza sostenute dai partiti di opposizione: dagli ex comunisti del Pds ai neofascisti del Movimento sociale italiano. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per la prima volta si rifiuta di firmare il decreto che finisce così archiviato.

Tangentopoli è arrivata all’acme e anche per Craxi è arrivato il momento di cedere. Nel suo interrogatorio di fronte a Di Pietro e nei suoi ultimi discorsi al parlamento, si difende con energia, accusando i magistrati per i loro metodi e quelli che ritiene essere i loro disegni politici e giustificando le tangenti con i costi necessari della democrazia. 

Ma i magistrati arrivati a questo punto hanno abbastanza indizi di arricchimenti personali anche sul suo conto. Si parla di conti segreti in Svizzera, di finanziamenti alle attività dell’amante e a quelle del fratello. Dopo le elezioni del 1994 in cui non è riletto per la prima volta in Parlamento in oltre 25 anni, Craxi si trova senza immunità parlamentare. Il 12 maggio viene disposto il sequestro del suo passaporto, ma è troppo tardi. Pochi giorni prima, l’ex leader socialista ha lasciato l’Italia e si è trasferito ad Hammamet, in Tunisia, dove trascorrerà i suoi ultimi anni fino al decesso, avvenuto il 19 gennaio del 2000.

Le inchieste proseguiranno ancora per anni e il numero di indagini per corruzione inizierà a calare significativamente solo a partire dal 1996 per poi non raggiungere mai più il livello toccato nel periodo precedente. Ma è il 1994 l’anno in cui simbolicamente termina Tangentopoli. E non solo per via della fuga di Craxi.

È anche l’anno in cui, alle prime elezioni senza Dc e Pci dal 1945, trionfano Silvio Berlusconi e Forza Italia, che della guerra alla magistratura farà un punto centrale del suo messaggio politico. I movimenti che invece avevano sostenuto i magistrati vengono sconfitti, come il Pds, scompaiono, come la Rete, oppure si riconvertono ad altre istanze, come la Lega.

Prima di Tangentopoli, l’Italia era un paese stagnante e in crisi, con una classe politica distante dagli elettori e disprezzata per la sua corruzione. Sono passati trent’anni e il quadro non sembra essere poi così cambiato.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Storia di Luca Magni, l’uomo che ha fatto arrestare Mario Chiesa. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 15 febbraio 2022

Nel 1992 Luca Magni era il titolare della Ilpi, una ditta specializzata in uso di macchinari necessari a disinfettare grandi superfici. Da due anni aveva accettato di sottostare al ricatto di Mario Chiesa che per farlo lavorare gli chiedeva tangenti

Venerdì 14 febbraio Magni decide di denunciare ai carabinieri questo sistema. La denuncia finisce nella mani del magistrato Antonio Di Pietro. Il 17 Magni consegna a Chiesa sette milioni di lire e lo fa arrestare in flagrante 

FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.

Immunità parlamentare, da Renzi a Giovanardi vietato indagare sugli eletti. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 18 febbraio 2022

Nei giorni in cui la politica dibatte sulla storia di Mani Pulite, la giunta per le immunità del Senato si è resa protagonista una raffica di no a procure e tribunali, che vanno ad aggiungersi a quelli della Camera e di Palazzo Madama dall’inizio della legislatura.

Martedì 22 febbraio l’Aula dovrà esprimersi su Matteo Renzi (Iv), accusato di finanziamento illecito ai partiti. La giunta a dicembre aveva appoggiato il senatore e respinto la richiesta di arresto per Cesaro (Fi).

Mercoledì scorso, dopo che l’Aula ha salvato Giovanardi, la giunta ha deciso su Siri accusato di corruzione: le intercettazioni per i parlamentari non risultano necessarie né casuali, e così è stata negata l’autorizzazione al loro utilizzo. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore. 

Corruzione e sangue: le storie parallele di Milano e Palermo nel 1992. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, Giovanni Falcone, il giorno dell’omicidio di Salvo Lima dice: «Da questo momento, in Italia, può succedere di tutto».

Se a Milano le confessioni dell’ingegnere Mario Chiesa decapitano i partiti politici, l’esecuzione di Palermo sbarra per sempre la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro della Repubblica.

Il “patto del tavolino”, la mafia che si fa classe dirigente e impone la sua legge alle grandi imprese del nord che sbarcano nell’isola per realizzare dighe e aeroporti. I grandi lavori e l’intesa fra i boss e i capitani d’industria.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia. 

Il glossario di Tangentopoli per capire il 1992 e l’inchiesta Mani Pulite. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il “cinghialone”, lo “squalo”, “mariuolo”, “bustarelle”, il “cappio”. Sono nomi e termini che hanno segnato la vita repubblicana, fondamentali per comprendere cosa è accaduto nell’anno dell’inchiesta di Mani Pulite

Non è semplice destreggiarsi nel racconto storico degli anni di Tangentopoli per chi è nato a cavallo dai primi anni Novanta in poi. C’è un glossario di parole nato e usato all’epoca che oggi non sono più comuni e fanno riferimento a eventi e fasi che hanno cambiato la storia repubblicana. Qui una breve lista in ordine alfabetico:

A fra’ che te serve? 

La frase è attribuita all’imprenditore e costruttore Gaetano Caltagirone (morto all’età di 80 anni nel 2016) e secondo i racconti dell’epoca la ripeteva ogni volta che riceveva una telefonata da Franco Evangelisti, dirigente sportivo e politico cresciuto sotto l’ala dell’ex presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, Giulio Andreotti. A confermarlo è stato lo stesso Evangelisti, ex ministro della Marina mercantile, che in un’intervista rilasciata a Repubblica nel 1980 ha ammesso di aver ricevuto soldi da Caltagirone: «Ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: “a Fra’, che ti serve?”». 

Bustarella

La bustarella è un involucro contenente una somma di denaro che viene consegnata di nascosto a una persona investita di una pubblica funzione per ottenere in cambio un favore. Nel 1992 le mazzette per corrompere politici e funzionari venivano consegnate sia attraverso delle bustarelle ma anche con assegni o bonifici bancari depositati in conti esteri per evitare di essere tracciati. Generalmente la mazzetta partiva da una cifra intorno al 3 per cento del valore della gara di appalto che sarebbe stata pilota in favore di chi pagava.

«Cinghiale» o «cinghialone» fu il termine metaforico coniato dall’allora direttore del quotidiano L’indipendente, Vittorio Feltri, per indicare l’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi quale il bersaglio della “caccia grossa” delle indagini condotte dalla procura di Milano. Nel suo libro Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato Vittorio Feltri ha raccontato come nasce il soprannome: «Scrissi che sarebbe stato opportuno acciuffare “il cinghialone”, che era appunto il leader dei socialisti. Lo battezzai io con questo simpatico epiteto, che peraltro gli calzava a pennello considerata la sua mole. Da quel momento, per tutti Craxi fu “il cinghialone” e fu davvero perseguitato». Quel soprannome è finito su tutti i giornali e l’ex direttore de L’indipendente ha ammesso le sue colpe: «Io sbagliai. E lo ammetto. E ho imparato dal mio errore».

Democrazia Cristiana

La Democrazia Cristiana (Dc) è il partito che ha dominato la vita politica italiana dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1992. Alcide De Gasperi è stato uno dei fondatori e leader della Democrazia Cristiana, diventato presidente del Consiglio di otto governi dal 1945 al 1953 in un periodo di forte instabilità politica per l’Italia. Nel 1992 la Dc, come anche la maggior parte degli altri partiti e movimenti politici italiani finirono al centro delle indagini nello scandalo di Tangentopoli. Tra gli esponenti di spicco del partito c’è stato anche Giulio Andreotti.

Il cappio 

Il 16 marzo del 1993 Luca Leoni Orsenigo, allora deputato della Lega Nord, si presentò in Aula alla Camera con un cappio in segno di protesta contro le inchieste di corruzione che coinvolgevano i partiti. «Il mio fu un gesto legittimo, il cappio in Aula lo rivendico, lì si stava votando il decreto Conso che gettava un colpo di spugna sulle malefatte dei partiti, sulle politiche del malaffare», ha detto di recente in un’intervista rilasciata all'Adnkronos.

Lo squalo

Negli anni in cui i soprannomi venivano affibbiati agli esponenti politici con facilità non può mancare “Lo squalo”, l’appellativo attribuito a Vittorio Sbardella, colui che veniva considerato come il “padrone” della Democrazia cristiana a Roma e uno degli uomini più vicini a Giulio Andreotti. Anche lui, come altri membri del suo partito venne travolto dallo scandalo tangentopoli. Dopo le indagini si dimise dal consiglio di amministrazione della Edit, la società editrice del settimanale Il Sabato. Morì nel 1994 all’ età di 59 anni per via di un tumore all’apparato digerente.

Mani Pulite

È uno dei termini più conosciuti dell’epoca e fa riferimento al nome giornalistico usato dalla stampa per identificare le inchieste giudiziarie portate avanti dalla procura di Milano e successivamente condotte ad altre procure italiane sulla corruzione tra mondo politico e imprenditoriale dell’epoca.

L’accostamento di «Mani pulite» alla politica è stato diffuso dal film Le mani sulla città del 1963 di Francesco Rosi, vincitore della Palma D’oro al festival del cinema di Venezia. In una scena del film alcuni deputati del Consiglio comunale di Napoli si difendono dalle accuse di corruzione dicendo: «Le nostre mani sono pulite!». Anche il deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata a il Mondo nel 1975 disse: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta». 

Mariuolo

Mariuolo, cioè furfante, è il termine utilizzato dal leader del Psi Bettino Craxi per definire Mario Chiesa, dirigente di seconda fila del suo partito e primo arrestato nell’inchiesta Mani Pulite. Definendolo un «mariuolo isolato», Craxi intendeva distanziare dall’inchiesta un partito che in realtà, a suo dire, era integro e non corrotto. Le confessioni di Mario Chiesa, però, diedero inizio a una serie di indagini che provarono come il partito socialista aveva partecipato al finanziamento illecito dei partito fino ai suoi vertici.

Monetine

Monetine, oggetti e banconote sono quelle lanciate dai manifestanti contro Bettino Craxi all’uscita dell’hotel Raphael dove alloggiava quando si trovava a Roma. Il 30 aprile del 1993 la Camera aveva negato quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro l’allora Segretario del Partito socialista per corruzione e ricettazione chieste dalla magistratura. I manifestanti si radunarono fuori l’hotel di lusso e appena Craxi uscì tirarono monetine e sventolarono banconote dicendo: «Bettino vuoi pure queste?». 

Nani e ballerine

L’espressione venne coniata da Rino Formica, ex ministro delle Finanze, per definire in maniera dispregiativa gli ambienti in cui si muovevano alcuni esponenti del suo Partito socialista. Il termine è stato poi ripreso dall’ex ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, per descrivere i suoi anni “festaioli” a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta con Craxi e altri esponenti del partito. La locuzione «nani e ballerine» è stato usato in quegli anni per evidenziare la mondanità di una classe politica vista come corrotta, ricca e lontana dagli interessi dell’elettorato. De Michelis è anche autore del libro Dove andiamo a ballare questa sera, una raccolta di luoghi in cui trascorrere le serate tra club e discoteche.

Pentapartito

Con il termine pentapartito si intende la coalizione di governo formata da cinque diversi partiti che hanno governato in Italia dal 1981 al 1991. I partiti che ne facevano parte erano: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Partito Repubblicano e Partito Liberale. Tutti implicati nell’inchiesta di Mani Pulite. Si dice che l’accordo venne siglato nel 1981 durante il congresso del Psi fra il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi con la “benedizione” di Giulio Andreotti, tanto che il patto venne chiamato anche CAF, richiamando le iniziali di Craxi-Andreotti-Forlani.

Pool

Il pool è la squadra di magistrati (Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco, Ielo, Ramondini, Parenti e Tito) che hanno condotto l’indagine su Mani Pulite. È storico il video in cui Antonio Di Pietro interrogò pubblicamente il leader del Psi Bettino Craxi il quale, davanti alle telecamere, spiegò come funzionava il sistema. Secondo gli ultimi dati i numeri dell’inchiesta sono i seguenti: 3.200 richieste di rinvio a giudizio, 1.254 condanne (circa il 40 per cento), 269 scioglimenti in udienza preliminare, 161 assoluzione nel meri