Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

LA MAFIOSITA’

SETTIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia della mafia.

L'alfabeto delle mafie.

La Gogna.

Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

In cerca di “Iddu”.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

E’ Stato la Mafia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa Nostra - Altare Maggiore.

La Stidda.

La ‘Ndrangheta.

La Mafia Lucana.

La Sacra Corona Unita.

La Mafia Foggiana.

Il Polpo: Salvatore Annacondia.

La Mafia Lucana.

La Camorra.

La Mafia Romana.

La Mafia abruzzese.

La Mafia Emiliano-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Milanese.

La Mafia Albanese.

La Mafia Russa-Ucraina.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Cinese.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Antimafiosi.

Non era Mafia.

Il Caso Cavallari.

Il Caso Contrada.

Il Caso Lombardo.

Il Caso Cuffaro.

Il Caso Matacena.

Il Caso Roberto Rosso.

I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

 

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

I tifosi.

Femmine ribelli.

Il Tesoro di Riina.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caporalato.

Il Caporalato Agricolo.

Gli schiavi dei Parlamentari.

Gli schiavi del tessile.

Dagli ai Magistrati Onorari!

Il Caporalato dei giornalisti.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Usuropoli.

Aste Truccate.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Nimby lobbisti.

La Lobby.

La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby dei Giornalisti.

La Lobby dell’Editoria.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Fuga dall’avvocatura.

La Lobby dei Tassisti.

La Lobby dei Farmacisti.

La lobby dei cacciatori.

La Lobby dei balneari.

Le furbate delle Assicurazioni.

 

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massoneria Occulta.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Sanità: pizzo di Stato.

Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Spettacolo mafioso.

La Mafia Green.

Le Curve degli Stadi.

L’Occupazione delle case.

Il Contrabbando.

La Cupola.

 

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Massoneria Occulta.

Estratto dell’articolo di Piera Amendola per “il Fatto quotidiano” il 14 novembre 2022.

Gli iscritti alla loggia massonica P2 gestita dal burattinaio Licio Gelli non erano, non sono, 962. L'elenco sequestrato dai giudici Colombo e Turone negli uffici della fabbrica Giovane Lebole di Castiglion Fibocchi era incompleto. […] esiste un secondo elenco di iscritti alla P2, di 1599 nominativi, tutti piduisti che per un certo periodo sono stati, per così dire, in servizio attivo, e hanno continuato negli anni ad essere a disposizione del maestro venerabile o di chi, nella scala gerarchica, ha avuto o ha, ancora, un ruolo di comando superiore a quello che ebbe, prima di morire, Gelli.

La storia di un secondo elenco di iscritti alla P2 […] è stata ampiamente provata nel corso di una delle ultime udienze della Corte di assise di Bologna […] […] getta un fascio di luce nuova su tutta l'organizzazione. I motivi sono molti. Non si può certo escludere che un nucleo attivo possa tuttora agire con finalità sconosciute, ma illegali. Tra i membri della vera P2 può essere nata una fabbrica di ricatti e di veleni, in grado di intorbidire la Repubblica.

[…] in un'intervista rilasciata a L'Espresso il 10 luglio del 1976, Gelli aveva dichiarato che gli affiliati alla sua loggia erano 2.400, un numero che grosso modo corrisponde alla somma tra il primo e il secondo elenco, quello mai ritrovato (962 più 1.600).

Diversi anni dopo, nel corso della sua audizione alla Commissione P2, il generale Ennio Battelli, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, fa mettere a verbale di avere appreso dal Gran Segretario Spartaco Mennini che i nomi di 1.600 piduisti si trovano in cassette di sicurezza in Svizzera. […] 

[…] O le dichiarazioni rese ai giudici palermitani Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato da Lia Bronzi Donati, aderente alla Loggia di Montecarlo: "Ricordo che Giunchiglia, una sera, mi telefonò spaventato e mi disse che aveva letto i nomi degli iscritti negli elenchi della P2 non ritrovati dalla magistratura, e che era impressionato dal numero e dall'importanza degli iscritti, che neppure immaginava [...] se avesse fatto i nomi di tutti gli iscritti alla P2, poteva venirsi a creare in Italia un grave vuoto di potere".

E cosi ancora, attingendo alle dichiarazioni dello stesso maestro venerabile, che nel corso di una intervista rilasciata nel 2011 (andata parzialmente in onda su La7 nel dicembre del 2015) lascia intendere che anche l'ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi dal 1984 al 1991, a suo dire nominato ai vertici del Servizio dalla P2, ne faceva parte. […] 

La Commissione si è trovata di fronte a un gravissimo attentato alla sua attività, compiuto con il mancato arrivo in Italia dell'archivio che Licio Gelli custodiva in Uruguay, archivio del quale si impossessò la Cia. […] la piccola parte di archivio che arrivò dall'Uruguay non contenesse elementi utili per chiarire definitivamente la natura della P2 e la sua consistenza numerica. Negli ultimi tempi qualche spiraglio sembra essersi aperto negli Stati Uniti, dove il presidente Biden ha disposto di rendere pubblici tutti gli atti compiuti in Italia all'epoca della cosiddetta strategia della tensione. Potrebbe esserci qualche sorpresa.

[…] Molti indizi convergono sul ruolo del principe Alliata che appare un personaggio troppo "pesante" per essere ridotto alla funzione di "gentiluomo" di Gelli. Alliata è davvero un gentiluomo di casa reale, naturalmente dei Savoia. Soprattutto, dimostra un'astuzia non comune e una rete di relazioni personali di primissimo ordine. […]

Numerosa la partecipazione tarantina guidata dall'Ispettore provinciale Antonio Ortini. Gran Loggia d’Italia, i massoni pugliesi si danno appuntamento a Roma. La Redazione la voce di manduria giovedì 23 giugno 2022.

Il prossimo 25 giugno la Gran Loggia d’Italia celebrerà la cerimonia del solstizio d’estate. L’evento che si svolgerà nella prestigiosa cornice dello Sheraton Hotel Parco de’ Medici di Roma, farà convergere nella Capitale 2700 “sorelle e fratelli” provenienti da tutte le giurisdizioni d’Italia. 

Numerosa la partecipazione pugliese guidata dal Delegato Magistrale, dottor Gianfranco Antonelli, e dall’Ispettore Provinciale per Taranto, Antonio Ortini.

La città eterna sarà il “luogo” di elezione della cultura dell’incontro, che per la Massoneria è il primo motore della convivenza democratica. «La manifestazione ha una valenza altamente simbolica, nel giorno astronomicamente più lungo - spiega Luciano Romoli, Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli ALAM - il nostro sguardo deve spingersi ad abbracciare l’universo. Nel mondo interconnesso la fraternità è lo strumento che può rifondare la geopolitica e riaffermare il valore della comunione e il bene supremo della pace, messa a repentaglio dalla grave crisi scoppiata nel cuore dell’Europa. Quello che ci apprestiamo a vivere è un momento particolare: questa data collocata all’inizio dell’estate, ci invita alla riflessione, al superamento delle diversità, che si traduce nel mondo di oggi in una positiva propensione al confronto, come strumento possibile di crescita comune».

L’etimologia può aiutare a comprendere la molteplicità dei simboli che bisogna maneggiare per interpretare correttamente il senso di questa festa. Solstizio deriva dal latino “solstat”, che vuol dire: "il sole si ferma". Sembra infatti che la stella più luminosa del firmamento indugi in questa posizione, prima di riprendere il suo cammino discendente, raggiungendo la sua massima declinazione positiva rispetto all'equatore celeste, per poi riprendere il cammino inverso con l’inizio dell'estate astronomica. In quel tempo sospeso sembra di sentire il respiro dell’universo, una “pausa” spiritualmente intensa in cui possiamo ricevere il massimo della potenza solare.

«Si tratta di un intervallo propizio che dobbiamo saper sfruttare - riprende Romoli - perché se cielo e terra secondo la liturgia antica possono dialogare avvicinandosi idealmente, anche noi possiamo abbattere le distanze e ritrovare l’altro nel rispetto dei diritti universali, che sono il fondamento della “buona società” che dobbiamo costruire insieme. Ricordiamoci che nel giorno del trionfo il sole, non possiamo permetterci di sottovalutare l’insidia delle ombre, senza stancarci mai di continuare idealmente a cercare il modo per cancellarle».

La cerimonia della pergamena bruciata nel tripode rappresenterà la fase culminante della cerimonia. La combustione servirà allegoricamente a consumare tutto quello che di negativo questo periodo nefasto ha prodotto per l’umanità intera, dalla pandemia a tutte le guerre e ai conflitti presenti sul nostro pianeta. «La verità - conclude il Gran Maestro - è un percorso, un tendere verso, nessuno può pensare di possederla, perciò dobbiamo sentire il dovere di perseguirla, al fine di creare le condizioni per uno sviluppo umano autenticamente universale».

Le rivelazioni dell'ex agente segreto sull'archivio di Licio Gelli: “Finì nelle mani della Cia”. Il Tempo il 15 giugno 2022.

Una testimonianza ha chiarito il destino dell’archivio di Licio Gelli, ex Maestro venerabile della loggia P2. A parlare è stato il generale Mario Grillandini, una volta agente del Sismi, nel corso dell’udienza dell’11 giugno 2021 del processo ai mandanti della strage di Bologna in cui ha raccontato passo passo della missione svolta in Uruguay per il recupero dei documenti di Gelli. “La scrematura - ha spiegato l’ex agente segreto - era stata fatta dalla Cia. A noi arrivarono una settantina di fascicoli senza grande importanza”. 

“L’incontro con l’ispettore Victor Castiglione, che aveva fatto parte della squadra messa in piedi per recuperare i dossier, fu piuttosto frettoloso perché - ha ricordato Grillandini in Corte d’Assise - il poliziotto aveva il fuoco di Sant’Antonio, non vedeva l’ora di andarsene, io gli presentai la mia richiesta, cioè di entrare in possesso dell’archivio di Gelli, e lui mi riferì che parte dell’archivio, buona parte dell’archivio, era stata requisita dalla Cia, una parte era stata trattenuta dai servizi uruguayani perché riguardavano la sicurezza nazionale interna e il resto era stato trasmesso ai Ministero degli Interni uruguagio”. Sono stati quindi gli agenti americani a prendere gran parte dei documenti scottanti sull’Italia, almeno stando alla testimonianza diretta di un ex spia.

Massoneria e mafia, cosa ci ha insegnato il processo Gotha. JOHN DICKIE su Il Domani il 15 giugno 2022.

In un’intercettazione del 2011, il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso dichiara: «La ’ndrangheta non esiste più! ... una volta... c’era la ’ndrangheta!... la ’ndrangheta fa parte della massoneria!»

 Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.

Il processo Gotha, che si è concluso in primo grado recentemente a Reggio Calabria, è uno dei più importanti processi contro la ’ndrangheta degli ultimi tempi. È importante, in parte, perché ha l’intento di gettare una luce processuale su uno degli aspetti più controversi della storia della mafia degli ultimi quarant’anni: il rapporto tra criminalità organizzata e massoneria.

Gotha è un processo complesso per due motivi: primo perché riguarda la struttura interna della ’ndrangheta—una struttura intricata e in continua evoluzione; secondo, perché ha avuto un iter processuale che adesso comincia a prospettarsi come particolarmente difficile dopo l’annullamento da parte della Cassazione di dieci condanne. Comunque sia, i risultati finora raggiunti ci permettono di trarre delle conclusioni significative sul legame ’ndrangheta-massoneria, conclusioni che dovrebbero indurre chi prende sul serio la lotta alle mafie a riflettere in modo assai profondo. Detto in poche parole, la lezione di Gotha è che i nostri luoghi comuni sulla massoneria non reggono il confronto con la realtà.

Prima di Gotha, gli esiti delle indagini delle forze dell’ordine e della magistratura sul rapporto mafia-criminalità erano stati deludenti. Tanto fumo e poco arrosto, tutto sommato. Emblematico il caso dell’ex-procuratore di Palmi Agostino Cordova che, partendo da un caso di certificati bancari rubati, nel 1992 fa partire una gigantesca inchiesta sulla massoneria che finisce per raccogliere qualcosa come 800 buste di documenti. Nel 2000, però, il processo viene archiviato dal GIP di Roma perché si rifà più «all’immaginario collettivo» sulla massoneria che a prove concrete. Verso la fine del 2021, Cordova perde una causa civile avviata contro il Grande Oriente d’Italia, il quale aveva definito l’inchiesta come «una caccia alle streghe finito con un buco nell’acqua».

Il processo Gotha, che rappresenta la confluenza di ben quattro inchieste separate, è partito da basi documentarie apparentemente più solide, anche se difficilmente componibili in un quadro coerente.

In un’intercettazione del 2011, il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso dichiara: «La ’ndrangheta non esiste più! ... una volta... c’era la ’ndrangheta!... la ’ndrangheta fa parte della massoneria!» La massoneria controllerebbe la ’ndrangheta, dunque? Invece la testimonianza dell’ex Gran Maestro del Grande Oriente, Giuliano Di Bernardo, propone uno scenario diametralmente opposto: cioè una massoneria controllata dalla ’ndrangheta. Secondo quanto gli è stato detto da un importante massone calabrese all’inizio degli anni ’90, la ’ndrangheta avrebbe infiltrato ben 28 logge calabresi su 32.

Ci sono altre testimonianze preoccupanti come queste, ma che insieme non aiutano a chiarire il panorama, anche quando vengono da collaboratori di giustizia ritenuti credibili in altra sede. Si è parlato tanto di logge “deviate”, “segrete”, “occulte”, o “coperte”, ma con poche indicazioni sul loro reale funzionamento.

IL NUOVO DIRETTORIO DELLA ‘NDRANGHETA

Alla fine, i giudici del processo Gotha hanno concluso (almeno in primo grado) che esiste un nuovo direttorio della ’ndrangheta, una specie di comitato d’affari apicale composto di “soggetti cerniera” tra il mondo della ’ndrangheta e quello delle istituzioni. Un risultato processuale altamente significativo, dunque. Ma dove è finita la massoneria? La risposta dei giudici, una risposta sulla quale il PM Giuseppe Lombardo non dissente, è deludente per i complottisti della situazione.

Il nuovo direttorio viene chiamato con due nomi dai pochi ’ndranghetisti che ne sono a conoscenza: “gli Invisibili” (perché alla maggior parte degli affiliati non è permesso vederli); oppure “la massoneria” (perché il direttorio opera secondo logiche affaristiche). Per la ’ndrangheta del processo Gotha, dunque, la massoneria è una metafora che non c’entra niente con massoni in carne, ossa e grembiulino. Soprattutto non c’entra niente con le obbedienze maggiori, con il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia d’Italia. Si vede dunque che la ’ndrangheta, come gran parte del resto della cittadinanza italiana, ha una visione della massoneria fondata su luoghi comuni: cioè, in base ad un vago ricordo della vicenda P2, pensa che "massoneria” sia sinonimo di “potere occulto”, di “rete di affari loschi”.

Tutto i massoni sono innocenti, dunque? Non credo. Tutti i processi contro la massoneria sono destinati a fare lo stesso buco nell’acqua? È questo il rischio se magistrati, poliziotti, giornalisti e cittadini non s’informano molto meglio sul misterioso oggetto “massoneria”. Se continuiamo tutti a parlare di massoneria senza distinguo, come se fosse un mondo unico uniformemente corrotto, e non invece una confusione di gruppi diversi, con intenti molto diversi, in mezzo ai quali è doveroso distinguere i soggetti cattivi dai tanti cittadini per bene.

Se persistiamo nella nostra ignoranza sul vero significato dei giuramenti massonici, e se continuiamo a trattarli come il segno di una specie di omertà per colletti bianchi, legittimando così una presunzione della colpevolezza collettiva. Se lasciamo andare senza commento le tantissime idiozie dietrologiche in circolazione, le quali attribuiscono ad oscure trame massoniche ogni evento storico, dalla Rivoluzione francese all’Unità d’Italia, dall’avvento al potere del fascismo, alla caduta di Mussolini, dal crollo dell’Unione Sovietica alle stragi di mafia del ’92. E se ci facciamo perdere nelle nebbie del sentito dire che da sempre si sollevano quando si parla di massoneria.

Il mondo massonico è un pezzo di società come gli altri. Come tale ha i suoi specifici punti di forza e di debolezza quando si tratta di affrontare il rischio mafia e/o malaffare. La storia della massoneria avrebbe molto da insegnarci su questi aspetti. Le logge in Italia oggi, come in moltissimi altri contesti, sono il prodotto di una storia particolare in cui l’affarismo è lontano dall’essere l’unico fattore in gioco.

È in Italia che troviamo la tradizione più profonda e duratura di miti complottistici, una tradizione che affonda le sue radici nell’ostilità teocratica della Chiesa cattolica nei confronti della Massoneria. In Italia la massoneria, fino alla sua messa al bando dal fascismo nel 1925, è più politicizzata che altrove. In Italia, nel dopoguerra, la Massoneria ha la specificità di dover sopravvivere in una società dominata da due forze politiche, la Dc e il Pci, tutte e due eredi di fortissime tradizioni di ostilità nei confronti delle logge. Sono questi le coordinate di base di un’altra specificità della storia italiana, la P2, una loggia dedicata all’affarismo e al sovversivismo di destra, che tanto ha fatto per insediare nella nostra memoria collettiva un’equivalenza semplicistica e fuorviante: P2 = massoneria. JOHN DICKIE 

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'8 maggio 2022.

Abiti blu della migliore borghesia e eminenza grigia della peggior politica, Eugenio Cefis è stato uno degli uomini di maggior potere, e meno appariscenti, degli anni '60 e '70 in Italia. È celeberrima la risposta che gli diede Enrico Cuccia quando Cefis, che a lungo aveva avuto la sua fiducia, gli annunciò obtorto collo le proprie dimissioni dalla Montedison: «Non mi aspettavo che accettasse, credevo che Lei avrebbe fatto il colpo di Stato». E forse avrebbe potuto. 

Influentissimo, ambiguo, misterioso. Di Eugenio Cefis, in fondo, è stato scritto molto di più di quanto realmente si sappia. Certo, fu personaggio di peso enorme: consigliere dell'AGIP, presidente dell'ENI dal '67 al '71 e poi della Montedison dal '71 al '77, Cavaliere di Gran Croce ma anche - si dice, e sono molti i «si dice» nella sua biografia - coinvolto, secondo alcune inchieste, nell'attentato a Enrico Mattei e nelle morti del giornalista Mauro de Mauro e di Pier Paolo Pasolini. E fino a qui nulla di nuovo. 

Le novità arrivano adesso, con la ripubblicazione di uno dei libri più misteriosi del nostro '900: L'uragano Cefis, scritto da un oscuro Fabrizio De Masi (è solo un nome de plume), stampato nel 1975, mai arrivato nelle librerie (sparì già in tipografia) e di cui si conserva una sola copia conosciuta, quella che nel marzo 2010 il senatore-bibliofilo Marcello Dell'Utri espose alla Mostra del libro antico di Milano (quando annunciò anche il ritrovamento di un capitolo perduto del romanzo Petrolio di Pasolini, intitolato «Lampi sull'Eni», che però subito dopo sparì). Comunque, da quel momento, apparso a sorpresa, L'uragano Cefis prese a circolare in fotocopia a mo' di samizdàt tra studiosi e complottisti. Come mai tanti segreti?

Perché il libro contiene informazioni esatte, dunque pericolose, sulla spudorata intraprendenza di Eugenio Cefis, uno dei più altolocati timonieri del management pubblico, eroe diabolico la cui vita è legata a filo doppio ai tanti misteri che hanno attraversato il Paese. Ricercato, citato, poco o nulla letto, ora L'uragano Cefis (che fa il paio con un altro titolo a lungo introvabile, Questo è Cefis, di un altrettanto fantomatico Giorgio Steimetz, apparso e subito sparito nel '72) è di pubblico dominio. Viene pubblicato dalla casa editrice Effigie di Giovanni Giovannetti il quale da dieci anni si dedica a ricerche su Cefis, il caso Mattei, i misteri d'Italia e Pasolini.

Ora, distinguiamo. Da una parte c'è quanto scrive l'enigmatico Fabrizio De Masi (pagato da qualcuno che vuole ricattare il suopermanager Cefis): pagine utili per ricostruire il brulicante arcipelago di società private che, per tramite di prestanome, fanno tutte capo all'«onorato presidente»: società immobiliari, petrolifere, finanziarie, del legno, della plastica, della pubblicità, ecc. affidate a suoi uomini di fiducia e che con Eni e poi Montedison sono a volte in affari altre volte in concorrenza, quando la mission personalissima di Cefis è privatizzare gli utili socializzando le perdite. 

E poi, dall'altra parte, c'è appunto tutto ciò che Giovannetti aggiunge per completezza di informazione in un breve testo introduttivo e soprattutto nella corposa postfazione intitolata «Anche questo è Cefis», cioè la parte che oggi interessa di più. 

Ed eccoci alle vere novità del libro. Uno: come nasce la potenza economica di Cefis.

In passato si è speculato su presunte fortune accumulate nei mesi in cui fu comandante partigiano; in realtà semplicemente Cefis dopo la guerra sposa Marcella Righi, ereditiera del cosiddetto «Prato buono» a Milano, un'area che negli anni '50 e '60 conosce un'espansione immobiliare pazzesca: fu lui, Cefis, a gestire il tesoro e ad accumulare attraverso vendite e investimenti un patrimonio che toccò l'incredibile cifra di cento miliardi delle vecchie lire.

Poi c'è il capitolo del Cefis ufficiale e partigiano, fra luci e ombre: è vero che fu tra i più importanti comandanti di area cattolica-monarchica e, proprio a partire da quegli anni, amico di Enrico Mattei, che poi affiancherà nell'attività di ristrutturazione dell'AGIP e quindi dell'ENI; ma è anche vero che nel '41 era stato sottotenente nella Slovenia occupata, teatro di efferatezze, deportazioni di civili, villaggi bruciati, fucilazione di «collaborazionisti»...

 Due: i rapporti con la politica. Nel libro Giovannetti tira fuori una vera chicca: una lettera inedita datata settembre 1962 in cui Aldo Moro, segretario della Dc, chiede a Enrico Mattei di «fare un passo indietro», cioè di rinunciare alla presidenza dell'Eni (il suo mandato era in scadenza nell'aprile '63); suggerimento rimasto inascoltato. Poco più di un mese dopo Mattei viene assassinato.

Tre: l'Italia dei Misteri.

Proprio nella morte di Mattei potrebbe aver avuto un ruolo attivo una misteriosa associazione - aristocratica, anticomunista e paneuropeista - chiamata «Cercle» (di cui nulla si è mai saputo in Italia) e che accoglieva la creme della destra politica e finanziaria europea, da Giulio Andreotti e il finanziere vaticano Carlo Pesenti al cancelliere Konrad Adenauer e Franz-Josef Strauss, lo spagnolo Alfredo Sanchez-Bella, ex ministro di Franco, il banchiere americano David Rockefeller, gli statisti francesi Jean Monnet, Robert Schuman, Antoine Pinay, Valery Giscard d'Estaing e il fondatore dell'Oas Jacques Soustelle, il tedesco Reinhard Gehlen, già capo dei Servizi segreti al tempo del nazismo.... Un buon numero di costoro rispondeva anche all'Opus Dei e all'Ordine sovrano dei Cavalieri di Malta.

Quattro: i legami con la P2. Secondo un informatore del Sismi, Samuele Turi, siamo nel 1983 - ma non ci sono altre prove a sostegno della "soffiata" - Eugenio Cefis, di certo massone, sarebbe stato il vero capo della loggia massonica P2. 

Infine, cinque, Cefis e la stampa. Il grand commis si infilò in tutti i grandi giornali. Aiuta Indro Montanelli tramite importanti contributi pubblicitari quando fonda il Giornale; e mette le mani soprattutto sul Corriere della Sera che dal '74 passa progressivamente sotto controllo piduista: formalmente, i proprietari (Crespi, Agnelli, Moratti) lo cedono al gruppo Rizzoli; in realtà i soldi li mette la Montedison presieduta da Cefis, garantendo un finanziamento senza interessi con una fidejussione ai Rizzoli della Montedison International Holding di Zurigo, assicurandosi - anche grazie a prestazioni pubblicitarie garantite per almeno 2 miliardi e mezzo l'anno una costante azione volta a sostenere l'attività industriale e commerciale del gruppo Montedison...

Sono gli anni in cui direttore del Corriere è Piero Ottone e il corsaro Pier Paolo Pasolini - in quel momento imbrattato di Petrolio e invischiato in molti misteri - attacca frontalmente la Dc e Andreotti (referente politico di Cefis dopo Fanfani, ormai in disgrazia) e scrive - in un articolo passato alla storia - «Darei l'intera Montedison per una lucciola...». Pochi mesi prima di venire ammazzato. Ma tutto ciò è solo letteratura. 

·        Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

Dagospia il 13 settembre 2022. “LA MASSONERIA INGLESE E' IN DECADENZA. È DESTINATA AD ALBERGARE IN UN MUSEO” – LE RIVELAZIONE DEL GRAN MAESTRO GIULIANO DE BERNARDO: “LA REGINA ELISABETTA? COME TUTTE LE DONNE NON POTEVA FAR PARTE DELLA MASSONERIA. ECCO PERCHE' IL RUOLO DI GRAN MAESTRO DELLA LOGGIA UNITA D'INGHILTERRA E' ANDATO AL DUCA DI KENT. IL RE CARLO SI E' RIFIUTATO DI PRENDERE IL RUOLO, MA I VERTICI INGLESI SPERANO CHE..."

Marco Antonellis per ilgiornaleditalia.it il 13 settembre 2022.

D. Professore, la morte della regina Elisabetta II potrà avere conseguenze sulla Massoneria inglese?

R. Indubbiamente, è l’occasione per riflettere sulla Massoneria e i suoi rapporti con la monarchia inglese, la quale non esclude le donne dall’ordine dinastico. Infatti, al trono d’Inghilterra sono ascese regine che hanno esercitato il potere esattamente come i re. La prima regina è stata Jane, pronipote di Enrico VII. Proclamata regina il 10 luglio 1553 fu deposta da Maria I nove giorni dopo.

Maria I, figlia di Enrico VIII, ha governato dal 1553 al 1558.

Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, è stata sul trono dal 1558 al 1603.

Maria II regnò congiuntamente con il marito Guglielmo III, dal 1689 al 1694.

Anna, figlia di Giacomo II, regnò dal 1707 al 1714.

Vittoria, nipote di Giorgio III, fu regina dal 1837 al 1901.

Elisabetta II, figlia di Giorgio VI, restò sul trono dal 1952 al 2022.

Alcune di queste regine hanno lasciato una traccia indelebile nella storia d’Inghilterra e di Europa. Maria I Tudor è stata regina d’Inghilterra e Irlanda dal 19 luglio 1553 alla morte (17 novembre 1558, Londra). È nota come “Maria la Cattolica” e “Maria la sanguinaria”, avendo fatto giustiziare almeno 300 oppositori religiosi. Maria I è ricordata soprattutto per il tentativo di restaurare il Cattolicesimo in Inghilterra dopo lo scisma del padre Enrico VIII.

La regina più famosa è stata Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, chiamata anche la “regina vergine”, ultima monarca della dinastia Tudor. Il suo lungo regno fu segnato da molti avvenimenti importanti. La sua politica di pieno sostegno alla Chiesa d’Inghilterra, dopo i tentativi di restaurazione cattolica da parte di Maria I, provocò forti tensioni religiose e diedero vita a congiure contro di lei. 

Uscì vittoriosa dalla guerra contro la Spagna, che le consentì di avviare le premesse per una futura potenza commerciale e marittima, che trovò attuazione nella colonizzazione dell’America settentrionale. La sua epoca, denominata “Età elisabettiana”, produsse anche un periodo di straordinaria fioritura artistica e culturale. Ma fu nella “filosofia occulta”, che segnò il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, che raggiunse il suo apice. Si tratta di un movimento quasi sconosciuto, anche se i suoi sostenitori sono molto noti.

Faccio riferimento, in particolare, a Marsilio Ficino e Pico della Mirandola in Italia, a Francis Bacon, John Dee e William Shakespeare in Inghilterra, al Albrecht Dürer e Johannes Reuchlin in Germania. È nel Rinascimento elisabettiano che la filosofia occulta europea si trasforma in “rosacrocianesimo” ed è proprio tale visione a ispirare la Confraternita dei Rosacroce in Germania agli inizi del XVII secolo (per approfondimenti su questi temi, si veda il mio volume “La Massoneria. Splendore e decadenza”, Amazon 2022). La regina Elisabetta I, anche per l’impulso dato alla filosofia occulta, sarà ricordata come uno dei più grandi sovrani d’Inghilterra.

Un’atra regina, che ha lasciato un’impronta importante, è Vittoria, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda dal 20 giugno 1837 e Imperatrice d’India dal 1876 fino alla sua morte. Il suo regno, durato 63 anni, è il secondo più lungo di tutta la storia britannica, superato solo da Elisabetta II. Il suo fu un periodo di sviluppo industriale, culturale, politico, scientifico e militare e fu segnato dall’espansione dell’Impero britannico. 

Arriviamo alla regina appena scomparsa, Elisabetta II. A differenza degli altri sovrani, è difficile tracciarne un profilo preciso. Il suo lungo regno, durato 70 anni, non è stato caratterizzato da eventi eclatanti. Si è trovata a svolgere il ruolo di regina, espressione più alta della Monarchia, in una società democratica e repubblicana. Lo ha svolto con grande realismo e saggezza.

Fatta questa premessa di ordine storico, riflettiamo sul ruolo svolto da Elisabetta II nei confronti della Massoneria inglese (la Gran Loggia Unita d’Inghilterra). La prima cosa che appare è una contraddizione circa il modo di considerare la donna. Nell’ordine dinastico, la donna ha esattamente gli stessi diritti dell’uomo. L’uomo o la donna possono assurgere al ruolo di regnante senza alcuna differenza. 

La donna è considerata esattamente alla stessa stregua dell’uomo. In Massoneria, viceversa, la donna non solo è subordinata all’uomo, ma ne è esclusa. Infatti, quando la Massoneria nasce modernamente a Londra il 24 giugno del 1717, alla donna non è consentito farne parte. Tale divieto, ribadito nelle Costituzioni massoniche del 1721 di James Anderson, è ancora vigente nella Massoneria inglese, ritenuta Gran Loggia Madre del mondo. Ciò significa che tutte le Massoneria esistite ed esistente riconosciute dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra, non possono ammettere le donne.

Io stesso, quando sono divenuto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, in seguito al riconoscimento inglese, ho dovuto escludere le donne. Ho continuato a farlo anche quando ho fondato la “Gran Loggia Regolare d’Italia”, dopo essermi dimesso dal Grande Oriente d’Italia. La regola da seguire, dalle origini del 1717 ai nostri giorni, se si aspira ad avere il riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, è quella di escludere le donne. 

Questa regola vale per la stessa Massoneria inglese e per tutte le Massonerie da essa riconosciute. Le donne saranno ammesse se, e solo se, lo delibererà la Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Un tentativo in tal senso è stato compiuto dal marchese Lord Northampton, nel periodo in cui ha svolto il ruolo di Pro-Gran Maestro (2001-2009), ma non ha ottenuto alcun successo.

D. Però, in molti paesi, le donne fanno parte della Massoneria.

R. È vero. Ciò non significa che non esistono Massonerie che ammettono le donne ma sono tutte al di fuori del mondo massonico governato dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. In molti paesi, vi è la proliferazione di Massonerie (Gran Logge o Grandi Orienti) cosiddette “miste”, proprio perché accettano uomini e donne. In Italia, ve ne sono molte tra cui primeggia la “Gran Loggia d’Italia”. Qual è il loro significato? In che rapporto sono con la Massoneria inglese?

La risposta a queste domande ci porta a indagare i concetti di “regolarità” e di “riconoscimento”. Una Gran Loggia è regolare se è stata riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Il Grande Oriente d’Italia, dopo che il Gran Maestro Costantino Nigra ne fece richiesta nel 1862, l’ha ottenuta nell’ agosto del 1972, esattamente 110 anni dopo. L’ha mantenuta fino al 1993, anno in cui l’ha persa (e mai più riavuta), dopo la mia fondazione della Gran Loggia Regolare d’Italia. Da allora ai nostri giorni, l’unica Gran Loggia riconosciuta in Italia dalla Massoneria inglese è quella da me fondata.

La Gran Loggia che riceve il riconoscimento inglese diventa “regolare” poiché presenta tutti i requisiti richiesti dalle Gran Logge d’Inghilterra, di Scozia e di Irlanda. Tra questi requisiti, vi è anche quello di escludere le donne. Da ciò segue che, in questo mondo massonico, le donne saranno ammesse se, e solo se, sarà stato deciso e deliberato dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Fino ad allora, le donne restano fuori. Le Gran Logge “miste”, dal punto di vista della Massoneria inglese, non sono Massoneria. 

D. La regina Elisabetta in che modo ha condizionato la Massoneria inglese?

R. Innanzi tutto, essendo donna, ha precluso la possibilità che il Gran Maestro potesse essere il re. Come conseguenza di ciò, è si è dovuto cercare all’interno dell’aristocrazia il nobile più vicino alla Corona. La scelta è caduta sul Duca di Kent (1935 -), che è Gran Maestro della Gran Loggia Unita d’Inghilterra da oltre 50 anni.

Nel 1992, quando partecipai a Londra alla celebrazione del 275° anno dalla fondazione della Gran Loggia di Londra del 1717, il Duca di Kent espresse il desiderio di essere sostituito nel rango di Gran Maestro, ma ancora oggi è seduto sul Trono di Re Salomone. La sua sostituzione non è ancora avvenuta perché i vertici inglesi sperano che, dopo il rifiuto categorico di Carlo (oggi Carlo III), uno dei suoi figli diventi Gran Maestro 

La Massoneria inglese, come tutte le altre Massonerie, mostra segni di decadenza. Il tempo in cui il Gran Segretario Michael Higham governava con rigore ed esigeva il più alto formalismo nell’applicazione delle Costituzioni e dei Regolamenti Generali, in Inghilterra e all’estero, appartiene ormai a un mondo morto e sepolto, anche se riguarda il tempo breve della mia Gran Maestranza nel Grande Oriente d’Italia (1990-1993).

Sono passati solo 30 anni. Oggi la Massoneria sta perdendo sempre di più la capacità, che le è stata propria per secoli, di guidare e innovare importanti regioni del pianeta Terra. Sembra che sia destinata ad albergare in un museo, dove potrà narrare la sua storia che è quella di una società di uomini che ha dato all’umanità una concezione della vita e dell’uomo che si ispira ai più alti valori morali (chi avesse interesse per ulteriori approfondimenti, può leggere “La mia vita in Massoneria”, Amazon 2021).

Ho elaborato e presentato questa concezione (che chiamerei più appropriatamente “antropologia”) nel mio già citato volume “La Massoneria. Splendore e decadenza”, in cui la Massoneria è presentata come un ideale, un dover essere, che trova un fondamento storico in documenti emanati dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra.

Dovrebbe esistere un rapporto biunivoco tra il piano ideale (l’antropologia) e il piano reale (attuazioni storiche dell’antropologia). Nel passato, soprattutto al tempo delle origini moderne, tale rapporto è esistito, soprattutto in Inghilterra, Scozia e Irlanda. Successivamente, lo scarto tra il piano ideale e il piano reale è andato sempre più aumentando fino ad arrivare alla perdita di ogni rapporto. Quando questo accade, la Massoneria non è più Massoneria.

L’antropologia massonica da me attuata vivrà finché vi sarà un solo uomo che crede in essa e lo fa assurgere come idealità per la sua condotta pratica. Anche quando non esistesse più quest’unico uomo, essa manterrebbe la sua validità perché le concezioni dell’uomo e della vita non sono falsificabili. Sono concezioni staccate e separate dalla realtà sociale. 

Potrebbero restare tali per tutto il tempo a venire, oppure nel futuro vi sarà un uomo (o più uomini) che la porteranno nel profondo della loro coscienza e la faranno rinascere come l’araba fenicia. È questa la mia speranza.

Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022

Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.

In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.

La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.

La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.

L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.

Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).

LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO

Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze: 

«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.

Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.

Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.

Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.

Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.

Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.

Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.

Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.

Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.

Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.

Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.

Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022

La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello

facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.

Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.

Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.

Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del

Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.

La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.

Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.

A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.

Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura. 

LA PISTA ELVETICA

Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.

È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.

E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).

Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.

Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.

 È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.

Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022

Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»

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Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.

Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.

Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros

È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi). 

E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.

Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.

E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).

LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI

Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.

Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».

Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».

In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nel portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.

Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».

[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».

In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.

E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.

E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».

E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Forza Italia non molla: «Ora “indaghiamo” su Mani Pulite». Il deputato azzurro Battilocchio invoca una Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, Gotor non ci sta: «Un’autoassoluzione collettiva». di Giovanni M. Jacobazzi Prado su Il Dubbio il 13 dicembre 2022.

«Dopo aver letto i libri dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara mi pare evidente che in questi anni ci sia stato nel nostro Paese un “uso politico” della giustizia», afferma il deputato di Forza Italia Alessandro Battilocchio. Il parlamentare azzurro, il mese scorso, ha presentato una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta “sugli effetti delle inchieste giudiziarie riguardanti la corruzione politica e amministrativa, svolte negli anni 1992 e 1993, sulla successiva evoluzione del sistema politico italiano”.

«Non ho vissuto il periodo di Tangentopoli (Battilocchio è nato nel 1977, ndr) ma ritengo che a trent’anni di distanza ci siano adesso tutte le condizioni per capire cosa sia successo», aggiunge il parlamentare che è anche coordinatore provinciale a Roma di Forza Italia. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul punto, la cui istituzione era stata proposta anche nella scorsa legislatura, oltre alla lettura delle carte processuali, dovrebbe interrogare i “protagonisti” dell’epoca e chiunque possa fornire utili contributi per far luce su una inchiesta giudiziaria che cambiò per sempre la storia del Paese. Battilocchio non lo dice, ma è evidente il riferimento al fatto che la Democrazia cristiana, il Partito socialista e i tre partiti laici (Pri, Pli e Psdi) furono travolti, mentre il Partito comunista fu solo sfiorato delle inchieste. La conseguenza di tale agire fu che il Pci, poi Pds, salvò per intero la sua classe dirigente.

L’incipit della proposta di legge riporta una intervista del settembre del 2017, durante una trasmissione televisiva, del pm Antonio Di Pietro. «Ho fatto una politica sulla paura e ne ho pagato le conseguenze. (…) La paura delle manette, la paura del, diciamo così, “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, bisogna rispettare anche le idee degli altri. (…) Ho fatto l’inchiesta Mani pulite e con l’inchiesta Mani pulite si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali», le parole dell’ex magistrato, poi eletto in Parlamento proprio nella fila del Pds

. «L’avere messo la “paura” al centro delle azioni che hanno guidato le dinamiche della stagione politica e giudiziaria dei primi anni novanta dello scorso secolo necessita un approfondimento per capire in che misura i risultati elettorali di quegli anni ne sono stati influenzati. La “paura delle manette”, a cui l’ex magistrato fa riferimento, potrebbe essere stato uno strumento di “politica giudiziaria” in mano alla magistratura», sottolinea allora Battilocchio che, comunque, non ha intenzione con la sua iniziativa legislativa di «cancellare i fatti emersi nell’ambito dell’inchiesta», limitandosi a voler fare «chiarezza sulle dichiarazioni di Di Pietro, in quanto per perseguire qualsiasi scopo, anche fosse il più nobile, fece ricorso alla “paura delle manette”».

Molto critico alla proposta di Battilocchio è Miguel Gotor, ex parlamentare dem ed ora assessore alla cultura del Comune di Roma. In un articolo ieri su Repubblica, Gotor afferma che Battilocchio sarebbe mosso da «intenzioni bellicose» con il ricorso ad un «armamentario nostalgico e reducista tipico di una certa tradizione socialista che ritiene Mani pulite il frutto di un golpe mediatico giudiziario». La commissione d’inchiesta avrebbe allora la funzione di «mera propaganda se non di disinformazione e intossicazione della pubblica opinione». Su un aspetto, però, Gotor concorda con Battilocchio, quello dell’uso (abuso) della carcerazione preventiva che venne fatto dai pm in quegli anni. Per il resto il mondo stava cambiando ed il finanziamento irregolare ai partiti non era più tollerato.

Nessun complotto, insomma. Gotor si lascia andare anche ad una considerazione sui trascorsi dell’attuale compagine di governo. Quando scoppiò Tangentopoli vi era chi usava il cappio (Luca Leoni Orsenigo delle Lega Nord, ndr) o chi, i giovani del Movimento sociale, accerchiava il Parlamento al grido di «arrendetevi siete circondati». E poi Silvio Berlusconi che nel 1994 sarebbe diventato presidente del Consiglio e che aveva appoggiato fin da subito l’operato del Pool di Milano con le indimenticabili dirette di Paolo Brosio. Per Gotor, dunque, il problema attuale è quella di una «autoassoluzione collettiva» da parte della classe politica che ha voluto rimuovere il passato nella migliore tradizione “gattopardesca”. L’Italia, aggiunge l’assessore romano, non ha bisogno di una commissione d’inchiesta su Tangentopoli ma di una «civica e culturale».

Gattopardi e nostalgici che vogliono riscrivere la storia di Tangentopoli. Miguel Gotor il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l'istituzione di qualsivoglia commissione d'inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni

Nelle ore in cui una presunta vicenda di corruzione si abbatte sul Parlamento europeo, un deputato di Forza Italia, Alessandro Battilocchio, chiede l'istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. A quanto pare non si tratta dell'iniziativa estemporanea di un singolo parlamentare, legato alla cultura politica socialista di derivazione craxiana e alla poco fortunata esperienza del Nuovo Psi, dal momento che il capogruppo di Forza Italia Alessandro Cattaneo avrebbe condiviso la proposta.

Forza Italia riapre lo scontro dopo 20 anni: “Commissione d’inchiesta su Mani Pulite”. Lorenzo De Cicco il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

Presentato un ddl in cui si cita un'intervista di Di Pietro: "Ho fatto una politica sulla paura delle manette"

Un'altra manina della maggioranza schiaccia sul tasto rewind. Forza Italia vuole una commissione d'inchiesta su Tangentopoli. Il nastro scorre veloce a vent'anni fa, allo scontro fra politica e magistratura. Cavallo di battaglia del berlusconismo rampante tra gli ultimi anni '90 e i primi 2000. Rieccoci. Dopo le picconate del Guardasigilli Carlo Nordio sulla separazione delle carriere, le intercettazioni "inutili", l'obbligatorietà dell'azione penale bollata come "intollerabile arbitrio", ecco un altro tassello del puzzle: la commissione parlamentare su Mani pulite.

La proposta di istituire una Commissione di inchiesta. Commissione di inchiesta su Tangentopoli: tra suicidi, abusi e diritti perché è giusto indagare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il  14 Dicembre 2022

Se mai aprirà le sue porte la Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, non ne varcheranno mai la soglia i testimoni più rilevanti dell’epoca, Severino Citaristi, Vincenzo Balzamo, Marcello Stefanini. I tre tesorieri dei principali partiti della Prima repubblica non ci sono più, e uno di loro, il socialista Balzamo, di Tangentopoli è addirittura morto, di crepacuore, con un infarto che l’ha annientato un mese dopo la prima informazione di garanzia per finanziamento illecito del partito.

Era il 2 novembre del 1992, si era ancora all’inizio. E, caduto il responsabile amministrativo del partito, tutto il vaso di pandora delle indagini si rovesciò direttamente sul segretario Bettino Craxi. Il quale non poteva non sapere, gli dissero i pubblici ministeri. E che subì la sorte peggiore, soprattutto nelle interessate vociferazioni di certa stampa e di un’opinione pubblica orientata. Forse anche perché gli mancò quel pungiball che porterà alla morte due anni dopo anche il tesoriere del Pds Stefanini, distrutto dalle inchieste giudiziarie e che immolerà per tutta la vita, fino al 2006, il democristiano Citaristi, uomo per bene morto nella semplicità di una vita sobria, inchiodato al ruolo insano di collettore di tangenti. Su cui si accaniranno, molti anni dopo, nella loro voglia continua di sangue, anche i voraci cultori della finta onestà, con la privazione di una parte del vitalizio.

Se coloro che, come l’assessore alla cultura del Comune di Roma del Pd Miguel Gotor, autore di un articolo sarcastico su Repubblica, ritengono che solo la propria categoria sia degna di mettere le mani sulla storia, vogliono provare a farlo con Tangentopoli, sanno da dove cominciare. Dalla riabilitazione di tre persone per bene. Ma non crediamo che ne siano capaci. Prima di tutto perché lo storico lascia intendere la stravagante convinzione che Forza Italia abbia presentato la proposta della Commissione per infierire sul Pd, su Panzeri e sull’inchiesta belga su presunti finanziamenti del Qatar. Nulla di più errato, visto che l’iniziativa era già stata presentata nella scorsa legislatura. E poi perché, forse sentendosi virtuoso per l’ammissione, si lascia andare a dire che «si può serenamente affermare che in quegli anni, in alcuni casi, si registrò un uso inquisitorio dello strumento e della carcerazione preventiva».

Un’affermazione gravissima perché lontana dalla realtà. Perché l’uso della custodia cautelare in carcere non fu una piccola degenerazione isolata di qualche pm eccessivo, ma lo strumento di vera tortura che portò a quarantun suicidi, oltre che alla distruzione di vite e carriere. Fu lo strumento che consentì di trasformare una “normale” inchiesta giudiziaria sul finanziamento illecito dei partiti e su alcuni casi di corruzione personale nella rivoluzione giudiziaria che ha mandato al potere toghe e divise. In questo senso un vero golpe. È inutile citare Sergio Moroni e la straziante lettera letta in aula alla Camera da un presidente Napolitano con la voce rotta. Pessima abitudine dello storico di stralciare un caso come fosse un unicum del panorama, quando invece proprio quel caso clamoroso è la spia di quel che è successo in generale. Come fatto politico e storico.

Il Pd, erede degli antenati Pci, Pds, Ds, proprio perché uscito quasi indenne dal “golpe” grazie all’alleanza strategica con i pubblici ministeri, dovrebbe evitare prima di tutto di mostrare paura di quella Commissione. Quella delle facce impietrite di Occhetto e D’Alema quando Bettino Craxi denunciò nell’aula di Montecitorio l’esistenza di bilanci falsi dei principali partiti. Facce impietrite e bocche ammutolite. E dovrebbe poi domandarsi, anche alla luce della propria “normalità” nel finire oggetto, o a volte preda, di una certa voracità giudiziaria che dal 1992 non è mai tramontata nonostante il terremoto che ha distrutto il Csm e la Procura di Milano, perché non ha colto l’occasione di fare propria una cultura riformatrice e costituzionale. Di fare della separazione tra i poteri la propria bandiera. Di esibire con orgoglio, quasi con spavalderia, la giustizia sociale anche come luogo dei diritti e delle garanzie, prime tra tutte, quella della libertà e del principio dell’habeas corpus.

Invece di scandalizzarsi se al fianco di uno stimato garantista come Nordio, sia nella difesa dei referendum sulla giustizia che nel suo programma di governo, ci siano gli uomini di Berlusconi e in parte anche quelli di Salvini e Meloni, si domandino le donne e gli uomini eredi di Berlinguer perché non ci sono loro. Perché prima si siano fatti tenere per mano dai pubblici ministeri e poi dai seguaci di Travaglio. Si diano una risposta decente, poi votino per la nascita della Commissione su tangentopoli, e ne rivendichino la Presidenza. Questa è la strada anche per affrontare momenti difficili come questo nato al Parlamento europeo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Dal centrosinistra a Tangentopoli. Ecco i “testimoni” di Ugo Intini…L’ex dirigente del Partito socialista racconta in un bel saggio l’ascesa e la morte della prima Repubblica. Francesco Damato su Il Dubbio il 13 novembre 2022.

Come gli è capitato di fare nel 2014 con una bella e orgogliosa storia del suo Avanti!, intrecciandola in 754 pagine con quella dell’Italia della Monarchia e della prima Repubblica, praticamente ghigliottinata dalla magistratura a mani cosiddette pulite, così Ugo Intini – che nel quotidiano socialista ha percorso tutta intera la carriera giornalistica, da redattore a direttore- ha fatto con i suoi Testimoni di un secolo, ancora fresco di stampa, edito da Baldini+Castoldi.

In 684 pagine scritte – come gli ha riconosciuto sul Sole- 24 Ore Sabino Cassese “in maniera avvincente, con verve e acume, grande attenzione per i particolari” ha ripercorso la storia del Novecento, non solo italiano, attraverso 48 protagonisti sistemati in una metaforica galleria di ritratti. Protagonisti – ha avvertito Cassese – “oltre a comprimari e l’autore del libro, auctor e agens”.

Del Psi del garofano guidato da Bettino Craxi all’insegna dell’autonomia e del riformismo Intini non è stato solo un dirigente, e portavoce del segretario, ma anche un ispiratore: per esempio, con il suo saggio, a quattro mani col compianto Enzo Bettiza, sulla compatibilità fra liberali e socialisti. Era il lib-lab.

Dal centro- sinistra col trattino degli anni sessanta, che si diede come segno distintivo i liberali sostituti al governo dai socialisti, si passò negli anni Ottanta, con Craxi in persona a Palazzo Chigi, al centrosinistra senza trattino – il famoso pentapartito – comprensivo dei liberali. Fu un’evoluzione pragmatica e ideologica al tempo stesso.

Vi confesso che la prima cosa che sono andato a cercare nella galleria dei ritratti del mio amico Ugo è stata la parte relativa alla tragedia di Tangentopoli gestita giudiziariamente, mediaticamente e politicamente in modo che diventasse una tragedia soprattutto socialista, pur essendo arcinota la diffusione generale del finanziamento illegale dei partiti, all’ombra di una legge a dir poco ipocrita sul loro finanziamento pubblico. Che stanziava a questo scopo meno della metà di quanto si sapeva che essi costassero.

Mi ha sorpreso, in verità, una certa comprensione di Intini verso Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale nel 1992, cioè all’alba già avanzata di Tangentopoli, grazie alla preferenza del Pds- ex Pci rispetto alla candidatura del laico Giovanni Spadolini, ma grazie anche, o ancor più, all’assenso dei socialisti.

Che fu motivato – ha spiegato Intini- dalla fiducia che Scalfaro da ministro dell’Interno di Craxi si era guadagnato tirando fuori dagli archivi del Viminale e dintorni un documento che confermava la convinzione dei socialisti, a cominciare dallo stesso Intini, che il nostro comune amico Walter Tobagi, del Corriere della Sera, fosse stato assassinato da aspiranti brigatisi rossi il 28 maggio 1980 per negligenza anche degli apparati di sicurezza della Repubblica. Ai quali era stato segnalato in tempo il progetto quanto meno di rapirlo.

Scalfaro che, consultando inusualmente nella crisi d’inizio della nuova legislatura anche il capo della Procura di Milano, rifiutò a Craxi il ritorno a Palazzo Chigi pur proposto dalla Dc di Arnaldo Forlani e dagli altri alleati, secondo Intini “ebbe certamente un ruolo nel salvare il salvabile” in quegli anni terribili.

Anche se poi, “almeno sul piano economico – ha aggiunto Intini– il merito è andato al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi”, mandato da Scalfaro a Palazzo Chigi nel 1993.

Ho storto il muso pensando a quanto quel rifiuto di Scalfaro di conferirgli l’incarico nel 1992 avesse indebolito Craxi nella caccia al “cinghialone”, come lo chiamava il magistrato simbolo dell’inchiesta Mani pulite: Antonio Di Pietro. Poi ho capito l’illusione procurata da Scalfaro a Intini con una difesa dei partiti espressa con queste parole “Demonizzarli, criminalizzarli è terribilmente pericoloso, poiché senza partiti non c’è democrazia”.

“Credevamo che questo fosse un argomento decisivo”, ha scritto Intini al plurale. “Ma ci sbagliavamo di grosso”, ha aggiunto, “perché non sapevamo che sarebbero arrivati i grillini a teorizzare la democrazia diretta, a individuare i parlamentari come il vertice della casta e a imporre a titolo punitivo e simbolico il taglio”. No, Ugo, prima ancora dei tagli grillini al Parlamento abbiamo avuto in Italia la demonizzazione dei partiti temuta sì da Scalfaro ma da lui non contrastata, o non contrasta a sufficienza.

I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022

Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.

Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.

Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).

Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato. 

Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».

IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA

In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.

Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.

In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).

Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.

E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,

Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Giustizia fanta-horror. Il reato di lesa maestà di Mani Pulite e la libertà di parola di chi non è magistrato. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022

Tre ex pm si sono offesi per un articolo di giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Tangentopoli, ma in passato uno di loro non si è fatto problemi con i parlamentari della Bicamerale

È passato quasi un quarto di secolo, ma molti ancora ricordano l’intervista di Gherardo Colombo a Giuseppe d’Avanzo sul Corriere della Sera del 22 febbraio 1998, in cui il pm della procura milanese fece esplodere una vera e propria bomba sotto il tavolo della Commissione Bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D’Alema.

La tesi sostenuta da Colombo era che la riforma della Repubblica, cui la Commissione stava mettendo mano, fosse figlia della “società del ricatto” che univa in un patto occulto forze politiche e organizzazioni criminali e dunque che il tentativo di riscrivere la seconda parte della Costituzione, facendo una serie di riforme in materia di giustizia, rispondesse alla necessità di quella “società” di occultare gli scheletri del passato. «La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto». 

A D’Avanzo, che gli chiese esplicitamente se intendesse la Bicamerale come «la strada obbligata per chi, partecipe degli illeciti di ieri, oggi è obbligato a scegliere l’accordo», Colombo rispose in modo molto sincero: «È detto in modo un po’ brutale, ma è quel che penso. Ecco perché, a mio avviso, la Bicamerale deve anche affrontare la questione della giustizia».

Non ricordo tutto questo per discutere se abbia qualche pregio o fondatezza storica la tesi di Colombo sul filo rosso criminale che legava la mediazione della mafia per facilitare lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943, la trattativa con la camorra per la liberazione di Ciro Cirillo, i fondi neri dell’Iri e la P2 alla proposta di separazione delle carriere dei magistrati inutilmente negoziata nella Bicamerale D’Alema. La cosa che mi interessa rilevare è che questi addebiti oggettivamente pesantissimi non solo rispetto al sistema dei partiti, ma soprattutto rispetto ai membri della Bicamerale chiamati ad attuare, per così dire, l’estorsione criminale trasfigurandola e sigillandola in innovazione costituzionale, fossero da Colombo presentati come un fattivo contributo alla discussione: «Le mie considerazioni non vogliono (come è ovvio) e non potrebbero (come è giusto) condizionare il lavoro del Parlamento nella riscrittura della seconda parte della Costituzione. Le mie sono soltanto osservazioni di carattere generale sul tema della giustizia e dei modi di amministrarla».

Malgrado le polemiche politiche, gli imbarazzati distinguo dell’Associazione nazionale magistrati e l’avvio di un’azione disciplinare, da cui Colombo uscì prosciolto, sul presupposto che si trattasse di opinioni compatibili con il suo ufficio di magistrato, la cosa che ai nostri fini importa è che Colombo non fu mai processato né condannato per avere calunniato o diffamato i parlamentari della Bicamerale, né i vertici politici impegnati a trovare un accordo dettato dalla “società del ricatto”.

Allora perché Colombo, insieme a due ex colleghi del pool milanese, Davigo e Ramondini, si è sentito personalmente diffamato da un articolo di Iuri Maria Prado su Il Riformista che descrive l’epopea di Mani Pulite, a partire dalla stessa denominazione, come una pagina di «terrore giudiziario… civilmente osceno e democraticamente blasfemo» e dichiara che la «cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava furono e rimangono la vergogna della Repubblica», e che «svergognata» è la magistratura «che ne rivendica la paternità»? Un giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Mani Pulite è più penalmente sensibile di un giudizio escatologico sulla trappola criminale che imprigionava la Bicamerale?

Dopo la querela presentata dai tre (due ex) magistrati, la Procura di Brescia, territorialmente competente, aveva chiesto l’archiviazione per Prado, sulla base del pacifico presupposto che il diffamato non è chi si senta offeso, in quanto parte di una categoria o di un gruppo sociale, dalle parole di qualcuno, ma quello cui la presunta offesa sia personalmente e inequivocabilmente rivolta. Insomma, Prado, chiamando in causa in quei termini l’esperienza di Mani Pulite non ha diffamato i membri del pool più di quanto Colombo un quarto di secolo fa avesse diffamato i membri della Commissione Bicamerale o i segretari e i dirigenti dei partiti del tempo, dicendo che la riforma costituzionale in preparazione era figlia di un ricatto criminale. Con una differenza rilevante: che Prado, diversamente da Colombo, non si è mai riferito a questo o quello specifico atto di ufficio di questo o quel magistrato, ma al clima e alla cultura del tempo e ai pubblici atteggiamenti di chi, fuori e dentro la magistratura, vi operava.

Il Gip di Brescia, contro la richiesta del pm, ha invece disposto l’imputazione coatta di Prado ritenendo che il combinato disposto della dicitura “Mani pulite” contenuta nel titolo (non scelto dall’autore) e nel testo dell’articolo, il riferimento al «manipolo meneghino di pubblici ministeri» e un’immagine di repertorio usata dal giornale a corredo dell’articolo (non scelta dall’autore), relativa a uno dei tre querelanti, cioè Colombo (l’unico citato per nome da Prado come «ottima persona»), permettano «in termini di ragionevole certezza di individuare in modo inequivoco i destinatari delle affermazioni diffamatorie negli odierni querelanti». In modo inequivoco, eh! 

Il Gip inoltre qualifica come in sé diffamatorio il riferimento a una «eversione giudiziaria organizzata» (anch’esso si suppone inequivocabilmente riservato ai tre querelanti) interpretando il termine “eversione” in un senso tecnico-criminale, e non nello stesso senso figurato e iperbolico per cui è consentito da decenni agli esimi rappresentanti della magistratura italiana – querelanti compresi – di qualificare come eversive o direttamente piduiste alcune proposte di riforma della giustizia, partendo – visto che tutto torna? – dalla separazione delle carriere di magistrati. 

Peraltro, per chi avrà la pazienza di leggerlo, risulterà chiaro che nell’articolo di Prado l’eversione contestata alla cultura di Mani Pulite riguarda soprattutto la proiezione extra-giudiziaria dei magistrati militanti e televisivi e la loro sinistra postura da soprastanti del potere politico-legislativo e da Consiglio dei Guardiani della morale della Repubblica.

L’articolo di Prado parla insomma di una temperie storica isterizzata e fanatizzata, di uno spirito pubblico avvelenato, di una cultura del chiedere e del fare giustizia che ha, a parere dell’autore e pure modestamente dello scrivente, irrimediabilmente corrotto la nozione e pervertito il funzionamento del sistema penale. 

Non addita le responsabilità di nessuno, ma chiama in causa quelle di tutti (non dei soli magistrati), in quella gigantesca autobiografia nazionale che si iniziò a scrivere nei corridoi delle procure, dilagò nelle piazze delle monetine contro il delinquente del Raphael che doveva marcire nelle patrie galere e infine giunse, con il maiosmo politico-giudiziario del Movimento 5 stelle, ad accomodare i peggiori e ultimi epigoni della retorica manipulitista ai vertici dello Stato. 

Prado scrive di tutto questo nello stesso modo risentito e scandalizzato con cui il “diffamato” Colombo un quarto di secolo prima faceva requisitorie in prima pagina, senza paura di scandalizzare e di diffamare (e senza timore di querele, ipotizziamo), sull’Italia della Bicamerale.

Il processo che si chiede contro Prado ha quindi molteplici profili di interesse e altrettanti di allarme. Sarà interessante verificare se per il giudice di Brescia la libertà di parola, di iperbole e di metafora dei non magistrati sia almeno pari a quello dei magistrati e se la diffamazione “categoriale” valga solo per questi ultimi o magari anche per i politici o per i giornalisti o (Prado non è né un politico, né un giornalista) per i cittadini civilmente impegnati, così da aprire nuove e funeste pagine di giurisdizione fanta-horror. 

Ma questo processo sarà anche interessante per capire se quelle cartelline “per una serena vecchiaia”, in cui Davigo dice di collezionare le querele e le richieste di risarcimento per le diffamazioni a mezzo stampa, interesseranno anche quella parte dell’informazione italiana che le querele da Davigo proprio non le rischia, ma farebbe bene comunque a preoccuparsene. Infatti a funzionare come “querele bavaglio”, con un effetto, neppure con un proposito, intimidatorio, non sono solo le querele minacciate dai politici – si pensi al notissimo e recentissimo caso del Ministro Crosetto – ma, da parecchi anni, anche quelle largamente dispensate dai magistrati a chiunque metta in dubbio la maestà delle loro persone o addirittura, come in questo caso, del fenomeno storico-politico di Mani Pulite.

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 27 luglio 2022.

“Vuoi pure queste, Bettino, vuoi pure queste…” Era il 30 aprile del Novantatré, l’Italia sull’orlo del precipizio, e Craxi, il capro espiatorio di ogni male italicus. Quella sera, quando il corpo imponente di Bettino lasciò l’hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, nel cielo già terso e primaverile della Capitale, il grido dei manifestanti divenne feroce. 

Avevo 13 anni, e a cena il nonno, vedendo le immagini mandate in onda da mamma Rai, non la smetteva di dire: ma che sta succedendo a Roma? Capivo nulla di politica, ma quelle urla, quelle monete sonanti che volavano sulla testa e sul corpo del gran capo socialista, mi rimasero impresse. Anche dalla provincia povera e, per certi versi, ignorante e retrograda, si capiva che la slavina stava prendendo forza e velocità e che avrebbe travolto la vecchia politica e tutti i mammasantissima del Palazzo.

A distanza di quasi trent’anni, sembra tutto sbiadito, per certi versi evaporato. La storia ha preso il sopravvento sulla cronaca. I politici della Prima Repubblica morti e sepolti e dimenticati. I partiti? Liquefatti. Le sezioni? Chiuse per sempre. 

In un Paese che non ha mai amato coltivare il vizio del ricordo, qualcuno, però, ancora si ostina a lucidare la recente storia patria… 

E così, in un sabato torrido, decido di lasciare la canicola e la sporcizia romane, per salire dalle parti di Orbetello, e raggiungere il buen ritiro di Stefania Craxi, la vera combattente della famiglia. 

A pochi metri dalla sua dimora, la sinistra borghese e noiosa, quella che si dà di gomito nei premi letterari e nelle stanze del potere capitolino, è sdraiata all’Ultima Spiaggia di Capalbio. 

La chiacchierata comincia quasi con una colazione e finisce a pranzo. 

Stefania Craxi non ha il viso pacifico, e pacificato, anzi. Quando i ricordi, ineluttabili, salgono su, fin negli anfratti più resistenti e respingenti della memoria, si rabbuia. I segni del dolore e della rabbia sono palmari, nonostante il sorriso contagioso. 

Con Tangentopoli – o la “falsa rivoluzione”, come l’ha più volte definita – Stefania Craxi non ha smesso di fare i conti, anzi. Appena può, prova a richiamare tutti alle loro responsabilità; appena può, rispolvera e riapre il vaso di Pandora, con i tradimenti, le colpe, le dimenticanze, le prese di distanze, di tutti, o quasi: socialisti, comunisti, democristiani, giudici e giornalisti…

Ripensando al suo j’accuse, una domanda, nei giorni successivi, mi ha accompagnato: riuscirà la Storia, una volte per tutte, e senza gli occhiali della ideologia, a chiarirci chi è stato veramente Bettino Craxi, e cosa ha rappresentato per il nostro Paese…? 

Stefania, cominciamo subito questa intervista con il botto: dov’era la sera del 30 aprile 1993, quando suo padre Bettino fu subissato di monetine dinanzi all’hotel Raphael?

Purtroppo non ero con lui, non mi trovavo a Roma, ma quella sera me la ricordo perfettamente. Ero a letto, a casa, perché incinta della mia terza figlia; una gravidanza che mi stava dando non pochi problemi. In serata, all’ora di cena, accendo la tivù e leggo sul Televideo di questo episodio assurdo, barbaro, un’aggressione squadrista, come l’avrebbe definita lui stesso.

A Giuliano Ferrara, che lo intervista poco dopo, in quello stesso pomeriggio, nel suo programma L’Istruttoria, e che gli chiede se ha avuto paura, Craxi risponde che no, non ha avuto paura, che ha provato solo vergogna per loro. 

E nonostante il suggerimento degli uomini della sicurezza, che lo invitano a uscire dal retro, Craxi decide di varcare il portone principale del Raphael, si infila in macchina, alza lo sguardo fiero. Alle 10 della sera, riesco finalmente a sentirlo; mi trova scossa, turbata, in lacrime. Stefania, mi dice, ricordati che una Craxi non piange. Il suo messaggio era chiaro: sei nata in una famiglia politica, quella politica che ha a che fare con la vita e con la morte, devi saper affrontare i momenti difficili che verranno.

Che emozioni provò? 

Rabbia, impotenza, un senso di ingiustizia, rammarico, forse, per non essere stata lì con lui. 

Che bambina era? 

Una bambina che ha amato trascorrere tanto tempo con suo padre… 

Addirittura. 

Da bambina, capii una cosa importantissima: se volevo relazionarmi con lui, dovevo imparare, e in fretta, il linguaggio della politica. Per questo amavo ascoltarlo tantissimo. Il fine settimana, quando tornava da Roma, io non uscivo con i miei amici fino a quando non capivo che mio padre non mi avrebbe portato con sé. Sentivo il respiro della Storia. Ma ricordo anche momenti intimi, per esempio, quando prendevamo la metropolitana e andavamo a San Siro, a vedere le corse dei cavalli. 

Perché suo padre scelse di vivere in un albergo? 

Non lo considerava un albergo: era di proprietà di uno dei suoi più cari amici, Spartaco Vannoni, personaggio straordinario e uomo coltissimo. Era stato in passato una spia della Stasi, poi divenne anticomunista. Mio padre ha sempre ritenuto Roma una città provvisoria, di passaggio, per la sua vita. E anch’io, in realtà, quando scendevo a Roma, consideravo il Raphael una seconda casa.

Quando le capita di passargli vicino, cosa prova? 

Faccio fatica a spingermi fino a largo Febo, i ricordi e le emozioni si rincorrono velocemente, sono ancora molto forti. Oggi, poi, essendo stato ristrutturato, la stanza di papà non c’è più. Una volta, ricordo, ebbi uno scontro con Filippo Ceccarelli, il quale, dalle colonne di Repubblica, scrisse che la camera di mio padre fosse lussuosa. Ma era vero l’esatto contrario. Possibile, gli dissi, che a nessuno dei giornalisti di Repubblica sia mai venuto in mente di intervistare Craxi nella sua camera? Solo Giampaolo Pansa, dalle pagine di Libero, rispose dandomi ragione.

Ha mai provato a mettersi nei panni e nella testa di quelli che lanciarono le monetine? Non erano mica tutti facinorosi e pazzi…  Lei, giustamente, pensava alle sorti di Bettino, loro, invece, al bottino e alle mazzette che, ogni giorno, spuntavano fuori. 

La campagna mediatica fu violenta, mistificatoria, denigratoria, e non stento a credere che le persone comuni possano avere creduto in toto a quello che leggevano sui giornali. Una cosa, però, ancora me la chiedo: perché da destra mi hanno chiesto scusa, e da sinistra ancora no? I leader della sinistra dovrebbero porsi una domanda: come mai l’elettorato socialista è confluito tutto nel centro-destra? 

Lo faranno, secondo lei? 

Finché c’è vita, c’è speranza… 

Che fine ha fatto il tesoro del partito socialista? L’ha mai chiesto a suo padre? 

Mio padre non si occupava della gestione amministrativa del Psi. In quel periodo ce n’erano tanti, di conti; e ogni corrente poteva disporre di denaro; qualcuno, probabilmente, sarà sparito, altri, invece, riposano in qualche banca, chissà. 

È stato un grave errore quello di aver lasciato fare… Un segretario di partito non può lasciare che fiumi di denaro scorrano senza lasciare tracce, senza controllo. È d’accordo?

Le rispondo con le parole che Bettino Craxi consegnò a Sergio Zavoli, che lo andò a intervistare ad Hammamet: ''Io, probabilmente, ho sopravvalutato il mio ruolo, la mia personalità, la mia capacità di tenere in mano, saldamente, le cose…C’erano circostanze di cui avevo perso completamente il controllo…Erano situazioni che andavano degenerando, a volte infracidendo''.  

Martelli ha dichiarato pubblicamente di aver restituito la bellezza di 550 milioni di lire, e suo padre, invece, no…

Perché non è stato chiesto ai prefetti di Milano, che non potevano non saperlo, qual era il tenore di vita di Craxi e dei suoi familiari? Mia madre, con il marito presidente del Consiglio, andava in Corso Vercelli a fare la spesa in tram. Mio padre non possedeva tutti quei soldi. Cosa avrebbe dovuto restituire? Tutti sapevano che Craxi aveva uno stile di vita per nulla sfarzoso e, del resto, sarebbe bastato chiederlo agli uomini della sua scorta, che gli stavano accanto 24 ore su 24. 

Perché non ha mai sopportato Martelli? Eppure era la punta di diamante del partito… Era invidiosa della sua brillantezza, intelligenza, dell’ascendente che aveva su suo padre?

Stimo Martelli per la sua intelligenza e per la capacità di analisi politica che ancora oggi farebbe bene a questo Paese. Ma a Claudio ho sempre detto, guardandolo negli occhi, che ha commesso un grandissimo errore, umano prima ancora che politico, ad abbandonare il segretario nel momento peggiore, quando il Psi stava fronteggiando l’avanzata di truppe assedianti, quelle giudiziarie e quelle mediatiche in primo luogo. 

Una volta ha detto: senza mio padre, Amato sarebbe ancora un professore universitario. Che cosa le ha fatto il dottor Sottile? Lo reputa vigliacco, fariseo, arrivista? 

Giuliano Amato è un uomo di grande esperienza, non gli mancano né le qualità e neppure l’intelligenza. E infatti è stato uno degli uomini più vicini a Craxi, suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché fra i massimi dirigenti del partito, commissario del Psi a Torino o a Milano quando scoppiava qualche grana. Dopodiché pongo una domanda: come mai il vice di Craxi viene periodicamente indicato come potenziale candidato alla presidenza della Repubblica, mentre mio padre dovette seguire la via dell’esilio? O sono manigoldi entrambi o entrambe sono delle brave persone… 

E De Michelis? 

Gianni è stato un politico di grande statura, un uomo di profondo spessore culturale, capace di anticipare con le sue analisi alcune delle dinamiche geopolitiche che avremmo vissuto negli anni successivi. E fu una persona vera; quando mio padre morì, le sue lacrime furono vere… 

Quante lacrime di coccodrillo ha visto cadere alla morte di Craxi? 

Tante, tantissime… 

Ci faccia qualche nome. 

Beh, tutti quelli che, per esempio, non sono mai venuti ad Hammamet. 

Chi erano le troie di regime, per dirla con De André, che affollavano le cene e i congressi? Se le ricorda? 

I congressi, e poi l’Assemblea Nazionale del Psi, rappresentano il primo tentativo di aprirsi alla società civile, parola, oggi, tanto abusata. Le ricordo alcune delle figure presenti: Strehler, Francesco Rosi, Portoghesi, Treu, Pera, Veronesi, Gassman. Ci sono stati i nani e le ballerine? Ma sicuramente… Vogliamo definire Sandra Milo una ballerina? Facciamolo pure, ma è stata una grandissima attrice! E Lina Wertmuller? Vuole che continui…? 

Chi sono stati, invece, politicamente parlando, i nani socialisti? 

Il socialista più nano sapeva suonare il violino con la punta dei piedi, altroché! La classe dirigente socialista, senza dimenticare quella locale, era composta da gente di prim’ordine… 

Come reagì, sua madre, quando si venne a sapere che suo padre aveva un’amante? 

A mio padre le donne piacevano, e lui piaceva loro, perché è sempre stato un uomo di grande fascino e carisma… Mamma, quando seppe delle fughe amorose di mio padre, ha messo in campo una capacità di comprensione e perdono che ancora le invidio. 

Pensò di mollarlo? 

Assolutamente no! E men che meno lui. Era facile sedurlo, difficile tenerlo. Ci è riuscita solo mia madre. 

E lei, invece?

Ero gelosissima; appena potevo, cercavo di fargli terra bruciata, confondendo, a dire il vero, un po’ i ruoli. Una volta, ora che ci penso, strappai un orecchino a una sua fiamma… 

Quali sono state, secondo lei, le colpe che suo padre ha commesso? 

Pensare che i comunisti potessero cambiare; e dare fiducia a uomini che non la meritavano affatto… 

Tipo?

Fare sempre i nomi non è gradevole. Sa, lui aveva una giustificazione per tutto. Quando qualcuno sbagliava, o lo tradiva, diceva sempre: poverino. Aveva sempre un atteggiamento giustificatorio verso le debolezze umane. Una volta, me lo ricordo come fosse ora, arrivò un caporedattore dell’Avanti, tutto trafelato e contento, e gli disse: 

Bettino, ho scoperto che alcuni giornalisti dell’Avanti sono a libro paga del Kgb. Mio padre, senza scomporsi, gli rispose: questo ha una brutta malattia, quest’altro ha un mutuo sulle spalle, quest’altro ancora ha quattro figli da mantenere… Cambierà la storia del mondo se li metto da parte? Lasciamoli stare… Ogni tanto, ho provato a fargli cambiare idea, ma lui niente: mi diceva che ero una bacchettona… Il tempo, però, mi ha dato ragione.

Come venne a sapere che suo padre si sarebbe dato alla latitanza? Ne era a conoscenza? 

Mio padre non si è dato alla latitanza… 

Ma come, uno che scappa, come la vuole chiamare…? Viaggio Alpitour? 

Mio padre è andato in Tunisia, a casa sua, con il suo passaporto… 

Tecnicamente, e non solo, si chiama latitanza… 

I giudici, tecnicamente, hanno commesso un abuso; avrebbero potuto emettere un provvedimento di rimpatrio, perché non l’hanno fatto? Tornando alla sua domanda, lui non mi disse che sarebbe andato ad Hammamet, ma io sentivo che avrebbe lasciato l’Italia. 

Temeva le patrie galere, Bettino…? 

No, non ha inteso sottomettersi a una giustizia politica, farsi umiliare da chi lo voleva vedere in ginocchio. Tanti politici, soprattutto quelli che si sono smarcati, farebbero bene a rileggersi quel famoso discorso che mio padre fece alla Camera, il 3 luglio del 1992, in occasione del dibattito sul voto di fiducia al governo Amato, che, lo voglio ricordare, non era per niente una chiamata in correità, bensì il tentativo di affrontare con gli strumenti della politica la crisi della Repubblica. Quell’invocazione si disperde nel silenzio dell’Aula, più eloquente di ogni parola, denso di verità, come avrebbe commentato lo stesso Craxi.   

Non pensa che, come fece anche Andreotti, che santo di certo non era, avrebbe fatto meglio a difendersi nelle aule giudiziarie? 

Ma cosa vuol dire, per lei, essere un santo? Lei lo è?

No, per niente, ma io non sono un politico…

Andreotti è stato un grande politico della Prima Repubblica, ma, a differenza di Craxi, aveva lo scudo da senatore a vita, oltre che l’ombrello protettivo del Vaticano. 

Quali giudici del Pool ha apprezzato? Non erano perfetti, ma, di certo, ispiravano fiducia… 

Se quei giudici avessero fatto un’opera di vera pulizia e giustizia, senza scopi politici, li avrei di certo apprezzati. Lei mi può dire perché quasi tutti hanno fatto politica? Di Pietro, Colombo, D’Ambrosio…Non dimenticherò mai quella lettera di Borrelli, scritta in un orrendo burocratese, indirizzata a don Verzé e agli avvocati, in cui praticamente vietava a mio padre di curarsi in Italia. Solo D’Ambrosio, eletto nelle file dei Ds, ammise, anni dopo, in un’intervista rilasciata al Foglio, che la molla di Craxi era la politica, non l’arricchimento personale, che Craxi per sé non aveva mai intascato una lira. 

Come mai, se se lo è mai chiesto, il Pci di allora fu, soprattutto nei suoi nomi grossi, salvato? Erano meno corrotti degli altri? Cosa le disse suo padre, a tal proposito?

Lei fa confusione tra i casi di corruzione che, disse Craxi in Parlamento, come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati, e il finanziamento illegale ai partiti. Perché, quando nel 1989 ci fu l’amnistia, votata anche dal Pci, nessuno osa aprire bocca? Lei pensa davvero che le tangenti in Italia siano girate solo nel biennio 1992-1994? Oggi pensa davvero che la corruzione sia diminuita…? 

Le rifaccio la domanda: perché il Pci, secondo lei, è stato “salvato”? 

Perché un partito di sistema serviva per mettere in atto la falsa rivoluzione. Da dove passava gran parte del finanziamento illegale comunista, se non dall’import-export delle Coop; e ancora, che fine ha fatto il famoso miliardo di cui parla Gardini, portato a Botteghe Oscure? E l’enorme flusso finanziario proveniente dall’Urss, una potenza militare nemica dell’Italia? Ci siamo dimenticati di tutto questo? 

“La politica è sangue e merda”, disse Formica. Perché lei, nonostante le sofferenze provate e la capitolazione invereconda di suo padre, ha deciso comunque di fare politica? Ostinazione, vanità, follia?

Vengo da una famiglia politica, per noi la politica è come l’acqua dove nuotano i pesci, non potevo di certo tirami indietro. Poi volevo, dopo quello che era successo a Craxi e al Partito socialista, provare a fare un’opera di verità e restituire a quella storia socialista il posto giusto che merita. Da questo punto di vista, l’essere stata eletta presidente della Commissione Esteri al Senato ha rappresentato una piccola rivincita della storia.

Non ha mai avuto paura nel fare politica? 

Se vuoi fare politica, la paura non può esistere nel tuo vocabolario. 

Tra le tante, cosa non amava di suo padre? L’arroganza, l’attaccamento al potere, la freddezza, la scarsa empatia… 

Mio padre non era né arrogante né attaccato al potere. Il suo difetto più grande? Che era gelosissimo… 

C’è un ricordo che non le dà pace, di quando suo padre era ad Hammamet? 

Più che un ricordo, forse il rimpianto di non avere fatto abbastanza per la sua vita, soprattutto quando stava male. Forse sono stata inadeguata… 

Quante volte ha messo in dubbio l’onestà e trasparenza di Bettino, soprattutto nei momenti in cui fioccavano le inchieste?

Mai! 

Quali sono i politici della Seconda Repubblica che disprezza e perché? Le faccio dei nomi: Rutelli, Fassino, D’Alema, Veltroni… 

Intanto, la parola disprezzo non appartiene al mio vocabolario. Direi disistima. A Rutelli ho dato del grandissimo stronzo. Fui querelata. Sono passati vent’anni, col tempo le arrabbiature passano e, di recente, ci siamo anche riparlati.

Ricordo che una volta, dopo che fui condannata a pagare una multa di cinquantamila lire per l’epiteto che gli rivolsi, mio padre commentò sarcastico che, “grazie a mia figlia, tutti adesso sanno quanto costa dare dello stronzo al sindaco di Roma”. 

Fassino, pur essendo stato un giustizialista feroce, ha provato, a differenza di altri, a fare un po’ i conti con la storia di Tangentopoli. D’Alema, che ci faceva la morale tutti i giorni, in quanto ad affari, non penso debba insegnare nulla a nessuno. Veltroni, invece, ogni tanto prova a raccontare sulle pagine del Corriere la storia a modo suo. Ma nessuno ha ancora fatto davvero i conti con Craxi. 

Come mai, secondo lei, tanti socialisti, crollato il partito, sono finiti nelle mani di Berlusconi, che con il socialismo non c’entrava proprio? 

Anche per reazione a quello che era successo. Una domanda che molti dovrebbero porsi! Forza Italia ha rappresentato l’approdo naturale per sanare la ferita che era stata inferta alla comunità socialista. O lei pensa che fosse possibile muoversi nell’alveo di Botteghe Oscure, dove avrebbe continuato a dominare l’antisocialismo viscerale?

Lei si sente più una socialista o una capitalista, visto il lavoro da imprenditore fatto per anni? 

Io mi definisco una socialista craxiana. 

Perché suo padre volle aiutare un parvenu come Berlusconi con quel famoso decreto? Re Silvio finanziava il partito? 

No, Berlusconi non ha mai finanziato il partito e, soprattutto, non ha mai fatto parte dell’establishment del Paese. Mio padre lo ha aiutato molto perché le televisioni commerciali rompevano il monopolio della Rai. Fu quella una battaglia di libertà, per il progresso dell’Italia. 

Perché suo padre detestava i giornalisti? Eppure, nei suoi anni d’oro, c’era la fila per leccargli i piedi… 

Non è vero che li detestava, anzi; con alcuni aveva anche ottimi rapporti personali… 

Giulio Anselmi mi ha raccontato di una telefonata furibonda di suo padre con annessa minaccia di fargli perdere il posto… 

Credo che non si apprezzassero a vicenda. L’atteggiamento di Anselmi nei confronti di mio padre fu a dir poco scandaloso, ma comunque Craxi non ha mai fatto cacciare nessuno. 

E perché? Scandaloso perché indipendente? Anselmi è stato uno dei pochi direttori veramente liberi…

La campagna di informazione fatta da Anselmi e da tanti altri fu denigratoria. Lei forse l’ha dimenticato, ma mi vengono in mente alcune prime pagine, con le pubblicazioni di conversazioni private tra me e mio padre. Un grafico importante, tale Muzi Falcone, colui che inventò il simbolo della Quercia, mandò una lettera ai giornali in cui affermava che la sottoscritta fosse ricoverata in una casa di disintossicazione… 

Faceva uso di cocaina, o era schiava della bottiglia?

Ma no! Avevano messo in giro questa voce solo per gettarmi del fango addosso. 

A proposito di grandi direttori: cosa pensa di Scalfari? 

Penso che, da un punto di vista politico, non ne abbia azzeccata una! 

Perché tra Scalfari e Craxi il rapporto è sempre stato burrascoso? 

Semplice: Scalfari imputava a mio padre la mancata elezione a deputato, sul finire degli anni Settanta. E, come si è potuto vedere, non gliel’ha mai perdonata.

C’era qualche giornalista, invece, che lui stimava? 

Nonostante i conflitti, stimava molto Giampaolo Pansa, e tutti i giovani cronisti che lo seguivano nei viaggi, penso a Massimo Franco, a Marcello Sorgi, a Paolo Mieli. Craxi amava in modo particolare gli irregolari, i “liberi di testa”: Giampiero Mughini, Vittorio Sgarbi, Roberto D’Agostino… 

Se non erro, anche gli stilisti, un tempo tutti socialisti, hanno abbandonato suo padre… Dico bene?

Craxi capi’ e seppe interpretare il Made in Italy, la capacitàla laboriosità degli italiani e se ne fece ambasciatore nel mondo. E così anche Milano soppiantò Parigi come capitale della moda. Questo era il motivo della riconoscenza di quel mondo verso Bettino. Mi ricordo, a onor del vero, una volta in cui Krizia sostenne di non conoscerlo a cui rispose mia madre con una garbata lettera in cui disse che Krizia, tra gli altri, le prestava gli abiti durante i suoi viaggi a fianco di Craxi, presidente del consiglio, e lei aveva pensato fosse un segno di amicizia…

“Io provo un rancore tanto grande che non ho posto per i piccoli rancori”. Mi ha incuriosito questa sua riflessione, per certi versi amara… 

Una riflessione figlia del fatto che l’ingiustizia subìta da mio padre è talmente grande, che non riesco a dimenticare. Ma il mio, voglio chiarirlo, è un rancore politico. Pretendo delle scuse, in primis dalla sinistra, che, a distanza di tanti anni, ancora non ha fatto i conti con sé stessa. 

Le scuse… ma non arriveranno mai… E’ un’illusa… 

Questo lo dice lei.

Per il cognome che porta, o che portava soprattutto quando suo padre era all’apice del potere, si è mai sentita usata? 

No, perché ho pochi amici, quelli di sempre, quelli che non ti tradiscono mai… 

Ha mai avuto paura di finire in miseria, quando stava crollando tutto? 

In miseria no, ho sempre lavorato, ma con mio marito abbiamo passato momenti di grande difficoltà, perché quando scoppiò Tangentopoli nessuno ci rispondeva al telefono, la nostra azienda rischiava di fallire… 

I nomi, Stefania… 

Neanche sotto tortura. 

Qual è stato il momento più doloroso della sua vita?

La morte di Bettino Craxi. 

Nel film su suo padre, Gianni Amelio tratteggia suo fratello Bobo in maniera poco tenera. C’ha visto giusto…? 

A naso, penso non si siano piaciuti… 

E il film, le è piaciuto? 

Ad Amelio, che stimo molto come regista, non interessava fare un film “politico”, ma tracciare un parallelo fra la parabola di Craxi e le grandi tragedie classiche. Nel film c’è quindi poca politica, e Craxi era un uomo “totus politicus”. Il merito della pellicola è stato quello di avere acceso i riflettori sulla sua storia. 

Al di là dell’affetto, ha stima per la carriera di Bobo? Eppure c’è chi dice che non abbia nessuna stoffa particolare e che senza quel cognome sarebbe stato un perfetto sconosciuto? 

Penso che mio fratello abbia fatto un grandissimo errore: quello di essere passato a sinistra, quella stessa sinistra che il nome Craxi non l’ha mai sopportato e accettato. 

Che rapporto ebbe l’Avvocato con suo padre?

A differenza di tanti politici di oggi, Craxi non si è mai inchinato dinanzi al gotha dell’imprenditoria, ai santuari del capitalismo. Lo muoveva la convinzione che la politica dovesse esercitare il primato sulla finanza e sull’imprenditoria… 

Agnelli, da uomo di potere, chiedeva continui favori a chiunque… Anche a suo padre? 

Ricordo che mio padre, commentando le assoluzioni in casa Fiat, una volta mi disse: cosa andava a fare Romiti nell’ufficio degli amministratori dei partiti? A parlare del nuovo modello della 500?

Cosa le disse suo padre prima di morire? C’è un ricordo che non riesce a dimenticare? 

Dopo la sua morte, trovai un foglietto scritto a mano: “In questo processo, in questa trama di odio e menzogne devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri…” Ero lì con lui, ad Hammamet, poche ore prima che se ne andasse, e continuava a parlare di politica e dell’Italia. Una mattina, appena sveglio, mi disse che aveva sognato Milano, di essersi ritrovato a passeggiare in piazza Duomo.  Aveva nostalgia del suo Paese e dei tanti posti che non era riuscito a vedere. Dopo pranzo, mi disse: vado in camera a sdraiarmi, portami un caffè. Lo raggiunsi in stanza e lo trovai riverso sul letto, ormai privo di vita… 

Chi fu il primo, dopo la sua morte, a raggiungere Hammamet? 

Yasser Arafat… E poi le persone a me più care, compresi Casini e Follini… 

Dall’Italia, invece? 

Dall’Italia mi chiamarono in tanti. Ricordo che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, tramite il sottosegretario Minniti, offrì i funerali di Stato. Ringraziai, e risposi di no. 

Perché? 

Delle due l’una: o Craxi era uno statista, e allora aveva diritto ad essere curato in Italia da uomo libero, oppure era un delinquente, e allora non meritava tutti gli onori che gli venivano offerti in quel momento dalle massime autorità italiane. Scelsi la coerenza e la dignità. 

Quanto conta, per lei, il denaro? 

Nulla, anche perché ho un rapporto pessimo con i soldi.

È stata una donna fedele? 

Abbastanza, ma ho avuto due mariti… 

Una donna noiosamente monogama… 

Questo lo dice lei! 

Che gioventù ha vissuto lei in mezzo a quel circo? 

Non lo definirei circo, ma una comunità, una bellissima comunità… 

Le è mancata l’intimità, però… 

Assolutamente sì. Era difficile poter stare da soli con mio padre, soprattutto quando era a Roma. 

Lei ama avere il controllo su tutti, e tutti si appoggiano a lei, almeno questo è quello che ho notato… Ha mai voglia di scappare? 

Assolutamente sì, mi basterebbero tre giorni. 

E con sua madre, che rapporti ha? 

Fantastici! Ci ha sempre consentito di vivere una vita normale; quando si trovavano ad Hammamet, e la tempesta in Italia non si era ancora placata, la sentivo sempre serena, tranquilla. Probabilmente, per non affrontare il dolore nei suoi risvolti più spietati, cercava di stare sempre in superficie. Era un modo, il suo, per tenere botta.

Qual è stato il suo, e ultimo, giorno spensierato…? 

Se vogliamo parlare di spensieratezza, come tutte le mamme l’ho persa quando sono nati i figli…Se parliamo di serenità, i giorni precedenti al dramma che si è abbattuto sulla nostra famiglia e sull’Italia. 

Torna ancora volentieri in Tunisia?

La Tunisia è un Paese che mio padre ha profondamente amato, che io amo profondamente. Un Paese straniero, ma non estraneo, diceva Bettino. Lì mio padre ha vissuto i giorni dolorosi dell’esilio, lì è sepolto nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, di fianco al cimitero musulmano. Tutto il popolo tunisino ha protetto, amato, difeso e garantito la libertà del presidente Craxi, nel rispetto delle leggi e del diritto internazionale, accogliendo la mia famiglia in un momento molto difficile. 

Ha il viso malinconico, a tratti sofferente; ha mai conosciuto momenti di felicità? 

Ho passato periodi difficili, difficilissimi, con Tangentopoli e tutto quello che poi ne è conseguito per la mia famiglia. Chiaro che, parlando a lungo di una vicenda ancora dolorosissima, il mio viso si rabbuia e intristisce. Ma le posso garantire che nella mia vita la felicità, seppur fuggevole, abita questa casa…

Gli Usa "tifavano" per il pool. E Borrelli riferiva al console. Felice Manti e Edoardo Montolli l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il ruolo di diplomatici e 007 americani nel nostro Paese tra il '92 e il '94 in un libro sugli archivi segreti degli States.

Ai tempi di Tangentopoli l'attenzione della segreteria di Stato e dei servizi di intelligence degli Stati Uniti fu particolarmente concentrata nell'assistere alla fine della Prima Repubblica. «L'America si schiera dalla parte dei giudici che danno fiato alle inchieste sulla corruzione... Domina, nei resoconti e nelle informative dell'universo a stelle e strisce, il disinteresse per le sorti del vecchio ceto di governo, prevale nella narrazione sul regime change l'esigenza di guardare avanti, di non attardarsi nella salvaguardia dell'esistente. Un approccio, anche questo, certamente favorito dal mutamento degli equilibri internazionali, e dalla perdita di centralità geopolitica dell'Italia nel più ampio contesto di marginalizzazione del ruolo europeo».

Lo scrive Andrea Spiri nel suo ultimo libro The End 1992-1994 - La fine della prima Repubblica negli Archivi segreti americani (Baldini + Castoldi) dopo aver spulciato decine di rapporti confidenziali dell'epoca ottenuti grazie al Freedom of Information Act, la normativa che regola la declassificazione e l'accesso alle carte ufficiali conservate negli Archivi federali. Si scopre anzi che vi era un filo diretto tra la Procura di Milano e il consolato yankee all'ombra del Duomo, che veniva informato sull'andamento di Mani Pulite, specie nei momenti decisivi. Il 29 aprile 1993, ad esempio, dopo che la Camera aveva respinto le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, il console statunitense Peter Semler incontrò «il numero due dei giudici milanesi» il cui nome è omesso nel rapporto inviato al segretario di Stato americano. Subito dopo quel diniego il Pds di Achille Occhetto aveva imposto il ritiro dal governo dei ministri Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli. E il giudice si lamentava con Semler che «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore politico del genere». Non solo. Il magistrato, andando ben oltre le prerogative giudiziarie, riteneva che quella di Botteghe Oscure fosse stata una decisione che «destabilizza l'esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate». Prospettiva che era «evitare a tutti i costi» anche perché Craxi «verrebbe financo rieletto». E la cosa evidentemente stizziva anche gli americani se si pensa che in un cablogramma del successivo 7 giugno, Daniel Serwer, incaricato d'affari dell'Ambasciata statunitense a Roma, scriveva a Washington dopo le amministrative: «Paradossalmente gli ex comunisti del Pds sono forse gli interlocutori per noi più affidabili in questo frangente storico che vede il declino inesorabile dei partiti con cui abbiamo lavorato a lungo e sui quali abbiamo fatto affidamento». Ma a parlare con gli americani non c'era solo il numero due dei giudici milanesi. C'era forse anche il numero uno degli inquirenti. In un cablogramma del 12 maggio, solo parzialmente desecretato, Semler sintetizza l'incontro con un magistrato, sempre coperto da omissis, che Spiri ritiene di poter individuare nientemeno che nel capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, perché il console faceva riferimento al fatto che il padre della misteriosa toga era la persona che aveva convinto Oscar Luigi Scalfaro a lasciare la magistratura per entrare in politica. E storicamente è risaputo che Scalfaro fu convinto della scelta da Manlio Borrelli, papà di Francesco Saverio. Il magistrato annunciava al diplomatico uno scenario «caratterizzato da un numero di casi ancora maggiore rispetto alle attuali settecento indagini milanesi», lasciando intendere che «ci saranno pochi patteggiamenti» e, per il resto, «verranno celebrati processi lunghi» che «metteranno a dura prova le energie del pool». Ma gli americani guardavano con attenzione anche a ciò che succedeva al Sud, dove i pentiti trascinavano nell'abisso i vertici della Dc. Sicché, quando Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia, chiese audizione all'ambasciata, partì dopo l'incontro il cablogramma riservato The Accused. Andreotti speaks, datato 2 luglio 1993. Il senatore a vita riteneva che dietro le accuse contro di lui ci fossero «mafiosi americani» e «spezzoni deviati dei Servizi segreti italiani» oltre che dello United States Marshals Service, ovvero l'agenzia federale che sovrintende alle operazioni giudiziarie dall'altra parte dell'Atlantico. Ma non il governo americano. Si lamentava però della diffusione da parte di Washington di un cablogramma molto particolare: «Ha chiesto informazioni in merito alla diffusione da parte del governo americano di un cablogramma del 1984 redatto dal Consolato di Palermo, nel quale veniva riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero stati confermati, allora sia Andreotti che l'intero sistema politico italiano sarebbero finiti nei guai». I diplomatici riconobbero «l'errore», ma anche che gli eventi avevano confermato la profezia. Salvo Lima, in effetti, fu il primo dei delitti che avevano sconvolto l'Italia tra marzo e luglio (così come predetto chirurgicamente da una circolare che allertava il Paese su un pericolo di destabilizzazione orchestrato all'estero) e che frantumò l'immagine del senatore a vita. Il secondo fu la strage di Capaci. Due giorni dopo al Quirinale fu scelto Scalfaro. Gli analisti del Dipartimento di Stato di Washington avevano scritto: «Le ultime speranze di Andreotti» di salire al Colle «sono svanite con l'assassinio di Falcone, per via dei rapporti che il capo del governo intrattiene con figure sospettate di essere in odore di mafia».

Lesa maestà. Mani Pulite non si può criticare, per questo Colombo mi vuole alla sbarra. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

Gentile Gherardo Colombo,

lei, in sodalizio con Piercamillo Davigo e Elio Ramondini (quest’ultimo a me, come immagino ai più, perfettamente sconosciuto), ha deciso di querelarmi per un articolo pubblicato da questo giornale. L’articolo di cui lei, con i suoi colleghi, si è doluto, argomenta in modo magari contestabile ma – almeno si spera – non meritevole di sanzione penale, che l’adozione della dicitura “Mani Pulite” costituisce in sé un pericoloso segno di inflessione autoritaria, e che la cultura che vi si richiama ha arrecato grave danno al Paese, al nostro ordinamento civile, al tenore della nostra democrazia.

Scrivere – come ho scritto qui – che “La cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava, furono e rimangono la vergogna della Repubblica”, è espressione di un giudizio civile e politico che può non essere condiviso, ma che soltanto in forza di un gravissimo pregiudizio può ritenersi vietato. Sostenere – come ho sostenuto qui – che è “civilmente osceno e democraticamente blasfemo” intestare all’iniziativa di una funzione pubblica un segno distintivo moraleggiante (“Mani Pulite”, appunto), specie sulla scena delle acclamazioni popolari e dei suicidi che non saranno stati colpa di nessuno, ma c’erano, significa manifestare un’inclinazione morale e un convincimento politico che ancora una volta potranno essere discutibili, ma che in un assetto di tutela minima dei diritti individuali dovrebbe essere tuttavia consentito.

Lei, dottor Colombo, che pubblicamente argomenta di aver lasciato la magistratura perché era stufo di togliere la libertà alle persone, reclama invece che sia applicata una sanzione penale a chi, come me, si è reso responsabile d’aver scritto – contro la maggioranza che ne fa invece apologia – che quello di cui lei è stato personaggio è uno dei capitoli vergognosi della storia d’Italia, e che verecondia vorrebbe che i protagonisti giudiziari di quegli eventi si limitassero semmai a dimostrare di aver solo applicato la legge piuttosto che impancarsi ad agenti del bene pubblico. Ci vuole la galera, per quelli che pensano e scrivono queste cose?

Caro dottor Colombo, grattata la superficie delle vostre recriminazioni, ciò di cui in realtà vi lamentate è la lesione della maestà di Mani Pulite. Perché evidentemente non vi identificate nei provvedimenti che voi avete tutto il diritto di rivendicare quanto gli altri hanno il diritto di criticare, ma appunto nell’immagine apologetica di quell’esperienza giudiziaria e nella cultura che l’ha ispirata e vi si è ispirata. Un’esperienza e una cultura che non soltanto chi scrive, ma chiunque, avrebbe il diritto di considerare pessime. Iuri Maria Prado

Michele Santoro, Funari e gli altri: quando il talk show inventò l’indignazione della gente comune. Trent’anni fa, ai tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni hater. Ma quello, a differenza di quanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo. Giandomenico Crapis su L'Espresso il 16 Maggio 2022.

La storica Simona Colarizi nel saggio “Passatopresente” (editori Laterza ), uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo.

Milano, da emblema di Mani Pulite a simbolo del flop. Luca Fazzo il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Trent'anni fa i pm erano gli eroi, oggi hanno perso consenso. Di Pietro: "In toga mai fatto sciopero".

La storia a volte ha una sua elegante circolarità. Così nel giorno che segna la fine di un'epoca nelle vicende della giustizia italiana, con i giornali pieni del flop dello sciopero dei magistrati, in un'aula del tribunale di Milano ci si imbatte in Antonio Di Pietro.

Se questo palazzo è diventato il simbolo di una certa stagione di fare giustizia, è merito (o colpa) soprattutto sua. Se la categoria in toga è diventata un mito collettivo di un pezzo d'Italia, la radice di molto sta nei cortei che inneggiavano al pm di Tangentopoli, «Borrelli e Di Pietro, non tornate indietro». Oggi Di Pietro fa un po' il pensionato, un po' il contadino, un po' l'avvocato. E la distanza profonda tra quella stagione e l'oggi sta in fondo nel vederlo qui, senza nessuno che se lo fili, a ragionare con un vecchio amico sullo sciopero fallito: «Ma meno male, dico io. Come gli salta in mente? I magistrati non sono gente qualunque, sono un potere dello Stato. E si mettono a scioperare contro gli altri poteri dello Stato? Se i deputati scioperassero contro i giudici cosa diremmo? Io quando facevo il pm non ho mai fatto uno sciopero. Quando il governo provò a varare una legge per fermarci, io e gli altri ci dimettemmo dalla magistratura, che è tutt'altra cosa».

Si potrebbe ragionarci a lungo, con Di Pietro, su quei fatti di trent'anni fa: se davvero il pronunciamento del pool contro il decreto «salvaladri» fosse più o meno rispettoso degli equilibri istituzionali. Ma la sostanza è netta. Quel giorno il pool milanese sbaragliò la politica, costrinse An e Lega al retromarcia, segnò per gli anni a venire il dominio della magistratura sulla vita del paese. Lo sciopero indetto dall'Anm, con parole d'ordine altrettanto giacobine, invece si sgonfia come un palloncino, scivola via, lascia la politica libera di fare le sue scelte. E toglie all'Anm di fatto quel potere di veto che le è stato riconosciuto per decenni sulle leggi in materia di giustizia.

Visto da qua, dal palazzo che dell'attacco in toga alla Prima Repubblica fu l'incrociatore Aurora, il day after della sconfitta ha il sapore della malinconia. D'altronde perché sarebbe dovuta andare diversamente? L'epoca dello strapotere giudiziario era figlia anche di una verve professionale, di una alacrità missionaria che faceva di aule e corridoi un brulicare di inchieste e di processi. I ritmi selvaggi di Di Pietro diventarono in quegli anni un esempio per i «dipietrini». Oggi quell'esempio si è perso, e corridoi e stanze dell'incrociatore sono deserti. La Procura non fa più inchieste, e quelle poche le perde. Come può candidarsi a guidare un paese una Procura che in un giorno in teoria di lavoro è deserta come in un giorno in teoria di sciopero?

Un'epoca si è chiusa, e non è un caso che si chiuda nel Palazzo dove le alleanze di un tempo si sono dissolte in faide. A raccogliere i cocci, e a cercare di dare un senso al futuro dell'Associazione magistrati, restano giovani giudici come Sergio Rossetti, della sezione fallimentare: che ha ben presente che «colmare il gap di fiducia con i cittadini è difficile», che «lo sciopero poteva essere meglio ponderato». E intanto si aggrappa all'analisi delle cifre, spiega che se a Milano lo sciopero è andato male invece l'adesione è stata alta nei tribunali del circondario. «Dove ci sono i colleghi più giovani, e che sono oggi i più decisi nel chiedere il rinnovamento». È il ritratto di una frattura anche generazionale dentro la magistratura. Dove ad abbandonare l'Anm è paradossalmente una generazione di magistrati che nella stagione delle correnti e dell'attacco al potere si è formata. Così a Milano il buco nero dello sciopero sono la Procura generale e la Corte d'appello, uffici dove il più giovane ha sessant'anni: e sono per forza di cose magistrati che ai tempi di Mani Pulite erano in prima linea, che quella esperienza hanno apprezzato e condivisa, e che lunedì scorso però erano quasi tutti al loro posto. «Ma la riforma Cartabia non piace neanche a loro - dice Rossetti -, è l'idea dello sciopero che non li ha convinti». Come se fosse un dettaglio.

L’ultima sede del Partito Socialista Italiano, ricordo di via del Corso. Marco La Greca su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

Correva l’anno 1997 ed ero agente di Polizia. Per una mattina e poi una notte venni mandato a svolgere il mio servizio all’Aran, a Roma, in via del Corso n. 476. Un indirizzo che aveva un significato ben preciso, perché lì c’era stata, sino al 1994, la sede del PSI, uno dei punti cardinali della “Prima Repubblica”, da poco seppellita dalla stagione di Tangentopoli. Mi avvicinai al palazzo, all’inizio del turno, con un misto di emozione e di curiosità. Al piano terra notai il busto di Sandro Pertini, in una collocazione, per la verità, non di gran risalto. L’attribuii al fatto che Bettino Craxi, secondo la vulgata, aveva avuto con l’ex Presidente della Repubblica un rapporto, a tratti, burrascoso.

Entrai nell’ascensore: “Piano terra”, recitava una voce registrata; poi: “L’ascensore va al quarto piano”. Una postuma esibizione di lusso, valutai allora. La mattinata passò senza scossoni, sino a quando, attraverso una porta semiaperta, non intravidi un busto di Garibaldi, di fronte a un tavolo ovale; era, capii immediatamente, la mitica “Sala Garibaldi”, appunto, destinata alle riunioni della segreteria politica del PSI. Per un attimo, ebbi l’impressione di avere di fronte a me Bettino Craxi e Gennaro Acquaviva, più in là Claudio Martelli, dalla parte opposta Claudio Signorile, poi gli altri componenti la segreteria. Fu durante il turno di notte, però, che il mio servizio prese i contorni del viaggio nella storia. Iniziai le perlustrazioni scendendo al terzo piano, non occupato dall’Aran. Gli ambienti, le sale, gli arredi erano ancora del PSI. Alle pareti i manifesti con le campagne propagandistiche, i titoli dei congressi e delle conferenze programmatiche che avevano segnato, in particolare, l’era craxiana. Una foto immortalava l’ex segretario in primo piano, di tre quarti, con una sciarpa e un cappello di colore beige. Nelle stanze, gettati a terra o poggiati in qualche residuo scaffale, carte e volantini. La sensazione era di trovarsi in un luogo abbandonato di fretta, come in fuga da un nemico. Attaccato con lo scotch, un avviso che dava il senso delle ristrettezze economiche dell’ultima fase: “Si ricorda ai compagni che l’acquisto dei francobolli deve essere autorizzato dalla segreteria amministrativa”.

La collocazione degli ambienti, nel ricordo, un po’ si confonde. Mi pare però che fosse proprio al terzo piano l’altra sala, più ampia, intitolata a Pietro Nenni; vi si riuniva la direzione del partito, con una frequenza assai minore della segreteria politica, secondo una dinamica verticistica e leaderistica che sembrava essere una prerogativa (negativa) del partito socialista. Ancora non sapevamo a cosa avremmo assistito negli anni a venire. Tornai al quarto piano e, superata la “Sala Garibaldi”, entrai nell’ufficio che attribuii a Craxi, poi nei due adiacenti, che invece immaginai destinati ai vice segretari (ed uno in particolare, ma non so perché, a Claudio Martelli). Erano ambienti moderni, con soppalchi e vetrate. Sembravano più studi di architetti che uffici di dirigenti politici; almeno, secondo l’idea che avevo io della classe politica della Prima Repubblica.

In quegli allestimenti si esprimeva la cultura milanese dell’attico, contrapposta alla concezione tradizionale che – a Botteghe Oscure come a Piazza del Gesù – voleva l’area nobile al primo piano, con l’ufficio del segretario e il balcone per i comizi delle serate di successo elettorale. Dallo studio di Craxi si accedeva a uno stanzino modesto, per dimensione e arredi, nel quale era posizionato un letto. Poggiato a terra, un quadro che raffigurava Garibaldi. La sensazione era di entrare in casa d’altri, in un luogo talmente identificato con chi ci aveva vissuto, che veniva da chiudere la porta. Feci così. Chiusi la porta alle mie spalle e scesi le scale, sentendomi un po’ in colpa. Avvertii l’esigenza di uscire sul terrazzo che si affaccia su Piazza Augusto Imperatore. L’aria di Roma era dolce, contrapposta alle asprezze che quei luoghi evocavano. Stava finendo il millennio, il secondo dai tempi in cui era stata edificata l’Ara Pacis, a pochi metri da me per una operazione posticcia di demolizione e ricostruzione in un sito diverso. Le persone, i luoghi, i momenti passano, pensai. Restano le loro storie. Che poi sono le nostre. All’uomo, di oggi e di domani, il compito di raccontarle. Con rispetto e verità, possibilmente. Con questa consapevolezza mi sentii, una volta di più, insieme alla comunità che aveva abitato in quelle stanze, una misteriosa e infinitesimale parte del tutto. Marco La Greca

Arrestati i leader di Potere operaio: nessuna prova. Chi era Pietro Calogero, il primo Pm che sottomise la politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Le prove generali ebbero inizio quel giorno, il 7 aprile del 1979 in cui la politica si consegnò ai Pm. Prove di Repubblica Giudiziaria, che avrà il suo epilogo tredici anni dopo con Tangentopoli e di lì non ci abbandonerà più. Con le sue carceri speciali, le infinite custodie cautelari, le trattative con i “pentiti”, le imputazioni che si modificano in corso d’opera, l’uso dei reati associativi in mancanza di fatti concreti, la legislazione d’emergenza diventata ordinaria. E il Pm caput mundi. E la politica con la testa china. Il bandolo della matassa è proprio lì, nel giorno in cui, con una grande complicità culturale e politica e forse anche altro, del Pci, il pubblico ministero di Padova Pietro Calogero diede l’ordine alla Digos per una grande retata, in diverse città italiane. In carcere un gruppo di docenti dell’Università di Padova, facoltà di scienze politiche, di cui il più famoso era Toni Negri, e poi Oreste Scalzone, Emilio Vesce, mentre in modo rocambolesco si era reso latitante Franco Piperno. Decapitata l’ex dirigenza di Potere Operaio, uno dei più agguerriti gruppi della “sinistra extraparlamentare” degli anni settanta che nel frattempo si era sciolto, e dell’Autonomia.

Il pm Calogero indagava su quel mondo della sinistra di quegli anni – un mondo che era sicuramente estremista ma anche creativo e intellettualmente appassionato – da almeno due anni prima del blitz del 7 aprile. In un’intervista a Panorama del 23 maggio 1978 aveva anticipato il suo pensiero, quello che passerà alla storia come il “teorema Calogero” e che terrà impegnato il mondo politico-giudiziario nei successivi sette anni, creando danni che diverranno permanenti all’amministrazione della giustizia e allo Stato di diritto. “Un unico vertice – aveva detto – dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega le Br e i gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato”. Occorre fare un tuffo nel passato per capire la pericolosità, che l’evoluzione processuale chiarirà alla fine di quei sette anni infuocati, di questo pensiero e questa dichiarazione. Che esistesse il terrorismo in Italia era un dato di fatto. Il culmine era stato raggiunto con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Ma gli anni settanta avevano prodotto movimenti e gruppi e gruppetti impetuosi di giovani, che andavano dagli indiani metropolitani fino a coloro che avevano impugnato le armi, come le Br e Prima Linea. Non erano proprio tutti uguali.

Lo Stato era impotente, questa è la verità. Non aveva saputo né trattare con i terroristi che avevano rapito Moro e avevano saputo tenerlo nascosto per 44 giorni, né essere inflessibile da vincente, e aveva lasciato ammazzare il segretario della Dc. Così la strampalata tesi del dottor Calogero sembrò essere la soluzione cui l’intera magistratura (con qualche riserva del giudice istruttore Giovanni Palombarini, esponente padovano di Magistratura democratica), il mondo politico e quello giornalistico, con la sola eccezione del manifesto (e in particolare di Rossana Rossanda), si aggrappò come a una soluzione salvifica della tragedia che l’Italia stava vivendo. Così Toni Negri divenne il simbolo di ogni male, non solo il capo di una sorta di spectre che di giorno era solo un “cattivo maestro” di sovversione e di notte il capo delle Brigate Rosse. Non solo era a capo di un tentativo insurrezionale, questo gli veniva contestato dalla magistratura padovana. Ma era anche il capo delle Brigate Rosse e il responsabile della strage di via Fani e del rapimento e assassinio di Aldo Moro e di una serie di altri omicidi. Questa l’imputazione che gli attribuiva il procuratore capo di Roma Achille Gallucci. Le prime incrinature allo Stato di diritto partono di qui.

Mai era successo che in Italia si contestasse a qualcuno il reato di insurrezione armata contro in poteri dello Stato, che prevede l’ergastolo e che comporta quanto meno un tentativo di colpo di Stato. E mai era stato applicato il concetto del “tipo d’autore” per cui, una volta individuato il soggetto deviante, gli si attribuiscono tutti i più gravi reati della fase storica. Poiché nella realtà a Toni Negri e gli altri arrestati potevano solo esser attribuiti scritti e discorsi di tipo sovversivo. Anche la teorizzazione di progetti insurrezionali. Infatti ben presto gli inquirenti finirono con l’accontentarsi di contestare altri due reati, e li distribuirono a centinaia di imputati: l’associazione sovversiva e la banda armata. Accuse che resteranno in piedi fino alla fine e saranno oggetto, per alcuni, di condanna. Mentre il “teorema Calogero” crollava. Mentre il Pci faceva appelli alla “vigilanza democratica” per difendere i magistrati da dubbi e critiche, i quotidiani si sbizzarrivano con la fantasia. Soprattutto dal momento in cui Toni Negri fu ritenuto il “telefonista” a casa Moro, insieme a un cronista padovano di nome Pino Nicotri, arrestato nello sbalordimento generale perché sospettato di un’altra chiamata da parte delle Brigate Rosse.

Queste storie, viste oggi da lontano, paiono solo grottesche, ridicole, ma tragiche se pensiamo che sono costate anni di carceri speciali a persone innocenti. Sarebbe bastato chiedere subito gli alibi a Negri e Nicotri dei giorni delle telefonate, che erano partite da Roma mentre uno era a Padova in redazione con molti testimoni e l’altro a Milano in compagnia di due persone. E magari anche saper distinguere una parlata marchigiana (il telefonista di casa Moro) dall’accento marcatamente veneto di Toni Negri. Il settimanale L’Espresso, recordman di forche appese, aveva addirittura regalato ai lettori due dischi con le registrazioni delle telefonate con il gioco “fai da te la perizia fonica”. Si è persino chiamato in causa Emilio Alessandrini, che era stato assassinato da Prima Linea tre mesi prima. Qui devo accennare a un episodio che ha visto coinvolta anche la mia persona.

Nel 1978, proprio nei giorni del rapimento Moro, avevo partecipato con mio marito a una cena a casa di un pm mio amico, Antonio Bevere, cui erano presenti, con relative mogli, sia Emilio Alessandrini che Toni Negri. Un anno dopo, e dopo il blitz del 7 aprile, i giornali, in particolare l’Unità, cominciarono a parlare di quella cena, insinuando che quella sera Toni Negri avrebbe “preso le misure” del personaggio per poi far uccidere Alessandrini. E anche perché Paola, la moglie del magistrato assassinato (che tra parentesi ha anche fatto finire in galera per due giorni per falsa testimonianza me e mio marito dicendo che alla cena non c’eravamo) si era ricordata che Emilio ascoltando il disco dell’Espresso aveva riconosciuto la voce di Negri, la stessa che aveva potuto ascoltare per un’intera serata a casa di Bevere. Peccato che Alessandrini non l’avesse mai denunciato. Sulla base di questo tipo di “prove” si fondò il processo “7 aprile”. E bisognerà aspettare il ”pentito” Patrizio Peci, che era un brigatista vero, per far smontare tutto. Ma l’assalto allo Stato di diritto continua, da quel 7 aprile 1979.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pietro De Sarlo per basilicata24.it il 9 maggio 2022.

Fresco di stampa il libro di Cirino Pomicino “Il grande inganno”. Per chi non ricordasse il suo contributo alla Prima Repubblica, basta sapere che fu ministro con De Mita e Andreotti sia alla funzione pubblica sia al bilancio e programmazione economica. Come dice lui stesso fu l’ultimo politico a essere ministro dell’economia.

Non ha mai goduto di buona stampa. La sua parlata stimola il vezzo, venato di razzismo anti meridionale, che si sostanzia in sottolineature denigratorie come “avvocato di Volturara Appula”, riferito a Giuseppe Conte, oppure “commercialista di Bari”, per Rino Formica, o il più garbato ‘intellettuale della Magna Grecia’ con cui Gianni Agnelli chiamò Ciriaco De Mita.

Persino Ferruccio De Bortoli, autore della prefazione, con riflesso pavloviano mette in guardia dalla “arguzia tutta partenopea” dell’autore. Già, a Milano e dintorni l’arguzia pare sia finita e da tempo.

Se però siete intellettualmente liberi e scevri da pregiudizi la lettura è interessante. La tesi del libro è che la Seconda Repubblica è stata un disastro e molto peggio della Prima che vide l’autore tra i protagonisti.

Molto “cicero pro domo sua”, certo, ma Pomicino le cose le sa. Qualcuna la dice, qualcun’altra gli scappa. Si tratta, pur nel morbido tono democristiano, di un pesante attacco al PD e al sistema della finanza e della informazione che protegge e di cui è strumento. 

Ecco il libro in pillole. 

L’informazione in Italia

Molto spazio dedica al tema della informazione, tema all’attualità visto che è appena uscita l’ultima classifica mondiale sulla libertà di informazione di Reporters sans Frontiere. L’Italia è precipitata in un solo anno dal 41 esimo al 58 esimo posto, tra la Macedonia del Nord e il Niger.

La genesi di questa situazione, con accuse pesanti, l’autore la fa risalire agli inizi degli anni novanta, quando il ‘salotto buono’ del capitalismo italiano, scelse di costruire la Seconda Repubblica dando credibilità e sostegno, con i propri media, a quelli che Cirino chiama i ‘vinti della storia’, ossia a quelli del vecchio PC, ora PD, sconfitti ideologicamente dalla perestroika e dalla caduta del muro di Berlino. 

Il salotto buono era costituito da Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Eugenio Scalfari. Gente che deve molto al pubblico potere e in specie al PD “che si trasformò nel braccio operativo della destra neoliberista europea”.

Ma attenzione, l’intreccio tra capitale, finanza e informazione genera: “Un’arma letale per le democrazie liberali… Una potenza di fuoco difficilmente sostenibile dalle istituzioni democratiche.” Anche perché operano: “utilizzando nel contempo le insinuazioni personali e la gogna contro gli avversari, manipolando pesantemente la verità”. 

In effetti il metodo si ripropone tutti i giorni su Repubblica e dintorni, e solo una narrazione farlocca può far ritenere che il PD sia stato, e sia, un partito di sinistra. A furia di ‘spiegoni’ e ‘zorate’ qualcuno ancora ci casca.

I giudizi su Ciampi, Draghi, Letta, Prodi …

C’è altro però nel libro. A partire da Carlo Azeglio Ciampi che fece “la peggiore legge finanziaria” e “a elezioni già avvenute e a capo di un governo dimissionario da due mesi” assegnò “all’amico Carlo De Benedetti” la gara per il secondo gestore di telefonia per 700 miliardi delle vecchie lire e a rate. 

Affare girato a Mannesmann per 14.000 miliardi di lire dopo poco tempo. Poi Romano Prodi e Arturo Parisi, “dovrebbero spiegare dopo trenta anni” perché “impoverirono un grande Paese come l’Italia” certamente “a loro insaputa”.

Su Letta c’è poco, giusto per chiedere, visti passati incarichi tra cui quello di autorevole membro della Trilateral Commission, fondata da Rockefeller nel 1973, se sia “completamente libero”. Identica domanda c’è su Mario Draghi, con lodi di circostanza, insieme ad alcune vicende imbarazzanti come il giretto a Goldman Sachs, l’autorizzazione dell’acquisto di Antonveneta e le norme europee sul sistema bancario. 

Lo stato della democrazia

Da buon DC fa quindi un invito, che pare ipocritamente strumentale, a Draghi a “trasformarsi da rappresentante delle élite finanziarie internazionali a rappresentante delle élite politiche”, come? Banalmente “candidandosi”. Perché? ” Il battesimo elettorali è essenziale per la legittimità politica in un paese democratico”. E come dargli torto.

Intanto ci ricorda che il parlamento è svuotato da ogni funzione tanto che l’ultima finanziaria di Draghi è stata approvata senza il parere della apposita commissione e senza che il Parlamento abbia avuto il tempo di leggerla. E Mattarella? Nella circostanza non pervenuto. 

Insomma, la democrazia è a rischio e occorre recuperare la centralità della politica e del parlamento a partire proprio da quella media e piccola borghesia che è stata massacrata nella Seconda Repubblica.

L’Italia e la Francia

Deprimente la narrazione di come l’Italia non abbia da Sigonella, ossia da Andreotti e Craxi in poi, una politica estera, e gli effetti si vedono. Sigonella non ci è mai stato perdonato dagli USA. In ogni caso la ininfluenza del Paese è certificata dalla completa assenza di una posizione autonoma dell’Italia, appiattita sugli USA più che sull’Europa, nel conflitto attuale tra NATO e Russia sul campo Ucraino. Tanto che Mario Draghi non fu neanche invitato alla riunione tra Biden, Macron e Sholzt.

In compendo sulla Seconda Repubblica sono piovute ‘Legion d’Onore’ a tanti politici italiani, specialmente del PD. Fatto è che l’elenco delle aziende cedute ai francesi nella Seconda Repubblica è lungo e di peso: BNL, poi Pioneer e CariParma, senza dimenticare Edison, Telecom, l’agroalimentare, la grande distribuzione e il settore della moda. Quando Fincantieri cercò di fare shopping oltralpe venne però immediatamente fermata e Draghi non ha rinnovato il mandato al protagonista di quella tentata acquisizione Giuseppe Bona.

Nell’accordo di Aquisgrana del 2019 tra Francia e Germania, a detta dell’autore, tra le cose non scritte pare ci sia la divisione dell’Europa in due aree di influenza: la Grecia e l’Est alla Germania, l’Italia alla Francia. “Il trattato del Quirinale” approvato sotto gli occhi di un “compiaciuto Mattarella” pur essendo paritetico nella forma rischia di trasformarci quindi in un protettorato francese.

L’economia, Conte e il M5S

Bocciata la Seconda Repubblica anche in economia con tanto di numeri e percentuali. In compenso vede Conte e il M5S come fumo negli occhi, invece di apprezzare il tentativo di porre fine alla Seconda Repubblica, che lui stesso giudica fallimentare. Qui è la pancia che prevale, non solo nell’autore, non riconoscendo al tentativo del M5S quell’embrione di rivolta piccolo borghese e popolare che poteva dare una spallata al sistema. La spalla se la sono invece lussata.

Conclusione

Peccato gli sia rimasta la cerchiobottista sindrome DC, per cui Cirino Pomicino non arriva mai a trarre le necessarie conseguenze dai fatti. Mattarella: fortuna che c’è. Draghi: idem. Tutti amici. 

I contenuti del libro non costituiscono un vero e proprio scoop, più che altro si tratta di un esercizio di memoria. Utile specialmente a chi per fatti anagrafici non ha dimestichezza con la storia recente del Paese.

Eppure la lettura si rivela preziosa per comprendere alcune dinamiche di oggi, come la santificazione di Draghi e la sua nomina a primo ministro. Da non far cadere la denuncia degli interessi in gioco della élite economica e finanziaria, più francofila che europeista, difesi dal PD e da una stampa sempre più asservita. 

Se dovessimo essere pignoli manca ancora molta ‘materia oscura’ per apprezzare fino in fondo il degrado della nostra democrazia descritto nel libro. Ci sarebbe molta materia di ‘scandalo politico’, ma temo che siamo talmente scorati e demoralizzati che tutto ci scivolerà addosso come nulla.

Parla il giurista e storico delle istituzioni. Intervista a Sabino Cassese: “Mani Pulite ha lasciato solo macerie”. Giada Fazzalari su Il Riformista il 9 Maggio 2022. 

E’ uno dei più autorevoli giuristi italiani dell’intero dopoguerra ed è una delle voci accademiche più prestigiose di un Paese smarrito. In questa intervista all’Avanti! della domenica, Sabino Cassese propone un’analisi argomentata dello stato della giustizia italiana e, pur considerando i prossimi referendum un «forte stimolo», li ritiene «poco adatti» a dirimere questioni complesse, sulle quali la politica ha sinora mostrato la propria impotenza.

A suo parere qual è lo stato di salute della giustizia in Italia?

«La giustizia italiana è in pessimo stato. Sei milioni di cause pendenti. Più di 7 anni per concludere i tre livelli di giudizio in sede civile e più di tre per il penale. 1000 carcerazioni preventive per anno dichiarate illegittime e risarcite dallo Stato. La fiducia dei cittadini nella giustizia crollata di 20 punti negli ultimi 10 anni. Si può dire che la giustizia non sia in sintonia con la società italiana, tanto che negli ultimi anni si registra addirittura una diminuzione degli accessi alla giustizia, prova ulteriore della sfiducia dei cittadini nella giustizia».

Nel suo ‘Il Governo dei giudici’ documenta il crollo della fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura. Per quale ragione secondo lei?

«Le ragioni le ho già indicate. Se ne può aggiungere qualcun altra. Il pessimo giudizio maturato nella collettività quando si è appreso come vengono prese le decisioni dal Consiglio superiore della magistratura. Siamo nella fase delle disillusioni, dopo le eccessive  illusioni, maturate durante gli anni 90 del secolo scorso, sulla magistratura come giudice della virtù. A questo si aggiunge l’esondazione di una parte della magistratura, impegnata in politica, nell’amministrazione, nella legislazione e, infine, la motivazione dello sciopero annunciato: ”vogliamo essere ascoltati”, che vuol dire in sostanza “vogliamo decidere noi”.

 Come giudica la riforma Cartabia passata in prima lettura alla Camera?

«La riforma Cartabia è il frutto necessario di una serie di compromessi raggiunti in un governo composto di forze politiche tra di loro opposte. Va nella direzione giusta e fa una buona parte della strada in questa direzione».

I referendum possono contribuire a incrinare la chiusura corporativa della magistratura e a contrastare la tendenza al ‘populismo giudiziario’?

«Ricordiamo innanzitutto che i referendum sono uno dei modi di partecipazione dei cittadini alla vita collettiva; sono previsti dalla Costituzione, richiedono partecipazione, senza della quale non c’è democrazia. Detto questo, va anche ricordato che i referendum sono uno strumento poco adatto a fare riforme complesse, che non possono essere decise con un si o con un no. Tuttavia, rispetto ad una classe politica tanto indecisa, possono costituire un forte stimolo. Quindi, sono uno strumento positivo e sarebbe grave se i cittadini non rispondessero o non recandosi alle urne o non votando» 

E’ giusto che  la responsabilità civile dei magistrati per gli errori commessi nei confronti di cittadini innocenti sia  diretta? Quanto può incidere sull’ indipendenza del giudice?

«Errori dei giudici possono esserci perché la giustizia è amministrata da uomini. Alla maggior parte di questi errori provvede il sistema degli appelli che sono previsti proprio perché il giudice in primo grado può sbagliare. Sulla responsabilità dei funzionari pubblici (anche i giudici lo sono), la Costituzione detta norme precise, che sono state in larga parte disattese. Non ritengo che questo tema debba essere affrontato in questa fase perché le norme esistenti bastano»

Dal 1992 al  2018 si sono registrati oltre 27.500 casi di vittime di errori giudiziari, in media più di mille innocenti in custodia cautelare ogni anno: perché accade e come si possono ridurre drasticamente queste cifre?

«La domanda solleva un problema di carattere più generale, quello delle procure composte da giustizieri. Il fenomeno detto popolarmente della gogna mediatica ha portato numerosi pubblici ministeri ad accusare, incolpare pubblicamente, ben sapendo che i processi arrivo con grande ritardo, quando tutti hanno dimenticato. Max Weber avrebbe parlato di una giustizia da cadì ».

 Come porre fine al cortocircuito tra magistratura, informazione e politica? Le porte girevoli tra magistratura e politica sono davvero un problema?

«I magistrati, sia quelli addetti alle funzioni requirenti ed inquirenti, sia quelli addetti alle funzioni giudicanti, dovrebbero essere obbligati ad astenersi da ogni impegno nella vita politica e a controllare le loro esternazioni. L’imparzialità dei giudici è connessa alla loro indipendenza e un magistrato che prende posizione a favore di questo o quell’altro partito politico o non è imparziale o non appare imparziale politici. L’Italia è l’unico paese al mondo dove due magistrati hanno costituito due diversi partiti». 

Sono 30 anni da Mani pulite. Cosa ha provocato quello tzunami mediatico-giudiziario? E cosa ne resta?

«Mani pulite: ne restano solo macerie. Non tanto per quello che fu deciso a quell’epoca, ma per quello che comportò, nel senso di diseducare l’opinione pubblica, di scaricare sulla magistratura il compito del controllo della virtù, di far maturare aspettative a cui nessun ordine giudiziario può corrispondere, di produrre, poi, un effetto di disillusione che ha finito per danneggiare gravemente la magistratura. »

 Lei ha definito i partiti “un ponte tra popolo e Stato, il veicolo della democrazia”. Ne ha descritto la crisi:  sembrano incapaci di elaborare proposte anche a causa della povertà della loro classe politica dirigente. Qual è allora la ricetta per ricostruire il ponte tra popolo e Stato?

«Domanda difficile. Qualcuno risponderebbe che, se il ponte tra società e Stato, tra  cittadini e governo, cioè i partiti, non funziona più, occorre che i cittadini entrino direttamente nella cittadella dello Stato. É la democrazia diretta. Ma la democrazia diretta, in una collettività di 60 milioni di persone, non può funzionare. Quindi, l’unica speranza è quella di ripristinare il ponte, ma questo richiede idee, programmi, uomini capaci di fare davvero politica, invece del battibecco quotidiano su problemi di breve durata.» Giada Fazzalari 

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2022.

Caro Dago, ti confesso che sono arrivato a un punto della mia vita in cui esito non una ma dieci volte prima di avviare la lettura un libro che di pagine ne ha non meno di 500. E invece ho esitato solo pochi minuti prima di cominciare la lettura di questo recente tomone da 700 pagine di Filippo Facci, La guerra dei trent’anni (Marsilio, 2022), da lui dedicato al terreno che vanga da tutta una vita. Nato nel 1967, aveva qualcosa più di vent’anni quando scattò il putiferio di Tangentopoli, quei dieci anni furibondi in cui venne distrutto il sistema partitico della Prima Repubblica e dunque cambiato alla grande il corso della nostra storia civile. 

Mi piacciono molto di questo libro i brani in corsivo, quelli in cui Filippo smette gli abiti dello storico/giornalista e diventa il narrante del sé stesso di allora, quando era un collaboratore esterno dell’ “Avanti!” diretto da Roberto Villetti e lo pagavano 25mila lire a pezzo pubblicato, e per giunta il più delle volte gli toglievano la firma affinché lui non campasse pretese ad essere assunto.

Erano del resto gli ultimi e stentatissimi anni del quotidiano socialista - come del resto di tutto l’universo socialista - il cui deficit stava diventando spaventoso e che pur tuttavia, al dire di Facci, pagava cifre esorbitanti i suoi collaboratori “di grido” nonché stipendi stellari. Per quel che mi riguarda  e siccome a quel tempo della mia vita sfioravo la casa socialista ed ero amico di Villetti, concordai e scrissi per il quotidiano socialista quattro pezzi. Che non mi vennero mai pagati.

Il fatto è che il Facci poco più che ventenne aveva a cuore la casa socialista pur non avendone favori né prebende, e mai un minuto è stato di quelli che il Bettino Craxi caduto in disgrazia fingevano di non averlo mai conosciuto. Tutto il contrario, lui non ha mai pensato un solo minuto che i magistrati d’accusa che fecero il bello e il cattivo tempo durante gli anni di Tangentopoli li avesse mandati a Iddio a correggere i vizi della gente. Tutto il contrario, lui fa shampoo barba e capelli ai tanti giornalisti che si occupavano di giudiziaria e che si misero in ginocchio innanzi ai magistrati d’accusa, il rude Antonio Di Pietro su tutti. 

Io non ho mai scritto una riga contro Di Pietro; di processi di colpevoli di innocenti non ne so abbastanza, non è il mio campo. Certo non ho mai scritto una riga ad adorarlo. Una volta che Di Pietro venne a una puntata di una trasmissione televisiva condotta da Piero Chiambretti, battibeccammo un istante. Lui aveva detto che gli imputati di Tangentopoli erano tutti dei malfattori, io gli obiettai se ritenesse un malfattore uno come Gabriele Cagliari, l’ex presidente dell’Eni che si suicidò in carcere il 20 luglio 1993 perché sfinito da una detenzione preventiva durata oltre quattro mesi. Non so se sia vero quello che qualcuno mi riferì, e cioè che gli autori della trasmissione non avevano gradito affatto che io contraddicessi Di Pietro.

Nel suo spassoso elenco di giornalisti “giustizialisti” Facci assegna il posto d’onore al quotidiano “L’Indipendente” allora diretto da Vittorio Feltri e di cui ero un collaboratore fisso. Quando vidi in televisione quel parlamentare/macchietta della Lega che agitava un cappio in direzione del Giuliano Amato capo del governo, subito telefonai a Vittorio dicendogli che volevo prendere le difese di Amato. Vittorio mi rispose che sarebbe stato felicissimo di pubblicare il mio pezzo, che mise in prima pagina. Accanto, e com’era nel suo pieno diritto, mise il pezzo di non ricordo più quale misirizzi che tirava calci negli stinchi ad Amato. Sì, era esattamente come scrive Facci, che nella buona parte dei giornali erano tenuti in palmo di mano i giornalisti della giudiziaria che si telefonavano ogni mattina con i magistrati d’accusa.

Sterminato è l’elenco delle piaggerie nei loro confronti documentate dal prode Facci. Sterminato è l’elenco di quel politici democristiani o socialisti o altro le cui imputazioni tuonavano dalle prime pagine dei giornali, e le cui assoluzioni per non avere commesso il fatto sonnecchiavano in basso a una paginetta del centro giornale. Sterminato è l’elenco delle anomalie procedurali e processuali di quel tempo in cui gli italiani “brava gente” si entusiasmavano al possibile nel vedere sbattuti in cella quei politici che un tempo erano apparsi onnipotenti. E a non dire dell’entusiasmo degli elettori dei partiti che avversavano i partiti degli inquisiti, a cominciare dagli elettori e simpatizzanti del Pci nel vedere Bettino Craxi e i craxiani sommersi dal fango delle accuse e dunque cancellati dalla prima linea della contesa politica.

Fu vera giustizia quella distruzione di una classe politica che aveva al suo attivo la ricostruzione democratica del Paese dopo i disastri della Seconda guerra mondiale? Sì o no la carcerazione preventiva venne usata come strumento di pressione sugli indagati affinché ne denunciassero altri? Sì no i magistrati d’accusa frugarono scrupolosamente nei retrobottega di alcuni partiti e molto meno in quelli di altri partiti? Sì o no il terremoto di Tangentopoli aprì la strada a rapporti più sani tra gli uomini dell’economia e gli uomini dei partiti?

A questa domanda lo stesso Francesco Saverio Borrelli aveva risposto qualche tempo fa di no, che Tangentopoli non aveva né sanato né migliorato alcuno dei parametri che governano il rapporto tra l’Italia dell’economia e l’Italia dei partiti. E  ammesso che quelli di oggi siano dei partiti per come noi eravamo abituati a intenderli durante la Prima Repubblica, per come noi eravamo abituati a conoscere gli uomini che avevano debuttato in politica negli anni Quaranta e Cinquanta. 

E non è un caso che quando leggiamo qualcosa che viene dai sopravvissuti di quelle generazioni, da un Rino Formica o da un Paolo Cirino Pomicino, e le paragoniamo con quello che ascoltiamo dai tanti che in tv fanno rumore con la bocca, ci vengono i brividi.

Mani Pulite non fu una rivoluzione ma guerra civile: le verità di Facci. Paolo Liguori su Il Riformista il 6 Luglio 2022. 

Guerra dunque, non rivoluzione, quella di Mani Pulite. Nessuna rivoluzione. Perché tutto nel potere giudiziario è rimasto come prima, anzi tra i rapporti tra i poteri, secondo il racconto che ne ha fatto Palamara, sono diventati ancora più confusi e torbidi. Quanto è stato scritto, detto, spiegato sull’epopea di Mani Pulite e i suoi protagonisti? Moltissimo, anche troppo. Sembra niente, a leggere il libro di Filippo Facci dedicato al tema.

“La Guerra dei Trent’anni” è il titolo e fa impressione per la scelta, il volume, la densità dei fatti narrati, la ridefinizione dei personaggi. Stiamo parlando di un’enciclopedia, di un lavoro monumentale, perfino sorprendente da parte di un giornalista, vista l’abitudine della categoria a scrivere instant-book, opere veloci, dedicate ad un singolo argomento, superficiali. In questo caso, si perdoni il paragone forte e irriverente, il contenuto ricorda più alcuni libri di Montanelli, che però scriveva in collaborazione con Gervaso e poi con Biazzi Vergani e Mario Cervi.

Filippo Facci, uno dei giornalisti più eclettici, ma apparentemente disordinati, ha fatto tutto da solo, anche per evidente mancanza di sodali. Ed ha scritto la sua Storia (di questo si tratta) con un lavoro  impressionante di ricostruzione di fatti, dettagli e persone. Non abbiate paura della mole di informazioni, vale la pena prendersi il tempo per leggere 7oo pagine scritte bene, anche per rendere omaggio all’autore che solo per le note divise per anno dal 1992, le fonti e l’indice dei nomi, pur con l’aiuto del computer non può averci messo meno di un mese. Come nella prima metà del ‘600 (1618-1648), una delle guerre più sanguinose si concluse con un riequilibrio precario dei poteri tra principi protestanti impero cattolico, così Mani Pulite viene definita da Facci una Guerra Civile tra i poteri dello Stato. Ma tanti cambiamenti significativi ci furono eccome: «la magistratura debordò e le Procure si attribuirono un ruolo di potere assoluto, l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, l’opinione pubblica debordò di conseguenza».

Facci ha scandagliato tutte le crepe di quel terremoto, senza risparmiare nessuno, sulla base dell’archivio del proprio lavoro di giornalista e collaboratore dell’Avanti. E l’aspetto più interessante è proprio quello che riguarda l’informazione, qui descritta con una lapidaria e assolutamente vera citazione di Indro Montanelli: «Gli storici avranno un serio problema. Non potranno attingere da giornali e telegiornali, perché i cronisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, il soffio della piazza. Volevano il rogo e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla».

Per chi, come me, ha vissuto nel fuoco delle polemiche quei primi anni, dalla direzione del Giorno, è una citazione da sottoscrivere senza riserve. E Facci ha il merito, con un lungo e certosino lavoro, di ricostruire una base di verità. Intanto, è l’unico, con una tesi inedita a mostrare come questa guerra di poteri inizia in Sicilia, prima che a Milano. E poi ripercorre la scalata delle Procure con minuziosa attenzione. Senza Facci, risulta poco spiegabile l’ascesa del modesto Palamara ai vertici di Csm e Anm.

Significativa la citazione di Piercamillo Davigo in una delle sue battute: «Con la Riforma, vi aspettavate Perry Mason e invece è spuntato Di Pietro». Di Pietro come simbolo ha funzionato per qualche anno, finché non si è schiantato in politica, ma intanto la Guerra dei Trent’anni continuava, proprio come quella reale: e gli Slovacchi e i Danesi e gli Svedesi e i Francesi. Gli episodi ricostruiti da Facci sono decine e affrontano la questione più interessante: il silenzio o, peggio, le menzogne interessate e servili dell’informazione. Per ogni episodio, potrete facilmente confrontare la ricostruzione di Facci con quanto credevate di conoscere e capirete.

Ma, tra tutti, un episodio vale la pena di citare, giudicato “minore” per il protagonista, ma per me gravissimo, perché si tratta di un suicidio e di una persona che ho conosciuto: Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Fu accusato falsamente sui giornali di aver preso una tangente di 400 milioni, si trattava di tutt’altro e Di Pietro faceva pressione per costringerlo a coinvolgere l’architetto Claudio Dini. Lui non resse e si uccise.

Scrive Facci, in sintesi: «Pareva complicata, ma era semplice. Renato Amorese, pur da morto, era divenuto la chiave per tenere in galera Claudio Dini. La dinamica era raggelante: Di Pietro aveva dato la notizia (falsa) secondo la quale Amorese era un semplice teste e non indagato; venti giorni dopo aveva dato la notizia (falsa) del ritrovamento di 400 milioni nelle cassette, mentre nello stesso giorno i giornali davano la notizia (falsa) dell’apertura delle cassette che in realtà erano ancora sigillate. E quei soldi, neppure trovati, erano diventati la giustificazione di un suicidio. Le cassette di sicurezza di Amorese vennero aperte il 16 e il 23 luglio, ma i soldi non c’erano. La notizia non comparve sui giornali. Neanche sul Corriere della Sera, che pure aveva scritto in prima pagina il contrario». “Mani Pulite, vite spezzate”, titolò il Giorno, dopo il suicidio di Primo Moroni. Filippo Facci spiega bene anche il senso di quel titolo.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Trent’anni dopo. Il trasformismo dell’onestà, il diritto come igiene e altri orrori nati con Tangentopoli. Carmelo Palma su Linkiesta l'8 aprile 2022.

Il libro di Filippo Facci (pubblicato da Marsilio) non è solo il diario di bordo personale di quegli anni, ma anche la descrizione del contesto (in senso sciasciano) in cui ebbe origine quella rivoluzione mancata, che ne spiega tanto il fallimento quanto l’eternizzazione.

Il nuovo libro di Filippo Facci – “La guerra dei trent’anni: 1992-2022. Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa” (Marsilio) – di anni, a dispetto del titolo, non ne racconta trenta, ma solo tre (1992, 1993, 1994). Sufficienti però per dimostrare che Mani Pulite non fu un regime change, né il punto di rottura tra un “prima” e il “dopo” della storia nazionale, ma una sorta auto-sovvertimento del sistema e della gerarchia dei poteri italiani, l’ennesimo ballo in maschera di un’epopea trasformistica, che ha accompagnato l’Italia dai suoi esordi unitari e che di certo non sarebbe potuta finire per mano di uno dei più straordinari campioni dell’arci-italianità, Antonio Di Pietro.

Se i libri su Tangentopoli sono diventati da tempo un genere letterario, Tangentopoli ha rappresentato da subito un genere politico e dal tintinnare delle prime manette, nel 1992, si è registrata una corsa grottesca a diventarne autori ed attori anche da parte leader e partiti (uno per tutti: Umberto Bossi), che sarebbero presto stati pizzicati dai loro beniamini giudiziari con le mani nella marmellata dei finanziamenti illeciti.

La retorica del “partito degli onesti” ha accompagnato da allora le evoluzioni della cosiddetta Seconda Repubblica fino al suo esito naturale: al trionfo dell’ò-né-stà grillina, cioè al rovesciamento delle istituzioni democratiche non dall’esterno, ma dall’interno, e alla liquidazione del sistema politico dei partiti come una sovrastruttura parassitaria e rinunciabile, per un immediato autogoverno popolare. Il compimento ideologico di Mani Pulite: i partiti come ladri non solo di soldi, ma anche di democrazia.

Il libro di Facci è una sorta di diario di bordo della sua personale traversata di quei tre anni assurdi e terribili, iniziati da cronista abusivo di un giornale ufficialmente “di ladri”, cioè L’Avanti, e terminati da autore di libri che nessuno pubblicava, ma che circolavano, suo malgrado, in forma di dossier anonimi. Però da questa cronaca esce anche un affresco realistico e convincente del contesto (in senso sciasciano: del viluppo inestricabile di relazioni e di ricatti), in cui ha preso avvio quella rivoluzione mancata e che ne spiegano tanto il fallimento, quanto l’eternizzazione. “Il tradimento di Mani Pulite” come “La “Resistenza tradita”; “Ora e sempre Mani Pulite” come “Ora e sempre Resistenza”.

Facci, a differenza di molti apologeti della Prima Repubblica, che invertono semplicemente le parti ai buoni e ai cattivi del copione delle procure, evita di raccontare la contro-storia della Repubblica più bella del mondo ammazzata da una magistratura brutta, sporca e fellona. Al contrario spiega molto bene, senza alcuna indulgenza, che ad essere aggredito da Tonino e dai suoi compagni d’arme era il corpo di una Repubblica economicamente collassata e politicamente svanita e alienata, che a Maastricht aveva firmato impegni che non avrebbero potuto essere mantenuti, senza svelare dolorosamente il bluff di una crescita e di un benessere drogati da deficit, debito e svalutazioni.

A partire dal 1992, le inchieste dilagano in un Paese in cui Amato e poi Ciampi devono fare manovre monstre per evitare il default: ne esce così confermata la diceria, propalata a piene mani da politici e gazzettieri di complemento, che l’Italia stesse fallendo perché qualcuno si era rubato i soldi. Un falso dopo l’altro, anzi un falso dentro l’altro. Non era vero che l’Italia era ricca quando si indebitava per mantenere un tenore di vita da “società signorile di massa”, come – ricorda Facci – l’avrebbe definita anni dopo Ricolfi. Ma non era neppure vero che le centinaia di migliaia di miliardi di sovra-indebitamento pubblico, che avevano pagato un patto sociale e un consenso democratico disfunzionale e insostenibile, fossero finiti nelle tasche dei politici. Erano finiti, banalmente, nelle tasche degli italiani; ma erano, per l’appunto, finiti.

Un altro merito e forse la maggiore originalità del libro di Facci è di incrociare le vicende giudiziarie di Tangentopoli con quelle delle inchieste contro la mafia di Falcone e Borsellino. Dal raffronto esce il paradosso di due storie che sembrano procedere esattamente al contrario. Da una parte una pesca a strascico che miete morti, feriti e vittime innocenti (metà degli inquisiti della Procura di Milano uscirà pulita dai processi), che non moralizza affatto la politica e che fa del finto moralizzatore Di Pietro l’uomo più famoso, amato e potente d’Italia. Dall’altra una strategia vincente, che dal maxiprocesso in poi porta alla disarticolazione di Cosa Nostra e che si conclude però con l’isolamento e la morte dei due principali protagonisti. Borsellino abbandonato nella gestione del dossier Mafia e Appalti, archiviato subito dopo la strage di Via D’Amelio. Falcone schifato dall’antimafia combattente, che ne avrebbe in seguito usurpato i titoli di nobiltà, e mascariato come lacchè andreottiano, dopo il suo trasferimento agli Affari Penali di Via Arenula, con l’allora ministro della giustizia Martelli.

Il bilancio di Tangentopoli è politicamente negativo. Ha rafforzato l’idea che la giustizia e lo stato di diritto non siano sinonimi e possano anche essere contrari, quando serve “fare pulizia” e che la tutela giudiziaria della politica sia un fattore, magari sgradevole, ma necessario, di igiene democratica. Dei due leader, a cui Facci riserva nel libro calorose parole di affetto e gratitudine, Craxi e Pannella, fu il secondo a definire icasticamente questo esorcismo, questo abracadabra trasformistico che avrebbe dovuto liberare l’Italia dal maligno del malaffare e della malapolitica e a svelarne la natura nichilista: se si accontenterà di «passare dal conformismo dei clienti alla rivolta dei pezzenti, che con rabbia vogliono solo distruggere il padrone di ieri, questo Paese si autodistruggerà», disse il leader radicale a Mixer il 1 febbraio 1993. È una frase che non è presente nel libro, ma che ne potrebbe essere l’esergo. Ed è una profezia molto precisa su quello che sarebbe accaduto nei trent’anni successivi.

Esce oggi “La guerra dei trent’anni” (Marsilio) e l’autore, Filippo Facci, anticipa per noi una sintesi e i temi principali del libro. Una ricostruzione di “mani pulite”, inchiesta che terremotò l’Italia. Da “Libero quotidiano” il 7 aprile 2022.

Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - ci furono le «elezioni terremoto» che secondo molti fecero da detonatore alla «rivoluzione» di Mani pulite, e secondo altri - sempre meno - originarono una Seconda Repubblica. 

A ripensarci, però, non fu una scossa così violenta, anche se i risultati furono clamorosi: la Dc scese al minimo storico (dal 34,3 al 29,7 per cento) con perdite eccezionali nel Nord-Est (-12 per cento nelle province di Verona e Padova; -18 in quella di Vicenza) e il Psi non cavalcò nessuna onda lunga, ma flesse dal 14,3 al 13,6 per cento: il quadripartito che aveva sostenuto il precedente governo Andreotti (Dc-Psi-Psdi-Pli) mantenne una risicata maggioranza, e il nuovo Pds erede del Pci, che aveva appena cambiato nome dopo la caduta del muro di Berlino, si attestò sul 16,6 per cento con la nuova Rifondazione comunista che non superò il 5,6 per cento. 

Ma un discreto successo ottenne La Rete, il movimento di Leoluca Orlando che puntava tutto sulla retorica antimafia (dodici deputati e tre senatori) e poi la vera trionfatrice: la Lega Nord di Umberto Bossi, personaggio che andava a letto alle 8 del mattino e si svegliava alle 6 di sera: dallo 0,5 per cento balzò all'8,7 nazionale (55 deputati e 25 senatori) e colonizzò il settentrione con il 25,1 per cento in Lombardia, 19,4 in Piemonte, 18,9 nel Veneto, 15,5 in Liguria e 10,6 in Emilia-Romagna.

Bettino Craxi raccolse 94mila preferenze, Bossi 240mila. Il partito «razzista» passò dalle salsicce di Pontida (dove nel Medioevo fu costituita la Lega lombarda dei comuni contro Barbarossa) a una truppa di parlamentari dapprima guidati in «tour» per conoscere la Capitale e distoglierli dalle tentazioni della grande meretrice. Il responsabile amministrativo, Alessandro Patelli, organizzò un pulmino per i deputati e mise in piedi un convitto dove dimoravano tutti gli eletti che la sera facevano gruppo e formazione. Anche la sola uscita in un ristorante della Capitale era considerato potenzialmente corruttivo e invischiante.

A titolare «Elezioni terremoto» fu soprattutto il Corriere della Sera, capofila di una stampa che in generale aprì un fuoco di fila contro la maggioranza. La sera dei risultati ci fu una prima telerissa (sensazionale, per l'epoca) fra il direttore del Tg1 Bruno Vespa e il segretario repubblicano Giorgio La Malfa. L'antipolitica montava soprattutto in tv. Su Raitre c'era Gad Lerner con il suo Profondo Nord poi diventato Milano, Italia, su Italia Uno c'era Gianfranco Funari con Mezzogiorno italiano, intanto Michele Santoro faceva sempre grandissimi ascolti: anche se nelle settimane preelettorali il direttore generale della Rai gli chiuse la trasmissione per quindici giorni: da immaginarsi che cosa ne venne fuori. Il 13 gennaio di quell'anno era anche partita l'era dei telegiornali Fininvest, che sostenevano l'inchiesta mani pulite più della Rai: Silvio Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano, non ebbe niente da eccepire.

Una settimana prima, il 30 marzo, l'indagato socialista aveva «confessato» al «gabbiotto», una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio di giustizia. C'erano settanta persone tra giornalisti, cameraman e fotografi, e si sentì tutto, perché avevano aperto una finestrella laterale: «Non chiedetemi più nulla di quelli lì, basta», disse Chiesa, «M'avete rotto i coglioni con quel nome». Il nome era quello di Vittorio «Bobo» Craxi, il cui padre era candidato alla presidenza del Consiglio. 

Ancor oggi si tramanda che Chiesa avesse confessato perché Craxi il 29 febbraio lo aveva definito «mariuolo»: ma non è vero, e lo dimostra una lettera di Chiesa che il libro La guerra dei trent' anni pubblica integralmente. Chiesa, infatti, non fece mai il nome di nessun Craxi. Molte cose non sono vere: anche la favola dell'imprenditore monzese che si offrì volontario per incastrare Mario Chiesa in flagranza di reato: in realtà fu costretto a farlo - perché aveva pagato tangenti - ma dapprima non aveva intenzione di denunciare nessuno, e si ritrovò suo malgrado a fare da infiltrato, anche perché la sua Ilpi, impresa di pulizie, stava fallendo, e infatti fallirà: dovrà pure difendersi dall'accusa di bancarotta fraudolenta.

Ancora nel 2012 raccontava: «Di Pietro era il pubblico ministero di turno, quella mattina: se non ci fosse stato lui, ma un altro, forse le cose sarebbero andate in un modo diverso». Disse pure che Di Pietro votava per il Msi. Non è neanche vero che Mario Chiesa cercò di occultare i 7 milioni della tangente nel water del suo ufficio, tirando lo sciacquone: non esiste infatti nessun atto o verbale che attesti il tentativo e in ogni caso riguardava un'altra tangente pagata dall'impresa che aveva ritinteggiato l'intero stabile, la Carobbi: a rivelarla fu lo stesso Chiesa.

Non è neppure vero che l'inchiesta Mani pulite aveva atteso le elezioni del 5 aprile per trasformarsi in rivoluzionaria: aveva cominciato prima, anche senza consenso popolare. Tre giorni prima del voto il gip «unico» Italo Ghitti aveva già detto che «il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». 

Sulla funzione anomala del gip «unico» si è già espresso definitivamente Guido Salvini, magistrato insospettabile che passò quegli anni proprio all'ufficio gip: Ghitti - racconterà - accentrò indebitamente tutti filoni di quell'indagine che evitò così di confrontarsi con posizioni e scelte di una ventina di giudici. Il fascicolo di Mani pulite non era neanche un fascicolo, ma un registro che riguarderà migliaia di indagati per vicende tra loro completamente diverse, unificate solo da numero (8655/92) esteso anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva.

Così, ancor prima del 5 aprile 1992, con o senza consenso e «dipietrismi», cominciò una nuova fase giurisprudenziale: ogni reato ipotizzato sarà inquadrato nell'affiliazione a un sistema, e la pretesa dimostrazione che l'indagato ne avesse fatto parte basterà a giustificare il protrarsi della galera preventiva. Chi parlava e denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema, come i pentiti con la mafia.

Quello che è vero - a proposito di mafia - è che la vera rivoluzione giudiziaria in realtà nacque al Sud, o avrebbe dovuto farlo. La prima vera bastonata alla vecchia Repubblica, infatti, coincise con la prima vera bastonata alla mafia, piaccia o meno l'accostamento: e sarà il preludio, per Cosa nostra, dei suoi ultimi e terribili colpi di coda; parliamo dell'omicidio di Salvo Lima e del dossier «mafia-appalti» che- è acclarato - fu la vera causa delle stragi che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in una terra dove Mani pulite preferì non mettere becco nonostante un sistema che vedeva sedute al «tavolino» politica, imprenditoria e criminalità organizzata. Lo strumento chiave di Mani pulite - il carcere preventivo - avrebbe fruttato ben poche confessioni, anche perché qualsiasi cella, se l'indagato avesse aperto bocca, sarebbe stata preferibile alle pallottole mafiose che potevano attenderlo una volta scarcerato.

«Parlare», al Nord, equivaleva a uscire da un sistema; al Sud equivaleva a entrare al camposanto. L'informativa «Mafia-appalti» era già nelle mani di Giovanni Falcone il 20 febbraio 1991. Il 15 marzo Falcone disse «la mafia è entrata in borsa». Paolo Borsellino, pochi giorni prima di morire, fece in tempo a farsi dire che i soldi di Totò Riina era confluiti in una grande azienda italiana: che no, non è la Fininvest. I verbali sono nel libro.

Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - la rivoluzione giudiziaria era appena nata. Neanche un anno dopo, la composizione del sesto raggio di San Vittore sarebbe stata la seguente: 

cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa; 

cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore; 

cella numero 3: Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat; 

cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli; 

cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese;

cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell'Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia; 

cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore; 

cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia. 

Almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. Poco più di due anni dopo, il 21 novembre 1994, qualcuno - una donna, come si racconta ancora nel libro - passerà a un cronista del Corriere della Sera il mandato di comparizione per Silvio Berlusconi, presidente del consiglio di stanza a Napoli per un convegno sulla criminalità.

E spariranno cinque partiti storici: la Democrazia cristiana (nata nel 1943), il Partito socialista italiano (1892), il Partito socialdemocratico italiano (1947), il Partito repubblicano italiano (1895) e il Partito liberale italiano (1922). La cinetica dell'inchiesta spazzò via anche la vecchia legge sul finanziamento pubblico e il sistema elettorale proporzionale. Benché quei partiti, oltre a foraggiare se stessi e il Paese, forse contribuirono anche a tessere quel poco tessuto civico che avevamo. 

Dagospia l'8 aprile 2022. Da «La guerra dei trent’anni, 1992-2022» di Filippo Facci, Marsilio, in libreria da oggi:

A carico di Silvio Berlusconi, il 21 novembre 1994, la procura opto per un «invito a comparire per persona sottoposta a indagine» (non un avviso di garanzia, come dicono ancora oggi) secondo l’articolo 375 del Codice di procedura penale: in pratica era un appuntamento obbligato per essere interrogati. Una convocazione. 

A scriverlo materialmente fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d’imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio e importante, perchè la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima. 

Il procuratore capo Borrelli diede un’occhiata al provvedimento prima di passarlo a Davigo affinchè procedesse all’iscrizione nel registro degli indagati. Poi Di Pietro parti per Parigi, si vedrà più avanti perchè: probabile, tra l’altro, che volesse sottrarsi a ogni sospetto in caso di fuga di notizie, perchè null’altro avrebbe giustificato una sua assenza in un momento del genere.

Dopodiche, eccezionalmente, Davigo scelse di non fidarsi del consueto passaggio dalla cancelleria (dove circolavano sempre una decina di persone) e decise che l’iscrizione dell’indagato dovesse passare dal computer del suo ufficio, che pero – si accorse – non era abilitato a quel genere di registrazioni. Allora si rivolse al capo della cancelleria e chiese se poteva mandargli un ingegnere per modificare il programma; cosi fu, anche se, tra una cosa e l’altra, se ne andò un’ora e mezza. I cronisti lo notarono.

Era quasi mezzogiorno e in corridoio, d’un tratto, transitarono rispettivamente il comandante regionale e quello provinciale dei carabinieri, Nicolo Bozzo e Sabino Battista, agghindati con la mantella di gala perchè probabilmente strappati a qualche cerimoniale. Alcuni giornalisti notarono anche loro. Gianluca Di Feo fece una prima telefonata al suo capocronista, Alessandro Sallusti, e gli disse che aveva notato movimenti strani. E vabbè, movimenti strani.

Si videro anche a pranzo. Il suo collega Goffredo Buccini aveva fama di apprensivo sino alla paranoia, ma Di Feo aveva invece posture da «mitomane», o perlomeno fu questa l’espressione che Buccini aveva utilizzato nel lamentarsene con il suo capocronaca: «Quando Ettore Botti mi ha comunicato che sarebbe stato il mio secondo», scriverà Buccini, «ho storto la bocca: le poche volte che ci eravamo parlati si atteggiava a segugio d’inchiesta e sosteneva di essere talvolta pedinato da qualcuno». 

Comunque i due alti ufficiali stavano andando da Borrelli, il quale, dopo i saluti di rito, chiese loro dove si trovasse quel giorno il presidente del Consiglio. Gli risposero che era a Napoli, ma che nel pomeriggio, per quanto sapevano, sarebbe rientrato a Roma. In realtà non c’era bisogno di convocare quegli alti ufficiali personalmente: fu un modo per responsabilizzarli in vista del delicato incarico che senza dubbio rappresentava recapitare a un presidente del Consiglio quella busta gialla, l’invito a comparire.

Il quale riemerse dal suo ufficio attorno alle 14 e accompagno gli alti ufficiali all’ascensore. Qui incrociarono ancora Gianluca Di Feo del «Corriere», figlio di un carabiniere ed esperto di cose di carabinieri: il quale, cortesemente e con la sua voce garrula, chiese quale gradevole ragione avesse portato i due alti ufficiali a transitare proprio da quelle parti.

Davigo rispose motivando la presenza dei due con una frettolosa cazzata: era il giorno della Virgo Fidelis – disse – patrona dell’arma dei carabinieri; ma Di Feo, da secchioncello, fece notare che durante la festa della Virgo Fidelis erano i magistrati che andavano in caserma dai carabinieri, non viceversa. Piccolo imbarazzo. E piccolo segnale, ma solo uno dei tanti, uno dei tantissimi che da settimane allertavano i giornalisti dopo il «preavviso» a Berlusconi annunciato da Borrelli nell’intervista del 5 ottobre. La gaffe sulla Virgo Fidelis verrà venduta come intuizione geniale, anche se da sola contava sino a un certo punto. 

I due ufficiali intanto, per via gerarchica, avevano passato la busta gialla al tenente colonnello Emanuele Garelli e al maggiore Paolo La Forgia, subito partiti per Roma vestiti in borghese e con un’auto con targa civile. La Forgia aveva già recapitato avvisi di garanzia a Bettino Craxi, al repubblicano Ugo La Malfa e al liberale Renato Altissimo, tre segretari di partito.

In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l’invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di «Avvenire». Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. Tutto il resto – gli ufficiali, il tecnico dei computer, mille altri dettagli – apparteneva alla sfera del sempiterno clima di preallerta che da settimane regnava tra cronisti ormai ipertesi.

Piu tardi, alla macchinetta del caffe, Davigo incontro ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell’«Avanti!» che era passata all’agenzia Adnkronos; parlarono ancora dei due ufficiali, e Davigo si lancio in un elogio del comandante Bozzo, del quale – disse – in procura si fidavano ciecamente. Quel suo volerlo sottolineare rafforzo altri sospetti. 

Con i soli sospetti, pero, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d’appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo. Il pool dei giornalisti, in quel periodo, si era ormai sfaldato e marciava stancamente, impigrito, diviso in base più ad amicizie personali che alla necessita di coprire le poche notizie che circolavano.

Buccini i primi di ottobre era stato promosso inviato e Paolo Mieli l’aveva addirittura trasferito a Roma (in albergo, per cominciare), si era quindi sganciato dalla cronaca di Milano e un po’ anche dal vecchio sodale Peter Gomez, passato intanto dal «Giornale» alla «Voce»; i cronisti della «Repubblica», del «Corriere» e della «Stampa» andavano sufficientemente d’accordo tra loro (Colaprico e Fazzo nella prima, Di Feo e Buccini nel secondo, Fabio Poletti nella terza) e poi, su un apparente altro fronte, c’era il solito Paolo Colonnello del «Giorno», affiancato dall’intelligenza timida e incattivita di Luigi Ferrarella, entrambi finalmente liberi dalle vessazioni dell’ex direttore Paolo Liguori.

Poi c’erano due grandi amici, Renato Pezzini del «Messaggero» e Paolo Foschini di «Avvenire»: Foschini era un educato e pigro pischello che nel suo primo giorno nella sala stampa del tribunale era stato accolto quasi con tenerezza, guidato in un tour in procura da Michele Brambilla del «Corriere» e appunto da Renato Pezzini, con cui lego molto. Poi c’era qualche eccezione solitaria e altri un po’ a rimorchio. 

Foschini aveva un discreto rapporto anche con Gianluca Di Feo del «Corriere» e tanto gli basto per tentare un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su «Avvenire». Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo e gli rivelo che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite.

Di Feo si disse d’accordo, accetto almeno formalmente: facile che pero immaginasse già tutto un altro film che tra i protagonisti non prevedeva testate concorrenti, neanche un peso piuma come «Avvenire»: corse dal capocronista Alessandro Sallusti e rivendette la notizia come solo sua; di Foschini non fece alcun cenno. Berlusconi era indagato e urgeva la presenza di Goffredo Buccini perchè aveva – era noto – una talpa particolare in procura che poteva rivelarsi decisiva. Foschini, invece, allerto l’amico Pezzini del «Messaggero» che quel giorno era fuori Milano per servizio.

Buccini intanto era «sul pezzo» come poteva esserlo uno che era stravaccato su una poltrona a intervistare Ignazio La Russa, a Roma. La telefonata di Di Feo lo riporto dal torpore capitolino alla consueta iperagitazione da cronaca giudiziaria: s’involo per Milano senza neppure ripassare dall’albergo e preallerto – o fece preallertare, più probabilmente – la sua fonte in procura, una donna che in precedenza non si era dimostrata insensibile al fatto che lui fosse un uomo, un rapportarsi che non era un segreto assoluto.

L’invito a comparire intanto stava per giungere nella capitale. 

Buccini atterro a Milano verso le 19 e passo direttamente dalla sua fonte «al solito posto», vicino alla procura. I colleghi si erano già salutati ed erano tornati nelle rispettive redazioni a scrivere oppure a non farlo. La fotocopia, o stampata che fosse, fu finalmente nelle sue mani, anche se alla fine era un foglio solo: il primo di quattro, ma questo lui non poteva saperlo. For- se era stata stampata in un solo foglio per errore o per fretta, vai a sapere. Buccini riapparve in redazione verso le 20.30 e intanto era tornato anche il direttore Paolo Mieli, rimasto fuori tutto il giorno – pur aggiornato per telefono – e reduce dalla presentazione di un libro.

Gli ufficiali dei carabinieri intanto erano giunti a Palazzo Chigi – erano ormai le 19.30 –, ma Berlusconi non lo trovarono: c’era solo un consigliere diplomatico che chiamo il sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta, che a sua volta chiamo Berlusconi il quale non si era mai mosso da Napoli. Verso le 20, gli ufficiali chiamarono Borrelli per sapere che cosa dovevano fare. 

Il procuratore, il quale aveva ricevuto un’ansiosa telefonata di Buccini a cui aveva risposto picche, aveva fretta che Berlusconi sapesse del provvedimento (figurarsi che cosa sarebbe successo se la notizia fosse trapelata prima della notifica) e li autorizzo a telefonare al Cavaliere per leggergli l’atto, cosa di cui si incarico il comandante Emanuele Garelli.

La chiamata, pero, duro meno di un minuto, perchè stava per cominciare il concerto di Pavarotti al teatro San Carlo. Berlusconi capi soltanto che c’erano grane in vista. Rimandarono a più tardi, e fu il Cavaliere a richiamare alla fine del concerto, verso le 23: si sorbi la lettura solo della prima pagina, perchè a un certo punto si stufo, e, seccato, diede appuntamento agli ufficiali per l’indomani, a Palazzo Chigi, alle 14.

Intanto, al «Corriere», Gianluca Di Feo viveva la sua ansia da tradimento e Goffredo Buccini viveva la sua ansia e basta. Mieli, in ogni caso, faceva la parte del direttore a cui nessuna conferma poteva bastare: in sostanza lo «scoop» di Buccini e Di Feo consisteva nella pubblicazione di una carta giudiziaria incompleta prima che degli alti ufficiali la consegnassero completa al destinatario, consistette nell’averla anticipata di qualche ora prima che il destinatario la rendesse nota comunque, consistette nell’aver impedito che il destinatario potesse gestirla mentre il nostro paese aveva puntati addosso gli occhi del mondo, consisterà – ma di questo il «Corriere» non ha colpa diretta – in una robusta spallata che quantomeno favorirà la caduta di un governo, consisterà nell’inizio di un procedimento penale che condurrà l’indagato a un’assoluzione per non aver commesso il fatto.

E consisterà in uno «scoop» che nei libri di Bruno Vespa, non per sua colpa, sarà descritto come la scoperta dello scandalo Watergate con tanto di inesistente «gola profonda» (che era un comandante generale della vicina caserma di via Moscova, che si limito a rassicurare Di Feo senza dirgli nulla) e sarà descritto prefigurando inesistenti e tenebrosi incontri in improbabili parcheggi sotterranei come in Tutti gli uomini del presidente con Robert Redford e Dustin Hoffman, quando invece la fonte primigenia era una donna che lavorava in procura, la quale aveva allungato una fotocopia a Buccini, anche se lui per anni parlerà di una «una fonte molto qualificata» che gli aveva confermato la notizia.

La notizia, dunque, fu scoperta da Paolo Foschini, non dal «Corriere», che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunche. Foschini fu sostanzialmente tradito dall’amico Di Feo e le «conferme» alla fine furono le seguenti: 1) un foglio passato da una femmina non estranea ai propri sentimenti che forni una sola fotocopia su quattro; 

2) una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che «mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente», anche se un’altra fonte sostiene che la risposta fu: «Come si permette di chiamarmi a casa e farmi questa domanda, non si permetta più di fare una cosa simile»;

3) poi un’altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente – questo almeno ha scritto Davigo in un suo libro – o che, secondo un’altra fonte, rispose cosi: «Ma le sembrano cose di cui parlare con un magistrato?». Clic; 

4) a questo aggiungiamo le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono «smentite non convincenti», perchè ormai al «Corriere» si basavano su questo: su quanto le smentite fossero «non abbastanza convincenti» o su quanto le smentite non fossero abbastanza smentite. Entrambi i giornalisti registrarono dei nastri con tutte le telefonate. Mieli non sembrava convinto per niente;

5) ma poi, verso le 23, Gianluca Di Feo fece un’ultima scappata in via Moscova, da un comandante dei carabinieri amico suo a cui fece una scena madre dicendogli che, se avesse sbagliato l’articolo, sarebbe stato rovinato per sempre, la sua famiglia sarebbe stata coperta di ridicolo, avrebbero chiuso il «Corriere»... cose del genere. In pratica chiese all’ufficiale di fermarlo prima che fosse troppo tardi. 

L’ufficiale diede a Di Feo una pacca sulla spalla e gli rispose soltanto: «Gianluca, vai a casa, sai che ti voglio bene». E questa e una frase che in via Solferino ritennero fondamentale, perchè, se la notizia fosse stata falsa, il generale amico avrebbe reagito diversamente. E lecito pensarlo, quell’uomo era un amico storico e familiare di Di Feo e l’amicizia era importante: anche se, forse, da principio l’aveva pensato anche Paolo Foschini. 

Di Feo tuttavia trasformerà quella banale «conferma» ottenuta nella caserma in via Moscova (e che era molto più conferma di tutte le altre messe insieme) in una serie di oscuri dialoghi telefonici con un’inesistente «gola profonda» di cui saranno infarciti i libri di Bruno Vespa. 

Nel contempo in via Solferino si era creato un surreale doppio binario: ai piani superiori c’erano il caporedattore Antonio Di Rosa, il vicedirettore Giulio Giustiniani e il vicecaporedattore centrale Paolo Ermini (non e chiaro se ci fosse anche il vicedirettore Ferruccio de Bortoli) i quali erano all’oscuro di tutto e avevano già disegnato una prima pagina senza la notizia su Berlusconi; mentre al piano inferiore, nella stanza chiusa del capocronista Alessandro Sallusti, assieme a lui c’erano Di Feo, Buccini e Mieli che preparavano un’altra prima pagina con l’ausilio di quello che in gergo si chiamava «proto», un tecnico di composizione tipografica.

Ma se l’atmosfera si stava facendo pesante non era solo per la tensione: era già da un po’ che i colleghi della giudiziaria avevano cominciato a chiamare per il consueto giro delle telefonate serali. Alle 21 aveva chiamato anche Foschini a cui Di Feo aveva risposto: «Nessuna novità». L’«Avvenire» di Foschini chiudeva prima degli altri perchè alle 23 andava già in stampa. Aveva chiamato anche Peter Gomez della «Voce», che per Buccini era più di un fratello: avevano fatto la scuola di giornalismo insieme, scritto libri a quattro mani, stretto alleanze di ferro quando il pool dei giornalisti non esisteva, avevano condiviso e sognato la stessa professione e, ora, lo liquidava con un secco: «Nessuna novità».

Gomez, proprio in quei giorni, stava aiutando Buccini e Di Feo a riaprire un canale con Di Pietro, che con il «Corriere» non aveva più voluto parlare dopo che l’amico Goffredo aveva raccattato una letteraccia amarissima che Di Pietro aveva scritto il giorno prima che morisse sua madre, a Vasto, dove Buccini oltretutto era andato facendo da autista a Davigo e Colombo: poi il Tonino sofferente aveva deciso di non farne più nulla e di non rendere pubblico quello sfogo di un momento troppo intriso di dolore privato, ma Buccini era riuscito a recuperare la bozza e l’aveva pubblicata sul «Corriere».

Strano che Di Pietro non volesse più parlargli. Ora Gomez si stava facendo in quattro per ricucire il rapporto, e ora pero drin, «Nessuna novità». Buccini la fama un po’ da stronzo ce l’aveva sempre avuta, Di Feo stava facendo un apprendistato con il turbo. Ora eccoli li, nel cabinozzo di Sallusti con i loro cellulari che suonavano e trillavano e loro ormai che non rispondevano più. Ma le telefonate continuavano, e più loro non rispondevano e più i trilli sembravano insistere, animarsi, pesare come sensi di colpa. 

Se ne accorsero anche Mieli e Sallusti. Nel libro Il duello di Bruno Vespa, tra le fantasticherie di Gianluca, c’è anche un passaggio che prefigura un Di Feo che fuori tempo massimo ha «un problema di coscienza» e spiega a Mieli che «ritiene che tra i colleghi degli altri giornali solo Foschini abbia capito che i giudici abbiano tirato l’affondo finale a Berlusconi». Lo ha «capito». E quindi «chiede a Mieli se può informarlo». Il direttore risponde di no, ora e tutto chiaro: lo stronzo e Mieli. Invece, nel libro di Buccini del 2021 sul trentennale di Mani pulite Foschini non viene neppure nominato.

Ecco infine la prima pagina, finita, approvata, quella vera: titolo di spalla (a destra del giornale) a sei colonne: Milano, indagato Berlusconi. Cosiddetto «catenaccio» o sottotitolo: «E l’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza». Si parlava di due soli capi d’imputazione perchè avevano avuto appunto un foglio solo (del quale Buccini e Di Feo peraltro negarono l’esistenza per anni, nei loro racconti romanzati) e circa la mancanza della terza imputazione, ancora nel 2021, Buccini spiegherà che su quella terza notizia «ci abbiamo messo le orecchie ma non gli occhi. Per eccesso di prudenza, sfumiamo». Certo, si.

Buccini si spingerà oltre: «Il fatto che proprio in quelle ore Berlusconi non lasci completare ai suoi interlocutori telefonici l’elenco delle accuse, chiudendo la comunicazione con i carabinieri proprio prima che quelli arrivino a citargli Videotime, induce alcuni astuti esegeti a fare due più due, producendo la straordinaria teoria che sia proprio lui la nostra fonte decisiva, cosi da potersi atteggiare a vittima la mattina dopo. Una tesi ovviamente sostenuta con qualche interesse anche da molti colleghi di altri giornali». 

Gli astuti esegeti, a dire il vero, sono i magistrati di Milano. Quella era la tesi della Procura di Milano e lo e ancora oggi. Dira Davigo: «Noi eravamo gli ultimi ad avere interesse che la notizia uscisse in quei tempi e in quei modi, essendo facilmente prevedibile l’uso che si sarebbe fatto di quella sciagurata fuga di notizie. Io resto convinto che la conferma al Corriere l’abbia data qualcuno dell’entourage di Berlusconi».

Chiesero a Borrelli nel 2010: «Davigo e convinto che la conferma dell’invito a comparire il «Corriere della Sera» l’abbia avuta dall’entourage di Berlusconi. E lei?»; Borrelli: «Si, questa e la convinzione che abbiamo tutti. Noi pensiamo che la conferma decisiva al «Corriere della Sera» l’abbiano data o l’indagato o ambienti vicini all’indagato». 

Quella sera ormai tarda il dado era comunque tratto: Mieli consegno la prima pagina autentica e raccomando che non fosse mandata ai tg della notte per le rassegne stampa, e di non fare la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma. Ma dimentico di dirlo ai suoi ragazzi.

Poi tutti alla Libera in via Palermo, li vicino, pizzeria che ai tempi aveva il pregio di chiudere tardissimo e oggi e un ristorante che chiude banalmente a mezzanotte. Mieli fece discorsi dapprima un po’ paranoici: «C’erano dei timbri sulle fotocopie? Perchè con i timbri vuol dire che il provvedimento e stato notificato alla presenza di un cancelliere; se invece non ci sono, vuol dire che il documento non e ancora passato in cancelleria»; «Mi pare di no, non mi ricordo». Allora poteva essere un falso, una trappola costruita per fottere il Corriere.

Per rallegrare l’ambiente, Mieli rievoco il caso di Marina Maresca, una cronista dell’«Unita» che nel 1982 aveva pubblicato dei documenti attribuiti al Ministero dell’interno dove si parlava di trattative tra i servizi segreti, le Brigate rosse, il boss della camorra Raffaele Cutolo e dei politici democristiani che volevano liberare l’assessore Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br: documenti che poi si rivelarono falsi, tanto che Marina Maresca fu arrestata, licenziata dal giornale e processata. Bene, altri argomenti? Mieli peraltro continuava a dire che non sapeva se avvertire o no l’avvocato Agnelli, l’editore del «Corriere».

Ultima parentesi: ci sarà chi sosterrà che Mieli stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato. Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d’appoggio cosi scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe.

Dirà il leghista Roberto Maroni in data 14 luglio 1998, intervistato dalla Prealpina: «Finora ho taciuto, ma Scalfaro seppe del provvedimento non il 21 novembre... ma prima. Qualche giorno prima. Me lo rivelo lui stesso. Nell’inverno del 1994 io ero di casa sul Colle. Scalfaro mi disse che Borrelli, con il quale aveva un franco rapporto di amicizia, l’aveva messo al corrente dell’iscrizione del premier nel registro degli indagati. Quando? Non mi preciso una data esatta. Tuttavia, sicuramente qualche giorno prima che s’aprisse la conferenza di Napoli».

Ed è vero che l’iscrizione nel registro degli indagati avvenne solo il giorno 21: ma il giorno fu senz’altro stabilito prima.

Erano le 2 passate del 22 novembre quando alla Libera di via Palermo il consumato attore Paolo Mieli cambio improvvisamente registro e passo a tutt’altro film. Era il film degli uomini soli prima che scocchi l’ora decisiva. Il film degli eroi stanchi prima dell’ultima carica. Perchè noi, vedete, «siamo giornalisti, e il nostro mestiere». Orgoglio. Commozione. Addirittura abbracci. 

Mieli lascio il ristorante per primo. Gli altri tre passarono dalla solita edicola di corso Buenos Aires, ma il «Corriere» pero non c’era. Mieli si era dimenticato di dire loro che la prima edizione sarebbe saltata. Nessun altro giornale comunque riportava la notizia, e questo si prestava a una doppia interpretazione. Alle 3, infine, a casa.

Gianluca Di Feo torno nel suo appartamento di via Paolo Sarpi: a Bruno Vespa racconterà che preparo una borsa per il carcere e che dentro mise anche una Bibbia, una raccolta di novelle di Pirandello e delle scatolette di tonno. L’ansiogeno Buccini, invece, aveva già spedito fuori casa la moglie e la figlioletta, ma di star solo non aveva voglia: divenne un problema di Sallusti, perchè Buccini si autoinvito a casa sua in via Uberti, in zona Porta Venezia. Nottata in bianco. Sigarette. Ansia contagiosa. Pessimismo cosmico.

Alle 5.40 Gianni Letta chiamo Berlusconi e gli disse che il «Corriere della Sera» aveva titolato come sappiamo.

Le prime conferme giunsero quando Mieli chiamo Sallusti: gli riferì che il Quirinale aveva confermato la notizia. Sempre il Quirinale. Il problema di avvertire Agnelli lo aveva risolto direttamente Berlusconi che aveva chiamato l’avvocato a New York (tre volte) quando li dovevano essere le 2. Pero poi Agnelli aveva chiamato Mieli.

I tre giornalisti del «Corriere» avevano pensato che, in caso di interrogatori, ritenuti certi, Sallusti sarebbe stato sentito per ultimo e che i nastri e la fotocopia li avrebbe tenuti lui. Sallusti chiese alla moglie, Elisabetta Broli, di nascondere tutto in un posto sicuro. Buccini e Di Feo, in effetti, vennero interrogati in mattinata dai carabinieri di via Moscova. Nel pomeriggio tocco invece a Sallusti in veste di testimone, trucchetto che serve per non avere avvocati tra le scatole. 

Si appello al segreto professionale come gli altri due, pero a un certo punto fu parcheggiato in una stanza a meditare, una cordiale forma di pressione: e la cosa si fece un po’ lunga. Abbastanza da spaventare l’irrequieto cronico, che decise di chiamare la moglie di Alessandro, perchè temeva che potessero perquisirle la casa. Lei rispose e cerco di tranquillizzarlo: disse che stava portando il materiale fuori citta e che si era soltanto fermata un attimo da una parrucchiera vicino a casa, in Porta Venezia.

All’ansiogeno non poteva bastare. In un nanosecondo era già dalla parrucchiera: si fiondo dentro urlando «Dov’e?, dov’è?», per poi mettersi a frugare nella borsa di Elisabetta in cui trovo ed estrasse una specie di malloppo. Nell’insieme, una scena da tarantolato che spavento a morte la proprietaria del negozio la quale stava quasi per chiamare il 113. Elisabetta cerco di spiegarle che si trattava di un giornalista, che non era un drogato e che nel fagotto non c’era droga, anche se l’invasato non aiutava, perchè intanto se n’era andato nel bagno del retrobottega e aveva gettato tutto in un water dopo avergli dato fuoco, compresi i nastri magnetici altamente infiammabili: il water erutto come il Krakatoa. 

Renato Pezzini del «Messaggero» telefono a Sallusti, suo amico di vecchia data, e gli disse che era un figlio di puttana: il loro rapporto non si ricuci mai. E la stessa espressione che uso con Di Feo, specificando che in passato aveva pensato che a esserlo fosse solo il suo compare. Insomma la prese bene. Luca Fazzo della «Repubblica» chiamo l’amico Di Feo e gli fece i complimenti «come professionista», ma aggiunse che «come amico sei uno stronzo, i conti li facciamo dopo». Paolo Foschini fu visto molto intristito.

Leggenda vuole – anzi, diversi cronisti lo credono ancora oggi – che Foschini venne poi assunto al «Corriere della Sera» in segno di risarcimento per l’ingiustizia patita. Niente porta a

crederlo. Anzitutto, con l’amico Pezzini, passo più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza. Poi si, la cronaca di Milano del «Corriere» aveva bisogno di un nuovo cronista polivalente da assumere: ma Gianluca Di Feo non indico Foschini, indico Luca Fazzo della «Repubblica». 

E Fazzo avrebbe anche potuto accettare, ma alla «Repubblica» lo vennero a sapere e gli offrirono un milione di lire in piu e il grado di inviato. Fazzo resto alla «Repubblica». Allora Michele Brambilla del «Corriere», l’ex cronista che all’inizio di Mani pulite aveva affiancato Buccini prima di tirarsi indietro e lasciare il posto proprio all’implume Di Feo, suggerì Paolo Foschini. Il quale ebbe un colloquio con il capo della cronaca milanese, Giangiacomo Schiavi, emiliano come lui. E sarà per questo, ma fu assunto con decorrenza dal 1° gennaio 1997. Il direttore era ancora Paolo Mieli. Di Feo, Foschini, se lo ritrovo a fianco. Tutti i giorni.

Dagospia il 30 aprile 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Ore 20.05, del 30 aprile 1993, Hotel Raphael, Roma.

Saliamo in macchina sotto una doccia di pietre, monetine e insulti.

È chiaro che siamo protagonisti di un evento epocale (anche se, incredibilmente, il giorno dopo nessuno ne scriverà).

In realtà, ovviamente, il protagonista era Lui, Bettino Craxi, ultimo segretario del PSI nel centesimo anno della sua fondazione. Noi altri tre in quella macchina, Nicola Mansi, storico autista e Umberto Cicconi, fotografo e ombra del segretario, eravamo solo birilli decorativi di quel tiro al piccione (io, seduto dietro e alla sinistra di Craxi, ero in quel momento segretario nazionale dei Giovani Socialisti). 

Siamo consapevoli dell’odio che s’infrange sui finestrini dell’auto, ma veniamo pervasi da un sentimento di tranquillità quello che ci porta a comprendere che quel passaggio rappresentava un calvario necessario, forse ruvido, forse ingiusto, verso una nuova Italia.

Nel viaggio verso gli studi televisivi al Palatino, dove Craxi avrebbe rilasciato un’intervista a Giuliano Ferrara, eravamo sollevati dall’aver intuito il significato di quell’aggressione. 

In quei pochi minuti di una Roma addobbata a forca ci si mostrava un domani diverso, dove capivamo non ci sarebbe stato posto per noi, ma la soddisfazione che tutto questo futuro sarebbe ricaduto sui nostri concittadini ci ripagava e rasserenava. 

Intanto i partiti avrebbero trovato subito un modo per finanziarsi in modo trasparente e la politica, tutta, si sarebbe liberata da quell’immensa ipocrisia che non consentiva ai più importanti attori delle istituzioni, i partiti appunto, di organizzare la costruzione del loro consenso. Persino i rappresentanti d’interessi, i lobbisti, avrebbero esercitato il loro talento ottenendo in pochi giorni una legge che li rendesse attivi alla luce del sole. Il Paese quindi avrebbe incontrato riforme costituzionali, che attendeva da decenni, per adeguare la sua struttura istituzionale al nuovo mondo. 

E anche i partiti e la selezione delle loro classi dirigenti se ne sarebbe avvantaggiata. Gli uomini compromessi da precedenti responsabilità o quelli difensori di ideologie fallimentari e fallite si sarebbero silenziosamente sottratti alla scena politica per lasciar spazio a una nuova classe dirigente finalmente costruita sul merito, la competenza e la passione civica. Il nepotismo sarebbe stato annichilito dal virtuosismo di una nuova selezione costruita sui titoli e le capacità tecniche (e di afflato etico indiscusso). Tutto questo avrebbe portato finalmente al Paese, stabilità, prosperità e crescita. 

Intanto cominciando a fare quelle cose così semplici che nessuno era mai riuscito a realizzare. Insegnanti, forze dell’ordine, infermieri, financo le guardie carcerarie, sarebbero state ripagate e riconosciute per la centralità del loro ruolo di sviluppo e di rappresentanza dello Stato (soprattutto quando lo Stato incontra il suo unico azionista, il cittadino, nei suoi momenti di maggiore debolezza e necessità); e lo avrebbe fatto nel modo più semplice: con un riconoscimento economico e di prestigio sociale del loro ruolo.

Poi, si sarebbe dato il via al più grande progetto di ricostruzione di scuole, ospedali e infrastrutture pubbliche che aspettavano ancora un segnale da questa Repubblica tanto giovane quanto incerta e distratta nel mettere mano alle primarie urgenze dei suoi cittadini. 

La Prima Repubblica aveva lasciato un grave debito pubblico giustificandolo con l’aver dovuto affrontare un’economia da guerra fredda, poi il terrorismo, quindi scontri sociali violentissimi, il tutto dentro a un’inflazione pandemica a doppia cifra, ma sapevamo che anche questo vulnus sarebbe stato presto domato e riportato all’equilibrio e ribaltato in prosperità.

Infatti il terminare di ogni litigiosità politica e la comparsa dei civil servant, immolati solo agli interessi della collettività, annunciavano una strada che avrebbe reso una passeggiata il raggiungimento di questi obiettivi. Come infatti è stato. A cominciare dalla redistribuzione della ricchezza coniugata con un’accettazione sociale della stessa riconosciuta come premio del talento e non bersaglio d’invidia. 

Qualcuno avrebbe preteso di cedere i nostri gioielli pubblici nel settore energetico, infrastrutturale o del mondo delle comunicazioni. Le nuove forze politiche avrebbero però respinto questa scellerata prospettiva o l’avrebbero, contro voglia, applicata solo per risanare, definitivamente, il nostro debito pubblico e ripartire verso nuove avventure di un Paese che era stato capace di raggiungere primati impensabili per una nazione così piccola (come l’essere stati i terzi a lanciare un satellite nello spazio o i leader nella scienza atomica o, in un settore non secondario come quello delle comunicazioni, veri pionieri).

Avremmo fatto di necessità virtù dell’assenza di materie prima, rendendoci energeticamente, se non autosufficienti, liberi da ogni ricatto; poi ci saremmo focalizzati sulla nostra capacità manifatturiera di elaborare e migliorare il prodotto, rendendo lo Stato complice del cittadino e delle sue attività produttive, levigando quella catena montuosa di tassazioni che tratteneva risorse senza restituirle, in modo plastico, in servizi e infrastrutture.

E grazie a tutto questo, sarebbero rinate le città; e in effetti oggi è davvero una soddisfazione camminare tra strade abbaglianti per il loro decoro, lucidate da una pulizia ossessiva e maniacale, avvolti in un clima di sicurezza e serenità che solo a immaginarlo allora ci sembrava un sogno utopistico. I giovani sapevamo avrebbero ritrovato fiducia nel futuro e gli anziani la serenità per la loro meritata età. 

Queste cose così semplici, solari, di plateale buon senso, erano state tradite solo dall’incompetenza della nostra Prima Repubblica, ma avrebbero trovato una lineare soluzione.

E senza negare la fraternità italica e il sentimento di riconoscenza verso i nostri “liberatori” occidentali avremmo primeggiato nella nostra capacità di dialogo col mondo senza mostrare sudditanza per alcuno (ancor meno adombrata da miseri interessi economici travestiti da cause più nobili). Perché mai, e poi mai, queste nuove classi dirigenti, avrebbero tradito quel carattere fondato sulla lealtà, sulla gratitudine, sulla difesa degli impegni e delle promesse che ne avrebbe costituito il carattere fondativo e distinguente.

Certo sapevamo che non tutto sarebbe stato risolto subito, anche in ragione della nostra eredità, ma l’enorme talento inespresso a cui era stato negato di mostrarsi scalciava per cominciare la sua cavalcata verso questo Eden che attendeva il Paese. 

Ecco, questo accadde la sera di 29 anni fa. Per cui si trattò di un sacrificio necessario.

Stava terminando la nostra vita politica, ma quelle che potevano scambiarsi per urla di un’Italia inferocita contro di noi, era invece la voce del Paese nascente e del suo liberatorio vagito: quello del “né-né”. Luca Josi

Tangentopoli, perché il nome "Mani pulite" fu una pessima idea. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Mi occupo da trent' anni di criminalità giudiziaria, cioè dei delitti perpetrati in nome del popolo italiano dalla piovra in toga. Che non è "la" magistratura, come la mafia non è la Sicilia: ma ne è l'agente plenipotenziario, dotato tuttavia di un potere che è usurpato e si impone su un consorzio sociale intimidito e omertoso.

Ora sono stato querelato da tre famosi magistrati per aver scritto che la cultura di "Mani Pulite", sin dal nome che essa ha prescelto per accreditarsi in questo Paese di giustizia corrotta, rappresenta un'oscena e proterva manifestazione di prepotenza, che ha insultato irrimediabilmente il poco residuo della civiltà giuridica (anzi della civiltà punto e basta) del nostro ordinamento sociale.

Allora, aprano bene le orecchie i querelanti, che chiedono la galera per chi scrive queste cose: non solo rivendico quel mio convincimento, e il diritto di esprimerlo, ma mi impegno a diffonderlo nuovamente e ulteriormente per quel che posso, appunto come faccio da decenni.

Rivendico il diritto di dire che la dicitura "Mani Pulite" è oltraggiosa, e che è eversiva e incivile la cultura che l'ha adottata. Così come rivendico il diritto di dire che l'azione giudiziaria che ha preteso di ispirarvisi ha danneggiato molto gravemente questo Paese, le istituzioni repubblicane, il decoro nazionale. Posso comprendere che sia inconcepibile, per i magistrati poco impensieriti dalle adunate del popolo onesto che sotto ai balconi delle procure strillava di gioia per l'ordine di arresto quotidiano: ma c'è chi crede, querela o non querela, che essi abbiano fatto molto male il loro lavoro e che abbiano fatto molto male a molte persone. È chiaro?

Riflessione su “tangentopoli” trent’anni dopo. CARLO BOLOGNESI  il 29 aprile 2022 su avantionline.it.

Trent’anni fa iniziava quell’evento che i mass media hanno chiamato “Tangentopoli”. Diverse trasmissioni televisive e vari giornali si sono occupati di rievocare ed avviare dibattiti critici su quella stagione politica e giudiziaria. Molti di questi media hanno cambiato impostazioni ed hanno espresso giudizi rispetto al passato. Accanto all’azione giudiziaria che eliminò un’intera classe politica, alcuni ricordano quel 1992 come un “anno orribile”, in cui furono anche eliminati dalla mafia (e non solo da essa) i magistrati Falcone e Borsellino e furono orditi attentati terroristici contro lo Stato, la Chiesa e le rispettive istituzioni.

Nelle scorse settimane è stato edito un documentassimo libro di oltre settecento pagine, scritto da Filippo Facci dal titolo “La guerra dei trent’anni – la rivoluzione mancata”, dove il giornalista (uno dei pochi che all’epoca si era espresso controcorrente e avvertiva i pericoli insiti nelle inchieste giudiziarie) evidenzia l’uso di manette facili praticato dal pool di magistrati di Milano e poi da altre procure, l’uso criminale della stampa allo spiccare di semplici avvisi di garanzia (date subito ai giornali ed in pasto all’opinione pubblica, sapientemente stimolata a reagire con i più ignobili sentimenti giustizialisti e di vendetta, come la “richiesta della forca”), in un paese dove si trovano troppi falsi cattolici opportunisti e giustizialisti. Da quel momento la partecipazione alla vita politica è scesa vertiginosamente, l’astensionismo è aumentato fortemente, i partiti sono stati snaturati ed indeboliti, l’intervento dello Stato in economia ed il Welfare State ridimensionati progressivamente.

Oggi vi sono tanti pentiti. L’allora capo della Procura di Milano, Saverio Borrelli, prima di morire, come riporta nel suo libro Filippo Facci, ha affermato che: “Non valeva la pena di buttare all’aria un mondo precedente per cascare in quello attuale”. Il giornalista ripercorre quegli anni in cui vi furono molti suicidi (tra quelli eccellenti, Cagliari, Gardini, Moroni) e dove tanti personaggi politici ebbero stroncata la carriera solo per aver ricevuto un avviso di garanzia. Moltissimi tra questi sarebbero poi stati assolti con formula piena. Le indagini colpivano intere Giunte regionali, per cancellarle e sostituirle con uomini graditi. Così è stato per la Giunta Regionale Lombarda e, poi, per quella abruzzese. I politici inquisiti venivano lasciati in pace solo se si fossero ritirati a vita privata, al di là dei fatti commessi.

Alle riflessioni di Facci, si possono aggiungerne altre da parte di chi, come molti di noi, hanno vissuto quel periodo. Tra le “leggende” costruite in quella circostanza, vi è quella che vuole “Tangentopoli” nata per puro caso, con l’arresto di Mario Chiesa, a causa di una piccola tangente estorta ad un impresario delle pulizie, neo fascista. Tra l’altro, questo imprenditore, nonostante l’amicizia con Antonio di Pietro, è fallito pochi anni dopo. In realtà si è saputo dopo, ma non conveniva diffondere la notizia, che i veri personaggi che hanno svelato a Di Pietro il meccanismo delle tangenti ed i luoghi dove i Partiti (tutti!) tenevano i soldi, soprattutto all’estero, sono stati l’ex segretario del Partito Socialista, Giacomo Mancini ed Eugenio Cefis, già presidente dell’Eni. Cefis è stato implicato nella morte di Enrico Mattei per prenderne il posto (così come è avvenuto) e trasformare l’Ente energetico in un’azienda di sola raffinazione del petrolio, in omaggio alle grandi compagnie internazionali del settore. Durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopoguerra Cefis svolgeva la funzione di agente del servizio segreto britannico ed il suo braccio destro era un giovane Gianfranco Miglio, in seguito divenuto l’ideologo della Lega Lombarda (poi Lega Nord) e fautore, insieme al venerabile maestro della loggia deviata P2, Licio Gelli, della nascita di tante leghe nelle regioni italiane, soprattutto al Sud, zeppe di esponenti mafiosi. Così hanno reso noto varie inchieste giudiziarie successive. Anche questo ci fa capire la natura internazionale della cosiddetta “Tangentopoli” e cioè il tentativo di ridurre l’Italia, uno dei quattro paesi al mondo più forti economicamente, ad una nazione “in svendita”, ad economia debole, ad un’entrata nell’Euro con ruolo subalterno e riduzione drastica della propria sovranità. Infatti, dopo Tangentopoli, il Prodotto Interno Lordo (PIL), che, fino ad allora, era cresciuto ogni anno costantemente oltre il 3%, crollò improvvisamente ed il debito pubblico, per la prima volta, superò il PIL. La crescita produttiva, durata oltre cinquant’anni, si era fermata. Le maggiori aziende pubbliche, alcune vere leaders mondiali nel loro settore (Eni, ecc.), altre forti aziende e banche pubbliche e private, sono state svendute a compagnie italiane e straniere, a fronte di somme ridicole. Persino aziende strategiche nazionali, come Telecom, sono state vendute agli stranieri. Il bersaglio da colpire per attuare questo disegno di svendita dell’ “Azienda Italia”, era, anzitutto, Bettino Craxi, che aveva ben governato l’Italia dal 1983 al 1987, rilanciando la sua immagine nel mondo e superando un difficile periodo di crisi. Craxi, infatti, si opponeva fortemente a tale disegno e ad un’Italia succube di potenze straniere.

Quasi rutti gli osservatori e gli storici sono finalmente concordi nel ritenere che tanti magistrati, oltre ad aver commesso veri e propri abusi, abbiano sostituito prepotentemente la politica. La maggioranza dei media ha accompagnato questo processo perverso, costruendo l’immagine del magistrato onesto, Antonio di Pietro e, per contro, quella negativa dei politici disonesti e corrotti che andavano spazzati via, messi alla forca, eliminati. Anche i potenti media di proprietà di Silvio Berlusconi, quotidiani, riviste, radio e televisioni, si sono messi al servizio dei magistrati e, in particolare, di Antonio di Pietro. Indicative, in tal senso, sono state, tra l’altro, la copertina del diffusissimo “Sorrisi e canzoni” dove appare, a tutta pagina, l’immagine del magistrato con l’appariscente scritta “Di Pietro facci sognare”, oppure le note trasmissioni di Funari dirette sempre contro Craxi ed i socialisti, o, ancora, i collegamenti di Emilio Fede con il giornalista Brosio, davanti al Tribunale di Milano. Berlusconi, furbescamente, aveva appoggiato in pieno Tangentopoli ed i magistrati per non essere inquisito, essendo uno dei maggiori sovvenzionatori di tangenti a uomini politici, a dirigenti pubblici e ai partiti, come lui stesso ha ammesso anni dopo dichiarando “giravo con l’assegno in bocca” per fare andare a buon fine le questioni interessanti la mia azienda. Tutto questo era accompagnato da cortei e fiaccolate organizzati dalla borghesia milanese, specie quella parassitaria e immobiliarista, a favore del pool di Milano.

Per quanto riguarda Di Pietro, sempre Filippo Facci ha pubblicato, qualche anno fa in un altro libro (“Di Pietro – la storia vera”), i misfatti del personaggio: dagli abusi del giovane magistrato in prova “dimenticando” in galera alcuni inquisiti (e per questo sconsigliato agli organi superiori di farlo diventare magistrato), ai regali della Mercedes e dei prestiti erogati dall’imprenditore Garini, ai regali inviati sotto forma di prestiti al suo amico Rea (che ha fatto assumere come comandante dei vigili dal sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, considerato suo amico, poi fatto inquisire), alle consulenze procurate alla moglie da alcuni Ministeri dove lui era collaboratore, alla consulenza milionaria affidata al giudice di Brescia che non aveva dato il consenso a processare Di Pietro, fino ad aver lasciato sola e senza documentazione la collega Tiziana Parenti nelle famose indagini sulle “tangenti rosse”. Per questo era stato ricompensato, poi, con la candidatura nel fortissimo e sicuro collegio comunista del Mugello per l’elezione alla Camera dei Deputati. Ironia della sorte, candidato in un collegio comunista, Di Pietro era, in realtà, di idee neo fasciste, sospettato, oltretutto, di essere uomo di particolari settori dei servizi segreti italiani ed internazionali (tante sono le dichiarazioni di vari politici in tal senso, ad esempio, più volte vi sono state dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto in proposito). Mirko Tremaglia, autorevole esponente fascista della Repubblica di Salò e neo fascista nel dopoguerra, è sempre stato considerato da Di Pietro il suo “maestro politico”. Un altro magistrato del pool, Piercamillo Davigo, in un’assemblea di cittadini a Vigevano, ripreso dalla tv locale e poi dai giornali nazionali, ha dichiarato che i magistrati di Milano tenevano in galera i politici, anche dopo aver confessato e dopo la scadenza dei termini, con la motivazione che, se li avessero liberati “la gente si sarebbe incazzata”. Altri episodi gravi hanno contrassegnato lo strapotere di diversi magistrati, come quando il procuratore capo della Procura di Milano, Borrelli, ha chiesto pubblicamente al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, l’incarico di formare un governo di soli magistrati! Oppure quando, in violazione di una precisa legge, ha mandato agenti di polizia a far man bassa delle cassette personali appartenenti ai deputati del Parlamento. Tutte queste infamie ed illegalità venivano osannate dai mass media come operazioni tese alla moralità e alla pulizia!

Più tardi, nell’ottobre 2012, un’inchiesta avviata dalla trasmissione televisiva su Rai Tre “Report”, in merito ai rimborsi elettorali, decretò la morte politica del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, accusato di una gestione opaca dei finanziamenti pubblici, in parte utilizzati per l’acquisto di cinquantasei proprietà: case, terreni e casolari agricoli. Da questo momento, il giustizialismo migrò dalla casa di Di Pietro nella casa di Beppe Grillo.

In pratica, i “poteri forti” che avevano sostenuto fino ad allora il principale protagonista di “Mani Pulite”, visto anche il fallimento della lista Di Pietro – Ingroia presentata in occasione delle elezioni politiche, l’hanno abbandonato per appoggiare Matteo Renzi e Beppe Grillo. Così si è completata la progressiva azione anti – politica, attraverso un Pd maggioritario, con a capo Renzi, spostato al centro e, a volte, a destra, (sull’esempio di Macron in Francia che aveva distrutto il socialismo francese) e facendo leva, d’altro lato, su un movimento qualunquista, sguaiato e populista all’opposizione, capeggiato da Beppe Grillo. Nell’ambito dei finanziamenti ad entrambi i due esponenti (almeno in quelli dichiarati e visibili) si trovano somme elargite dalla JP Morgan, un grosso gruppo finanziario americano, cui vennero date le grandi consulenze per la svendita del patrimonio pubblico italiano prima ricordate..

A livello politico, si è arrivati a costituire tre poli contrastanti: centro destra, Pd e Cinque Stelle, cambiando vari governi senza ottenere stabilità ed efficienza. Infine, sono stati chiamati tecnici a presiedere il Governo, com’è avvenuto con Conte e poi con Draghi, vista l’incapacità dimostrata dagli schieramenti politici.

Nonostante le rivelazioni dell’ex magistrato Palamara (vendite delle Procure, lottizzazioni politiche, poteri occulti interni, ecc.), non si riesce a riformare la Magistratura autocratica e i Ministri che hanno tentato di farlo sono stati costretti a dimettersi. Allo stesso modo non va avanti la riforma proposta dall’attuale Ministro Cartabia, è snaturata quotidianamente ad ogni dibattito parlamentare e rischia di scontrarsi anche con l’Unione Europea che l’ha richiesta perentoriamente. Siamo l’unico paese al mondo in cui la Magistratura è un potere autocratico. Recentemente, l’illustre costituzionalista Sabino Cassese ha affermato che la doverosa indipendenza dei magistrati nel loro lavoro d’indagine e di giudizio non può significare in alcun modo autogoverno della stessa Magistratura, alterando così l’equilibrio dei poteri. L’autogoverno è chiaramente anticostituzionale e nocivo per i cittadini. Ma ancora oggi molti non lo vogliono capire. 

Mani Pulite: libro di Facci svela retroscena su avviso Berlusconi tra tradimenti e spie. Redazione l'8 aprile 2022 su lasicilia.it.

Tradimenti, intrighi e falsi miti. Nel libro 'La guerra dei trent'anni' (Marsilio editore) il giornalista Filippo Facci ricostruisce il periodo che dall'inizio di Mani Pulite arriva ai giorni nostri e lo fa intrecciando cronaca e ricordi personali, indagine giornalistica e psicologica, restituendo - pagina dopo pagina - una storia su cui si accende ancora oggi lo scontro politico e storiografico. Lo sguardo dell'allora giovane cronista restituisce un quadro dove protagonisti e comprimari si mescolano, insospettabili derive prendono forma rimuovendo ogni patina di ipocrisia e aneddoti segreti travalicano i corridoi della procura di Milano dove l'inchiesta Tangentopoli ha preso vita.

E tra gli episodi più curiosi c'è quello del 21 novembre 1992 che riguarda l'invito a comparire a carico di Silvio Berlusconi, una convocazione che finì sulle pagine del Corriere della Sera prima che nelle mani del diretto interessato. "A scriverlo materialmente (l'avviso, ndr) fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d'imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio è importante, perché la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima". Movimenti e presenze 'estranee' mettono in allarme i cronisti che seguono la cronaca giudiziaria e che del quarto piano conoscono ogni centimetro.

"In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l'invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di 'Avvenire'. Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. (...) Più tardi, alla macchinetta del caffè, Davigo incontrò ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell'Avanti! che era passata all'agenzia Adnkronos. (...) Con i soli sospetti, però, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d'appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo".

E così chi aveva lo scoop tra le mani tentò "un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su 'Avvenire'. Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo (Gianluca, giornalista del Corriere, ndr) e gli rivelò che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite". La storia andò diversamente e la notizia - verificata anche da Goffredo Buccini, altro cronista del Corriere della Sera - fu scritta solo dal quotidiano di via Solferino con un titolo a sei colonne 'Milano, indagato Berlusconi'. Nell'articolo si citavano solo due soli capi d'imputazione, quelli contenuti nella prima pagina del provvedimento.

Facci, nel suo libro edito da Marsilio, riparte dai fatti. "La notizia fu scoperta da Paolo Foschini, non dal 'Corriere', che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunché. Foschini fu sostanzialmente tradito dall'amico Di Feo e le 'conferme' alla fine furono un foglio passato da una femmina (che lavorava in procura, ndr) non estranea ai propri sentimenti che fornì una sola fotocopia su quattro; una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che 'mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente', (...) poi un'altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente, le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono 'smentite non convincenti' (...)". La prima pagina autentica del Corriere non fu mandata ai tg per le rassegne stampa e non ci fu la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma.

"Ci sarà chi sosterrà che Mieli (l'allora direttore, ndr) stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato - continua Facci - . Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d'appoggio così scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe". Diversi cronisti credono ancora oggi che Foschini venne poi assunto al 'Corriere della Sera' "in segno di risarcimento per l'ingiustizia patita. Niente porta a crederlo. Anzitutto, con l'amico Pezzini, passò più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza", si ricorda nel libro. Sarà assunto solo nel 1997, Foschini si ritrovò tutti i giorni al fianco Di Feo.

Messo alla gogna e perseguitato da De Pasquale. Addio all’assessore Colucci, inseguito con le manette in ospedale e fatto sfilare in barella davanti alle telecamere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Mentre ricordavamo, con l’articolo della sua compagna Francesca, “L’inutile martirio di Enzo”, diventato il simbolo della cattiva giustizia, ci lasciava a Milano Michele Colucci, grande socialista e pure lui diventato simbolo di quel che abbiamo scritto quel giorno: “L’Italia è ancora in mano ai signori della gogna”. Fu la gogna più violenta e disumana – mai si era visto e in seguito si vedrà qualcosa di simile – quella che colpì Michele Colucci quella notte del 1992. Mi piace ricordarlo però prima di tutto per come era, il brindisino Michele, il socialista generoso e per bene, appassionato di pesca come il fratello Ciccio (che fu anche presidente della Federazione Italiana pescatori), approdato a Milano negli anni sessanta, descritto oggi in un’immagine firmata “Gli amici e i parenti” della sua Puglia come il compagno che “Ti ascoltava con interesse sincero e partecipato e ti dimostrava, senza ombra di dubbio, che ti aveva compreso in ogni tua emozione, in ogni tuo bisogno”.

Pronto ad aiutare tutti, come lo ricorda anche Serafino Generoso, che condivise con lui le ingiustizie dei primi anni novanta (due volte arrestato, due volte assolto). Così erano i politici di un tempo. Immagino ne abbia un ricordo diverso il pubblico ministero Fabio De Pasquale, e anche gli uomini della Guardia di Finanza che lo inseguirono con le manette di ospedale in ospedale, mentre era stato appena operato e poi mentre era collassato, fino a farlo sfilare in barella davanti alle telecamere, mentre giornalisti assatanati cercavano gli infilargli il microfono tra le labbra e le cannucce dell’ossigeno. Fu la Grande Gogna della giustizia ma anche dell’informazione, quella notte. Non piacque neanche al procuratore Saverio Borrelli, che se ne lamentò. Dobbiamo aggiungere che, a trent’anni da quei fatti, non c’è traccia di condanne? Inutile.

Michele Colucci era stato assessore ai servizi sociali e in seguito capogruppo del Psi alla Regione Lombardia, che sarà l’ultima governata da un pentapartito. Il Presidente era un democristiano, come tutti i suoi predecessori, Giuseppe Giovenzana. Siamo nel maggio 1992, sono i primi mesi delle inchieste dopo l’arresto di Mario Chiesa, Tonino di Pietro già spopola sui giornali e tv, quando un altro pm milanese, Fabio De Pasquale, che non è interno al pool, ma come la gran parte dei colleghi è uomo di sinistra e altrettanto attivo, apre un’inchiesta su corsi di formazione professionale finanziati dalla Regione Lombardia con fondi della Comunità economica Europea. Nel mirino c’è l’assessore della partita, Michele Colucci, ma le indagini si sviluppano subito ad ampio spettro, fino a coinvolgere tutta la giunta e altri, 48 persone in tutto. Secondo l’accusa qualcuno aveva fatto un affare da 200 miliardi di lire, mentre Giovenzana e i suoi colleghi di giunta avevano addirittura cambiato le carte in tavola, modificando in corso d’opera il contenuto della delibera sull’uso dei finanziamenti, in seguito a un accordo politico con Colucci. Il quale era accusato di aver gestito i soldi senza mai fare i corsi.

Per la cronaca: tutti gli assessori assolti sette anni dopo. Naturalmente intanto la giunta era caduta. Seguirà il primo governo regionale rosso-verde. Il pm De Pasquale e il gip inizialmente mandano Colucci, convalescente da un’operazione, ai domiciliari in una sua casa della campagna pavese. Ma poi lo vogliono in carcere. Evidentemente non erano stati sufficienti gli striscioni e i volantini che lo bollavano come “ladro” con cui era stato accolto al paese, era ora di preparare la “Grande Gogna”. Davanti a una piccola folla urlante (allora erano i leghisti a svolgere il ruolo che sarà poi dei grillini), una notte quattordici agenti con mitragliette spianate avevano fatto irruzione nella villetta di Colucci e lo avevano prelevato per portarlo nella caserma milanese di via Fabio Filzi, dove lo aspettavano i magistrati per interrogarlo.

Ricordare le scene di quella sera fa male al cuore. L’esibizionismo degli agenti che arrivavano alla caserma a sirene spiegate portando con sé i candidati al carcere e, pur potendo entrare in auto dal passo carraio, preferivano fermarsi davanti all’ingresso principale per far sfilare a piedi ogni indagato davanti ai giornalisti. Michele Colucci non si regge, lo trascinano tenendolo sotto le ascelle due agenti. Entra e crolla a terra, collassato. Uscirà dalla caserma per salire in ambulanza, ma ancora sfilando in barella, mentre i giornalisti gli si accalcano intorno, cercano di farlo parlare, ignorando il suo pallore e la somministrazione dell’ossigeno. È stata, quella notte, forse la più brutta pagina di tutta Tangentopoli, dal punto di vista dell’informazione e della giustizia. “Chi vive per gli altri vive per sempre”, hanno scritto i familiari nel necrologio. Ricordiamolo così.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2022. 

Questa la non ricordavate: ma accadde lo stesso, e proprio il 28/29 maggio di trent' anni fa, collateralmente all'inchiesta Mani Pulite. Sì, perché il pm Fabio De Pasquale non faceva parte del Pool dei magistrati: non ce lo volevano. 

Lui e Antonio Di Pietro, poi, erano cane e gatto: nel tardo settembre 1993 un litigio furibondo tra i due risuonò per i corridoi dopo che un latitante, sbarcato a Linate, si era consegnato a Di Pietro nonostante fosse ricercato proprio da De Pasquale; volarono urla, al pm più famoso d'Italia furono ricordate certe sue ambigue frequentazioni e la sua futura moglie, Susanna Mazzoleni, denunciò che un capitano che collaborava con De Pasquale le aveva rivolto insinuanti domande sulle frequentazioni di Di Pietro.

De Pasquale non nascose mai la sua fede di sinistra («il capitalismo è una cosa sporca», disse al Giornale) e sicuramente non ricordate che per l'inchiesta sui fondi neri Assolombarda (1992-93) l'intero Parlamento, sinistre e forcaioli compresi, respinse le richieste di autorizzazione a procedere chieste da De Pasquale per Altissimo e Sterpa (liberali) e per Del Pennino e Pellicanò (repubblicani) perché il loro intento fu giudicato «persecutorio» da tutto l'arco costituzionale. 

Voi ricordate un'altra cosa: il caso di Gabriele Cagliari, quando lui promise la scarcerazione al detenuto e manager dell'Eni («Lei me l'ha messo in culo, io devo liberarla») ma poi cambiò idea senza neppure avvertire le difese e se ne andò in vacanza in Sicilia, e seguì suicidio. Ma questo deve ancora succedere. Dal raccapricciante episodio di quel fine maggio 1992, tuttavia, prese le distanze anche il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli.

I FALSI CORSI CEE

L'odissea del 60enne Michele Colucci era cominciata il 4 maggio: la notizia del suo arresto l'aveva colto alla clinica Città di Milano dove l'avevano appena operato alla prostata: accusato di presunti «falsi corsi Cee» organizzati dalla Regione Lombardia, la sua convalescenza avrebbe dovuto seguire un certo decorso ospedaliero, ma De Pasquale non fu dello stesso avviso: ordinò che la degenza fosse interrotta e che entro il 14 del mese il detenuto fosse trasferito «in confino» nella sua abitazione di Ruino (provincia di Pavia) agli arresti domiciliari con obbligo di firma.

Il confino (ex articolo 283) era una soluzione di norma adottata per i mafiosi. All'arrivo a Ruino trovò un nugolo di giornalisti e degli striscioni che lo bollavano come «ladro», mentre la strada era tappezzata da volantini della Lega stampati col refrain «Benvenuto Colucci, ladro». 

In questo scenario si giunse alla sera del 28 maggio, giorno in cui fu improvvisato un «manette show» che costringerà il procuratore Borrelli a prendere dei provvedimenti. 

IL MANETTE SHOW

Una telefonata agli avvocati di Colucci, Domenico Contestabile e Dino Bonzano, li avvertì che il loro cliente era stato prelevato da Ruino e lo stavano portando alla sede milanese della Guardia di Finanza di via Fabio Filzi, assieme a un gruppo di altri arrestati. A esser precisi, quattordici agenti avevano fatto irruzione nella casa di Colucci a mitragliette spianate.

Era sera, e fuori dalla caserma si era già formato una sorta di happening dove in trepidante attesa c'erano amici degli arrestati, parenti, ovviamente giornalisti e fotografi e cameramen, curiosi, un vecchio clochard che cantava, il tutto con la via transennata e illuminata a giorno e circolazione di panini e birra. 

Un cronista dell'Indipendente, Enrico Nascimbeni, si era portato la chitarra e intonava canzoni di Lucio Battisti. In mezzo alla folla spiccava un signore benvestito che pareva furibondo: era l'avvocato Bonzano, che l'invito allo show aveva ha ricevuto per ultimo: «Ancora una volta nel mirino degli inquirenti sono gli intrecci d'affari tra politici, amministratori e mondo imprenditoriale...», esordiva un comunicato diffuso dalla Guardia di Finanza. Sinché lo spettacolo ebbe a incominciare.

IL COLLASSO

Di lontano s'intravidero le auto delle Fiamme Gialle che fecero la loro parte: rallentarono a una cinquantina di metri dal bivacco di gente, per dar modo alla stampa di prepararsi, e poi ripartirono a sirene spiegate senza neppure passare - come sarebbe stato normale - dal passo carraio, ma bloccandosi davanti alle scalinate dell'ingresso pedonale così che gli arrestati fossero costretti a sfilare uno ad uno: per i giornalisti, una manna. 

E fu subito ressa: flash, spintoni, risse tra parenti e fotografi, le telecamere che scivolarono fin dentro la caserma, sin quando da un auto ecco scendere anche il Michele Colucci prelevato a Ruino, malfermo sulle gambe e trascinato a braccia nella calca. Dopo quel trambusto, una volta dentro, durante le operazioni di identificazione, Colucci crollò a terra secco.

Chiamarono un cardiologo, che diagnosticò un edema polmonare e dispose l'immediato ricovero. I finanzieri, imbarazzati, optarono per infermeria di San Vittore.

Pochi minuti dopo ancora sirene, ma era solo l'ambulanza che era venuta a prendere Colucci: ma neanche quella fu fatta passare dall'ingresso carraio, e Colucci a sua volta venne fatto ripassare in barella tra le forche caudine dei giornalisti. 

LA BARELLA E LE TV

La ressa si strinse attorno a un corpo che venne fatto sfilare in barella coperto da un sudario e privo di sensi, e un cronista della Fininvest alzò addirittura il lenzuolo che copriva il volto per facilitare le riprese e demenzialmente infilò il microfono davanti alla maschera dell'ossigeno. Le immagini sarebbero state trasmesse l'indomani.

«Tutto il regime in manette» titolerà L'Indipendente: su una macrofoto, raffigurante Colucci trascinato da due agenti, la scritta «Il vero volto dei partiti»; Avvenire - il giornale dei vescovi- pubblicherà direttamente le foto segnaletiche; il quotidiano pomeridiano La Notte proporrà un paginone di sole foto con didascalie ragionate. 

COME UN MAFIOSO

Fabio de Pasquale dispose che Colucci non dovesse incontrare nessuno per sette giorni. Neppure i suoi legali. La salute di Colucci, tra continui interrogatori e trasferimenti dal carcere al Tribunale sempre ammanettato- non farà che peggiorare sinché i medici saranno costretti a disporne il ricovero in una struttura più attrezzata dell'infermeria del carcere. 

Il 7 agosto i termini del trasferimento inclusero le seguenti raccomandazioni: manette dal carcere all'unità dell'ospedale Niguarda; piantonamento giorno e notte da parte di poliziotti in divisa, armati; vietato ricevere visite; il detenuto non può alzarsi dal letto; non può parlare con altri degenti e neanche con le guardie; non può andare in bagno senza l'autorizzazione di quest' ultime. 

MANETTE

Nei fatti fu una detenzione, o anche peggio. Una relazione dell'Università di Milano non fu presa in considerazione, anche se spiegava che nel cranio di Colucci c'erano due ematomi che rischiavano, muovendosi, di schiacciare un'altra parte del cervello. Il 20 settembre Daniela Colucci, giornalista Rai e figlia di Michele, lanciò un appello: «In tutta la mia vita non avevo mai visto piangere mio padre, mentre da quattro mesi non l'ho più visto sorridere. Mi chiedo a cosa possa servire l'eventuale risarcimento quando questa detenzione mette a rischio il bene insopprimibile della vita. I mali che stanno distruggendo mio padre sono veri e dimostrati... Non chiediamo nient' altro se non la possibilità di salvarlo». 

Sempre agli arresti, mesi dopo giunse finalmente la data di un cosiddetto incidente probatorio che in Tribunale doveva far luce sulle reali condizioni di Colucci. Durò sette ore. De Pasquale sostenne con durezza che l'anziano socialista doveva tornare a San Vittore a basta. Il gip Fabio Paparella invece ritenne che le perizie non fossero acqua fresca e autorizzò perlomeno gli arresti domiciliari col permesso d'incontrare i conviventi: moglie e fratello. 

La figlia, Daniela, ottenne il permesso di vederlo solo in dicembre. Alla madre residente in Puglia, ottantaseienne, venne concesso un permesso d'eccezione: telefonare.

Inquisito anche per violazione del finanziamento pubblico dei partiti, il 28 ottobre scaddero i sei mesi di carcerazione preventiva ma gliene rifilarono altri tre, in quanto- sostennero - poteva inquinare le prove. Non da solo, probabilmente: per alzarsi abbisognava di robusti infermieri.

BUCO NELL'ACQUA

L'inchiesta sui falsi corsi Cee coinvolse in tutto 48 persone, ma undici mesi di indagine porteranno a escludere la responsabilità di 20 degli indagati iniziali: archiviazione. Il 28 gennaio 1999 la settima sezione del Tribunale assolse trentatré posizioni, tra le quali quelle dell'ex presidente regionale Giuseppe Giovenzana e gli ex assessori Giuseppe Adamoli, Claudio Bonfanti, Francesco Rivolta, Ugo Finetti, Maurizio Ricotti e Pietro Sarolli. 

Assolto anche Serafino Generoso, ex assessore che, nel caso, raggiunse l'assoluzione numero quattro su quattro processi. Risulta che la posizione di Colucci per i reati di finanziamento illecito dei partiti sia stata stralciata per motivi di salute, e che sia finita in niente. Risulta che, per i corsi Cee, Michele Colucci sia stato assolto in Cassazione. E non abbiamo citato il caso del regista Giorgio Strehler, accusato di truffa e malversazione e assolto con formula piena l'anno prima di morire.

Quei "metodi" della magistratura milanese che in 30 anni sono entrati nel sistema giudiziario all’italiana. Huffpost Italia su huffingtonpost.it. l'08 Aprile 2022

Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci: La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria.

Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci (La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria) che si addentrano in certi «metodi» della magistratura milanese e che, dal 1992 in poi, sono in parte rimasti prassi del sistema giudiziario all’italiana. Una «rivoluzione» o una lotta tra poteri dello Stato – è una delle la tesi del volume di 750 pagine, ampiamente documentato – che non diede vita a una seconda Repubblica, ma fu un pezzo di prima Repubblica scappato di mano, qualcosa che gli italiani decisero di fermare quando fu chiaro che le inchieste avrebbero smascherato anche loro, o meglio, quando fu chiaro che non si poteva processare un sistema mentre era ancora vivo e che non si poteva fare un’autopsia su un corpo che ancora respirava.

Forse non esisteva – non esiste – un carcere a tutt’oggi piazzato ancora così vicino al centro di una città, anzi, nel centro di una città, una vetusta e a suo modo bella struttura all’americana con sei bracci a stella, i «raggi» sovraffollati da centocinquant’anni, in un’area dove tutti dicono che costruiranno qualsiasi cosa, ma poi non succede mai niente: San Vittore, sempre lì, imperiale, incurante delle velleitarie modernità di Opera e Bollate. Chiesa era al sesto raggio, dove spesso mettevano chi non era il caso di scaraventare subito nella mischia: qualche tossico, transessuale, parente di pentiti, gente accusata di aver violentato donne e bambini, e che la comunità galeotta non accettava. C’erano loro, e c’era Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio 1992: un politico, che cosa strana. Neanche un anno dopo la composizione del sesto raggio però sarà la seguente: cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa; cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore; cella numero 3:  Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat; cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli; cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese; cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell’Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia; cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore; cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia16. A occhio e croce, almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. A occhio e croce, oggi, nessuno finirebbe in carcere preventivo per il tipo di accuse che si portavano appresso. A occhio e croce, Mario Chiesa sarebbe stato l’unico politico in galera.

Gli imprenditori, invece, confessavano qualcosa e niente galera, anzi, immediato sblocco dei conti bancari. Coadiuvato dai suoi legali Stella e Dinoia, l’imprenditore Fabrizio Garampelli proseguì la sua attività di infiltrato e convocò una riunione ri- servata con i suoi colleghi costruttori per delle tangenti sugli appalti ospedalieri. Segnarono tutto su un foglietto. Il giorno dopo, Garampelli lo portò a Di Pietro.

Mario Chiesa decise di parlare alle ore 10 di lunedì 23 marzo 1992 e chiuderà il suo verbale il 27, dopo aver tirato in ballo socialisti e democristiani di rango elevato ma non elevatissimo. Era politicamente finito, non aveva più un lavoro né una moglie; suo figlio non gli scriveva da un mese e la sua nuova compagna era incinta da sette: parlò essenzialmente per questo. Ammise versamenti a vari big politici, e sin dal primo interrogatorio fece la sua comparsa un tizio basso con la barbetta mai notato prima: il gip (giudice delle indagini preliminari) Italo Ghitti, il malriuscito «giudice terzo» che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà «Nano ghiacciato», benché bramoso di una porzioncina di celebrità tra i più sanguigni colleghi del pool. Tenterà di ritagliarsi l’autonomia che le procedure gli assegnavano (è il gip ad autorizzare gli arresti chiesti dall’accu- sa), ma ogni volta saranno rondini che non faranno primavera: si opporrà, per dire, agli arresti di quattro consiglieri dell’Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della Torno Costruzioni Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jürgen Ferling, del socialista Loris Zaffra: ma la mancanza di terzietà di un intero paese, oltre ai ricorsi dei pm e alla duttilità della giurisprudenza, lo ricaccerà in un ruolo da comprimario. Con un Codice stravolto dalla prassi, mai completato con una necessaria separazione delle carriere (giudici e pm) e con la fine di quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale», la figura del gip diverrà e resterà quella di un vidimatore delle carte dell’accusa.

Sulla funzione pressoché unica del gip Italo Ghitti, giusto trent’anni dopo, si è espresso in maniera eloquente Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su piazza Fontana, caso Parmalat e Abu Omar, tra varie altre. Salvini fu uno dei pochissimi a non aver mai aderito ad alcuna corrente organizzata della magistratura e passò quegli anni proprio all’ufficio gip:

«Posso narrarlo in prima persona... Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni di quell’indagine rivolta pressoché all’intero mondo politico e imprenditoriale... L’ufficio gip in quel momento era un passaggio decisivo perché era chiamato ad accogliere o respingere la richiesta di cattura presentate dal Pool e poi le istanze di scarcerazione o di arresti domiciliari, un meccanismo da cui in pratica dipendeva il funzionamento e lo sviluppo di quell’inchiesta «sistemica». Era co- modo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo crea- re difficoltà alle indagini o comunque costringere chi le conduceva a confrontarsi con punti di vista diversi. Così il Pool escogitò un semplice ma efficace trucco, costituendo, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un «registro» che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conosce- vano tra loro e vicende tra loro completamente diverse, unificate solo dall’essere gestite dal Pool. Il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Invece le regole, nella sostanza, volevano che a ogni notizia di reato fosse attribuito un numero e a ogni numero seguisse la competenza di un gip non individuabile priori. Ma questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell’unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool... I principi dell’Ufficio furono quindi sovvertiti radicalmente e non si trattava di regole puramente organizzative, ma dovevano presiedere al principio del giudice naturale e cioè che il giudice fosse del tutto indipendente e non fosse scelto da altri, soprattutto non dalla Procura. Ci fu anche un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per «sbaglio»... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92. Nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere su al- cune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti, evitando così che non solo io, ma che qualsiasi altro gip dell’ufficio interferisse nella macchina di Mani puli- te. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell’ufficio gip. Feci loro notare con una nota documentata la situazione del tutto illegittima che si era creata. Le mie osservazioni furono semplicemente cestinate. Non era il tempo di seguire le strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream».

La testimonianza dell’ex gip Guido Salvini non attesta solo che l’inchiesta Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, fondamento della civiltà giuridica e pilastro della parità tra accusa e difesa. È interessante anche perché permette di retrodatare la decisione della procura di direzionarsi preliminarmente verso una «rivoluzione» che i magistrati di Mani pulite, in interviste e testimonianze, hanno invece sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava. Nel febbraio-marzo 1992, quando Ghitti diviene l’anomalo gip unico e il riferimento di ogni indagine sulle tangenti, si era ancora lontani dalle successive elezioni «terremoto» del 5 aprile 1992, che pure registreranno una sostanziale tenuta dei partiti; mentre è prossimo, invece, l’affiancamento all’inaf- fidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. In altre parole, l’inchiesta Mani pulite co- minciò a correre da sola con le sue anomalie e progressive forza- ture delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare che le permetterà addirittura di volare.

Detto questo, nel tentativo di trarre un bilancio da Mani pulite, neppure i numeri possono dirci molto. Le statistiche nascondono colpevoli che erano innocenti, innocenti che erano colpevoli e gente di passaggio che non era niente; diversamente da chi, invece, era tutto, ma in quegli anni scelse di rimanere in tribuna a scommettere su chi avrebbe vinto, senza capire chi avrebbe perduto in ogni caso: lui, anche lui. Ora però interessano le condizioni del campo a fine stagione, interessa chiederci se la stagione sia mai finita e quale ne sia seguita: più del bilancio numerico, importa capire come sia stato ottenuto, che prezzo abbia comportato, che cosa abbia lasciato dietro di sé. Importa meno, pur lasciando sgomenti, che degli 88 parlamentari eletti nel 1992 – destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure –, i prosciolti o gli assolti furono 61. Importa pure meno, anche se lascia atterriti, l’alto numero di suicidi che si concentrò proprio in quei tre anni. È più interessante notare, fermandoci all’inchiesta milanese, l’alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero, come spiegato, colpevoli che la sfangarono con poco, ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera; su 3.200 persone di cui la Procura di Milano chiese il giudizio, 1.300 sono risultate colpevoli, anche se il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento – molti non l’hanno ancora capito – è un accordo tra accusa e difesa che implica un’ammissione di colpevolezza da parte dell’indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia.

La cancellazione dell’articolo 513 tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini) nel periodo di Mani pulite portò a molte sentenze basate sulla resistenza in carcere o su un malinteso diritto al silenzio, recepito come negazione di una sorta di «pentitismo coatto». Anche qui: molti incolpevoli ne fecero le spese, molti colpevoli la fecero franca, e molti processi sbagliati furono dirottati altrove per non rovinare le statistiche dell’inchiesta. Il pool, pur abituato a dettar legge in fatto di competenza territoriale, trasmise ad altre procure ben 1.320 posizioni: sarebbe interessante conoscerne i destini processuali, visto che molti casi, anche celebri, hanno registrato assoluzioni o prosciogli- menti che sfuggono alle statistiche meneghine. Tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, a Milano, comunque, si arriva a circa il 46 per cento delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che al Palazzo di giustizia non avrebbero neppure dovuto entrare, e sono quasi la metà.

Moltissime però ci entrarono, e da lì traslocarono direttamente al gabbio (a San Vittore chi non «parlava», a Opera i più collaborativi), anche a seconda del reato contestato. La prassi di Mani pulite tendeva a ipotizzare reati sempre i più gravi possibile, così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva, anche se, in certe fasi calde, per far scattare le manette bastava- no ipotesi di violazioni amministrative come il finanziamento il- lecito dei partiti o talvolta l’abuso d’ufficio. Moltissimi dei 1.230 condannati di Mani pulite hanno subito carcerazioni preventive a dispetto di condanne poi risultate inferiori ai due o tre anni; tutte persone che non sono mai andate in carcere, anche se gli arresti complessivi, durante le indagini preliminari, hanno superato quota 900. Da qui l’abitudine di sostenere che per Mani pulite di vere condanne al carcere non ce ne sono quasi state (si menzionano sempre le eccezioni di Sergio Cusani e Walter Armanini), anche se la regola procedurale, in teoria, sarebbe chiara: se è presumibile che tizio sarà condannato a meno di due anni, non lo si dovrebbe mandare in carcere preventivo; la regola implica, ovviamente, la capacità «prognostica» di saper prevedere a quanti anni tizio sarà probabilmente condannato, e tra i compiti del magistrato vi è appunto cercare di presumerlo. Diciamo, allora, che a Milano hanno sempre presunto molto male. Antonio Di Pietro in questo si era dimostrato maestro sin dai tempi del suo esordio da magistrato, a Bergamo: ipotizzare reati gravissimi e sbattere tizio immediatamente in galera, per- ché tanto, per derubricare un reato, ossia per cambiare imputa- zione al ribasso, c’era sempre tempo.

Se dei numeri importa poco, neppure per un istante si vuole però occhieggiare al «tutti colpevoli, nessun colpevole», e nep- pure al «tutti colpevoli» e basta: nella pratica, c’era un intero paese di colpevoli in un sistema disinvoltamente colpevole che fu corrivamente rastrellato con metodi colpevoli, metodi che la giustizia di uno Stato di diritto non dovrebbe permettersi mai, non in tempi normali e neppure in tempi rivoluzionari. Qualcuno, ancora oggi, sostiene che certi mezzi fossero gli unici possibili, e si sofferma sui fini, ma furono mezzi imperdonabili, e i fini raggiunti furono desolanti.

Giuliano Spazzali, avvocato di formazione comunista e difensore di Sergio Cusani, ha riassunto a modo suo:

«In quegli anni era in corso una grande trasformazione sociale e politica. Declinavano la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi, il Pli. Il Pci stava cambiando nome e natura. Era nata la Lega, poi arrivò con il suo partito Silvio Berlusconi. Non fu Mani pulite a provocare tutto ciò; Mani pulite fu al massimo l’ostetrica, l’assistente al parto. Mani pulite è cresciuta enormemente tutta sulle confessioni degli indagati: e non è una buona inchiesta, quella che si fonda non sulle indagini, ma sulle confessioni. Era un’inchiesta contenitore da cui erano via via aperti, a piacimento del Trio Lescano [Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, N.d.A.] i vari processi. Si è in gran parte giocata con le confessioni e i patteggiamenti, l’unico vero processo è stato il processo Cusani, con Di Pietro che esibiva mezzi ultramoderni, mai visti prima d’allora in un’aula giudiziaria, come le proiezioni di schemi dal computer. Ma poi concludeva con frasi come «ma che c’azzecca» e conquistava il pubblico tv».

Neanche lo stravolgimento dello Stato di diritto e le procedure inquisitorie decollarono con il voto del 5 aprile 1992, bensì qualche mese dopo: corrisposero a una scommessa che la corporazione togata aveva fatto autonomamente e che solo in seguito fece da abbrivio all’implosione più drammatica della ribellione. Dall’autunno 1992, lo spettatore plaudente di Mani pulite si rese conto che il tenore di vita stava calando per davvero e che la pretesa di abbassare la spesa pubblica era fondata: si fece rivoluzionario quando capì che i sacrifici non avrebbero risparmiato nessuno e che il futuro si preannunciava fosco. A insorgere fu soprattutto la gran parte di popolo evasore e assistito che non aveva mai cementato il proprio consenso attorno a valori civici, e non sappiamo, ora, se dare la colpa alle vicissitudini storiche degli italiani o alle classi dirigenti del dopoguerra. Sappiamo che quelle classi dirigenti, il consenso di quegli italiani, non furono più in grado di comprarlo.

Ne andrebbe dedotto che nel giro di pochi mesi, dai primi mesi del 1992, fosse cambiato qualcosa nella procedura penale o nella giurisprudenza. In genere è con questo argomento che il peggior manipulitista gioca la sua carta più falsa, e lo fa, di passaggio, anche per liquidare la classica e imbarazzante domanda che ai tempi sorse spontanea quando le inchieste si fecero devastanti e gli arresti presero a viaggiare con il pilota automatico. Il quesito è noto: perché la magistratura si era mossa tutta d’un tratto, dopo aver dormito per quasi mezzo secolo? Non è che la precedente inerzia del corpo giudiziario – domanda conseguente – fosse funzionale allo stesso campo di gioco che la magistratura, da giocatrice titolare, era andata improvvisamente a diserbare?

La spiegazione più fallace, ai tempi e in parte a tutt’oggi, fa coincidere la neo intraprendenza della magistratura con l’entrata in vigore del Nuovo Codice di procedura penale, varato il 24 ottobre 1989: è il cosiddetto «Codice Vassalli» (da Giuliano Vassalli, ex ministro della Giustizia, socialista peraltro legato a Bettino Craxi) e cioè un ordinamento che era stato elaborato dallo stesso guardasigilli insieme a una commissione presieduta dal già citato giurista Giandomenico Pisapia, padre dell’avvocato Giuliano, futuro sindaco di Milano. E questa, forse, resta la spiegazione storicamente più falsa tra quelle che hanno attribuito la nascita di Mani pulite a cause meramente tecniche. Anche perché quel Codice, senza timor di smentita, auspicava procedure diametralmente opposte a quelle che le procure imposero con il benestare dei più alti livelli della magistratura: lo stesso Codice, non a caso, fu dapprima osteggiato e contestato dai medesimi magistrati che poi si fecero «rivoluzionari», appunto stravolgendolo e tessendone le lodi. Sin dai primi anni novanta, e basterebbe questo, non si contavano i togati che avevano lanciato grida d’allarme contro una codificazione che ritenevano troppo garantista: lo stesso procuratore generale della Cassazione, Vittorio Sgroi, ossia il primo magistrato italiano, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, due mesi prima dall’inizio di Mani pulite, definirà le nuove norme addirittura come «ipergarantiste». Dello stesso tenore le relazioni dei procuratori generali delle Corti d’appello. E allora che cos’era successo?

Non serve essere giuristi per capirlo: i principi del Nuovo Codice furono letteralmente rovesciati. Partorito faticosamente come ibridazione tra il sistema inquisitorio e accusatorio, ossia tra la vecchia normativa fascista del 1930 e il diritto di matrice anglosassone, questo rinnovato ordinamento, nelle intenzioni, si proponeva di raggiungere una pari dignità giuridica tra accusa e difesa, una totale segretezza delle indagini e, viceversa, una totale pubblicità del successivo processo, ma soprattutto auspicava che la riproposizione e la formazione delle prove (comprese le confessioni e le testimonianze) avessero luogo rigorosamente nell’aula dello stesso processo, altrimenti non avrebbero avuto valore. Non ultima, e peraltro notissima, infine, fu la sostituzione del carcere preventivo con una «custodia cautelare» da adottarsi come «extrema ratio», intesa come rimedio eccezionale, ultima possibile soluzione dopo aver tentato invano ogni altra via.

Quello che varò un Codice tanto ambizioso, o forse pretenzioso, era un paese ancora scottato dal caso di Enzo Tortora e in sostanza cercò d’inventarsi ciò che non esiste, e forse non può esistere: un sistema misto tra il sistema all’italiana e quello anglosassone; perciò non introdusse la separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici (le due figure fanno lo stesso concorso, seguono lo stesso percorso formativo, passano da un ruolo all’altro e spesso sono vicini di pianerottolo) e neppure abolì quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale» (che non esiste, perché i pm mandano avanti solo i procedimenti che a loro interessano), anche perché l’introduzione di questi due pilastri del processo accusatorio avrebbe reso necessario un cambiamento delle norme costituzionali. Morale: sappiamo com’è andata, e sappiamo, in buona parte, come va ancora oggi.

Ha scritto la fondatrice del «manifesto» Rossana Rossanda:

«Certi pm vogliono abbattere quel tanto di democratizzazione che nel dopoguerra si era raggiunto con il nuovo Codice e consisteva nell’imporre un tempo ragionevole fra rinvio a giudizio e processo per non fare già del processo la pena, nello spostare l’accento sul di- battimento orale, cioè pubblico, anziché sull’inchiesta delle procure».

Ha chiosato l’ex magistrato Carlo Nordio:

«L’Italia si è data un Codice alla Perry Mason, cioè accusatorio di tipo anglosassone, ma non può goderne gli effetti a causa di una Costituzione di tipo fascista... la nostra Costituzione, nata dalla lotta contro il fascismo, ha inghiottito sano sano il basamento stesso del Codice Penale fascista».

Ha detto l’ex pm Piercamillo Davigo: «Aspettavano Perry Mason. Invece è arrivato Di Pietro».

La pari dignità giuridica tra accusa e difesa è rimasta un sogno, ma, soprattutto, la custodia cautelare è stata dispensata come regola anche a fronte di reati (presunti) che non prevede- vano il carcere neppure in caso di condanna. I magistrati milanesi, con una giurisprudenza tutta loro, inquadrarono ogni reato (presunto) come affiliazione a un sistema, e, per prolungare a piacimento le carcerazioni preventive di chi non confessava (o meglio non confessava ciò che volevano loro) era sufficiente che dimostrassero come l’indagato avesse fatto parte di questo sistema. Chi denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema. Il segreto istruttorio, poi, sempre per interpretazione della magistratura, divenne una barzelletta buona per sputtanare determinati soggetti (e non altri) i quali, per evitare l’arresto, pellegrinavano in procura dopo aver letto il proprio nome sui giornali.

L’apparente battuta «non incarceriamo la gente per farla parlare, ma la scarceriamo quando parla» divenne la regola dei magistrati milanesi e poi di tutte le procure d’Italia, spiegata in questo modo: solo parlando l’inquisito si rende inaffidabile agli occhi del mondo criminoso cui appartiene, dunque parlan- do svaniscono il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove – ossia i requisiti per cui dovrebbe scattare l’arresto.

Disse il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli: «Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».

Disse il procuratore generale di Milano Adolfo Beria di Argentine: «Con il clamore e la tensione collettiva che si sono cre- ati attorno a Mani pulite, oggi l’opinione pubblica accetterebbe anche la tortura per estorcere le confessioni».

L’insistenza sul punto è motivata dal fatto che, a distanza di trent’anni, c’è ancora chi ha il fegato di sostenere che Mani pulite non abusò del carcere preventivo, o non ne fece lo strumento fondamentale delle sue inchieste. Ormai lo ammette anche Piercamillo Davigo:

«Potrei cavarmela dicendo che abbiamo arrestato le persone sem- pre rispettando la legge. Però devo aggiungere che uno strumento essenziale per accertare la corruzione è l’isolamento dei complici. Bisogna allontanare uno dall’altro, impedire la comunicazione. E come si fa? Con la custodia cautelare».

In questo modo, però, l’eventualità che un soggetto non avesse nessun complice da cui isolarsi, e soprattutto alcunché da confessare – dunque non appartenesse ad alcun mondo criminoso – non veniva considerata.

Pochi esempi tra mille. Il brigadiere G.F., per esempio, fu convocato da Antonio Di Pietro il 21 luglio 1994 per l’inchiesta sulla corruzione nella guardia di finanza. Il pm gli contestò delle tangenti pagate da alcune aziende, ma lui negò l’addebito. Il brigadiere allora venne arrestato il giorno dopo, nel perio- do, purtroppo, in cui sua moglie stava rischiando di perdere il figlio in gestazione dopo averne già perso uno l’anno prima. Allora, per dirla con il pool, parlò e venne scarcerato, ma poi, il 6 marzo 1995, in aula, mise a verbale: «Signor Presidente, ho confessato di aver preso soldi durante le verifiche fiscali per uscire dal carcere, ma non è vero niente. Non ho negato quanto mi veniva contestato da Antonio Di Pietro perché dopo cinque giorni di assoluto isolamento nel carcere di Peschiera pensavo che, solo ammettendo, potessi riacquistare la libertà». Risultato: fu inquisito per calunnia. Domanda lecita: e se il brigadiere non avesse parlato, se non avesse – dal suo punto di vista – mentito? Possibile risposta: l’ex colonnello C.C., indagato nella stessa in- chiesta, colpevole o meno che fosse, fu arrestato il 5 luglio 1994 e, senza aver parlato, fu scarcerato il 17 luglio... ma dell’anno successivo, il 1995.

La confessione come unica possibilità per essere scarcerati non fu solo l’indegna sintesi di una più complessa interpreta- zione giurisprudenziale: fu proprio messa nero su bianco. Un altro piccolo esempio. R.T., normalissimo geometra dell’Anas di Milano, venne incarcerato il 1° marzo 1993 con l’accusa di aver favorito un appalto in cambio di una decina di milioni. La richiesta d’arresto era firmata dai pm Antonio Di Pietro, Ghe- rardo Colombo e Piercamillo Davigo, convalidata dal gip Italo Ghitti. Un classico. A leggere le motivazioni veniva da pensare, come si dice, che buttassero via la chiave: «Sussistono gravi in- dizi di colpevolezza...», «per i reati la legge prevede una pena superiore a tre anni», «la legge prevede pene edittali elevate» senza «beneficio della sospensione condizionale». La custodia cautelare era necessaria perché esisteva un concreto pericolo «di inquinamento probatorio», in quanto «l’indagato ha co- stanti legami con pubblici amministratori che possono proce- dere a un’alterazione documentale»; esisteva poi un concreto pericolo «di reiterazione di comportamenti criminosi gravissimi ed analoghi», e i fatti «denotano in modo più che evidente l’inserimento dell’indagato... all’interno di un sistema», sicché «la misura richiesta appare sicuramente idonea ed adeguata... la custodia cautelare è l’unica proporzionata».

Una settimana dopo il gip respinse una richiesta di scarcerazione o concessione degli arresti domiciliari, perché non era an- cora chiaro «il quadro complessivo» ossia «un più vasto ambito che deve essere dettagliatamente delineato». Doveva delinearlo l’incarcerato, forse: e infatti. Cinque giorni dopo, il 12 marzo 1993, cambiò tutto. Le motivazioni addotte dal gip non valevano più, perché R.T. aveva «parlato», assecondando la linea dell’accusa. Il gip Ghitti concesse gli arresti domiciliari, e val la pena di riportare un passo dell’ordinanza:

«Il Giudice per le Indagini preliminari... Rilevato che il pm ha espres- so il proprio parere... Rilevato che all’esito degli ulteriori atti istruttori le esigenze cautelari poste a base del provvedimento restrittivo si sono quanto meno attenuate, sia per quanto concerne il pericolo di inquina- mento probatorio sia per quanto concerne il pericolo di reiterazione di fatti analoghi a quelli per i quali si procede, in quanto l’indagato ha reso dichiarazioni confessorie in ordine ai fatti contestati... »

Il gip lo scrisse testualmente: l’indagato poteva uscire perché «ha reso dichiarazioni confessorie», cioè aveva parlato.

Lo stesso accadde per molti altri, tra cui una segretaria dell’ex ministro Gianni De Michelis, M.C. che venne arrestata il 3 luglio 1993. I magistrati volevano sapere chi, come e per- ché pagava i conti dell’ex ministro. Lei rispose che per l’attività pubblica e istituzionale faceva riferimento all’apposito fondo ministeriale, mentre per le spese personali utilizzava contanti o assegni che le passava direttamente De Michelis. L’indagata però negò l’accusa principale: disse che non aveva mai ricevuto denaro da Giorgio Casadei, segretario particolare del ministro. I magistrati non le credettero. Tra le motivazioni con cui il gip Gioacchino Termini e il pm Rita Ugolini negarono la scarcera-zione, si legge:

«Considerato che il comportamento dell’indagata non è sostanzialmente mutato, giacché le sue ammissioni e i chiarimenti forniti se- guono sempre a specifiche contestazioni... considerato che manca un chiaro segno di resipiscenza e ripensamento sul comportamento reti- cente, contraddittorio e riduttivo, questo giudice, su parere conforme del pm, rigetta l’istanza di scarcerazione».

L’indagata, in altre parole, si era limitata a rispondere alle domande dei magistrati senza raccontare episodi a loro scono- sciuti, ma che ritenevano dovessero probabilmente esistere. È un altro classico di Mani pulite, anche se quest’ultimo episodio capitò a Venezia.

Molteplici sono gli esempi dell’uso della custodia cautelare secondo la prassi di quel periodo, comprendente anche la temuta tecnica dei cosiddetti «arresti a grappolo»: in pratica il malcapitato rimaneva in carcere sin quando, poco prima che scadessero i tre mesi di custodia cautelare (termine massimo), si spiccava un nuovo ordine d’arresto legato a un episodio delittuoso che l’accusa serbava in un cassetto, o che, peggio, era stato lo stesso detenuto a confessare tempo prima: sicché restava dentro altri tre mesi, alla fine dei quali non poteva escludere che gli riservassero lo stesso trattamento.

Per comprendere la più feroce coltellata inflitta al Nuovo Codice è però richiesto un ultimo sforzo. Come detto, la magistratura aveva stravolto e sovrainterpretato il Nuovo Codice di procedura penale varato nel 1989 non avendolo mai gradito: era stato neutralizzato e poi ridestato come un Frankenstein inquisitorio/accusatorio gradito alle toghe ma non alle intenzioni originarie del legislatore. A un Di Pietro usato come ariete, in- fatti, si era affiancata una controlegislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 255 del 3 giugno 1992) e una legge suicida (la 371, che consentiva l’arresto del testimone colto in flagranza a mentire o reticente di fronte al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria) avevano di fatto ristabilito e rafforzato lo strapotere delle indagini preliminari. Da un paio di lustri, ormai, ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli meramente in pro- cessi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dal- le trattative ossia da quanto l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse.

In teoria le prove e le confessioni, per essere avvalorate, dovevano essere riproposte nell’aula del processo: era nel corso del dibattimento, cioè, e non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia, che una testimonianza doveva diventare una prova. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene durante il processo semplicemente non esiste. In pratica nel corso di Mani pulite la procedura fu rovesciata. Ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre dal faldone alcuni verbali d’interrogatorio ottenuti in carcere e riversarli nel processo, che a quel punto non contava più nulla, ridotto a vidimazione notarile delle carte in mano all’accusa; se l’imputato o il testimone non ne dava conferma, ossia non ripeteva in aula quanto dichiarato durante le indagini, magari dopo mesi di galera, veniva immediatamente incriminato per calunnia. Un imputato, per capirci, poteva denunciare un altro cittadino, patteggiare una pena simbolica e quindi «uscire» dal processo senza neanche presentarsi in aula, cioè senza mai confrontarsi con la persona che aveva accusato: c’è gente, in Mani pulite, che ha subito condanne senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore. Era sufficiente che l’accusa rileggesse in aula i verbali delle indagini preliminari perché diventassero prove. Tutto questo, ovviamente, non sarebbe potuto accadere senza una controlegislazione operata dall’alto.

Va da sé che a quasi nessun indagato interessava aspettare un processo da celebrarsi chissà quando: gli interessava uscire il prima possibile dalla galera preventiva e veder dissequestrati i conti bancari inaccessibili da mesi alla sua famiglia o alla sua azienda, ergo poter uscire dal procedimento (uscire di scena), colpevole o innocente che si ritenesse. Da qui, a primeggiare nelle statistiche dell’inchiesta, l’altissimo numero di patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati e alle concessioni che l’indagato fosse disposto ad accettare: e le condanne con patteggiamento, in Mani pulite, sono state 847 su 1.254, ottenute, ripetiamo, quando il carcere preventivo era la regola e tutto si esauriva nelle indagini, complice la stampa e le sue storture. Il ricorso al patteggiamento, in altri termini, divenne una scorciatoia pagata a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne del rito ambrosiano; chi non accettava restava ostaggio della macchina giudiziaria, o in molti (moltissimi) casi – se non parlava, e resisteva perché magari non aveva niente da dire – la sua posizione veniva spedita per competenza ad altre procure: è successo in ben 1.320 casi, con percentuali di proscioglimento altissime. Tutta gente non colpevole che però non figura nella casistica ufficiale di Mani pulite, come se a Milano avessero teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria.

Detto questo, esistono espressioni giuridiche complesse che il cittadino pur informato avrà udito più volte pur affrontandole con reverenza: terzietà del giudice, obbligatorietà dell’azione penale, competenza territoriale, responsabilità oggettiva («non poteva non sapere») più molte altre che hanno spesso fatto parte di ordinari dibattiti giurisprudenziali anche interni alla corporazione togata. Si potrebbe dire anche, attorno a questi snodi, che per una breve ma decisiva stagione, vecchi e giovani magistrati, politicizzati o no, arrembanti o defilati, galantuomini o soggetti da sanatorio, tutti insieme superarono ogni contrasto, e l’ultimo scalcinato pretore e il più prestigioso degli ermellini si ritrovarono a remare all’unisono nella stessa dire- zione. A nessun magistrato spiacque veder accrescere il proprio potere corporativo.

Ma non c’è soltanto la maledetta questione del carcere. C’è – e forse gli italiani discussero più che altro di questo – la percezione e la possibilità che un’inchiesta sia condotta bene o male, in tutte le direzioni o solo in alcune, con il necessario approfondimento oppure con imperdonabile sciatteria; insomma: c’è il modus, la discrezionalità esercitata nell’azione giudiziaria; se un’inchiesta fosse una storia, corrisponderebbe alla differenza tra raccontarne una o un’altra, raccontarla tutta o una parte, raccontarla veritiera o inventata: senza che i narratori – i magistrati – siano per forza dolosamente responsabili dei risultati raggiunti o non raggiunti, ma corrispondano talvolta solo ai li- miti buoni o cattivi che le loro scelte hanno comportato.

Può non sembrare chiarissima, messa così. Forse fu più esaustivo il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, intervistato nel 2002:

C’è stata una gestione «politica» dell’inchiesta, nel senso di procedere per gradi, scegliendo gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento?

«Dipende dal significato del termine «politico». Io la paragonerei a certe forme di Blitzkrieg, di «guerra lampo», la tattica tipica degli eserciti germanici... penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali, le piú difficili da sfondare. Di Pietro agiva allo stesso modo: tendeva ad arrivare rapidamente a risultati certi, lasciando ai margini una quantità di altre vicende da esplorare in un secondo momento. Da questo punto di vista possiamo parlare di «gestione politica»: nel senso di una strategia processuale che, a essere rigorosi, costituisce un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine».

Un primo dubbio sorge spontaneo: le vicende da esplorare «in un secondo momento» furono poi esplorate? Se no, perché? Se sì, quando? Soprattutto, furono esplorate in coincidenza con il celebre sostegno e attenzione dell’opinione pubblica?

Sono domande inutili e che, soprattutto, non vanno certo nella direzione – non sia mai – di rimpolpare le solite accuse di parzialità dei magistrati verso la sinistra, tema che si affronterà più avanti. Sono domande inutili perché, a difesa dei magistrati, va ricordato che trattasi comunque di uomini, e che nessuno, pregiudizi a parte, condurrebbe un’inchiesta nello stesso identico modo di un altro. Anche le prove di eventuali deviazioni, lassismi, approssimazioni e scarsa diligenza – in seno a una magistratura che tende peraltro ad autoproteggersi – comportano, quando va male, violazioni deontologiche da valutare in sede disciplinare.

Il punto, infatti, è molto più grave. Il punto è che il metodo di un’inchiesta rivoluzionaria e già definita «un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine» ha per esempio portato a tralasciare – travisare, non vedere, insomma non «esplorare» – ciò che altre procure scopriranno essere stato il vero epicentro della Tangentopoli nazionale: Pierfrancesco Pacini Battaglia, puerilmente definito dal gip Italo Ghitti «un gradino sotto Dio», un banchiere che per anni, a mezzo di conti esteri e offshore, aveva riempito le casse delle principali forze di governo e funto da collaudato intermediatore per segretari di partito, grandi imprenditori, alti ufficiali dello Stato, magistrati, militari, faccendieri internazionali, lobbisti d’alto bordo, grand commis di aziende multinazionali: e che, non bastasse, dall’alto delle sue relazioni o dal basso della sua villa in Toscana, posta accanto a quella di Susanna Agnelli, era in grado di condizionare o ricattare mezzo paese e nondimeno fu in grado di orientare la stessa inchiesta Mani pulite. È questo che interessa, ora: non anticipare il ruolo di Pacini Battaglia nel procedere dell’inchiesta, e tantomeno prenderlo a pretesto per riparlare del suo particolare rapporto con Antonio Di Pietro. Interessa come funzionava l’inchiesta Mani pulite.

Molti esempi illustrano come funzionò per casi noti o meno noti. Per il caso di Pierfrancesco Pacini Battaglia, chiamato in causa da un dirigente della Saipem (gruppo Eni), andò nel modo seguente: il banchiere anzitutto riuscì a evitare l’arresto e, dalla Svizzera, decise di avvalersi come difensore dell’avvocato Giuseppe Lucibello, non altri. In quei corridoi milanesi dove miriadi di arresti non verranno risparmiati, il banchiere ottenne la fissazione di una cosiddetta «presentazione spontanea» durante la quale anticipò (in un memoriale) parte delle contestazioni che gli aveva mosso il dirigente della Saipem. Parte, appunto: delle contestazioni mancanti non gli chiesero nulla, anche se riguardavano filoni e provviste che si sarebbero rivelate milionarie. Durante l’interrogatorio, le informazioni fornite da Pacini Battaglia venivano messe a verbale quasi acriticamente: spesso presentò documentazioni incomplete o alterate (ciò risulterà) e rilasciò dichiarazioni su fatti che i magistrati già sapevano. Non faceva mai nomi nuovi, non introduceva altre responsabilità se non di qualche nemico dichiarato (lo riveleranno anni dopo alcune intercettazioni telefoniche) e in definitiva i pm del pool non fecero mai una sola indagine sui conti bancari della banca di Pacini Battaglia, la Karfinco, riferibili personalmente a lui. Ci furono poi altri interrogatori che si tradussero in una memoria in cui il banchiere spiegava di aver trasferito in Italia quaranta miliardi di lire illegali con discriminazioni tra la veridicità dei versamenti basati sulla mera parola del banchiere: con questo criterio, per esempio, l’amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci – amico personale di Pacini Battaglia – rimase fuori da Mani pulite ma non dall’inchiesta sull’Alta velocità ferroviaria, scoperta successivamente – però non dal pool di Milano, bensì dalla Procura di La Spezia, la stessa che smascherò il vero ruolo di Pacini Battaglia nella Tangentopoli nazionale. L’inchiesta di La Spezia, anni dopo, rivelerà che il banchiere tosco-elvetico aveva cercato di salvare i suoi amici e di inguaiare i suoi nemici, omettendo di parlare di una quantità infinita di fondi esteri.

Intercettato a La Spezia, Pacini Battaglia si vanterà: «A Milano non mi hanno rinviato a giudizio... ho fatto archiviare un’indagine su Necci». Senza contare una famigerata «ho pagato per uscire da Mani pulite» che si presterà a infinite preoccupazioni.

Dirà Piercamillo Davigo:

«Nel momento in cui è rientrato in Italia e si è presentato a noi spontaneamente, e con le sue dichiarazioni ci ha svelato una serie di episodi fino a quel momento sconosciuti, sono cessate le esigenze di custodia cautelare... Certo, oggi l’esperienza di Mani pulite ci dice che quasi mai gli indagati ci hanno detto tutto. Ma la tortura non è prevista dal nostro ordinamento. E noi, per farlo parlare, non potevamo mica picchiarlo».

Infatti non picchiavano, in genere: incarceravano.

Ha testimoniato in sede giudiziaria il pm Francesco Greco:

«Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si tornava a quello dopo... Di Pietro era sempre proiettato alla scoperta di nuovi filoni investigativi e raramente tornava sui suoi passi... anche Pacini Battaglia ha sicuramente taciuto molte sue verità illecite... ha omesso in particolare i suoi rapporti finanziari con i singoli dirigenti dell’Eni... in seguito è emerso un suo ruolo nelle vicende Allied e Cragnotti e di volta in volta è stato interrogato da Di Pietro o dalla sua struttura... di Pacini se ne occupò prevalentemente lui».

Ha confermato, sempre in sede giudiziaria, il pm Gherardo Colombo:

«Accadeva spesso che chi collaborava non collaborasse a 360 gradi e tacesse parte di quanto a sua conoscenza... succedeva a volte di richiamare questi indagati senza procedere a nuova cattura... Quan- to leggo nei documenti che mi mostrate non fa altro che confermare quelle che erano le mie convinzioni in ordine al fatto che, con ogni probabilità, Pacini, come tanti altri, aveva svelato soltanto una parte delle realtà penalmente rilevanti che erano a sua conoscenza».

Ha scritto il giornalista Antonio Galdo nel suo libro Gli sbandati:

«Davigo era diventato consigliere della quarta sezione penale... Speravo di portare a casa qualche spunto autocritico, e invece Davigo mi sorprese e mi fece capire, con un’analisi molto lucida, quale era stata la vera bussola che guidava le scelte del pool. Iniziò con un riferimento religioso: «Nei testi induisti compare questa domanda a un profeta: “Da che parte devo stare?”. E lui rispose: “Pensa a combattere, non spetta a te cambiare il mondo”».

Messa così, par di capire che l’inchiesta Mani pulite fu un’indagine irresponsabile, condotta superficialmente e imperniata sul carcere, in cui la velocità prevalse sulla qualità e sull’accuratezza. Sembra di capire questo. Dev’esserci un errore da qualche parte.

Ancora Borrelli:

«Si impose la necessità di fare in fretta, di puntare molto rapidamente a uno scopo. Non, come si è detto polemicamente, quello di abbattere il regime o l’assetto politico di allora. Ma quello di raggiungere al piú presto risultati investigativi da presentare anche all’opinione pubblica con un buon grado di certezza. Di qui la necessità di suggellare tutte quelle situazioni di corruzione che potevano essere agevolmente dimostrate e accertate, lasciando da parte altre aree piú difficili da afferrare, che si sarebbero esplorate successivamente. Di fatto, poi, la rappresentazione di quel panorama avvenne soprattutto nei grandi processi Cusani-Enimont. Poi Di Pietro lasciò la presa, e gli altri colleghi andarono avanti, ma inevitabilmente molto materiale rimase accantonato».

Rimase accantonato un intero Paese. 

La guerra dei trent’anni. Le connivenze della stampa nel raccontare Mani pulite. Filippo Facci su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Filippo Facci ha sintetizzato per Linkiesta la parte del suo nuovo libro che tratta del problema degli storici nell’affrontare i primi anni Novanta – come intrappolati in una «eterna transizione» che perdura ancor oggi – e i giornalisti che in quel periodo abdicarono al loro ruolo. 

I giornalisti non fecero il loro lavoro e ora gli storici non riescono a fare il loro. Indro Montanelli, in parte, aveva anticipato il problema: «Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della nostra storia nazionale, avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani dalle fonti dei giornali e dei telegiornali, e sai perché? I giornalisti, tranne le ovvie eccezioni che confermano la regola, durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza, e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani, che volevano il rogo, e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla. Una cosa che complicherà il lavoro dei poveri storici».

Si registrano almeno gli ottimi ma incompleti lavori di Giovanni Orsina che denotano quantomeno uno sforzo in direzione di una rinnovata ricerca delle fonti: per il resto, sulla storia di quegli anni, c’è davvero poco, salvo epistole tra accademici piazzate nei settori più impolverati delle librerie. Si deve tornare alla «Grande slavina» di Luciano Cafagna per capirci qualcosa a dispetto del limite, nonostante una notevole preveggenza, di interrompersi ed essere pubblicato a metà del 1993. Finirà che noi peones ci limiteremo a sostituire la monumentale «Storia d’Italia» di Indro Montanelli con la puntuale annalistica di Bruno Vespa, o, nel caso di analfabeti funzionali wikipedia-dipendenti, di scambiare per Storia lo sterminato faldone giudiziario titolato «Mani pulite» di Barbacetto-Gomez-Travaglio che è un mero riversamento di un dischetto informatico contenente tutti gli atti dell’inchiesta, consegnato agli autori personalmente da un magistrato del pool milanese. In compenso, il volume di oltre 800 pagine è stato definito «La più analitica e accurata ricostruzione dei fatti che io abbia letto». Parola di Piercamillo Davigo.

Sta di fatto che anche Aurelio Lepre, docente universitario di Storia contemporanea e già autore per varie case editrici, ultima Il Mulino, è autore di una «Storia della prima Repubblica» giudicata «la più convincente ed equilibrata» da Giovanni Sabbatucci, altro accademico di Storia contemporanea tra i più accreditati. Tuttavia, fermandosi alla fine del millennio scorso, anche Lepre sembra essersi arreso:

«L’editore mi chiede di aggiornare la mia Storia della prima Repubblica e mi crea qualche difficoltà. Per due motivi: il primo consiste nel fatto che negli ultimi anni la cronaca della vita politica italiana ha assunto frequentemente, anche a causa della pressione mediatica, l’aspetto di un teatrino… Tranne poche eccezioni, gli attori recitano sopra le righe, davanti a un pubblico perplesso, tra gli applausi di claques sempre più ristrette. Anche per uno storico, perciò, la tentazione di trattarne in chiave ironica è forte. Ma il nostro mestiere ci insegna proprio a distinguere tra cronaca e storia e bisogna perciò riuscire a cogliere dietro la maschera spesso buffonesca della cronaca politica giornaliera il volto severo della storia. Con la speranza che ci sia davvero.

La seconda difficoltà è costituita dal fatto che stiamo vivendo una transizione infinita, che non sembra offrire punti certi di riferimento. La prima edizione di quest’opera si chiudeva con gli avvenimenti del 1992, una data che pareva assumere un significato epocale a causa della drammatica atmosfera creata dalle inchieste… Era diffusa la convinzione che la società italiana fosse arrivata a una svolta. Ma così non era stato…. Nel 2003 siamo però ancora in mezzo al guado. E nessuno, se non per motivi di polemica giornalistica, si azzarda a sostenere che è cominciata una seconda Repubblica… Sono ancora convinto che un’epoca della nostra storia si è chiusa, anche se non è ancora cominciata una nuova».

E veniamo alle colpe dei giornalisti. Tra la primavera del 1992 e la fine del 1994, in Italia, si creò un’alleanza tra procure e mezzi di informazione come non si era mai vista in nessun Paese occidentale, e come probabilmente non si vedrà mai più. In sintesi accaddero tre cose: L’informazione non si fece solo gregaria della magistratura «rivoluzionaria, ma divenne autenticamente uno strumento di indagine della medesima; 2) La stessa informazione si fece uniformata da testata e testata – comprese quelle televisive, pubbliche e private – in quella che fu definita una «redazione giudiziaria» unificata tra cronisti, alcuni dei quali avevano rapporti diretti e preferenziali coi magistrati in particolare del Pool Mani pulite di Milano; 3) La stessa saldatura si traspose tra i livelli più alti di alcune testate, attraverso un patto tra direttori che furono così in grado di condizionare l’opinione pubblica al punto da stravolgere o vanificare ogni iniziativa del potere legislativo.

Cominciamo con l’informazione come strumento d’indagine. Il ruolo della stampa in pratica di fece fisiologico all’inchiesta milanese: travestita da libera circolazione delle notizie, la pubblicazione di determinati verbali (piuttosto di altri) si traduceva in un irresistibile effetto richiamo per decine di soggetti che si ritrovavano il proprio nome sui giornali.

Il pm Antonio Di Pietro aveva prospettato un uso della stampa a fini istruttori sin dal primo giorno, quando lasciò filtrare la notizia – falsa – che su un conto bancario della madre di Mario Chiesa ci fossero oltre 4 miliardi. Uscita la notizia sui quotidiani, convocò la poveretta e le chiese: «Quanti soldi ha sul conto?». «Quattro miliardi e mezzo» rispose lei. Ma erano quasi 7, e questo potè dimostrare che quel denaro non era gestito da lei. Ma molte e troppe furono le strumentalizzazioni di una stampa compiacente: soprattutto in un periodo in cui un avviso di garanzia, o mezza notizia ben filtrata, erano in grado di squadernare ogni trattativa politica.

Una sola notte di prigione era poi in grado di trasformare i primi imprenditori arrestati in terribili accusatori: una sola chiamata in correità divenne presto un presupposto sufficiente per far scattare le manette. Ammetterà il pm più noto dell’inchiesta Mani pulite: «Per l’imprenditore la convenienza è soprattutto imprenditoriale. Qual è il suo primo problema quando viene coinvolto? I giornali, la televisione, l’arresto, la confessione, tutto questo produrrà effetti a catena disastrosi per la sua impresa. Le banche ritireranno i fidi, i committenti non daranno più gli appalti, i lavoratori contesteranno, sarà costretto a chiudere».

Una prima fase dell’inchiesta tenderà perciò a inquadrare l’imprenditore più nel ruolo di concusso da un potere politico ricattatore, sin da subito vero obiettivo dell’indagine: un Di Pietro stanchissimo confidò al cronista del Giorno, Paolo Colonnello: «Potrei arrivare a Craxi, ma bisogna andarci piano».

In realtà, nelle carte, non c’era nulla che facesse presagire quel punto d’arrivo. Quella stessa sera, Il 21 aprile 1992, alla pizzeria Gambarotta di via Moscova, i cronisti di giudiziaria lanciarono l’idea di riunirsi in pool «per trovarci a scrivere un pezzetto di storia», ha scritto il cronista del Corriere Goffredo Buccini. La motivazione ufficiale era non disperdere notizie, verificarle al meglio, evitare trappole, gestire la sovrabbondanza, prevenire le censure, in sostanza disciplinare la strumentalizzazione che di loro faceva palesemente Di Pietro, ottenendone i cronisti considerazione e vanagloria giornalistica.

In quella prima fase non c’era notizia o carta o verbale che uscisse senza che i magistrati lo volessero, benché, materialmente, spesso provvedevano avvocati che facevano i propri interessi. A sorvegliare il collo di bottiglia da cui passavano le notizie c’erano al massimo quattro o cinque giornalisti, ciascuno coi suoi contatti preferenziali in procura. Per buona parte erano dei cronisti ragazzini che si ponevano nell’unica strozzatura dove certe notizie potevano passare, anche se questo implicava un rapporto personale e di tacito accordo con alcuni magistrati.

Da principio a rappresentare una novità furono i telegiornali Fininvest, dapprima guardati in cagnesco e sospettati di intelligenza col nemico: spesso qualche telecronista diffondeva il panico nei servizi della notte e i cronisti della carta stampata venivano richiamati per verificare e ribattere. Circolavano elenchi di arrestati veri e falsi, e Di Pietro era letteralmente idolatrato e i cronisti l’avevano soprannominato «Dio» o «Dio Zanza» o «Zanzone» (imbroglione in milanese) mentre il capitano Zuliani dei Carabinieri era «Mago Zu». Il decano dell’Ansa, storico punto di riferimento, chiamava i più agguerriti «quelli che ce l’hanno sempre duro». Un mensile di categoria, Prima Comunicazione, li descrisse come «Un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato».

Di fatto, l’informazione si fece uniformata da giornale a giornale, ma soprattutto militante. L’entusiasmo e la giovane età, in qualche caso, giustificarono episodi al limite del fanatismo: per esempio la produzione della maglietta «Anch’io seguo Mani pulite» o il primo avviso di garanzia a Craxi appeso in sala stampa (dopo aver brindato a champagne, come accadde anche per l’arresto di Salvatore Ligresti) e più in generale una dedizione che portò alcuni ragazzi a sentirsi parte dell’inchiesta anziché strumento della medesima. Ha scritto ancora Buccini: «Che noi trentenni di allora avessimo più o meno tutti una formazione di sinistra è vero. L’inchiesta ci dava la conferma di ciò che noi avevamo sempre pensato dell’Italia: dei socialisti, degli andreottiani, di Ligresti e poi dello stesso Berlusconi. E quando ritieni di vedere la conferma di quello che pensi, non cerchi altre verità… E questo è stato senz’altro lo sbaglio di noi giovani giornalisti di allora. E lo sbaglio di tutti quanti, poi, è stato pensare che un Paese si possa riformare per via giudiziaria: i processi sono una scorciatoia solo apparente. La storia di Mani pulite dimostra che la rivoluzione giudiziaria non esiste».

Anche l’estrazione politica della maggior parte dei cronisti sembrava univoca: «Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Brambilla, un cattolico perbene», è sempre Buccini a parlare, «noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra. In qualche modo, l’inchiesta contiene, almeno in potenza, la conferma del male che abbiamo sempre pensato di certi socialisti craxiani traditori della nostra causa, certi andreottiani mafiosi e maleolenti, certi imprenditori tentacolari e, in generale, di un potere costituito che sempre si oppone alle «magnifiche sorti e progressive» di cui abbiamo deciso di non essere alfieri sin dai licei e dalle università. Tutto questo può non pregiudicare il lavoro nell’immediato: ma può metterlo a rischio più in là».

Non erano tutti di sinistra, comunque. E se è vero che Michele Brambilla del Corriere era un cattolico moderato, lo è anche che presto, arcistufo, lasciò il gruppo e cedette il posto al più esaltato Gianluca Di Feo. Paolo Foschini di Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva poco da fare il compagno di sinistra. Frank Cimini del «Mattino» lo era pure, di sinistra, ma in stile «manifesto», un garantista sovrastato dai fatti. Annibale Carenzo dell’Ansa, il decano, si limitava a dare notizie senza interpretazioni. Lo stesso valeva per Mario Tomaino e Salvatore Carloni dell’Agenzia Italia. Cristina Bassetto dell’Adn-Kronos era un ex giornalista dell’Avanti! passata ad altri lidi quando il giornale chiuse. Maurizio Losa della Rai, molto vicino a Di Pietro, era un ordinario reggi-microfono alla pari di altre due comparse rispettivamente in quota repubblicana e socialista. Andrea Pamparana del Tg5 era figlio del portinaio di casa Pillitteri ed era un bravo ragazzo senza ideologie e con limiti precisi. Enrico Nascimbeni dell’Indipendente, figlio del noto Giulio del Corriere, non era nulla che abbia senso classificare.

Piallato su una sinistra giustizialista (più giustizialista che sinistra) era semmai lo zoccolo duro composto da Goffredo Buccini (Corriere) e Paolo Colonnello (Il Giorno) e Peter Gomez (Il Giornale) e ovviamente Marco Brando e Susanna Ripamonti (Unità) più ovviamente il duo inossidabile Luca Fazzo e Pietro Colaprico (Repubblica) a cui si aggiungeva Cinzia Sasso, futura consorte dell’avvocato e sindaco Giuliano Pisapia. Nell’ammettere onestamente che «rifarei tutto», Luca Fazzo (oggi al Giornale) nel 2011 ha ammesso che l’inchiesta non sarebbe stata possibile «con il rispetto formale delle regole», e che ci fu la «sospensione temporanea delle garanzie».

Fazzo racconterà della sparizione sostanziale dell’articolo 318 del Codice Penale, sostituito regolarmente dalla contestazione dell’articolo 319 che semplicemente distingue la «corruzione per atto d’ufficio» dalla «corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio»: il primo non prevedeva l’arresto, il secondo sì. Ha raccontato ancora Luca Fazzo: «Tacitamente erano stati suddivisi i compiti: a L’Espresso si davano i verbali, al Corriere le interviste. Ricordo quando Borrelli si affacciava nel corridoio e diceva «Chiamatemi Buccini». Voleva dire che c’era un problema e che aveva bisogno di essere intervistato».

Servire e accorrere alla corte di un magistrato, per qualche ragione, suonava diverso dal servire e accorrere alla chiamata di un politico. Solo l’espressione «servire» restava identica, e andare a rivedersi la radice latina del verbo «servire» pare irrispettoso. Comunque anche alcuni avvocati facevano la loro parte. Magari il magistrato dava la dritta, i carabinieri fornivano l’ordine di cattura e i legali i verbali di interrogatorio. Con in mano i verbali, poteva capitare che i giornalisti arguissero in anticipo chi sarebbe stato arrestato o indagato di lì a poco. Ancora Luca Fazzo: «Lo chiamavamo il pigiamino, forse perché arrivavamo a chiedere interviste anche la sera tardi, nelle case di persone che non immaginavano che cosa stesse per cascare loro addosso. Erano veri agguati».

C’erano verbali autorizzati e altri che lo erano di meno. Anche allo scrivente capitò di pubblicare (sull’Avanti!) degli stralci di verbale che secondo le vecchie regole violavano il segreto istruttorio: ma non facevano parte di nessuna dinamica prevista e unificata, insomma non erano condivisi. Ufficialmente non esistevano. In un verbale che pubblicai più volte, in particolare, si chiamava in causa un democristiano moralizzatore d’ambiente addirittura curiale, Antonio Ballarin, un archetipo da «società civile» che, di passaggio, era anche cugino del pm Gherardo Colombo. Il pool dei giornalisti quel verbale non l’aveva avuto, tanto che un collega che conoscevo da quando scrivevo su Repubblica, Piero Colaprico, mi disse che a suo dire era «un falso, e altri colleghi mi sbeffeggiarono definendolo «una patacca». Invece era autentico. Lo era al punto che il moralizzatore pellegrinò in Procura, con l’Avanti! sotto il braccio, e dopo un po’ i cronisti lo videro lasciare il palazzo con lo status di indagato. Ballarin fu costretto a un imbarazzante confronto con Maurizio Prada, il cassiere milanese della Dc.

Ha scritto quasi trent’anni dopo ancora Goffredo Buccini, cronista del Corriere della Sera rimasto impigliato nel reducismo: «Dal 17 febbraio 1992 ogni interrogatorio, verbale, arresto s’è sempre tradotto in un passo verso il primo, vero bersaglio dell’inchiesta, il Cinghialone. Dovremmo chiederci se sia normale che un’inchiesta abbia un bersaglio, peraltro marchiato con un nomignolo così feroce. O se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo l’atto di accusa contro un indagato. Ma è inutile nascondersi dietro le ipocrisie». Il «Cinghialone» era Bettino Craxi.

Mentre l’inchiesta impazzava capitava che le notizie fossero depositate nelle edicole prima ancora che nelle mani degli avvocati. Il democristiano Giorgio Moschetti, nel settembre del 1992, raccontò: «Alle 16.45 di oggi mi è stata notificata un’informazione di garanzia. Il Tg ne aveva già dato notizia verso le 14».

Un altro democristiano, Roberto Mongini, ha raccontato che accese la radio e seppe di essere stato arrestato un paio d’ore prima. Poi c’erano altri casi, particolari, come quello raccontato dal cassiere democristiano Severino Citaristi: «Consegnai degli elenchi a Di Pietro. Conoscendo le poco corrette abitudini di Milano, gli raccomandai di fare in modo che l’elenco non fosse reso pubblico. Me lo assicurò. Infatti, due giorni dopo, quotidiani e settimanali pubblicarono integralmente i tre elenchi consegnatigli, contenenti nomi di oblatori che prima non erano mai apparsi, come per esempio Pietro Barilla. Anche in questo caso il cosiddetto Pool di Milano continuò nella sua poco corretta abitudine».

Il cronista Bruno Perini, che seguiva l’inchiesta per «il manifesto», scrisse sul mensile «Prima Comunicazione»: Bisogna pur dire che a Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura. Molti giornali si sono messi sull’attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati. È stato rispettato più il Codice Di Pietro che non il nuovo Codice penale. C’è stata una specie di identificazione totale con l’ufficio del pm, tanto che alcuni periodici [«L’Espresso» e «Panorama»] sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d’interrogatorio. I giornali si sono così abituati a singolari trattative sulla carcerazione preventiva o sulla consegna degli imputati, come se fosse una cosa normale … anche in questo caso ha funzionato la forte dipendenza dalle fonti di informazione. Con un’aggravante: soprattutto nell’inchiesta Mani pulite, le fonti di informazione erano univoche».

Tanta confidenza portò per esempio un cronista di giudiziaria del Corriere della Sera a fare da autista ai magistrati Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo nel percorso tra Milano e Montenero di Bisaccia – quasi 700 chilometri – per partecipare ai funerali della madre di Antonio Di Pietro. Al Corriere della Sera peraltro avevano un Cerved, un monitor che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva qualche favore. Se con certa malignità i cronisti di giudiziaria potevano essere definiti camerieri delle notizie, l’alta cucina era però materia dei gran cuochi: i direttori delle testate.

È ormai acclarato che a un pool di cronisti se ne affiancasse un altro che concordava titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa mentre Paolo Ermini chiamava l’Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C’era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l’apertura del Corriere, dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell’Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito.

Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c’era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni… Lo sbaglio è stato di aver riproposto l’idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese… abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità». Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente criticabile (a esser gentili) è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell’Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti… c’era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi».

Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l’ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l’oggetto era tentatore e l’idea nemmeno campata in aria… Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere “decreto salvaladri” e il gioco era fatto».

Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali… alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono… Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde».

Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c’era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era «L’Indipendente», dove ai brindisi all’avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al «manifesto», storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste.

Sarebbe poi fuorviante soffermarsi su certo giornalismo più di costume, affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e anche molti uomini che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti. Ma il dipietrismo, rivisto oggi, fa quasi parte del comico e non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all’operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l’azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c’era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera).

Anche l’informazione televisiva meriterebbe un trattato a parte. Satira a parte (onnipresente) dalle tonalità del Tg3 sembrava sempre che l’Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il consueto Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento nell’avvicinare la politica alle casalinghe) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano – e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale – si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.

Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» per 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell’edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa.

Resta il mistero – si fa per dire – di come anche la più appariscente violazione del segreto istruttorio, con l’inchiesta Mani pulite, divenne regola. Il Codice di procedura penale era anche chiamato «Pisapia-Vassalli» e allo scrivente, all’inizio del 1992, capitò di intervistare il professor Giandomenico Pisapia (morto nel 1995, dopo che, come detto, era stato presidente della commissione per la riforma del Codice) il quale disse testualmente: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è, e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione».

Va aggiunto che, sempre nel 1992, l’allora vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio».

Dopodiché, come è noto, non successe niente del genere: allora come oggi, l’interesse dei media e dell’opinione pubblica si concentrò sulle indagini preliminari, mentre il successivo processo, sempre che abbia avuto luogo, si perse nel dimenticatoio. In sostanza che cosa fosse o non fosse il segreto istruttorio, al di là delle intenzioni del legislatore, i vari pool dei magistrati e dei giornalisti presero a raccontarselo da soli.

Il 19 dicembre 1992, al Circolo della stampa, ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (un gruppo di cronisti orientati a sinistra) alla presenza dei succitati Pool, e Piercamillo Davigo la mise così: «Se una cosa la sappiamo in tre, e io sono tenuto al segreto altrimenti commetto un reato, un altro è tenuto al segreto altrimenti commette un illecito disciplinare, ma il terzo non è tenuto al segreto, allora la notizia non è più segreta…. c’è un equivoco di fondo: il segreto istruttorio è posto a tutela dell’attività investigativa, non dell’onorabilità dell’inquisito».

Disse invece il pm Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza di tutti noi va tutelato, ma quando la via di tutti, il progredire di tutti confligge con l’interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». I cronisti, ovviamente, erano d’accordo. Il giornalista della «Repubblica» Piero Colaprico avrà a vantarsi che «nessuno di noi, in dieci mesi di inchiesta, ha ricevuto una sola querela. Ciò significa che abbiamo lavorato bene, ma anche che nessuno di noi ha mai violato il segreto istruttorio».

Un sillogismo che si commenta da solo. Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, ebbe modo di spiegare che il segreto istruttorio in pratica non esisteva più. Corso Bovio, legale dell’Ordine dei giornalisti lombardi, nella prima estate 1992, aveva detto all’Avanti!: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho dovuto sostenere decine di cause per violazione del segreto istruttorio, promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga anche in ogni circostanza, e non solo nell’inchiesta sulle tangenti».

Invece Marcello Maddalena della procura di Torino sosterrà che il diritto alla riservatezza dell’indagato «comunque è secondario rispetto all’esigenza primaria di scoprire la verità». Una buona sintesi potrebbe essere che la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio dal Codice perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque, ciò bastava e basta a tutt’oggi. Chi il Codice l’aveva scritto, però, aveva intenti diametralmente opposti. E anche chi non l’aveva scritto, ma si chiamava Giovanni Falcone, non la pensava diversamente: «L’informazione di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato (…) I motivi dei miei contrasti, spesso con colleghi un po’ più anziani di me, derivavano proprio da questa differenza di mentalità. A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e con- testare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario».

Una violazione perpetrata all’infinito non la trasforma in regola: eppure, nove anni dopo Mani pulite, i primi vagiti forcaioli del giornalista Marco Travaglio – non per niente molto legato a Piercamillo Davigo – cercheranno di storicizzare quella che appare come una menzogna interpretativa: «Lo spirito del nuovo Codice, almeno su questo punto, è chiaro e nobile. Il diritto dell’opinione pubblica a essere informata sulle indagini e sui processi è più forte di quello dell’indagato alla riservatezza. Soltanto un altro valore può sopravanzare il diritto all’informazione: la salvaguardia delle indagini… La stragrande maggioranza delle notizie pubblicate dai giornali negli anni caldi di Tangentopoli, spacciate dagli imputati per “fughe di notizie” e “violazioni del segreto istruttorio”, non erano affatto segrete e non costituivano reato. A cominciare dall’avviso di garanzia, che per definizione è pubblico, essendo fatto apposta per informare l’indagato».

Non una sola cosa vera, come visto. Anche a proposito dell’avviso di garanzia, definito addirittura pubblico «per definizione», se non si vuole credere a chi il Codice l’ha concepito (Pisapia) si può sempre andare a leggersi il Codice stesso, all’articolo 369 che appunto regola l’informazione di garanzia («avviso» in gergo giornalistico) e che recita così: «Solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere, il pubblico ministero invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa una informazione di garanzia con indicazione delle norme di legge che si assumono violate».

La «garanzia» è rivolta alla persona e mira a garantire l’esercizio del diritto di difesa, perché il destinatario attraverso «l’informazione» ha la possibilità di farsi assistere da un avvocato.

Se fosse un atto pubblico, non si capirebbe la necessità di spedirlo «in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno», tantoché, già dai primi mesi di Mani pulite, anche questa regola prese a sparire. L’avviso di garanzia si consegnava a mano all’indagato e così pure ai giornalisti, all’occorrenza. Si azzarderà a dire anche Giovanni Galloni, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, il 4 dicembre 1992: «Rendere pubblico un avviso di garanzia è voler indicare un colpevole. È dunque necessario mantenere segreto l’avviso di garanzia che non è indizio di reato, ma solo la volontà del magistrato di approfondire i fatti. L’avviso di garanzia deve essere protetto dal segreto istruttorio».

Pochi giorni dopo, il 18 gennaio 1993, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale Giulio Catelani dirà che a Milano non c’era e non c’era stata nessuna violazione del segreto istruttorio. Quasi dieci anni dopo farà, diciamo così, del revisionismo: «C’era una corrente di pensiero che partiva da Oscar Luigi Scalfaro e arrivava fino alla gente nelle piazze… In quegli anni, il segreto istruttorio non esisteva più. Ora arriva l’ex giudice delle indagini preliminari, Italo Ghitti e ci dice che c’era eccome: adesso che il reato di violazione del segreto istruttorio è prescritto». Ghitti in realtà non aveva detto niente di speciale, se non questo: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del Pool».

Le notizie, però, uscivano anche dall’ufficio del gip Ghitti. Da sole. Lo scrivente ha buone ragioni di fidarsi della seguente testimonianza: «Salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta. Io ero mimetizzato tra altri tre o quattro, complici i buoni rapporti con due dei cronisti e l’apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d’arresto che lui aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Un’altra cosa me l’avevano raccontata e basta: che era sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c’era neppure bisogno di appoggiare l’orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano persino barzellette. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero».

La testimonianza, manco a dirlo, è dello scrivente. 

Il libro “La guerra dei trent’anni. 1992-2022 Le inchieste la rivoluzione mancata e il passato che non passa” esce oggi, venerdì 7 aprile. Di Filippo Facci, Marsilio, 2022, pagine 750, euro 25.

Trent'anni da Tangentopoli. Grazie a Mani Pulite oggi abbiamo il deserto della politica. Biagio Marzo su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

Come nella guerra del Trent’anni – tra il 1618 e il 1648 – ci furono una serie di conflitti che coinvolsero diversi paesi, così, a trent’anni dall’inizio dell’era di Tangentopoli (1992), non ancora conclusasi, vi sono coinvolti diversi partiti e leader politici. Purtroppo è una vicenda senza fine, una lotta di potere senza quartiere, in cui la politica è soccombente. Diciamocela tutta: è sotto scacco della magistratura. Tutto iniziò a Milano, con l’arresto di Mario Chiesa il 17 gennaio 1992, per cui la Procura di Milano costituì il pool Mani Pulite, nome non nuovo per chi conosce la storia dell’Unione Sovietica, laddove, ai tempi delle grandi purghe staliniane, operava un gruppo di magistrati che lavorava a tempo pieno. Il pool Mani Pulite, applicando la custodia cautelare a proprio piacimento, portò a termine il “golpe bianco” che fece tabula rasa del pentapartito salvando la sinistra Dc e il Pci-Pds.

Non è che gli esponenti dei due partiti non ebbero dei guai giudiziari, ma tutto sommato parecchi di meno dei dante causa. Per Gerardo D’Ambrosio, all’epoca vice procuratore, il pool non avrebbe avuto successo senza il supporto di quelle forze politiche. Oltre a queste, c’era la corazzata dei mass media scritti e parlati ad alimentare il furore di una parte degli italiani, quelli che, probabilmente, sono chiamati oggi “No Vax”. Sempre sul piede di guerra contro le istituzioni e, nello stesso tempo, illiberali.

Il pool riduceva lo Stato di diritto a una specie di formaggio svizzero e faceva crescere a vista d’occhio il cosiddetto “panpenalismo”, ovvero la necessità di penalizzare al massimo. Mentre il consenso attorno a Mani Pulite raggiungeva il diapason, la classe politica giocava in difesa tanto da suicidarsi, abolendo l’autorizzazione a procedere per i parlamentari. Vale a dire la riforma dell’art. 68 della Costituzione, avvenuta sotto la spinta del combinato disposto di mezzi di informazione e di opinione pubblica. Il risultato di questa riforma ha portato a uno squilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, incidendo negativamente sul regime democratico e liberale.

Il fenomeno corruttivo chiamato Tangentopoli è complesso, ed esprime una realtà economico-politica che non si può ridurre al finanziamento illegale delle Partecipazioni statali ai partiti, come scrive Franco Debenedetti sul Foglio dello scorso 25 febbraio. Il quale, in verità, non tiene conto che i principali gruppi imprenditoriali privati sono stati indagati. D’altro lato, non va sottaciuto l’arricchimento personale, piccola cosa di fronte al mansalva del finanziamento illegale ai partiti. Insomma, se Tangentopoli è stata la causa, Mani Pulite è stato l’intervento delle Procure per estirpare il cancro del “malaffare”, conosciuto dall’universo mondo e sempre taciuto. Se Tangentopoli è stato il cancro, Mani Pulite è stata l’aspirina esiziale nel curare il male. Al che Francesco Saverio Borrelli, ex procuratore generale di Milano e capo del pool di Mani Pulite, aveva tirato le somme: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in questo attuale”. Chiaramente un autodafè. Dall’inizio di Tangentopoli, la realtà sotto l’aspetto politico e giudiziario è peggiorata, con il giustizialismo pandemico in cui affondano l’idea di diritto liberale e il processo penale. Siccome il pool Mani Pulite avrebbe dovuto rivoltare l’Italia come un calzino – secondo il davighismo, il Davigo-pensiero, il “rivoltatore di calzini” -, ci siamo trovati con il sovranismo e il populismo che hanno acuito la crisi della democrazia rappresentativa. E poi, con lo scoperchiamento del vaso di Pandora giudiziario, si è visto il passaggio dall’ordinamento della magistratura al potere del partito dei pm, senza alcuna responsabilità.

L’effetto Luca Palamara è stato dirompente, ha fatto venire alla luce il sistema su cui si appoggiava la magistratura che regolava, di conseguenza, la vita politica, economica e finanziaria del Paese. Attraverso i due libri di Sallusti e Palamara – Il sistema e Lobby & logge – si comprendono molti avvenimenti che hanno sconvolto in qualche misura la politica. La magistratura non ha avuto un potere salvifico, come tanti italiani credevano. Anzi, è accaduto tutt’altro. Di fatto, c’è stato il sorgere, sull’onda giudiziaria-populista, del Movimento 5 stelle, che ha fatto fare passi indietro all’Italia, di cui oggi paghiamo amaramente il prezzo. Portatore dell’“uno vale uno e l’uno vale l’altro”, sicché il sapere e l’ignoranza sono uguali. Siamo, insomma, al “trionfo degli apedeuti”. Non è tutto. Il ministro della Giustizia Bonafede, con la sua legge “spazza corrotti”, aveva annunciato la fine della corruzione e Di Maio, con il suo provvedimento sul lavoro, proclamò da un balcone di Palazzo Chigi la fine della povertà. E, di seguito, la decrescita felice, il reddito di cittadinanza concepito con i piedi…

Chiacchiere e distintivo. Con gli altri partiti che non hanno aiutato l’Italia a uscire dalla crisi. La Lega di Salvini ha cambiato pelle rispetto alla Lega Nord di Bossi, diventando soggetto nazionale ma non con i risultati sperati nel Mezzogiorno. Così come un pendolo oscilla fra partito di lotta e di governo, entrando talvolta in palese contraddizione. Infine, l’unica cosa buona che ha fatto il “Capitano” è stato l’aderire ai referendum sulla giustizia del Partito radicale. Ancora. I Fratelli d’Italia della Meloni hanno dimostrato i propri deficit culturali e politici, nascondendosi sotto il fatuo patriottismo, lo statalismo assistenziale, l’anti-scienza allacciando alleanze in politica estera con forze reazionarie, come i filo-franchisti e i sovranisti di Vox, e con quelle conservatrici del Gruppo di Visegrad, l’alleanza composta da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia . Al dunque, lo stesso Partito democratico, senza alcuna identità, oscilla sul terreno delle alleanze, avendo come unico obiettivo stare al governo.

Un quadro desolante, in cui il trasformismo ha frazionato il sistema partitico e accresciuta la conflittualità politica. La presenza di tecnici alla guida degli esecutivi che si sono succeduti in questi decenni e la riproposizione del secondo mandato ai presidenti della Repubblica di questi ultimi 16 anni, è la prova provata della crisi della politica e della mancanza di una classe dirigente patriottica nel vero senso della parola e a misura del vuoto politico di questi tempi malvagi. Da tutti i punti di vista si vede che l’Italia è corrosa dal vuoto politico. Proprio a trent’anni dal discorso di Craxi alla Camera, quando il leader del Psi sostenne che: “Nella vita democratica di una nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno e amico (Pietro Nenni, ndr), che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, io ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone”. Non a caso il vuoto dei partiti è stato occupato dal potere giudiziario.

Biagio Marzo

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 26 febbraio 2022.

30 anni dopo è tempo di processare Tangentopoli e di concedere agli avvocati il diritto di esercitare un mea culpa.

Con questo spirito ieri la Camera Penale di Milano, che rappresenta in città gli esponenti del foro in ambito penale, ha organizzato a Palazzo di Giustizia il convegno Mani pulite: voci a confronto.

L'incontro è stato l'occasione per mettere a nudo storture e abusi di Tangentopoli e comprendere quanto quella stagione giudiziaria abbia cambiato in modo irreparabile i rapporti della magistratura con politica, giornalismo e società civile. Tanto per cominciare, secondo gli avvocati presenti al convegno, Tangentopoli nacque da un complotto e si risolse in un colpo di Stato.

«Dobbiamo chiederci come il fatto giudiziario è nato», dice l'avvocato Nerio Diodà, già legale di Mario Chiesa, primo arrestato dell'inchiesta e allora presidente del Pio Albergo Trivulzio. 

«Fu un complotto organizzato da parte di Di Pietro. Si era rivolto a lui un imprenditore, il quale gli aveva raccontato che da anni pagava a destra e a manca. Di Pietro e il suo capitano prepararono 7 milioni in cui una banconota ogni dieci era sottoscritta dallo stesso Di Pietro.

Successivamente (dopo la consegna dei soldi dall'imprenditore a Chiesa, ndr)si presentarono al Pio Albergo Trivulzio, si fece la perquisizione e nel cassetto vennero rinvenuti 7 milioni». 

Fu l'inizio di un'inchiesta condotta non per appurare singole responsabilità penali ma «per dimostrare che il sistema politico era marcio», come nota l'avv. Gaetano Pecorella. «Non si trattò di una rivoluzione giudiziaria», continua, «ma di un colpo di Stato» che «trasformò i magistrati da funzionari in una forza politica».

Ma con quali metodi venne condotto questo "colpo di Stato"? Il principale fu l'uso sistematico e spropositato da parte dei pm della custodia cautelare, con arresti usati come strumento di indagine e spesso finalizzati a ottenere confessioni e chiamate in correità, in cambio di liberazioni e sconti di pena in prospettiva.

«La custodia cautelare come dolce tortura», la definisce Pecorella. O come «vulnus alla libertà personale e alla presunzione di innocenza», per dirla con l'avv. Daniele Ripamonti. 

Anche se Gherardo Colombo, ex pm, tra i protagonisti del pool di Mani Pulite, nega le dimensioni esagerate del ricorso alle misure cautelari e l'obiettivo politico dell'inchiesta. 

«Ho detto più volte che la custodia cautelare è stata applicata secondo il Codice», dice ai nostri taccuini. «Noi abbiamo proceduto per reati commessi da persone. Se poi queste persone svolgevano funzioni politiche non possiamo farci niente». Di certo, nell'applicazione di questo metodo di indagine, contò l'accondiscendenza di molti avvocati che, anziché pensare al rispetto del diritto, badarono a far sì che i loro clienti subissero i minori danni possibili, scendendo a compromessi col sistema adottato da Di Pietro. 

Fu un periodo di «frustrazione e travaglio» degli avvocati, come lo definisce l'avv. Monica Barbara Gambirasio.

A queste storture se ne sommarono altre, dall'eccessiva complicità tra pm e giornalisti, che peccarono di «voyeurismo», come ammette l'allora cronista di giudiziaria Paolo Colonnello, alla «trasformazione del magistrato in una star», come avverte il direttore di Libero Alessandro Sallusti, «con la nascita della giustizia spettacolo» e la convinzione che i «pm vivessero di consenso, non di merito» e, una volta popolari, fossero «intoccabili». 

La degenerazione di quel periodo può ben essere riassunta nei versi fulminanti dell'avvocato Jacopo Pensa: «Giro giro giro tondo qui si indaga tutto il mondo; molto a destra, poco a manca, di indagar non ci si stanca». 

L'altro anniversario di Mani Pulite: "La storia di Craxi narrata dai vinti". Luca Fazzo il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Amarcord a Milano con Bobo e Pillitteri: "Poteva essere curato". Milano. Alla fine, il vero protagonista di questo contro-anniversario è un piede. Un grande piede martoriato dalla cancrena, poggiato sulla sabbia di Hammamet e inquadrato in primo piano, a lungo, più volte. È il piede di Bettino Craxi, che l'altro giorno avrebbe compiuto 88 anni. E che invece dal gennaio del 2000 riposa nel cimitero del suo esilio tunisino. Quel piede malconcio era il segno del male che segnava Craxi, e che si sarebbe potuto curare se la Procura di Milano gli avesse consentito di tornare senza passare per la prigione; o se Francois Mitterrand, l'amico e compagno di un tempo, lo avesse accolto in Francia come tanti fuggiaschi politici.

Invece finì tutto diversamente. E i sopravvissuti socialisti dell'epoca di Mani Pulite si ritrovano in un cinema milanese, la sera del compleanno di «re Bettino», a celebrare a loro modo il trentennale di Mani Pulite. Si proietta il film che Paolo Pillitteri, cognato di Craxi e travolto dalla medesima tempesta, ha voluto realizzare due anni fa. É «La Tesi», girato da Ettore Pasculli che fu un regista di dichiarata fede socialista, e che ora dice: «È la storia più importante della mia vita, una storia di cui tutti abbiamo pagato le conseguenze». La storia dell'ascesa e del crollo di Craxi e del craxismo, tra potere assoluto e trionfante, inchieste, lanci di monetine. E la fine ad Hammamet, a trascinarsi in caffetano tra mercati e catapecchie.

Eccoli, i sopravvissuti: vecchi, vecchissimi, a volte malconci. Si conoscono tutti tra di loro, portano Borsalino improbabili, si mandano ghignando a quel paese raccontandosi i tempi antichi. Pasculli arriva con un garofano all'occhiello e lo infila nel taschino di Bobo Craxi, incanutito pure lui. Pillitteri ha dimenticato l'apparecchio acustico, e così Dario Carella - che fu vicedirettore craxiano del Tg2 - deve urlargli le domande. «Il film si chiama la Tesi perché è di parte, è una provocazione, è la storia raccontata dai vinti», dice l'ex sindaco di Milano. Poi racconta della prima volta che conobbe Craxi, allora giovane assessore all'economato, presentato da Carlo Tognoli. «Quando seppe che mi occupavo di cinema mi disse: non capisci un tubo, la politica è più importante di tutto».

In sala sorridono, si danno di gomito sui cappotti fuori moda. Perché quello è proprio il loro Bettino, il leader splendido e arrogante che per quindici anni fece a pezzi i loro sensi di colpa, e sfidò a fronte alta il Moloch comunista. Eccolo il filmato clou, con Berlinguer attonito e livido sommerso di fischi al congresso del Psi, e Craxi che infierisce: «Non mi unisco a questi fischi (pausa) solo perché non so fischiare». Che nostalgia.

Dell'indagine che trent'anni fa spazzò via il loro mondo il film racconta ai reduci la tesi di allora e di oggi, la porcheria orchestrata da un ex poliziotto di oscuri trascorsi. Come tutti i reduci, aspettando che si spengano le luci di sala, fanno i conti di chi c'è ancora e di chi è morto: «Ah sì? Quando?». Sopra l'Anteo svettano nel cielo stellato le tre torri milanesi di Citylife. Pillitteri: «Belle, eh. Ma la mia giunta venne fatta cadere su una variante edilizia che aveva la metà di queste cubature».

30 anni da Tangentopoli. I tre pool che volevano la repubblica giudiziaria. Angela Stella su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022. 

“A Trenta anni da Tangentopoli e da mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria” è il titolo della conferenza promossa dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà. Molti gli ospiti intervenuti, tra cui il nostro direttore Piero Sansonetti, e moderati dal direttore del Dubbio Davide Varì.

Ad aprire i lavori Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: “Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari, chiediamo un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno”. Allora vi fu “un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente”.

Presente anche l’ex magistrato Luca Palamara: “Tanti dovevano parlare per uscire, durante gli interrogatori bisognava fare questo o quel nome: una prassi che purtroppo poi si è protratta molto nel sistema giudiziario italiano, da Tangentopoli a Mafiopoli”. Non poteva mancare il giornalista Enzo Carra, che fu condotto dal carcere al tribunale con gli “schiavettoni” ai polsi per essere incriminato da Davigo, suscitando vasto clamore: “Questo è un Paese che vive in uno stato di eccezione dal 1969, da Piazza Fontana, con cui coincide la fine della verginità di questo Paese: sia chiaro questo”. A lui è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: “Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era – diciamo – il clima dell’epoca”.

Tra i politici anche l’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “Le storie che ho sentito mi pare che siano ancora molto attuali. Avete ricordato come il pm si scegliesse il gip, Italo Ghitti. Lo ha raccontato persino il giudice Salvini. Oggi succede la stessa cosa. Ho presentato un’interrogazione al Governo, chiedendo di sapere quante sono in percentuale le richieste di custodia cautelare respinte dai gip. La direzione statistica del Ministero della Giustizia non possiede questo dato. Capite in che in che situazione siamo! Probabilmente il dato si avvicina allo zero per cento. Così come non sappiamo quante richieste di intercettazione e di proroga delle indagini preliminari vengano rigettate”.

Le conclusioni sono state affidate a Fabrizio Cicchitto, Presidente della Fondazione Riformismo e Libertà: “Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi, a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne dalla Fiat, alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il “partito diverso” dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione. Molto prima di Forza Italia e ovviamente in termini del tutto rovesciati il primo partito-azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo e Ernesto Rossi fecero denunce assai precise essendo del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e con il trattato di Maastricht il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quella della Dc e del Psi. Anche in seguito al ’68 nella magistratura e nel giornalismo sono maturate tendenze radicali. Di qui è scattato il circo mediatico-giudiziario fondato su tre pool fra loro collegati: il pool dei pm di Milano, il pool dei direttori di giornali, il pool dei cronisti giudiziari. Tutto ciò fu fondato su due pesi e due misure. Il sistema di Tangentopoli coinvolgeva tutti e invece un numero assai ristretto di alti dirigenti del Pds e della sinistra Dc poteva non sapere, invece Craxi, tutti i dirigenti del Psi, i leader di centro-destra della Dc, i segretari dei partiti laici non potevano non sapere”. Angela Stella

Mani pulite: la parabola del pool tra politica, inchieste e polemiche. 1993 Milano, il Pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco. GIULIA MERLO su Il Domani il 22 febbraio 2022

Guidati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, i magistrati che hanno svolto le indagini di Mani pulite sono  rimasti al centro della storia politica e giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni.

Alcuni si sono candidati in politica, in particolare Antonio Di Pietro che ha fondato l’Italia dei Valori, Gerardo D’Ambrosio che si è candidato con l’Ulivo e Tiziana Parenti che ha lasciato il pool ed è stata eletta con Forza Italia.

Fino alla presunta loggia Ungheria dove Greco e Davigo si sono trovati su posizioni contrapposte, al culmine dello scontro interno alla procura di Milano. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Ma no, la Milano da bere non è mai esistita. E i partiti non prendevano tangenti. Michele Serra su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Nel trentennale di Tangentopoli l’Italia è divisa. Alcuni dicono che i partiti non prendevano tangenti. Gli altri vanno in processione con san Di Pietro.

Nel trentennale di Tangentopoli si moltiplicano le commemorazioni. Come ogni anno i nostalgici di Tonino Di Pietro, convenuti da tutta Italia, si sono ritrovati a Montenero di Bisaccia, paese natale del Santo, per la suggestiva Benedizione dei Faldoni Giudiziari, portati in processione per le vie del borgo e deposti ai piedi dell’altare. Nel prezzo della trasferta erano compresi anche un pranzo sociale in trattoria, una fotografia autografa di Beppe Grillo e un abbonamento al Fatto Quotidiano.

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 27 Febbraio 2022.

Allora, sentite questa. L’altro giorno mi chiamano dalla direzione del Corriere e mi chiedono di provare a intervistare Antonio Di Pietro. Siamo dentro l’anniversario di Mani Pulite, trent’anni esatti: l’idea sarebbe di andarlo a trovare a Montenero di Bisaccia, parlarci, vedere che fa adesso e, soprattutto, sapere cosa pensa di tutto quanto è successo dopo quei memorabili e tremendi giorni, quando da Milano, dal Palazzo di Giustizia rotolò giù l’inchiesta che scosse violentemente il Paese, lasciandolo traballante e con crepe ancora piuttosto profonde.

Prendo la vecchia agendina telefonica e cerco alla lettera “D”: trovo due numeri fissi e un cellulare. È ancora buono. Al terzo squillo, risponde una voce pastosa, forte, inconfondibile, e come sempre gentile. Saluti di cortesia (per i cronisti, prima nella stagione da magistrato, poi in quella di politico, andarlo a trovare nella sua masseria era una gita classica, che i giornali ti costringevano a fare almeno un paio di volte l’anno).

Di Pietro va subito al sodo: «Guardi, so già cosa sta per chiedermi. Ma la mia risposta è: no. E sa perché? Perché io ho deciso di sparire. Voglio farmi dimenticare. Di Pietro, quel Di Pietro, non esiste più». 

Così, netto. Allora ci salutiamo, mi stia bene, buona fortuna, e io intanto me lo immagino con una camicia a quadri e un maglione un po’ slabbrato, le scarpe grosse da contadino e la barba un filo lunga: lo vedo in piedi dietro al cancello, dove lo lasciai l’ultima volta, lungo la strada per Palata.

Una siepe curata e i suoi tremila ulivi, i vigneti sulle colline basse, il rumore lontano di un trattore. Laggiù, la terrazza che ha trasformato in veranda, diventata il suo ufficio: un po’ contadino e un po’ avvocato, di nuovo avvocato, dopo essere stato emigrante (a 21 anni, per andare a fare il metalmeccanico a Bohmenkirch, in Germania), commissario di polizia, magistrato leggendario, deputato, senatore, due volte ministro (nel Prodi 1 e nel Prodi 2), fondatore dell’Italia dei Valori e parlamentare europeo (più una mezza intenzione di candidarsi a sindaco di Milano nel 2016 e il corteggiamento di qualche grillino ribelle, a caccia di un leader credibile). Quante cose, in questi primi 71 anni, caro Di Pietro. E che progetto gigantesco: farsi dimenticare. Ma davvero pensa di riuscirci?

Pietro Senaldi: "Di Pietro, Colombo e Davigo? Che brutta fine che ha fatto il trio di Mani Pulite". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022. 

Anniversario di Mani Pulite: Pietro Senaldi, condirettore di Libero, lo ricorda parlando nel suo video editoriale della fine che hanno fatto i tre eroi di allora. "Gherardo Colombo", inzia Senaldi, "il migliore di tutti gira da 15 anni in Italia dicendo che le carceri vanno abolite e che Mani Pulite non avrebbero mai dovuto risolversi in un processo perché era un'impresa titanica e si sapeva da subito che non si sarebbe andati da nessuna parte. Secondo lui dovevano semplicemente fare una sorta di amnistia che allontanasse chi aveva preso soldi dalla politica per qualche anno, salvo poi ritornare. Quindi", puntualizza il direttore, "da pm a testimonial dell'inutilità delle carceri". Senaldi prosegue con Antonio Di Pietro: "Sappiamo tutti che ha lasciato la toga in circostanze misteriose dopo che lo hanno accusato di tutto; ha fondato un partito che, non per colpa sua, m di fatto, si è dimostrato un comitato d'affari e quindi si è sciolto come neve al sole". "Ricordiamo nel partito", insiste il direttore, "oltre lui solo Razzi e Scilipoti. Di altri nessuno si ricorda. Partito tra l'altro coinvolto anche da uno scandalo immobiliare Adesso Di Pietro è sul suo trattore, fa l'avvocato di ignoti clienti". Senaldi racconta poi di Piercamillo Davigo. "È quello che ha fatto più carriera di tutti: è stato membro del Csm e adesso è indagato. È accusato", spiega il direttore, "dalla maggioranza dei suoi ex colleghi. Quando era magistrato ha subìto 36 contestazioni e le ha vinte tutte. Da non magistrato è diventato un imputato al quale non facciamo i migliori auguri". Conclude Senaldi: "Questo dice tutto di cosa è stata Mani Pulite".

I girotondi dei missini, il cappio in Parlamento della Lega, le “lezioni” del Pds. Come è potuto accadere? Il ricordo di Riccardo Nencini su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Giugno 1992, un ricordo nitido: i consiglieri comunali fiorentini del Msi in girotondo attorno alla federazione provinciale socialista di Firenze. Urlano: “Ladri”. Giorni dopo, socialisti additati dal Pds come esempio di corruzione, mentre la Lega mostra il cappio dell’impiccato a Montecitorio e le tv di Berlusconi imperversano di fronte al palazzo di giustizia di Milano.

Una tenaglia politico-mediatica alimentata dalla magistratura e un’ondata populista che si abbatte con veemenza soprattutto sui socialisti, rei di aver snaturato il loro dna (parole di Berlinguer) per cavalcare il sogno di un’Italia nuova, dinamica, che la cultura comunista proprio non riesce a incrociare. Lo slogan è semplice, tanto efficace quanto falso come bisante: la politica è malata, la società è sana. Conseguenze: chi imbraccia la questione morale è pulito, tutti gli altri appestati.

Attenzione. Non era una novità per nessuno che i partiti fossero finanziati anche illecitamente e che vi fossero politici che dell’arricchimento personale avevano fatto la loro bussola. Tutto vero. Il punto è che, da un certo momento in poi, ciò che era stato tollerato viene perseguito. Qual è quel certo momento? L’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e il contestuale crollo del muro di Berlino. Le politiche di spesa vengono imbrigliate nelle regole ferree del Trattato, c’è un trasferimento di sovranità verso Bruxelles; il ruolo geopolitico dell’Italia cambia, si immiserisce, la presenza del più grande partito comunista d’Occidente non è più un pericolo ora che l’Urss è alle corde.

Di nuovo attenzione: non è che di scandali non ce ne fossero stati in passato, non è che fossero ignote le fonti sovietiche di finanziamento al Pci, non è che le grandi società di Stato evitassero di invitare a pranzo i tesorieri di tutti i partiti. Se vi annoiano i documenti, leggete almeno “Il tesoriere”, il bel romanzo di Gianluca Calvosa edito da Mondadori. La differenza è che la classe politica aveva reagito compatta, si era ribellata alla gogna. Tutta la classe politica. Quando Aldo Moro era intervenuto alla Camera (1977) dichiarando che la Dc non si sarebbe fatta processare (scandalo Lockheed), il Pci era rimasto in silenzio, protagonista com’era del governo Andreotti. Aggiungo che l’ombrello americano proteggeva ancora il sistema politico.

Veniamo al dunque. Con i primi anni Novanta la storia si avvita, la presunzione di innocenza si rovescia in presunzione di colpevolezza, si annuncia la rivoluzione ora che il mondo è cambiato. A morte i partiti, ma non tutti i partiti. Tuttavia, poiché “le rivoluzioni sono tristi” (Dahrendorf) e tradiscono i sogni, la generazione sessantottina allocata tra stampa e magistratura che invoca la tempesta perfetta sui partiti sacrileghi s’imbatte nell’uomo di Arcore. Storia nota, storia recente. La novità è che oggi conosciamo anche i numeri del lavoro svolto da Mani Pulite: condannato solo il 54% degli indagati.

Gli effetti: privatizzazioni selvagge, personalizzazione della politica, rottura degli equilibri costituzionali, fine del garantismo. Non sono ingenuo. Molti di questi fattori si sarebbero presentati comunque, figli di profondi cambiamenti sociali e della globalizzazione. C’è un però. In Italia sono calati come una mannaia, altrove, pur in presenza di altrettante tangentopoli (Khol sotto inchiesta in Germania, Gonzales in Spagna, uomini di Mitterrand in Francia), gli effetti sono stati più contenuti, la democrazia parlamentare ha retto senza offrire il fianco all’antipolitica.

Un’ultima domanda: perché Craxi capro espiatorio? Le tesi si rincorrono. Sigonella, Israele, complotti. Che Di Pietro frequentasse il consolato americano a Milano è un fatto accertato, e nei documenti leggi anche dell’altro e non era il the delle cinque. Ma io vedo di più. Condannato per una colpa politica. L’aver rappresentato un’eresia, il riformismo del socialismo umanitario, una minoranza invisa sia alla cultura comunista che a quella cattolica dominanti in Italia, l’aver rotto una consuetudine consociativa, l’aver difeso economia di mercato e stato sociale in un paese dove il profitto viene considerato peccato. Questo, non perché i socialisti fossero più malandrini di altri.

L’oggi è sintetizzato nelle parole di Gherardo Colombo, uno dei protagonisti del pool: “Sono finite le indagini ma non la corruzione. La sfiducia cresce, il tessuto sociale è liso, logoro, consumato”. Nutrita dallo scontro “buoni contro cattivi” la Seconda Repubblica è nata defunta. Servirebbe normalità, la normalità di un paese civile.

Sembra ieri, ma è oggi. Come uscire da questi trent’anni di Tangentopulismo. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 17 febbraio 2022.

Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori

A un diciottenne di oggi, le decine di articoli che da giorni riempiono le pagine dei quotidiani per il trentennale di Mani Pulite devono fare l’effetto che ai diciottenni del 1992 avrebbero fatto altrettante pagine dedicate alla nazionalizzazione dell’energia elettrica o alla riforma della scuola media, alla nascita del quarto governo Fanfani o all’elezione di Antonio Segni al Quirinale. Un conto è il dovere della memoria e anche il gusto per le ricorrenze, un altro è l’ossessione.

Forse però non è proprio così. Forse sarebbe più esatto dire che ai diciottenni di oggi dovrebbero fare quell’effetto, trattandosi di vicende di trent’anni fa, se solo da trent’anni in qua gli eventi avessero seguito il loro corso naturale (diciamo pure un corso qualsiasi, invece di ristagnare in questa enorme pozzanghera da cui non riusciamo a uscire). La differenza, infatti, è che mentre i principali fatti politici del 1962 erano a tutti gli effetti, per un ragazzo dei primi anni novanta, materiale per musei e libri di storia, lo stesso proprio non si può dire, oggi, per Mani Pulite, per lo scontro tra politica e magistratura, per le polemiche su questione morale e stato di diritto, giustizialismo e garantismo.

Basta accendere la televisione per trovarci, quasi ogni giorno, Piercamillo Davigo intento a concionare su questi argomenti, accompagnato da numerosi colleghi (tanto quelli ancora in servizio quanto quelli nel frattempo diventati ministri, parlamentari e capi partito), sempre attorniati da uno stuolo di giornalisti amici, ma forse bisognerebbe dire compagni d’arme, perché è in quella stagione, nel fuoco della battaglia di trent’anni fa, che si sono saldate relazioni e solidarietà indistruttibili. Lo spettacolo è sempre lo stesso, gli stessi i protagonisti, lo stesso persino il lessico. Ieri, oggi e domani.

Sin dai primi anni novanta, si è pensato che riforme elettorali e istituzionali avrebbero chiuso quella fase drammatica dando vita a un nuovo sistema, fondato sulla legittimazione reciproca tra gli schieramenti in un quadro di regole condivise. Sfortunatamente, abbiamo avuto invece il tentativo di entrambi i poli di scriversi le regole a proprio vantaggio, in un contesto di delegittimazione reciproca sempre più violento, che ha prodotto di conseguenza l’esplosione del populismo e dell’antipolitica, a destra e a sinistra.

Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante. Trent’anni di tangentopulismo, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori.

Le elezioni del 2018 sono state, c’è da augurarsi, il punto più estremo di una simile deriva, cominciata con Mani Pulite, o per meglio dire con l’illusione che i magistrati non dovessero limitarsi a mettere in galera i corrotti (possibilmente dopo un regolare processo e non prima), cioè accertare precise e ben determinate responsabilità penali di ben precisi e determinati individui, ma potessero guidare l’abbattimento di un «sistema» e addirittura decidere le caratteristiche del nuovo, conservando una sorta di perpetuo potere di «moral suasion», diciamo così, sulla politica.

Ma anche per smontare una simile alterazione del nostro dibattito pubblico e della stessa divisione dei poteri è necessario ricostruire un sistema politico realmente pluralistico, non ingabbiato nella logica della coalizioni pre-elettorali. Altrimenti, per non stare coi farabutti, anche i riformisti più ragionevoli finiranno sempre per schierarsi con i mozzorecchi, e al tempo stesso anche i liberali meglio intenzionati, per non stare con i mozzorecchi, finiranno sempre per schierarsi coi farabutti. E non ne usciremo mai.

L’Altra Opinione. La stagione di Tangentopoli, cosa ne rimane 30 anni dopo. Sonia Modi su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.

La storia di una strana rivoluzione nostrale, breve, intensa, travolgente e controversa 

C’era una volta un Paese democratico nel quale i partiti erano arroccati al potere fin dai primi passi della Repubblica; c’era una volta un Paese schiacciato tra due blocchi – quello del “mondo del bene”, cioè gli USA, e quello del “mondo del male”, ovvero il blocco comunista dominato dall’URSS – nel quale circolava uno strano  virus chiamato “corruzione”, un virus ineluttabile che sembrava anche  inestirpabile e refrattario a qualsiasi tipo di vaccino; c’era una volta un Paese nel quale un giorno tutto ciò che pareva durare in eterno sembrò cambiare definitivamente; quel giorno era il 17 febbraio 1992 e quel Paese era l’Italia.

Ai più giovani sembrerà strano, eppure il nostro Paese ha conosciuto un’inedita stagione, travolgente e rivoluzionaria, appassionante e controversa, in cui i grandi partiti politici, assieme ai loro leader incontrastati e ai potenti manager dei maggiori gruppi imprenditoriali italiani, furono repentinamente spazzati via dal vento del cambiamento. In quegli stessi giorni la stampa internazionale raccontava questa storia descrivendola come un’epopea che avrebbe portato l’Italia finalmente in Europa.

Questa che vi sto raccontando è la storia di “Tangentopoli”, la storia curiosa del nostro Paese improvvisamente innamorato della legalità. Quella lontana fase del Paese è la stagione delle “Procure d’assalto”. L’infatuazione degli italiani, va detto, è durata molto poco. Il suono del tintinnio delle manette ci ha accompagnato esattamente per due anni, dal febbraio 1992 a fine 1993, dopodiché tutti hanno cominciato a pensare che l’Italia fosse cambiata, finalmente liberata dal fenomeno della corruzione.

Questa, come vi ho già detto, è la storia di una rivoluzione, e come in tutte le rivoluzioni, ad un certo punto, repentinamente, tutto cambia. Cambia almeno fino alla restaurazione, quando tutto, anche se con forme diverse, torna più o meno come prima.

E come in tutte le rivoluzioni, sempre piene di contraddizioni e misteri, anche in questa ci sono i carnefici e le vittime, gli eroi e i potenti da decapitare, i morti e i sopravvissuti. Gli eroi sono gli inquirenti, mentre i potenti che ci rimettono la testa sono i politici e gli imprenditori. I morti sono i tanti che, per vergogna o perché sentendosi innocenti si vedono già condannati dall’opinione pubblica, decidono di non affrontare l’ondata del cambiamento e si tolgono la vita. I sopravvissuti sono i tanti che, anche in questa strana rivoluzione nostrale, riescono a riciclarsi nella “Nuova” era.

Ma ritorniamo al 17 febbraio 1992. Tutto inizia in un pomeriggio di un lunedì, un lunedì qualsiasi. Tutto parte da un ospizio per anziani, il più grande istituto di ricovero per vecchi indigenti della città più frenetica di Italia: Milano. E nella città dove tutti lavorano, sempre, passa inosservata una notizia: l’ennesima tangente versata da un anonimo piccolo  imprenditore ad uno sconosciuto amministratore locale.

Un piccolo caso di ordinaria corruzione, dunque. E tuttavia, quella notizia di piccola cronaca cittadina si rivelerà come il minuscolo sassolino che pian piano cresce e si trasforma in una terribile valanga.

Eppure di strani affari si vocifera da anni.  E che questo accada soprattutto a Milano, nella Milano degli anni ottanta, nella “Milano da bere”, in quel lontano 1992 non meraviglia proprio nessuno. E tuttavia, alla fine il fenomeno apparirà di dimensioni gigantesche, al di là delle più catastrofiche previsioni degli stessi inquirenti.

Quel sassolino che prenderà poi la forma di valanga si chiama Mario Chiesa, ingegnere, socialista e presidente, appunto, dell’ospizio Pio Albergo Trivulzio. Per cinque settimane questo amministratore rimane sulle sue, tace e rimane tranquillo in carcere. Dalla sua cella, ovviamente, è in grado di venire a sapere tutto ciò che su di lui viene detto fuori dal carcere: il partito e i compagni che prendono le distanze da lui e dai fatti contestategli, nonché le voci sugli imprenditori pronti a parlare e a coinvolgerlo. Insomma, si sente messo in un angolo, lasciato solo e abbandonato al suo destino.

Così quel “Mariouolo” – definito in tal modo dal Segretario del PSI, Bettino Craxi – per non sentirsi più solo prende la decisione di chiamare in causa gli altri mariuoli, vuotando il sacco su tutto ciò di cui è a conoscenza, lavandosi la coscienza e coinvolgendo chi doveva essere coinvolto, magari anche contando – chissà – su di un minimo di riconoscenza da parte di quei pubblici ministeri ai quali stava per regalare momenti di gloria.

I sodali, a loro volta, per paura di andare a San Vittore a fare compagnia al primo sassolino, adotteranno lo stesso comportamento e “spintaneamente”, come diranno in seguito gli inquirenti, affolleranno i corridoi della Procura di Milano per confessare.

Evidentemente, in quei freddi giorni di febbraio, i grandi esponenti politici dovevano essere in più importanti faccende affaccendati per non accorgersi dell’onda anomala appena partita da Milano che da lì a poco li avrebbe travolti.

Di lì a breve però, questo meccanismo esponenziale porta i penitenti a confessare il meccanismo di finanziamento illecito dei partiti e gli arricchimenti personali. Il risultato sarà, come in una reazione a catena, una valanga di denunce, ammissioni e chiamate in correità. In questo prematuro “Grande Fratello” giudiziario, tutto – arresti, confessioni, condanne, suicidi – diventa uno show.

In poche settimane, con un effetto domino, questa bizzarra sorta di confessione collettiva travolge tutto e tutti: potenti, partiti e aziende. Il culmine sarà raggiunto con la “maxi tangente” di 150 miliardi di lire. Sarà definita, e non a torto, la madre di tutte le tangenti. Risulterà essere versata dalla Montedison di Raul Gardini a favore di tutti i partiti. Sarà corrisposta per favorire la spregiudicata fusione con l’Eni, multinazionale di controllo nazionale.

Sotto processo però è principalmente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Quest’ultimo, alla fine, lascerà Roma e Milano per rifugiarsi ad Hammamet. Esule o latitante lo si consideri, il vecchio “Cinghialone” resterà in Tunisia fino alla sua morte. Nei suoi ultimi anni di vita l’ex presidente del Consiglio appare sicuramente stanco e malato, l’ombra del grande leader socialista che fu un tempo. La sua scelta di vivere lontano dall’Italia, ingenererà in molti italiani e nel mondo intero il dubbio che, nel nostro Paese, gli scontri politici si risolvono non nelle sedi istituzionali bensì attraverso l’azione della magistratura e insinuerà in molti il sospetto del “golpe giudiziario”.

Anche il suo diretto rivale Antonio Di Pietro, il protagonista assoluto di questa stagione, lasciando la magistratura prematuramente e, soprattutto, abbandonando l’inchiesta che lo ha reso popolare per gettarsi e rifugiarsi nella politica, non ne esce assolto. Alimentando il mito dell’inchiesta di “Mani Pulite mutilata” farà crescere il populismo e il malcontento nel Paese che proseguirà fino ai nostri giorni.

Orbene, comunque si voglia leggere questa lontana storia ormai sbiadita, resta il fatto che alla fine del 1993 quasi tutti i partiti storici saranno spazzati via, prima dalle inchieste giudiziarie e poi dalle elezioni.

A conclusione di questo biennio gli italiani penseranno che l’Italia sia cambiata davvero e che da quel momento la legge sarebbe stata uguale per tutti. Si comincia a parlare di “Seconda Repubblica”, di un sistema elettorale diverso e di partiti e leader nuovi.

Mentre l’Italia si perde dietro a queste illusioni non si accorge che i benefici effetti del cambiamento sono già svaniti e hanno lasciato velocemente il posto alle vecchie abitudini.

Dalle macerie della vecchia “Prima Repubblica” nasce un modo di fare politica “nuovo” solamente di nome, ma di fatto figlio di quello passato che era stato appena sepolto. La somiglianza genetica la si ravvisa principalmente nella corruzione che non è affatto scomparsa ma piuttosto si è mimetizzata, ha cambiato vesti, si è “polverizzata” – così è stato raccontato – in micro corruzione e comunque rimane sempre presente in ogni istituzione.

La novità invece è rappresentata dal nuovo nemico, la magistratura definita “politicizzata”, responsabile di aver sconfinato dal proprio ambito istituzionale e di aver compromesso gravemente il fragile equilibrio politico-economico che aveva finora tenuto in piedi il Paese.

Dalle ceneri di quell’era cupa della democrazia italiana nasce, dunque, solo questo, non un profondo cambiamento della politica e della società.

Così a trent’anni di distanza da quel 17 febbraio 1992, “Mani Pulite” appare non più tanto il nome di un’indagine che ha fatto storia, quanto la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, fatta da una politica mediatica, priva di principi e di ideali, ma infiocchettata da slogan, una nuova epoca caratterizzata da un perdurante scontro tra poteri dello Stato. Un lungo e costante conflitto tra politica e magistratura, dunque, che diviene cronaca anche di questi giorni; ma questa è un’altra storia…

Mani Pulite 30 anni dopo, Cusani: "Ho un primato, sono l'unico pregiudicato condannato in quest'aula".  Edoardo Bianchi su La Repubblica il 17 Febbraio 2022.

"Sono assolutamente certo di avere oggi un primato in quest'aula: essere l'unico pregiudicato condannato". Inizia così il discorso di Sergio Cusani, condannato per la maxitangente Enimont, durante l’incontro dal titolo "Mani pulite 30 anni dopo  - Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli" organizzata dall’Associazione Nazionale Magistrati di Milano (ANM) presso l'aula magna del Palazzo di Giustizia in occasione dei 30 anni dall'inizio di Mani Pulite, ovvero dall'arresto d Mario Chiesa. "Ho commesso la colpa e non ho cercato il perdono, in quanto io stesso non mi perdonerò mai per gli errori commessi", ha aggiunto Cusani, ammettendo successivamente di aver provato un coinvolgimento forte ed emotivo nel ritornare in tribunale: "Non venivo in questo palazzo da tantissimi anni. E un po' come tornare a trent'anni fa". "So che quando sarà, me ne andrò con un pesante fardello. Per quanto in cuor mio mi renda assolutamente conto di aver commesso errori di sistema, quegli errori portano la mia firma individuale. E' una responsabilità personale che non può essere in alcun modo sottaciuta", ha concluso Cusani.  

L’Anm celebra mani pulite senza nessun “mea culpa…” L’evento si è svolto ieri presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 febbraio 2022.

Non poteva mancare, nel luogo del “delitto” e, soprattutto, nel giorno del trentennale dell’inchiesta che cambiò la storia del Paese, un convegno per ricordare cosa fu Mani pulite a Milano. Organizzato dalla locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati, l’evento si è svolto giovedì presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo o Sergio Cusani, l’imputato eccellente del processo per la maxi tangente Enimont. Fra i relatori, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il professore Giovanni Fiandaca, l’ex componente del Csm e giudice costituzionale Gaetano Silvestri, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano Vinicio Nardo. Tre le sessioni trent’anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: “Poteri e magistratura prima di Mani pulite”, “Mani pulite la parola ai testimoni”, “Mani pulite un bilancio”.

Una premessa: chi si aspettava un serio mea culpa sulle decine di persone che si sono tolte la vita perchè finite nel tritacarne giudiziario o sull’abuso della custodia cautelare da parte di magistrati, sarà rimasto sicuramente deluso. I lavori del convegno non hanno approfondito, come forse sarebbe stato opportuno, tali aspetti. «Prima le indagini non decollavano», hanno esordito ii relatori, cercando di spiegare perché una «banale inchiesta giudiziaria» si sia poi trasformata in un fenomeno epocale. L’antefatto è sempre lo stesso: la svolta milanese nelle indagini per corruzione che segnò un cambio di passo rispetto a quanto accadeva nelle palude romana che metteva su un binario morto tutti i procedimenti nei confronti dei “potenti”. Tesi da prendere con le molle. Le regole del gioco erano diverse. Ad esempio, si potevano riprendere le persone con le manette ai polsi. Ed il nuovo codice di procedura penale, con il grande potere dato ai pubblici ministeri, fece da volano all’inchiesta.

Fu con Mani pulite che l’avviso di garanzia divenne un marchio d’infamia. La degenerazione dei partiti agli inizi degli anni Novanta non era una novità. Da tempo «la gente aveva la percezione che qualcosa non stesse funzionando», ha ricordato Benedetta Tobagi. L’inchiesta, è stato sottolineato, venne raccontata da giornalisti giovani, senza esperienza ma volenterosi, che sposarono ciecamente le tesi dei pm, mitizzando così le loro figure, come quella di Antonio Di Pietro, trasformato in un eroe nazionale. Significativa, come nelle attese, la testimonianza di Cusani. «Non voglio minimizzare il danno della pratica tangentizia», ha esordito l’ex manager, ma quello che è successo dopo gli arresti non ha certamente raggiunto lo scopo, dal momento che la corruzione c’è ancora. «Mi hanno cambiato 16 volte i capi d’imputazione in un processo che doveva durare tre giorni ed invece è durato mesi», ha aggiunto Cusani, ricordando la storia di Enimont e le tante “novità”, come la diretta televisiva del processo, martellante, che accompagnava le giornate degli italiani, esponendo al pubblico ludibrio i politici dell’epoca.

Significativo il passaggio in cui Cusani ha evidenziato come lo Stato non volesse lasciare la chimica ad un privato: «Era interesse pubblico mantenere il controllo di un grande comparto industriale». Come poi ricordato dall’avvocato Nardo, i processi di Mani pulite furono caratterizzati da «poca pena» e da tantissimi patteggiamenti. Un meccanismo che permetteva agli inquirenti di andare avanti. Oggi è tutto cambiato. Le pene per questi reati sono aumentate in maniera esponenziale e la corruzione è stata equiparata ai reati per mafia. Ad essere sempre uguali le tante storture del processo penale, l’appiattimento dei gip sul pm, il ruolo dell’avvocato difensore che non è più “accompagnatore” dell’indagato davanti ai magistrati, ma fatica comunque a ritagliarsi il suo spazio. Da parte di Santalucia, infine, un accenno alla crisi attuale della magistratura, con livelli oggi di consenso presso l’opinione pubblica ben diversi rispetto a trenta anni fa.

I pm processarono un sistema politico, ma spesso i giudici ebbero la forza di dire no. La politica ha il diritto di capire le ragioni di questa anomalia. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Le indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “mani pulite” sono iniziate trent’anni fa e da quella data si attende una riforma della giustizia che metta ordine nel rapporto tra la politica e la magistratura e adegui l’ordinamento giudiziario alle nuove esigenze e al nuovo ruolo che il magistrato deve assumere nella società. Il governo a distanza di tanti anni presenta una riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM molto timida e incerta che può essere solo considerata una bozza per far lavorare il Parlamento. È strano che il Presidente Draghi e la ministra Cartabia non abbiano avuto più coraggio per rendere moderno il sistema giudiziario e non abbiano tenuto conto della sovraesposizione del giudiziario che determina uno squilibrio istituzionale dannoso per la democrazia, proponendo una riforma che potesse incidere sul ruolo da attribuire alla magistratura coerente con la Carta Costituzionale.

Draghi ha di fatto confessato che non poteva fare di più e ha sfidato il Parlamento a trovare un’intesa più larga promettendo di non ricorrere al voto di fiducia.

Si è parlato tanto in questi mesi della prevalenza delle decisioni del Governo che non lasciano libero il Parlamento per le molteplici questioni della pandemia; dobbiamo riconoscere che in questo caso il Parlamento ha la possibilità di dimostrare la sua autonomia e la sua capacità di trovare punti di incontro tra i gruppi parlamentari.

È una occasione preziosa e forse unica per fare una riforma che riaffermi la prevalenza del potere legislativo sull’ “ordine giudiziario“ così come statuito dalla Costituzione.

La proposta del Governo è dunque parziale e quindi suscettibile di approfondimenti.

Avremo modo di intervenire sulle singole norme e dare suggerimenti; qui ci limitiamo a dire che la riforma elettorale per le elezioni dei componenti del CSM lungi da scoraggiare la invadenza delle correnti ne accentua le caratteristiche negative. Sì è riportato nell’ambito della magistratura lo schema della legge cosiddetta “mattarellum” utilizzata per le elezioni del Parlamento, una legge maggioritaria e un po’ proporzionale che tanti danni ha procurato alla politica e alla “rappresentanza” e che creerebbe danni all’organo di autogoverno, incrementando il potere delle correnti più organizzate.

Se i quattordici consiglieri saranno eletti con il sistema maggioritario con collegi binominali è evidente che la corrente più consistente verrà premiata anche se le candidature non avranno bisogno di firme di presentazione e quindi possono essere personali e proprio per questo subordinate a gruppi di pressione organizzati. Il personalismo è dannoso in politica e in ogni consultazione elettorale perché elimina qualunque riferimento ideologico e culturale, estremizza le posizioni e alimenta le clientele Invece anche per il CSM il sistema elettorale proporzionale renderebbe più trasparente le contrapposizioni tra le liste diverse che fanno riferimento a contenuti a programmi, a idee collegiali. Questo è l’unico sistema che potrebbe eliminare la degenerazione delle correnti.

Naturalmente l’ipotesi, che pur viene proposta, del sorteggio tra i magistrati per accedere al CSM è perversa e inaccettabile: ho sempre ritenuto questa una proposta vigliacca perché elimina la responsabilità della scelta e naturalmente offende la Costituzione.

Dunque finalmente il Parlamento ha la possibilità, alla fine della legislatura di poter qualificare le sue scelte perché è davvero arrivato il momento di affrontare alcune questioni che sono fondamentali e pregiudiziali per porre rimedio ad una crisi che investe il modo di fare giustizia da parte di chi, per tutti gli eventi che sono venuti alla luce, non ha una legittimazione adeguata per essere considerato al di sopra delle parti.

Per tutto quello che è stato evidenziato le disfunzioni della magistratura hanno inciso e incidono nelle decisioni giurisdizionali, mettendo in dubbio la sua tenuta morale e, il cittadino ha capito che i nemici del “indipendenza“ non sono i politici o i contestatori di turno ma gli stessi magistrati.

È per riconquistare la fiducia dei cittadini che gli stessi magistrati dovrebbero chiedere riforme adeguate. Dobbiamo constatare che la magistratura ha assunto un ruolo politico anomalo non in linea con la Costituzione configurando una Repubblica giudiziaria che ha messo in discussione l’autonomia della Repubblica parlamentare e la separazione dei poteri.

L’espansione del potere giudiziario ha di conseguenza acuito la crisi del potere legislativo che ha perduto credibilità anche per aver esso stesso dato per legge una delega ampia al giudice di decidere le controversie sociali e quindi di incidere politicamente.

Gli accadimenti politici e giudiziari dagli anni 90 in poi, cioè dalle indagini di “Tangentopoli” che hanno colpito i partiti e tanti rappresentanti politici, hanno aggravato questo contrasto istituzionale e hanno determinato uno squilibrio tra i poteri dello Stato, hanno avvilito le istituzioni considerate dai più ostili e corrotte.

Le indagini di “mani pulite” sono finite con la assoluzione degli imputati in una alta percentuale con motivazioni a volte molto severe da parte dei giudici nei riguardi dei pubblici ministeri; le loro indagini non hanno costituito prova per una possibile condanna! Anche le indagini per “mafiopoli” sono state considerate fasulle, e hanno sancito la sconfitta dei pubblici ministeri ridando prestigio allo Stato e ai rappresentanti dello Stato.

Dobbiamo prendere atto oggi che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico per cui il Pool “mani pulite” di Milano considerato rigeneratore di uno Stato etico e della legalità, ha operato una rivoluzione giudiziaria fasulla e dissacrante.

La maggior parte delle decisioni giurisdizionali hanno cancellato la pretesa dei magistrati inquirenti di accreditare una storia falsa per screditare i partiti politici e l’apparato dello Stato.

La sentenza ha il valore giuridico di verità processuale, in base a fatti accertasti senza la pretesa di ricostruire una storia generale.

A questo punto la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?!

La classe dirigente che ha governato il Paese fino agli anni 90 deve pretendere una risposta perché a distanza di tanti anni è possibile fare un’analisi non in contrapposizione ai magistrati ma insieme a loro e alla Associazione che li rappresenta coinvolgendoli sulla necessità di una comune rivoluzione culturale.

L’associazione Nazionale magistrati il 17 prossimo organizza un convegno a Milano per ricordare quelle indagini con la partecipazione di uno dei principali imputati di quel periodo Cusani. Bisognerà capire se si tratta di una celebrazione per esaltare o per criticare il metodo che soprattutto la procura di Milano ha adottato con la partecipazione costante singolare del giudice Ghitti.

L’Associazione ha sempre ritenuto che le indagini di “mani pulite” fossero normali, fatte secondo le regole del codice e ora invece individua un potere della magistratura di prima e di dopo tangentopoli. Avremo modo di valutare Intanto gli avvocati, gli uomini di cultura e i politici e i giornalisti si confronteranno in un convegno a Roma il 23 febbraio sul significato che quell’indagine ha avuto per tracciare una storia vera o per indicare quella immaginata dai magistrati.

Gherardo Colombo che faceva parte di quel gruppo milanese di sostituti procuratori ha ripetuto in una trasmissione televisiva con molta forza che il “sistema” finanziamento pubblico dei partiti e corruzione è stata una scoperta importante e decisiva, e questo è il merito di quelle indagini.

Io dico da tanti anni che è stato indagato appunto il “sistema“ e non i singoli fatti, i singoli imputati, e questa è la patologia che dovremmo tutti insieme riconoscere.

Luigi Ferraioli dice che il processo penale può diventare “storia di errori” e il diritto penale “storia di orrori”.

Dobbiamo verificare questo perché a distanza di trent’anni il giudizio può avere valore storico.

Bobo Craxi e Gherardo Colombo, scontro in tv sulla P2. Il Tempo il 17 febbraio 2022.

Scontro totale negli studi di Porta a Porta tra Bobo Craxi e Gherardo Colombo. Si parla del sistema di corruzione nella Prima Repubblica e Bobo Craxi descrive il funzionamento dell'apparato corruttivo. "Il sistema politico si finanziava illegalmente - ha spiegato Bobo Craxi negli studi di Vespa - Tutti i partiti della Prima Repubblica si finanziavano illegalmente. Tutto questo era tollerato con la compiacenza della magistratura che faceva parte integrante del regime. O i giudici voltavano la faccia dall'altra parte o avrebbero dovuto cambiare mestiere". 

A questo punto viene chiamato in causa Gherardo Colombo che conferma la compiacenza della magistratura fino al 1992: "E' indubbio che la magistratura chiudeva un occhio - conferma Colombo - Fino al 1992 non è stato possibile aprire un cassetto del potere. A me sono successe due occasioni personalmente per scoprire il sistema della corruzione. Diventa anche spiacevole dirlo ma il nome di tuo papà l'ho trovato per la prima volta nelle carte della P2. Comunque non ho detto che stava nella P2".     

Bobo Craxi non ci sta e replica stizzito per correggere subito Colombo: "Non fare così sulla P2 - sbotta Bobo Craxi - Non devi guardare me perdonami. Non puoi venire in tv a dire che mio padre stava nella P2. Ogni riferimento è fastidioso. Ci ascoltano milioni di italiani e i disastri li avete già combinati. Ci sono carte e libri che dicono che voi, invece, eravate legati a servizi stranieri. Il riferimento alla P2 è fastidioso".     

"Le monetine su Craxi? Nessuna ipocrisia se adesso le critico". Francesco Boezi il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex pm: "Dalla cittadinanza comportamenti scorretti. Non volevamo fare la rivoluzione".

Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite, si chiede il perché delle «domande al plurale» ma è chiaro come quella fase storica italiana abbia avuto per protagonista anche un certo modo d'intendere i rapporti tra giustizia e politica. «Possibile - annota - che abbiamo commesso errori». E che «cambiare idea», in fin dei conti, non è ipocrita.

Dottor Colombo, lei ha detto che la scena delle monetine su Craxi le fece un effetto negativo. Qualcuno, però, ritiene che sia ipocrita dolersi oggi.

«Credo di aver detto e scritto più volte che sono stati tenuti comportamenti scorretti da parte della cittadinanza seppur non riferendomi nello specifico alle monetine. Ma non è questo il punto. Vuole dire che se non l'ho detto allora non potrei dirlo oggi? Credo di averlo detto e scritto, e sicuramente lo pensavo, ma mettiamo che non l'avessi pensato, non potrei aver cambiato idea? È ipocrita cambiare idea?».

Lei forse non voleva fare la rivoluzione. L'impressione è che nel pool ci fosse chi voleva farla eccome.

«Nessuno di noi voleva fare la rivoluzione. Solo accertare i fatti corruttivi - e le relative responsabilità - che purtroppo erano gravi e molto diffusi. C'era certo una forte richiesta di cambiamento che veniva dalla cittadinanza e che era alimentata dai media, le tv che mettevano in pianta stabile giornalisti davanti al palazzo di giustizia a raccontare le malefatte di chi veniva coinvolto nelle indagini. Che spesso sbattevano il mostro in prima pagina. E forse hanno impropriamente alimentato anche reazioni emotive di rabbia nella cittadinanza».

Perché Mani pulite ha defenestrato soltanto una parte del sistema partitico italiano?

«Mani pulite non ha defenestrato nessuno. Ha svolto indagini nei confronti di persone in ordine a reati per i quali esistevano elementi per indagare. Queste persone facevano parte di tutti i partiti ad eccezione di Msi e Dp, se ricordo bene. Se si riferisce all'ex Partito comunista le posso fare l'elenco delle persone per le quali abbiamo chiesto al gip, e ottenuto, l'applicazione della misura cautelare in carcere. Abbiamo chiesto anche il rinvio a giudizio di un esponente di particolare rilievo, che il tribunale poi ha assolto. Non ricordo critiche per quel rinvio a giudizio».

I rapporti tra politica e giustizia sono ancora oggetto di discussione. Oggi sembra spirare un vento garantista.

«C'è indubbiamente un vento garantista e ne sono davvero contento. Mi dispiace che riguardi soprattutto alcune categorie (sembrano esclusi i ladri e i piccoli spacciatori). C'è anche un vento negazionista, che non considero funzionale ad una narrazione storica corretta».

La soluzione politica, ai tempi di Mani pulite, sarebbe stata preferibile a quella giudiziaria?

«Avevo suggerito l'idea che sarebbe uscito dal processo (e non sarebbe quindi andato in carcere) chi avesse raccontato come erano andate le cose, avesse restituito ciò di cui si era appropriato indebitamente, si fosse allontanato per un periodo di tempo ragionevole dalla vita pubblica. Qualcosa di analogo a quel che ha fatto il Sudafrica con la Commissione per la verità e la riconciliazione, fatti i necessari distinguo circa la drammaticità di quel conflitto. Era il luglio del 1992, il suggerimento non è stato neppure preso in considerazione».

Lei no, ma altri suoi colleghi hanno scelto la via della politica. Che ne pensa delle «porte girevoli»?

«Ho da tempo e a più riprese detto di avere una regola: se mi fosse venuto in mente di candidarmi mi sarei dimesso dalla magistratura (e quindi non vi sarei mai rientrato) e avrei lasciato passare un periodo consistente, diciamo due o tre anni, dalle dimissioni alla candidatura. Era la mia regola».

Le è capitato di affermare che «il carcere non risolve». Figurarsi la custodia cautelare.

«Se è per quello ho scritto da oltre 10 anni un libro, Il perdono responsabile, in cui dico che il carcere andrebbe abolito. Sono dell'idea che da un'altra parte (che non è il carcere) ci debba stare soltanto chi è pericoloso (e solo per il tempo in cui è pericoloso), e che questa altra parte debba essere un luogo in cui tutti i suoi diritti che non confliggono con la tutela della collettività siano garantiti e tutelati, che si debba smettere di considerare la pena una retribuzione del male commesso, che sia necessario riparare la vittima per il dolore subito e recuperare alla società chi il male lo ha agito. Ancora le regole non sono cambiate. Allora, e facendo il lavoro che facevo, dovevo rispettarle. E condividevo, peraltro, l'idea che il carcere, per quanto non mi piacesse mandarci le persone, fosse educativo, servisse a prevenire. Cosa che tanti lettori condividono e io non più. Anche per questa ragione mi sono dimesso una quindicina di anni fa. La custodia cautelare non è uno strumento punitivo, ma serve appunto ad evitare il pericolo di inquinamento della prova o la commissione di nuovi reati. Cose che pare vadano bene per i ladri d'auto ma non per i colletti bianchi. Possibile che abbiamo commesso errori, siamo esseri umani, ma personalmente ho sempre cercato di evitarli, e credo altrettanto abbiano fatto i miei colleghi».

Siete consapevoli di aver spinto, a distanza di anni, una parte di questo Paese ad allontanarsi in modo deciso dal giustizialismo?

«Non capisco perché mi rivolge costantemente le domande al plurale. Le ho già detto che apprezzo il garantismo, che non sia negazionismo, di cui ho cercato di essere interprete nei limiti del possibile anche in Mani pulite (così come nelle indagini sulla P2, sui Fondi neri Iri e così via). Però non mi pare che ci sia in giro tanto garantismo se non per i reati dei colletti bianchi. Non mi pare ci sia tanto di nuovo sotto il sole rispetto a quando era vietato aprire i cassetti del potere. Se mi sbaglio sono molto contento».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Mani Pulite, dopo trent'anni i magistrati star si dicono toghe eroiche a loro insaputa. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022

Curioso l'argomento degli influencer in toga, che a trent' anni dall'inizio del teatro di Mani Pulite vengono ora a spiegare di essere stati senza lor colpa trasformati in eroi dai giornalisti. Non che l'argomento sia inedito. Il guaio è che questa loro impassibilità si manifestava nell'eterno esibizionismo delle conferenze stampa, negli ettari di interviste, nelle maratone e nelle piazze pulite della tv consacrante.

E che a quell'argomento ricorrano ora, dopo l'apologetica trentennale che ha fatto del magistrato eponimo la guest star dell'Italia onesta contro quella corrotta, ecco, lascia perplessi. L'altro giorno, sul Corriere, Gherardo Colombo dichiarava che «i media giocarono un ruolo determinante nel trasformarci in "eroi"».

All'intervistatrice, la quale obiettava che forse alcuni si erano prestati alla consacrazione, Colombo ha risposto «neanche tanto»: e a dar forza all'assunto ha raccontato che lui rifiutò di dare al quotidiano Repubblica delle foto da bambino, che avrebbero dovuto guarnire un articolo di Giorgio Bocca. Diciamo che questa, pur encomiabile, ritenutezza non è stata decisiva per fermare il cantiere del monumento al pool. 

Colombo: mai pensato di fare la rivoluzione. Mani Pulite poteva arrivare prima. Diego Motta su Avvenire il 16 febbraio 2022.  

La giustizia è cambiata. Trent’anni dopo lo scoppio di Tangentopoli, la corruzione resta un costume nazionale, la politica rincorre ancora vecchi fantasmi e i magistrati non sono più eroi da prima pagina. «Manca il senso della comunità, dello stare insieme» sottolinea oggi Gherardo Colombo. Figura simbolo di Mani Pulite, da quindici anni ha lasciato la toga ed è diventato una delle voci più ascoltate della società civile, per il suo impegno nelle scuole e nell’associazionismo sui temi della legalità. Dai corsi di formazione con i gesuiti alle battaglie per i migranti, è rimasto in prima linea, pur lontano dai riflettori. Per questo può raccontare adesso cosa è stata quella stagione e cosa occorre cambiare, dai limiti dell’azione penale alla necessità di percorsi nuovi, «che permettano il recupero di chi ha sbagliato», sottolinea Colombo.

Trent’anni dopo Tangentopoli, si tende a parlare di quella inchiesta come di una rivoluzione mancata. Lei stesso ha detto che «Tangentopoli è finita, ma non la corruzione». Quale fu il merito storico di quell’indagine e quali i suoi limiti?

Dal punto di vista storico, perché l’indagine non venisse bloccata sul nascere fu senz’altro decisiva la caduta del Muro di Berlino, perché di fatto segnò anche in Italia la fine del sistema dei blocchi di potere contrapposti. Infatti Mani Pulite poteva scoppiare dieci anni prima, se solo fossero rimaste a Milano le indagini sulla P2 o sui fondi neri dell’Iri, dei quali nessuno più si ricorda. Invece finì tutto a Roma e le relative inchieste evaporarono. Mani Pulite nacque da un episodio solo, quello di un imprenditore che andò dai carabinieri a denunciare un fatto di corruzione. Fu insomma la prima volta che si potè investigare sui reati delle persone che rivestivano posizioni di potere.

E sulla rivoluzione dei giudici?

Non abbiamo mai pensato di farne e non ne abbiamo mai fatte. Il nostro lavoro non consisteva nel cambiare il sistema politico: noi dovevamo semplicemente verificare la responsabilità penale delle singole persone. È quello che prima come giudice, poi come sostituto procuratore e infine ancora come giudice, ho cercato di fare e penso di aver fatto nel mio percorso dentro la magistratura.

Quale fu il vostro rapporto con l’opinione pubblica all’epoca? E con i media? Le strumentalizzazioni legate alle vostre indagini non sono mancate...

Ci sono stati momenti diversi. Sono dell’idea che non sia corrispondente ai valori della nostra Costituzione sbattere il mostro in pagina.

Quali sono i livelli di corruzione presenti oggi nel nostro Paese?

Oggi non esiste più un sistema della corruzione, come invece esisteva allora, intimamente connesso al finanziamento illecito, occulto, dei partiti, che mi pare essere, con quelle modalità, quasi scomparso. A mio parere è diffusa più o meno come un tempo la corruzione non sistematica, quella un po’ anarchica che coinvolge anche cittadini comuni.

È una responsabilità legata ai limiti dell’azione penale in sè o c’è dell’altro?

Io credo che il sistema penale non serva, eventualmente, che ad ottenere obbedienza, mentre la democrazia richiede consapevolezza. Peraltro quando la trasgressione è così sistematica come lo fu ai tempi di Mani Pulite, il sistema penale non è idoneo a marginalizzarla. Occorrerebbe invece lavorare molto sull’educazione, sulla cultura, accompagnare le persone ad osservare le regole perché le condividono, non perché hanno paura della sanzione.

I 15 anni fuori dalla magistratura cosa le hanno dato?

Dopo la mia uscita dalla magistratura ho intrapreso un’attività, soprattutto nelle scuole ma non solo, per aiutare a capire le regole ed arrivare a condividerle, a partire dalla Costituzione. I ragazzi che incontro sono molto disponibili al dialogo e al coinvolgimento, si lavora bene con loro se oltre che a parlare li si ascolta.

Anticipazione da “Oggi” l'11 febbraio 2022.

«Mani pulite? Credo che l’unico effetto di un certo rilievo sia consistito nel separare la corruzione dal finanziamento illecito dei partiti politici, che mi pare adesso non così diffuso come allora». 

Gherardo Colombo, intervistato dal settimanale OGGI, diretto da Carlo Verdelli, a trent’anni da Mani Pulite traccia il bilancio di quella stagione: «L’inchiesta sulla corruzione svolta dalla Procura di Milano, cominciata nel 1992 nel settore degli appalti pubblici, si è conclusa, con i processi, nel 2005, e ha svelato la commissione di migliaia e migliaia di reati».

Ma la sintesi dell’ex giudice del pool è chiara: «Non la magistratura, ma la politica, in senso generale, avrebbe potuto trovare una soluzione». 

È però sulle speranze, gli entusiasmi e il consenso che quelle inchieste sulla corruzione generarono che Colombo fa la considerazione più amara: «Quando è finita Mani Pulite? Quando le prove hanno cominciato a portarci verso la corruzione spicciola, dei cittadini comuni (…) 

Quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per 200 mila lire segnala all’agenzia di pompe funebri un decesso, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: Ma cosa vogliono questi?».

E alla domanda su cosa abbia significato personalmente, quell’impegno, dice: «È stata la conferma finale che l’amministrazione della giustizia non arriva al termine quando riguarda i reati delle persone potenti. Lo avevo visto a cominciare dal 1981, da come finirono le indagini sulle carte della P2... La mia originaria convinzione, che sarebbe stato sufficiente che le persone sapessero perché venisse marginalizzata la trasgressione nelle alte sfere della società, ha subito gli ultimi colpi. Non è così».

Giustizia e paradossi. Renzi, Berlusconi, Salvini e Craxi: quando bisogna difendersi “dai” processi e non “nei” processi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

I protagonisti del processo Open sono quattro. I loro nomi sono questi: Giuseppe Creazzo, (Procuratore ), Antonio Nastasi (Procuratore aggiunto), Matteo Renzi (senatore ed ex premier), Luca Turco (sostituto procuratore). La posizione dei primi tre è chiarissima. Il procuratore e il suo vice hanno commesso reati, il senatore non ne ha commessi. La domanda che assilla un po’ tutti è: ma il sostituto Turco è anche lui colpevole o è innocente?

Chiariamo meglio.

Il Csm ha accertato che il procuratore Creazzo ha commesso atti di molestia sessuale (che nel codice penale equivalgono a violenza sessuale) e lo ha punito con una piccola multa. Il reato non è più perseguibile penalmente perché la vittima non lo ha denunciato entro un anno. Però ha confermato che la violenza c’è stata e il Csm ha ratificato. E uno. Il Procuratore aggiunto invece è stato interrogato ieri in Commissione parlamentare, sulla vicenda del suicidio o omicidio di David Rossi del Monte dei Paschi. Gli hanno chiesto se quel pomeriggio era stato sulla strada dove giaceva il corpo di Rossi. Ha negato. Il parlamentare dei 5 Stelle Migliorino ha insistito: “cerchi di ricordare…”. No, no, no, ha insistito a sua volta il Procuratore aggiunto. “Non ci sono andato”.

Allora Migliorino gli ha fatto vedere una fotografia dove c’era un signore proprio lì nella strada, vicino al corpo, e gli ha chiesto: “lo riconosce questo signore?”. Era proprio lui. Il procuratore aggiunto è diventato rosso rosso e poi ha balbettato: “può darsi, che vuole, io non mi ricordo neppure come ero vestito la settimana scorsa…” Già. Succede. Mi piacerebbe sapere come si comporta lui con un imputato che vistosamente mente e poi si giustifica dicendo che la sua memoria è debole… Comunque: e due. Stavolta, a occhio e croce, il reato potrebbe essere quello di falsa testimonianza. O magari di intralcio alla giustizia, chissà.

Poi c’è il senatore Renzi. Ha creato una fondazione, l’ha finanziata con donazioni spontanee dichiarate. Niente in nero. E siccome è legittimo finanziare una fondazione, è evidentemente innocente. È sul quarto uomo che c’è il mistero. Il dottor Turco. Lui dice di essere innocente, come Renzi, ma Renzi dice che anche lui è colpevole e lo ha denunciato. Colpevole di avere commesso degli illeciti durante le indagini, che in ogni caso, se fosse un reato, certo sarebbe un reato minore rispetto a quelli commessi dai suoi due colleghi. Deciderà il tribunale di Genova, chiamato a giudicare se Turco sia dalla parte dei colpevoli o degli innocenti. Però questa vicenda, abbastanza paradossale, ne richiama alla mente molte altre. Quelle di Berlusconi, soprattutto, ma non solo.

Per esempio quelle di Salvini o, tornando indietro nel tempo, di Craxi. Tutte queste storie ci dicono che quel luogo comune che spesso sentiamo ripetere (“bisogna difendersi nel processo e non dal processo), come quasi tutti i luoghi comuni è una fesseria. Il processo a Renzi, cioè il caso Open, essendo il più recente, credo che lo conosciate un po’ tutti. Non lo accusano di avere rubato ma di avere fondato di nascosto un partito mentre in realtà era un dirigente di un altro partito. Cioè i magistrati dicono che la Fondazione Open era un partito, anche se senza sedi, senza iscritti, senza congressi, senza simbolo, senza candidati alle elezioni comunali, regionali, provinciali, nazionali, senza un segretario, senza federazioni, senza sezioni… Scusi – chiede un passante – ma come può essere un partito? Loro non rispondono. Sono giovani, forse non sanno bene neppure cosa sia un partito politico. Però vogliono Renzi. Alla sbarra. Lo braccano. Sono sicuri che riusciranno a portare a casa la sua pelle.

Ora, dico, a parte il paradosso di essere indagati da un magistrato che ha molestato una donna (anzi una sua collega) e da un altro che ha reso falsa testimonianza dinanzi al Parlamento (non deve essere una bella sensazione da parte di un imputato sapere che il livello dei suoi inquisitori è questo) il problema vero è che per Renzi è stato chiesto il rinvio a giudizio in totale assenza di reato. E questa è una brutta storia. Del resto proprio Mattarella ha detto recentemente, nel suo discorso di insediamento, che la magistratura ha perso credibilità e che gli imputati non si sentono più sicuri. Ha ragione da vendere, mi pare, il caso Open è la prova provata che Mattarella aveva ragione. Come si può, francamente, avere fiducia in questi magistrati?

Poi c’è il caso Salvini, quello del processo per sequestro di persona. Voi magari sapete quanto male io pensi di Salvini, e quanto dissenta dalla sua politica di respingimento dei profughi: ma cosa diavolo c’entra l’accusa penale e addirittura il sequestro di persona? Voi direte: vabbé ma è stato il Senato a dare l’autorizzazione a processare Salvini, con il voto persino di Renzi. Obiezione giustissima. Il guaio è proprio questo: che i politici si difendono quando li mettono in mezzo a loro, e invece fanno il sorriso e l’inchino ai magistrati quando questi mettono sotto processo i loro avversari. Per questo i magistrati sono molto potenti e i politici no. Avete visto come ha reagito l’Anm all’attacco di Renzi alla Procura di Firenze? Facendo muro, come un sol uomo. Ha avvertito Renzi che la corporazione è tutta schierata coi suoi tre magistrati, sia con l’innocente che coi due colpevoli…

Vogliamo parlare di Berlusconi? Novanta processi dei quali 89 finiti con l’assoluzione e uno con una condanna – il famoso processo sull’evasione fiscale – molto scombiccherata e che con ogni probabilità verrà presto cancellata dalla Corte europea. Voi pensate che un signore che viene processato per novanta volte senza ricevere condanne sia sfortunato o perseguitato? Poi c’è Craxi. Un pezzo della magistratura, 30 anni fa, decise che andava annientato perché era lui l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Era l’ostacolo all’instaurazione della repubblica giudiziaria. Era un socialista, un democratico, un liberale. Tutte parole da cancellare. Lo massacrarono, anche perché nessuno lo difese. Fu costretto a fuggire in Tunisia. Stava male. Gli negarono persino il diritto a venire a curarsi in Italia, lo lasciarono morire, solo, in un ospedale scalcinato. Che orrore.

Vogliamo invece parlare degli sconosciuti? L’ottanta per cento delle persone che ricevono l’avviso di reato alla fine saranno assolte, ma dopo essere state massacrate, economicamente, moralmente, professionalmente. La pena viene eseguita senza condanna, ed è durissima. La pena si chiama processo. E allora? Se vogliamo ristabilire lo Stato di diritto bisogna difendersi dai processi. Non nei processi: dai processi. Impedire che le Procure massacrino miglia di persone, fuori da ogni principio del diritto e senza condanna. Non è giusto lasciare ai giudici il potere di fare di noi ciò che vogliono. Renzi e Berlusconi si difendono dal processo? Beh, se lo fanno bisogna applaudirli. E seguirne l’esempio se si può. In attesa che i tempi cambino e torni la Giustizia. Chissà quanto dovremo aspettare. La riforma del Csm proposta ieri non fa ben sperare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Caro Caselli, l’accostamento tra Renzi e le Br è un po’ eccessivo. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, il riferimento di Caselli agli anni di piombo e ai terroristi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Francesco Damato su Il Dubbio il 12 febbraio 2022.

Con tanto ritardo rispetto alle aspettative da cogliermi di sorpresa, ve lo giuro, i politici che resistono, reagiscono e quant’altro alle iniziative giudiziarie che li investono, di solito mentre sono più esposti sul loro terreno professionale, diciamo così, sono stati paragonati addirittura a quei terroristi che contestavano allo Stato borghese, capitalistico e altre scemenze simili il diritto di processarli. E qualcuno ammazzava anche per strada che si ostinava a fare il suo mestiere. O minacciava di morte i giudici popolari, anch’essi borghesi, capitalisti e scemenze simili, selezionati con incolpevole sorteggio.

Sentite che cosa ha appena sostenuto sulla Stampa non un Camillo Davigo particolarmente polemico in qualcuno dei salotti televisivi più o meno di casa ma un magistrato molto più accorto di lui nell’uso delle parole, iperboli e simili come Gian Carlo Caselli: «In Italia dai primi anni Novanta del secolo scorso si riscontra una pessima anomalia: l’ostilità verso la giurisdizione, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; una sorta di impropria edizione del cosiddetto processo di “rottura”, utilizzato però da uomini dello Stato, anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi».

Con quel riferimento esplicito agli “anni di piombo” non credo di avere esagerato nel vedere tra le righe e le parole di Caselli una certa affinità, ripeto, fra i terroristi che rifiutavano i processi e i politici che dagli anni Novanta in poi – o gli inquisiti “celebri”, come li chiama l’ex capo di celebri Procure italiane – contestano i magistrati che si occupano di loro e le iniziative che assumono nell’esercizio delle proprie funzioni. E mi perdonerà il buon Caselli, col quale ho avuto già altre occasioni di polemiche, se mi permetto di dissentire ancora una volta da lui. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, questo riferimento agli anni di piombo e ai terroristi mi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Qui si spara solo – se si spara- con parole e carte bollate, come ha appena fatto Matteo Renzi contestando i magistrati che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio, insieme col cosiddetto “cerchio magico” degli anni altrettanto magici della sua fulminante carriera politica, per finanziamento illegale dei partiti e tutti gli altri reati che di solito – dai tempi lontani di “Mani pulite”- si porta appresso una simile imputazione.

Sono il primo a riconoscere, per carità, che Renzi fa poco, anzi assai poco, per risultare simpatico, persino a uno come me che votò con molta convinzione nel 2016 la “sua” riforma costituzionale, anche dopo che lui l’aveva imprudentemente personalizzata a tal punto da farne un plebiscito su di lui perdendolo. Ma vederlo direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, a ragione o a torto, come uno di quelli che dietro le sbarre gridavano contro la Corte di turno che doveva giudicarli, mi fa mettere le mani fra i capelli che fortunatamente mi sono rimasti.

“FRONTIERE” PRESENTA “DOPO MANI PULITE… LA GUERRA DEI TRENT’ANNI”.  Da spettacolomusicasport.com il 12 febbraio 2022

Qual è il bilancio di Mani Pulite a trent’anni dall’inizio dell’inchiesta che ha cambiato la storia del nostro Paese? Lo scontro fra magistratura e politica, la deriva della giustizia spettacolo e la nascita del giustizialismo, sono i temi al centro della puntata di Frontiere di sabato 12 febbraio “Dopo Mani pulite… la guerra dei Trent’Anni”, in onda alle 16.30 su Rai3. Doveva essere una rivoluzione all’insegna della lotta alla corruzione, ma da allora siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione. 

In studio con Franco Di Mare Stefano Cagliari, autore del libro “Storia di mio padre” in cui ha raccolto le lettere scritte in carcere dall’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e Goffredo Buccini, editorialista del Corriere della Sera.  Interverranno Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali e i giornalisti Sergio Rizzo e Paolo Guzzanti.

Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent'anni" a Frontiere. Conduce Franco Di Mare. Rainews il 19 febbraio 2022

Magistratura e politica: a trent’anni dalla più importante inchiesta della storia italiana siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione. La riforma Cartabia riuscirà a realizzare quei cambiamenti tante volte rinviati? E possiamo considerare davvero archiviati i mali che affliggono la giustizia: l’uso disinvolto delle intercettazioni e le loro pubblicazioni, il carrierismo e il correntismo venuto alla luce con il caso Palamara, le porte girevoli che consentono di passare dalla magistratura alla politica per poi farvi ritorno? Insomma, la magistratura è un potere o uno stra-potere? Questo il tema al centro della puntata di “Frontiere” in onda sabato 19 febbraio alle 16.30 su Rai 3 dal titolo “Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent’anni”. In studio con Franco Di Mare il giornalista Enzo Carra, arrestato simbolo di Mani Pulite e Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera. Intervengono Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, la storica Simona Colarizi e i giornalisti Alessandro Sallusti, Sergio Rizzo, Paolo Guzzanti e Piero Colaprico.

30 anni di Mani Pulite: la fine della prima Repubblica. "Un giorno in Pretura" racconta il processo Enimont. Rainews il 17 febbraio 2022.  

A trent’anni dall’inizio “Tangentopoli”, lo scandalo che ha travolto l’Italia degli anni Novanta, RaiPlay propone in boxset da giovedì 17 febbraio, “30 anni di Mani Pulite: la fine della Prima Repubblica”, uno speciale con 25 puntate del programma “Un giorno in Pretura” di Roberta Petrelluzzi, Tommi Liberti e Antonella Nafra, andato in onda su Rai 3 dalla fine del 1993 fino a metà del ’94. I contenuti si concentrano sul principale processo di Tangentopoli, quello Enimont, che vede coinvolti i maggiori leader politici dell’epoca, accusati a vario titolo di essersi spartiti una tangente di 150 miliardi di lire per favorire la fusione della chimica privata della Montedison con quella pubblica di Eni. Imputato è Sergio Cusani, consulente finanziario, accusato di falso in bilancio e illecito finanziamento ai partiti. Il processo ha subito un grande clamore, tocca punte di quasi cinque milioni di spettatori, a dimostrazione della qualità della trasmissione che, specialmente in quegli anni, costituisce uno strumento di approfondimento e conoscenza della realtà. Cusani viene condannato e, nel giro di pochi anni, tutta la classe politica è spazzata via, determinando la scomparsa di due grandi partiti: la Dc e il Psi. E’ la fine della Prima Repubblica. 

Tangentopoli per chi non c’era. Il post il 17 febbraio 2022.

Cosa fu il pool di Mani Pulite, chi fu coinvolto dalle inchieste, chi era “il compagno G.”, cosa successe all'Hotel Raphael, e cosa cambiò dopo

Il 17 febbraio 1992, trent’anni fa, venne arrestato a Milano Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Partito socialista. I carabinieri lo colsero in flagranza di reato subito dopo aver ricevuto una tangente da sette milioni di lire. In quei giorni il caso non destò grandi attenzioni a livello nazionale, ma l’arresto di Chiesa sarebbe poi diventato famoso come quello da cui cominciò l’insieme di inchieste note come Mani Pulite, o Tangentopoli, che riguardarono l’esteso sistema di corruzione e concussione che coinvolgeva quasi tutti i principali partiti di allora e un pezzo dell’imprenditoria nazionale.

Spesso si dice che Tangentopoli mise fine alla Prima Repubblica, cioè al sistema politico e partitico che si era consolidato in quasi cinquant’anni dopo la Seconda guerra mondiale, favorendo l’ascesa di nuove forze e nuove ideologie. I nomi delle persone coinvolte nelle vicende politiche e giudiziarie di quegli anni, i posti in cui si svolsero le vicende, sono in molti casi entrati nell’immaginario collettivo, citati ancora oggi di frequente sui giornali e in tv per fare confronti e rimandi con la politica contemporanea. A questi nomi sono associati in molti casi concetti ed espressioni gergali ben noti a chi seguì o studiò quelle vicende, ma talvolta più confusi per chi nei primi anni Novanta era troppo giovane oppure nemmeno era nato.

Mario Chiesa

Soprannominato “il Kennedy di Quarto Oggiaro” per la sua ambizione, Chiesa iniziò a fare politica con il PSI negli anni Sessanta. Tra gli anni Settanta e Ottanta ottenne una serie di incarichi pubblici, dal posto di direttore tecnico all’ospedale Sacco all’assessorato ai Lavori Pubblici. Erano anni in cui a Milano i socialisti erano potentissimi: il PSI aveva espresso il sindaco della città ininterrottamente dal 1967, e Chiesa aveva legami sia con Paolo Pillitteri che con Carlo Tognoli, due esponenti di spicco del PSI milanese (il primo fu sindaco dal 1986 al 1992, il secondo dal 1976 al 1986).

Nel 1986 Chiesa venne nominato presidente del Pio Albergo Trivulzio, una nota e antica casa di cura chiamata “la Baggina” dai milanesi, dal fatto che la sede si trova sulla strada che va verso Baggio e che un tempo si chiamava appunto via Baggina. In quegli anni Chiesa coltivava l’ambizione di diventare sindaco, perciò si allontanò dagli esponenti locali socialisti e cercò di costruirsi un legame con Bettino Craxi, segretario del partito e presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987. 

Nel 1992 Chiesa finì però coinvolto in un’operazione dei Carabinieri. La ditta di pulizie dell’imprenditore brianzolo Luca Magni, per assicurarsi l’appalto al Pio Albergo Trivulzio, pagava regolarmente tangenti a Chiesa. Magni, stanco e sfibrato dalle continue richieste economiche di Chiesa, denunciò il fatto ai Carabinieri, i quali lo portarono dal magistrato Antonio Di Pietro. Insieme a lui organizzarono l’operazione. Colto in flagrante mentre accettava una tangente di 7 milioni di lire, Chiesa venne arrestato. Pochi giorni dopo l’arresto, Craxi cercò di sminuire l’accaduto definendo Chiesa un «mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito» fatto di gente onesta.

Sull’arresto di Chiesa si sviluppò la prima fase dell’inchiesta di Di Pietro, a cui vennero presto affiancati altri magistrati – il “pool di Mani Pulite” – e che si allargò fino a coinvolgere centinaia di persone prima a Milano e poi in tutta Italia, prima nel Partito socialista e poi in quasi tutti gli altri.

Perché “Tangentopoli”

Oggi Tangentopoli è diventato un termine che descrive genericamente gli eventi di quegli anni, dalle inchieste partite nel 1992 alle loro conseguenze politiche, e viene usato anche per descriverne gli effetti sui media e sull’opinione pubblica. Ma come raccontò poi Di Pietro, l’arresto di Chiesa fu l’innesco di una macchina giudiziaria e di indagine che era stata costruita meticolosamente e da molto tempo, mentre la procura di Milano indagava sui tanti episodi di corruzione e concussione in città.

Questi episodi finivano periodicamente sui giornali anche prima del 1992, e proprio da uno di questi nacque il nome “Tangentopoli”. Lo inventò Piero Colaprico, all’epoca inviato speciale di Repubblica. Il caso riguardava un funzionario impiegato all’urbanistica del comune di Milano che aveva messo in piedi un percorso parallelo per accettare in cambio di tangenti le pratiche che ufficialmente rifiutava. Colaprico ricorda così la genesi di Tangentopoli come definizione:

Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti, quelle che poi finiscono immancabilmente male: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli.

Milano, “la città della tangenti”: sarebbe meglio dire “la città delle tangenti che venivano scoperte”, perché non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste “cronache di Tangentopoli”. Non se ne accorse nessuno.

Finché non arriva il caso Chiesa, e con il passare dei giorni il caso monta fino ad arrivare in prima pagina, con un riferimento a Tangentopoli nel titolo.

Col tempo la definizione attecchì anche su altri giornali e nelle televisioni, nel vocabolario collettivo e soprattutto entrò nel gergo giornalistico il meccanismo inventato da Colaprico: ci furono perciò in seguito gli scandali di Calciopoli e Vallettopoli, solo per citare i più famosi.

Il pool di Mani Pulite

Dopo le elezioni del 5 aprile 1992, definite un «terremoto» per il calo di consensi dei partiti di governo e per l’ascesa di nuovi movimenti come la Lega Nord e La Rete, la magistratura continuò a indagare. Chiesa, dopo settimane di interrogatorio, aveva descritto un sistema di corruzione organico al finanziamento di tutti i partiti, dalla DC al Partito comunista. In seguito cominciarono a stabilire contatti con la magistratura anche altri imprenditori. L’indagine insomma si stava allargando e il capo procuratore Francesco Saverio Borrelli decise di costituire un “pool”, un gruppo di magistrati incaricati di seguire le varie inchieste condividendo le informazioni.

È una soluzione che le procure adottano di rado, quando ci sono casi molto grossi e delicati da seguire e il lavoro di un solo pubblico ministero non basta. Al sostituto procuratore Di Pietro ne furono aggiunti altri due: Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. 

Colombo era già allora un magistrato molto noto, aveva indagato sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli e sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Davigo si era concentrato invece sulla criminalità organizzata, sui reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. In seguito, Davigo raccontò della sua ritrosia ad accettare la richiesta di entrare nel pool, perché sapeva che Mani Pulite avrebbe avuto conseguenze enormi, e che i magistrati avrebbero passato con ogni probabilità qualche guaio: «Accadde però che in concomitanza con la mia risposta ci fu la strage di Capaci e allora io mi vergognai anche solo di aver pensato che potevo passare dei guai».

L’inchiesta venne chiamata Mani Pulite dalle iniziali dei nomi in codice usati dal comandante dei Carabinieri Zuliani e da Di Pietro durante le comunicazioni via radio (rispettivamente “Mike” e “Papa”). Di Pietro, Colombo e Davigo ne diventarono gli uomini immagine, personaggi mediatici a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze del caso, oggetto di venerazione e cori dedicati durante le manifestazioni (“Colombo, Di Pietro, non tornate indietro!”).

Il “Compagno G.”

Primo Greganti fu uno dei pochi esponenti comunisti a essere coinvolto nelle indagini di Mani Pulite. Venne arrestato il 1° marzo 1993, quando già il PCI si era trasformato in Partito Democratico della Sinistra (PDS). Fu accusato di aver ricevuto per conto del partito una tangente di 621 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, una nota società agroalimentare che anni prima aveva acquistato la maggioranza del gruppo Montedison, una importante società chimica italiana sui cui rapporti illegali con partiti e amministrazioni il pool si concentrò a lungo.

L’arresto di Greganti incluse anche il PDS tra i partiti accusati di corruzione, insieme a quelli che si erano trovati al governo negli anni precedenti (DC e PSI, oltre al Partito Socialdemocratico, il Partito Liberale e quello Repubblicano). Ma lo stesso Greganti divenne famoso perché – a differenza di altri accusati che confessarono in fretta per timore della carcerazione e per le pressioni pubbliche – durante i tre mesi che passò in arresto a San Vittore a Milano si dichiarò sempre innocente e si rifiutò di ricondurre al PCI il ricco conto bancario denominato “Gabbietta” a lui intestato. 

Sui giornali dell’epoca divenne noto con il soprannome di “signor G.” e poi “compagno G.”, dopo che il PDS ne aveva preso le distanze chiamandolo “il signor Greganti”: ma al tempo stesso il suo comportamento gli guadagnò paradossali stime sia tra gli elettori del PDS che tra quelli del centrodestra nemici delle inchieste di Mani Pulite. Greganti fu scarcerato il 31 maggio 1993. Venne poi condannato, ma il suo limitato coinvolgimento rese il PDS l’unico dei partiti tradizionali che subì poche conseguenze da Tangentopoli (e anzi beneficiò della crisi che travolse i partiti suoi avversari).

Cusani, Gardini, Cagliari e il processo Enimont

Ci fu un lungo periodo in cui le indagini del pool andarono avanti, scandite dalle notizie di avvisi di garanzia arrivati a diversi esponenti politici, ciascuno trattato come un inequivocabile indizio di colpevolezza. Poi iniziarono i processi. Tra tutti, quello più seguito fu il processo Enimont, che iniziò nell’autunno 1993 e vide il coinvolgimento di esponenti politici di primo piano: Bettino Craxi, Umberto Bossi, Paolo Cirino Pomicino, Arnaldo Forlani e Giorgio La Malfa, tra gli altri. Il processo cercò di stabilire se il gruppo Ferruzzi avesse versato ai partiti una “maxi-tangente” di 150 miliardi di lire, definita impropriamente dai giornali la “madre di tutte le tangenti”. 

Il principale imputato era Sergio Cusani, all’epoca consulente finanziario del gruppo Ferruzzi. Cusani era accusato di aver avuto un ruolo centrale nell’organizzare il pagamento di varie tangenti attingendo da quel fondo di 150 miliardi.

Poco tempo prima c’era stata una vasta operazione finanziaria per unire due grandi poli della chimica italiana, quello dell’Eni, in mano pubblica, e quello di Montedison, posseduto dal gruppo Ferruzzi. La fusione aveva fatto nascere il gruppo Enimont.

I personaggi chiave di questa operazione erano i due presidenti dei rispettivi gruppi, Gabriele Cagliari, che trattava con Montedison per conto dello Stato, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi. La fusione però fu un insuccesso: Gardini avrebbe voluto “scalare” il gruppo, come si dice in gergo finanziario, ossia rilevare la quota di maggioranza di Enimont, ma i partiti fecero resistenza. Gardini allora si sfilò dall’affare, cercando di convincere l’Eni a rilevare le sue quote a un buon prezzo: secondo il pool di Mani Pulite attraverso il pagamento di tangenti ai vari partiti.

Il processo si concluse con le condanne definitive di molti importanti politici, tra cui Forlani, Bossi, Renato Altissimo e il tesoriere della DC Severino Citaristi. Cusani fu condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere.

Prima del processo, durante le indagini, Gabriele Cagliari era stato arrestato per un’altra presunta tangente. Dopodiché, mentre si trovava in carcere, gli furono contestati altri reati che avevano a che fare con una rete di “fondi neri” dell’Eni. In tutto, Cagliari rimase in custodia cautelare a San Vittore quattro mesi e mezzo: si suicidò il 20 luglio 1993. Tre giorni dopo, si uccise anche Gardini nella sua casa di Milano a palazzo Belgioioso.

Prima e Seconda Repubblica

Tangentopoli fu una cesura così evidente, un momento da “prima e dopo”, che fu interpretato come un passaggio tra due Repubbliche, nonostante non ci sia mai stata nessuna riforma dell’assetto istituzionale come invece avvenne in Francia (dove di Repubbliche ce ne sono state cinque). La Repubblica in Italia rimase invece sempre la stessa, eppure dopo il 1992 la politica cambiò in modo così radicale, dalla classe dirigente ai partiti stessi, che sembrò un’altra. In seguito alcuni storici e studiosi misero in discussione questa lettura ridimensionando l’effettiva trasformazione della politica, che conservò comunque molti esponenti di spicco.

La cosiddetta Seconda Repubblica, caratterizzata da un bipolarismo tra la destra di Silvio Berlusconi e la sinistra erede del PCI, viene fatta cominciare di fatto con le elezioni politiche del 1994. Con Prima Repubblica, invece, ci si riferisce convenzionalmente a tutto il periodo prima di Tangentopoli, dominato dalla contrapposizione tra DC e PCI.

Berlusconi

La rapida scomparsa dei partiti della Prima Repubblica lasciarono un vuoto enorme nella politica, alimentato dal sentimento di rigetto tra gli elettori e le elettrici, evidente prima nelle elezioni dell’aprile del 1992 e poi in quelle del 1994. Questa situazione fu abilmente sfruttata da Berlusconi, all’epoca ricco imprenditore proprietario tra le altre cose della squadra di calcio del Milan e della società Fininvest, con cui controllava molte reti televisive private. Attraverso la sua società, Berlusconi raccolse dati sui suoi telespettatori preparando con cura il suo ingresso in politica – ricordato come la “discesa in campo” – e proponendosi come “uomo nuovo”, lontano dalle trame affaristiche della vecchia politica (sebbene da imprenditore conoscesse molto bene gli ambienti politici e fosse amico personale di Craxi). 

Nel 1994 dunque entrò in politica e alle elezioni di quell’anno ottenne oltre il 42 per cento dei voti con una coalizione larga, in cui c’era il suo partito (Forza Italia), Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini e la Lega Nord. Formando il primo governo, Berlusconi offrì il ministero dell’Interno a Di Pietro, che aveva pubblicamente sostenuto più volte, per motivi di consenso. Di Pietro rifiutò, e negli anni seguenti i due sarebbero diventati acerrimi rivali. Il governo comunque rimase in carica meno di un anno, per via dei litigi tra Berlusconi e la Lega Nord.

«Un clima infame»

Tangentopoli fu anche causa di eventi tragici. Oltre alle citate storie di Cagliari e Gardini, ci furono diversi altri suicidi, tra cui quello del deputato socialista Sergio Moroni, il 2 settembre 1992. Saputo il fatto, Craxi andò in visita a casa di Moroni, e poi all’uscita venne assaltato dai giornalisti con microfoni e telecamere. Craxi disse solo cinque parole, che diventarono poi assai famose e citate nei contesti più diversi: «Hanno creato un clima infame». Non si sa se si riferisse ai magistrati o ai mezzi di informazione, o all’insieme delle due cose. 

Hotel Raphael

Sempre Craxi fu protagonista di un altro episodio, forse ancora più celebre. Era il 30 aprile 1993, Craxi era l’obiettivo più grosso a cui il pool di Mani Pulite puntava nelle sue indagini. Quel giorno il Parlamento respinse quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro di lui. Nello sdegno generale, alimentato da toni estremamente polemici da parte dei media, una piccola folla di manifestanti andò sotto la residenza romana di Craxi, l’Hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, rimanendoci a lungo per aspettarlo.

Craxi decise che non si sarebbe fatto intimidire e scese comunque, affrontandoli. Non appena lo fece partirono prima i cori e poi, quasi subito, una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine. Chi non lanciava nulla – alcuni la definirono “un’aggressione” – teneva in mano banconote da mille lire e cantava «Bettino vuoi pure queste?». 

Un po’ di numeri

I numeri imponenti di Tangentopoli hanno generato negli anni un po’ di confusione. Secondo il pool, soltanto a Milano, per l’inchiesta Mani Pulite, ci furono 620 patteggiamenti davanti al giudice per le indagini preliminari mentre 635 persone vennero prosciolte. Tra i rinviati a giudizio ci furono 661 condanne e 476 assoluzioni. Ci furono diversi suicidi, ma non è noto con esattezza quanti: alcune fonti parlano di 31 persone, altre ancora di 41, ma si tratta di una stima evidentemente difficile e controversa.

L’unica stima dei costi di Tangentopoli che si conosca è quella, molto citata, di Mario Deaglio: 10mila miliardi di lire annui per la cittadinanza; tra i 150mila e i 250mila miliardi di lire per il debito pubblico; tra i 15mila e i 25mila miliardi di lire per gli interessi annui sul debito. Le opere pubbliche arrivarono a costare fino a quattro volte di più rispetto agli altri paesi europei.

Noi, campioni di autoassoluzione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022. 

Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite.

Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. «Adesso l’Italia cambierà», dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo?

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite — la risposta giudiziaria a Tangentopoli — non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa.

La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci.

Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio — classe 1992, coetaneo di Mani Pulite — cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: «Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?».

Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo.

Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ’92: «Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi». Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’.

Dopo trent’anni stiamo ancora pagando l’illusione di una democrazia senza partiti. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO su Il Domani il 19 febbraio 2022

Tangentopoli fu la miccia che innescò l’implosione di un sistema politico già in difficoltà da un paio di decenni, costretto ad adattarsi ad un mondo reso differente dalla caduta del Muro di Berlino e dai processi di europeizzazione.

Si pensò di risolvere la crisi passando a un modello di democrazia “maggioritaria”. In realtà, è molto difficile che una democrazia cambi “tipo” in modo radicale. L’unico precedente storico di significativo era la Francia di De Gaulle e il passaggio al semipresidenzialismo. La nostra transizione si è bloccata presto.

 Nel biennio 1992-1994 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in modo drastico il sistema partitico: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e la sua classe dirigente. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO

L'anniversario dell'inchiesta. Tangentopoli ha corrotto le regole, quell’epoca ha distrutto lo stato di diritto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Febbraio 2022. 

Il dibattito su Tangentopoli, in occasione del suo trentennale, è ovviamente inquinato dalle consuete logiche di contrapposizione tra opposte tifoserie politiche. Troppo profonde sono state le cicatrici che quello tsunami ha lasciato impresse nella storia politica del nostro Paese, per pensare di poterne parlare con un minimo di equilibrio e di onestà intellettuale. La strada più comunemente liquidatoria è quella di schiacciare la riflessione sul tema della corruzione politica, come se i critici di quella indagine dovessero automaticamente iscriversi tra i paladini della corruzione politica, o di quella classe dirigente più in generale.

Ovviamente, nessuno di noi critici di quella storia giudiziaria pensa di negare che vi fosse una diffusa corruzione nella vita pubblica, in gran parte innescata dal complesso fenomeno del finanziamento della politica; né tanto meno pretende di sostenere che questa meritasse l’impunità. Il tema è tutt’altro, ed è innanzitutto il tema delle regole che una inchiesta giudiziaria dovrebbe sempre e comunque rispettare. Per esempio, l’idea di iscrivere tutte le notizie di reato per i più svariati reati contro la Pubblica Amministrazione mano a mano emergenti in un solo, gigantesco fascicolo di indagine, con quell’unico numero di registro, e soprattutto con un solo Giudice delle Indagini preliminari, fu una scelta totalmente estranea alle regole.

Nessuno ha mai fatto questo prima, nessuno ha mai fatto questo dopo, né a Milano né in qualunque altra Procura d’Italia. Dunque è lecito denunciare quella clamorosa violazione delle regole, e soprattutto è legittimo interrogarsi sulle ragioni di un fatto così clamoroso ed anomalo. Perché si volle quell’unico Gip, visto che è quel Giudice che decide se accogliere o meno le richieste di arresto o di sequestro o di intercettazione formulate dagli inquirenti, ed è suo il compito di controllare la legittimità delle indagini? E che dire dell’uso della qualificazione giuridica del fatto per ottenere confessioni o dichiarazioni accusatorie?

L’imprenditore che è sospettato di aver dato denaro al politico, sa che se nega il fatto sarà considerato corruttore, e come tale andrà a San Vittore; se accusa si salva, perché il premio sarà di considerarlo vittima di una concussione del politico. Ed anche qui, siamo fuori da ogni regola di uno stato di diritto, perché la qualificazione giuridica del fatto non è, ovviamente, uno strumento di polizia. E mentre l’indagine montava con questa idea e questa pratica delle regole procedimentali, ci si rese progressivamente conto che essa si stava trasformando in qualcosa di assolutamente inedito. Una Procura della Repubblica aveva tra le mani le sorti della vita politica ed istituzionale del Paese. Ciò accadde grazie alla formidabile sinergia sapientemente creatasi con gli organi di informazione.

Per i quali i quotidiani arresti di politici, imprenditori, pubblici amministratori, costituivano materiale di prima scelta per appassionare legioni di lettori o telespettatori. È esattamente questa l’inchiesta giudiziaria che sposta clamorosamente l’attenzione mediatica e della pubblica opinione dal processo alla indagine, dalla sentenza alla incriminazione. È l’anticipazione della potestà di giudizio, agli occhi della pubblica opinione e della società civile, dal Giudice al Pubblico Ministero. Che decide così, in una inchiesta-monstre sulla politica italiana, la vita e la morte non più di alcuni dirigenti, ma di intere storie di leaders e di partiti politici, modificando equilibri e determinando cruciali scelte istituzionali.

Non si torna più indietro da un potere così immenso, così totale, così incontrollabile; è stata questa la vera eredità tossica di Tangentopoli. È da allora che le Procure sono diventate il soggetto regolatore della vita politica ed economica del Paese. È da allora che la gente si è abituata a pensare che un arresto equivale ad una condanna. È da allora che la cronaca giudiziaria ha perso ogni interesse per il processo, cioè per il luogo deputato a verificare la fondatezza dell’accusa. È da allora che un politico raggiunto da un’accusa deve concludere la sua carriera politica, a prescindere da ogni successiva verifica di fondatezza.

È da allora che è definitivamente saltato ogni equilibrio tra i poteri dello Stato, tutto a favore nemmeno del potere giudiziario, ma di una parte di esso, cioè del potere dei Pubblici Ministeri. È da allora che la rappresentanza politica ed associativa della Magistratura è in mano ai Pubblici Ministeri, pur essendo costoro nemmeno il 20% dei 9000 magistrati italiani. È da allora che una Procura della Repubblica vale dieci ministeri, e dunque diventa oggetto non di assegnazione di merito ma di conquista politica da parte di questa o quella fazione della magistratura italiana. Con ciò che ne è conseguito, e che è oggi testimoniato dalla clamorosa crisi di credibilità ed autorevolezza della stessa magistratura italiana. Questa è stata Tangentopoli, questo è il disastro che ci ha lasciato in eredità. Ovviamente senza che il problema della corruzione politica si sia, da allora, modificato di una virgola. Auguri.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

1992, Michele Serra, direttore di Cuore: "Quel titolo che non rifarei". La Repubblica il 17 febbraio 2022.

Nel 1992 Michele Serra era direttore del settimanale satirico "Cuore", che commentava i fatti di Mani Pulite con titoli sarcastici passati alla storia. La clip è tratta dal documentario di Antonio Nasso "1992 - L'anno del diluvio".

Bene Michele Serra su Mani pulite. Non è mai tardi per piangere sul sangue versato. ANDREA MARCENARO su Il Foglio il 18 febbraio 2022.  

L'intellettuale ha ammesso che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: "Scade l’ora legale, panico tra i socialisti". E sbaglia chi gli rinfaccia questo e quello.

Scade il trentesimo anniversario di Mani pulite e ciascuno tira il bilancio che ritiene più opportuno. Evito di far presente il mio. Ma non nego di aver ricordato in particolare i 41 suicidi dovuti a quella stagione. Ed essendo un inguaribile fazioso, non nego di aver ricordato con particolarissimo dispiacere i suicidi del segretario socialista di Lodi Renato Morese, del deputato socialista Sergio Moroni, del manager socialista Gabriele Cagliari e del segretario socialista Bettino Craxi, vittima quest’ultimo di un omicidio ma in realtà, per alcune somiglianze, perfino di un suicidio sui generis. E mi scuso con i troppi non nominati. Bon. E’ stato con particolare piacere, perciò, che ho ascoltato e letto la dichiarazione di Michele Serra dove l’importante intellettuale di sinistra ammetteva ieri che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: “Scade l’ora legale, panico tra i socialisti”. Con trent’anni di ritardo, però, hanno voluto sottolineare alcuni. Non è importante. Aggiungendo che s’era fatto prendere dalla foia dell’opinione pubblica, gli hanno contestato altri, laddove era proprio lui a eccitarne una parte. E anche questo, vero o no che appaia, importante non è. La cosa importante è questa: mentre sul latte versato piangere resta inutile, beh, sul sangue versato non è mai troppo tardi.

Andrea Marcenaro. E' nato a Genova il 18 luglio 1947. E’ giornalista di Panorama, collabora con Il Foglio. Suo papà era di sinistra, sua mamma di sinistra, suo fratello è di sinistra, sua moglie è di sinistra, suo figlio è di sinistra, sua nuora è di sinistra, i suoi consuoceri sono di sinistra, i cognati tutti di sinistra, di sinistra anche la ex cognata. Qualcosa doveva pur fare. Punta sulla nipotina, per ora in casa gli ripetono di continuo che ha torto. Aggiungono, ogni tanto, che è pure prepotente. Il prepotente desiderava tanto un cane. Ha avuto due gatti.

Giampiero Mughini per Dagospia il 19 febbraio 2022.

Caro Dago, mi è piaciuta molto la pagina odierna del “Fatto” dedicata alla questione se sì o no l’ex direttore di “Cuore”, l’ottimo Michele Serra, ha fatto bene a dirsi “pentito” di quando il suo giornale _ trent’anni fa _ aveva fatto un titolo spregiante sul Bettino Craxi su cui erano piovute le accuse di Tangentopoli. E del resto sono tanti i sintomi che ci dicono come Serra oggi non sia più l’uomo che era trent’anni fa. E come potrebbe essere diversamente se uno ragiona e guarda le cose con un altro e più maturo punto di vista? Solo gli imbecilli non cambiano mai idea.

Gli ex collaboratori del “Cuore” intervistati dal “Fatto”, o meglio la più parte di loro, ritengono che quello di esagerare era il mestiere del “Cuore” e che quei loro titoli e quelle loro vignette andavano incontro allo spirito del tempo, il che è indubbio. L’ottimo Claudio Sabelli Fioretti dice che non esiste “la satira buona” e che il loro giornale non poteva non nutrirsi di titoli borderline. Dovevano far ridere, e il loro pubblico di quello rideva: di titoli sfregianti nei confronti del “cinghialone” Bettino Craxi, il politico che aveva avviato nei confronti del Pci “berlingueriano” una sfida culturale di cui i fatti dimostreranno che aveva ragione su tutta la linea. Ci provi qualcuno a dimostrarmi il contrario. Ci provi. 

Certo che la satira ha il diritto di esagerare nei confronti di chi non sta simpatico agli autori della satira. In una sua rubrica di trent’anni fa il “Cuore” mi elesse come “lo scemo della settimana”. E questo perché avrei dichiarato che alle elezioni per il sindaco di Roma il mio voto lo avrei dato a Gianfranco Fini (candidato della destra) e non a Francesco Rutelli (candidato della sinistra). Ora in punta di fatto si fosse votato duemila volte il sindaco di Roma, duemila volte io avrei votato Francesco (come del resto ho fatto), che stimo molto oltre che essere il padrino di suo figlio.

“Cuore” aveva esagerato? No, aveva mentito. Il fatto è che io stavo antipatico al loro pubblico e dunque perché mai non infilzarmi? Telefonai a Serra con un tono di voce che ancora ne stanno tremando le mura della redazione di “Panorama” di cui ero un giornalista. Serra mi disse che glielo avevano detto in quattro che io avrei votato Fini. E comunque mise sul giornale la mia smentita, aggiungendo di suo che Rutelli era mal messo se gli arrivava persino il voto di uno come me. Se lo perdono? Ma certo che sì, il Serra di oggi mi piace moltissimo.

Laddove non perdono un altro degli autori del “Cuore”, il quale era nel frattempo trasmigrato su “Repubblica”, dove firmò un corsivo in cui in buona sostanza mi diceva che io non conoscevo la lingua italiana. C’era che durante una trasmissione televisiva io aveva pronunziato il termine “càrisma” con l’accento sdrucciolo e non “carìsma” come viene pronunziato quasi sempre. Si tratta difatti di un termine nato nella lingua greca (“càrisma”) e poi passato nella lingua latina (“carìsma”).

Sta a te pronunziarlo come vuoi e preferisci, ciò che il semianalfabeta che voleva offendermi non sapeva. Ne scrisse come se da un reietto quale il sottoscritto (ero l‘autore di “Compagni addio”) non ci si poteva aspettare che conoscessi la lingua italiana. Ebbene, io non l’ho mai incontrato in questi trent’anni. Ove ciò avvenisse e lui non mi chiedesse scusa degli insulti di trent’anni fa, gli farò fare il giro di piazza Navona a calci in culo. Proprio perché il sacrosanto diritto alla satira eccessiva qui non c’entra affatto. 

Il giudizio su Mani pulite passa per quei quesiti…Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli. Francesco Damato su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Consulta voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede.

A «Ma alla fine “Mani Pulite” vi è piaciuta?» Ecco la vera domanda dietro ai 5 quesiti

Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli

Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Corte costituzionale voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. E che – quasi illuminando l’altra faccia della luna – potremmo così formulare, anche a costo di scandalizzare i giudici costituzionali, a cominciare dal loro presidente Giuliano Amato, “sottile” in dottrina e in tante altre cose, compresa la politica da lui servita come sottosegretario, ministro e due volte capo del governo: siete scontenti o no degli effetti di “Mani pulite”, di cui si celebra quest’anno il trentesimo anniversario?

Se siete scontenti, come d’altronde lo fu persino l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli scusandosene pubblicamente alla presentazione di un libro evocativo scritto da Paolo Colonnello, uno dei cronisti giudiziari che le aveva raccontate più diligentemente, potete tranquillamente rispondere si alla proposta di abrogare le norme che le avevano permesse, o sopraggiunte per rafforzarne il risultato complessivo. Che fu quello di sottomettere la politica alla giustizia, rovesciando i rapporti di forza voluti dai costituenti, a cominciare dall’amputazione dell’immunità parlamentare scritta nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione per finire con la violazione largamente consentita a quel poco rimastone ancora in vigore, specie in materia di intercettazioni. Luciano Violante, promotore di quella modifica costituzionale, se n’è appena un po’ pentito sul Foglio.

Se non siete invece scontenti, o addirittura siete pienamente soddisfatti delle esaltazioni che ancora si fanno di quelle gesta, potete tranquillamente rispondere no all’abrogazione delle norme che ancora consentono, per esempio, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il ricorso abbondante alla carcerazione preventiva, prima del processo cui spesso neppure si arriva col rinvio a giudizio, o l’applicazione retroattiva di norme, pene e sanzioni introdotte successivamente a “Mani pulite” per rafforzarne, diciamo così, la logica.

Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, alla cosiddetta legge Severino, contestata da uno dei referendum per fortuna ammessi dalla Corte Costituzionale e costata nel 2013 il seggio del Senato a Silvio Berlusconi con votazione innovativamente palese disposta dall’allora presidente del secondo ramo del Parlamento, casualmente ex magistrato: Pietro Grasso.

Che ancora se ne compiace e casualmente, di nuovo – si è appena doluto come senatore semplice di maggioranza del disturbo che può procurare la campagna referendaria all’esame parlamentare in corso di alcune reali o presunte riforme parziali della giustizia che il governo di Mario Draghi ha ereditato dal precedente proponendosi però di modificarle in senso più garantista, o meno giustizialista, come preferite, considerando la militanza grillina dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che è quello – per darvi un’idea riuscito a strappare all’epoca della maggioranza gialloverde il consenso anche di una senatrice e avvocata come la leghista Giulia Bongiorno all’introduzione, come una supposta in una legge contro la corruzione, di una norma per la soppressione della prescrizione all’arrivo della sentenza di primo grado.

Coraggio, elettori referendari: riflettete e datevi da fare con molta e molto buona volontà.

Tanto, Travaglio in cabina non vi vede, come si diceva di Stalin nelle storiche elezioni del 1948 stravinte dalla Dc contro il fronte popolare contrassegnato dall’immagine dell’incolpevole Giuseppe Garibaldi. Cito Travaglio perché egli ha appena scritto che quella di «Mani pulite», con tutti gli effetti che ne sono derivati, «fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra», testuale.

Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio. Andrea Amata su Il Tempo il 19 febbraio 2022.

Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.

Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.

L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.

Da Mani Pulite all’inchiesta di Brescia, Davigo: «Non cambio idea: ho fiducia nella giustizia italiana».  

L'ex pm di "Tangentopoli" parla del suo presente: «Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Mani Pulite iniziò il 17 febbraio del 1992. Trent’anni dopo si tirano le somme. Quale è la lezione di Tangentopoli? «Nel tempo ho compreso che le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto». A rispondere all’Adnkronos è Piercamillo Davigo, all’epoca uno dei pm dell’inchiesta del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli che nel 1992 sconvolse l’Italia, il suo sistema politico ed economico.

«All’inizio delle indagini sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici, neppure tutti, e alle imprese che avevano rapporti esclusivi o prevalenti con la pubblica amministrazione. In seguito tuttavia ci siamo resi conto che il malaffare era dilagato ben oltre questi limiti: le falsità contabili erano diffuse. Oggi l’evasione fiscale riguarda, secondo alcune stime, 12 milioni di persone, cioè un quinto della popolazione italiana».

«Il merito cede il passo a clientele, raccomandazioni e servilismo, sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Nella cittadinanza non sembra esservi riprovazione e neppure la consapevolezza che tali comportamenti, oltre a essere illegali, sono dannosi».

Lei sta dicendo che non c’è più etica? «Nessun popolo, cioè l’insieme dei cittadini, può vivere se non vi è un’etica condivisa e in Italia non sembra più esserci. Fra i valori predicati e i comportamenti praticati vi è una differenza abissale».  «E anche nel caso in cui si conviene su alcuni principi, come per esempio “non rubare”, scattano poi i distinguo nella sfera pubblica e interviene lo spirito di fazione, così radicato in nel nostro Paese. Si ricorre a un cavilloso richiamo a norme costituzionali anche quando si va in campi diversi da quelli regolamentati dalla Costituzione».

A cosa si riferisce? «Quando a carico di qualcuno emergono indizi di reato, è frequente che costui (e i suoi sostenitori) invochino la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 della Costituzione), anche al di fuori del processo penale, quando non si discute di diritti dell’imputato, ma di valutazioni di opportunità o di prudenza nella vita sociale». «I cattivi non vincono sempre – sostiene Davigo – La consolazione, per quanto magra, è che neppure loro sono (per ora) riusciti a vincere. Le leggi per farla franca hanno attirato l’attenzione di organismi internazionali e i loro rilievi sono stati un deterrente a continuare su quella strada».

«Numerose leggi sono cadute sotto le pronunzie della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità. I tribunali e le corti italiane hanno adottato interpretazioni volte a salvaguardare il sistema legale. Le elezioni hanno messo in evidenza una minore presa dei poteri locali e nazionali sull’elettorato, molto più volatile che in passato, consentendo anche un’alternanza di schieramenti al governo del Paese che è un’esperienza relativamente nuova in Italia».

Rimangono i poteri criminali e le loro collusioni con la politica e l’economia, i più difficili da affrontare. «La magistratura italiana ha fronteggiato varie emergenze come la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione pervasiva e il degrado ambientale, senza riuscire a eliminarle del tutto. Ma anche senza farsene travolgere.

Dopo la vicenda Palamara che accade? «Il discredito gettato sull’ordine giudiziario dalle intercettazioni operate nei confronti di Luca Palamara, e ancor più la sua linea difensiva di tentare di accreditare l’idea che i suoi comportamenti fossero condivisi e perpetrati da larga parte della magistratura -cosa non vera- richiederà molto tempo per essere superato». «Il bilancio complessivo rischia di assomigliare a uno stallo, in cui nessuno dei vari soggetti e dei loro valori riesce a prevalere sugli altri, e ciò è fonte di scoramento».

Lei stesso sta attraversando una vicenda giudiziaria complessa, non ancora chiarita: quella collegata alle dichiarazioni di Pietro Amara sull’esistenza della loggia massonica segreta “Ungheria” e alla sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. A che punto è? «Attualmente sono in udienza preliminare che dovrebbe concludersi proprio il 17 febbraio con il rinvio a giudizio o con il proscioglimento. Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento» (di Rossella Guadagnini/Adnkronos)

Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.

Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.

A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.

L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.

Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.

“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.

“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.

Tangentopoli 30 anni dopo, la parabola degli 'intoccabili' che fecero sognare l'Italia degli onesti. Piero Colaprico su La Repubblica il 17 febbraio 2022.  

Che cosa resta del pool Mani pulite: Di Pietro si è ritirato tra i vigneti, Davigo è rimasto impigliato nei verbali del caso Amara ed è in rotta con Greco, Colombo non crede più nel carcere 

Il pool 'Mani pulite', ei fu. A trent'anni di distanza dall'inchiesta che ha cambiato per sempre la storia d'Italia, è impossibile non osservare, con qualche sconcerto, l'amaro testacoda del più famoso gruppo di magistrati italiani. Cinque anni prima del cruciale 1992 era uscito un magnifico film, The Untouchables, Gli intoccabili: e c'era uno scherzoso manifesto, incollato dietro una porta del quarto piano, che lo citava.

Mani Pulite, l'avvocata Bernardini de Pace che difese la moglie di Chiesa: "Così il divorzio ci fece scoprire i suoi conti”. Luca De Vito su La Repubblica il 16 febbraio 2022.  

Parla la legale che seguiva Laura Sala, la moglie di Mario Chiesa, nella causa di divorzio: "Passammo gli estratti conto del marito alla procura, fu la ciliegina sulla torta per loro che stavano già indagando". 

L'avvocato Annamaria Bernardini de Pace ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda di Mario Chiesa, il caso che dette il via a Tangentopoli. Da matrimonialista era la legale di Laura Sala, la moglie del presidente del Pio Albergo Trivulzio, nella causa di divorzio. E fu lei ad aiutare le indagini passando documenti importanti ad Antonio Di Pietro.

Mani Pulite 30 anni dopo, dalla scrivania alla porta rossa: cosa resta dell'ufficio di Craxi. Edoardo Bianchi su La Repubblica il 14 febbraio 2022.

Del vecchio studio di Bettino Craxi - da lui occupato dai tempi in cui era assessore della giunta di Milano fino alla fine della sua carriera politica -  rimangono solo la famosa porta rossa ormai sigillata e in disuso, le vetrate antiproiettile e le pareti in noce con gli infissi delle porte color magenta.

La famosa scrivania con la cassettiera e i mobili del suo salottino personale sono stati traslocati in un deposito del Comune, alle porte di Milano, in attesa di altro utilizzo. E l'ex assessore Lorenzo Lipparini, ultima persona ad aver adoperato la stessa scrivania del leader Psi, racconta: "Lo studio di Craxi verrà smantellato e messo a reddito. È destinato a fare spazio ad un albergo o a un'altra struttura in affitto". E' un pezzo di storia d'Italia, che in questi giorni torna alla memoria: il 17 febbraio del 1992, 30 anni fa, l'ingegner Mario Chiesa viene arrestato per una tangente alla Baggina, è l'inizio del terremoto politico e istituzionale di Mani Pulite.

"Quando mi è stato assegnato questo ufficio nel 2007 la scrivania era posizionata verso l’affaccio sulla Loggia dei mercanti”, ricorda l’attuale occupante dello studio, Dario Moneta, a capo della Direzione Specialistica Autorità di Gestione e Monitoraggio Piani del Comune di Milano. "Era una scrivania scomoda, alta e imponente. Poi è stata traslocata più volte fino a finire in un deposito comunale".

Da “la Repubblica” il 16 febbraio 2022.

Caro Merlo, se 30 anni fa non ci fosse stata Mani Pulite, l'Italia sarebbe molto differente? Marco Sostegni

Risposta di Francesco Merlo:

Tra le tante rievocazioni, spesso declamatorie, ho molto apprezzato nello speciale di Metropolis - l'ormai imperdibile programma di Gerardo Greco sul sito di Repubblica - il confronto tra Gherardo Colombo e il figlio di Gabriele Cagliari, il presidente dell'Eni che si suicidò in prigione nel 134° giorno di quella carcerazione preventiva di cui, dopo trent' anni, in Italia si continua ad abusare. (E sono persino peggiorate le già terribili carceri che violano la dignità invocata da Mattarella.)

Colombo, che ha invitato a cena Stefano Cagliari, ha detto con amara ironia che il 17 febbraio da ricordare non è quello del 1992, ma del 1600, quando fu bruciato Giordano Bruno. E mi pare che ci abbia voluto dire che non ci sono eroi della libertà in Mani Pulite. 

E arrivo alla domanda: penso che la corruzione della partitocrazia fosse soffocante e insostenibile, ma che fu una sbronza collettiva credere che l'indagine penale potesse liberarcene.

Mani Pulite svelò la corruzione politica ma non la risolse. E la si può vedere anche come una storia di eccessi: troppi reati, troppo carcere, troppa complicità tra i Pm e i giornalisti, troppi accanimenti. 

Paghiamo ancora quegli eccessi che ora confusamente affidiamo a una riforma impossibile e a 6 referendum. Con il bisogno di una giustizia che non riesce a diventare "giusta", dolentemente ci portiamo dietro un finto giornalismo che ancora spaccia per scoop i verbali di questura. 

Mani pulite trent'anni dopo. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il 17 febbraio del 1992 fa l’arresto di Mario Chiesa avviò l’indagine che travolse la Prima Repubblica. Fu una tangente da sette milioni di lire la prima scossa di un terremoto che avrebbe travolto la classe politica della Prima Repubblica e i più grandi gruppi industriali italiani, e che da Milano si estese in tutto il Paese. Quella mattina di trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, primo giorno di Mani Pulite, nessuno poteva immaginare che l'arresto del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, avrebbe sconquassato in pochi mesi il Pentapartito, coinvolto il Pci-Pds e macchiato anche la Lega in vorticosa ascesa al grido di "Roma Ladrona".

"Mazzette vere e personaggi da fumetto, così nacque il nome Tangentopoli". Piero Colaprico su La Repubblica il 15 febbraio 2022.

Era il 17 febbraio del '92 quando scoppiò il caso giudiziario Mario Chiesa e Pio Albergo Trivulzio. L'inchiesta Mani Pulite "andò avanti a un ritmo forsennato, cambiando radicalmente la storia d'Italia", racconta l'inviato di allora di Repubblica che cominciò a scrivere tra i primi del "Kennedy di Quarto Oggiaro". 

La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un funzionario comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, condomini, proprietari terrieri, architetti di ampliare verande e sottotetti e realizzare piccole e grandi costruzioni.

Piero Colaprico per “la Repubblica” il 15 febbraio 2022.

La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un dipendente dell'assessorato comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, proprietari terrieri e architetti di ampliare verande e realizzare piccole e grandi costruzioni. Ma al pomeriggio apriva una sua agenzia, a circa 400 passi di distanza. 

E là, non più mezzemaniche, bensì consulente in giacca di cammello, studiava le stesse pratiche che poi, come funzionario, sarebbe riuscito a far approvare. Si pagava ancora in lire: bastava un milione, vale a dire 500 euro attuali, per sentirsi dire sì quando si erano incassati una serie di no. Insomma, un'idea criminale, con una dinamica involontariamente umoristica.

Il funzionario-consulente era andato avanti un bel po' di tempo a inglobare piccole e grandi somme quotidiane, finché la sua epopea era finita all'improvviso. E si era ritrovato a San Vittore. Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli. Milano, "la città della tangenti": sarebbe meglio dire "la città delle tangenti che venivano scoperte".

Non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste "cronache di Tangentopoli". Non se ne accorse nessuno. Fra Milano e l'Italia intera si ripeteva infatti il medesimo schema giudiziario: veniva scoperto un corrotto, si indagava su politici, amministratori e funzionari, e qualcuno di loro entrava in carcere. Nessuno o quasi accettava però di rispondere agli interrogatori dei magistrati.

Quel sistema, che verrà definito dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro «dazione ambientale», non veniva intaccato. Mai. Ma l'Italia è anche il Paese dei "Finché". Uno crede sempre di avere successo, potere e potersela cavare, finché: finché, in un pomeriggio buio e freddo, il 17 febbraio 1992, viene arrestato nel suo ufficio il socialista Mario Chiesa. Era sfottuto come il "Kennedy di Quarto Oggiaro", dal nome di un quartiere di periferia, aveva non nascoste ambizioni da sindaco e millantava una forte amicizia con i Craxi. Era il presidente del Pio Albergo Trivulzio. La "Baggina", casa di riposo amata dai milanesi, un'istituzione dotata di un grande patrimonio immobiliare.

Chiesa aveva intascato le banconote di una tangente senza poter immaginare di essere caduto in trappola. Accanto alla filigrana delle 50mila ci sono le firme di un capitano dei carabinieri, Roberto Zuliani, e di Pietro. Il caso viene seguito dai cronisti giudiziari. Sono un inviato speciale da oltre due anni, nei primi giorni non me ne occupo, finché - c'è sempre il finché - vengo convocato dall'allora capo redattore Guido Vergani, che chiude la porta e dice: «Piero, non puoi dire di no. Devi darci una mano, a Scalfari non piace come stiamo lavorando, ci ha chiesto di dare il massimo in questo servizio. Tanto, quanto durerà? Un paio di mesi al massimo, poi torni a girare».

Non avrei detto "no" comunque. Quando con il collega del Giorno Paolo Colonnello, restando cinque ore davanti a San Vittore, scopriamo che Mario Chiesa sta parlando, quel termine mi rispunta. E lo riutilizzo nelle settimane successive. Cronache di Tangentopoli. Nessuno se lo fila. Sarà infatti un ignoto titolista delle cronache nazionali di Repubblica a "spararlo" in grossi caratteri. Ed è così che entra nell'immaginario. 

Le televisioni lo riprendono subito, mentre i giornali, specie i diretti concorrenti, ci mettono un po' di più. Poi cedono. Com' è noto, l'inchiesta non durò "due mesi", ma anni, e il termine ha purtroppo figliato i vari Calciopoli, Concorsopoli e Vallettopoli, come se "poli", invece di "città", significasse "scandalo", ma in qualche modo è rimasto nel tempo.

Viceversa, la storia dell'inchiesta subisce continue riletture, aggiustamenti, ritocchi. Anche se la sostanza vera non cambia: c'era un fortissimo e ramificato sistema di corruzioni negli appalti, nelle assunzioni, negli incarichi, in grado di uccidere ogni merito, pesare sui bilanci pubblici, sostenere le casse dei partiti, e anche di non pochi singoli personaggi. Tangentopoli, per l'appunto. L'edificio simbolo Il palazzo di giustizia di Milano.

Tangentopoli, Colombo e Cagliari jr: “Una cena per ricordare che senso ha la giustizia”. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il confronto tra il pm del pool e il figlio di un indagato morto suicida in carcere tre giorni prima di Raul Gardini. “Sembrava tutto più grande di noi”. Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool di Mani Pulite, e Stefano Cagliari, il figlio di Gabriele Cagliari, l'ex presidente di Eni morto suicida in carcere, il 20 luglio 1993, dopo 134 giorni di carcerazione preventiva. Si ritrovano trent'anni dopo il primo arresto di Tangentopoli a Metropolis Live, la trasmissione sul sito di Repubblica condotta da Gerardo Greco, insieme al vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini e al direttore dell'Espresso Marco Damilano.

Mani Pulite, quando Gabriele Cagliari accusò i magistrati prima di suicidarsi. Le missive di Gabriele Cagliari, suicida in carcere e indagato in "Mani Pulite", contro i giudici e i pm milanesi. Lettere che sono un atto di accusa contro i metodi dell'epoca. Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

Trent’anni fa iniziò Mani Pulite. Lunedì 17 febbraio 1992, nel suo ufficio in via Marostica 8 a Milano, al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa fu arrestato per concussione per una tangente da 14 milioni di vecchie lire che gli venne consegnata dal giovane imprenditore Luca Magni. Ma in carcere finirà anche Gabriele Cagliari. Ecco una delle lettere scritte dall’ex presidente dell’Eni, nel luglio del 1993, in cella ai suoi familiari e al suo avvocato. Un atto di giustizia contro le decisioni della magistratura dell’epoca. Le missive sono tratte dal sito gabrielecagliari.it

Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto.

Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta di identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho 67 anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti.

La lettera di Gabriele Cagliari al suo avvocato

Caro Avvocato, da quattro mesi ormai siamo in prima fila, meglio in prima linea, bersagliati da provocazioni e ingiustizie. Non è ulteriormente tollerabile essere colpiti da questi provvedimenti, illegittimi e applicati in modo discriminatorio. Questa dei magistrati è un comportamento che ha come unico scopo quello di coprirci di vergogna e di rancore. Deve assolutamente cessare.

La ringrazio per tutto il brillante lavoro che ha svolto e voglia con questo, ringraziare anche il proc. dott. Gianzi. Vi prego di stare vicini a mia moglie e di aiutarla a superare questo momento per lei molto difficile, tragico. Le confermi, La prego, che le ho inviato una lettera per posta, per lei e i ragazzi. Ho scritto ai miei cari, e confermo qui, che intendo che il mio corpo sia cremato e le ceneri siano affidate a mia moglie. Di nuovo grazie. Una cordiale stretta di mano. 

TANGENTOPOLI. ESCE “L’ULTIMA NOTTE DI RAUL GARDINI”. PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci il 15 Febbraio 2022.

“L’ultima notte di Raul Gradini” è il titolo di un fresco di stampa per le edizioni di ‘Chiarelettere’. Lo firma il giornalista e scrittore Gianluca Barbera. Ecco, di seguito, i passaggi salienti di una intervista rilasciata a Sara Perinetto per ‘Affaritaliani’.

“Nel libro ripercorro un fatto reale grazie a un protagonista fittizio, Marco Rocca, giornalista d’inchiesta che segue la vicenda Enimont, innestata nel filone Mani Pulite, il processo chiave di tutte le inchieste nate da Tangentopoli e che riguarda una ipotetica maxitangente da 150 miliardi che i Ferruzzi avrebbero pagato ai partiti. Rocca entra in scena la mattina del 23 luglio 1993 a Palazzo Belgioioso, dove è appena stato trovato il cadavere di Raul Gardini. Subito si rende conto che le indagini verranno archiviate per suicidio, ma non è convinto che questa sia la verità”.

“La sentenza che stabilisce che si è trattato di suicidio è legata a un elemento probatorio chiave ma ambiguo, un bigliettino trovato sul comodino con cui Gardini dice addio ai propri familiari. La prima perizia stabilisce che la scrittura era sì di Gardini, ma di 11 mesi prima. La seconda data il bigliettino a pochi minuti prima della morte, il cui orario però non è mai stato accertato”.

“Sulle mani di Gardini, poi, il guanto di paraffina non ha rivelato polvere da sparo. I magistrati dell’epoca dissero che c’era stato un errore nel rilevamento tecnico: non sarebbe una novità, ci sono spesso errori nelle inchieste italiane che inquinano il quadro indiziario. Altro elemento dubbio è la pistola, all’inizio nelle mani di Raul e in un secondo momento sul tavolo: chi l’ha spostata?”.

“Per tutto il romanzo le due ipotesi, omicidio e suicidio, rimangono in equilibrio, ma alla fine non mi sottraggo e propongo, attraverso il parere del protagonista, una ricostruzione plausibile dei fatti. Diciamo che il protagonista scopre la verità, che però, comunque, rimane ambigua. Ma questo libro non è solo un giallo: la mia intenzione era raccontare la storia familiare dei Ferruzzi, che è importante e non è stata mai raccontata”.

“Alla morte del fondatore Serafino Ferruzzi, nel 1979, anche quello un evento misterioso, il genero Raul Gardini viene messo a capo di questo gruppo, che porterà a essere leader anche internazionale”.

“E’ all’apice fino alla fine degli anni ’80 ma poi decide di mettere gli occhi su Eni, la cassaforte dei partiti, la più grande azienda statale italiana. Gardini dà così vita ad Enimont, una joint venture tra le due società più grandi della chimica, Eni e Montedison, di cui il 40 per cento è controllato da Gardini, un altro 40 per cento da Eni e il restante 20 per cento sono azioni sul mercato. Quindi nessuno comanda”.

“Questa operazione produce un guadagno per la Montedison di Gardini, su cui avrebbe dovuto pagare mille miliardi di lire di tasse allo Stato. Gardini aveva acconsentito all’operazione in cambio di uno sconto su queste tasse: una promessa che De Mita fa ma non riesce a mantenere. Allora Gardini comincia a comprare le azioni sul mercato diEnimont per acquisirne il controllo, fino a dichiararlo pubblicamente, ‘la chimica sono io’. Craxi se lo lega al dito e blocca tutto. Da lì nasce la maxi tangente con cui Gardini voleva sbloccare la situazione, ma la famiglia, terrorizzata dalla politica, lo esautora dai suoi incarichi”.

“Quella mattina Gardini doveva recarsi in procura per parlare con Antonio Di Pietro. Per lui è stato un colpo durissimo perché la testimonianza di Gardini avrebbe cambiato la storia d’Italia, rivelando dove erano andati a finire quei 150 miliardi della maxi tangente”.

“Se davvero è stato un suicidio, è spiegato dal fatto che Gardini in quel periodo era molto teso, aveva passato tutto il giorno precedente con i propri avvocati. L’idea di finire in prigione lo terrorizzava, anche perché in quel periodo i magistrati usavano il carcere preventivo per far leva sui testimoni. Tre giorni prima era morto Gabriele Cagliari, suo concorrente, arrestato per tangenti e tenuto in uno stato psicologico di pressione per indurlo a parlare e che invece l’ha portato al suicidio”.

“In realtà, non è stato chiarito praticamente nulla: primo fra tutti, non si sa dove siano finiti i due terzi della madre di tutte le tangenti”.

La Voce ha scritto diversi pezzi sul giallo della morte di Gardini. Potete   trovare i principali cliccando sui link in basso. E leggerete cose ancora oggi molto interessanti suo ruolo giocato da Antonio Di Pietro in quella tragica story.

Raoul Gardini, gli insulti alla vedova a di un morto suicida: che roba è stata Mani Pulite. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 21 febbraio 2022.

Il 23 luglio i funerali dell'ex presidente dell'Eni Gabriele Cagliari sfilavano mentre una la folla di scalmanati gridava «ladri», «vergogna» e «nessuna pietà» alla vedova Bruna Cagliari e i suoi figli Silvano e Stefano, che stavano raggiungendo il feretro. Il sindaco di Milano Marco Formentini aveva rifiutato di partecipare con la benedizione di Umberto Bossi, che quel giorno però disse una frase profetica su Bettino Craxi: «I re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l'esilio». Al viaggio definitivo per Hammamet mancava ancora un anno. Alle 9.40 le esequie erano ancora in corso quando l'agenzia Ansa batteva una notizia: «Gardini si è suicidato». La ricostruzione è ormai definitiva ma apre squarci inquietanti. Gardini si sparò con la Ppk calibro 7,65 fuori produzione dopo aver letto i giornali che avevano accuse come queste: "Tangenti, Garofano accusa Gardini", "Ferruzzi allo sbando, ora tremano i big". A pagina quattro: "Cinque eccellenti nel mirino di Mani pulite", e c'era la sua foto. I giornali traevano la notizia da alcune anticipazioni del settimanale Il Mondo che pubblicava un articolo scritto da una giornalista sotto pseudonimo che in realtà era Renata Fontanelli del manifesto. I verbali li aveva avuti solo lei dal carabiniere Felice Corticchia, anche perché il pool dei giornalisti si stava un po' sfaldando. Quando lo trovarono, affianco aveva i giornali e un biglietto con scritti i nomi della moglie e dei figli, più un «grazie». Il proiettile gli aveva trapassato il cranio, ma era ancora vivo. Morì alle 9.07.

PUNTI DI VISTA

Antonio Di Pietro scese dall'auto tra gli applausi mentre poco più in là c'era il funerale di Cagliari. Racconterà sempre che una mancanza di tempestività nell'arrestare Gardini fu uno dei grandi errori della sua vita. Lo dirà, però, cambiando sempre versione. "Il mio errore su Raul Gardini. Non lo arrestai per una promessa": questo per esempio fu il titolo di un'intervista che rilasciò ad Aldo Cazzullo del Corriere del 21 luglio 2013, e già qui i fatti appaiono distorti: sia perché Gardini figurava già formalmente arrestato (l'ordine era firmato da tempo, come ben sapevano il pm Francesco Greco e il gip Italo Ghitti) e sia perché era stato lo stesso Di Pietro, in precedenza, a spiegare che era stato semplicemente un problema di orario: varie versioni si accavallano in "Intervista su Tangentopoli" (Laterza, 2000, con Giovanni Valentini) ene "Il guastafeste" (Ponte alle Grazie, 2008, con Gianni Barbacetto) e in "Politici" (Ponte alle Grazie, 2012, con Morena Zapparoli Funari) più qualche intervista che prefigura, direbbe Di Pietro, una reiterazione del reato di omissione. Di Pietro disse ad Aldo Cazzullo, nella citata intervista: «Il 22 luglio, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso, e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Domanda: ma voleva arrestarlo o no? Risposta: «Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità». Il quadro prefigura un Di Pietro quasi umano che adottava le manette come remota ipotesi. Questa versione, data anche in passato, venne sintetizzata verso la fine dell'intervista: «Avrei dovuto ordinare di arrestarlo. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data». Sul valore della parola di Di Pietro i testi a discarico riempirebbero uno stadio, ma vediamo come andò davvero. Già nel libro scritto con Giovanni Valentini cambia tutto: «C'erano perquisizioni da eseguire, si rischiava di cominciare la sera e di finire a notte inoltrata, per cui decisi di rinviare tutto all'indomani». Rinviare che cosa? L'arresto già firmato: la parola data non c'entrava niente.

RICHIESTA RESPINTA

Ma per comprendere lo stato d'animo di Gardini (di una persona, ossia, poi giunta a suicidarsi) occorre tornare alla prima estate 1993, quando il finanziere aveva ragione di pensare che avrebbe potuto fare come Cesare Romiti e Carlo De Benedetti e Romano Prodi: accordarsi con la Procura e presentare un decoroso memoriale al momento giusto, possibilmente non gravemente omissivo come si rivelò quello di Cesare Romiti. Ma per Gardini c'erano segnali di presagio diverso: venne a sapere che il pm Francesco Greco (non Di Pietro: Francesco Greco) aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, e lui, Gardini, quasi non ci credette: il gip Antonio Pisapia, in ogni caso, respinse la richiesta. Greco tornò tuttavia a lavorarci, sinché un altro gip, Italo Ghitti, il 16 luglio accolse il mandato di cattura, che però rimase sospeso come una spada di Damocle. Il 16 luglio 1993, dunque, Gardini venne a sapere che il mandato d'arresto contro di lui era già stato firmato: e a quel punto, coi suoi due avvocati, predispose qualcosa di più di un decoroso memorialetto: si dichiarò disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont e anche di soldi ai partiti e di paradisi fiscali. Chiese un interrogatorio spontaneo, come altri avevano ottenuto, e mandò l'altro avvocato, Dario De Luca, in avanscoperta. Con una lettera: «Con la presente desidero portare a Loro conoscenza la mia più ampia e illimitata disponibilità a ragguagliare le S.V. Ill.me su tutti i fatti che saranno ritenuti per Loro di interesse».

Il riferimento era alle mazzette Enimont e a «dazioni di denaro a partiti politici e, più specificatamente, a personalità politiche in occasione di vicende attinenti la joint-venture Enimont ein altre occasioni. Si leggeva che avrebbe spiegato il sistema che consentiva alla Montedison di finanziare le attività con sedi nei paradisi fiscali di mezzo mondo e che avevano alimentato gli ingenti fondi neri della contabilità parallela del gruppo Ferruzzi. Non era poco, anzi. Ma quando l'avvocato De Luca tornò con le pive nel sacco, il segnale si fece preciso: non volevano interrogarlo, volevano espressamente arrestarlo. O meglio: volevano interrogarlo, arrestarlo e poi reinterrogarlo da galeotto. Vent' anni dopo, nell'intervista al Corriere, Di Pietro la girò così: «Io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo». Sì, ma per arrestarlo: tanto che è sempre il contraddittorio Di Pietro, nel libro con Valentini, a precisare che «Gardini non viene sorpreso dal provvedimento restrittivo, i suoi legali lo informano già dalla sera prima». Gardini, in sintesi, fu lasciato "in cottura" per un tempo insopportabile con un mandato d'arresto sopra il cranio; il 20 luglio, di passaggio, apprese che il manager socialista Gabriele Cagliari si era suicidato nello stesso luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire, e questo con un mandato d'arresto che intanto era sempre lì, sospeso. Sinché i legali confermarono a Gardini che il mandato d'arresto era firmato, e che la galera doveva farsela.

LETTURE FATALI

Dissero che avevano ottenuto di rimandare l'arresto al giorno dopo, ma, stando a Di Pietro, fu solo per evitare che le perquisizioni proseguissero sino a notte: cosìcchè, con le sue gambe o col cellulare della polizia, Gardini l'indomani sarebbe andato in procura e poi in galera. Ma non resse la tensione. Il mattino dopo lesse i giornali con le confessioni di Garofano pubblicate prima ancora che lui potesse raccontare la sua versione, vide la prova della verità: non ci sarebbe stato un margine di trattativa, volevano arrestarlo e basta, non c'era una disponibilità che lui potesse offrire senza l'umiliazione delle manette. Si uccise. La reazione a caldo di Di Pietro (il Corriere la riporta) fu questa: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». Aveva ragione: qualcuno si ammazzava prima ancora di finirci. E comunque, per farsi perdonare, Di Pietro, nello stesso giorno, il 23 luglio, mandò ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani. Il gip Italo Ghitti fu piu che d'accordo: «Eccezionalmente», dirà, «su quei provvedimenti ho indicato l'ora, Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti».

Più che la giustizia, gli arresti. Il lettore potrà farsi l'idea che vuole circa la perdurante excusatio non petita di Antonio Di Pietro. Ma nulla esclude che Gardini quest' ultimo potesse anche temere, una volta incarcerato, che dalle fogne del Paese potesse tracimare di tutto. E qui si torna al dossier mafia -appalti che probabilmente fece saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si ricordano, succintamente, le parole del pentito Antonino Giuffrè: «Una indagine dei Carabinieri mise a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra, il mondo imprenditoriale e quello politico per la spartizione delle commesse. Falcone e Borsellino capirono subito l'importanza di questo legame... Il "tavolino" controllato da Angelo Siino sedevano personaggi molto importanti... L'ingegnere Bini, il tecnico che si occupava di calcestruzzi per conto della Ferruzzi, divenne il punto di collegamento con i mafiosi e con i politici». Si ricorda pure quanto disse a Paolo Borsellino, nei suoi ultimi giorni, il pentito Leonardo Messina: «Totò Riina i suoi soldi li tiene nella Calcestruzzi». Angelo Siino, il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra", a proposito del suicidio di Gardini, sarà nondimeno esplicito: «Credo che abbia avuto paura per le pressioni del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina... Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall'orbita mafiosa in cui era entrato». Mani pulite non è storia vecchia. È storia nuova, tutta da riscrivere.

Tangentopoli: in un libro idee, cronache e interviste trent'anni dopo l'inchiesta. La Repubblica il 14 febbraio 2022.

Un crocevia della storia, uno snodo cruciale per il Paese che segna un prima e un dopo. A trent'anni dall'inizio dell'inchiesta che portò alla fine dei partiti figli del dopoguerra, svelando il sistema corruttivo che li teneva in piedi, Repubblica torna su quel biennio caldissimo. Lo fa con un libro, "L'Italia di Mani Pulite" (in edicola da giovedì 17 febbraio in abbinamento a Repubblica, L'Espresso o La Stampa a 14,90 euro più il prezzo della testata) che, in circa 400 pagine, raccoglie gli articoli più significativi di quei lunghissimi mesi, scritti dalle firme che quotidianamente raccontavano le inchieste, le manette, i protagonisti di un'epoca che stava cambiando. Nel libro c'è spazio pure per una riflessione più profonda sulle parole chiave di quella stagione, a 30 anni di distanza, portata avanti dai direttori delle testate del gruppo Gedi, Maurizio Molinari, Ezio Mauro, Massimo Giannini, Marco Damilano, Mattia Feltri e dai cronisti che seguivano in prima linea Tangentopoli, da Gianluca Di Feo a Piero Colaprico a Carlo Bonini. Tra le testimonianze inedite dei protagonisti (il socialista Gennaro Acquaviva, il democristiano Paolo Cirino Pomicino, l'ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto), il libro contiene anche una mole di numeri e di infografiche che aiutano a comprendere cosa accadde in quegli anni di svolta per tutta l'Italia.

Tangentopoli 30 anni dopo: la rivoluzione legale è finita, la corruzione continua. Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa scoperchia il sistema delle mazzette e dei fondi neri ai partiti. Da Colombo a Davigo, dal pm veneziano del Mose a Francesco Greco, da Giuliano Pisapia all’ex presidente dell’Anac, magistrati, avvocati e studiosi spiegano perché è esplosa l’inchiesta, come fu fermata e le nuove tecniche di malaffare tra politici e imprese nell’Italia di oggi. Paolo Biondani su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Una tangente di 3500 euro che fa crollare il sistema dei partiti. A dispetto di tante dietrologie, il vero mistero di Mani Pulite è la modestia dell’innesco: 7 milioni di sporche vecchie lire. Banconote fotocopiate da Antonio Di Pietro, trent’anni fa pubblico ministero a Milano, e consegnate da un piccolo imprenditore monzese, Luca Magni, a un politico che lo taglieggia.

Per gli italiani mafia e corruzione sono una malattia inevitabile. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Il 17 febbraio 1992 partiva l’inchiesta Tangentopoli che ha cambiato la storia repubblicana. Oggi su criminalità organizzata e malaffare i cittadini hanno più consapevolezza ma tendono a considerarli una patologia consolidata. Come rivela la ricerca Demos-Libera.

Le vicende legate alla corruzione, alle mafie e alle organizzazioni criminali, in Italia, hanno una storia lunga. I cittadini ne sono consapevoli. E si rendono conto che i programmi e i piani avviati, dal governo, per affrontare le emergenze economiche e sanitarie, attirano l’attenzione e “l’interesse” (…gli interessi) di soggetti con “altri e diversi interessi”. Che vanno oltre ogni limite di “legalità”.

Da "il Giornale" il 16 febbraio 2022.

L'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, risponde piccato a Cirino Pomicino che, commentando dopo trent' anni la stagione di Mani Pulite, aveva parlato di un disegno ben preciso per eliminare per via giudiziaria, un intero sistema politico. Il magistrato non ci sta e, intervistato a «Monetine - cinque storie di Mani Pulite», il podcast originale di Radio 24 da un'idea di Simone Spetia replica: «Mani Pulite un disegno politico? Ci diano le prove. Le aspetto da trent' anni».

«La corruzione era un sistema e come tale andava resettato». «Bisogna intervenire sull'educazione: la corruzione fa male anche a chi la pratica». Poi risponde a Cirino Pomicino: «Ormai è lecita qualsiasi affermazione senza nessuna base scientifica. Perché nessuno è mai venuto in trent' anni a supportare questa affermazione con una minima dimostrazione?».

Quell'uragano che spazzò l'Italia. Paolo Guzzanti il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La resa del Parlamento sfidato alla tv dal Pool di Milano. Craxi sconvolto dal suicidio di Cagliari: "Stai attento c'è gente che ammazza..." 

A sentire e leggere quello che dice oggi Piercamillo Davigo, uno dei magistrati che scatenarono l'inchiesta «Mani Pulite» contro Tangentopoli 30 anni fa, la storia si dovrebbe ripetere ripete ciclicamente e quindi, lui prevede, fra poco si ripeterà anche con i soldi del Pnrr perché a suo parere ci sarà un magna-magna colossale. Ecco un caso in cui un vecchio magistrato sogna di tornare Ghostbuster a caccia di fantasmi con i vecchi compagni del Pool che sfidò il Parlamento. Magistrati come profeti? È normale? Tre decenni dopo l'Inquisizione di Mani Pulite il bilancio è semplice e terribile; si sono rotti gli argini che avrebbero dovuto contenere le esuberanze di alcuni magistrati e i danni seguitano a produrre altri danni.

Proviamo a mettere insieme il contesto. Partirò da un mio ricordo, anzi una testimonianza: nel 1980, in anticipo di 12 anni per puro caso inciampai in Tangentopoli provocando grande clamore, del tutto inutile. E quando poi nel 1992 il fattaccio venne definitivamente a galla, tutti avevano nel frattempo perso la memoria di quel che era già emerso e ficcato di nuovo sotto la sabbia. Nel 1980 fui mandato dunque da Eugenio Scalfari a intervistare il ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti in quotidiana comunicazione con il suo omologo del Partito comunista Antonino Tatò.

Lo dovevo intervistare per una faccenda di assegni irregolari pubblicata sul settimanale L'Espresso. Evangelisti mi accolse in modo festoso e appena lo estrassi, mi chiese di rimettere in tasca il bloc-notes perché, disse, prima, mi doveva spiegare il retroscena. E lo fece con queste parole: «Qua abbiamo rubato tutti, dal primo all'ultimo. Tutti! I comunisti prendono soldi dai russi e noi, che non siamo più scemi di loro, i soldi li prendiamo dove è possibile e li chiediamo agli industriali e agli enti pubblici e ai Paesi amici».

Mi fece l'esempio di un industriale che mensilmente faceva il giro dei partiti offrendo assegni. Quando arrivava il suo turno, l'industriale gli diceva: «A Fra' che te serve?». Bastava specificare la somma. Poi pretese di dettarmi che cosa scrivere pronunciando parole innocue e generiche. Tornato in redazione, io invece scrissi invece tutto ciò che mi aveva detto e feci senza volerlo uno scoop eccezionale. Grande clamore, ma tutti facevano finta di non aver capito che cosa Evangelisti avesse confessato nel 1980: che tutti i partiti senza eccezione estorcevano denaro in barba alla legge.

Il clamore fu dirottato sul linguaggio volgare del ministro, una questione di stile. Non un solo magistrato aprì un fascicolo ma Evangelisti fu costretto a dimettersi.

Anche i magistrati di allora facevano parte del Sacro Graal del silenzio? So soltanto che tutto ciò che aveva confessato Evangelisti coincise con quanto dirà il segretario del Partito socialista Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio del 1992, quando chiamò come correi degli stessi crimini di cui era stato accusato (e per cui fu costretto a rifugiarsi fino alla morte nella sua casa in Tunisia) tutti i capi di tutti i partiti, che avevano fatto ricorso a finanziamenti illeciti per mantenere in piedi le loro baracche della politica.

Ma fra la surreale confessione di Evangelisti e Tangentopoli qualcosa di nuovo era stato introdotto come elemento morale: dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine dei foraggiamenti al Pci, era stato introdotto con grande e ben diretto sforzo comunicativo, il principio etico secondo cui «rubare per il partito, è cosa buona; mentre rubare per le proprie tasche è criminale».

Era un criterio capovolto essendo vero il contrario: chi pompa denaro illecito in un partito, manomette la raccolta del consenso e dunque la base del sistema democratico perché i soldi portano voti grazie ad un reato, mentre paradossalmente chi intascava soldi destinati al partito commetteva un reato ma non un attentato alle istituzioni.

La stampa in modo pressoché unanime accolse quella ipocrita gerarchia capovolta di valori perché lo scopo finale dell'operazione era quello di far fuori i partiti che avevano governato dal 1948, lasciando indenne il solo Partito comunista velocemente ribattezzato Partito democratico della sinistra affinché conquistasse il potere senza concorrenti e con il pieno consenso degli americani (ma non solo) che da tempo sognavano di togliersi dai piedi una classe dirigente che aveva sfruttato la posizione di geografica di cerniera fra Est e Ovest dell'Italia per fare il porco comodo di alcuni politici e di molti poteri economici.

Questo era lo scenario in cui esplose uno scandalo che diventò un uragano, qualcosa di simile a una rivoluzione alimentando nel Paese un limaccioso sentimento di vendetta nei confronti dei politici montando la cupa idea che fossero soltanto una banda di ladri. Come giornalista della Stampa fui incaricato di seguire il procuratore più visibile del Pool: Antonio Di Pietro con i suoi buffi errori di italiano, il suo passato agreste, l'emigrazione in Germania. Intervistando più tardi la famiglia Setti Carraro dopo l'uccisione a Palermo del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro, seppi da loro che Di Pietro faceva parte del gruppo del capo dell'antiterrorismo.

Il giorno in cui Gabriele Cagliari presidente dell'Eni arrestato dal Pool fu trovato soffocato in carcere con un sacchetto di plastica sul volto, incontrai Bettino Craxi seduto in un piccolo ristorante di via dell'Anima poco prima che fuggisse in Tunisia. Mi chiamò pallido e agitato, dicendomi: «Stai attento a quello là. Stai attento a tutti loro. È gente che ammazza». Di Cagliari dissero che era suicidato. Provate un po' voi a suicidarvi (facendovi assistere) ficcando la testa in un sacchetto. Lo show arrivò alla fine. Le sentenze furono irrisorie, le morti assurde. Ma la democrazia della prima Repubblica cadde quando il Pool di Mani pulite sfidò, davanti alle telecamere, il Parlamento. E il Parlamento si arrese. Paolo Guzzanti

Il "fattore umano" e i segreti del Pool. Quelle primedonne che si detestavano. Luca Fazzo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Erano tutti permalosi. Borrelli non si fidava di Di Pietro. Ed era odiato da D'Ambrosio.

Gerardo D'Ambrosio detestava Borrelli. Borrelli, che un po' subiva e un po' usava Di Pietro, in cuor suo non se ne fidava né umanamente né professionalmente. Eccetera. Archiviato - grazie al cielo - il trentennale, e in attesa del quarantennale, cosa resta da dire dell'inchiesta Mani Pulite? Forse per capire come nacque e imperversò l'indagine su Tangentopoli manca, nelle lodevoli ricostruzioni di questi giorni, qualche sprazzo sul «fattore umano» che, come spesso accade, ebbe nelle tempestose vicende di quei mesi il suo bel peso. Lo ebbe nei comportamenti degli indagati, che io non conoscevo. Ma lo ebbe anche in quello degli indagatori: che invece ebbi modo di frequentare quotidianamente. E che mi fa un po' impressione rivedere oggi, a trent'anni di distanza, alle prese con i guai e le rughe.

Con loro ci si dava del tu, con due eccezioni: Borrelli, cui ovviamente tutti davano del lei (tranne Chiara Beria, che però era figlia di un suo augusto collega), e Davigo. Di Pietro aveva un caratteraccio, diceva un sacco di balle, e infatti tra di noi lo chiamavamo lo «zanzone», l'imbroglione. Ma di fondo era un lineare, un buono e a suo modo un fragile, come dimostrano in parte le sue vicissitudini successive. Un pomeriggio, nella sua stanza, insieme a Maurizio Losa della Rai lo vedemmo scoppiare in lacrime senza motivo apparente: capimmo solo dopo che sulla sua testa si addensavano le nubi che poco dopo lo avrebbero costretto a dimettersi dalla magistratura. D'Ambrosio non poteva essere buono per definizione, perché nella cultura del Pci dell'epoca - forgiata nella Resistenza e temprata trent'anni dopo nella lotta al terrorismo - per i sentimenti non c'era molto spazio: ma era l'unico del gruppo a pensare che la politica avesse ruolo e dignità quanto la magistratura, e non a caso fu l'unico a tenere fino all'ultima la porta aperta al rientro di Bettino Craxi dall'esilio.

Gherardo Colombo era e resta un moralista cattolico, ma proprio questa sua matrice lo portò all'epoca a esporsi con coraggio proponendo una soluzione politica che - se fosse stata accolta - avrebbe cambiato il corso dell'inchiesta; e lo ha portato di recente a una sincera resipiscenza. Francesco Greco non amava mandare la gente in galera, e forse anche per questo scelse di curare la parte economica dell'indagine, dove il ricorso alle manette era meno fisiologico. Ho stima di lui, e credo che si sia pentito di avere chiesto e ottenuto la guida della Procura di Milano, con tutto quello che ne è seguito nel gigantesco pasticcio del caso Eni e della loggia Ungheria.

Erano tutti permalosi, non amavano le critiche e i dissensi. Per questo Fabio De Pasquale, che era un giovane e ambizioso pm, restò sempre fuori dal pool, viaggiando per la sua strada che lo portò per primo a far condannare Craxi, ma che porta ancora oggi a associare il suo nome alla morte in carcere di Gabriele Cagliari. Anche con lui mi davo del tu, ma mi ha tolto il saluto (e querelato) dal 1995 perché scrissi che si era fatto sfuggire un serial killer. È in buona fede ma è animato da una assenza di dubbi che sta alla base dei suoi problemi recenti.

Fu questo cocktail di caratteri diversi a rendere possibile una offensiva giudiziaria senza precedenti. Borrelli, che era una mente superiore, rivendicava come proprio principale merito l'oculatezza con cui aveva assortito la squadra (ma anche lui fece un errore, cooptando Tiziana Parenti). Sui loro metodi si è discusso molto, e non li ho mai visti davvero disperati per il suicidio di un indagato. È valsa la pena di quel carcere e quei lutti, o era meglio tenersi la politica pagata dai Gardini, dai Romiti eccetera? Boh. Di sicuro, rispettando le regole non si sarebbe mai fatta Mani Pulite. Come è noto, la rivoluzione non è un pranzo di gala.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Da adnkronos.com il 17 febbraio 2022.

"Non parlo di politica. Non ho titoli per farlo. Anche se per anni mi è parso che vantare un’inscalfibile incompetenza risultasse una precondizione abilitante per essere candidabili a tutto...". 

Ultimo segretario dei giovani socialisti, poi braccio destro di Bettino Craxi in tutti gli anni di Hammamet, quindi produttore televisivo di celebri trasmissioni fino all’ultima vita di comunicatore del mondo Tim (suoi gli spot dal ballerino in poi; oggi è uscito dal gruppo telefonico), Luca Josi, interpellato dall'Adnkronos sui trent'anni da Tangentopoli, spiega di essere stato interrotto in una riunione sul metaverso. Dopo trent’anni tre minuti ce li dedica? "Grazie no". Ancora timori? "Guardi, l’opportunismo mondano e tattico, di cui diventare craxiano nel ’92 rappresenta l’epifania, non è il mio obiettivo esistenziale".

Alla fine Josi una riflessione la fa: "Tangentopoli? Parliamo di una stagione che si alimenta dei fatti consumatasi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della 'prima repubblica'). 

Una finestra di poco meno di tre anni che rappresenta la ragione del lavacro degli ultimi trenta in cui l’italiano ha affinato un suo carattere: ferocemente calvinista col prossimo; generosamente cattolico con se stesso". 

"Dopo trent’anni la politica scivola ancora sul materialismo storico di uno scontrino, di una sovvenzione o di un’erogazione di una fondazione dimenticandosi che tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico - osserva - Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito. 

Chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere..." Il finanziamento illecito, secondo Josi, "è stato definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti. A meno che non si desideri una plutocrazia, che non sarà la democrazia di Minni e Topolino, ma quella di un manipolo di paperoni che si autofinanzierà per governare un universo di paperini".

Pessimista? "Assolutamente no, forse consapevole dei rischi - sottolinea Josi - Come quello che si passi, senza soluzione di continuità, dai 'no vax' ai 'fiat lux”, per la bolletta elettrica. Per poter philosophari occorre prima vivere. E una volta detto grazie al vaccino ritroviamo il cretinismo emotivo incistato nelle politiche energetiche di chi è contro il nucleare, ma non si preoccupa di accendere il suo tostapane grazie all’energia atomica francese (nel clima del ’92 si sarebbe configurato il reato di 'ricettazione energetica' essendo il nucleare in Italia bandito dal referendum del 1987). 

È una società buffa quella in cui molti parlano in modo illiberale grazie a una libertà che non hanno conquistato; vivono e godono di un benessere che non hanno prodotto; sentenziano su un passato che non conoscono. Insomma forti di quel senso del nuovo, dell’ideale, che comunque si incarni non permetterà a un cretino di essere altro che un cretino".

Josi dice all'Adnkronos di non essere pentito delle posizioni sostenute in quegli anni. "Ma no! Perché se sei così pessimista da non voler difendere la tua storia non puoi essere così ottimista da sperare che qualcuno lo faccia al posto tuo. Sono nato da socialisti, vissuto tra socialisti e morirò socialista. Scoprendo, forse, un giorno cosa questa parola - così maltrattata dalla storia - voglia dire nel suo fondo".

Ci voleva coraggio? "Non era coraggio, che a volte è solo la misura della codardia e del tradimento altrui. Ho trovato giusto parlare quando altri tacevano e poi tacere quando in tanti hanno ricominciato a parlare. In verità da noi vige una certa forma di coraggio tombale. Viene dopo e si crede abbia effetti retroattivi (condonando le pavidità del prima). Comunque, continuo a pensare che se non affronti i problemi, loro, presto o tardi, affronteranno te". 

Quanto all’antipolitica, "non è che la politica di qualcun altro in cui il parlamentare non è più il percorso finale di una selezione ma quello casuale della sua designazione", sottolinea Josi, che poi, alla domanda se abbia in mente di tornare a fare politica, si schernisce: "Sì sì, certo. Tra trent’anni".

Antonio Di Pietro: «Craxi era solo uno dei tanti. Io puntavo ad Andreotti, mi hanno fermato». L'ex pm riscrive la storia di Mani Pulite: «L'inchiesta nasce a Palermo, con Falcone e Borsellino, ucciso per quel che poteva ancora scoprire». E poi: «Gardini doveva farmi il nome di Salvo Lima, avrei chiuso il cerchio e aperto il processo mafia-appalti». Sul segretario Psi: «Un politico normale, ha agito come gli altri. Non fatelo più grosso di quel che è». Susanna Turco su L'Espresso il 16 Febbraio 2022.    

«Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti». D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo - Antonio di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta già l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto.

Di Pietro: "Non è cambiato nulla, prima di morire metto 'Mani Pulite' in rete". Affari Italiani.it Giovedì, 17 febbraio 2022

A 30 anni da Tangentopoli, Antonio di Pietro dice la sua verità sull'inchiesta Mani Pulite. Tantentopoli, Di Pietro: "Il nostro paese era malato di corruzione endemica, ma dopo 30 anni non è cambiato niente".

"Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica".

Così Antonio Di Pietro in un post su Facebook sui trent'anni di tangentopoli. "Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi - aggiunge. "Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.

Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima. Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato. Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi - come me - li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?".

Sorgi su Mani Pulite/ “Di Pietro disse a console Usa che sarebbe arrivato a Craxi e…” Silvana Palazzo su ilsussidiario.net il  17.02.2022 

Marcello Sorgi a L’Aria che tira svela un retroscena su Mani Pulite: “Antonio Di Pietro disse al console Usa di Milano che sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani”. Ma l’ex magistrato…

Marcello Sorgi svela un retroscena sull’inchiesta di Mani Pulite che riguarda Antonio Di Pietro. Lo fa a L’Aria che tira, parlando di un incontro tra l’allora magistrato e il console statunitense a Milano. Quattro mesi prima di arrestare Mario Chiesa, andò a trovarlo: «Gli disse che avrebbero arrestato un personaggio di seconda fila ma poi sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani». Il giornalista spiega che ancora oggi non è chiaro il motivo per il quale rivelò un segreto istruttorio al console americano che poi parlò con l’ambasciatore a Roma.

«Non gli credette, gli disse che parlava ogni giorno con Craxi, Andreotti, Forlani e Cossiga che era presidente della Repubblica e diceva che erano tranquilli. Sta sui documenti della Cia che sono stati desecretati», aggiunge Sorgi nello studio di Myrta Merlino. Il console in questione era Peter Semler. «Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene», sono le parole di Semler raccolte nel 2012 da La Stampa.

Peter Semler al quotidiano piemontese raccontò anche che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite. «Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici. Ci vedevamo in luoghi diversi. Di Pietro mi piacque molto». Parole a cui Antonio Di Pietro rispose spiegando che il console era stato impreciso, come sulle rivelazioni riportate anche oggi da Marcello Sorgi.

«Nel novembre 1991 non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e Psi perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare. Nel novembre 1991 non potevo anticipargli ciò che non sapevo», disse nel 2012 Antonio Di Pietro, il quale sostenne di non aver mai violato il segreto istruttorio. In merito agli incontri con Peter Semler spiegò: «Perché lo incontravo? Perché lo desiderava, faceva il suo lavoro. Voleva capire e infatti capì perfettamente, a differenza di altri suoi connazionali. E incontrò un sacco di altre persone». 

Facebook. Antonio Di Pietro il 17 febbraio 2022

Ci volevano fermare.

Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud.

Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica.

Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi.

Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.

Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima.

Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato.

Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?

Il post di Antonio Di Pietro: "Mani Pulite? Tutto è nato dalle indagini di Giovanni Falcone..." Sandra Figliuolo, Giornalista, il 19 febbraio 2022 su palermotoday.it.

L'ex pm del pool milanese spiega l'origine del terremoto giudiziario di 30 anni fa: "Non ho scoperto nulla, furono le rivelazioni di Buscetta al giudice sul patto tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia a far partire il nostro lavoro". Per la famiglia Borsellino è proprio questo legame tra le due inchieste che andrebbe approfondito per trovare la verità su via D'Amelio

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"Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce all'esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui venne trasferito". A scriverlo è l'ex pm componente del pool milanese che coordinò le indagini su Tangentopoli, Antonio Di Pietro.

Ed è uno spunto interessante, quello che Di Pietro, perché è proprio su questo nesso tra "Mani Pulite" (che partì in questi giorni, 30 anni fa) e gli appronfondimenti svolti invece dai magistrati palermitani che la famiglia di Paolo Borsellino ha cercato di puntare i riflettori per tentare di arrivare ad una verità a 30 anni dall'eccidio di via D'Amelio e dopo enormi despistaggi.

Lo stesso Di Pietro, qualche mese fa, in un confronto televisivo in cui era presente una delle figlie di Borsellino, Fiammetta, aveva dato sostegno a questa pista, esattamente come aveva fatto deponendo nel primo grado del processo sulla così detta trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.

Secondo le motivazioni di quella sentenza, però, Borsellino sarebbe stato invece eliminato perché avrebbe appunto scoperto, a meno di due mesi dall'uccisione di Falcone, l'esistenza di questo presunto patto. Una sentenza che è stata in buona parte rivista in appello. Si attende nelle prossime settimane il deposito delle motivazioni, dopo una proroga richiesta dai giudici. 

30 anni di Mani Pulite, Di Pietro rompe il silenzio: "Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete". Da ilgiornaledelmolise.it il 17 Febbraio 2022.

Per mesi è rimasto in silenzio. Niente dichiarazioni, niente interviste, nessuna apparizione in tv. Antonio Di Pietro negli ultimi tempi ha scelto di spegnere i riflettori su di lui. E alla vigilia del trentesimo anniversario dell’inchiesta Mani Pulite ha fatto rumore il silenzio del protagonista principale di quella pagina di storia italiana. L’ex pm trascorre gran parte del tempo in Molise, nella sua masseria di Montenero di Bisaccia. A quanto pare sta dedicando molte giornate per mettere posto il suo archivio di documenti. Forse anche questa la ragione del silenzio. Rotto ora attraverso i social, proprio nel giorno dell’anniversario dell’arresto che nel 1992 diede avvio all’inchiesta che sfocio’ in Tangentopoli: “Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima – ha scritto l’ex magistrato sul suo profilo Facebook ricordando quei giorni – Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinche’ qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verita’ rispetto a quel che e’ stato raccontato”. “Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani Pulite e’ stata fermata, anche perche’ mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi – ha proseguito Di Pietro – l’unica cosa che e’ cambiata e’ che adesso c’e’ desolazione da parte dell’opinione pubblica”. “Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell’inchiesta e’ nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica piu’ per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi”, ha sottolineato l’ex magistrato. Di Pietro ha scritto il suo post pubblicandolo con una foto dell’epoca che lo ritrae insieme a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, gli altri due protagonisti di quell’inchiesta. Sotto l’immagine c’e’ un interrogativo: “Sono una vergogna per il paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l’inchiesta Mani Pulite?” Poi sempre nel post scrive ancora: “Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; e abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica”.

IL TESORIERE DELL’UNICO PARTITO SOPRAVVISSUTO A MANI PULITE. La tangente Enimont raccontata dal (quasi) fedelissimo tesoriere di Bossi. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 23 febbraio 2022

A trent’anni dall’innesco di Mani Pulite, l’ex tesoriere della Lega Lombarda Alessandro Patelli racconta come il suo movimento, antisistema e antipartito, sia finito invischiato nell’affare della maxitangente Enimont nel 1992.

Condannato, insieme al leader Umberto Bossi, per finanziamento illecito, fu rimosso dal capo nonostante lo avesse difeso anche in aula e assistette alla fine della Lega bossiana.

Si è laureato a quasi settant’anni con una tesi sul suo Carroccio, e la Lega di oggi non gli piace: Salvini, a suo dire, scimmiotta Bossi senza averne le qualità e rincorre la Meloni dimenticando il vero progetto leghista: il regionalismo.

FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.

30 anni di Mani Pulite. Il Compagno G. ha scelto di parlare: intervista esclusiva a Primo Greganti. Quando Tangentopoli colpì il Pci-Pds: "Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”, racconta l'ex cassiere. Giorgio Santelli su Rainews.it 17 febbraio 2022 

Il Compagno G., Primo Greganti, ex cassiere di Pci e Pds, tra i pochi a rifiutare ogni collaborazione con i magistrati ai tempi di Tangentopoli, ricorda per Rainews.it e Rainews24 gli anni di quell’inchiesta che cambio la faccia all’Italia a trent’anni dall’arresto di Mario Chiesa.

Il primo marzo 1993, su richiesta del pm Antonio Di Pietro, il Giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti emise un ordine di custodia cautelare nei confronti di Greganti. Era accusato di corruzione per aver ricevuto in Svizzera 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per alcuni appalti dell'Enel, tra il 1990 e il 1992. Ripercorrendo quel giorno, racconta di aver deciso di presentarsi a Milano con il suo avvocato difensore, dopo essersi riconosciuto nelle dichiarazioni dell’amministratore della Calcestruzzi di Ravenna, Lorenzo Panzavolta, rese in un interrogatorio riportato dai giornali: “Chiamai Di Pietro, fissai l’incontro ma quando arrivai in Procura vidi che con il magistrato c’erano anche dei poliziotti con gli stivali sporchi di fango, il fango di casa mia. Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”. Quel denaro, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti.

Primo Greganti ricostruisce quegli anni, il suo arresto, il rapporto con il magistrato Antonio Di Pietro, gli arresti preventivi a San Vittore, l’incontro in carcere con Gabriele Cagliari. Difende l’inchiesta del pool di Mani Pulite e non perdona ad Achille Occhetto la richiesta di scuse agli italiani per conto del Pds: “Noi non eravamo come gli altri partiti. Non ci sono mai state mazzette per il partito”.  

Negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che quei soldi erano il pagamento di consulenze personali fatte alla Ferruzzi. Alla fine dell’inchiesta Greganti venne condannato a tre anni e sette mesi per finanziamento illecito al suo partito, pena successivamente patteggiata e ridotta a tre anni e infine confermata dalla Corte di Cassazione nel marzo 2002, pur decurtata dei sei mesi che Greganti aveva già scontato in regime di carcerazione cautelare preventiva a San Vittore durante le indagini. 

“Quell’inchiesta fece male alla mia famiglia - dice ancora Greganti - Di Pietro mi disse: 'Quando tornerai a casa i tuoi figli ti sputeranno in faccia'. In carcere io non mi abbattei. Ero convinto di stare nel giusto, forse per questo non fui preso dallo sconforto”.

Secondo il Compagno G., in conclusione, “si cancellò la prima Repubblica per dare in mano il Paese ai poteri finanziari, senza una nuova classe politica. I risultati di quell’inchiesta li viviamo quotidianamente”. 

Feltri, Mani Pulite “graziò” solo i comunisti: “Chiesi il motivo a di Pietro e lui…” Gabriele Alberti venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Fa bene Vittorio Feltri a ribadirlo anche a trent’ anni dall’inizio di Mani pulite. Il pool che indagò sui partiti poi spazzati via dal ciclone delle inchieste salvò solo l’ allora partito comunista poi Pds. E a tal proposito il direttore editoriale di Libero fornisce anche una rivelazione interessante per mettere a posto le tessere di un mosaico composito. Già, si tratta di una circostanza che i più trascurano, “un particolare su cui tutt’ ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza”. E invece trattasi di un particolare rilevantissimo.

Feltri: Mani Pulite salvò i comunisti. “Di Pietro mi disse…”

Scrive Feltri: “Antonio (Di Pietro, ndr), cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n’era uno che non avesse profittato della mangiatoia; compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l’insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica?”.  La risposta di Di Pietro alla domanda cruda fu attendista “Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai“.

Feltri: “Il Pds si accomodò al governo”

Sappiamo come sono andate le cose. Mentre il pentapartito fu spazzato via, “il Pds si accomodò al governo”. La conclusione a cui è giunto Feltri è la seguente: gli ex comunisti furono risparmiati dalla ventata di Tangentopoli “per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti”. Un solo esempio, ricorda Feltri: ” Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure”. Ebbene, si arrivò a una bizzarra conclusione delle indagini: “nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono”. Sprizza indignazione il direttore di Libero: “Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo”. 

“Un particolare su cui tutt’ora si sorvola”

Feltri già si è scusato qualche giorno fa per avere all’epoca cavalcato l’onda di Tangentopoli, che lui ha definito una “strage degli innocenti”, per i risvolti giustizialisti e la furia manettara che palesò . La sua lettura trova conferma nelle rivelazioni di qualche giorno fa di Cirino Pomicino. Ossia la volontà di voltare la pagina politica verso sinistra a determinata con l’appoggio dei grandi gruppi industriali. L’ex  ministro Dc ha rivelato  come dietro la rivoluzione giudiziaria che azzerò la politica italiana ci fosse uno schema ben preciso. L’establischment industriale disegnò un vero e proprio disegno politico: virare a sinistra, cambiando lo schema precedente. Fu De Benedetti, mesi prima che scoppiasse mani Pulite a farglielo capire in un colloquio riservato. Ora si capiscono tante cose. Fa bene Feltri a rammentare che l’esclusione dei comunisti dalle indagini di Tangentopoli non può essere derubricato a particolare insignificante. 

"Perché la magistratura ha graziato i comunisti": Mani Pulite, Vittorio Feltri e una sporca verità sui compagni. Vittorio Feltri su Mani Pulite: "Perché la magistratura ha graziato i comunisti". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022.

Oggi è il 17 febbraio e Vittorio Feltri, direttore di Libero, dedica il suo video editoriale al 30esimo anniversario dell'inizio di Mani Pulite. "Fu un episodio piuttosto importante per la vita del nostro Paese", dice Feltri facendo notare che "si dice che quella inchiesta abbia fatto piazza pulita di tutti i politici corrotti. Ma non è del tutto vero". E spiega: "Il finanziamento ai partiti era illegale per cui erano quasi costretti a rubacchiare qua e là. C'è da chiedersi come mai il pentapartito che all'epoca governava non avesse cercato di legalizzare il finanziamento ai partiti". Ma soprattutto, fa notare il direttore, "di tutta la vicenda di Mani Pulite ho potuto constatare che tutti i partiti furono spazzati via, la Democrazia Cristiana, il partito socialista, i socialdemocratici, i repubblicani e persino i liberali. Solo uno riuscì a sopravvivere: il vecchio partito comunista che nel frattempo aveva cambiato nome, ma solo il nome". "Come mai si è salvato", chiede provocatoriamente Feltri. "Il sospetto può essere uno: la magistratura ha favorito un partito che, secondo Antonio Di Pietro che lo disse a me personalmente, era coinvolto come tutti gli altri nella spartizione del denaro sgraffignato". "Dicono i magistrati che furono trovate delle prove", continua Feltri, "ma in realtà le prove non le hanno mai cercate, mentre per gli altri partiti le hanno cercate e le hanno trovate per poi fare quel massacro che tutti sappiamo". Conclude Feltri: "Noi vogliamo solo sapere come mai la magistratura era tanto affezionata e voleva tanto bene al partito comunista". 

Mani Pulite, l'affondo di Vittorio Feltri: "L'unico tabù del pool furono i comunisti. E chissà perché..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

A trenta anni dall'inizio di Mani pulite, la famosa o famigerata inchiesta che ha frantumato la Prima Repubblica, c'è ancora qualcosa che non è stato detto ad alta voce. E non riguarda una mia idea bislacca, ma una realtà evidente, come dire che il mare è salato. Il pentapartito, che all'inizio degli anni Novanta era la maggioranza di Governo, fu completamente massacrato da Di Pietro e soci togati. Il povero e rimpianto Citaristi, segretario amministrativo della Dc, fu messo in croce: gli rifilarono un numero spropositato di avvisi di garanzia, relativi al reato di finanziamento illegittimo, tale da costituire un record mondiale. A lui, che era ricco di suo, e non aveva certo bisogno di incassare tangenti. Ma allora questi erano considerati dettagli ininfluenti. Egli pur essendo persona specchiata fu trattato quale delinquente incallito. Poi la faccenda si chiarì, ma intanto il mio concittadino bergamasco per lungo tempo rimediò una figuraccia, per quanto immeritata. Di Craxi, la Malfa ed altri personaggi schiaffeggiati dalla magistratura sappiamo tutto, incluse le persecuzioni di cui furono vittime.

C'è solo un particolare su cui tutt' ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza. Antonio, cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n'era uno che non avesse profittato della mangiatoia, compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l'insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica? Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai. Infatti chi ha buona memoria rammenterà che mentre il pentapartito fu sgominato e finì in galera, il Pds si accomodò al governo.

Io, persona semplice, pensai e penso tuttora che i compagni furono risparmiati, pur avendo incassato denaro sporco, per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti. Un solo esempio. Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure. Una prova inequivocabile che anche i rossi amavano i soldi in nero. Alla conclusione delle indagini, nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono. Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo.

"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.

“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.

Che ricordo ha di quegli anni?

“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.

Non sono stati, quindi, tempi semplici?

“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.

Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?

“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.

Chi è stato più penalizzato?

“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.

Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?

“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.

Quali sono state le conseguenze?

“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.

Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…

“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.

Da Tangentopoli a mafiopoli: la lunga egemonia dei pm. Cicchitto, Gargani, il pg Marino e Sansonetti ricordano gli anni di Tangentopoli: fu un blitz contro i partiti ordito dai poteri forti con giornali e toghe. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 febbraio 2022.

«Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne, dalla Fiat alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il partito diverso dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione». Partiamo dalle conclusioni di Fabrizio Cicchitto per darvi conto del convegno “A Trenta anni da Tangentopoli e da Mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, organizzato dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà, e moderato dal nostro direttore Davide Varì.

Secondo Cicchitto «molto prima di Forza Italia, e ovviamente in termini del tutto rovesciati, il primo partito- azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto, compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo ed Ernesto Rossi fecero denunce assai precise: rimasero del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e, con il trattato di Maastricht, il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale, quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quello della Dc e del Psi».

Ad aprire i lavori della conferenza Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: «Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’ opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari: chiediamo, come ho fatto per tanti anni, un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno, la politica, la giustizia, i magistrati, l’informazione, per riconoscere le degenerazioni derivanti dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo».

Allora vi fu «un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente. Il pubblico ministero aveva solo funzioni di giudice etico, di far vincere il bene sul male, che riscatta la società, punisce in maniera emblematica il male ed esaurisce nell’indagine la fase giurisdizionale che ha bisogno del processo».

A Gargani è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: «Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era, diciamo, il clima dell’epoca».

Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, si è soffermato sul ruolo della stampa: «Allora i giornali lavorarono in maniera unificata: Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Vi posso raccontare il giorno in cui arrivò il decreto Conso che depenalizzava il finanziamento dei partiti. Io ero all’Unità. Arrivò un editoriale di Cesare Salvi, molto favorevole al decreto. Poi la sera ci fu come al solito la consultazione fra i direttori verso le sette e si decise di buttare a mare il decreto. Fu cambiato l’ editoriale dell’Unità, fu fatto un editoriale contro il decreto. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono contro il decreto e a mezzogiorno Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto. Esso non cadde per l’opposizione politica, cadde per l’opposizione dei giornali. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tutto il dibattito e gli interventi degli altri numerosi ospiti si possono riascoltare su Radio Radicale.

Mani Pulite, Sallusti: “C’era un patto. I giornalisti concordavano le prime pagine. Ma su Greganti”…Redazione venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Sallusti conferma: è vero. C’era un patto fra direttori negli anni di Mani pulite: concordavano le prime pagine. E aggiunge addirittura che in quel periodo si crearono persino due pool di testate e giornalisti: uno di serie A e uno da girone minore. E, soprattutto, guardando a ritroso rilancia: «è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti. E in quel momento che i cronisti– ricostruisce il direttore di Libero – divennero gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali»…Quella in corso in quegli anni di rivolgimenti e dramma, fu una vera caccia all’ultimo scoop. Una guerra spietata tra le testate – dai direttori in giù – per carpire l’ultimo dato e aggiornare il bollettino delle vittime. Poi divenne impossibile tenere quel ritmo e continuare su quel crinale: e si dichiarò una tregua. Descrive così Alessandro Sallusti all’Adnkronos, l’atmosfera e il modus operandi di quegli anni: quasi come un’ossessione, l’estenuante ricerca di nomi e notizie dell’ultimo minuto. Un incubo in cui si erano infilati i giornalisti nelle anni di Mani Pulite, pronti a «scannarsi per un nome in più o uno in meno». Fino a ritrovarsi in un incubo insostenibile… 

Mani Pulite, Sallusti conferma: il patto fra direttori? C’era eccome

«Sì, si era creato un pool di direttori, che avevano, ovviamente, i loro capiredattori. I loro terminali interni. E si coordinavano per i titoli e le prime pagine». Così Alessandro Sallusti, conferma all’Adnkronos l’esistenza del cosiddetto “patto fra direttori” negli anni di Mani Pulite. «Però attenzione allo scambio di carte», racconta direttore di Libero, che in quegli anni era caporedattore centrale del Corriere della Sera: «Ci sono state due fasi. All’inizio c’era la guerra, nel senso che si faceva a gara per avere l’esclusiva. Ogni giorno era un bollettino, ogni giorno c’era l’elenco degli indagati, degli arrestati, e così via. Inizialmente fra i giornali, che allora si vendevano, c’era una concorrenza spietata. Questa gara portò sostanzialmente a uno sfinimento quasi fisico dei partecipanti. Era diventato un incubo. Un’ossessione. Non si mollava mai la presa. Ricordo che è ad un certo punto il segretario di redazione del Corriere mi disse “Alessandro, hai battuto il record di permanenza consecutiva al giornale: 136 giorni senza mai staccare un giorno”. Ma non ero l’unico, ovviamente»…

«Si crearono due pool tra le testate giornalistiche: uno da Champions League e uno minore»…

Poi, prosegue Sallusti, «a un certo punto, almeno secondo la percezione con cui io l’ho vissuto, si è detto basta. La vita era diventata impossibile. E anche la professione. Tutte le notti svegli fino alle due a correre nelle edicole notturne, era diventato un incubo. E allora si dichiarò tregua. Invece di stare a scannarci per un nome in più o uno in meno, ci si metteva d’accordo scambiamoci le informazioni. E sostanzialmente – rammenta Sallusti – si crearono due pool. Uno da Champions League, diremmo oggi, formato da Corriere della Sera, Repubblica e Stampa, che al suo interno era mediato dall’Unità che triangolava tra Corriere e Repubblica, che anche per una questione di stile non si parlavano direttamente. E poi c’era un altro pool, diciamo minore, formato, se non ricordo male, da Messaggero, Avvenire e Giorno. Questi due pool erano in concorrenza fra loro, ma all’interno di ogni poll c’era un patto. Ovviamente il patto fra Corriere, Repubblica e Stampa aveva una valenza giornalistica e anche politica».

Sallusti: «Così i giornalisti diventarono gli addetti stampa delle Procure»…

E allora, continua la sua ricostruzione Sallusti: «Verso le cinque o le sei del pomeriggio, quindi prima di iniziare a pensare alla prima pagina, c’era questo scambio di telefonate per chiedere quello che si sarebbe fatto il giorno dopo. Che cosa si pensava e così via. Poi si arrivava anche a informarsi reciprocamente del titolo in maniera letterale. Ma non era tanto una questione di titolo letterale, ma di dire “oggi si va addosso a Tizio, domani a Caio”. E questo era un lavoro che avveniva quotidianamente: non c’è il minimo dubbio. Nessuno può smentirlo”. “E comunque sì, si può dire anche che il ruolo del giornalista fu quello di fare il passacarte della procura – sottolinea Sallusti -, si sperimentava non solo un nuovo modo di fare le inchieste giudiziarie, ma anche un nuovo modo di fare il giornalismo. Fino a quel momento tirare fuori una carta delle procure era impensabile. Ed è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti, ma non nacque perché ci fu una riunione per deciderlo, nacque. Ed è ovvio che tra il furore cieco dell’opinione pubblica, tra i giornali che ogni giorno vendevano 10mila copie in più, fra l’ebrezza di partecipare a un’impresa, si è diventati, non per scelta, gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali».

«Ma quando mi venne cassato il titolo su Primo Greganti, cassiere del Pds, indagato…»

E ancora: «Quando tu per giorni fai titoli “indagato Craxi”, “indagato Forlani”, e così via. Poi a un certo punto, per sbaglio, le procure mettono gli occhi su Primo Greganti, cassiere del Pds, e io faccio il titolo “indagato il cassiere del Pds”, e mi viene cassato perché non si poteva fare: allora lì cominci a chiederti “ma com’è questa storia?“. E quindi poi maturano certe considerazioni e certe scelte»… E a tal proposito, Sallusti con l’Adnkronos conclude la sua disamina soffermandosi su quanto scritto oggi dal direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Secondo il quale «quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo». «Diciamo che i giornalisti alle procure da quel periodo in poi hanno leccato il culo a lungo – chiosa Sallusti –. E qualcuno lo fa ancora adesso in maniera totalmente acritica e omertosa. Quindi sì: Travaglio ha ragione. Talmente ragione che siamo ancora in una stagione di giornalisti leccaculo. Solo che adesso lecchiamo il culo alle procure. Ora non so se il culo delle procure è più profumato del culo di qualcun altro, ma sempre culo è…».

"Il pool non toccò i Ds perché aveva bisogno di un sostegno politico". Francesco Boezi il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex pm di Mani pulite: "Io avrei dovuto essere il trait d'union, ma non ho accettato".

L'avvocato Tiziana Parenti, l'ex pm e parlamentare soprannominata «Titti la Rossa», ricorda il sostegno dei Ds a Mani Pulite, «l'imprevisto» Berlusconi ed i motivi per cui decise di lasciare.

Come mai soltanto alcune forze politiche vennero defenestrate?

«L'interrogativo su cui ancora oggi ci si interroga per cui tutti i partiti di governo furono travolti da Mani Pulite e in primis il PSI e la DC, quest'ultima seppure con i dovuti distinguo, mentre rimase fuori dalla tempesta il PCI -PDS, ad eccezione di alcune posizioni per responsabilità personale, si può risolvere solo se pensiamo alle contingenze politico-economiche e alla fine del comunismo che ormai rendeva accettabile, anche oltre Oceano, come referente l'ex Pci, ormai PDS».

Lei avrebbe voluto indagare sui Ds ma qualcuno la fermò?

«È pacifico, solo se si rileggono i giornali dell'epoca che, il PDS, dopo un momento iniziale di esitazione, appoggiò in toto, sul piano politico, Mani Pulite. Al tempo stesso Mani Pulite aveva bisogno, secondo le stesse parole di D'Ambrosio, di avere una forza politica, che fosse stata forza di governo, che li appoggiasse a prescindere da se, come e quanto anche questo partito avesse partecipato al finanziamento illecito o tangentizio, che di sicuro, almeno per una buona parte degli anno ottanta, si era svolto in modo diverso dagli altri partiti».

In che senso ne «aveva bisogno»?

«Perché, a prescindere dalle simpatie politiche di alcuni e non certo di tutti i componenti del pool, un'operazione del genere ed una loro conquista diretta del potere non sarebbe stata possibile senza l'appoggio di un grande partito popolare che comunque sarebbe restato sotto scacco proprio perché salvato».

E lei?

«Avrei dovuto essere lo strumento dell'operazione e questo non l'avevo capito in perfetta buona fede all'inizio. Ho ritenuto che il mio compito fosse quello di un normale Pm che svolge le sue indagini. Ma non era questo che mi si richiedeva. Quando ho avuto chiara la situazione, non ho lasciato equivoci circa il fatto che o mi veniva ritirato l'incarico o non potevo fare altro che andare avanti secondo i miei doveri, a prescindere e magari anche contro le mie idee».

C'è chi pensa che l'obiettivo del pool non fosse la rivoluzione.

«Che cosa perseguisse il pool non lo so e neppure so su quali basi potesse ritenere di conseguire il risultato di andare al potere. Ho l'impressione che non si sia mai detta la verità da parte di tanti soggetti e non solo del pool».

Poi arrivò la discesa in campo di Silvio Berlusconi...

«Di certo Berlusconi è stato l'imprevisto che nessuno aveva calcolato ma che nelle pianificazioni della strategia politica sempre dovrebbe essere calcolato. Il fatto è che quella strada era stata fin troppo liscia, solo se si pensa che in due anni scarsi è stata distrutta una classe politica, che pur con tutti i torti e peccati ha reso questo Paese ricco, libero e sicuro. L'unico che ha avuto il coraggio di impersonare questo imprevisto è stato Berlusconi».

Craxi, Berlusconi e oggi Renzi. Siamo alle solite?

«Con Berlusconi e la lunga sequenza dei processi a suo carico, poi finiti nel nulla con una sola eccezione che peraltro nulla aveva a che fare con la sua attività politica, inizia una nuova epoca che in qualche misura resiste come nel caso di Renzi. Ma questi scontri non sono più contro un intero sistema come all'epoca, ma sono contro la singola persona».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la 

La “confessione” del compagno Ranieri ignorata da giornali e politica. Lo storico dirigente del Pds riconosce la deriva giustizialista ai tempi di Tangentopoli. Ma nessuno (o quasi) se n'è accorto...di Francesco Damato su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.

Umberto Ranieri, storico dirigente napoletano del Pd, cinque volte deputato, una volta senatore, tre volte sottosegretario agli Esteri, un migliorista a 24 carati di quello che fu il Pci, ha scritto per Il Mattino una lunga, onestissima e sotto molti aspetti inedita “riflessione” su Mani pulite da lui vissute non certo come un passante.

Riconosciuto ad Enrico Berlinguer il merito di avere sollevato per primo la cosiddetta questione morale denunciando l’esorbitante spazio occupato dai partiti in una situazione bloccata dalla mancanza di alternative agli equilibri politici formatisi a livello sovranazionale dopo la seconda guerra mondiale, Ranieri ha contestato all’allora popolarissimo segretario del Pci di non avere praticamente fatto nulla per andare oltre alla denuncia e rimediarvi. All’alternativa da costruire con gli scomodi cugini o compagni socialisti, specie quando Bettino Craxi ne assunse la guida, pur non citati né gli uni né l’altro stavolta da Ranieri, il segretario comunista in effetti preferì il compromesso storico con la Dc. Che pure era la prima beneficiaria del blocco politico in cui l’economia “ampiamente statalistica” la faceva da padrona. E alla cui ombra, tra appalti e simili, si sviluppava la pratica del finanziamento “irregolare” che “in una certa misura riguardava anche il Pci”, per cui “sarebbe una manifestazione di ipocrisia negarlo”, ha scritto Ranieri.

Quando esplose il bubbone con Tangentopoli, Mani pulite e varianti «il Pci/ Pds fornì un acritico sostegno all’azione giudiziaria persuaso che l’attività repressiva potesse favorire quel rinnovamento che non si era capaci di produrre per via politica. Un appoggio – ha insistito Ranieri- che non venne meno neppure di fronte all’emergere di riserve sulla legittimità o correttezza delle modalità operative della procura di Milano», specie con l’abuso delle manette.

«Fu Gerardo Chiaromonte – ha raccontato Ranieri- a denunciare senza incertezze ed esitazioni lo sconfinamento della giurisdizione penale e la messa in mora dei principi di garantismo. Fu un drammatico errore che Gerardo denunciò assecondare gli umori giustizialisti e non prevedere che “gli effetti di un terremoto giudiziario sulla evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi».

Infatti «all’orizzonte comparve il cavaliere Berlusconi» vincendo le elezioni del 1994 non solo o non tanto per le capacità manipolatrici e di fuoco mediatico attribuitegli dagli avversari quanto perché «in realtà, una parte considerevole degli elettori non ritenne giusto che a essere spazzata via dalle inchieste fosse solo l’area dei partiti di governo, che non corrispondesse alla realtà quella sorta di “univocità di colpa”».

A proposito del tentativo fallito dal governo Amato, col famoso decreto legge del ministro della Giustizia Giovanni Conso, per una uscita cosiddetta politica da Tangentopoli, e non solo giudiziaria o manettara, Ranieri ha scrupolosamente testimoniato, da deputato qual era a quei tempi, che la Commissione degli affari costituzionali della Camera se n’era già occupata convenendo con un complesso di «sanzioni amministrative e pecuniarie per l’illecito finanziamento dei partiti, e clausole che comportavano insieme alla confessione l’uscita dei responsabili del reato dalla vita politica». «Altro che colpo di spugna», ha scritto Ranieri aggiungendo che «furono il pool di Mani Pulite e l’Associazione nazionale dei magistrati a impedire che si adottasse il provvedimento» varato da governo «minacciando fuochi e fiamme e intimorendo il presidente Scalfaro, che rifiutò di firmare il decreto».

Di fronte ad “una politica rimasta debole”, che “ha continuato a subire negli anni successivi un forte condizionamento da parte del potere giudiziario”, per cui “non si è riusciti a ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale”, i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale “forse aiuteranno il Parlamento a misure di modernizzazione del sistema giudiziari”, ha scritto Ranieri esortando a “impegnarsi perché accada”.

Ebbene, sapete dove Il Mattino ha pubblicato domenica questa pò pò di riflessione, testimonianza e quant’altro? A pagina 43, senza un rigo – dico un rigo – di richiamo in prima pagina. Dove invece si è preferito il richiamo che meritava, per carità, ma non meno dell’articolo di Ranieri, il drammatico ricordo del suicidio del padre e parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni da parte della figlia Chiara: un dramma che senza la “riflessione” di Ranieri non si potrebbe certo valutare appieno.

Ma ieri, lunedì, non so per caso o per una qualche graduatoria politica, ho trovato sulla prima pagina dello stesso Mattino il giornale al cui allora direttore Giovanni Ansaldo chiesi e ottenni da studente universitario di scrivere, vedendomi commissionare un bel pò di recensioni di libri politici- il richiamo in prima pagina di un’intervista di Luciano Violante in cui si dà “ragione a Craxi”. Ma allora cosa avrà mai fatto Ranieri al Mattino, mi chiedo cogliendo l’occasione per attribuire anche a noi giornalisti la responsabilità della crisi della politica.

Gustavo Bialetti per “La Verità” il 22 febbraio 2022.  

Il gruppo Gedi della famiglia Elkann ha pensato bene di ricordare i 30 anni di Mani pulite con un agile libercolo in vendita in edicola. Sono quasi 380 pagine. Il titolo è L'Italia di Mani Pulite. 

A trent' anni dall'inchiesta che segnò la fine dei partiti figli del dopoguerra, svelò la corruzione di un sistema e cambiò il volto del Paese. Ci sono articoli dell'Espresso, di Repubblica e della Stampa.

Ritroviamo così gli autori dell'epoca, di ieri e di oggi. Eppure a un certo punto, a pagina 360, compare un articolo non firmato preso da Repubblica del 28 maggio 1995. 

Il titolo è inequivocabile. Il giorno della Mondadori. Tocca al manager Urbano Cairo. Nel catenaccio si legge: «Il dirigente, 37 anni appena, è coinvolto, attraverso una piccola società controllata dalla sua famiglia nel giro di fatture false che ruota intorno a Publitalia». La storia dell'attuale azionista di maggioranza del Corriere della sera sotto Tangentopoli è nota sebbene non sia così importante. Fu uno dei pochi a chiedere il patteggiamento.

«Ancora uno degli uomini più vicini a Silvio Berlusconi viene interrogato dai sostituti procuratori dell'inchiesta di Mani pulite ed è sotto inchiesta per false fatturazioni. 

Si tratta di Urbano Cairo, attuale amministratore delegato della Mondadori pubblicità, giovane ed emergente manager del gruppo del Biscione, che, senza dire una parola, ma rilassato e sorridente, esce alle 14 dalla stanza dell'interrogatorio, cominciato tre ore prima dai pm Gherardo Colombo e Francesco Greco».

Va detto, per amor di cronaca, che nel tomo si ricordano anche le inchieste sulla Fiat e Cesare Romiti. In quel caso non si indagò proprio. 

I trent'anni di Mani Pulite. "De Benedetti sapeva già tutto pochi mesi prima". Stefano Zurlo il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria.

Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria. «Nella primavera del 1991 - è il racconto al Giornale del politico democristiano, allora ministro del Bilancio nel governo Andreotti - venne a trovarmi Carlo De Benedetti con cui avevo un rapporto di amicizia, anche se la pensavamo in modo diverso. In pratica mi spiegò che con altri imprenditori legati al «salotto buono» di Enrico Cuccia voleva modificare gli assetti politici del Paese e spostarli verso i post-comunisti che al congresso di Rimini, in febbraio, avevano fondato il Pds e si erano convertiti a posizioni riformiste».

Insomma, l'establishment italiano aveva annusato l'aria e aveva intuito, o sapeva, che il vento stava cambiando e si stava preparando una nuova stagione. Non era ancora Mani pulite, ma certo con la caduta del Muro gli equilibri nati nel 1945 erano saltati e l'epoca del bipartitismo imperfetto, la Dc al potere e il Pci all'opposizione, era arrivata ai titoli di coda.

Servivano schemi diversi e combinazioni inedite e il gotha dell'industria tricolore aveva fatto le sue scelte, sposando la sinistra.

È esattamente quel che Cirino Pomicino ha narrato a Simone Spetia per il podcast di Radio 24 Monetine, confezionato per l'anniversario di Mani pulite. «Parlare di golpe sarebbe una fregnaccia», mette le mani avanti il neurologo da sempre nel Palazzo - piuttosto direi che De Benedetti voleva cavalcare quei rivolgimenti e dunque mi lanciò l'idea: Fai il mio ministro. Fai tu il nostro industriale replicai capovolgendo la frittata e chiamando in causa anche Andreotti. Insomma, la questione finì sul ridere, ma De Benedetti capì che non condividevo quel progetto».

Cirino Pomicino aveva già accennato a questa vicenda nei suoi scritti, ma ora si sofferma su quelle settimane cruciali che portarono al tramonto della Prima Repubblica: «Io condussi le mie verifiche e scoprii che la trama c'era ed era molto articolata. Dunque, preoccupato e inquieto, informai i capi della Dc ma ho sempre avuto il privilegio di non essere creduto e la cosa finì lì».

Insomma, la Dc e il governo scivolarono verso il baratro senza prendere alcuna contromisura, impreparati all'appuntamento con la storia e a quello ancora più drammatico con la cronaca giudiziaria.

«A dicembre '90 la corrente andreottiana si era riunita e in quel convegno c'erano state presenze importanti, a cominciare dallo stesso De Benedetti, dal Presidente di Confindustria Sergio Pininfarina e da imprenditori del calibro di Giorgio Falck. Sembrava che tutto filasse per il meglio, ma era solo un abbaglio. A settembre '91, al Forum Ambrosetti di Cernobbio, mi accorsi che il clima era completamente cambiato. I cosiddetti poteri forti ci avevano abbandonato, i grandi giornali, dal Corriere alla Repubblica, iniziarono a criticarci pesantemente, e mi avvidi che la Dc e il pentapartito avevano perso la sintonia con le classi dirigenti del Paese».

Un altro campanello d'allarme, pochi mesi prima dell'avvio della grande inchiesta condotta da Antonio Di Pietro. Il 17 febbraio 1992 finisce in manette Mario Chiesa, il potente presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio e il vecchio sistema di potere comincia a sfaldarsi. Molti leader assistono sbigottiti e increduli all'escalation delle manette e immaginano complotti e macchinazioni, magari orchestrate da potenze straniere; intanto la procura guidata da Francesco Saverio Borelli falcia i big socialisti e democristiani che cadono come birilli uno dopo l'altro. «A giugno '92, con Amato a Palazzo Chigi - prosegue l'ex deputato napoletano, autore di numerosi libri - Gerardo Chiaromonte, uno dei pezzi da novanta della nomenklatura rossa, mi fece sapere riservatamente che il Pds aveva scelto la via giudiziaria per andare al potere. E so che la stessa comunicazione arrivò al leader liberale Renato Altissimo. Cosa questo significasse in concreto non me lo chiarì, ma certe anomalie sono evidenti anche oggi, a distanza di tanto tempo e, in parte, restano inspiegabili: il Pds e la sinistra democristiana, insomma i soggetti che poi formarono l'Ulivo, schivarono miracolosamente la tempesta. Solo non avevano calcolato tale Silvio Berlusconi. Ma quella è un'altra storia». Stefano Zurlo

Pomicino su Mani Pulite: "Non fu golpe giudiziario ma disegno politico. De Benedetti ebbe un ruolo". Rec News dir. Zaira Bartucca il 15 febbraio 2022.

Le dichiarazioni del politico sul filone di inchieste che scompaginò gli assetti e travolse i partiti.

A trent’anni da Mani Pulite, Paolo Cirino Pomicino: “Non fu golpe giudiziario ma disegno politico”. “Definirlo solo un golpe giudiziario è una fregnaccia”. “Sapevo già tutto dal 1991, Carlo De Benedetti mi parlò del suo disegno politico”. “Avvertii i miei riferimenti nazionali ma non fui mai ascoltato”. Così Paolo Cirino Pomicino a “Monetine – cinque storie di Mani Pulite”, il podcast di Simone Spezia su Radio 24 che racconta dal suo punto di vista Mani Pulite e quello che accadde nel 1992.

Alla domanda “Ma nel 1992 aveva capito che stava per succedere qualcosa di enorme?” Pomicino risponde: “Mi avevano avvertito da un anno prima di quello che sarebbe successo perché nel 1991, in primavera, venne da me Carlo De Benedetti per dirmi che stava preparando un disegno politico, insieme ad altri imprenditori, per modificare l’assetto politico del paese. Io dissi, ironicamente, che mi stava spiazzando, dicendogli che con Andreotti stavamo pensando a un progetto industriale e gli volevo chiedere, sempre ironicamente, se volesse essere il nostro imprenditore. La portai sullo scherzo sottolineando il primato della politica, ma nella verità De Benedetti si convinse che non ero d’accordo con il suo disegno. Avvertii i miei riferimenti nazionali di questa cosa ma non fui mai ascoltato. Non lo definisco golpe giudiziario ma disegno politico. Definirlo solo golpe giudiziario è una fregnaccia”.

30 anni di Mani Pulite, dall’arresto di Chiesa alla scoperta del sistema. il racconto di Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo al Fatto. Il Fatto quotidiano il 17 febbraio 2022.

Sono passati 30 anni quando Antonio Di Pietro ha arrestato Mario Chiesa. Era il 17 febbraio 1992: allora iniziò l’inchiesta giudiziaria che ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana: Mani pulite. Mario Chiesa finisce in carcere per aver intascato una mazzetta, dopo pochi giorni inizia a collaborare e l’inchiesta ha una svolta. Chiesa, socialista vicinissimo a Craxi, scaricato dal partito, chiama in causa alcuni imprenditori e tutti gli imprenditori improvvisamente collaborano.

“In realtà c’erano delle altre cose, la prima è che Chiesa all’inizio non parla – spiega Piercamillo Davigo -. Decide di parlare per due fattori. Secondo me. Il primo fattore riguarda la sua causa di separazione. Di Pietro era venuto a conoscenza dell’esistenza in Svizzera di due conti intestati al nome di acque minerali. E aveva fatto una rogatoria credo ottenendo il sequestro delle somme. Aveva detto all’avvocato di Chiesa: dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita. L’avvocato disse che non capiva, Di Pietro rispose capirà lui. E la seconda cosa fu che Craxi, il segretario del Partito Socialista cui apparteneva la Chiesa, disse che lui si trovava nei guai per colpa di un isolato mariuolo e che in 50 anni nessun amministratore del suo partito nella città di Milano era mai stato condannato con sentenza definitiva per reati contro la pubblica amministrazione”.

E questo, secondo il racconto dell’ex magistrato, è un passo falso da parte di Craxi: “Chiesa l’ha presa come l’essere scaricato e isolato. Pochissimo tempo dopo, il 3 luglio, Craxi alla Camera pronuncia un famoso discorso in cui dice che fin da quando sono ragazzino che so che si fanno queste cose ecc. il sistema di finanziamento della politica è in larga misura irregolare o illegale eccetera eccetera”.

Ma perché gli imprenditori iniziano a parlare proprio nel 92? Perché non prima? “Fino a quel momento – spiega Davigo – gli imprenditori erano riusciti tranquillamente a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, attraverso la revisione e le varianti in corso d’opera o le revisioni dei prezzi, i costi che c’erano. Nel 92, anzi forse già nel 91, c’era stata una stretta di bilancio imposta dal governo. Ovviamente la stretta di bilancio serviva a impedire la traslazione dei costi delle tangenti sulla Pubblica Amministrazione, quindi improvvisamente questi costi andavano a incidere non più sul costo delle opere ma sul profitto degli imprenditori i quali hanno cominciato a sentirsi concussi. La concussione quando uno è costretto o indotto a pagare in una situazione di inferiorità rispetto al pubblico ufficiale”.

A Piercamillo Davigo fa eco un altro ex magistrato, componente del pool di Mani Pulite, Gherardo Colombo: “Adesso la vulgata, il senso collettivo di questa roba qua è che Mani pulite è stata una specie di invenzione, che la corruzione non c’era, e che abbiamo messo in prigione le persone per fare un colpo di Stato e addirittura se chiediamo che sia accertato che quel che si dice in proposito non è vero da parte delle autorità giudiziarie ormai il diritto di critica copre praticamente tutto…”. Poi, conclude raccontando il sistema: “Sulla sanità lombarda abbiamo trovato proprio lo schema di distribuzione degli appalti con le percentuali per ciascuna impresa, riferite a ciascun ospedale. Io credo che alla fine noi siamo arrivati a 700 rogatorie internazionali rivolte a una trentina di paesi, sopratutto alla Svizzera, tutte indirizzate a ottenere conti correnti bancari o documentazione societaria. Ogni volta che ci arrivava una risposta erano decine e decine di corruzioni in più che noi scoprivamo… e invece adesso c’è questa credenza popolare secondo cui ci siamo inventati tutto…”

Caso Calvi, ecco i segreti della polizia di Londra svelati quarant'anni dopo. Alessandra Zavatta su Il Tempo il 17 giugno 2022.

"È alle 7,50 di venerdì 18 giugno quando un passante sul marciapiede sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra, si è sporto dal parapetto e ha visto un corpo appeso per il collo con un nodo di corda agganciato all’impalcatura che era stata eretta sul letto del fiume la prima notizia di polizia di Mister Calvi". Inizia così la lettera inviata da John Goddard del Ministero dell’Interno di Sua Maestà a R. Osborne del Foreign Office. Una lettera spedita il 16 luglio 1982 e che fa parte dei fascicoli di documenti riservati, secretati, confidenziali che a quarant’anni dal delitto la Gran Bretagna ha trasferito all’Archivio di Stato. Documenti che "Il Tempo" è ora in grado di mostrare in esclusiva. Molte delle carte sulla morte di Roberto Calvi, l’ex presidente del Banco Ambrosiano, sono ora Storia. La missiva del ministero dell’Interno riepiloga i primi concitati momentidelle indagini: "L’impalcatura è stata eretta dalla Metropolitan Waterloo Board e la corda non è stata lasciata lì dagli operai. L’origine è al momento sconosciuta. La posizione dell’impalcatura è tale che è quasi interamente coperta con l’alta marea mentre il letto del fiume in quel punto è in secca con la bassa marea". Ne consegue, perciò, che "Roberto Calvi potrebbe aver raggiunto la posizione in cui è stato trovato sia arrampicandosi sul ponteggio (c’è una scala di ferro fissata proprio in questo punto), sia arrivando dal letto del fiume, sebbene questo avrebbe probabilmente significato la discesa dalla stessa scala, oppure da una barca». «Non c’è nessuna evidenza che indichi quale di queste tre possibilità raccordi con i fatti", conclude il ministero dell’Interno.  

Quando il Banchiere di Dio viene ritrovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri sono trascorsi sette giorni da quando è scomparso dalla propria abitazione, a Roma. È appena stato condannato in primo grado per reati valutari a quattro anni di reclusione e 15 miliardi di lire di multa, è in attesa dell’appello e non può lasciare l’Italia perché ha il divieto di espatrio. Ma a Londra ci arriva lo stesso. Con un passaporto falso intestato a Gian Roberto Calvini, come accerteranno gli investigatori della polizia della City of London che si occupa delle indagini che riguardano crimini avvenuti nella Cittadella degli Affari. 

Ma come fa la polizia a sapere che c’è un cadavere sotto al ponte? Viene chiamata da Stephen Edwin Pullen, un impiegato del Daily Express dopo che il collega Antony Iames Huntley arriva sconvolto in ufficio raccontando della macabra scena che ha visto camminando lungo la banchina del Tamigi. Pullen e Huntley ritornano sul posto, con gli agenti John Palmer e Gerald Saint, che redigono così il primo verbale. Quello che descrive il corpo senza vita di uomo appeso per il collo con una corda arancione fissata alla seconda barra dell’impalcatura, con i piedi e parte delle gambe nell’acqua perché in quel momento la marea è alta. La foce del Tamigi, ad estuario, fa sì che il livello del fiume risenta delle maree. "Il corpo è stato rimosso dalla polizia fluviale e posto sul Waterloo Pier - scrive Goddard a Osborne - La morte è dovuta ad asfissia per strangolamento e non ci sono apparenti ferite esterne tranne il segno della corda sul collo e alcune abrasioni minori sulle gambe. È stimato che la morte sia occorsa tra 8 e 12 ore prima che il corpo venisse trovato". Ed ecco come i funzionari del ministero britannico descrivono il ritrovamento del misterioso impiccato al Blackfriars Bridge: "Sul corpo sono stati rinvenuti tre pezzi di pietra e mezzo mattone. Due pezzi sono stati forzati nelle tasche dei pantaloni provocando la rottura delle cuciture, e altri due pezzi erano davanti alle mutande". Nella giacca vari appunti, 7.500 sterline e il passaporto che "apparirebbe essere il suo ma che sembra essere stato alterato per trasformare il nome in Gian Roberto Calvini". La ricostruzione di come il presidente dell’Ambrosiano sparisce da Roma e riappare, morto, a Londra viene spiegata così dai britannici: "Calvi è arrivato in questo paese con un uomo di nome Silvano Vittor, impiegato come guardia del corpo. Il viaggio è stato organizzato da Flavio Carboni, che ha anche organizzato per i due uomini una sistemazione in un appartamento del Chelsea Cloisters. Sconvolto dallo scadente standard della sistemazione, Calvi chiese che Flavio viaggiasse immediatamente in Inghilterra per organizzare un migliore alloggio". E Carboni volò a Londra. "Giovedì 17 giugno - riportano gli inquirenti londinesi - Flavio e Silvano uscirono per cena lasciando Calvi nell’appartamento". Il banchiere, che in Inghiltera era sbarcato il 15 giugno alle 17,45 con un volo privato giunto dalla Svizzera, rifiutò di lasciare l’albergo perché spaventato da qualcuno». E quando Vittor tornò a tarda sera "trovò che Calvi era scomparso e affermò di non averlo più visto".

Per gli investigatori di Londra fin da subito «non c’è nessuna evidenza che suggerisce qualcosa di diverso da un caso di suicidio». Gli inquirenti romani propendono invece per l’omicidio. Le indagini porteranno alla luce un complicato intreccio di finanziamenti operati dall’Ambrosiano, collegamenti con lo Ior, la banca del Vaticano, oltre al riciclaggio di soldi della criminalità organizzata e sovvenzioni a Solidarnosc, il sindacato polacco che diede la prima spallata che disintegrò l’Unione Sovietica. Il 17 ottobre 2013 il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone archivierà il procedimento a carico di Flavio Carboni, Licio Gelli, il capo della Loggia P2 (a cui Calvi era iscritto) e degli altri quattro indagati perché "gli elementi probatori di cui si dispone non hanno assunto il valore di prove certe". Nel frattempo Vincenzo Casillo, indicato da cinque pentiti di mafia come l’esecutore materiale del delitto, era già morto. 

La verità su Tangentopoli: ecco i verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Le confessioni di Chiesa, il primo arrestato. Le rivelazioni di Larini, il tesoriere del Psi di Craxi e Martelli. La maxicorruzione Enimont. Le tangenti rosse di Primo Greganti. Le ammissioni di Romiti, De Benedetti, Scaroni. I fondi segreti di Pacini Battaglia. Le buste di denaro da Pomicino a Salvo Lima. I soldi della Montedison alla Lega. Le mazzette Fininvest mentre Berlusconi è al governo. Tutta l’inchiesta Mani Pulite raccontata dai protagonisti: 15 big della politica e dell’economia che spiegano ai magistrati «il sistema». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 Febbraio 2022.

Trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, un arresto a Milano ha fatto partire un'inchiesta giudiziaria, chiamata Mani Pulite, che ha cambiato la storia del nostro Paese. In meno di tre anni quell'indagine ha fatto emergere migliaia di casi di corruzione, svelando un sistema organizzato, gerarchico, diffuso da decenni a tutti i livelli, di saccheggio delle risorse pubbliche. Tra gli oltre 1200 condannati per tangenti e fondi neri ci sono i più importanti imprenditori dell'epoca e tutti i leader e tesorieri dei partiti che hanno governato l’Italia per quasi mezzo secolo, tutti liquidati con le elezioni del 1994 e la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Da allora la corruzione è cambiata, ma non è certo finita. E non si mai fermate le polemiche, contrapposizioni e riletture di quel periodo di svolta storica, in un'Italia che sembra ancora spaccata in due, pro o contro Mani Pulite.

Per dare ai lettori la possibilità di capire direttamente, senza filtri o mediazioni, cosa è stata Tangentopoli (un fortunato neologismo coniato da un cronista giudiziario di Repubblica, Piero Colaprico) abbiamo deciso di pubblicare i verbali integrali dei protagonisti: il sistema della corruzione raccontato dai big della politica e dell'economia che ne hanno fatto parte o l'hanno dovuto subire. Sono gli interrogatori e i memoriali che hanno svelato la storia segreta del potere in Italia. Le confessioni del primo arrestato, Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, che mettono in moto la valanga giudiziaria. Le ammissioni di Gianstefano Frigerio, il tesoriere della Dc lombarda, poi diventato parlamentare di Forza Italia, dopo tre condanne, e riarrestato nel 2014 per le tangenti dell'Expo. Le rivelazioni di Silvano Larini, il tesoriere del Psi che portava le buste di contanti a Bettino Craxi e ha prestato il suo conto svizzero per incassare i soldi della P2: 7 milioni di dollari versati dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, con la regia di Licio Gelli e dell'ex ministro Claudio Martelli.

E ancora, le tangenti rosse di Primo Greganti, il «compagno G», l'ex funzionario comunista che incassava all'estero i bonifici della Calcestruzzi, la società di costruzioni del gruppo Ferruzzi, confessate dal manager Lorenzo Panzavolta. L'interrogatorio cruciale di Pierfrancesco Pacini Battaglia, il banchiere segreto dell'Eni, che ammette di aver mandato dalla Svizzera in Italia almeno 50 miliardi di lire (25 milioni di euro), consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e in parte minore della Dc.

All'aprile 1993, l'anno delle indagini sulle grandi aziende pubbliche e private, risale il memoriale di Cesare Romiti, con l'ammissione che anche i manager di sei società del gruppo Fiat «non hanno potuto resistere» e hanno dovuto accettare «un sistema altamente inquinato» di finanziamenti illeciti ai partiti di governo. In maggio arriva la confessione di Carlo De Benedetti che diverse società del gruppo Olivetti, osteggiate da «un regime politico prevaricatore», hanno dovuto versare, «a partire dal 1987», circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri. E poi ci sono le ammissioni di moltissimi altri capitani d’azienda, come il super manager Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan, che negli anni di Tangentopoli guidava la Techint e raccoglieva anche da altre imprese i soldi che lui stesso poi consegnava ai tesorieri socialisti, per ottenere appalti per le centrali a carbone dell'Enel, di cui poi è diventato il numero uno.

Al processo simbolo di Mani Pulite si arriva con gli interrogatori per la maxitangente Enimont, con tutti i nomi dei politici che si sono spartiti oltre 150 miliardi di lire: segreti rivelati dal cervello finanziario del gruppo Ferruzzi-Montedison, Giuseppe Garofano, dopo i suicidi Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e di Raul Gardini, che aveva guidato per anni il colosso chimico privato. Tra i politici, spicca il verbale di Paolo Cirino Pomicino, ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, che nel novembre 1993 confessa di aver intascato più di cinque miliardi di lire in titoli di Stato, consegnatigli «in tre buste» da Luigi Bisignani, che li aveva riciclati allo Ior, la banca del Vaticano. Davanti al pm Antonio Di Pietro, l'allora parlamentare spiega di aver usato quei soldi per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente andreottiana, precisando di aver girato un miliardo e mezzo a Salvo Lima, il politico siciliano colluso con la mafia (secondo numerose sentenze) che fu ucciso dai killer di Cosa Nostra dopo la conferma in Cassazione delle condanne del primo maxiprocesso.

Tra le sorprese politiche, c'è il verbale del tesoriere della Lega, Alessandro Patelli, che nel dicembre 1993 viene arrestato e confessa di aver incassato una tangente di 200 milioni di lire, già ammessa dai manager della Montedison. Umberto Bossi, fondatore e segretario del partito, nega di aver saputo, ma il 20 dicembre consegna alla procura un assegno con il rimborso integrale del finanziamento illecito.

Il capitolo finale di Mani Pulite è l'indagine sulla corruzione per evadere le tasse, che coinvolge anche la Fininvest di Silvio Berlusconi, capo del governo in carica. Nel luglio 1994 il manager Salvatore Sciascia ammette che tre società del gruppo hanno versato tangenti a diversi militari della Guardia di Finanza, che lo hanno già confessato. Sciascia dichiara che a dare l'autorizzazione e a fornire i fondi neri era Paolo Berlusconi, mentre il fratello Silvio non ne sapeva nulla. Condannato in primo grado, il leader di Forza Italia ottiene la prescrizione in appello e una trionfale assoluzione in Cassazione, che conferma solo le condanne dei manager, compreso Sciascia, poi diventato parlamentare.

Il sipario su Mani Pulite si chiude il 6 dicembre 1994, quando il pm Antonio Di Pietro, simbolo e motore delle indagini, lascia la procura all'improvviso, dopo la requisitoria del processo Enimont, proprio alla vigilia dell'interrogatorio di Berlusconi. Che una settimana dopo, interrogato nell’ufficio del procuratore Borrelli, polemizza con i magistrati: «E voi per una cosa del genere indagate il capo del governo? Ma vi rendete conto del danno all’Italia?». Lasciata la magistratura, nel 1995 Di Pietro viene indagato e poi assolto a Brescia.

Attenzione: tutti i documenti che pubblichiamo negli altri articoli di questo sito sono verbali d'interrogatorio, non sentenze di condanna. Hanno valore di prova solo nelle parti in cui l'indagato confessa i propri reati. Tutte le altre persone chiamate in causa per ipotetiche accuse, invece, vanno considerate innocenti, fino a prova contraria, perché nei successivi processi potrebbero aver dimostrato la propria estraneità o essere stati prosciolte per prescrizione, amnistia o altre ragioni. Gli interessati possono inviare commenti, repliche o precisazioni a L'Espresso (all'indirizzo p.biondani [chiocciola] espressoedit.it), che le pubblicherà integralmente su questo stesso sito, all'interno dell'articolo in questione. Abbiamo deciso di pubblicare integralmente questi quindici verbali di Mani Pulite perché sono documenti di interesse pubblico e di importanza storica, che riguardano problemi ancora attuali: contengono le ricostruzioni del sistema della corruzione fornite direttamente dai protagonisti, da personaggi che hanno segnato la vita politica ed economica del nostro Paese e che durante le indagini, assistiti dai loro avvocati di fiducia, si sono assunti la responsabilità di deporre davanti alla magistratura, ripetendo più volte di voler dire tutta la verità.

Gianstefano Frigerio, il tesoriere nero della Dc lombarda: condannato, diventato onorevole di Forza Italia e riarrestato. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.

Milano, 17 febbraio 1992: il presidente del Pio Albergo Trivulzio viene ammanettato mentre intasca una mazzetta. A fine marzo, ammette vent’anni di corruzioni. Ecco l’atto d’inizio di Tangentopoli

L'inchiesta Mani Pulite inizia trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, con un arresto in flagranza. Quel pomeriggio a Milano i carabinieri ammanettano un dirigente pubblico di nomina politica, il socialista Mario Chiesa, nel suo ufficio di presidente dello storico ospizio Pio Albergo Trivulzio. L’ingegner Chiesa ha appena intascato sette milioni di lire in contanti, pari a 3500 euro.

Le rivelazioni di Larini: le buste di soldi per Bettino Craxi, i 7 milioni della P2 gestiti da Martelli. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

L’architetto socialista ammette di aver prestato il suo «Conto Protezione» per incassare in Svizzera le tangenti pagate dal banchiere Calvi con la regia di Licio Gelli. Ecco l’accusa che nel febbraio 1993 fa dimettere l’allora ministro della giustizia. Silvano Larini, architetto e faccendiere socialista, è stato per anni uno degli amici più fidati di Bettino Craxi. Nel febbraio 1993, indagato e ricercato come collettore delle tangenti del metrò di Milano, si costituisce dopo una latitanza all'estero e confessa ai magistrati di Milano quindici anni di tangenti.

In questo storico verbale di Mani Pulite, Larini spiega di aver avuto da Craxi in persona (e dal suo padrino politico, il defunto parlamentare milanese Antonio Natali) l’incarico di «incassare per il Psi il denaro versato dalle imprese per gli appalti della metropolitana (...)

Quando gli Stati Uniti scaricarono Bettino Craxi. L'incontro tra il presidente Bush e Falcone a Roma. E il colloquio segreto tra Cuccia e il leader Psi. Così, tra il 1989 e il 1990, si preparò la fine della Prima Repubblica. Fabio Martini su L'Espresso l'8 gennaio 2020.

Bettino Craxi Anticipiamo in queste pagine uno stralcio del nuovo libro di Fabio Martini “Controvento. La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino editore, in uscita il 9 gennaio, in occasione del ventesimo anniversario della morte del leader socialista, avvenuta il 19 gennaio 2000 nella sua casa di Hammamet, in Tunisia.

Quel saggio su Proudhon con cui Bettino Craxi segnò la storia della sinistra in Italia. Nell’agosto del 1978 il segretario del Psi pubblicava sull'Espresso il "vangelo" del suo socialismo. Uno spartiacque per ?la sinistra di ieri. Un modello ?per gli aspiranti leader di oggi? Marco Damilano su L'Espresso il 30 agosto 2018.

Bettino Craxi Il Vangelo socialista, lo titolò il direttore dell’Espresso Livio Zanetti, con malizia, perché dopo tanto girovagare il popolo socialista aveva finalmente trovato il suo messia: una buona novella, soprattutto per lui, l’autore del testo, il segretario del Psi Bettino Craxi. 

«Un baedeker ideologico e un argomento di discussione», si leggeva nel sommario, «il segnale d’avvio di un’offensiva destinata a tenere alta la temperatura tra il Pci e il Psi per molte settimane», precisava nell’introduzione Paolo Mieli, giornalista del settimanale di via Po, come ci chiamavano all’epoca sugli altri giornali, ma alla fine il saggio firmato da Craxi si rivelò molto di più.

Hammamet, un grande Pierfrancesco Favino per un piccolo film. Superba la prova dell’attore che interpreta Bettino Craxi. Ma il resto lascia a desiderare. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 14 gennaio 2022.

Il vecchio carroarmato è arenato nella sabbia africana dai tempi dell’ultima guerra. Imponente ma inoffensivo, trasmette una hybris luciferina e insieme una solitudine definitiva, minerale. Insomma è la perfetta metafora di quell’uomo malato e costretto all’autoesilio, un esilio che molti chiamano fuga. Così, davanti a quel residuato bellico il Presidente (nel film Craxi resta innominato) decide di parlare.

Il tesoriere della Lega confessa la tangente Montedison. E Umberto Bossi risarcisce la Procura. Paolo  Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

Nel 1993 il Carroccio vince le elezioni a Milano attaccando «Roma ladrona», ma in dicembre finisce in carcere Alessandro Patelli, che ammette di aver ricevuto 200 milioni di lire dal gruppo chimico. Il senatur nega di aver saputo, ma viene condannato in tutti i gradi del processo Enimont insieme ai big dei vecchi partiti

Dopo i primi boom di voti alle regionali del 1990 (oltre il 18 per cento in Lombardia) e alle elezioni politiche del 1992 (8,7 a livello nazionale) la Lega Nord nel giugno 1993 conquista il Comune di Milano. Il partito fondato da Umberto Bossi cavalca le indagini di Mani Pulite con una dura campagna contro la corruzione e i vecchi partiti di «Roma ladrona» che tartassano il Nord produttivo. 

L’ex ministro dell’ultimo governo Andreotti, dopo le confessioni dei dirigenti ammette di aver ricevuto tre buste di fondi neri riciclati in Vaticano. E spiega di averli usati per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente, dalla Campania alla Sicilia, Puglia, Toscana e Veneto

Paolo Cirino Pomicino, parlamentare democristiano dal 1976 al 1994 e ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, ha superato da tempo la bufera di Tangentopoli: è stato parlamentare europeo fino al 2006 e tuttora viene intervistato da giornali e televisioni come un grande saggio della politica italiana. Pochi ricordano che a Milano ha dovuto patteggiare una storica condanna per lo scandalo Enimont: della maxitangente pagata dalla Montedison, ha incassato più soldi lui di tutta la Dc.

Carlo De Benedetti: «L’Olivetti costretta a piegarsi ai ricatti dei politici, mi assumo la responsabilità». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

L’industriale ed editore consegna al pm Di Pietro, nel maggio 1993, una memoria con l’ammissione che il suo gruppo ha dovuto versare circa 20 miliardi di lire dal 1987 “al regime prevaricatore dei partiti”. «I ministri perseguitavano l’azienda».

Tra l'autunno 1992 e la primavera 1993 anche il gruppo Olivetti entra nelle indagini di Tangentopoli, prima per le forniture di alcune società controllate alle aziende pubbliche dei trasporti, poi per gli appalti del ministero delle Poste. Domenica 16 maggio 1993 Carlo De Benedetti consegna personalmente ai pm Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Paolo Ielo, nella caserma di via Moscova dei carabinieri di Milano, un memoriale di undici pagine, con l’ammissione che diverse società del suo gruppo hanno versato, «a partire dal 1987», finanziamenti illeciti per circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri.

Silvio mi disse: sono più forte di Craxi. L'Espresso il 19 gennaio 2012.

"Nel '90 Berlusconi aveva cominciato a maturare l'idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. "Sai", mi disse, "se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie tv, lo faccio fuori in cinque minuti"".

L’INIZIO. LA STORIA. Mani Pulite e Tangentopoli: cosa sono state e perché non hanno cambiato niente. anni '90 archivio storico Mani pulite (comunemente nota anche come tangentopoli) è il nome giornalistico dato ad una serie d'inchieste giudiziarie, condotte in Italia nella prima metà degli anni novanta da parte di varie procure giudiziarie, che rivelarono un sistema fraudolento ovvero corrotto che coinvolgeva in maniera collusa la politica e l'imprenditoria italiana. nella foto: Tangentopoli. Busta n° 6241. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 16 febbraio 2022

Prima dello scoppio della più grande inchiesta di corruzione della storia recente, l’Italia era un paese in crisi e con una classe politica distante e disprezzata: trent’anni e migliaia di arresti dopo, la situazione non sembra essere cambiata.

Sono passati esattamente 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite e Tangentopoli, lo scandalo giudiziario che ha segnato un’epoca, tra gli eventi più importanti tra quelli che hanno contribuito a creare l’Italia di oggi.

Tangentopoli fu l’insieme di inchieste della magistratura che tra 1992 e 1994 scoperchiò un vasto sistema organizzato di corruzione utilizzata da tutti i partiti per finanziare le loro attività e, in molti casi, per arricchire singoli politici e dirigenti.

Mani Pulite è il nome della prima è più vasta di queste inchieste, quella condotta dal gruppo di magistrati di Milano di cui facevano parte nomi entrati nella storia italiana: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombro, Ilda Boccassinni, il procuratore Francesco Saverio Borrelli. Altre inchieste furono condotte in tutte il paese, coinvolgendo centinaia di politici e imprenditori. Tra il 1992 e il 1996, ci furono una media di duemila persone indagate per corruzione, concussione o altri reati cosiddetti “contro i doveri d’ufficio” ogni anno. Cifre mai raggiunte in precedenza e mai più raggiunte negli anni successivi.

Tangentopoli portò al crollo degli storici partiti che avevano guidato la Prima repubblica, ma non generò una moralizzazione della vita italiana. I problemi alla radice della corruzione e della generale percepita immoralità della vita pubblica non sono cambiati.

La scomparsa dei grandi partiti ha messo fine al finanziamento illecito organizzato, ma il nostro paese rimane uno dei più corrotti dell’Europa occidentale secondo tutti i principali indicatori, anche se in forme e modi diversi rispetto al passato.

L’eredità stessa di Tangentopoli e dell’azione dei magistrati è divenuta controversa. I metodi di indagine che in certi casi hanno superato il confine delle garanzie per gli indagati, lo stretto rapporto creato dai magistrati con la stampa, sono diventati l’elemento centrale in un processo di “revisionismo” ancora in atto. 

MANI PULITE

L’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo di Tagentopoli iniziano il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, politico socialista di seconda fila e presidente della più grande struttura di cura e ricovero degli anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio.

Chiesa viene arrestato da Antonio Di Pietro, quello che sarebbe divenuto il più carismatico e popolare dei magistrati del “pool” di Mani Pulite, mentre riceveva una tangente da un imprenditore. Durante l’arresto, Chiesa si liberò di un’altra tangente che teneva nel cassetto gettandola nello scarico del water (il racconto sullo scarico bloccato e la fuoriuscita di liquami, per quanto suggestivo, è probabilmente apocrifo e Chiesa nega di aver gettato qualsiasi cosa nel gabinetto).

Da quel momento gli arresti si susseguirono uno dopo l’altro. Come in un gigantesco domino, ogni indagato conduce ad altri indagati. Gli imprenditori denunciano i colleghi che hanno pagato insieme a loro tangenti per ottenere appalti pubblici. I politici di seconda fila coinvolti si affrettano a denunciare i superiori non appena questi accennano a scaricarli.

In breve diviene chiaro che i magistrati non avevano di fronte numerosi casi di corruzione slegati l’uno dall’altro, ma un sistema strutturato e preciso, in cui per vincere appalti o realizzare opere pubbliche era necessario pagare tangenti, attentamente calcolate sull’importo totale dei lavori.

Queste tangenti venivano poi redistribuite a tutti i partiti. A Milano, il 50 per cento di quanto raccolto spettava al Partito socialista italiano (il Psi), fortissimo in città, il 20 per cento alla Dc, il 20 per cento al Pds (partito erede del Pci) e il resto ai partiti minori.

Inizialmente, i leader nazionali e locali parlano di poche mele marce. Bettino Craxi, il potente e carismatico leader del Psi, dice che il suo partito era vittima del cattivo comportamento di «pochi mariuoli». Ma le inchieste stavano rapidamente assumendo una dimensione che era impossibile trascurare.

Erano ormai decenni che la corruzione della classe politica veniva data per scontata, così come veniva dato per scontato che i politici non pagassero mai. Le indagini stavano dando la stura a un sentimento diffuso.

Alle elezioni politiche dell’aprile 1992, a meno di due mesi dall’inizio dell’inchiesta, i partiti tradizionali subirono un tracollo di fronte all’ascesa della Rete, movimento del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e la Lega Nord di Umberto Bossi, che a Milano divenne il primo partito.

LE POLEMICHE

I magistrati di Mani Pulite vengono accolti come eroi da un’opinione pubblica non solo stanca di corruzione e soprusi, ma che all’inizio degli anni Novanta, per la prima volta da molto tempo, sente venire a mancare la spinta verso la crescita che c’era stata fino a quel momento. L’Italia è entrata in quel lungo trentennio di stagnazione che dura ancora oggi. Molti italiani hanno la sensazione che non solo la classe politica è corrotta, ma che ha anche smesso di fare il suo lavoro.

Di Pietro diventa uno dei personaggi più popolari del paese. Si organizzazione manifestazioni e fiaccolate di solidarietà con il pool. A Milano, sui muri compaiono graffiti con scritto “Grazie Di Pietro”. I media si accodano. Le procure sono presidiate dagli inviati della cronaca giudiziaria, dai fotografi e dalle telecamere. L’arrivo di un nuovo arrestato, la notizia di un nuovo inquisito vengono accolto da torme di giornalisti che fanno a gara per seguire l’inchiesta. 

Anche se gran parte dell’opinione pubblica e dei media è dalla parte dei magistrati, non mancano le voci critiche. Craxi è il più deciso e fermo oppositore del pool, mentre la Dc appare più timorosa. «Non è tutto oro quel che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite», scrive Craxi ad Agosto sul suo giornale di partito, l’Avanti.

Per Craxi e un gruppo di opinionisti e intellettuali, ristretto, ma capace di far sentire la sua voce, le azioni del pool sono frutto di un disegno politico. Un modo di eliminare per via giudiziaria avversari politici, al quale collaborano insieme forze di estrema destra e sinistra, forse persino col beneplacito degli Stati Uniti, a cui non piacerebbe l’atteggiamento troppo indipendente di Craxi. 

Le critiche colpiscono anche i metodi dei magistrati. Le inchieste procedono veloci e di allargano a macchia d’olio perché gli indagati confessano a decine. E quasi tutti i protagonisti ammetteranno di aver confessato perché terrorizzati dal carcere. I magistrati fanno ampio uso della carcerazione preventiva. Centinaia di persone, spesso anziani, quasi tutti ricchi e potenti e abituati a comandare, si ritrovano arrestati, a volte di sorpresa e in piena notte, condotti fuori di casa o in tribunale circondati da fotografi e giornalisti, sottoposti alla rituale umiliazione della camminata in manette in mezzo a due ali di folla. Poi finiscono sbattuti nelle stanze anguste delle carceri, con compagni di cella che a loro sembrano alieni. Lo shock è enorme e quasi tutti parlano.

Alcuni, invece, non reggono alla prospettiva di passare attraverso tutto questo. Il 17 giugno si uccide Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Era stato interrogato da Di Pietro il giorno prima. Il 2 settembre si uccide il deputato socialista Sergio Moroni, molto vicino al leader socialista. «Hanno creato un clima infame», commenterà Craxi all’uscita dalla camera ardente.

IL FINALE

Tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, le inchieste continuano ad allargarsi e altre procure in tutta Italia seguono le orme del pool di Mani Pulite. I magistrati iniziano a puntare ai leader di partito. Il sistema capillare di corruzione e finanziamento dei partiti, sostengono, non può essersi svolto all’insaputa di segretari e presidenti. 

E tra loro, il bersaglio numero uno è lui: Craxi. Il politico più influente del paese, la figura carismatica che ha preso il mantello della difesa della classe. Il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore dell’Indipendente ed entusiasta sostenitore del pool (posizione che ha poi rinnegato), soprannomina Craxi “il chiangolone”: l’animale più pregiato della partita di caccia.

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico 1992 Bettino Craxi Benedetto Craxi, detto Bettino (Milano, 24 febbraio 1934 – Hammamet, 19 gennaio 2000), è stato un politico italiano, Presidente del Consiglio dei ministri dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987 e Segretario del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1993. nella foto: Bettino Craxi Photo  

I magistrati iniziano ad aprire indagini sui più importanti personaggi politici italiana. I telegiornali sembrano i bollettini della pandemia, dove al posto di nuovi casi e decessi vengono letti i numeri di avvisi di garanzia spediti quel giorno. L’edizione del Tg3 del 15 marzo inizia con questa lettura: «Dieci avvisi di garanzia ad altrettanti parlamentari tra cui esponenti politici di primo piano. Renato Altissimo, segretario del Pli al primo avviso di garanzia, Bettino Craxi all'ottava informazione di garanzia, Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc, alla 17esima, Antonio Cariglia, Partito socialdemocratico, al primo avviso di garanzia. Terzo avviso per Antonio del Pennino, ex capogruppo del Pri alla Camera».

Dopo un anno di indagini, oltre cento parlamentari e quasi tutti i principali leader di partito coinvolti nello scandalo, in molto iniziano a temere per la stabilità delle istituzioni democratiche. Dove si fermeranno i magistrati e come si può governare legittimamente il paese in queste condizioni?

Il governo, guidato dal socialista Giuliano Amato, tenta una soluzione e approva il decreto Conso, dal nome del ministro della Giustizia Giovanni Conso. L’idea è semplice: depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti e inasprire le pene per gli arricchimenti personali, così da mettere un chiaro confine tra condotte personali e quello che invece era frutto del modo di funzionare del sistema. 

Il decreto però viene bloccato. Gran parte dei giornali attacca quello che viene accusato di essere un “colpo di spugna”, ci sono manifestazioni in piazza sostenute dai partiti di opposizione: dagli ex comunisti del Pds ai neofascisti del Movimento sociale italiano. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per la prima volta si rifiuta di firmare il decreto che finisce così archiviato.

Tangentopoli è arrivata all’acme e anche per Craxi è arrivato il momento di cedere. Nel suo interrogatorio di fronte a Di Pietro e nei suoi ultimi discorsi al parlamento, si difende con energia, accusando i magistrati per i loro metodi e quelli che ritiene essere i loro disegni politici e giustificando le tangenti con i costi necessari della democrazia. 

Ma i magistrati arrivati a questo punto hanno abbastanza indizi di arricchimenti personali anche sul suo conto. Si parla di conti segreti in Svizzera, di finanziamenti alle attività dell’amante e a quelle del fratello. Dopo le elezioni del 1994 in cui non è riletto per la prima volta in Parlamento in oltre 25 anni, Craxi si trova senza immunità parlamentare. Il 12 maggio viene disposto il sequestro del suo passaporto, ma è troppo tardi. Pochi giorni prima, l’ex leader socialista ha lasciato l’Italia e si è trasferito ad Hammamet, in Tunisia, dove trascorrerà i suoi ultimi anni fino al decesso, avvenuto il 19 gennaio del 2000.

Le inchieste proseguiranno ancora per anni e il numero di indagini per corruzione inizierà a calare significativamente solo a partire dal 1996 per poi non raggiungere mai più il livello toccato nel periodo precedente. Ma è il 1994 l’anno in cui simbolicamente termina Tangentopoli. E non solo per via della fuga di Craxi.

È anche l’anno in cui, alle prime elezioni senza Dc e Pci dal 1945, trionfano Silvio Berlusconi e Forza Italia, che della guerra alla magistratura farà un punto centrale del suo messaggio politico. I movimenti che invece avevano sostenuto i magistrati vengono sconfitti, come il Pds, scompaiono, come la Rete, oppure si riconvertono ad altre istanze, come la Lega.

Prima di Tangentopoli, l’Italia era un paese stagnante e in crisi, con una classe politica distante dagli elettori e disprezzata per la sua corruzione. Sono passati trent’anni e il quadro non sembra essere poi così cambiato.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Storia di Luca Magni, l’uomo che ha fatto arrestare Mario Chiesa. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 15 febbraio 2022

Nel 1992 Luca Magni era il titolare della Ilpi, una ditta specializzata in uso di macchinari necessari a disinfettare grandi superfici. Da due anni aveva accettato di sottostare al ricatto di Mario Chiesa che per farlo lavorare gli chiedeva tangenti

Venerdì 14 febbraio Magni decide di denunciare ai carabinieri questo sistema. La denuncia finisce nella mani del magistrato Antonio Di Pietro. Il 17 Magni consegna a Chiesa sette milioni di lire e lo fa arrestare in flagrante 

FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.

Immunità parlamentare, da Renzi a Giovanardi vietato indagare sugli eletti. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 18 febbraio 2022

Nei giorni in cui la politica dibatte sulla storia di Mani Pulite, la giunta per le immunità del Senato si è resa protagonista una raffica di no a procure e tribunali, che vanno ad aggiungersi a quelli della Camera e di Palazzo Madama dall’inizio della legislatura.

Martedì 22 febbraio l’Aula dovrà esprimersi su Matteo Renzi (Iv), accusato di finanziamento illecito ai partiti. La giunta a dicembre aveva appoggiato il senatore e respinto la richiesta di arresto per Cesaro (Fi).

Mercoledì scorso, dopo che l’Aula ha salvato Giovanardi, la giunta ha deciso su Siri accusato di corruzione: le intercettazioni per i parlamentari non risultano necessarie né casuali, e così è stata negata l’autorizzazione al loro utilizzo. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore. 

Corruzione e sangue: le storie parallele di Milano e Palermo nel 1992. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, Giovanni Falcone, il giorno dell’omicidio di Salvo Lima dice: «Da questo momento, in Italia, può succedere di tutto».

Se a Milano le confessioni dell’ingegnere Mario Chiesa decapitano i partiti politici, l’esecuzione di Palermo sbarra per sempre la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro della Repubblica.

Il “patto del tavolino”, la mafia che si fa classe dirigente e impone la sua legge alle grandi imprese del nord che sbarcano nell’isola per realizzare dighe e aeroporti. I grandi lavori e l’intesa fra i boss e i capitani d’industria.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia. 

Il glossario di Tangentopoli per capire il 1992 e l’inchiesta Mani Pulite. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il “cinghialone”, lo “squalo”, “mariuolo”, “bustarelle”, il “cappio”. Sono nomi e termini che hanno segnato la vita repubblicana, fondamentali per comprendere cosa è accaduto nell’anno dell’inchiesta di Mani Pulite

Non è semplice destreggiarsi nel racconto storico degli anni di Tangentopoli per chi è nato a cavallo dai primi anni Novanta in poi. C’è un glossario di parole nato e usato all’epoca che oggi non sono più comuni e fanno riferimento a eventi e fasi che hanno cambiato la storia repubblicana. Qui una breve lista in ordine alfabetico:

A fra’ che te serve? 

La frase è attribuita all’imprenditore e costruttore Gaetano Caltagirone (morto all’età di 80 anni nel 2016) e secondo i racconti dell’epoca la ripeteva ogni volta che riceveva una telefonata da Franco Evangelisti, dirigente sportivo e politico cresciuto sotto l’ala dell’ex presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, Giulio Andreotti. A confermarlo è stato lo stesso Evangelisti, ex ministro della Marina mercantile, che in un’intervista rilasciata a Repubblica nel 1980 ha ammesso di aver ricevuto soldi da Caltagirone: «Ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: “a Fra’, che ti serve?”». 

Bustarella

La bustarella è un involucro contenente una somma di denaro che viene consegnata di nascosto a una persona investita di una pubblica funzione per ottenere in cambio un favore. Nel 1992 le mazzette per corrompere politici e funzionari venivano consegnate sia attraverso delle bustarelle ma anche con assegni o bonifici bancari depositati in conti esteri per evitare di essere tracciati. Generalmente la mazzetta partiva da una cifra intorno al 3 per cento del valore della gara di appalto che sarebbe stata pilota in favore di chi pagava.

«Cinghiale» o «cinghialone» fu il termine metaforico coniato dall’allora direttore del quotidiano L’indipendente, Vittorio Feltri, per indicare l’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi quale il bersaglio della “caccia grossa” delle indagini condotte dalla procura di Milano. Nel suo libro Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato Vittorio Feltri ha raccontato come nasce il soprannome: «Scrissi che sarebbe stato opportuno acciuffare “il cinghialone”, che era appunto il leader dei socialisti. Lo battezzai io con questo simpatico epiteto, che peraltro gli calzava a pennello considerata la sua mole. Da quel momento, per tutti Craxi fu “il cinghialone” e fu davvero perseguitato». Quel soprannome è finito su tutti i giornali e l’ex direttore de L’indipendente ha ammesso le sue colpe: «Io sbagliai. E lo ammetto. E ho imparato dal mio errore».

Democrazia Cristiana

La Democrazia Cristiana (Dc) è il partito che ha dominato la vita politica italiana dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1992. Alcide De Gasperi è stato uno dei fondatori e leader della Democrazia Cristiana, diventato presidente del Consiglio di otto governi dal 1945 al 1953 in un periodo di forte instabilità politica per l’Italia. Nel 1992 la Dc, come anche la maggior parte degli altri partiti e movimenti politici italiani finirono al centro delle indagini nello scandalo di Tangentopoli. Tra gli esponenti di spicco del partito c’è stato anche Giulio Andreotti.

Il cappio 

Il 16 marzo del 1993 Luca Leoni Orsenigo, allora deputato della Lega Nord, si presentò in Aula alla Camera con un cappio in segno di protesta contro le inchieste di corruzione che coinvolgevano i partiti. «Il mio fu un gesto legittimo, il cappio in Aula lo rivendico, lì si stava votando il decreto Conso che gettava un colpo di spugna sulle malefatte dei partiti, sulle politiche del malaffare», ha detto di recente in un’intervista rilasciata all'Adnkronos.

Lo squalo

Negli anni in cui i soprannomi venivano affibbiati agli esponenti politici con facilità non può mancare “Lo squalo”, l’appellativo attribuito a Vittorio Sbardella, colui che veniva considerato come il “padrone” della Democrazia cristiana a Roma e uno degli uomini più vicini a Giulio Andreotti. Anche lui, come altri membri del suo partito venne travolto dallo scandalo tangentopoli. Dopo le indagini si dimise dal consiglio di amministrazione della Edit, la società editrice del settimanale Il Sabato. Morì nel 1994 all’ età di 59 anni per via di un tumore all’apparato digerente.

Mani Pulite

È uno dei termini più conosciuti dell’epoca e fa riferimento al nome giornalistico usato dalla stampa per identificare le inchieste giudiziarie portate avanti dalla procura di Milano e successivamente condotte ad altre procure italiane sulla corruzione tra mondo politico e imprenditoriale dell’epoca.

L’accostamento di «Mani pulite» alla politica è stato diffuso dal film Le mani sulla città del 1963 di Francesco Rosi, vincitore della Palma D’oro al festival del cinema di Venezia. In una scena del film alcuni deputati del Consiglio comunale di Napoli si difendono dalle accuse di corruzione dicendo: «Le nostre mani sono pulite!». Anche il deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata a il Mondo nel 1975 disse: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta». 

Mariuolo

Mariuolo, cioè furfante, è il termine utilizzato dal leader del Psi Bettino Craxi per definire Mario Chiesa, dirigente di seconda fila del suo partito e primo arrestato nell’inchiesta Mani Pulite. Definendolo un «mariuolo isolato», Craxi intendeva distanziare dall’inchiesta un partito che in realtà, a suo dire, era integro e non corrotto. Le confessioni di Mario Chiesa, però, diedero inizio a una serie di indagini che provarono come il partito socialista aveva partecipato al finanziamento illecito dei partito fino ai suoi vertici.

Monetine

Monetine, oggetti e banconote sono quelle lanciate dai manifestanti contro Bettino Craxi all’uscita dell’hotel Raphael dove alloggiava quando si trovava a Roma. Il 30 aprile del 1993 la Camera aveva negato quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro l’allora Segretario del Partito socialista per corruzione e ricettazione chieste dalla magistratura. I manifestanti si radunarono fuori l’hotel di lusso e appena Craxi uscì tirarono monetine e sventolarono banconote dicendo: «Bettino vuoi pure queste?». 

Nani e ballerine

L’espressione venne coniata da Rino Formica, ex ministro delle Finanze, per definire in maniera dispregiativa gli ambienti in cui si muovevano alcuni esponenti del suo Partito socialista. Il termine è stato poi ripreso dall’ex ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, per descrivere i suoi anni “festaioli” a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta con Craxi e altri esponenti del partito. La locuzione «nani e ballerine» è stato usato in quegli anni per evidenziare la mondanità di una classe politica vista come corrotta, ricca e lontana dagli interessi dell’elettorato. De Michelis è anche autore del libro Dove andiamo a ballare questa sera, una raccolta di luoghi in cui trascorrere le serate tra club e discoteche.

Pentapartito

Con il termine pentapartito si intende la coalizione di governo formata da cinque diversi partiti che hanno governato in Italia dal 1981 al 1991. I partiti che ne facevano parte erano: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Partito Repubblicano e Partito Liberale. Tutti implicati nell’inchiesta di Mani Pulite. Si dice che l’accordo venne siglato nel 1981 durante il congresso del Psi fra il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi con la “benedizione” di Giulio Andreotti, tanto che il patto venne chiamato anche CAF, richiamando le iniziali di Craxi-Andreotti-Forlani.

Pool

Il pool è la squadra di magistrati (Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco, Ielo, Ramondini, Parenti e Tito) che hanno condotto l’indagine su Mani Pulite. È storico il video in cui Antonio Di Pietro interrogò pubblicamente il leader del Psi Bettino Craxi il quale, davanti alle telecamere, spiegò come funzionava il sistema. Secondo gli ultimi dati i numeri dell’inchiesta sono i seguenti: 3.200 richieste di rinvio a giudizio, 1.254 condanne (circa il 40 per cento), 269 scioglimenti in udienza preliminare, 161 assoluzione nel merito in tribunale (in totale il 13 per cento).

Psi

Psi è la sigla del Partito socialista italiano nato nel 1892 e protagonista della storia politica italiana. Dopo lo scandalo tangentopoli il partito ricevette una sonora sconfitta alle elezioni politiche del 1994, anno in cui venne sciolto. Tra i suoi leader più importanti prima di Craxi si ricordano Filippo Turati e Pietro Nenni.

Tangentopoli

Stando alla definizione della Treccani per tangentopoli si intende: «Città in cui è diffuso il malcostume di pretendere e incassare tangenti, ossia somme di denaro richieste in cambio di favori, concessioni o altre forme d’intermediazione illecite da parte di chi è in grado d’influenzare la buona riuscita di tali affari o pratiche. Per estensione, il fenomeno, lo scandalo delle tangenti nella pubblica amministrazione e in ambienti politici». Il termine è entrato nel linguaggio di uso comune soprattutto dopo lo scandalo del 1992.

YOUSSEF HASSAN HOLGADO

Tangentopoli: serie, film, documentari e libri per chi non c’era. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 16 febbraio 2022.

Dal Divo ad Hammamet, dalla serie 1992 al libro più lungo mai scritto su Mani Pulite, passando per i migliori documentari disponibili in streaming

Sono passati 30 anni dallo scandalo di Tangentopoli e un’intera generazione di italiani è cresciuta e diventata adulta senza aver vissuto quel momento storico. Non è facile per chi non c’era rievocare l’atmosfera concitata di quei giorni e farsi un’idea di cos’è accaduto realmente. Per questo abbiamo deciso di mettere insieme una breve lista di film, documentari, serie tv e libri, alcuni recenti, altri scritti quanto gli eventi erano ancora freschi, per aiutare i più giovani a ricostruire quei giorni e per farli rievocare a chi invece già c’era. 

FILM E SERIE 

Il portaborse (1991)

In questo film di Daniele Lucchetti, Silvio Orlando interpreta un professore di lettere chiamato a lavorare per un ambizioso ministro interpretato da Nanni Moretti, un’esperienza in cui toccherà con mano la corruzione dell’ambiente politico. Uscito pochi mesi prima dell’inizio delle indagini di Mani Pulite è stato un grandissimo successo di pubblico. Oggi è considerato un ritratto delle ultime fasi della Prima repubblica e un film “profetico” dello scandalo che sarebbe scoppiato poco dopo la sua uscita.

Il divo (2008)

Un film che ha bisogno di poche presentazioni: si tratta della biografia di Giulio Andreotti, figura centrale della Prima repubblica, interpretato da Toni Servillo e diretto da Paolo Sorrentino. Il film non è dedicato in modo particolare a Tangentopoli, ma riprende molti dei momenti storici dell’inchiesta e cerca di riflettere il clima di quegli anni nel modo barocco e surreale tipico di Sorrentino.

Hammamet (2020)

Diretto da Gianni Amelio, con Pierfrancesco Favino nel ruolo dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi, più che un film su Tangentopoli e un ritratto umano del suo più importante protagonista, il controverso leader del Partito socialista, fuggito in Tunisia per evitare la condanna per corruzione.

1992 (2015)

«Da un’idea di Stefano Accorsi» è una delle pochissime fiction esclusivamente dedicate allo scandalo di Tangentopoli. Accorsi interpreta il protagonista della serie, un rampante manager di Publitalia ‘80, la concessionaria pubblicitaria di Silvio Berlusconi, e la sua vicenda si intreccia con quella di altri protagonisti di quella stagione. Il racconto è romanzato ed è stato criticato da alcuni per la sua mancanza di accuratezza. La serie fa parte di una trilogia che comprende anche 1993 e 1994, che oltre agli scandali di corruzione si concentrano sugli attentati mafiosi e sull’ascesa politica di Berlusconi.

DOCUMENTARI

Mani pulite (1997)

Uno dei documentari più lunghi e completi sull’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo Tangentopoli. Sono quattro puntate di circa due ore l’una e quasi tutto il racconto si svolge attraverso filmati e interviste girati al culmine delle indagini. Realizzato a soli cinque anni dai fatti da Pino Corrias e Renato Pezzini, è ancora oggi uno dei più completi ed equilibrati documentari che si possono trovare u quei giorni.

Blu Notte – Tangentopoli (2008)

Chi invece non ha ore ed ore da dedicare alla ricostruzione di Tangentopoli attraverso i filmati dell’epoca, può guardare la puntata di Blu Notte che lo scrittore Carlo Lucarelli ha dedicato all’inchiesta. Un racconto più succinto e narrativo, ma ugualmente coinvolgente. 

LIBRI

Intevista su Tangentopoli (2000)

È il più importante libro-intervista realizzato dal più carismatico e controverso magistrato del pool Mani Pulite, un vero e proprio simbolo dell’inchiesta: Antonio Di Pietro. L’intervista è stata realizzata dal giornalista Giovanni Valentini.

Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo (2012)

Un’autentica opera monstre di quasi 1.200 pagine: in questo libro, i giornalisti Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto raccontano l’intera inchiesta Mani Pulite, con l’ausilio di centinaia di documenti e altrettante pagine di dettagliate ricostruzioni. Il taglio è molto favorevole alla magistratura e lascia poco spazio ai dubbi e alle interpretazioni differenti. Ma in quanto ad ampiezza, sono pochi i libri che possono competere.

Tangentopoli (2011)

Tono completamente diverso in questa ricostruzione scritto dalla giornalista e politica Tiziana Maiolo, una delle voci più critiche nei confronti del modo in cui venne gestita l’inchiesta. Il suo è punto di vista particolare, poiché all’inizio dell’inchiesta era una consigliera comunale a Milano, la città centrale nell’inchiesta Mani Pulite. 

Il tempo delle Mani Pulite (2021)

Nel 1992, il giornalista del Corriere della Sera Goffredo Buccini era uno degli inviati che seguivano l’inchiesta Mani Pulite. A 30 anni da quei fatti, però, ha deciso di scrivere un libro per raccontare come la stampa ha raccontato quei fatti, in un modo che oggi Buccini giudica troppo piegato sulle posizioni di giudici e magistrati.

L’antipatico (2020)

Una biografia di Bettino Craxi scritta da un autore d’eccezione: Claudio Martelli, a lungo erede designato del segretario socialista e poi, negli ultimi anni, suo ultimo rivale interno. Anche se è una biografia che non nasconde i tratti più aspri del carattere di Craxi, si tratta comunque di un libro che mostra il punto di vista dei socialisti e più in generale degli inquisiti, più che quello dei magistrati. 

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

“Mani pulite” 30 anni dopo: solo 1.408 condannati su 2.565 indagati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2022

Data la mancanza di statistiche giudiziarie, in quanto i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di statistiche adesso può essere detto praticamente tutto ed il contrario di tutto: Basti pensare che persino nelle cancellerie dei magistrati della Procura di Milano ad un certo punto si perse il conto degli esiti

Molti continuano a chiedersi se l’inchiesta  “Mani Pulite” della Procura di Milano che fece saltare il “banco” politico ed economico della 1a Repubblica, dal punto di osservazione delle sentenze sia finita pressochè nel nulla, come propagandano i critici più accesi ? Data la mancanza di statistiche giudiziarie, in quanto i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di statistiche adesso può essere detto praticamente tutto ed il contrario di tutto: Basti pensare che persino nelle cancellerie dei magistrati della Procura di Milano ad un certo punto si perse il conto degli esiti .  Persino gli archivi dei giornali non aiutano, considerato che moltissimi indagati non finirono mai sotto i riflettori delle cronache. 

L’unica maniera per arrivare ad una percentuale accettabile di statistiche è stato quindi quello di provare ma dal basso delle statistiche,  e non dall’alto, per ritrovare il corso degli incartamenti processuali, riuscendo ad abbinare a un nome e cognome un ultimo stato noto dei processi, fino a inizio 2000. Applicando questo parametro si può provare a ragionare con attendibilità sul destino giudiziario di 2.565 persone in carne ed ossa indagate dai pm del pool vero e proprio degli anni 1992-1994 (Antonio Di Pietro, Colombo e Piercamillo Davigo, quindi Francesco Greco, a cui si affiancarono Paolo Ielo, Elio Ramondini, Tiziana Parenti e Raffaele Tito) piuttosto che sul numero dei procedimenti iscritti con 3.146 imputazioni di reato, a volte la stessa persona per più ipotesi). 1.408 di loro sino all’anno 2000  avevano patteggiato o erano stati condannati , mentre 544 erano stati assolti e 448 prosciolti per prescrizione (o in pochi casi per amnistia o morte dell’indagato o imputato). 

All’appello manca l’esito per i rimanenti che non si è riusciti a ricostruire, poichè spesso si trattava di fascicoli spezzettati in più filoni d’indagine o di posizioni trasmesse per competenza territoriale ad altre procure italiane anche se l’ipotesi più realistica è che siano finiti per ingrossare la casella delle prescrizioni.

Secondo quanto scrive il Corriere della Sera a scontare una pena in carcere nel 2000 erano solo in 4 persone, tutte coinvolte nel filone delle tangenti alla Guardia di Finanza: indice del fatto che, pur di portare a casa una sentenza in tempi compatibili con il rischio di prescrizione, le pene eseguite non furono in generale abbastanza soft, al punto che che tra sospensioni condizionali, ricalcoli per l’istituto della continuazione e cumuli  la pena massima definitiva nei processi di “Mani pulite” in fin dei conti  non è stata quella di Mario Chiesa conclusasi con 5 anni e 4 mesi), o quella di Sergio Cusani di 5 anni e 5 mesi di cumulo finale, ma bensì quella di un quasi  ignoto capo-compartimento Anas, che non essendo figura di rilievo pubblico oggi non avrebbe senso rinominare, e che in uno stralcio trasmesso a Genova fu condannato nel 1998 a 5 anni e 6 mesi: la stessa pena alla quale scese con un patteggiamento in Appello il generale della GdF Giuseppe Cerciello, partito da un iniziale condanna complessiva a 16 anni.

Mani pulite, il bilancio 30 anni dopo: su 2.565 indagati i condannati furono 1.408. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.  

Le indagini del pool composto da Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito. La pena più alta: 5 anni e 6 mesi a un dirigente Anas 

Ma davvero Mani pulite è finita in niente dal punto di vista delle sentenze, come propagandano i suoi critici? Tutto e il contrario di tutto può essere detto nell’indisponibilità di statistiche giudiziarie, perché i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di elaborazioni; perché persino lo staff dei pm in Procura dopo un po’ perse il conto degli esiti sempre sfrangiati e spesso sovrapposti; e perché neppure gli archivi dei giornali aiutano, posto che moltissimi indagati non finirono mai sotto i riflettori delle cronache. Così l’unico modo per avvicinarsi a un tasso accettabile di approssimazione è stato provare non dall’alto delle statistiche, ma dal basso del ritrovare il filo degli incartamenti processuali, riuscendo ad abbinare un ultimo stato processuale noto (fino a inizio 2000) a un nome e cognome.

Con questo parametro si può ragionare con attendibilità non tanto sul numero dei procedimenti iscritti (3.146 imputazioni, a volte la stessa persona per più ipotesi), quanto sul destino giudiziario di 2.565 persone in carne ed ossa indagate dai pm del pool vero e proprio degli anni 1992-1994 (Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito). Sino all’anno 2000 avevano patteggiato o erano stati condannati 1.408 di essi, mentre 544 erano stati assolti e 448 prosciolti per prescrizione (o in pochi casi per amnistia o morte del reo).

Manca all’appello l’esito per i rimanenti che non si è riusciti a ricostruire, spesso perché si trattava di fascicoli spezzettati in più filoni o di posizioni trasmesse per competenza territoriale altrove e lì «desaparecide», ma la prognosi più realistica è che abbiano finito per ingrossare la casella del fuori tempo massimo, cioè delle prescrizioni.

In carcere a scontare una pena nel 2000 erano in quattro, tutti nel filone delle tangenti alla Guardia di Finanza: indice del fatto che, pur di portare a casa una sentenza in tempi compatibili con il rischio di prescrizione, le pene eseguite non furono in generale draconiane. Tanto che — tra sospensioni condizionali, ricalcoli per l’istituto della continuazione e cumuli — in fin dei conti la pena massima definitiva nei processi di Mani pulite non è stata appannaggio di Mario Chiesa (che ha chiuso con 5 anni e 4 mesi) o di Sergio Cusani (5 anni e 5 mesi di cumulo finale), ma di un poco noto capo-compartimento Anas, che oggi non avrebbe senso rinominare qui (non essendo figura di rilievo pubblico), e che in uno stralcio trasmesso a Genova fu condannato nel 1998 a 5 anni e 6 mesi: stessa pena alla quale scese con un patteggiamento in Appello il generale della GdF Giuseppe Cerciello, pur partito da un iniziale conto complessivo di 16 anni.

Appartiene invece non a Cerciello (7 mesi) e neanche a Cusani (5 mesi), ma anche qui a un assai meno noto colonnello della GdF il record di custodia cautelare di tutta Mani pulite: un anno in carcere nella fortezza di Peschiera. Centoquaranta i miliardi di lire rientrati all’erario come risarcimenti: compresi i 56 miliardi versati da un costruttore (nel frattempo morto) che nel processo Enimont poi vide infine paradossalmente prescriversi la propria imputazione.

desc img Trent'anni da Mani pulite: una rivoluzione immaginaria. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

La quinta puntata della serie audio sulle verità nascoste della storia della Repubblica racconta la stagione di Tangentopoli che cancellò la Prima repubblica: fu il corso naturale della giustizia o un'operazione giudiziaria per far saltare in aria un sistema politico? 

Sono passati trent’anni dallo scandalo di Tangentopoli, e ancora ci si divide sull’inchiesta giudiziaria che ha decretato la fine della prima Repubblica e del suo sistema dei partiti, con i governi e il Parlamento decimati dagli avvisi di garanzia. È stato solo il naturale corso della giustizia oppure un’operazione giudiziaria innescata per far saltare in aria un sistema politico? Poteva andare diversamente o si è trattato di un percorso obbligato? Molte morti hanno insanguinato quella storia: i suicidi del deputato socialista Sergio Moroni, del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, dell’imprenditore Raul Gardini, fino alla morte di Craxi, ex presidente del Consiglio rifugiatosi in Tunisia: esule o latitante?

La stagione di Mani pulite è il tema della quinta puntata di «Nebbia - Le verità nascoste nella storia della Repubblica», con le voci di Stefano Cagliari, figlio di Gabriele Cagliari; Paolo Ielo e Francesco Greco, ex pm del pool di Mani pulite; e l’avvocato (e poi sindaco di Milano) Giuliano Pisapia. 

Stefania Craxi: «Io e mio padre Bettino». Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.  

È Stefania Craxi, figlia di Bettino, la protagonista della quinta e ultima puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». Nei giorni in cui ricorre il trentennale di Tangentopoli, che segnò l'inizio della fine dell’allora segretario del Partito socialista ed ex presidente del Consiglio, la sua primogenita difende la figura del padre, morto nel gennaio del 2000 in Tunisia, nella casa di Hammamet. È lì che Craxi era fuggito (la figlia da allora parla e parlava di «esilio») nel 1994 dopo le condanne per corruzione nel processo Eni-Sai e per finanziamento illecito per le tangenti della Metropolitana milanese. Ma il racconto di Stefania Craxi va molto oltre, ricordando il suo rapporto simbiotico con tutto ciò che era politica e che inevitabilmente finì per sottrarre suo padre alla famiglia. Cosa che spinse la giovane Stefania a vivere una gioventù molto diversa da quella dei suoi coetanei e coetanee: una gioventù fatta di politica pur di passare qualche ora in più col padre.

«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritta e diretta da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzata da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.

Sospeso in aria. Raul Gardini, il tuffatore. Elena Stancanelli su L'Inkiesta il 16 Febbraio 2022.

L’imprenditore coinvolto nella inchiesta di Tangentopoli aveva imparato da ragazzino a tuffarsi dal molo di Ravenna. Come racconta Elena Stancanelli nel suo nuovo libro pubblicato da La Nave di Teseo, condivise per tutta la vita l’amore per il mare e per i tuffi con gli amici e la moglie Idina.

Uno dei più famosi aneddoti su Gardini riguarda i tuffi. Lo racconta lui stesso, l’ha raccontato Idina, sua moglie, lo raccontano gli amici. Non so neanche se lo si può considerare un aneddoto. Sembra piuttosto l’episodio di un’agiografia: Gardini il contadino, il cacciatore, il tuffatore. Da ragazzino frequentava il molo, come tutti i ravennati. Ma lui si tuffava meglio di chiunque altro.

Idina era bella, ricca e molto elegante. Primogenita di Serafino Ferruzzi, aveva un corpo sottile e un naso leggermente adunco. I capelli lunghi acconciati con cura, una sigaretta sempre tra le dita. Abbronzata, sorridente, le gambe magre e slanciate. Anche lei frequentava il molo con le sue amiche. Si era innamorata subito di quel ragazzo coraggioso, agile, che faceva di tutto per farsi notare da lei.

Raffaele La Capria, scrittore napoletano, tuffatore, autore di uno dei più bei romanzi del Novecento italiano, Ferito a morte, ha scritto un saggio sulla letteratura e i tuffi. Dove spiega che i tuffi, tutti quanti, sono salti mortali. E si giudicano sulla base di due criteri: la perfezione della figura, in aria e nell’entrata in acqua, e il rischio. «Un tuffo», scrive, «è tanto più bello quanto più alto si svolge sulla tavola del trampolino. Ma più in alto si slancia il tuffatore sulla tavola, più la tavola per una legge fisica lo attira a sé. Lo slancio più alto sarebbe infatti quello perpendicolare alla tavola, e il tuffatore pagherebbe l’altezza raggiunta ricadendo sul trampolino. C’è, come si vede, un collegamento molto stretto, immediato, tra la bellezza del tuffo e il pericolo che si corre». Così la letteratura, spiega La Capria, dove la riuscita di un’opera si misura anche da quanto rischio di fallimento comportava la premessa. Come, per esempio, provare a immaginare che un uomo si svegli una mattina nel suo letto trasformato in uno scarafaggio.

I tuffi sono un rito di iniziazione. Suscitano ammirazione per l’eleganza e il coraggio. Di Gianni Agnelli si racconta che, quando arrivava in Costa Azzurra con l’elicottero, anziché atterrare preferiva buttarsi direttamente in mare davanti alla spiaggia. Per dimostrare ardimento, giovinezza, sprezzo del pericolo, ma anche perché l’energia, la fretta, premeva dentro e gli faceva alzare la posta, esagerare.

L’Avvocato, si diceva, non aveva mai superato il trauma della guerra. Tutta quella morte lo aveva segnato, la provvista di energia vitale veniva da lì, dall’aver assistito, dall’aver partecipato al massacro. Gardini non aveva fatto la guerra, era troppo giovane. L’aveva riconosciuta intorno a sé ma non l’aveva patita in prima persona. Non aveva visto la forza fisica e il coraggio spregiati dalle battaglie. Non aveva guardato i corpi mutilati, non aveva schivato le pallottole. Eppure entrambi tra la perfezione e il rischio scelgono sempre il rischio.

Quando più tardi passiamo da casa sua, il giorno in cui ci siamo incontrati a pranzo al ristorante Al Gallo, Vanni Ballestrazzi mi mostra una foto bellissima. Le foto di Raul le ho fatte quasi tutte io, racconta, mi chiedeva di scattargliele perché non aveva voglia di mettersi in posa davanti ai fotografi. Io le scattavo a raffica e poi quando i giornali me le chiedevano gliele regalavo. Non ci ho mai guadagnato una lira, dice.

Nella casa di Ravenna, dietro la piazza del Duomo, con un giardino fiorito dove ha addirittura una pianta di vite (le mie vigne, dice scherzando), Vanni tiene alcuni album di foto. Sono quasi tutte foto di mare. In una di queste si vede una scogliera. Alta, saranno almeno una decina di metri. E davanti un uomo, in volo. Un tuffo ad angelo, in posizione perfetta. Quell’uomo è Raul Gardini, ha cinquantasei anni. Vanni, che scatta la foto, è in barca, sotto. Sono in Grecia in vacanza, nell’estate del 1989. Gardini ha il corpo di un ragazzo e la tecnica di un tuffatore esperto.

Idina e Raul si sposeranno nel 1957 e avranno tre figli: Eleonora nel 1965, Ivan nel 1969 e Maria Speranza detta Coquette nel 1970.

Elena Stancanelli, Il tuffatore da “Il tuffatore”, di Elena Stancanelli, La Nave di Teseo, 2022, pagine 240, euro 18

Mario Chiesa, simbolo di Mani Pulite: «Oggi il Fisco pretende 2 milioni di tasse non pagate sulle tangenti». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

Mario Chiesa fu condannato a 5 anni e 4 mesi per le mazzette al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Oggi, a 77 anni, vive da pensionato tra la Lombardia e la Svizzera: «Ho fatto come tanti altri ma solo per me vale l’ergastolo della reputazione». E rivela il verbale dell’interrogatorio nel 1992: «La prima volta che ricevetti denaro risale al 1974»

Stanco dei processi, degli anniversari, delle ricostruzioni dell’inchiesta Mani pulite che inevitabilmente ne seguono, Mario Chiesa è stanco che da trent’amni nell’immaginario collettivo italiano lui venga identificato come «il» politico corrotto. «Perché puntate sempre su di me? Ero solo una piccola ruota di un meccanismo molto più grande», si lamenta mentre fa ancora i conti con gli strascichi dell’indagine che portò al suo arresto, come i due milioni di euro che gli chiede l’Agenzia delle entrate per le tasse non pagate sul reddito generato dalle tangenti.

Il profilo di Mario Chiesa

Politico in carriera in quel Partito socialista che con i quarantenni d’assalto di Bettino Craxi tra gli anni Ottanta e Novanta sgomitava per farsi largo tra la Dc dei Forlani e degli Andreotti e il Pci-Pds di Occhetto, Chiesa possedeva tutti i caratteri per incarnare il perfetto capro espiatorio quando fu arrestato la mattina del 17 febbraio 1992. Era il modello dell’uomo di partito sprezzante e arrogante con cui si era costretti a scendere a patti, e non fu difficile per Craxi liquidarlo come un «mariuolo» nella vana speranza che lo scandalo che emergeva con prepotenza sulle tangenti al Pio Albergo Trivulzio si sgonfiasse catalizzando solo sull’ingegnere rampante la crescente indignazione popolare. Fu un errore di sottovalutazione. Ormai «politicamente finito, privo di qualsiasi lavoro», come mise a verbale Mario Chiesa nel primo interrogatorio a San Vittore, decise di confessare facendo partire la valanga che di lì a breve avrebbe spazzato la prima Repubblica, con gli imprenditori che fecero la fila davanti la porta di Di Pietro per confessare le tangenti pagate e poi patteggiare. Primi tra tutti quelli che avevano goduto del sistema a scapito delle imprese oneste.

La sentenza

Condannato a 5 anni e 4 mesi che in parte trascorse in affidamento ai servizi sociali, di cui tre condonati, di Chiesa si persero le tracce fino al marzo del 2009 quando tornò sotto i riflettori perché fu arrestato a Busto Arsizio per un traffico di rifiuti con al centro la Servizi ecologici Milano (Sem), una società di cui era amministratore di fatto. Chiusa anche questa vicenda, patteggiando tre anni di reclusione poi cancellati da un nuovo indulto, Mario Chiesa, 77 anni, qualche problema fisico, oggi vive da pensionato tra la Lombardia e la Svizzera, dove risiede il più giovane dei suoi due figli. Le sue considerazioni filtrano mediate dal legale attuale, l’avvocato Stefano Banfi: «L’ingegnere affronta malissimo tutte le notizie sugli episodi di corruzione e concussione perché, anche nelle vicende che non lo riguardano, c’è sempre chi fa comunque il suo nome». «Ho fatto un qualcosa che molti altri hanno fatto prima e dopo di me, anche in forma più grave, ma di costoro nessuno ricorda mai il nome», confida l’ex presidente della Baggina, come i milanesi chiamano il Trivulzio. «Ho ammesso le mie responsabilità, pagato il mio debito con la giustizia, ho restituito tutto quanto dovevo restituire. Non sono io che ho organizzato il sistema di corruttela», dice al suo difensore ricordando i 6 miliardi di lire restituiti e i risarcimenti versati. Per questo il trentennale di Mani pulite lo lascia del tutto indifferente, anzi rafforza in lui la convinzione che «la condanna vera è la consapevolezza che non potrà mai beneficiare del diritto all’oblio. Un ergastolo della reputazione».

I conti cifrati «Levissima» e «Fiuggi»

In tre decenni, Mario Chiesa ha tentato di difendere, per quanto possibile, ciò che resta della sua privacy. «Gli è capitato più volte di essere riconosciuto ed anche i figli e la ex compagna hanno patito questa sua cattiva notorietà», spiega Banfi. Che Chiesa sia stato lo strumento con cui Antonio Di Pietro e la Procura guidata da Francesco Saverio Borrelli hanno scardinato larga parte del sistema corruttivo — non tutto — di quegli anni è la storia a certificarlo, ma per l’avvocato l’arresto che diede il via ufficiale alla stagione di Mani pulite non fu un episodio casuale. Convinzione, evidentemente condivisa con il suo assistito, alla quale giunge analizzando fatti e documenti dell’epoca. Di Pietro aveva indagato nei mesi precedenti su un racket delle pompe funebri alla Baggina mettendo sotto controllo i telefoni di Chiesa ed in procura era arriva l’informazione che dagli atti della separazione tra l’ingegnere e la moglie emergeva che aveva 10 miliardi di lire in banca e altri soldi in Svizzera, depositati sui conti cifrati «Levissima» e «Fiuggi». Una «situazione patrimoniale non ufficiale» totalmente spropositata per il presidente di un ente cittadino benefico.

Di Pietro: «L’acqua minerale è finita»

Per fargli capire che ormai era all’angolo, dopo l’arresto Di Pietro gli fece sapere: «L’acqua minerale è finita». L’ingegnere confessò. Alla stregua della maggior parte di coloro che furono presi «con le mani nella marmellata», come disse Di Pietro con una delle sue celebri frasi, «era fedele all’accordo di spartizione che c’era tra i partiti», ammette Banfi, ma tenne anche qualcosa per sé. Rivendicò, però, di aver migliorato il Trivulzio: «Nonostante le mie responsabilità (…) ho anche lavorato seriamente per la trasformazione del Pat» che fino ad allora era luogo dove «la gente andava solo a morire». Secondo Banfi, quindi, «Chiesa è l’anello di congiunzione forgiato con calma e pazienza per collegare la corruzione già esistente da tanti anni ai vertici dei partiti italiani». Un sistema di cui era parte integrante già a 30 anni, appena entrato con un contratto a termine nell’amministrazione dell’ospedale Sacco.

Il primo interrogatorio nel 1992

Lo rivela il 23 marzo ’92 nel primo interrogatorio di fronte a gip Italo Ghitti: «La prima volta che ricevetti denaro risale al 1974 (…) il 10% dell’appalto per la manutenzione ordinaria annuale del Sacco». A pagare 18 anni prima era stato lo stesso imprenditore che alle 15 del fatidico 17 febbraio 1992 gli consegnò altri 37 milioni di lire in contanti, parte di una tangente sull’appalto per la tinteggiatura degli mobili dell’ente che, dichiarò Chiesa nello stesso interrogatorio, aveva poi gettato nel water dell’ufficio all’arrivo dei carabinieri prima dell’arresto, salvo poi smentire di averlo fatto. Sta di fatto che quei soldi sparirono e non furono sequestrati sempre quel 17 febbraio. Due ore e mezza dopo Luca Magni entrò nel suo ufficio e gli consegnò la stecca di 7 milioni per l’appalto delle pulizie. L’imprenditore era d’accordo con Di Pietro e con i carabinieri che avevano controfirmato le banconote e che di lì a poco irromperanno nell’ufficio trovando la somma in una busta bianca «in biglietti da lire 100.000» nella scrivania «all’interno del cassetto di sinistra», riporta burocraticamente il verbale di sequestro. Fu la fine dell’uomo che da segretario della sezione Musocco-Vialba del Psi sognava di diventare sindaco di Milano.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2022.

È il 17 febbraio 1992. Scatta l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Comincia così «Mani pulite», l'inchiesta che terremoterà la vita politica italiana. Una stagione a cui è dedicato il libro dell'inviato speciale del Corriere della Sera Goffredo Buccini, disponibile da oggi anche in edicola. 

«Il tempo delle mani pulite», questo il titolo, esce sempre in collaborazione con Laterza, che lo ha pubblicato in prima edizione per le librerie nell'autunno scorso. Ora si potrà acquistare a 12 euro, più il prezzo del Corriere , e rimarrà in edicola a disposizione per un mese.

Di Tangentopoli oggi si parlerà anche in due convegni. Uno, «Tangentopoli 30 anni dopo», è all'Università di Pisa . Ci saranno, tra gli altri, Nando Dalla Chiesa (Statale di Milano), Piercamillo Davigo (all'epoca nel pool «Mani pulite») e Gian Antonio Stella (editorialista del Corriere della Sera ). Altro dibattito a Milano (ore 15): è organizzato dall'Anm a Palazzo di Giustizia. Tra i moderatori , l'ex direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli. 

Gherardo Colombo, 75 anni. Trent' anni fa magistrato del pool Mani pulite, oggi saggista, scrittore, portatore sano di impegno sul fronte carcerario, etico, di educazione alla legalità. 

Trent' anni dopo Mani pulite le parole più evocate sono «bilancio» e «sconfitta».

«Fatico a parlare di sconfitta o di vittoria. Indagini e processi non sono match. Non avevamo, né mi sembra che ci siano adesso, somme da tirare: dovevamo verificare le responsabilità penali delle persone e questo abbiamo fatto, dentro le regole del codice penale e di procedura penale». 

Secondo lei la corruzione è cambiata?

«Sì, non è più così connessa al finanziamento illecito dei partiti. Non è un sistema, mentre allora lo era con le sue regole ben definite. Ora riguarda vari livelli, e coinvolge anche le persone comuni...».

Perché si è dimesso 15 anni fa dalla magistratura?

«È stata una scelta dolorosa, maturata col tempo. Ebbi per la prima volta la tentazione di dimettermi nel 1986. Ero a Tivoli a fare una lezione ai giovani magistrati, vidi un titolo di giornale sui fondi neri dell'Iri. Io sapevo cosa c'era dentro quel mare di carte. Il titolo diceva che erano stati tutti prosciolti, salvo qualcuno che non contava nulla...». 

Parla dei rapporti di allora fra politici e magistrati?

«Non era soltanto l'aggressione della politica contro la magistratura, che abbiamo assaggiato quando scoprimmo la P2: fu chiesta una misura cautelare per un grande banchiere e ci fu una reazione molto pesante da ben definiti ambienti politici. Il fatto è che anche dentro la magistratura succedevano cose».

 Cose di che genere?

«Per esempio: uno investigava, trovava prove, si accingeva a trovarne altre, arrivava la Cassazione e su sollecitazione di Roma le indagini trasmigravano, tutto finiva sostanzialmente in niente. Le racconto un episodio per farmi capire meglio». 

Prego...

«Quando investigavo per i fondi neri dell'Iri c'era un imputato che era intimo dell'onorevole Fanfani, che si dice mirasse al Quirinale. Ora: so per certo che il presidente della Corte di Cassazione protestò con un collega che conoscevo bene: tu che vieni da Milano, mi spieghi? Che vuole fare sto' Colombo? Vuole nominarlo lui il presidente della Repubblica? Il processo finì a Roma e tutto finì nel dimenticatoio...». 

Sta dicendo che suoi ex colleghi seguirono gli inviti della politica per cambiare la sorte dei processi?

«Sto dicendo che ci sono stati casi in cui è andata così. E quelli che trasferivano i processi da Milano o che non si accorgevano dei reati sono sempre passati come magistrati indipendenti». 

Come visse il fatto che con Mani pulite per molti eravate degli idoli?

«Con imbarazzo. Le racconto un episodio. Ero andato dal fotografo per fare delle fototessere. Il signore del negozio non voleva farmi pagare. Gli ho dovuto dire che se non mi avesse fatto pagare non mi avrebbe più rivisto nel suo negozio, e alla fine acconsentì. Va detto che i media ebbero un luogo determinante nel trasformarci in "eroi"». 

Forse qualcuno di voi si è prestato al gioco.

«Neanche tanto. Anche lo stesso Di Pietro: a parte quell'intervista che rilasciò a Biagi per il Corriere poi non si è messo sotto i riflettori. Però, per dire, il giorno dopo Giorgio Bocca, per Repubblica , chiese a me di fare una cosa analoga, con le foto di quando ero bambino e così via. Non mi sembrò opportuno mettermi in pista su quella strada, espormi, avrei anche creato l'occasione di un dualismo fra noi del pool. Rifiutai». 

Che effetto le fa vedere oggi le monetine tirate a Craxi davanti al Raphael?

«Mi fece un effetto negativo anche all'epoca. Le persone vanno rispettate comunque. Non credo proprio che abbiamo stimolato noi reazioni del genere, certamente non io».

Gherardo Colombo: «Il lancio di monetine a Bettino Craxi mi disturba ancora». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

L’ex magistrato del pool di Mani Pulite ripercorre Tangentopoli: «Noi pm venimmo trattati da eroi, un errore che non fu colpa nostra».

Gherardo Colombo, 75 anni. Trent’anni fa magistrato del pool Mani Pulite, oggi saggista, scrittore, portatore sano di impegno sul fronte carcerario, etico, di educazione alla legalità. Trent’anni dopo Mani Pulite la parola più evocata di questi giorni è “bilancio”. 

È una sconfitta la perseveranza della corruzione?

«Fatico a parlare di sconfitta o di vittoria. Le indagini e i processi non sono dei match. Non avevamo né mi sembra che ci siano adesso somme da tirare: dovevamo verificare le responsabilità penale delle persone e questo abbiamo fatto. E vorrei che fosse chiara una cosa: quel che abbiamo fatto stava dentro le regole del codice penale e di procedura penale».

Secondo lei la corruzione è cambiata?

«Sì, nel senso che oggi non è più così connessa al finanziamento illecito dei partiti politici come prima. Non è un sistema, mentre allora era un sistema con le sue regole ben definite. Ora riguarda vari livelli, e coinvolge ancora anche le persone comuni: il vigile, l’infermiere, l’agente della guardia di finanza… Se vogliamo una sintesi estrema, a proposito di bilanci, possiamo dire che è finita la stagione di Mani Pulite ma non la corruzione».

Lei si è dimesso 15 anni fa dalla magistratura. Ci fu un motivo scatenante?

«E’ stata una scelta dolorosa, maturata col tempo. Ebbi per la prima volta la tentazione di dimettermi nell’86. Ero a Tivoli a fare una lezione ai giovani magistrati su indagini patrimoniali e bancarie, passai davanti alla reception dell’hotel e vidi un titolo di giornale sulla conclusione delle indagini sui fondi neri dell’Iri. Io sapevo cosa c’era dentro quel mare di carte. Il titolo del quotidiano diceva che erano stati tutti prosciolti, ad eccezione di qualcuno che non contava proprio nulla…»

Sta parlando dei rapporti di allora fra politica e magistratura?

«Ho quasi 76 anni, ne ho vista passare di acqua sotto i ponti… Non era soltanto l’aggressione della politica nei confronti della magistratura, che abbiamo assaggiato quando scoprimmo la P2: fu chiesto un provvedimento cautelare nei confronti di un grande banchiere e ci fu una reazione molto molto pesante da ben definiti ambienti politici. Il fatto è che anche dentro la magistratura succedevano cose».

Cose di che genere?

«Per esempio: uno investigava, trovava prove, si accingeva a trovarne altre, arrivava la Cassazione e su sollecitazione di Roma le indagini trasmigravano, tutto finiva sostanzialmente in niente. Le racconto un episodio per farmi capire meglio».

Prego.

«Quando investigavo per i fondi neri dell’Iri un imputato, che aveva manovrato una parte consistente dei 360 miliardi di lire dell’epoca, era intimo dell’on. Fanfani, che si dice mirasse alla presidenza della Repubblica. Ora: so per certo che il presidente della Corte di cassazione protestò con un collega che conoscevo bene: tu che vieni da Milano, mi spieghi? Che vuole fare sto’ Colombo? Vuole nominarlo lui il presidente della Repubblica? Il processo finì a Roma e tutto finì nel dimenticatoio…. Vuole un altro esempio?»

Dica.

«Sempre sulla P2. La scoprimmo il 17 marzo del 1981. Avevamo fatto tutto in silenzio assoluto ma le voci cominciavano a trapelare e allora io e il collega Turone andammo dall’allora procuratore capo, Mauro Gresti, per chiedergli che facesse un comunicato pubblico per dire che erano da ritenersi fondate soltanto le notizie ufficiali della procura. Ci disse che dovevamo restituire le carte a Gelli. C’erano 37 buste sigillate da Gelli e lui ci disse, dopo aver insistito molto che non potevamo aprirle, almeno che lo facessimo in presenza dei suoi avvocati. E di far “politica” siamo stati accusati noi...»

Sta dicendo che suoi ex colleghi seguirono gli inviti della politica per cambiare la sorte dei processi?

«Sto dicendo che ci sono stati casi in cui è andata così. E quelli che trasferivano i processi da Milano o che non si accorgevano dei reati sono sempre passati come magistrati indipendenti».

Mi sembra di capire che la magistratura non le manca.

«Non mi manca per niente. É stata una scelta difficile e dolorosa, ma una volta fatta non ho rimpianti».

Al tempo di Mani Pulite per una parte dell’opinione pubblica eravate eroi, idoli. Lei come visse questa cosa?

«Con imbarazzo. Le racconto un episodio. Ero andato dal fotografo per fare le fototessere per un documento. Il signore del negozio non voleva farmi pagare. Gli ho dovuto dire che se non mi avesse fatto pagare non mi avrebbe più rivisto nel suo negozio, e alla fine acconsentì. Va detto che i media giocarono un luogo determinante nel trasformarci in ‘eroi’».

Però forse qualcuno di voi si è prestato a quell’amplificazione.

«Neanche tanto. Anche lo stesso Di Pietro: a parte quell’intervista che rilasciò a Biagi per il Corriere poi non si è messo sotto i riflettori. Però, per dire, giorno dopo Giorgio Bocca, per Repubblica, chiese a me di fare la una cosa analoga, con le foto di quando ero bambino e così via. Però mi sembrava per niente opportuno mettermi in pista su quella strada, espormi, avrei anche creato l’occasione di un dualismo fra noi del pool. Rifiutai».

Cosa ne pensa della riforma Cartabia e in particolare dei giudici in politica?

«Io avevo una regola personale, che condivido tuttora: se avessi mai deciso di candidarmi in politica mi sarei dimesso dalla magistratura, avrei lasciato passare un lasso di tempo consistente dalle dimissioni e solo dopo mi sarei candidato. E la scelta sarebbe stata irreversibile. Però questa, ripeto: è la mia regola, e la Costituzione non pone limiti del genere».

Torniamo a Mani Pulite. Che effetto le fa vedere oggi le immagini delle monetine tirate contro Craxi davanti all’Hotel San Raphael ?

«Mi fece un effetto negativo anche all’epoca. Le persone vanno rispettate comunque. Non credo proprio che abbiamo stimolato noi reazioni del genere, certamente non io».

L’invito del vostro procuratore di allora, Borrelli, a “resistere, resistere, resistere” vale ancora oggi?

«Era un momento particolare, si stavano depotenziando gli strumenti d’indagine, ridimensionando reati molto rilevanti nel quadro generale. Oggi lo trasformerei in: troviamo una soluzione insieme. La disponibilità al dialogo è il punto di partenza».

Marco Travaglio smascherato da Filippo Facci: la verità "omessa" sui suoi idoli magistrati. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Cominciamo coi numeri, quelli delle dita di Marco Travaglio: perché l'altra sera, in uno dei suoi monologhi, ha detto che gli innocenti di Mani pulite si possono contare «sulle dita di una mano o forse due», il che solleva interrogativi su quante dita abbia Travaglio per ciascuna mano: pur già consapevoli che trattasi di personaggio da baraccone. La prendiamo alla larga: cominciamo col dire degli 88 parlamentari eletti nel 1992 - destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure - i prosciolti o gli assolti furono 61. Cominciamo anche a notare che tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, restando invece alla Milano cara a Travaglio, si arriva a circa il 46% delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che a Palazzo di giustizia non avrebbero dovuto entrarci, e sono quasi la metà. Siamo già a un Travaglio con 450 mani, considerando che le posizioni rilevate dalle statistiche ufficiali contemplano 4.520 soggetti. Ma prima di spiegare quello che le statistiche riportate cèlano, anticipiamo che nel suo libro eternamente rispolverato in cui cambia solo il packaging (Mani Pulite, si chiama, e in origine fu agevolato da un dischetto di computer elargito da un pm) risultano 469 persone prosciolte dal tribunale, di cui le «prescritte» sono solo 243; poi ci sono quelle persone prosciolte direttamente dal gup, giudice dell'udienza preliminare: e sono altre 480, di cui solo 179 per prescrizione. Tutti affari d'oro per il guantaio di Marco Travaglio.

PRESCRIZIONE

Parentesi sulla prescrizione: non è che sia una maledizione scagliata dal cielo, è un'eventualità maturata quasi sempre dai pm durante le indagini preliminari: il 60% matura prima dell'udienza preliminare (ne sono responsabili i magistrati delle indagini) e un altro 15% matura prima della sentenza di primo grado (sempre determinata da magistrati). Tenendo conto di quella notoria panzana che chiamano indiscrezionalità dell'azione penale, i pm di Mani pulite in pratica hanno accelerato i dibattimenti che parevano loro e lasciato ad ammuffire quelli che interessavano meno. Parziale dimostrazione: nel triennio 1992-1993-1994, tralasciando quindi la maggioranza dei rapidissimi dibattimenti riguardanti Silvio Berlusconi, che furono successivi - alcuni imputati sono stati condannati nei tre gradi di giudizio in soli 2 o 3 anni (citiamo solo Sergio Cusani, Walter Armanini e Paolo Pillitteri) mentre uno come Bettino Craxi, nonostante processare un parlamentare comportasse rallentamenti procedurali, ottenne la prima condanna definitiva il 12 novembre 1996 (era già ad Hammamet) in poco più di 3 anni.

Quando fu condannato a 3 anni per il processo Enimont, il 1° ottobre 1999, il giudice, oltre a leggere il dispositivo della sentenza, lesse in aula anche le motivazioni evidentemente già preparate nonostante in genere vengano elaborate nei due o tre mesi successivi, e sviluppate per centinaia di pagine: la primizia assoluta (mai vista prima) evitò ogni rischio di prescrizione. Ultimo esempio: lo stesso Craxi, il 16 aprile 1996, venne condannato in primo grado a 8 anni e 3 mesi per le tangenti della Metropolitana Milanese, e il 5 giugno 1997 la corte d'Appello confermò, ma l'anno successivo, il 16 aprile 1998, la Cassazione annullò la condanna d'Appello: ma ecco che venti giorni dopo il presidente della Quarta sezione della corte d'appello di Milano (oggi defunto) con una procedura mai vista telefonò alla Cassazione per avere gli atti del processo e «assegnarselo» prima ancora che fossero scritte le motivazioni della sentenza, così da evitare rischi di prescrizione. La Cassazione trasmise gli atti in tre giorni e il 24 luglio 1998 Craxi venne di nuovo condannato in Appello, e in un baleno, il 20 aprile 1999, una diversa sezione della Cassazione confermò. Ministro Cartabia, impàri: nessuna Corte Europea si lamenterebbe dei nostri tempi della Giustizia, se fossero tutti così.

RITI ABBREVIATI

Ma veniamo al cuore del problema: l'alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero colpevoli ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera preventiva, pena la rovina economica e dell'azienda e della famiglia coi conti bloccati. Su 3.200 persone di cui la procura di Milano chiese il giudizio, 1300 sono risultati colpevoli, certo, ma il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento è un accordo tra accusa e difesa che implica un'ammissione di colpevolezza da parte dell'indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia. Prima che il fondamentale articolo 530 fosse tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini, come non accadeva in nessun Paese occidentale) nel periodo di Mani pulite per condannare chicchessia era sufficiente estrarre verbali d'interrogatorio ottenuti in galera (da gente disposta a tutto pur di uscirne) e riversarli in processi ridotti a certificazioni delle carte in mano all'accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalle trattative che l'indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. La teoria base del nuovo Codice doveva essere che le prove e le confessioni, per essere avvalorate, fossero riproposte nell'aula del processo, nel corso del quale una testimonianza diventare una prova: non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene nel processo semplicemente non esiste.

PRATICA ROVESCIATA

La pratica, in Mani pulite, fu rovesciata. Ai pm fu sufficiente estrarre dal faldone alcuni verbali d'interrogatorio: se l'accusatore non ne dava conferma, o più spesso non c'era proprio, bastava sventolare il verbale, e se l'accusatore cambiava versione (dicendo che aveva detto certe cose solo per essere scarcerato) veniva incriminato per calunnia. Un imputato, per capirci, poteva denunciare un altro cittadino, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza presentarsi in aula e senza confrontarsi con la persona che aveva accusato: c'è gente, in Mani pulite, che ha subito condanne senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore. Tutto questo ovviamente non avrebbe potuto accadere senza una contro-legislazione operata dall'alto: ma vi risparmiamo le sentenze della Cassazione in un periodo in cui tutta la magistratura remava nella stessa direzione. Traduzione: a pochi interessava fare l'eroe e attendere in carcere un processo da celebrarsi chissà quando: gli interessava uscire dalla galera preventiva il prima possibile e vedere normalizzata la vita sua e della sua famiglia, ergo poter uscire dal procedimento (uscire di scena) colpevole o innocente che si ritenesse.

Da qui, a primeggiare nelle statistiche dell'inchiesta, l'altissimo numero di patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati e alle concessioni che l'indagato fosse disposto ad accettare. I patteggiamenti o riti alternativi, in Mani pulite, sono stati circa i due terzi del totale. Il ricorso al patteggia mento, in altri termini, divenne una scorciatoia pagata a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne del rito ambrosiano: chi non accettava, restava ostaggio della macchina giudiziaria - se non parlava, e resisteva perché magari non aveva niente da dire - oppure la sua posizione veniva spedita per competenza ad altre procure, tutte dita che mancano dalle ormai mostrificate mani di Travaglio: è successo in ben 1320 casi, con percentuali di proscioglimento altissime. A memoria: Clelio Darida, Franco Nobili, Daniel Kraus, Generoso Buonanno, un sacco di gente che nelle statistiche di Mani pulite e mostruose (perché hanno le dita di Travaglio) non risultano: come se a Milano avessero teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria. Sui patteggia menti, infine, un esempio simbolico: gli stilisti Mariuccia Mandelli (Krizia) e Gianfranco Ferrè e Santo Versace, più altri inquisiti con l'accusa di corruzione, furono assolti in Appello: ma altri stilisti come Giorgio Armani e Gimmo Etro, inquisiti nella stessa indagine e pur dicendosi innocenti, in precedenza avevano scelto di patteggiare e quindi di ammettere una colpa che pure reputavano di non avere, in cambio di una pena ridotta; ma è giusto pensare che, se non avessero scelto il patteggiamento, sarebbero risultati innocenti anche loro. Invece Armani ed Etro, secondo le cifre ufficiali di Mani Pulite, risultano nel novero dei colpevoli. Qualcosa, e moltissimo altro, non quadra. Ne riparliamo in una prossima puntata, di numero inferiore - rassicuriamo - alle dita di Travaglio.

Mani Pulite, a Milano due indagati su tre non risultarono colpevoli. La macchina organizzativa di Mani Pulite fu così vorace che oggi non esistono dati certi su quelle inchieste. Di 700 casi non si sa più nulla. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Ma quanti sono stati i soggetti effettivamente coinvolti nell’inchiesta Mani pulite? Anche se i giornali hanno provato in questi giorni a dare dei numeri, è molto difficile avere un dato esatto in quanto l’inchiesta, partita dalla Procura di Milano, aveva interessato un po’ tutta Italia con gli stralci di numerose posizioni. Non essendo poi stato celebrato alcun “maxi processo” alla corruzione, ma tanti diversi dibattimenti, la ricerca statistica si complica ancora di più. All’epoca il ministero della Giustizia non aveva una raccolta dei dati, come avviene invece oggi: non esistendo infrastrutture informatiche, le ricerche potevano essere effettuate solo in maniera cartolare, partendo dalle iscrizioni nelle cancellerie.

Non ultimo, va considerato come nel 1992 fosse entrato in vigore da poco l’attuale codice di procedura penale, che modificava in radice il rito, archiviando il modello inquisitorio in favore di quello accusatorio. Erano stati previsti istituti del tutto nuovi. Si pensi, ad esempio, ai riti abbreviati e, fra questi, al patteggiamento, che da iniziale accordo fra le parti è successivamente stato equiparato ad una condanna a tutti gli effetti. E solo a Milano i patteggiamenti per reati contro la pubblica amministrazione e l’illecito finanziamento dei partiti erano stati oltre 500. Fra questi molti che, pur innocenti, avevano solo voglia di uscire quanto prima dal gorgo giudiziario. Comunque, considerando le sentenze di condanna, di proscioglimento (anche per intervenuta prescrizione)e quindi i patteggiamenti, Mani pulite ha interessato circa 4.250 soggetti.

Impossibile indicare per ognuno di costoro i reati contestati, anche perché ogni singolo soggetto poteva essere destinatario di diverse contestazioni, e in momenti successivi. Ed è impossibile calcolare i termini di custodia cautelare, a cui molti furono sottoposti e che venne usata come strumento di pressione per agevolare confessioni e chiamate in correità, così come puree non c’è modo di calcolare la media delle pene erogate.

Soffermandosi sugli “stralci” effettuati ad altri uffici giudiziari, il Corriere della Sera ha riportato nei giorni scorsi un dato enorme: 700 persone vennero indagate, e se del caso sottoposte a misure cautelari, dalla Procura di Milano senza averne competenza. Del destino di queste 700 persone non si è mai avuto contezza. Sempre il Corriere ipotizza che le loro posizioni processuali siano finite in prescrizione.

La Procura di Milano, comunque, al termine delle indagini, aveva chiesto il giudizio per 3.200 persone. Tolti i 500 patteggiamenti, i 480 prosciolti già in udienza preliminare, i colpevoli al termine del processo furono 1.300. In pratica meno di un terzo dei soggetti inizialmente iscritti nel registro degli indagati. L’unico dato certo in questo conteggio delle manette sono, purtroppo, i suicidi, 31, e i parlamentari coinvolti, 81. Di questi, gli assolti furono ben 61. A parte, dunque, i grandi nomi, di politici di livello nazionale o di famosi imprenditori, Mani pulite fra il 1992- 1994 colpì a pioggia, senza guardare molto per il sottile, notevolmente agevolati dal clamore mediatico.

L'anniversario di Mani Pulite. Tangentopoli fu un colpo di Stato fatto dai Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Febbraio 2022.  

Il 17 febbraio del 1992 – domani sono trent’anni – fu arrestato Mario Chiesa, socialista milanese, e iniziò la sconvolgente avventura di mani Pulite. Un piccolo gruppo di Pm, spalleggiati da un Gip, guidati dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli, impiegarono circa un anno di lavoro per smantellare la prima Repubblica, frenare lo sviluppo economico del paese, annientare i vecchi partiti e i loro riferimenti sociali e acquistare un enorme potere, mettendo in scacco il Parlamento, il governo, l’opinione pubblica, sorretti dall’appoggio pieno e incondizionato di quasi tutti i giornali e le televisioni.

In un tempo piuttosto rapido furono eliminati prima i leader di secondo piano dei partiti, poi i loro massimi esponenti. L’obiettivo numero 1 era Bettino Craxi, perché lui era considerato, giustamente, il più robusto e indipendente dei capi della politica italiana.

Craxi aveva due difetti considerati imperdonabili: credeva nel socialismo democratico e credeva nell’autonomia della politica. Erano quelli i nemici. Il pool dei Pm agì velocemente e in appena due anni rase al suolo tutto l’impianto della democrazia italiana. Braccò Craxi, lo costrinse ad espatriare e poi fece in modo che morisse, in Tunisia, senza poter rientrare a curarsi in Italia. Ci furono migliaia di arresti, molti poi risultarono innocenti. Alcuni suicidi. Morti in carcere.

Il risultato? Lo vediamo oggi, la politica si è arresa senza condizioni. È nata la repubblica giudiziaria nella quale tutti viviamo e nella quale il potere delle Procure è praticamente assoluto. L’economia italiana, che era la più fiorente d’Europa e aveva portato l’Italia al quarto posto tra le potenze economiche del mondo, si è accartocciata su se stessa. Hanno pagato soprattutto i poveri. Sia in termini economici sia di perdita della libertà.

Oggi non sappiamo neppure se esiste la possibilità di reagire. E sappiamo che, certo, viviamo ancora in un regime democratico, ma che ha divorziato dallo stato di diritto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

30 anni dal suicidio del dirigente del Psi. Sergio Moroni e la lettera a Napolitano prima del suicidio: parole attuali da cui non abbiamo imparato nulla. Biagio Marzo su Il Riformista il 7 Settembre 2022. 

Nell’anniversario della morte di Sergio Moroni, che fu deputato nonché segretario regionale del Partito socialista italiano della Lombardia.

Moroni si sparò, con il fucile da caccia in bocca, lasciando una lettera indirizzata all’allora Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, che la lesse in un’Aula ammutolita e incapace di prendere posizione davanti alla slavina giudiziaria populista che avanzava. Nella lettera, c’è la riflessione del personaggio figlio della politica di quell’epoca in cui si militava in un partito e per il partito. In parole povere, ammise l’appartenenza al sistema partitocratico, ma lungi da lui di averne tratto profitto, cioè di essersi arricchito con la politica.

Moroni fu indagato dal pool Mani pulite per finanziamento illegale dei partiti e la sua morte fu una morte politica e non fu l’unico caso. A pensarci, espresse efficacemente il suo il peso del suo atto estremo: “Quando la parola è flebile, non resta che il gesto”. Non è tutto. C’è nella lettera spedita a Napolitano, un passaggio di un politico dalla vista lunga: “Al centro sta la crisi dei partiti ( di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che avvenga attraverso un processo sommario e violento…”. Ancora. “Né mi estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la ‘pulizia’. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e il loro sistemi di finanziamento”.

Nel settembre del 1992, l’avviso di garanzia, al contrario di ciò che recita il Codice penale, era il reato più infamante che potesse colpire un politico. Con lo strombazzamento del circo giudiziario mediatico. Uno dei due “direttori d’orchestra”, il vice procuratore, Gerardo D’Ambrosio, così commentò: “Noi ci siamo limitati a perseguire, reati. Poi c’è qualcuno che si vergogna e si suicida”. Di seguito, l’immancabile Piercamillo Davigo: “Le conseguenze dei reati devono ricadere su chi li ha commessi e non su chi li ha scoperti”. La nemesi ha detto la sua poi su chi voleva rivoltare l’Italia come un calzino. Il concerto fu eseguito da orchestrali che suonarono contro Moroni, tra questi ricordiamo alcuni: Giorgio Bocca, Vittorio Feltri e Massimo Fini. Quest’ultimi due scrivevano sull’Indipendente – direttore Feltri- il quotidiano che più degli altri si contraddistinse a favore di Mani Pulite e dell’antipolitica.

Insomma gettarono le basi del populismo giudiziario che, in verità, vive e vegeta, anche oggi, con arresti di massa. A ben vedere, non fu l’unico organo di stampa a combattere la politica e la Prima repubblica soprattutto, ma ebbe compagni d’avventura in tutti i mezzi di informazione scritti e parlati. Chi non ricorda i telegiornali di Berlusconi, per esempio, quello condotto su Rete 4 dal telecronista giudiziario, Paolo Brosio, che “alloggiava” sotto il palazzo di giustizia di Milano, per informare i telespettatori degli arresti eccellenti. Moroni nella missiva dice la sua su questo argomento: “Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive a cui è consentito di distruggere l’immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste il diritto di informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie.

A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticando di essere stati per molti versi di un sistema rispetto al quale, si ergono censori. Non credo che questo paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da “progrom” nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze”. E, comunque, la lettera è di grande attualità e, alla luce dei fatti profetica, per gli avvenimenti che si sono succeduti dal 1992 al 2022. Il passato che non passa. La morte di Moroni, – anzi le morti per mano giudiziaria -, è segnata dalla verità di Mani pulite; verità che non è rivoluzionaria, più delle volte è menzognera. Di fatto, come la guerra dei trent’anni di Mani pulite. Biagio Marzo

Una rivoluzione che impose lo Stato etico. Da chi era composto il pool di Mani Pulite, i paladini del bene contro i politici corrotti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022 

Francesco Saverio Borrelli – L’aristocratico feroce

L’unica volta in cui il Procuratore capo di Milano degli anni di mani Pulite si era veramente offeso, fu quando l’avevo descritto in un articolo come persona per bene ma scialba, una sorta di omino “in grigio”. Era prima di Tangentopoli e lui appariva così, in ufficio o alla prima della Scala. Ma aveva ragione a non riconoscersi in quella definizione, perché “dopo” si manifestò completamente diverso. E divenne colui che non arrossiva nel dire: «Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».

Se poi questo tipo di choc abbia lasciato sul campo morti e feriti, fa parte del gioco per cui il fine giustifica sempre il mezzo. E non si versa mai una lacrima per i 40 e più morti suicidi di Tangentopoli, così come il non consentire a Bettino Craxi di venire a curarsi e farsi operare a Milano, e lasciarlo morire esule. E poi assumere il ruolo di capo dell’opposizione politica al leader che non piace, Silvio Berlusconi. Prima consigliargli di non candidarsi in presenza di “scheletri nell’armadio”, e poi offrire se stesso al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. E infine passare dal vero corpo a corpo con il nemico di sempre con quel “resistere, resistere” gridato con il piglio del capopopolo nell’aula magna del Palazzo di giustizia, fino al melanconico addio politico della sconfitta, quando chiede «scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Piercamillo Davigo – Sottile? Macché

Di sottile, colui che fu indebitamente definito “dottor sottile” (mentre era piuttosto uno bravo ad “aggiustare”) dai soliti giornalisti laudatores, non ha mai mostrato neppure l’ombra. Al contrario è sempre stato piuttosto muscolare nelle sue apparizioni pubbliche, manifestando senza timore la sua cultura da Santa Inquisizione, a disagio con le regole e le procedure. Cosa che ha dimostrato anche di recente. Era quello non di sinistra del pool, ma non meno politico degli altri.

Fin da quando parlò della necessità di “rivoltare l’Italia come un calzino” e poi stese il testo (pare sia stato proprio lui) di quella clamorosa protesta del gruppetto che andò in televisione a protestare contro un provvedimento del governo, il famoso “decreto Biondi” sulla custodia cautelare. Teorizzò il proprio diritto all’”obiezione di coscienza” quando “vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere”. In che cosa consiste la sua etica? Nel teorizzare che l’indagato A non esce dal carcere finché non denuncia B e C, i quali a loro volta devono denunciare altri. Tutti in galera. Ci dicono che arrestiamo troppo? La verità è che qui si scarcera troppo, disse un giorno. Può tornare a essere libero solo chi fa i nomi di altri, perché “diventa inaffidabile per il sistema del malaffare”. Sottile?

Gherardo Colombo – Fonzie tormentato

Proprio come Fonzie, non riesce a dire “ho sbagliato”. Nel suo percorso di oggi, che lo ha portato a capire l’inutilità del carcere e persino l’eccesso dell’intervento penale su problemi sociali o economici, c’è un abisso di vuoto di memoria su quel che lui stesso ha detto e fatto negli anni di Mani Pulite. Proprio sull’uso del carcere. Non riesce, come Fonzie, a dire più di “ho sb..”, anzi neanche quello. Fa fatica persino a riconoscere le palesi violazioni di legge, come quella, per esempio, sulla predeterminazione del giudice naturale e la competenza territoriale. Pure lo sapeva di essere fuori legge, quando, in una discussione con il suo amico Francesco Misiani, pm a Roma che gli contestava «..e poi non è che ogni volta possiamo fare finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza..», rispondeva disinvoltamente «…se esiste una sola possibilità di arrivare in fondo a Tangentopoli, questa possibilità ce l’abbiamo noi».

E intanto il pool di Milano teneva in carcere l’ex ministro Clelio Darida e il presidente dell’Iri Franco Nobili, che saranno in seguito assolti, quando le inchieste in cui erano imputati saranno tornate all’alveo della competenza territoriale, cioè a Roma. Una certa spregiudicatezza Gherardo Colombo la ebbe ancora, in due diverse circostanze. Quando mandò i finanzieri in Parlamento per sequestrare i bilanci del Psi, grave sgrammaticatura istituzionale, come disse uno scandalizzato Giorgio Napolitano, cosa di cui il procuratore Borrelli fu costretto a scusarsi (lui sì). Non sapeva neanche che i bilanci dei partiti sono pubblici? E ancora quando –erano ormai passati tremila giorni da Tangentopoli e Mani pulite– tirò un vero siluro politico e affossò la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema con un’intervista sparata a tutta pagina dalla prima del Corriere, in cui denunciava “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. E raccontava la storia d’Italia come storia criminale. Le riforme morirono allora, mille giorni dopo Mani Pulite. Per mano di uno che oggi non crede più neanche nell’uso del diritto penale come soluzione dei problemi sociali.

Tiziana Parenti – L’intrusa

L’intrusa era l’ultima arrivata, veniva da Genova e pareva, a occhio, una di sinistra. Forse per quello fu accolta nel pool e le fu affidato il filone che avrebbe potuto (non necessariamente dovuto) portare al Pci-Pds. Nessuno aveva fatto i conti con la caparbietà di Tiziana Parenti. La sua storia nel gruppo di Mani Pulite comincia e finisce con un’informazione di garanzia che la giovane pm osò inviare all’amministratore del Pds, il senatore Marcello Stefanini. Quel che era parso normale finché si erano turbati i sonni dei dirigenti della Dc e del Psi, provocò il terremoto quando si arrivò a toccare il partito di D’Alema e Occhetto. Il partito gridò alla “strategia della tensione”.

Ma nel frattempo a Milano due pezzi da novanta come Maurizio Prada, tesoriere della Dc e Luigi Carnevale, che svolgeva lo stesso ruolo nel Pci, avevano rivelato con molta precisione il sistema della spartizione delle tangenti fra i tre principali partiti, Dc, Psi e Pci, sulle grandi opere. Come finì? Con il famoso intervento del procuratore D’Ambrosio in favore di Primo Greganti e con la cacciata di Tiziana Parenti dal pool in quanto “fuori linea”. L’anno dopo la pm entrò in politica, candidata in Forza Italia. E oggi svolge, felicemente, il ruolo di avvocato a Roma.

Francesco Greco – Il rivoluzionario pigro

Uno scritto in cui lo avevo definito “frivolo” ( l’introduzione al libretto di Giancarlo Lehner “Borrelli, autobiografia di un inquisitore”) aveva suscitato l’interesse di Bettino Craxi, che da Hammamet mi aveva mandato un messaggio, dicendosi interessato a capirne il significato. La prevista telefonata poi non ci fu, diversamente gli avrei spiegato che a mio parere Francesco Greco era semplicemente diventato magistrato un po’ per caso. Così ne parlava il suo (ex) amico Francesco Misiani: «Francesco, come molti di noi, invitava nei congressi all’abbattimento dello Stato borghese..». La toga indossata per caso, ma poi il mancato rivoluzionario, quello delle riunioni “del mercoledi” con Primo Moroni, il libraio più trasgressivo d’Italia, ha finito per prenderci gusto proprio con Mani Pulite, arrivando a definire quello il periodo “più bello della mia vita” .

Sarà anche stato bello, ma qualcosa di brutto ci fu, quando lui stese quella relazione di servizio con cui mandò il suo amico di Magistratura Democratica, il suo maestro e mentore Francesco Misiani davanti al plotone del Csm a farlo processare per incompatibilità ambientale a causa della sua amicizia con il procuratore di Roma Renato Squillante. È strano che questo magistrato per caso sia poi diventato lui stesso il capo della procura più famosa d’Italia. E che l’incendiario sia diventato più che pompiere. Con tutto quel che ne segue, fino all’inchiesta dei magistrati di Brescia sulla procura ormai la più disastrata d’Italia e lo stesso Greco in pensione con una finale di carriera non proprio brillante.

Gerardo D’Ambrosio – Soccorso rosso

Era stato per tutti noi cronisti giudiziari lo “zio Gerri”, il simpatico bonario giudice istruttore di Piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, inchiesta chiusa con qualche nostra delusione. Poi in Procura, nella veste di vice di Borrelli, divenne il militante difensore d’ufficio del Pci-Pds. Neppure lui negò a se stesso qualche stilla di cinismo, quando dopo il tragico suicidio di Sergio Moroni, che fece commuovere anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano che nell’aula di Montecitorio aveva letto la sua lettera in lacrime, aveva commentato: «Si può morire anche di vergogna». Senza vergognarsi a sua volta. Neanche di continuare la carriera per due volte come senatore di quel partito che gli doveva tanto.

Fin da quando, nella sua veste di procuratore, aveva preso per mano l’imputato Primo Greganti, funzionario comunista tutto d’un pezzo, trovandogli prove a discarico meglio di qualunque difensore di fiducia. Aveva scoperto che Greganti, nella stessa giornata in cui aveva prelevato 621 milioni di lire dal conto svizzero Gabbietta, aveva anche acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova -aveva detto- che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Inchiesta chiusa. Ma due anni dopo, quando il ministro Mancuso, guardasigilli del governo Dini, manderà gli ispettori al pool di Milano, si scoprirà la relazione di un graduato della guardia di finanza che aveva rivelato come la Procura di Milano avesse rifiutato di ricevere un documento che attestava come il famoso rogito per l’acquisto della casa a Roma fosse stato stipulato in banca alle 9,30 del mattino, e non in seguito al prelievo nella banca svizzera. I 626 milioni avevano preso un’altra strada, quindi. Le casse del Pci-Pds? Del resto lo stesso D’Ambrosio aveva definito chiuse le inchieste di Tangentopoli con le responsabilità della Dc e del Psi. Tertium non datur, aveva detto, anche se non in latino.

Antonio Di Pietro – Il testimonial

Non è mai stato il Capo del pool Mani Pulite. Ne è stato l’esecutore e anche l’immagine, il Testimonial. Amato dagli italiani, anche con le sue debolezze che lo rendevano simile a tutti quelli che facevano i cortei intorno al Palazzo di giustizia gridando ”facci sognare”. E mentre lui, chiuso nel suo ufficio in ciabatte agitava le manette e gli imprenditori milanesi facevano la fila per farsi interrogare, diventare delatori e mandare in carcere gli altri per non finirci loro, i suoi colleghi si trastullavano vendendo all’opinione pubblica la sua immagine come figurina sacra. L’origine contadina con il trattore rosso e la mamma con il foulardino nero in testa facevano proprio sognare.

Ma proprio le sue debolezze e una sentenza in cui era stato parte lesa ma che le aveva rese palesi e lui era descritto come un avventuriero (e contro cui lui non fece appello) e il timore fondato di una brutta fine nel procedimento disciplinare aperto al Csm, ne determinarono l’uscita dalla magistratura. E la caduta del personaggio, non sanata dal successivo suo ingresso in politica come ministro e come fondatore del movimento moralistico “Italia dei valori”. La vera storia di Di Pietro è finita con la “sentenza Maddalo”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

30 anni da Mani Pulite. Il risultato di Tangentopoli: 40 suicidi e centinaia di innocenti incarcerati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022 

Mani Pulite e Mani Sporche. Tutto sta a intendersi, per giudicare questi trent’anni, quelli che ci separano da un piccolo episodio che creò una grande valanga politica, un colpo di Stato senza armi. Ma con il sangue, quello dei morti suicidi, da Sergio Moroni a Gabriele Cagliari e gli altri quaranta. Le vittime di quella rivoluzione che assunse un nome da Stato Etico, quello di Mani Pulite. Il contraltare di chi aveva invece le Mani Sporche. La storia la scrivono i vincitori, questo lo si sa. Ed è chiaro che da quei due anni tremendi che furono il 1992 e il 1993, quelli delle bombe con le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e in contemporanea le inchieste di Tangentopoli, chi uscì con le ossa rotta fu la Politica.

Cinque partiti che avevano governato l’Italia per quarant’anni, distrutti. E il partito forte dell’opposizione di sinistra, il Pci, colpevole come gli altri ma salvo perché complice dei pubblici ministeri e traditore dei sodali con cui aveva sempre spartito il “bottino”. Che poi bottino non era, ma finanziamento illecito. Tutto era partito da Milano, da quella che diventerà proprio allora la procura più famosa e vezzeggiata d’Italia e che oggi piange le proprie macerie. E proprio a Milano i due tesorieri della Dc e del Pci avevano illustrato ai magistrati il meccanismo del trenta per cento nella spartizione delle tangenti che gli imprenditori pagavano alla politica sulle grandi opere. Avevano anche spiegato che nella quota destinata al Pci, due terzi andavano nelle casse della segreteria nazionale occhettiana e un terzo era destinato alla minoranza “migliorista”. Questa parte del finanziamento illecito dei partiti rimase però in ombra, per motivi generali (ai magistrati era utile avere un partito importante che appoggiava la loro inchiesta) e anche relativi all’impronta di sinistra dei principali uomini del pool.

Bettino Craxi, che era un grande statista e uomo di governo, ci aveva provato, con il suo appello in Parlamento, a trovare una soluzione politica. Ma era necessario che tutti i partiti che erano stati complici nella spartizione e i cui bilanci erano falsi o falsificati, trovassero il coraggio e la forza per una pubblica comune dichiarazione di responsabilità e un comune programma di svolta. Prevalsero la vigliaccheria e la speranza da parte di alcuni di potersi appropriare delle spoglie dei partiti in via di distruzione. Anche questo fu uno degli aspetti della debolezza della politica. Che accettò di essere definita come il soggetto delle Mani Sporche, tanto da rinunciare all’unico contrappeso che la Carta dei Costituenti aveva previsto a bilanciare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, cioè l’immunità parlamentare.

Fu quello il vero momento della sconfitta. Anche perché, sopra il cadavere dei partiti affondati le acque si erano chiuse, creandone la tomba. Toghe, imprenditori e giornali avevano stretto la politica a tenaglia. I ministri della Giustizia caduti come birilli, ogni tentativo di riforma spazzato via dal broncio dei pm, mentre i quotidiani con i loro proprietari beneficati da accordi di alto livello erano diventati i servi muti di ogni sospiro di Borrelli o D’Ambrosio. Di conseguenza pareva normale il fatto che Romiti e De Benedetti avessero evitato le manette e se la fossero cavata con la presentazione di memoriali, mentre la stessa cosa non fu concessa a Raul Gardini fino al suo suicidio. E altrettanto normale parve il fatto che mentre il gallo (il padrone) faceva chicchirichì, al Palazzo di giustizia di Milano le galline (i cronisti giudiziari) rispondessero coccodè in girotondo intorno al pool di piemme, anche loro ormai organizzati in piccolo pool, con le magliette che inneggiavano a Di Pietro e la bottiglia in frigo per brindare alla prima informazione di garanzia nei confronti di Craxi. Così, di normalità in normalità alle Mani Sporche della politica si rispondeva con le Mani Sporche di Mani Pulite.

Era Mani Sporche violare i principi della libertà personale e del diritto di difesa, del principio del giudice naturale e della competenza territoriale, della presunzione di non colpevolezza. Era Mani Sporche l’uso della custodia cautelare in carcere. Per chi è entrato a San Vittore in quei giorni e ha visto l’ex ministro di giustizia Darida, persona per bene che, proprio come Cagliari, alla vista del parlamentare diceva di non preoccuparsi per lui ma per i tanti ragazzi buttati lì come bestie. O l’assessore regionale Serafino Generoso in sciopero della fame, arrestato due volte e due volte assolto. Perché c’era l’ossessione: devi parlare, devi fare i nomi, parlami di Craxi. Quello era il clima, peggio che nei processi di mafia o di terrorismo. I procuratori volevano i nomi, i nomi. Craxi, Craxi. Anche questo era Mani Sporche.

Ma ancora non ci siamo, visto che proprio ieri il Corriere della sera dava i numeri (un po’ strampalati, in verità) per dimostrare che con Mani Pulite i condannati erano tanti e gli assolti pochi. Come se il problema fosse solo quello. Come se non sapessimo che ben pochi giudici avrebbero avuto in quegli anni il coraggio di mettersi contro i capitani coraggiosi con le Mani Pulite. Ma perché non parliamo anche delle Mani Sporche che hanno violato le regole? Perché almeno uno dei quattro (Davigo, Di Pietro, Colombo, Greco) che andarono in tv a dire che si sarebbero dimessi perché con il decreto Biondi non avrebbero più potuto arrestare, non spiega oggi quel che successe dopo? Cioè dopo che riuscirono a far ritirare dal governo Berlusconi il decreto, come mai di tutti quelli che erano stati scarcerati loro ne rimisero in prigione meno del dieci per cento? Anche questo è Mani Sporche.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Quel giorno tutto cominciò, anzi finì. Da Mario Chiesa alle assoluzioni e ai 45 suicidi: Mani pulite e la scomparsa dei partiti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Febbraio 2020 

Quella sera a Milano. “Hanno arrestato Mario Chiesa”. “E chi è?”. E’ il 17 febbraio del 1992, il consiglio comunale è riunito – da un mese è caduta la giunta “rossa” e gli eredi del Pci non torneranno più a Palazzo Marino fino al 2011 – e la tensione è molto alta perché il Tar ha annullato 400 nomine sia di municipalizzate che di società per azioni quali Sea (aeroporti), Mm (metropolitane) e Sogemi (mercati generali). La situazione è paradossale perché il ricorso al Tar era stato presentato dai democristiani quando erano all’opposizione e oggi sono in imbarazzo per aver innescato una slavina che danneggia la giunta di cui loro ormai fanno parte.

Mentre la sinistra del Pci-Pds che era stata compartecipe di quelle nomine è agitata perché non vorrebbe perderle. Quattrocento “clientes” disoccupati all’improvviso sarebbero una bella pugnalata. Per questo quella sera a Milano il clima politico era caldo, quando d’improvviso qualcuno lanciò la bomba in mezzo al consiglio comunale. Toccò a un uomo dell’opposizione, Tomaso Staiti di Cuddia, parlamentare del Msi, chiedere la parola sull’ordine dei lavori e dire a voce alta quel che si stava già bisbigliando tra i banchi e nei capannelli dei corridoi intorno all’aula: era vero che era stato arrestato Mario Chiesa, beccato con una mazzetta di sette milioni di lire che aveva tentato di buttare nel cesso? Il neo-sindaco di Milano Piero Borghini, moderato ex vice direttore dell’Unità, voluto personalmente da Craxi alla guida della città al posto di Paolo Pillitteri, ebbe un moto di orgoglio.

Proprio come Aldo Moro quando in Parlamento aveva detto “non permetterò che si processi la DC né qui né nelle piazze”, liquidò la domanda con un “Non sono a conoscenza di nessuna notizia che riguardi il dottor Chiesa né permetterò processi senza imputati né imputazioni”. Prese allora la parola un preoccupatissimo Carlo Smuraglia, consigliere del Pci-Pds e famoso avvocato che pochi mesi dopo siederà in Senato per tre legislature: “Nessun processo – disse – ma la cosa ci riguarda da vicino. Chiesa è stato nominato da noi alla guida di un ente comunale, il Pio Alberto Trivulzio”. Nel parlamentino milanese per tutta la sera le facce rimasero corrusche. E che facce, in quello che fu l’ultimo consiglio comunale della prima repubblica! C’erano due ministri, il dc Virginio Rognoni, titolare della Difesa e il liberale Egidio Sterpa, ministro dei rapporti con il Parlamento.

Poi c’era il dc Andrea Borruso, sottosegretario agli esteri, il repubblicano Antonio Del Pennino, capogruppo del suo partito alla Camera dei deputati. Il Pci-Pds aveva messo in campo il deputato Franco Bassanini, Barbara Pollastrini e Chicco Testa, futuro presidente dell’Enel. Il drappello della Lega, che cominciava a farsi sentire come movimento anti-sistema, era guidato da Umberto Bossi. E c’ero anch’io, unica rappresentante antiproibizionista del Partito radicale. Ero all’opposizione sia della giunta di sinistra che di quella moderata e non conoscevo Mario Chiesa. Ma gli altri sì, lo conoscevano bene. Sedeva in quell’aula una classe politica di tutto rispetto, che nel giro di pochi giorni fu resa debolissima perché a Milano, come nel resto del Paese, erano ormai altri i Poteri che contavano. Il capoluogo lombardo è una città piccola, anche per estensione. Niente a che vedere con le grandi capitali del mondo e con la stessa Roma, che ha anche il triplo dei suoi abitanti. Ma mai come in quei giorni fu importante il perimetro che congiungeva nel centro di Milano il Palazzo di Giustizia con la sede di Assolombarda e quella dell’Arcivescovado. E i palazzi dei grandi giornali. E il carcere di San Vittore. Palazzo Marino era nella penombra di piazza della Scala, a poche centinaia di metri dai luoghi del potere e mai come allora da questi lontano.

L’Arcivescovado parlò idealmente quella sera con le parole di un giovane consigliere comunale dell’Aziona cattolica, Giovanni Colombo, considerato vicino al cardinal Martini, arcivescovo di Milano, che si scontrò con il sottosegretario Borruso, esponente di Comunione e Liberazione e prendendo le distanze dal proprio partito disse: “Io vi propongo oggi l’onestà come valore politico”. E si capì bene chi fosse stato il suo ispiratore quando qualche tempo dopo, a un convegno organizzato dall’Anm, il sindacato dei magistrati, lo stesso cardinal Martini, sommerso dagli applausi, disse che “ce n’era bisogno e bisognava fare pulizia”. La sentenza morale era arrivata prima di quella dei tribunali. Era tramontato in quei giorni il partito unico dei cattolici. A poche centinaia di metri da Palazzo Marino e dall’Arcivescovado svetta il Palazzo di giustizia costruito nel ventennio fascista dall’architetto Piacentini. Poco più in là, in via Pantano, c’è la sede di Assolombarda, l’associazione degli imprenditori della regione “locomotiva d’Italia”. Nei corridoi del tribunale succedono cose strane, in quei giorni.

Il procuratore capo della repubblica Francesco Saverio Borrelli pare favorevole ad accettare un patteggiamento di Mario Chiesa con confessione per la tangente e venti mesi di carcere. Anche perché è da poco entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che favorisce i riti alternativi. Non la pensa così il giovane sostituto Antonio Di Pietro, che da bravo ex poliziotto preferisce l’inquisizione e le tecniche poliziesche di interrogatorio e, a quanto pare, ha qualche carta nascosta che potrebbe portarlo alla caccia grossa. Di Pietro riesce a stoppare Borrelli, fa parlare Chiesa e lo libera dopo 45 giorni, alla vigilia delle elezione politiche, le ultime della prima repubblica. Quel giorno chi doveva capire, capì. Capirono subito gli imprenditori. Soprattutto dopo la retata del 21 aprile, quando l’arresto dei primi otto di loro si trasformerà in una slavina. Gli otto capirono al volo, nominarono i difensori giusti (i famosi “accompagnatori”) e dissero di esser stati obbligati dalla politica a pagare. Erano concussi, non corruttori.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Mani pulite, la stagione dei suicidi. Roberta Caiano su Il Riformista il 19 Novembre 2019 

Tangentopoli e tutto ciò che ne conseguì non solo cambiò il volto della politica italiana, che segnò la fine della cosiddetta Prima Repubblica, ma provocò 41 suicidi tra politici e imprenditori. Conosciuta anche come l’inchiesta di Mani Pulite, deve il suo nome al Pm Antonio Di Pietro il quale aprì un fascicolo alla Procura di Milano nel 1991 dando inizio alle indagini. Il vero inizio, però, si ha nel febbraio 1992 quando Di Pietro chiese e ottenne un ordine di cattura nei confronti dell’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Psi di Milano.

Dapprima Chiesa, incarcerato a San Vittore, si rifiutò di collaborare con il pubblico ministero, ma in seguito confessò che lo scandalo delle tangenti era in realtà molto più esteso di quello che si riteneva. Da quel momento lo scalpore si allargò a macchia d’olio attraverso una risonanza mediatica molto forte.

I PRIMI SUICIDI – Furono 41 le persone che si tolsero la vita a causa di queste indagini. La maggior parte lo fece al di fuori dal carcere o ancora prima di essere ufficialmente indagati. Questo accadde come conseguenza della pressione dell’opinione pubblica, per il timore che si venisse marchiati a vita, oltre che condannati. Il primo a suicidarsi fu Franco Franchi, coordinatore di una USL di Milano. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi sarebbe rientrato e così si uccise nella sua auto soffocato dal monossido di carbonio. A seguire ci furono quello del segretario del Partito Socialista di Lodi, Renato Morese, che si tolse la vita con un colpo di fucile alla testa, poi quelli di Giuseppe Rosato, della Provincia di Novara, Mario Luciano Vignola, della Provincia di Savona, e dell’imprenditore di Como Mario Comaschi.

I SUICIDI ECCELLENTI – Il 2 settembre del 1992 è la volta del deputato del Partito socialista Sergio Moroni. Tesoriere del partito in Lombardia, a Moroni vengono notificati ben tre avvisi di garanzia per una serie di presunte tangenti e il pool di Mani Pulite chiede alla Camera l’autorizzazione a procedere. Moroni scrive una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parla di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiuta che venga definito come un ladro e contesta di non aver mai preso una lira concludendo con una frase inquietante: “ma quando la parola è flebile non resta che il gesto“. Il 2 settembre si spara un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia.

Uno dei nomi più famosi è quello Gabriele Cagliari. Presidente dell’ENI ed uno dei più importanti manager pubblici, dopo 4 mesi nel carcere di San Vittore si toglie la vita soffocandosi con un sacchetto di plastica. La sua vicenda è quella che ha destato più scalpore perché vengono trovate delle sue lettere in cui esprimeva il suo senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto. Cagliari più volte aveva dichiarato di essere all’oscuro delle tangenti ma la pressione proveniente dall’esterno della cella è stata più forte portandolo al suicidio.

A soli tre giorni dalla morte di Cagliari, si uccide un altro indagato: Raul Gardini. Il manager, a capo dell’impero agro-alimentare della famiglia Ferruzzi di Ravenna, viene indagato per una maxi-tangente da 150 miliardi dell’affare Enimont. Quando uno dei suoi dirigenti viene arrestato in Svizzera, Gardini pensa che lui sia il prossimo ad essere arrestato così si toglie la vita nella sua casa di Milano. Infine il 25 febbraio del 1993 viene ritrovato il corpo senza vita di Sergio Castellari, ex direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38.

Risultano brutali le parole di Piercamillo Davigo del pool di Mani Pulite “la morte di un uomo è sempre un avvenimento drammatico. Però credo che vada tenuto fermo il principio che le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono non su coloro che li scoprono“. Roberta Caiano

Il ruolo della Corte. Mani pulite e carcere preventivo, tutte le colpe della Cassazione. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

L’articolo di Tiziana Maiolo del 16 febbraio sui trent’anni di Mani Pulite ha giustamente messo in rilievo il ruolo avuto in quella vicenda dalla Procura di Milano e dagli organi di informazione, che l’hanno affiancata. Vi è stato, peraltro, un altro protagonista, restato sempre dietro le quinte, ma il cui contributo è stato decisivo. Si tratta della Corte di Cassazione. La quale ha legittimato l’ondata di arresti e conseguenti confessioni, che hanno caratterizzato quel periodo.

Ciò avvenne attraverso tre precise direttrici. Innanzitutto, con un sofisma di bassa lega, la Corte affermò che era certamente illegittimo ricorrere al carcere per estorcere delle confessioni, ma che, al tempo stesso, era pienamente giustificato liberare le persone quando avessero confessato, perché la confessione avrebbe segnato il distacco dal contesto corruttivo, in cui avevano operato. Quindi, non sei in carcere per confessare, ma se confessi ti liberiamo. E così avvenne che le carcerazioni duravano fino alla confessione, autentica o costruita che fosse.

Del resto, una volta ottenuta la confessione con chiamata in correità di altre persone, questa diventava prova incontestabile a carico dei nuovi accusati, atteso che non era neppure necessario che quella prova fosse sottoposta al vaglio del controesame. Centinaia di processi si svolsero con i pubblici ministeri che depositarono in udienza i verbali delle confessioni ottenute in carcere, senza che i difensori dei nuovi accusati da quelle confessioni potessero interrogare chi le aveva rilasciate. Ed i processi si sono conclusi, senza la reale possibilità di verificare se quelle chiamate in correità fossero o no rispondenti a verità.

In secondo luogo, il criterio di valutazione dei “gravi indizi di colpevolezza”, richiesto dal codice di procedura penale per ricorrere alla carcerazione preventiva, fu profondamente svilito. I gravi indizi dovevano, difatti, essere visti in una “prospettiva dinamica”. Il che significava che qualsiasi elemento, anche debole ed incompleto, siccome suscettibile di rafforzarsi nello sviluppo delle indagini, era idoneo a legittimare la privazione della libertà personale. In definitiva, un altro sofisma, con il quale si svuotava di contenuto un requisito fondamentale previsto dal codice come condizione indispensabile per l’utilizzo della carcerazione preventiva. Era evidente che, in questo quadro, la chiamata in correità in una confessione legittimava ampiamente la moltiplicazione delle misure cautelari.

L’ultima sottigliezza, infine, riguardò l’effetto di un eventuale accoglimento dei ricorsi in Cassazione. Il buon senso porterebbe a ritenere che un provvedimento di carcerazione impugnato, se annullato dalla Cassazione, avrebbe dovuto implicare la liberazione. Ma la Corte di Cassazione osservò che se, come di regola avviene, alla sua attenzione giungono le impugnative alle decisioni del Tribunale del riesame, l’annullamento con rinvio di tali provvedimenti lascia comunque in piedi l’originaria ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP. Di conseguenza, le persone devono restare in carcere, sino ad un eventuale esito favorevole del giudizio di rinvio.

In poche parole: è vero che il provvedimento che ti mantiene in carcere è viziato, ma ci devi restare lo stesso. La Corte di Cassazione, dunque, ebbe un ruolo fondamentale nel legittimare quel costante abuso dell’utilizzo della carcerazione preventiva, che fu uno dei tratti salienti di Mani Pulite e che, incontestabilmente, ebbe un ruolo decisivo in quella operazione. È “giusto”, nella ricorrenza dei trenta anni, darne atto. Astolfo Di Amato

Mani Pulite: l’arresto di Mario Chiesa e l’inizio di Tangentopoli. Redazione Notizie.it il 17/02/2022

L'inchiesta "Mani Pulite" comincia qui, nel bagno di una casa di riposo per anziani di Milano, il 17 febbraio 1992. 

Sono le 17:30 di lunedì 17 febbraio, è il 1992, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e politico di primo piano del PSI milanese, sta per fare il suo ingresso Luca Magni, imprenditore monzese e amministratore delegato della Ilpi, l’Impresa Lombarda Pulizie Industriali.

Tra i due ci sarebbe un accordo, l’assegnazione di un appalto da 140 milioni di lire in cambio di una tangente del 10%, quello che Chiesa però ancora non sa è che quell’incontro è solo l’inizio della fine della Prima Repubblica.

L’inchiesta “Mani Pulite” comincia qui, nel bagno di una casa di riposo per anziani di Milano.

L’arresto di Mario Chiesa

Il giorno di San Valentino a Milano, per l’appuntato Domenico Lupinetti e il carabiniere Francesco Fancello, conosciuti meglio con lo pseudonimo di Lupo e Falco, è un giorno qualunque. Lo è stato, almeno fin quando alle porte del Comando di via Moscova non si è presentato Luca Magni.

È lui che sporge denuncia contro Chiesa, stanco di pagare le mazzette. Puntava all’appalto per le lavanderie del PAT.

Un affare. Gli avevano chiesto il 10 % o non avrebbe vinto. Lui fa un nome.

Prima di quel giorno, puntare alla politica era quasi impossibile. Della corruzione c’erano le voci ma mai gli elementi per arrestare qualcuno.

La denuncia passa dal capitano Zuliani che la gira al pubblico ministero in turno. È Antonio Di Pietro, che in quel periodo si occupava di patenti false. Chiesa al tempo era nel giro della Milano che contava, conosceva tutti e faceva da collettore per le tangenti del partito del segretario Bettino Craxi.

Quel giorno si decise di intercettare la consegna dei 14 milioni. In una busta vengono messe le banconote, alcune sono firmate per essere riconoscibili, ma si decide di consegnarne solo 7 di milioni. La valigetta è una mandarina duck, con telecamera e microspia. Alcuni giorni dopo, il brigadiere Sebastiano De Jannello, fingendo di essere il suo assistente, accompagnò Magni allo scambio, puntando la telecamera contro Chiesa.

Giù in auto, sul retro della baggina – come la chiamano i milanesi – ci sono Lupo e Falco, il cavo della telecamera si stacca ma la cimice funziona ancora. Lo scambio avviene e Chiesa rassicura Magni, dice che la sua percentuale si può rateizzare. Lì c’è il segnale “La torta è pronta” e Falco sale su nell’ufficio del presidente del Pio Albergo Trivulzio.

Chiesa all’arrivo dei Carabinieri cerca di occultare la tangente, ne afferra un’altra, da 37 milioni, scaricando le banconote nel gabinetto di un bagno, poi tenta la contro-denuncia – poco credibile, le banconote firmate sono già all’interno di un cassetto della scrivania. È concussione. Nell’appartamento della sua casa in via Mosé Bianchi, i carabinieri trovano 160 milioni in un altro cassetto, quello della cucina. Per Chiesa si spalancano le porte di San Vittore. L’ingegnere non parlò mai, almeno finché Craxi non gli dette del mariuolo e Mani Pulite decollò.

Mario Chiesa, dal PAT a Tangentopoli

Chiesa, classe ‘44, è laureato in Ingegneria Elettrica. Inizia a fare politica nel PSI alla fine degli anni Sessanta e si fa le ossa nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro, fino a dirigere il PAT.

Ma il Trivulzio non gli basta, la sua ambizione è la politica, il potere. Chiesa si fa strada nell’élite politica locale, diventando amico della famiglia Craxi, consigliere comunale prima e assessore poi. Ma la sua vera aspirazione è Palazzo Marino. Vuole diventare sindaco di Milano e prendere il posto di Giampiero Borghini, in una città che è vestita dai colori socialisti sin dal dopoguerra. Una via facile, scontata, alla portata di uno come Chiesa. Servono soldi, tanti soldi, e tante conoscenze, che il direttore del Trivulzio può vantare.

D’altronde prima di Borghini, a Palazzo Marino, c’è stato Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, che aveva preso il posto di un altro socialista, Carlo Tognoli. Per entrambi, il primo maggio 92 scatterà l’avviso di garanzia.

Per Chiesa sembra andare tutto nella giusta direzione, fino a quel 17 febbraio.

Quello scandalo, iniziato con una piccola mazzetta e che oggi chiamiamo Tangentopoli, ebbe ampie ripercussioni anche in Svizzera. Era lì, dietro alle porte sicure e impenetrabili degli istituti di credito elvetici, che andava a finire il denaro sporco, quello delle stecche versate a funzionari e politici. Centinaia di conti sospetti, bloccati e confiscati dalle autorità.

I primi furono proprio quelli legati a Chiesa. Nello specifico, due relazioni bancarie, a Lugano, denominate Levissima e Fiuggi, come il nome delle famose acque in bottiglia, limpide agli occhi dei magistrati, che fino a quel momento navigavano nelle acque torbide degli intrecci del PSI. Entrambe erano intestate alla sua segretaria, Stella Monfredi, che nelle pagine dell’Unità veniva descritta come una ragazza tranquilla, colpevole soltanto di non sapere che a suo nome c’era anche un conto da 5 miliardi di lire.

Poi anche migliaia di milioni in una cassetta custodita nella Banca Provinciale Lombarda di Paullo, farina del sacco di Chiesa, che scorreva nel fiume dei miliardi che si scambiavano all’ombra del garofano.

Al telefono con il legale di Chiesa c’è Antonio Di Pietro: “Avvocato, l’acqua minerale è finta”. Sono bastate queste parole per far capire all’ingegnere milanese di essere al capolinea. Rimasto solo, isolato e rigettato dal suo stesso partito, Chiesa, dopo cinque settimane di carcere e un interrogatorio di oltre una settimana, vuota il sacco. Il caso esplode, escono fuori nomi di altri politici e imprenditori coinvolti in un giro che si rivela molto più esteso di quanto gli stessi magistrati potessero immaginare.

Un sistema in cui la tangente – a Milano come in tutto il Paese – era divenuta una sorta di “tassa”, dritta nelle casse della Democrazia Cristiana, del PSI e del PCI. Chiesa ottiene i domiciliari, la classe politica trema, e la squadra di Mani Pulite – il pool – prende vita.

1992, Mani pulite e la Calabria: Mancini, Craxi e le fioriere di Reggio Calabria. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 17 febbraio 2022.

NEL 1992, in Calabria, terra di malaffare politico, si aspetta che il vento del Nord alimentato dal pool dei giudici milanesi di Mani Pulite arrivi a far pulizia di corrotti e malfattori. Reggio Calabria è dilaniata da una feroce guerra di mafia ma quell‘anno si aggiungerà molto altro.

IL SINDACO DI REGGIO CALABRIA

Agatino Licandro, 36 anni, nel 1990 era diventato il sindaco più giovane della città. Figlio d’arte democristiano. La Dc da Roma cercava di mettere ordine in una città in cui avevano ammazzato Vico Ligato, il potente della città già azzoppato dallo scandalo delle lenzuola d’oro da presidente della Ferrovie dello Stato. Licandro tuona contro la ’ndrangheta in consiglio comunale e sull’Espresso. Dialoga con Leoluca Orlando, il rinnovatore. Sarà lui il Mario Chiesa di Calabria. Nel luglio del 1992, mentre da tempo incassa tangenti per grandi opere da distribuire alla politica di ogni ordine e grado, è costretto alle dimissioni su una semplice richiesta di rinvio a giudizio. In procura i magistrati Pennisi e Verzera adottano il metodo della scuola milanese. Un abuso amministrativo sull’arredo urbano della città catapulta Reggio Calabria sull’asse del Nord.

E’ lo scandalo delle fioriere. Un banale abuso d’ufficio. Un acquisto senza appalto di 97 milioni fa scattare gli arresti per l’intera giunta Licandro. Pochi mesi prima il sindaco era pronto a candidarsi alle politiche. Ma Forlani in testa aveva chiesto di restare in Comune: “La città ha bisogno di te”.

LICANDRO CANTA

Sarà lui il Mario Chiesa di Calabria. Nel luglio del 1992, mentre da tempo incassa tangenti per grandi opere da distribuire alla politica di ogni ordine e grado, è costretto alle dimissioni su una semplice richiesta di rinvio a giudizio. In procura i magistrati Pennisi e Verzera adottano il metodo della scuola milanese. Un abuso amministrativo sull’arredo urbano della città catapulta Reggio Calabria sull’asse del Nord. E’ lo scandalo delle fioriere. Un banale abuso d’ufficio. Un acquisto senza appalto di 97 milioni fa scattare gli arresti per l’intera giunta Licandro. Pochi mesi prima il sindaco era pronto a candidarsi alle politiche. Ma Forlani in testa aveva chiesto di restare in Comune: “La città ha bisogno di te”.

La partitocrazia reggina è decapitata. Pds e Msi cavalcano la protesta. Accade l’imprevedibile, Agatino detto Titti collabora con la giustizia e vuota il sacco su una città corrotta fino al midollo. Il 18 settembre di quello storico 1992 gli arresti sono veramente eccellenti. Finiscono in carcere in 18. Tre ex sindaci, amministratori, ex parlamentari, consiglieri regionali, persino un giornalista. Ma i nomi eccellenti sono i manager dell’Iri-Italstat e della Lodigiani che hanno pagato le tangenti ai partiti di governo. Un miliardo in lire di cresta su un appalto di 113 per il Centro direzionale. Lo scandalo è nazionale.

Licandro in città lo apostrofano come “Titti dei Rolling Stones” per le sue cantate. Torna a lavorare in banca ma non è gradito. Neanche al Circolo di società dove tutti chiedevano favori e prebende. Licandro va via da Reggio e sparisce per anni. Patteggia la pena a pochi mesi.

LA CITTA’ DOLENTE

Licandro lascia una testimonianza imponente che è il più importante spaccato di quel tempo. Con Aldo Varano pubblica “La città dolente”. Sono le confessioni di un sindaco corrotto che ancora oggi aiutano a comprendere come si finanziava la politica. La vicenda giudiziaria finirà nel tempo in una grande bolla. Licandro ogni tanto tornerà a Reggio nel corso del tempo rilasciando interviste ai media locali. Vive lontano. Quella clamorosa vicenda a Reggio Calabria sostituisce una classe dirigente. Quella precedente passa all’oblio.

MANCINI NON ELETTO IN PARLAMENTO

In quel 1992 si vota per il rinnovo del Parlamento. Al Nord è il trionfo della Lega, si affaccia la Rete di Orlando. Si vota con la novità della preferenza unica decisa dal referendum di Mario Segni. Giacomo Mancini, pregato da Craxi, fa da capolista, per dare credibilità alla lista socialista. Dopo dieci legislature, viene clamorosamente trombato da una congiura ben orchestrata. E’ un colpo durissimo. Ma il vecchio leone sa attendere.

LA MORTE DI BALZAMO

Il 14 ottobre l’amministratore nazionale del Psi, Vincenzo Balzamo, è raggiunto da un avviso di garanzia del pool milanese. Il tesoriere viene colpito da un infarto mortale prima che inizi il processo nei suoi confronti. E’ una delle vittime di Tangentopoli.

L’INTERVISTA DI MANCINI AL CORRIERE DELLA SERA

Balzamo aveva fatto parte della corrente manciniana. L’8 novembre Giacomo Mancini rilascia un’intervista al Corriere della Sera. Difende il suo compagno e dice “Balzamo era il segretario amministrativo, ma la parte delle entrate che conosceva era quella che riguardava i grandi progetti dell’edilizia, i lavori pubblici. Ma la vastità del fenomeno, i flussi di finanziamento che hanno avuto come destinatario il Psi non sono certamente passati da Balzamo, non sono stati registrati. Li conosceva solo Craxi”. 

Nella vivace pubblicistica del tempo è la notizia del giorno. Non sfugge ai magistrati di “Mani pulite”.

DI PIETRO CONVOCA MANCINI A MILANO

Dieci giorni dopo, Mancini, come persona informata sui fatti, viene convocato in Procura a Milano. A porre le domande sono Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro. Nel verbale è documentato che Mancini conferma i contenuti dell’intervista e spiega i meccanismi di finanziamento del Psi. Un mese dopo Craxi sarà raggiunto dal primo di numerosi avvisi di garanzia a suo carico.

Non c’è prova provata che il verbale di Mancini abbia dato l’indizio decisivo al pool di giudici. Mancini fece opera di verità e di rivalsa politica. La questione tornerà d’attualità nel 2015, quando a Tangentopoli viene dedicata una serie di grande successo, 1992, ideata da Stefano Accorsi.

La prima serialità, che mescola verità e finzione, si chiude con Giacomo Mancini (interpretato da un per niente somigliante Pietro Biondi) che va dai giudici a denunciare Craxi.

Il Corriere è creato ad hoc, con titolo diverso. Non è quello autentico. Mancini sembra il vecchio cattivo di una trama. Abbiamo potuto ricostruire la genesi del plot con il regista della serie, Giuseppe Gagliardi, calabrese di successo. “1992’ ha avuto fior di consulenti giornalisti, da Filippo Facci a Marco Damilano. Sulla base dei loro resoconti la parte creativa ha apportato svisate inventate. Il Mancini della fiction non è quello della Storia.

L’OMICIDIO AVERSA

La Calabria del 1992 era in attesa di un riscatto messianico. Come in tutta Italia il tintinnare delle manette ai politici era molto gradito. L’anno si era aperto con l’uccisione del sovrintendente di polizia a Lamezia, Salvatore Aversa, e della moglie, Lucia Precenzano. Poche settimane dopo la “svolta” sulle indagini con la supertestimone Rosetta Cerminara. Vicenda tristemente attuale che, in quel complicato periodo, farà nascere un professionismo dell’Antimafia molto praticato da sociologhe, giornalisti e maestri del nuovo pensiero che arriva ai giorni nostri.

LE INCHIESTE DI CORDOVA

A Palmi opera Agostino Cordova. Mette sottosopra la Piana a più alta densità mafiosa della regione. Torturando un sigaro avvia inchieste sull’Enel che si intrecciano con i grandi scandali nazionali, manda i carabinieri a sequestrare facsimile dei candidati nelle case dei picciotti, scova un conto protetto a Palmi che risponde al nome di una tedesca amica del Guardasigilli dell’epoca, Claudio Martelli. Persegue la massoneria deviata. Ma quei verdetti saranno in larga parte assolutori, le inchieste a volte non sono arrivate neanche in aula.

A COSENZA E CATANZARO

A Cosenza la magistratura è attendista. Ci sono piccoli sussulti. Un assessore socialista viene pescato con i gioielli in tasca dai carabinieri. Pietro Mancini lo mette fuori. Le grandi inchieste arriveranno qualche anno dopo. Ma la tangentopoli cosentina che vede alla sbarra il senatore Franco Covello finisce con una raffica di assoluzioni. Catanzaro registra schizzi di fango per Agazio Loiero a processo per i fondi neri del Sisde. Sarà prosciolto da ogni accusa nel 2000.

LA STAGIONE DEI SINDACI

Anche Lamezia sarà scossa dal terremoto italiano. Consiglio comunale sciolto per mafia, processo per l’ex sindaco socialista. Da quelle macerie spunterà un giudice, Doris Lo Moro, che diventerà sindaco. Sarà il fattore M. Quello dei municipi. Dal 1992 nasce l’onda lunga che crea nuove maggioranze nei comuni calabresi. Argiroffi a Taurianova, la destra che alza mani pulite nella Sibaritide a Corigliano e Rossano. Un’altra donna per la prima volta porta la sinistra al potere a Paola: si chiama Antonella Bruno Ganeri. Giacomo Mancini conquista Cosenza con liste civiche.

A Reggio, sulle rovine di una città a pezzi, avanzerà e diventerà progetto realizzato la città a misura d’uomo di Italo Falcomatà. Realtà di base costruiscono un nuovo municipalismo anche a Soverato. In quei mesi si accendono i primi fuochi di rivolta dell’Enichem. Poco dopo, Crotone, la Stalingrado del Sud, darà i suoi consensi alla destra.

QUELLO CHE RESTA

Dobbiamo registrare che Tangentopoli contribuì a migliorare le nostre città, ma non le aree interne. Gli anni Novanta vedranno un ritorno di molti laureati che dopo avere studiato fuori rivitalizzeranno la Calabria. Il ceto politico si rinnova, la magistratura sarà supplente contro il grande problema criminale. Il Porto di Gioia Tauro e le università diventano poli di sviluppo. Sono passati trent’anni da Mani Pulite. In Calabria quelle sporche prosperano ancora.

Il saggio del difensore. Chi è Davide Steccanella, l’avvocato degli “indifendibili” Battisti e Vallanzasca. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Febbraio 2022. 

Lui dice che «questo libro non è né un trattato sul processo penale né un manuale sul mestiere dell’avvocato…». Ma non è così, perché La giustizia degli uomini (Mimesis Edizioni, 18 euro) di Davide Steccanella dovrebbe proprio essere non solo letto, ma anche studiato. Dagli studenti di giurisprudenza, prima di altri. Sia che sognino di diventare dei Carnelutti, ma anche se si accontentassero del più modesto ruolo di un Di Pietro, visto che in questo febbraio 2022 siamo in clima di celebrazioni per il trentennale di un arresto, evento per il quale non si dovrebbe mai festeggiare. E questo dovrebbe essere il primo insegnamento, per gli studenti. Il secondo potrebbe riguardare il coraggio, quello di assistere “gli indifendibili”, come Cesare Battisti, il terrorista, e Renato Vallanzasca l’incontrollabile delinquente abituale.

Lui l’ha fatto, perché Davide Steccanella è un avvocato un po’ particolare. Prima di tutto perché non ritiene la propria professione una missione religiosa, e anche perché è diventato penalista un po’ per caso, benché figlio di avvocato. E si sa che le toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, generano altre toghe. Ma da lui abbiamo queste due garanzie di un rapporto “laico” con l’amministrazione della giustizia. Infatti il nostro autore è entrato per la prima volta nel sacrario del Palazzo di giustizia di Milano un po’ dalla porta di servizio, a ventiquattro anni, mentre era militare nel corpo dei carabinieri, cui all’epoca era affidato il servizio traduzioni dei detenuti dal carcere di San Vittore al tribunale. Così, negli anni in cui, pur avendo in tasca una laurea in giurisprudenza (quella che ti apre tutte le porte, come si diceva un tempo), non si è ancora ben deciso che cosa fare “da grandi”, il giovane Steccanella si ritrovò a guardare il processo con occhio neutro. Con stupore guarda il trattamento riservato ai detenuti. E li vede così: «Animali trascinati in catene da una gabbia all’altra nell’indifferenza generale, questo erano».

E le toghe? «…provavo un malcelato fastidio nel vedere quegli avvocati parlarsi addosso per ore davanti a tre signori, altrettanto agghindati che – seduti su una sorta di scranno reale con aria annoiata- il più delle volte neanche ascoltavano. Alla fine il signore seduto al centro – vecchissimo, ai miei occhi- leggeva il verdetto con tono solenne e dizione incomprensibile». Attenzione a vedere nelle impressioni di questo ragazzo qualcosa di superficiale, perché quello lì con la divisa da carabiniere aveva capito qualcosa di profondo, che il processo è violenza, e che tra le lungaggini e la noia delle toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, c’è un soggetto-vittima, un animale in catene. In un canile, aggiungerà anni dopo un detenuto tragicamente eccellente, Gabriele Cagliari.

Davide Steccanella, avvocato per caso, quel palazzo lo frequenta ancora da trentacinque anni. E mette la sua esperienza, il suo vissuto, a disposizione di chi voglia conoscere senza gli occhi dell’ideologia o dello schieramento di campo. Ricorda senza piaggeria due grandi avvocati milanesi, Corso Bovio e Ludovico Isolabella, suo primo e unico maestro. Dipinge come pubblici ministeri-tipo, due ancora famosi ancorché da poco pensionati, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Il primo, la cui indole era «ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere che non esistessero imputati innocenti, ma solo imputati che erano riusciti a farla franca». Uno che pareva appartenere a quella “cultura becera” che considerava gli avvocati come azzeccagarbugli, «furbastri dediti… a lucrare sul crimine impunito».

La seconda colpiva, racconta l’Autore, per «… quella devozione ai limiti del maniacale allo Stato». «La sua missione era catturare i mafiosi, cosa che fece sebbene non tutti lo fossero davvero, prendendosi qualche ingiusto anno di galera». Descrizioni perfette dei due, più efficaci di tanti commenti. Con una considerazione generale, alla fine del capitolo. «Una cosa sono i pubblici ministeri “militanti”, durissimi e in buona fede, sebbene sorretti da certezze tanto granitiche da diventare sordi a qualunque istanza della difesa; altra cosa sono quelli che semplicemente giocano sporco». Ecco. Ma fuori dagli schemi dei personaggi famosi, dei militanti e di coloro che giocano sporco, per capire come funzionava (e funziona) spesso nella quotidianità il processo, ricordiamo un episodio che riguardò un riconoscibile (pur se non citato con nome e cognome) ex assessore regionale democristiano della Regione Lombardia.

Arrestato due volte, la seconda costretto al digiuno per sollevare un po’ di attenzione sul suo caso. Precisiamo che fu poi assolto in ambedue i processi. Ma nel secondo, ricorda Steccanella che fu suo difensore con Isolabella, la pm aveva chiesto la condanna a cinque anni di carcere. E avendole fatto notare il difensore che gli parevano un po’ tanti per un semplice tentativo, la “sventurata” ammise di non essersene accorta e modificò la richiesta a un anno e quattro mesi. Così, con indifferenza, per lei gli anni erano solo numeri, non furto di vita di persone. La carriera politica dell’assessore era finita ( da tempo fa l’avvocato), non quella della pm, che divenne giudice di cassazione. Con quale imparzialità possiamo immaginare.

Ma erano poche, in quegli anni di Tangentopoli, le occasioni per il giovane avvocato, oggi sessantenne, di andare a difendere un innocente. La gran parte del tempo gli avvocati lo trascorrevano facendo gli “accompagnatori” di indagati disposti a tutto, alla delazione, al tradimento, pur di non andare in carcere. Il che non era proprio un bel mestiere, per chi doveva difendere. Facile, soprattutto. Sicuramente l’avvocato Steccanella ha tratto maggior soddisfazione, pur se i risultati non gli hanno dato il merito che gli sarebbe dovuto, nell’assistere “gli indifendibili”, Cesare Battisti e Renato Vallanzasca.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pecorella: «Le procure fecero politica e pianificarono il pogrom della prima Repubblica». Il professore e avvocato Gaetano Pecorella parla di Mani Pulite. «Tutti i partiti sono stati eliminati dalla scena politica, salvo il Pci». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

A trent’anni dallo scoppio di Tangentopoli, facciamo un bilancio con il professore e avvocato Gaetano Pecorella, già parlamentare di Forza Italia, presidente della commissione Giustizia e, ai tempi di Mani Pulite, numero uno dell’Unione Camere penali.

Come si può sintetizzare quella stagione?

È stato un periodo in cui tutti coloro che hanno partecipato a questo “pogrom”, a questa specie di grande “epurazione” hanno lasciato l’Italia in una situazione peggiore di come era prima di quel 17 febbraio 1992. La magistratura, accusando di reati che definiamo di creazione giuridica, come il finanziamento illecito ai partiti, ha colpito anche situazioni economiche floride e ha azzerato completamente un classe politica.

Si sono salvati in pochi.

Craxi nel suo discorso alla Camera nel 1993 ricordò che tutti i partiti “hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale”. Non dico che la politica non avesse delle cadute di stile, e che non ci fossero politici corrotti, come ci sono oggi. Il problema è che allora si costruì una campagna militare, andando a stanare solo determinati soggetti. La prova è che tutti i partiti sono stati eliminati dalla scena politica, salvo il Pci.

Possibile che il presunto fenomeno corruttivo non abbia riguardato neanche uno tra i dirigenti del Partito Comunista?

Le cose poi sono cambiate quando è arrivato il partito che ha deluso le aspettative di chi voleva l’Italia governata da quella sinistra: appena sulla scena politica entra Silvio Berlusconi tutta la magistratura milanese si concentra su di lui.

Quindi secondo lei con l’avvio di Mani Pulite la magistratura ha perseguito un disegno extra giudiziario?

La magistratura è diventata un vero soggetto politico. Il chiaro obiettivo era far andare al Governo quella parte politica a cui apparteneva quella magistratura. Tanto è vero che l’ex procuratore capo Gerardo D’ambrosio è stato poi eletto in Parlamento tra i Democratici di Sinistra. Il celebre “resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli non può essere applicato ai magistrati, ma ha senso solo nel corso di uno scontro politico. La magistratura, quindi, ha tradito il suo ruolo e ha cominciato a combattere con la classe politica. Basti pensare a quando Antonio Di Pietro andò in televisione a leggere un comunicato del pool di Mani Pulite contro il Decreto Biondi e poi la gente scese in piazza. Gli effetti del disegno politico della magistratura sono stati disastrosi per il Paese.

I protagonisti di quella stagione sostengono che non c’è stato abuso della custodia cautelare. E però si fece in modo che il gip fosse sempre lo stesso, Italo Ghitti. E Claudio Martelli in una intervista all’Agi ricordò quanto disse Borrelli, una cosa del tipo “non li incarceriamo per farli parlare, li scarceriamo quando hanno parlato”.

Ricordo un episodio che mi capitò di leggere negli atti di un processo. Antonio di Pietro chiede l’autorizzazione per arrestare un imprenditore. La risposta che ebbe da Ghitti fu: ‘ trova un altro argomento perché per questa ragione l’ho già arrestato una volta’. Si utilizzava l’arresto per ottenere una collaborazione, il carcere divenne una ‘ tortura dolce’, per ottenere elementi di prova, che sono sospetti di per sè, perché ottenuti per avere in cambio la libertà. Eppure, alla fine di tutto, la pena più alta comminata è stata quella a 5 anni e 6 mesi: un risultato modestissimo rispetto al grande prezzo che il nostro Paese ha pagato per quella iniziativa giudiziaria.

Quale fu invece il ruolo dell’avvocatura?

Anche la nostra categoria ha avuto dei torti. Già al tempo parlai di ‘ avvocato accompagnatore’: appena il proprio cliente chiamava in causa un altro soggetto, l’avvocato si affrettava ad informarlo per portarlo in Procura e farlo collaborare.

Possiamo dire che con Mani Pulite nascono o si aggravano alcune gravi patologie di cui attualmente soffre il nostro sistema giudiziario, a partire dal fenomeno della mediatizzazione del processo penale e del perverso intreccio tra stampa e magistratura?

La stampa ha svolto la sua funzione, ossia vendere copie di giornali. Ha fatto scandalismo, schierandosi con i magistrati, perché il Paese si è schierato con il pool. Se vogliamo la stampa ha svolto un ruolo di supporto alla magistratura. Era difficile poter pensare ad una stampa contraria alla linea della Procura, sarebbe stata una stampa isolata.

Oggi com’è il rapporto tra magistratura e politica?

Credo che a Milano sia cambiato molto il clima, in senso positivo. In generale la magistratura ha modificato il modo di fare politica: fa politica con i politici, condivide il potere politico. Questo è quello che ha spiegato Luca Palamara.

Lei prima ha citato D’Ambrosio, ma Di Pietro è persino diventato Ministro. La classe politica non dovrebbe fare mea culpa secondo lei?

Ancora oggi la politica risente del peso condizionante della magistratura. Lo si vede guardando alle recenti riforme. Faccio un esempio: la Commissione Lattanzi aveva proposto di reintrodurre l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado. Invece la Ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha fatto sua questa proposta, pur essendo Lattanzi un ex presidente della Corte Costituzionale. E poi basta poco per far saltare un Presidente del Consiglio: basta che un magistrato apra una indagine su di lui e quel politico è subito in grande difficoltà.

Da questo punto di vista possiamo dire, quindi, che anche l’invito all’astensione rivolto agli elettori da Forza Italia e da Silvio Berlusconi in occasione del referendum del Partito radicale e dell’Unione Camere Penali sulla separazione delle carriere del 2000 fu un grave errore?

Fu sicuramente un grave errore, determinato, credo, dal fatto che vi erano altri quesiti non condivisi da Forza Italia: diventava un po’ difficile, come messaggio, dire sì ad un quesito e no ad un altro.

Alla fine di tutto che bilancio possiamo fare di quella stagione?

Per quanto si potesse essere critici con i partiti di allora, adesso la classe politica non esiste più. Siamo costretti a chiamare dei tecnici per poter governare. Inoltre è sopravvissuta l’idea, che all’epoca ebbe grande peso, che collaborando si evita il carcere. Abbiamo un Paese che ha magistrati che si siedono allo stesso tavolo con i politici per decidere le nomine. Infine un grande errore commesso dalla politica è di aver eliminato nel 1993 l’unica forma di difesa contro la magistratura, ossia l’autorizzazione a procedere, fatta eccezione in caso di arresto.

Dagospia il 17 febbraio 2022. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”.

Paolo Brosio, tra gli inviati tv più celebri di Mani Pulite, di cui oggi ricorrono i 30 anni, ha raccontato a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, quei giorni così difficili per il nostro Paese. 

Si ricorda il giorno in cui tutto è iniziato? “Si, ero su un ghiacciaio austriaco a fare un servizio sulla mummia Ozzy che avevano appena ritrovato quando mi chiama il mio direttore di allora, Emilio Fede, che mi dice di tornare subito a Milano perché avevano arrestato Mario Chiesa. Così arrivo a Milano, in corso di Porta Vittoria. Dovevo rimanerci dieci giorni e ci rimasi quattro anni, più di 900 giorni”.

Come nacque l'idea del collegamento davanti al Tribunale con i tram che passavano? “La Rai poteva stare vicino alla scalinata principale, mentre noi potevamo stare vicino al chiosco e l'edicola. Io ci sono stato talmente tanto tempo che avevo fatto una buca. Ci sono stato talmente a lungo, anche d'estate, con 40 gradi, che alla fine il cemento aveva l'impronta delle mie scarpe. E i tramvieri, quando passavano, mi chiedevano 'chi hanno arrestato'?”. 

Con chi andava più d'accordo nel pool di Mani Pulite? “Sono sempre andato d'accordo tutti. Salvo una volta”. Quale? “Avevamo scoperto che nella toilette dei magistrati c'era una parete più sottile - ha raccontato a Un Giorno da Pecora Brosio - io ero lì col bicchiere e ascoltavo. Una volta arriva Borelli e mi becca...”

E cosa le dice? “Brosio che fai li!” Quali altri aneddoti ricorda di quel periodo? “Una volta stavo per andare in onda, avevo su un'agendina tutti i nomi e i dati degli avvisi e degli arresti imminenti e Di Pietro passa e me lo prende”. E' riuscito a recuperarlo? “Sono partito come un treno per rincorrerlo, e alla fine me lo ha tirato. Sono riuscito ad andare in onda all'ultimo secondo...” 

ANDREA PAMPARANA. Dagospia il 17 febbraio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, in questi giorni assistiamo in tv, sui giornali, in radio, alle celebrazioni per il trentennale di Mani pulite. Come sai fui inviato del Tg5 per ben cinque anni nella trincea della cosiddetta Tangentopoli. Fu vera gloria? No. Martedì 2 ottobre 2012 venne arrestato, a Roma, l'ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, Franco Fiorito.

Era accusato di essersi appropriato di 1.300.000 euro dai fondi destinati al gruppo consigliare. Grande scandalo, indignazione, “ecco, vedi a vent'anni da Mani pulite la Casta, la maledetta Casta, non ha imparato nulla, sono tutti uguali, per fortuna noi cittadini onesti che paghiamo le tasse siamo diversi e prima o poi li puniremo”. In realtà, non pochi tra quegli indignati cittadini, le tasse non le pagano affatto.

Nel 1992 e 1993, spesso, soprattutto alla sera nei collegamenti del Tg5 in diretta dal Palazzo di Giustizia, ero circondato da una folla inferocita e berciante che ci insultava, lanciava monetine, inneggiando a Di Pietro, “forza Tonino, Borrelli sei tutti noi, resistere, resistere, resistere!”. Facevo il mio lavoro sovrastando quella massa di pseudo rivoluzionari, molti, anzi molte delle quali scendevano dai loro borghesi appartamenti del centro di Milano, a due passi dal Duomo, con tanto di pellicce di visone, borse firmate, accessori di lusso.

Noi servi del padrone, Berlusconi, amico di Craxi, il Cinghialone, i potenti alla gogna nella stanza del loro eroe, Tonino, il contadino che si fece re, loro, i cittadini, gli onesti che finalmente trovavano giustizia. Ma non era affatto così.

Nella prossimità del Natale del 2012, pochi mesi dopo l’arresto del citato Fiorito, quando Roma si trasforma in una cloaca di auto, la più piccola di solito un Suv da 50.000 euro, ero in taxi in piena in piazza Venezia, completamente bloccato da auto e camioncini parcheggiati in terza fila davanti al vecchio palazzo col famoso balcone, sotto lo sguardo indifferente di vigili urbani il cui unico pensiero era, lo si poteva capire dai loro sguardi, “tanto tra poco mi finisce il turno”. 

In quel momento di caos calmo, perché s’era fermi da qualche minuto, il vecchio tassinaro guardandomi dallo specchietto mi disse: “Diretto’, vede? Qui sono tutti Fiorito!” Vecchia saggezza popolare romana. O se vogliamo da Gattopardi: “Cambiare tutto affinché nulla cambi”. Questa è l’Italia, questi siamo noi. Andrea Pamparana

TANGENTOPOLI a cura di GLUCK per Dagospia il 17 febbraio 2022.  

Nelle settimane della merla e della scalata al Quirinale con il bis di Mattarella già evocato alla prima della Scala è calata pure la nebbia a offuscare per giorni la Milano scintillante raccontata dalle gazzette locali. Una città del tutto insensibile alle vicende politiche romane, ma intenta ad autocelebrarsi trent’anni dopo l’avvio di Tangentopoli. 

Tra rimorsi e rimozioni dei cronisti giudiziari al servizio dei Poteri marci che possedevano e controllavano il sistema dei media. Tant’è, che nei primi due anni della mattanza manettara non furono mai sfiorati dal pool di Mani pulite che incoraggiavano il loro lavoro: dalla Fiat di Cesare Romiti alla Fininvest di Silvio Berlusconi, che ben presto saranno costretti a portare anche loro la croce giudiziaria degli inquisiti nel malaffare e non quella dei concussi come sostenevano (a torto).

MANI PULITE, PENNE SPORCHE

Alla libreria “Arcadia” a due passi del palazzo di Giustizia, l’avvocato di lungo corso è un fiume in piena: “Sa cosa pensava dei giornalisti un premier inglese? La stampa pretende quello che pretendono le prostitute: potere senza responsabilità. Sa come si dice nella mia Sicilia? Cu’ s’ammuccia soccu fa, è signu chi mali fa… vale a dire, chi nasconde quel che sa ha qualcosa da nascondere”. 

E ancora: “Nella stampa dalla memoria curta non troverete una riga sul ruolo avuto anche dai corruttori in Mani pulite, ma solo dei corrotti. Parlo delle grandi imprese…alla Fiat il dottor Romiti confezionava pacchi di mazzette con la carta dei giornali… Così, una volta superata la sbornia giudiziaria qualcuno l’ha forse dimenticato? al momento di risolvere Tangentopoli che l’investiva - a Torino non a Milano con buona pace del pool -, a Cernobbio i padroni del vapore evocarono un condono salvifico, ma il compianto professor Guido Rossi fu lapidario (e inascoltato) nel bocciarlo: “Non è Tangentopoli a creare il falso in bilancio, sono i bilanci falsi a creare Tangentopoli”. 

LA FAVOLA DELLA SOCIETA’ CIVILE

Poi aggiunge: “Per salvare i corruttori, tali erano i grandi imprenditori che hanno sempre pagato i partiti, all’arresto del manager Fiat, Enzo Papi, il loro penalista di fiducia, Vittorio  Chiusano, sostenne che le società per azioni non erano enti pubblici, ergo tutti i reati di concussione e corruzione dovevano essere cancellati… Ma la stampa strabica nel ricucire la tela del malaffare pubblico e privato continua a guardare solo dalla parte degli eroi di Mani pulite”.    

Mette ordine nel passato (che non passa) nel suo ultimo lavoro la storica Simona Colarizi (“Passatopresente, Laterza): “Stampa e televisione avevano costruito e alimentato la favola di una società civile e sana, dominata per quasi mezzo secolo da partiti corrotti (…) un mito devastante che avrebbe contribuito a distruggere il sistema dei partiti della prima Repubblica”. 

Parla il portavoce della Dc al tempo di Mani pulite. Il dramma di Enzo Carra: “Mostrato in manette per dare un segnale di sottomissione alla politica ma ero innocente”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Trent’anni dall’inizio di Mani Pulite. E poco meno da quando il terremoto giudiziario arrivò a Roma, travolgendo – con il colpo di cannone della maxi tangente Eni Montedison – anche il cuore della politica. Enzo Carra ne fu, suo malgrado, protagonista. Era il portavoce della Dc. Un professionista che di tangenti non ne aveva mai viste. Ma che fu prescelto dal pool della Procura di Milano per farne una vittima sacrificale sull’altare dei simboli. Era pur sempre il portavoce del partito che teneva le relazioni tra il mondo dei media e il partitone del potere, “non poteva non sapere”. Andava colpito, quasi per educarne cento.

All’epoca era il portavoce della Dc, come ci arrivò?

Ero giornalista da quando avevo 22 anni. La mia passione all’inizio era il cinema, la critica cinematografica. Fondai un giornale, Il Dramma.

Un nome profetico…

Sì, quello fu un dramma vero. Non solo mio, collettivo.

Torniamo a quando diventa giornalista politico.

Avevo ridato fiato alle pagine di politica del quotidiano Il Tempo, a Roma. Avevo reinventato la nota politica, rinnovando il modo di informare i lettori. A un certo punto Forlani, nel 1989, mi chiese di diventare portavoce della Dc, accettai. Era un momento vibrante, che sentivo carico di sfide.

Nell’ 89 cambiava il mondo.

E però molti tardavano ad accorgersene. Come pure fu per Tangentopoli. La politica era gerontocratica, non percepiva velocemente i cambiamenti in arrivo.

Come fu l’arrivo di Tangentopoli, con l’arresto di Mario Chiesa?

Nessuno fece caso. Sembravano questioni milanesi, secondarie. L’atteggiamento era “‘a da passà ‘a nottata”. Una sottovalutazione generale. E invece fu l’inizio di un passaggio da un’epoca a un’altra.

Viene in mente Gramsci: il vecchio tramonta ma il nuovo stenta a nascere.

E guardi che siamo ancora in quel guado. Tangentopoli fu l’abbattimento di una classe dirigente, senza un progetto vero di sostituzione. Uno sconquasso che ha creato il vuoto della politica che si vede anche oggi.

Veniamo a lei. Lambito dalle indagini sulla supposizione del “non poteva non sapere”. Scoppia lo scandalo della maxi tangente Eni Montedison e Di Pietro chiama a testimoniare tanti. Tra cui anche lei.

Esatto. Vado a Milano, Di Pietro mi interroga. Gli spiego che non so quasi nulla, tranne quel che leggo dai giornali. Il mio era un ruolo tecnico, da comunicatore. Mi dice: “Ma sa, andando al bagno in quei palazzi del potere uno le cose le viene a sapere”.

Lei non frequentava i bagni giusti, Carra. E come costruiscono l’imputazione su di lei?

Mi dà appuntamento al venerdì, tre giorni dopo. “Perché dobbiamo fare dei riscontri”. Al mio ritorno, venerdì, mi trovo davanti a una sceneggiatura, per quanto fantasiosa, già scritta. Un tipo mai visto, un faccendiere che doveva uscire di prigione, gli avrebbe detto di essersi riunito con me a Roma. E io gli avrei parlato della maxi tangente. Io lo guardo negli occhi, gli chiedo in quali circostanze. Quello farfuglia: nel suo ufficio a Roma, c’erano diverse segretarie… e alla fine della frase si mette a piangere. Doveva recitare la parte per uscire di galera, lo compatisco. Di Pietro sorride e mi stampa addosso l’accusa di aver mentito al Pm. Mi difendo ma non mi dà retta. Aveva bisogno di imputati freschi, e io che ero il portavoce del segretario Forlani ero succulento, per lui.

Poi come accadde che la fece comparire ammanettato con gli “schiavoni”?

Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi. Dovevo comparire davanti al ‘muro’ delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido.

Quell’immagine suscitò per fortuna anche un sussulto di risposta, un minimo di sdegno.

E fu per il pool di Mani Pulite un segnale. Non potevano affondare le persone e umiliarle senza fine. Tornato in cella, vidi alla tv diverse dichiarazioni di tutti gli schieramenti che chiedevano più rispetto.

Un anno e quattro mesi, la condanna. Per “non aver sentito niente, andando al bagno”. Li ha perdonati?

Non ho né il potere del perdono, né la voglia di vendetta. Ciascuno di loro, del pool, ha dovuto rivedere le sue posizioni. Io no, non ho mai avuto niente di cui pentirmi. I bilanci, sa, si fanno alla fine.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Giustizia, l'ex assessore: "Vi racconto il tritacarne in cui sono finito". Francesco Boezi il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex assessore ai Giovani del comune di Genova racconta, attraverso un libro, quanto subito a causa dei rapporti tra certo giornalismo e certe magistrature. 

L'ex assessore al comune di Genova Massimiliano Morettini non è guarito da quella che definisce una "malattia", ossia la passione politica, ma certo la vicenda che stiamo per racconatare non ha coadiuvato una vocazione per l'amministrazione della cosa pubblica. E non ha abbattuto neppure la fiducia nella Giustizia.

Siamo nel 2008 e, nel capoluogo ligure, scoppia uno scandalo che le cronache ribattezzano "Mensopoli". Morettini, che in seguito verrà scagionato del tutto, viene sottoposto ad indagini, mentre il contenuto di parecchie intercettazione finisce sulla cronaca locale.

Questa è una storia che riguarda tanto i rapporti tra politica e giustizia quanto quelli tra certo giornalismo e certe magistrature. La vicenda che ha colpito Morettini viene raccontata oggi attraverso le pagine di "Quella volta che sono morto", un'opera edita da Erga Edizioni in cui il protagonista rammenta, in prima persona, i sei giorni in cui ha avuto paura d'inciampare in qualcosa che non aveva neppure sfiorato. Prima di addentrarci nelle particolarità di quello che assomiglia ad un caso paradigmatico di questi tempi, conviene evidenziare un dettaglio: l'ex assessore non è stato soltanto un esponente del centrosinistra ligure ma anche uno dei promotori del Genoa Social Forum al G8 di Genova.

"Rispetto della legalità e giustizialismo non sono affatto la stessa cose - premette l'ex amministratore, ascoltato in merito alle sue vicissitudini da IlGiornale.it - . Ma è vero purtroppo che nel corso di questi ultimi anni una parte della sinistra ha confuso rispetto della legalità e giustizialismo, abbandonando il suo alveo naturale che sarebbe quello del garantismo".

Morettini non ha difficoltà a ricordare le fasi clou delle perquisizioni: "Un giorno si presenta la Guardia di Finanza. Avevo in mano soltanto un foglio in cui si diceva che avessi avuto rapporti corruttivi con un imprenditore. Poi passa una settimana in cui continuo a non ricevere notizie dalla Procura. Scarico dal sito del Secolo XIX l'intera ordinanza del Gip che motivava le indagini in corso. La scarico io e la scaricano migliaia di persone. E in quell'ordinanza c'era un anno e mezzo di intercettazioni ambientali".

Gran parte dei passaggi che hanno riguardato Morettini e le tangenti che non ha mai preso sono stati ripercorsi su Radio Leopolda, nel podcast (In)Giustizia che è curato dall'opinionista Benedetta Frucci.

Al Giornale.it, Morettini aggiunge quanto segue: "I media avevano stralci delle ordinanze. E quindi in quei giorni fecero grandi titoli sui miei presunti affari". Il sistema dell'informazione diviene così il detonatore di una narrativa: "In quel modo, si decide di consegnare ai lettori delle pagine dei giornali la possibilità di costruirsi un'opinione sommaria sulle vicende giudiziarie in corso. Come se si sottraesse alla magistratura la facoltà di andare avanti nelle indagini". Morettini definisce tutto ciò "l'inizio della cultura giustizialista". La fuoriuscita di atti giudiziari è dunque il principio di una cultura complessiva che può investire le esistenze.

L'ex assessore sottolinea come la condanna preventiva dei media distrugga la reputazione. Morettini, a questo punto della storia, dà le dimissioni. E si ritrova senza reddito, con un figlio piccolo, e con tutto quello che può comportare in termini pubblici il sospetto che avesse avuto a che fare con soldi destinati alle mense scolastiche dei bambini. "Io ce l'ho fatta. Mi sono rimesso in piedi. Ben quattordici mesi dopo, il Pm ha detto che il fatto non sussisteva. Ho raccontato questa storia perché mi interessava far sentire qual è lo stato d'animo di una persona innocente che si trova in quel tritacarne".

L'ex amministratore genovese ci tiene a chiosare sul taglio che ha voluto dare all'opera: "Il libro è un racconto personale e non è un libro bianco sulle ingiustizie. Ho cercato di essere equilibrato".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Spunti inattuali su Mani pulite: fra guardie e ladri si deve stare col diritto. Massimo Adinolfi il 20 Febbraio 2022 su huffingtonpost.it.  

Storia di Egisto e Oreste, ovvero l'abietta commedia della colpa. Hegel, il prof. Racinaro e la micidiale saldatura fra morale e terrore. Evidenza di una terza via. 

"Per un uomo morto, ventimila altri uomini immersi nel pentimento, ecco il bilancio". Si tratta ora di valutarlo, e Giove – perché è Giove che parla – non ha molti dubbi: non ha fatto un cattivo affare, perché ad Argo, dove il delitto si è consumato, dove Egisto ha ucciso il re Agamennone ed è divenuto il padrone della città, si è costruito nel rimorso, nel continuo rimuginamento del passato, nell’abietta commedia della colpa, il legame sociale che mette al riparo la città da ogni velleità di giustizia, di rivoluzione, di libertà. 

30 anni di Mani Pulite, Davigo: “Toghe rosse? Accuse stravaganti. In tutto il mondo la destra vuole legge e ordine, in Italia l’impunità”. Il Fatto Quotidiano il 19 febbraio 2022.

A 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite, che a partire dal 1992 ha tolto il velo dal sistema corruttivo su cui si era basata la politica degli anni precedenti, due dei protagonisti di quella stagione, gli ex magistrati Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, hanno ricordato le fasi salienti dell’inchiesta dialogando con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, che seguirono e raccontarono quelle vicende da cronisti. Una delle accuse che da sempre è stata rivolta al pool è stata quella di aver, per certi versi, risparmiato l’ex Partito Comunista (poi Pds) dall’ondata di arresti che ha, invece travolto altri partiti storici, come il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana.

“La sensazione che avevo io – racconta Davigo – è che mentre le imprese normali finanziavano i partiti della maggioranza, le cooperative cosiddette rosse finanziavano il Pci. Dare soldi ai partiti non è vietato, è vietato farlo di nascosto e le cooperative iscrivevano a bilancio i soldi che davano al partito, perlomeno una parte, quindi non c’era una pista immediatamente illegale da seguire”. E, continua :”Però in alcuni casi è accaduto, per esempio dalle dichiarazioni di Sama risulta che un miliardo di lire era stato destinato ai vertici dell’allora Pci e fu portata a Botteghe Oscure da Gardini e Cusani. Gardini si è suicidato, Cusani non ha mai parlato, cosa potevamo fare? Torturare Cusani? Lo stesso per quanto riguarda Greganti. Greganti ha preso una somma dello stesso ammontare di altre somme, ma anche i decimali, che erano destinate ad altri partiti. Quindi era verosimilmente una tangente. Però dalle indagini che sono state fatte è risultato che questo si era comprato la casa… e non ha mai parlato. Certo, è stato in carcere, è stato condannato ma non ha detto una parola”.

Poi conclude il racconto con una nota di ironia: “Comunque ci venivano rivolte delle accuse a volte davvero stravaganti. Sono stato accusato di aver voluto favorire Partito Comunista perché avendo fatto fare una perquisizione Botteghe Oscure anziché farla fare alla Guardia di Finanza l’avrei fatto fare ai carabinieri. Ora, pensare che i carabinieri abbiano simpatie comuniste… anche perché non si trattava di fare un’analisi di documenti, ma di vedere cosa ci poteva essere prenderlo. Detto questo, l’idea che ci possa essere una strategia politica è un’idea talmente cretina… che non riesco a prenderla sul serio. Faccio solo due considerazioni di ordine politico: in tutto il mondo la destra vuole legge e ordine solo in Italia la destra vuole l’impunità… Io ho fatto il servizio militare come ufficiale, ho fatto anche il richiamo alle armi ed era l’epoca della guerra fredda: non diventavi ufficiale se eri di sinistra…”

Mani pulite. La vera storia. di Gianni Barbacetto (Autore), Peter Gomez (Autore), Marco Travaglio (Autore), Chiarelettere, 2012

"Mani pulite, vent'anni dopo". Altro che storia passata, questo libro racconta l'Italia dell'illegalità permanente. Un documento storico che rimarrà per sempre sul tradimento della politica. La cronaca di fatti e misfatti parte da Milano, 17 febbraio 1992, arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: il primo tangentomane che fa tremare l'impero, a due mesi dalle elezioni. Saranno elezioni terremoto, quelle del 1992, stravinte dal partito degli astenuti (17,4 per cento) e dalla Lega nord. Intanto la Prima Repubblica va in galera ed è ancora solo superficie. Falcone e Borsellino trucidati a Palermo (e nel 2012 molti processi ancora aperti sulle stragi). Un anno dopo la corruzione è ormai un fatto nazionale, nessun partito escluso (70 procure al lavoro, 12.000 persone coinvolte per fatti di tangenti, circa 5000 arresti). "L'Italia sta risorgendo", saluta così l'anno nuovo il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Peccato che sia il 1994, l'anno di Silvio Berlusconi e dell'inizio della restaurazione. Scatta l'operazione Salvaladri, con gli imputati che mettono sotto accusa i magistrati. È il mondo alla rovescia e gli italiani assistono allo spettacolo. Alcuni protestano, molti si abituano e finiscono per crederci. Poi gli anni dell'Ulivo, della Bicamerale e dell'inciucio centro-destra-centrosinistra, che produce una miriade di leggi contro la giustizia. Prefazione di Piercamillo Davigo.

“Mani Pulite, la vera storia”, il racconto più completo sulla tempesta politica e giudiziaria: in edicola e in libreria. L’anticipazione di Travaglio . Il Fatto Quotidiano il 16 febbraio 2022.

Cosa resta oggi di Mani Pulite? Secondo la vulgata dominante, nulla, perché la corruzione da allora è continuata, forse addirittura aumentata. Ma un’indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo: altrimenti tutte sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi.

Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 2002 e ora riproposto in una nuova edizione aggiornata e ampliata, è il racconto più completo di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia: per il numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, patteggiamento, prescrizione e persino assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto o condono per i più svariati cavilli.

In questi trent’anni, c’è chi ha provato a raccontare Mani pulite come un’operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell’altra. Ma le campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica, sebbene abbiano fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario.

È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma ciò non è dipeso però dalle indagini delle procure, bensì dalle leggi fatte prima, durante e dopo per assicurare l’impunità ai criminali. Leggi che fanno del nostro Paese l’inferno delle vittime e il paradiso dei delinquenti. Infatti ancora oggi le Italie sono due: quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta, e quella che lo spera con tutto il cuore.

Il libro, un’opera unica di quasi 1000 pagine, edita da Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano, sarà in vendita da giovedì 17 febbraio in tutte le edicole a 15 euro + il prezzo del giornale

Il racconto di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia – Per chi non c'era, per chi ha dimenticato, per chi continua a rubare e a mentire. Mani Pulite – Di G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio. Da ladigetto.it il 20/02/2022

Titolo: Mani pulite. La vera storia

Autori: Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio 

Prefazione: Piercamillo Davigo

Editore: Chiarelettere, 2022 

Pagine: 912, Brossura

Prezzo di copertina: € 18 

Descrizione: Cosa resta oggi di Mani pulite? Secondo la vulgata dominante, nulla, perché la corruzione da allora è continuata, forse addirittura aumentata.

Ma un'indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo, altrimenti tutte sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi.

Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 2002 e ora riproposto in una nuova edizione, è il racconto più completo di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia: per il numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, patteggiamento, prescrizione e persino assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto o condono per i più svariati cavilli. 

In questi trent'anni, c'è chi ha provato a raccontare Mani pulite come un'operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell'altra.

Ma le campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica, sebbene abbiano fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario. 

È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma ciò non è dipeso dalle indagini delle Procure bensì dalle leggi fatte prima, durante e dopo per assicurare l’impunità ai tangentisti.

Leggi che fanno dell’Italia il paradiso dei delinquenti e l’inferno delle vittime.

Infatti ancora oggi le Italie sono due: quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta e quella che lo spera con tutto il cuore.

Ecco la sciocchezzona di Travaglio su Mani Pulite. Gianfranco Polillo su startmag.it il 20 Febbraio 2022.

Perché apprezzo poco, anzi nulla, del libro “Mani Pulite” di Marco Travaglio. Il commento di Gianfranco Polillo.

Se fossimo ai tempi di “Quaderni piacentini”, paludata rivista della sinistra snob, l’ultimo libro di Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto (ordine invertito per tener conto della caratura dei singoli coautori) “Mani pulite” sarebbe stato collocato tra quelli da “non leggere”. Noi siamo più tolleranti e non arriviamo a tanto. Per chi ama leggere una sorta di mattinale, troverà in quel migliaio di pagine (per l’esattezza 912) una miriade di notizie e la descrizione di altrettanti episodi descritti con la lente dell’inquisitore.

Vi troverà anche lontane reminiscenze. Quel lungo saggio degli stessi autori (allora era di 712 pagine), edito venti anni fa ed ora ripubblicato, con qualche aggiunta, per ricordare quel lontano giorno di 30 anni fa – era il 17 febbraio del 1992 – quando Mario Chiesa, il “mariuolo”, secondo la definizione di Bettino Craxi, fu preso con le mani del sacco. Dando origine a quella grande mattanza che sarà poi “mani pulite”. C’è quindi da aspettarci un futuro aggiornamento – non sapremo se fra cinque o dieci anni – per celebrare nuovamente la ricorrenza.

Qualcuno potrà sospettare in questa insistenza una sorta di ossessione. La verità è più prosaica. Quella di Travaglio & Co è un’attività che rende. Continua a solleticare una parte – si spera sempre minore – di opinione pubblica, che ovviamente, nel grande mercato della comunicazione, si dimostra sensibile a quei prodotti. Probabilmente quest’attività non li porterà ai vertici del potere, ma, come cantava Edoardo Bennato, si può anche vivere di sole “canzonette”. Che, tuttavia, per funzionare devono rispondere ad un minimo di canoni estetici.

Il nuovo/vecchio testo supera la prova del budino? I dubbi sono tanti e numerosi. Nell’immaginario di Travaglio l’epopea di “mani pulite” rappresenta il “capitolo più luminoso” della storia italiana degli ultimi trent’anni. Difficile capire su quali basi si fondi questo giudizio: sul coinvolgimento forse di oltre 3.800 persone in vicende di malaffare? Dovrebbe essere considerata una storia triste, altro che luminosa, considerato da quanto tempo essa durava. La vicenda del Pio Albergo Trivulzio fu solo la punta dell’iceberg, la cui piattaforma sommersa aveva caratterizzato l’intera storia del dopoguerra italiana.

Da un lato “l’oro di Mosca” dall’altro i finanziamenti americani. Su un fronte le donazioni delle grandi imprese a favore soprattutto dei partiti governativi, sull’altro l’azione delle cooperative rosse verso le opposizioni di sinistra. In entrambi i casi finanziamenti illegali, ma tollerati in quanto esso stessi figli di una guerra che si combatteva nella dura contrapposizione tra l’Occidente e l’Impero del male. Soldi che servivano per mantenere le “truppe”. Quei milioni di militanti destinati, da entrambi le parti, a mantenere viva l’impossibilità che si potesse pervenire ad una qualche vittoria degli uni sugli altri.

C’era qualcuno che si arricchiva? Certo che c’era. Ma tollerarlo era inevitabile se si voleva far funzionare il sistema nel suo complesso. “Mani pulite” hanno solo scoperchiato questo gigantesco verminaio. Noto da tempo, ma tollerato nel nome di un’esigenza superiore. Evitare al Paese guai peggiori, come quelli che potevano derivare da un suo repentino cambiamento di fronte, seppure determinato dai risultati di libere elezioni. Chi, come nella Grecia dell’immediato dopoguerra, non aveva tenuto conto del vincolo internazionale aveva pagato duramente quell’atto d’orgoglio.

Ed ecco allora svelato il mistero dell’improvvisa presa di coscienza nazionale. Il momento della verità non fu il 1992, ma il 1989 con la caduta del muro di Berlino e la “fine della storia”, come si azzardò a dire qualcuno. Non di quella universale, ma di quella del ‘900 con le sue enormi contraddizioni. Un’Italia, finalmente liberata, poteva fare i conti con se stessa, e porre fine ad un sistema che, nel frattempo, era degenerato.

Travaglio & Co pensano invece che quella svolta fu determinata dalla dimensione della corruzione, che aveva svuotato le casse dello Stato. Con il dovuto rispetto: una sonora sciocchezza, senza nulla togliere alla dimensione effettiva dei fenomeni corruttivi. Ma nella logica dei grandi numeri, che descrivono gli equilibri macroeconomici di un Paese, sono altri i fenomeni che portano alla crisi. E dal 1992 in poi fu soprattutto la riunificazione tedesca a mettere in crisi il Sistema monetario europeo, espellendo i Paesi più fragili: la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda.

E chi volle resistere, come la Svezia fu costretta ad elevare al 500 per cento i tassi d’interesse a breve. Furono questi avvenimenti, del tutto indipendenti dalla corruzione, a determinare in Italia quella reazione popolare che consentì al pool di Milano di portare avanti il lavoro, vincendo quelle resistenze che, in passato, avevano (dalla P2 ai fondi neri dell’Iri) tutto insabbiato.

Di tutto ciò non esiste traccia nel poderoso tomo dei nostri eroi. Siamo portati a conoscere i particolari più insignificanti della quotidianità. Ma nessun accenno a quei fondamentali in grado di condizionarne il relativo sviluppo. Compito degli analisti e degli storici: si dirà. Non dei cronisti. Ma allora che serve sorbirsi quasi mille pagine, se non è chiaro il senso della storia raccontata?

30 ANNI DI TANGENTOPOLI.  Il mito di un “golpe” che manca di onestà verso la storia. Antonio Pagliano su il  sussidiario.net il 20 febbraio 2022.

Sotto il profilo tecnico, i numeri di Mani pulite non mentono. E lo scontro tra politica e magistratura deve essere vista sotto un’altra luce

Sono passati 30 anni da quando l’arresto di Mario Chiesa segnò l’inizio di “Tangentopoli”. Era il 17 febbraio 1992 e l’anniversario di quell’evento ha animato un vivace dibattito sul bilancio di quella stagione che senza alcun dubbio ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana.

Nella prospettiva meramente tecnico-giuridica, i numeri parlano da soli e danno l’evidenza del fenomeno. In riferimento al solo tribunale di Milano, l’inchiesta denominata “Mani pulite” ha prodotto circa 3.200 richieste di rinvio a giudizio da cui sono scaturite 269 proscioglimenti, 1.254 condanne e 161 assoluzioni nel merito. Numeri che non parlano di un fenomeno patologico. Non può quindi certo affermarsi, come pure invece tutt’ora si è detto da parte di alcuni, che quell’inchiesta sia stata una specie di invenzione finalizzata a realizzare una sorta di colpo di Stato. La corruzione c’era ed era particolarmente diffusa.

Si è inoltre molto discusso dell’abuso della custodia cautelare da parte dei pubblici ministeri che quella stagione animarono. Per un verso, va ricordato che nessun provvedimento cautelare di quell’epoca ha conosciuto annullamenti o particolari bocciature nei diversi gradi di giudizio successivi. È allora più corretto riconoscere come quei pubblici ministeri riuscirono a dare alle norme cautelari un’incisiva ma non illecita applicazione che consentì il sistematico arresto di personaggi politici e grandi funzionari che, certamente, mai prima avrebbero immaginato di poter essere posti in manette.

Da questo punto di vista fu davvero una rivoluzione. Sul punto va sottolineato un interessantissimo passaggio di una bella intervista rilasciata da Gherardo Colombo al Corriere della Sera di qualche giorno fa in cui l’ex magistrato ricorda, per averlo vissuto in prima persona, come sino a quel momento ogni tentativo di avviare analoghe attività di indagine era miseramente naufragato in quello che veniva considerato “il porto delle nebbie”.

Ricorda infatti Colombo come fino a quel momento storico accadeva che si avviassero indagini, che si trovassero prove, ma poi arrivava la Cassazione, su sollecitazione della procura di Roma le indagini trasmigravano e tutto finiva sostanzialmente nel nulla. Il rapporto fra politica e magistratura era evidentemente stato fino a quel momento improntato a una certa attenzione a che il manovratore non venisse disturbato. Poi quella sorta di rispetto salta. La magistratura, che sin lì si era preoccupata di seguire gli “inviti” della politica per cambiare la sorte delle inchieste, complice anche la caduta del muro di Berlino, decide che è arrivata l’ora di percorrere altre strade.

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Questo aspetto, assai poco ricordato, ha invece un’estrema rilevanza per una obiettiva ricostruzione di quella stagione giudiziaria, rappresentando in modo cristallino quell’inversione del rapporto di forze fra politica e magistratura che, se per un verso a distanza di anni ancora anima la vita della nostra Repubblica, per altro verso rende comprensibile lo stato d’animo di frustrazione vissuto sino a quel momento da alcuni magistrati che poi, all’improvviso, hanno trovato il modo di rifarsi.

Se è quindi difficile parlare di abusi sul piano tecnico, non c’è dubbio che il vero problema era e resta la stabilizzazione di quel rapporto che da quegli anni in poi ha vissuto l’eccesso opposto, producendo la famigerata supplenza che, per esempio, spinse quei pubblici ministeri milanesi a ribellarsi pubblicamente contro il governo per l’approvazione di un decreto che riscriveva le norme sui criteri di applicazione delle misure cautelari.

A distanza di trent’anni paghiamo ancora quello scotto. Tuttavia, lo ripetiamo, “Mani pulite” non fu una rivoluzione. Da un punto di vista politico, la fine della prima Repubblica era già scritta nei conti dello Stato prima ancora che nelle sentenze. Nel 1970, anno in cui si attua il decentramento amministrativo, il rapporto debito/Pil era al 37,1%; appena due anni dopo, completato il trasferimento di alcune funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, il suddetto rapporto balzò al 47,7%; alla fine del governo Spadolini, nel 1983, il rapporto era al 70%, per spiccare il volo fino al 92% con il successivo governo Craxi. Nel 1992, infine, il deficit del bilancio dello Stato aveva raggiunto la cifra monstre di 150mila miliardi con un rapporto debito/Pil del 118% da cui derivò, l’11 settembre 1992, l’abbandono dell’Italia al suo destino da parte della Germania. Poco dopo la caduta del Muro, agli albori degli anni 90, l’Italia fu quindi costretta a una prima storica stretta del bilancio pubblico e così il sistema economico del paese, imperniato sulle tangenti, implose.

Gli imprenditori iniziarono a parlare con i pubblici ministeri non perché sottoposti a torture, ma semplicemente perché fino a quel momento erano riusciti a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, mentre da lì in poi, improvvisamente, non poterono più farlo, erodendosi così fatalmente i loro margini; ciò li indusse a sentirsi concussi e non più complici della corruttela diffusa.

Tutto questo la politica di allora non ebbe la lucidità di comprenderlo. Nel drammatico discorso pronunciato da Craxi in parlamento nel luglio del 1992, non c’è traccia della formulazione di una proposta che partendo dalla reale consapevolezza del fenomeno, ipotizzi la strada per venirne fuori. Da qui la radicalizzazione dello scontro fra i due poteri che la successiva stagione di Berlusconi porterà all’apoteosi. Mentre Craxi in Parlamento si limitava, con quell’intenso discorso, a operare la chiamata in correità dell’intero sistema, pensando così di risolvere la questione, dall’altra parte iniziava a costituirsi il “partito” dei giudici, che se rendeva plausibile la ribellione alla volontà del Parlamento, ancor di più escludeva qualsiasi possibilità di riconoscimento della legittimità altrui. Un corto circuito alimentato dalla spinta popolare e dallo slancio dei media.

Se quindi la stagione di “Mani pulite” ha fatto tabula rasa di un sistema politico marcio, la cancellazione di quelle identità politiche su cui si fondava la democrazia postbellica non ha prodotto la rigenerazione di una nuova vera classe politica, lasciando di fatto un vuoto e una supplenza, il tutto senza poi eliminare la corruzione, come riconosciuto da tutti.

Se si può rimproverare alla magistratura di aver agito da lì in poi pensando di dover essere i commissari di una politica corrotta, a quella classe politica va rimproverato di non aver saputo riconoscere lo stato in cui versava, auto emendandosi. Esattamente, corsi e ricorsi storici, ciò che ora qualcuno rimprovera alla magistratura travolta dallo scandalo Palamara.

Come allora auspicato sempre da Colombo, occorre ora operare uno sforzo per trovare tutti insieme una soluzione, a differenza di quanto non accadde 30 anni fa. Alle monetine lanciate a Craxi occorre sostituire la disponibilità al dialogo, che deve essere avvertito come l’ineludibile punto di partenza di cui il paese ha ancora bisogno, benché a predicarlo, ahinoi, siano ancora in pochi.

30 ANNI DI TANGENTOPOLI/ Quell’odio verso il riformismo che unì Pci, pm e giornali. Gianluigi Da Rold il  19.02.2022 su Il Sussidiario.net.

Trent’anni da una “rivoluzione” giudiziaria che ha eliminato un’intera classe politica e disastrato una repubblica. Ma alla fine Craxi batte Davigo.

Chissà se esistono delle congiunzioni astrali che intrecciano passato con presente, e magari con il futuro, per comprendere una svolta storica epocale. Forse la filosofia della storia diventerebbe quasi una riflessione banale rispetto alle sequenze cronologiche di un’epoca trentennale che ti fa riflettere sul passato e sulle cause che hanno provocato il presente.

La nemesi diventa una sorta di banale mistero di fronte a questo ultimo 17 febbraio 2022, quando è caduto il trentesimo anniversario dell’inizio della grande tragica buffonata di Tangentopoli e, nello stesso giorno, viene rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio uno dei “principi” di quella operazione del 1992: il pubblico ministero Piercamillo Davigo. Qualcuno ha commentato che la coincidenza è solo uno  scherzo della storia, ma ha subito aggiunto che è “una storia grave”.

Tutto questo ha avuto l’effetto di rilanciare ancora di più il dibattito e lo scontro ancora in corso su Tangentopoli. 

Da più di tre anni stanno uscendo, con un ritmo quasi ossessivo, delle rivelazioni incredibili sull’operato scandaloso della magistratura italiana in questi ultimi trent’anni. E nello stesso tempo si ricordano i soprannomi che si davano a Davigo: “Il Kelsen della Lomellina”, “il giurista che difende la presunzione di colpa, al posto di quella d’innocenza”. Applausi amari!

Nello stesso tempo si ricordano i protagonisti politici  di quell’epoca, il trattamento loro riservato. E quindi la tragedia di 32 suicidi, diverse morti poco chiare legate alle famose privatizzazioni, la perversione della carcerazione preventiva per costringere (ad ammettere?) il sistema delle tangenti e del finanziamento illecito ai partiti che, come disse Bettino Craxi in una udienza processuale, si conosceva in Italia fin da quando lui e i suoi amici e colleghi portavano i pantaloni alla zuava. Solo la magistratura non si era accorta di nulla.

In più, nel ricordo di questi giorni, molti fanno i paragoni di come si stava trent’anni fa e di come gli italiani stanno adesso.

Nessuno mette in dubbio ad esempio che quella classe politica liquidata dal celebre pool di “Mani pulite” fosse più preparata di quella attuale.

Tuttavia, molti hanno insistito per anni sul problema del debito pubblico creato in quei tempi. Eppure secondo i dati ufficiali di Bankitalia (vedere per credere o per querelare) il debito pubblico in rapporto al Pil nel governo Craxi 2 sale all’89,11%, l’inflazione è stata ridotta dal 17 al 4% e l’Italia è il quarto paese economicamente più forte del mondo.

Il debito sale dopo cinque anni con i governi di Goria, De Mita e Andreotti, fino a superare i 100 punti nel rapporto con il Pil con l’Andreotti 6 e l’Amato 1. Il debito scenderà solo una volta sotto il 100, al 99,79 nel 2007 con il Prodi 1, ma solo per un anno, poi riprenderà la sua corsa fino al livello attuale che è ormai vicino al 160% del Pil. 

E non sembra che la cosiddetta “gente” stia meglio che negli anni della cosiddetta prima repubblica, che poi è l’unica che ci sia stata perché la Costituzione e la struttura dei tre poteri è sempre stata la stessa. E non è stata male solo per la pandemia.

È piuttosto difficile dimostrare le colpe della prima repubblica sul piano politico quando furono di fatto sciolti cinque partiti democratici e rimasero solo i post-comunisti e i post-fascisti, che poi lasciarono spazio, per incapacità, all’antipolitica che si vede ancora adesso, senza oltre tutto avere dei partiti che almeno fanno un congresso.

Si è insistito soprattutto sulle colpe di Bettino Craxi, costringendolo all’esilio, facendolo morire dopo averlo fatto operare in un ospedale dove si lavorava al lume di candela e lo si demonizzava perché probabilmente, anche nei dieci anni i cui sopravvisse allo “scandalo” di “Mani pulite”, continuava a parlare prevedendo tutto quello che avveniva e sarebbe avvenuto. Si era creato, secondo il leader socialista, un sistema mediatico-giudiziario al servizio di grandi poteri italiani (che erano al disastro e furono ben dipinti come “capitani di sventura”) e di poteri esteri che volevano un’Italia “svenduta”, come spiegavano gli analisti più attenti.

L’economia mista italiana venne smantellata, la parte pubblica letteralmente svenduta attraverso le banche d’affari anglo-americane senza neppure una trattativa chiara e utile per risanare il debito. 

Craxi poneva anche la questione di una globalizzazione fatta senza criterio, che alla fine avrebbe procurato grandi diseguaglianze e seri guai all’Italia. In più prevedeva che non solo la politica stesse per essere eliminata dalle ragioni della finanza, ma nella magistratura si sarebbe scatenata una lotta incredibile al punto “che si sarebbero arrestati l’un l’altro”. Non sbagliò di molto a quanto si può vedere nelle varie procure italiane. È forse per questa ragione che l’ipocrisia del governo D’Alema volle un funerale di Stato per Craxi? Cose da non credere! 

In tutti i casi, ci si chiede: perché avvenne tutto questo? Il finanziamento pubblico andava riformato e quello illegittimo era conosciuto da tutti, ma ci si accorse solo nel 1992 che esistevano le tangenti, mentre ci si dimenticò delle valanghe di miliardi che il Pci incassava periodicamente da una potenza nemica come l’Urss. Ci sono libri, documenti al proposito. C’erano i presidenti delle Camere che approvavano sistematicamente i bilanci dei partiti. Anche la signora Nilde Jotti sapeva che il suo partito prendeva sistematicamente i rubli dall’Urss che venivano controllati a Fiumicino quando arrivavano in aereo e poi venivano scambiati in Vaticano. Eppure la signora Jotti approvava i bilanci dei partiti. Ma la colpa era solo di Craxi.

È strano che nessuno fosse a conoscenza dell’incontro tra Leonid Breznev ed Enrico Berlinguer, nel novembre del 1978, quando il leader russo disse a Berlinguer di finirla con l’eurocomunismo e il compromesso storico altrimenti le casse non potevano essere più rifornite adeguatamente.

Era tutto volutamente dimenticato: forse ci si chiudeva gli occhi di fronte all’evidenza persino del numero dei conti correnti, e quando crollò il muro di Berlino nel 1989 il Pci non ebbe più nulla da dire politicamente e dovette persino cambiare il nome due o tre volte. L’operazione scattò per questo e si poteva lasciar vivere, sotto altro nome, anche i post-fascisti, che comunque non costituivano certamente un’alternativa politica.

Uno scandalo sul finanziamento illecito era quindi la scoperta dell’acqua calda, che però andava indirizzato contro tutte le forze democratiche italiane, ma soprattutto contro i riformisti, che con Craxi avevano ottenuto l’ingresso dell’Italia nel G7, la ricchezza del Nord e di Milano, che era fra le prime tre più ricche città del mondo. Il tutto diventava insopportabile a chi da sempre aveva criticato o combattuto il riformismo turatiano, quello che era nato proprio a Milano.

Era stato il centrosinistra, con i riformisti in prima linea a varare, malgrado l’astensione del Pci, lo Statuto dei lavoratori e a impegnarsi nel 1978 per la creazione del Welfare state. Nel frattempo Milano diventata capitale della moda nel mondo e dava solo in questo campo il 5% del Pil all’Italia.

Era, di fatto, la rivincita di Filippo Turati, la sconfitta del bolscevismo nel mondo, l’affermazione del socialismo liberale e democratico. Nel 1977, quando fu ricostruita a Treviri la casa di Marx distrutta dai nazisti, Willy Brandt chiamò il giovane segretario socialista Bettino Craxi a tenere l’intervento inaugurale. Chissà perché non chiamò qualcun altro magari legato all’Urss?

Di fatto, l’odio verso il riformismo fece decollare la più perversa alleanza tra grande finanza ed ex partiti della sinistra comunista storicamente perdente, che si trasformarono in accaniti privatizzatori e amici di quelli che, sul “Britannia”, fecero il lavoro dei “babbei” come disse Enrico Cuccia.

L’alleanza per quella che fu chiamata all’inizio, malgrado morti e suicidi, la “rivoluzione di velluto”, era un quadrilatero tra finanza neoliberista in aperto contrasto con il keynesismo, sinistra sconfitta storicamente, magistratura cresciuta in Italia con il codice penale di Alfredo Rocco (guardasigilli di Mussolini) controfirmato da Vittorio Emanuele III, e una stampa asservita perché sempre agli ordini degli editori che in Italia erano poi i “capitani di sventura”.

Curioso come oggi tra alcuni giornalisti si parli di “vendetta” della   “casta” che non si capisce bene quale sia e ci siano ripensamenti per aver fatto da megafoni contro gli inquisiti degli anni Novanta, anche se poi molti vennero assolti.

Qui bisognerebbe sconfinare nella storia poco edificante del giornalismo italiano. Si può però ricordare solo una frase di Carlo Tognoli, il sindaco della “Milano da amare” che nel 2010, in una ricorrenza al Corriere della Sera, parlò di Walter Tobagi: “Tobagi – disse Tognoli – non era una vittima simbolica del terrorismo, ma l’obiettivo preciso di ambienti che lo volevano eliminare  perché socialista, riformista, preparato, studioso, con una prospettiva professionale di grande rilievo nel mondo giornalistico”.

Sarebbe stato difficile, con Tobagi direttore, pubblicare in anteprima una “dritta” che arrivava direttamente dal Palazzo di giustizia.

Al termine di un riassunto triste, si può comunque ricordare una frase che Craxi ripeteva spesso: no, la battaglia storica non gliela farò mai vincere.

Da Mani Pulite alla Trattativa, i processi di piazza hanno lunga tradizione. GIUSEPPE SOTTILE il 19 febbraio 2022 su il Foglio. 

Célestin Guittard guardava la ghigliottina di Luigi XVI. Oggi ovunque ci sia un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente.

E’troppo facile e forse anche un po’ maramaldesco prendersela oggi con Sigfrido Ranucci, padre padrone di “Report”, e accollare a lui tutti i vizi, le storture e le nefandezze del cosiddetto giornalismo d’inchiesta. E’ sin troppo comodo contestare a lui e solo a lui il rapporto malsano con i magistrati più politicizzati, con i servizi segreti più deviati, con le fonti d’informazione più opache e più spericolate.

E’ troppo facile e forse anche un po’ maramaldesco prendersela oggi con Sigfrido Ranucci, padre padrone di Report, e accollare a lui tutti i vizi, le storture e le nefandezze del cosiddetto giornalismo d’inchiesta. E’ sin troppo comodo contestare a lui e solo a lui il rapporto malsano con i magistrati più politicizzati, con i servizi segreti più deviati, con le fonti d’informazione più opache e più spericolate. Nel grande circo mediatico giudiziario ci sono dieci, cento, mille Ranucci e ciascuno recita la sua parte a perfezione. Senza sbavature, senza errori, senza passi falsi. Hanno la dritta – si chiama così la soffiata dell’amico poliziotto o dell’amico procuratore – e partono subito all’assalto dell’uomo da sputtanare, della vittima da impiccare all’albero della gogna, dell’indagato da cucinare al fuoco lento, del politico da mettere fuori gioco, dell’imprenditore da condannare comunque al fallimento. Lo chiamano scoop. Lo ammantano quasi sempre con quel principio sacro e inviolabile che è la libertà di stampa.

Sono i giornalisti coraggiosi. Trent’anni fa, al tempo di Mani Pulite, camminavano in gruppo. Si erano addirittura costituiti in pool – come le tre punte schierate in attacco dalla procura di Milano: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo – e avvertivano lo stesso zelo rivoluzionario, salvifico, purificatore che si respirava nelle stanze del Palazzo di Giustizia. Loro, i magistrati, arrestavano corrotti e corruttori, manager e tangentisti, boiardi di stato e assessori di provincia, democristiani e socialisti. Davano la caccia a Bettino Craxi, detto il Cinghialone, tenevano sotto scacco Arnaldo Forlani e Romano Prodi, martellavano sui vertici dell’Eni e su quelli delle Ferrovie, strizzavano le palle a un mariuolo che prendeva mazzette al Pio Albergo Trivulzio e anche a un capitano d’industria conosciuto e stimato in tutto il mondo come Raul Gardini. Loro, i magistrati, non si lasciavano intimorire da nessuno e non si lasciavano impietosire nemmeno da chi si ammazzava in carcere per la disperazione. Erano implacabili e intoccabili. Erano i Reverendissimi Inquisitori. Ai loro piedi – hic genuflectur – c’erano i cronisti del pool che, come chierici vaganti, predicavano urbi et orbi la necessità di radere al suolo ogni male, ogni colpa, ogni peccato, ogni compromissione. Non cercavano una Bastiglia da abbattere, ma un San Vittore da riempire. E ogni giorno informavano lettori e telespettatori sulla contabilità della rivoluzione. Somigliavano tanto, scusate l’accostamento, a Célestine Guittard, il proprietario terriero di Parigi che, negli anni della ghigliottina, annotava su un diario – lo ha scoperto e pubblicato, nel 1973, lo storico Roger Aubert, si intitola Journal d’un bourgeois de Paris sous la Révolution – il numero di teste mozzate. Era originario d’Evergnicourt, un villaggio della Champagne, ma abitava a Saint-Sulpice a due passi dal palchetto infame dove il cittadino Robespierre apparecchiava ogni giorno il grand guignol delle condanne a morte. Célestine segnava ogni dettaglio. La mattina del 21 gennaio 1793, alle dieci e venti, assiste alla decapitazione di Luigi XVI, re di Francia e puntualmente scrive che faceva freddo, che il termometro segnava tre gradi. Non batte ciglia, non emette un minimo segno di orrore. E il giorno dopo, come al solito, invita a pranzo una sua amica, Madame Sellier, perché Guittard con tutti i guai che il paese attraversa ha sempre di che mangiare o dar da mangiare ai propri ospiti. Nel marzo 1794 assiste all’esecuzione di Hébert e di altri 19 cospiratori e saluta, con una pennellata di luce, la nuova primavera: “Il faisait le plus beau temps du monde, et chaud”.

Altri tempi, va da sé. Ma la domanda resta terribilmente attuale: senza i giornalisti che facevano da coro a quell’immane lotta tra il bene e il male, i magistrati di Mani Pulite avrebbero avuto tutto il potere che hanno avuto? Si affacciavano alla tv e bloccavano i decreti del governo sulla carcerazione preventiva; camminavano per strada e venivano applauditi, incoraggiati, osannati. Nell’aula di Montecitorio venivano fiancheggiati da deputati che esibivano il cappio, che inneggiavano alla forca, che sventolavano le manette. A Roma, davanti all’hotel Raphael, il già presidente del Consiglio – Bettino Craxi, sempre lui – viene insultato nella maniera più sordida: con il lancio delle monetine. Allons enfant. E quando all’ancien regime, decapitato dalle inchieste, succede Silvio Berlusconi – era venerdì 21 novembre 1994, vigilia del vertice Onu di Napoli – ecco che una “manina manona” della Procura confida sottobanco a un cronista del Corriere della Sera che il Cavaliere è stato colpito, manco a dirlo, da un avviso di garanzia per concorso in corruzione. Una data da segnare. Rivela che da quel momento la magistratura sa come amministrare, per fini politici, i tempi di una notizia: nasce la “giustizia a orologeria”. E rivela anche che tra gli inquisitori e i chierici, in forza della lunga frequentazione, si è stabilita una complicità, un pactum sceleris che non ammette tradimenti. Da un lato c’è il magistrato che viola il segreto istruttorio e organizza all’un tempo l’aggressione politica; dall’altro lato c’è un giornalista che promette di non rivelare mai la fonte e che già pregusta l’avvento di altre indiscrezioni, di altre carte cedute di contrabbando, di altri dossier consegnati in barba a tutte le leggi. A chi apparteneva la “manina manona” della fatale confidenza? Dopo trent’anni il mistero resiste ancora.

Mani Pulite, comunque, non c’è più. Antonio Di Pietro, l’attore più popolare e ombroso di quella stagione giudiziaria, ha tentato la strada della politica ma alla fine, inseguito da incresciosi interrogativi sulle sue attività e sulle sue relazioni, ha preferito ritirarsi nelle campagne di Montenero di Bisaccia e lasciare ai posteri l’immagine di un Cincinnato inseguito da mille dicerie: dirà che lo perseguitavano le dicerie degli untori. Piercamillo Davigo ha scalato invece tutti i gradi e i trofei della giurisdizione, ha predicato a tutte le ore la buona novella del giustizialista che vede solo colpevoli e mai un innocente, ed è finito come per contrappasso in una palude maleodorante dove affiorano faide e rancori tra toghe che fino a un giorno prima sembravano campioni di rigore e santità. Con lui, nelle inchieste di Brescia, sono finiti anche nomi altisonanti della procura milanese, a cominciare da quel Fabio De Pasquale, l’aggiunto di Francesco Greco, che per oltre dieci anni ha dato la caccia all’Eni e ha perso in malo modo la sua personale partita con la giustizia. Le indagini sono ancora alla fase preliminare. Chi vivrà, vedrà.

E’ rimasto intatto invece il sistema inaugurato il 21 novembre del 1994 dal giornalista del Corriere – unico e solo, non più in pool – che ricevette da una manina della procura milanese la soffiata dell’avviso di garanzia a Berlusconi. Gli eredi non si contano. Spaziano da Palermo a Firenze, da Catanzaro a Reggio Calabria, da Napoli a Trani. Si sono attaccati soprattutto alle costole dei “magistrati coraggiosi”, di quelli che vogliono riscrivere la storia d’Italia e che per compiere questa ardita impresa hanno bisogno di essere eroi e di avere le mani libere su tutto, anche sui codici. Fateci caso: ovunque c’è un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente, che dilata ogni suo respiro, che avalla le sue ambizioni, che consacra i suoi teoremi, che sa come sfogliare e leggere le intercettazioni, che sa come condurre il gioco perverso di mascariare i nemici e mettere in difficoltà un partito, un governo, un sindaco o un presidente. E’ il giornalista con le stellette, praticamente un soldato. Ma per darsi un tono si definisce giornalista d’inchiesta e come tale si guadagna anche lui uno strapuntino nel piazzale degli eroi: se gli va bene gli assegnano pure la scorta.

Un magistrato teoricamente – molto teoricamente – può anche pagare pegno dopo uno scivolone. Va bene che cane non mangia cane; però può sempre capitargli un inciampo o un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura. Mentre al giornalista d’assalto – o dalla schiena dritta, decidete voi – difficilmente succede qualcosa. Partiamo dai fatti: fu mai richiamato alla decenza l’autore dello scoop che qualche anno fa portò alle dimissioni di una ministra, definita in uno scazzo con il fidanzato “sguattera guatemalteca”, ministra puntualmente archiviata? Il giornalista coraggioso, ma soprattutto premuroso nei confronti del magistrato che gli ha rifilato l’indiscrezione, avrà certamente sostenuto, con gli amici e con i colleghi, di avere esercitato il diritto di cronaca; quel diritto che garantisce anche la possibilità di entrare a gamba tesa nella vita privata degli altri, di devastarla di sfregiarla, di distruggere storie e reputazioni, di polverizzare carriere e patrimoni. E’ la stampa, bellezza!

Ma per scoprire come il connubio tra malagiustizia e giornalisti diventa a tratti persino velenoso bisogna entrare nel rito palermitano. Qui la lotta tra mafia e antimafia non ha mai conosciuto tregua. Qui ci sono stati i veri eroi, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, trucidati da attentati che hanno segnato punte altissime di morti, di sangue e di terrore. Ma sull’onda lunga della doverosa e strenua guerra ai boss e ai picciotti, ai complici e ai fiancheggiatori, si sono istruiti anche molti processi finalizzati – quasi tutti in buonafede, ci mancherebbe altro – a colpire chi aveva garantito alla cupola di Cosa Nostra coperture politiche, oltre che istituzionali. Si cominciò, già nel 1993, subito dopo l’arrivo di Gian Carlo Caselli alla procura di Palermo, con il processo a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio dei Ministri e leader nazionale di una corrente democristiana che in Sicilia aveva come massimo esponente Salvo Lima, morto ammazzato nel marzo del ’92, e i terribili cugini Nino e Ignazio Salvo, esattori mafiosi di Salemi. Un processo non facile, per carità. Ma Andreotti finì assolto: non c’erano prove sufficienti. I giornalisti più vicini alla procura si impegnarono fino allo spasimo. Tirarono fuori persino il bacio tra il callido statista e il sanguinario Riina, detto “Totò u’ curtu”, boss latitante dei sanguinari corleonesi. Ma non ci fu niente da fare.

Poi si montò un processo per mafia anche contro Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, definito dal circolo delle anime belle un “ammazzasentenze” perché aveva annullato condanne che lui, giureconsulto di scuola eccellente, aveva ritenuto ingiuste e approssimative. Apriti cielo. Si mobilitarono plotoni di pentiti che parlarono di borse piene di soldi in viaggio da Palermo fino al palazzaccio romano di piazza Cavour. L’anziano giudice fu intercettato, offeso, oltraggiato, umiliato. “Prima lo chiacchierano selvaggiamente e poi dicono che è un giudice chiacchierato”: fu questo il commento di Leonardo Sciascia, scrittore di verità. Ma, nonostante lo schieramento militare di giornali e professionisti della diffamazione, anche Carnevale fu assolto: non c’erano prove.

Il salto nel cielo delle cose mai viste avviene però nell’immediata vigilia delle elezioni del 2013. Antonio Ingroia, un procuratore aggiunto di Palermo che coltiva l’ambizione di una carriera politica, riesuma brandelli di inchieste più volte archiviate e imbastisce una mastodontica trama su una improbabile trattativa tra i vertici dello Stato – a cominciare dai generali dei carabinieri che nel gennaio del ’93 avevano catturato Riina – e i padrini di Cosa Nostra. Una boiata pazzesca, affidata quasi esclusivamente alle patacche di Massimo Ciancimino, figlio di quel Vito Ciancimino che negli anni del sacco edilizio fu sindaco di Palermo e uomo dei corleonesi nel gioco sporco della politica. Massimuccio – divenuto per esigenze di copione “icona dell’antimafia” e incoronato come tale da un bacio pubblico di Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato in via D’Amelio –  diventa il ventriloquo del padre e ha quindi il diritto di inventarsi tutte le sceneggiature necessarie per trasformare l’inchiesta in un romanzo criminale. Un romanzo che Ingroia, vicino alla discesa in campo come candidato alla poltrona più alta di Palazzo Chigi, affida per intero nelle mani di una fidatissima confraternita di giornalisti e dei loro tambureggianti talk-show. E’ il trionfo – pubblico e assordante – del circo mediatico giudiziario. E’ il punto di arrivo di un processo che non si celebra più in un’aula del tribunale ma direttamente e ufficialmente in piazza perché il magistrato che lo ha istruito preferisce le luci della ribalta ai ritmi lenti e un po’ noiosi della Corte d’Assise. Massimo Ciancimino non è più un testimone a disposizione di accusa e difesa, ma un attrezzo di scena nel palcoscenico della finzione e di una politica fatta di cenere e fango, per dirla con Giobbe.

Povero Célestine Guittard. Nel dicembre del 1795 la rivoluzione, che aveva creato e spezzato tanti idoli, non lo incanta più. Troppa violenza, troppa oratoria inutile e beffarda, troppi disastri. “Tous les beaux discours ne flattent plus l’oreille”, scrive. E chiude il diario.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 febbraio 2022.  

Qualcuno non ha ancora capito che rischia di passare alla storia (minore) come un servo, come un cronistello che abdicò al proprio dovere per servire dei padroni nuovi anziché quelli vecchi, anzi peggio: perché oltre a sdraiarsi a pelle di leopardo sulle toghe furono anche funzionali all'inchiesta che seguirono, ne furono uno strumento eterodiretto che diffondeva carte (alcune, non altre) e serviva a fare da effetto richiamo.

Forse i cronistelli pensano che gli storici leggeranno le loro cronache, ma ha già risposto Indro Montanelli: «Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della nostra storia, avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani dalle fonti dei giornali e dei telegiornali, perché i giornalisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza, e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani, che volevano il rogo, e si sono macchiati di un'infame abdicazione».

La «redazione giudiziaria unificata» si formò il 21 aprile 1992 alla pizzeria Gambarotta di via Moscova, e la motivazione ufficiale era non disperdere notizie, gestire la sovrabbondanza, prevenire le censure, in pratica disciplinare la strumentalizzazione che di loro faceva palesemente Di Pietro in cambio di vanagloria.

Un cronista del Corriere l'ha ammesso trent' anni dopo: «Dal 17 febbraio 1992 ogni interrogatorio, verbale, arresto s' è sempre tradotto in un passo verso il primo, vero bersaglio dell'inchiesta, il Cinghialone». Craxi. 

«Dovremmo chiederci se sia normale che un'inchiesta abbia un bersaglio...o se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo un atto di accusa».

E pure stappare una bottiglia per specifici avvisi di garanzia, appendere il primo lancio Ansa dell'avviso a Craxi, stampare magliette con scritto «Anch' io seguo Mani pulite», partecipare a festicciole in una villetta di Merate - del fidanzato della mia amica carissima Cristina Bassetto, ex Avanti!, morta nel 2017 - dove per caso c'ero anch' io, e dove c'era pure la prosperosa segretaria che un giorno avrebbe passato a un cronista del Corriere la fotocopia del mandato di comparizione per il premier Silvio Berlusconi, 21 novembre 1994.

Ma il pool dei cronisti in quel periodo si era già praticamente sciolto, anche se mondo continuava a girare attorno sempre alla stessa cosa. Sì, quella. Capitò anche quando il Carabiniere Felice Corticchia, invaghito della cronista Renata Fontanelli del Manifesto, le passò i verbali del manager Giuseppe Garofano che accusavano Raul Gardini, e che lei, sotto pseudonimo, scrisse sul settimanale Il Mondo ripresa da tutti giornali: Gardini lesse e si sparò. Ma stiamo correndo troppo.

Anzitutto diamo per scontato che io da questo pool ero escluso: mi capitava di entrare nella sala stampa del palazzo di Giustizia e di vedere uscire gli altri, spesso dovevo fingere di non conoscere i soli due o tre cronisti che più tardi, segretamente e per telefono, mi avrebbero dato una mano. Non c'era notizia o carta o verbale che uscisse senza che i magistrati lo volessero, benché, materialmente, spesso provvedevano avvocati che facevano i loro interessi.

Ecco: i verbali che uccisero Gardini non erano autorizzati. Ma capitò anche a me, di rompere il giochino. Sull'Avanti! ne pubblicai uno - solo io- che chiamava in causa un democristiano moralizzatore, Antonio Ballarin, di passaggio anche cugino del pm Gherardo Colombo. 

Gli altri cronisti quel verbale non l'avevano avuto, tanto che un collega, Piero Colaprico, mi disse a brutto muso che era «un falso». Invece era vero, tanto che Ballarin, con l'Avanti! sotto il braccio, chiese spiegazioni in procura e ne uscì da indagato. Che bello: brindai anch' io alle disgrazie altrui, per un giorno ero diventato un servo di procura, lo strumento di un gioco basato sulla pelle altrui.

Ma non abbiamo ancora inquadrato la truppa dei ragazzotti. Bruno Perini del Manifesto, nel 1993, li descrisse così: «A Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura... si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati... sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d'interrogatorio... Con un'aggravante: le fonti di informazione erano univoche». 

 I cronisti chiamavano «Dio Zanza» o «Zanzone» Di Pietro (imbroglione in milanese) mentre il capitano Zuliani era «Mago Zu» e il tentacolare avvocato Federico Stella era «Luce prima», il cronista Buccini del Corriere era «Duracell» (sarebbe stato meglio Lexotan) e Luca Fazzo di Repubblica era «Panzer». Il decano dell'Ansa li chiamava «quelli che ce l'hanno sempre duro».

Un mensile di categoria, Prima Comunicazione, li descrisse come «un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato». Buccini del Corriere ha scritto: «Nella nostra sala stampa comincia a fare capolino un biondino poco più che ventenne. Si chiama Filippo Facci... ci fa l'effetto di un milite di Salò entrato per sbaglio in una riunione del Cln. Sta cominciando a raccogliere carte che in capo a un anno finiranno sotto l'ambigua etichetta degli "omissis di mani pulite"... è un collega, persino più giovane di noi... In un altro tempo saremmo solidali. 

Ora gli stendiamo attorno una specie di cordone di avversione e isolamento. Del resto ci sentiamo più che mai in prima linea». In prima linea a sparare e basta: senza controffensiva. Ma con la forza della fede: «Che avessimo più o meno tutti una formazione di sinistra è vero. L'inchiesta ci dava la conferma di ciò che noi avevamo sempre pensato dell'Italia: dei socialisti, degli andreottiani, di Ligresti e poi dello stesso Berlusconi.

E quando ritieni di vedere la conferma di quello che pensi, non cerchi altre verità...Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Brambilla, un cattolico, noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra... Tutto questo può non pregiudicare il lavoro nell'immediato: ma può metterlo a rischio più in là». Può e poté, infatti. Ma non erano tutti di sinistra, comunque.

E vero che Brambilla era un moderato, infatti lasciò il gruppo e cedette il posto al più esaltato Gianluca Di Feo. Paolo Foschini di Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva poco da fare il compagno. Frank Cimini del Mattino lo era pure, di sinistra, ma in stile «manifesto», un garantista sovrastato dai fatti. Maurizio Losa della Rai, molto vicino a Di Pietro, era un ordinario reggimicrofono. Andrea Pamparana del Tg5 era figlio del portinaio di casa Pillitteri ed era un bravo ragazzo.

Enrico Nascimbeni dell'Indipendente, figlio del noto Giulio del Corriere, non era nulla che abbia senso classificare. Giustizialisti puri erano Buccini, Paolo Colonnello (Il Giorno, amicone di Di Pietro) e Peter Gomez (Il Giornale) e i cronisti dell'Unità più ovviamente Luca Fazzo e Pietro Colaprico, quest' ultimo capace di scrivere un libro titolato «Capire Tangentopoli» senza mai nominare (mai) l'epicentro fondamentale di Tangentopoli sfuggito clamorosamente ai magistrati milanesi: il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, il cui ruolo fu scoperto solo nel 1996 da un'altra procura.

AMMISSIONI

Luca Fazzo nel 2011 ammetterà che l'inchiesta non sarebbe stata possibile «con il rispetto formale delle regole», e che ci fu la «sospensione temporanea delle garanzie». E che sarà mai. Ancora Fazzo: «Erano stati suddivisi i compiti: a L'Espresso si davano i verbali, al Corriere le interviste. Borrelli si affacciava nel corridoio e diceva «Chiamatemi Buccini», voleva dire che aveva bisogno di essere intervistato».

Signorsì signore. Quando poi uscirono il «dossier» del Sabato e il mio semiclandestino «Omissis di Mani pulite», che rivelavano giù un sacco di verità sull'ambiguo Di Pietro e criticità su Mani pulite, ecco Buccini trent' anni dopo: «Sarebbe stato nostro compito di giornalisti trovare quelle verità intermedie, se esistono, o almeno disporci a cercarle, per raccontarle... Non siamo in grado di farlo».

Non furono in grado di fare i giornalisti: perché fare i giornalisti significa scrivere e farsi inseguire dai magistrati, non inseguire i magistrati per pietire carte e cartacce, come dei Travaglio qualsiasi. In quei due «dossier» non c'era una sola cosa falsa, ma tutti i giornali ne imboscarono a dir poco i contenuti. Ancora Buccini del Corriere, trent' anni dopo, la liquiderà così: «Un lavoro di verifica sul passato dell'eroe nazionale avremmo ben potuto e dovuto farlo anche noi... Non lo facciamo.... Dismettiamo la pratica stampigliandovi sopra il timbro «spazzatura» e ci mettiamo l'animo in pace».

 Ma di vero c'era tutto, in quei dossier. Una sentenza bresciana ne darà questa definizione: «Puntigliosa analisi di fatti meticolosamente documentati... contrassegnati da profili di rilevanza quanto meno disciplinare... in quel dossier ve n'era abbastanza per ottenere una qualche attenzione da parte di autorità disciplinari». Per Di Pietro. C'è da capirli, i cronistelli: dovevano render conto a capi e direttori, quelli che la sera si telefonavano per concordare le pagine. Ne parliamo domani, come di certi telegiornali.

Mani Pulite, lo scandalo rivelato da Filippo Facci: "Il cronista che faceva l'autista per Di Pietro". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

La giusta distanza tra Milano e Montenero di Bisaccia - calcolando il percorso più breve - è di quasi 700 chilometri. La giusta distanza tra una fonte e un giornalista, invece, quel giorno fu di mezzo metro per sei ore filate: perché in auto, diretti ai funerali della madre di Antonio Di Pietro, a fare da autista a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo fu Goffredo Buccini del Corriere della Sera. Pure autista. Era il 9 settembre 1994. A quelli del Corriere mancava solo di pulirgli casa, ai magistrati, o di fare le indagini al posto loro: e non è una battuta. Al Corriere infatti avevano un Cerved, un monitor verde che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il Pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva il favore. Il Corriere dettava legge e la esercitava pure. Dei camerieri delle notizie, il pool dei cronisti, abbiamo parlato ieri: l'alta cucina, però, era materia dei gran cuochi e del masterchef Paolo Mieli, peraltro eletto per disposizione di Craxi perché un tempo era stato praticamente uno di famiglia. L'ennesimo errore di Craxi.

Comunque: i vari direttori si mettevano d'accordo a loro volta, un po' come i cronisti, per concordare titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa (il direttore può smentirmi, ovviamente) mentre Paolo Ermini chiamava l'Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C'era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l'apertura del Corriere: dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell'Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c'era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c'era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni... Lo sbaglio è stato di aver riproposto l'idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese... abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità».

L'ACCORDO

Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente vergognoso è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell'Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti... c'era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l'opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi». Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l'ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l'oggetto era tentatore e l'idea nemmeno campata in aria... Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere "decreto salvaladri" e il gioco era fatto».

IL DECRETO CONSO

Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali... alle sette del pomeriggio ci fu l'abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono... Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde». Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c'era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era L'Indipendente, dove ai brindisi all'avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al Manifesto, storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste. Parleremo un'altra volta del giornalismo di costume, più affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero senza pudore giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e persino molti uomini (tacciamo per solidarietà di specie) che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti.

NESSUNA CRITICA

Il dipietrismo fa parte del comico, non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all'operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l'azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c'era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera). Sulle tv poi servirebbe un trattato. Satira a parte (era dappertutto) sul Tg3 sembrava sempre che l'Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il solito Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano - e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale - si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.

Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell'edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa. 

Mani Pulite, Filippo Facci e il metodo-Di Pietro: "Perché i giudici lasciavano la porta aperta". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 20 febbraio 2022.

Chi le passava le notizie ai cronisti, in definitiva? Cominciamo col parlare di Italo Ghitti, che è sempre stato ipocrita come tutti i veri cattolici: sin in dal primo interrogatorio di Mario Chiesa era comparso con la sua barbetta nel ruolo di gip (giudice delle indagini preliminari) inteso come malriuscito "giudice terzo", quello che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà "nano ghiacciato", benchè bramoso della sua porzioncina di celebrità. Fu lui ad autorizzare gli arresti chiesti dai pm, e le sue rarissime opposizioni furono rondini che non fecero mai primavera: non convaliderà le manette di quattro consiglieri dell'Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della "Torno Costruzioni" Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jurgen Ferlinge, del socialista Loris Zaffra, del cassiere Pds Marcello Stefanini. Sono solo esempi, ma la mancanza di terzietà di un intero Paese, oltre ai ricorsi dei pm, lo ricacciarono sempre in un ruolo comprimario, da vidimatore delle carte dell'accusa. Ghitti è stato il gip "unico" di Mani pulite, un'anomalia assoluta sulla quale di recente si è espresso Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su Piazza Fontana (e caso Parmalat e Abu Omar), che non aderì mai a nessuna corrente della magistratura e passò quegli anni proprio all'ufficio gip: «Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni dell'indagine... un meccanismo da cui dipendeva il funzionamento di quell'inchiesta sistemica... fu comodo non doversi confrontare con una varietà di posizioni che si potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip», ha detto Salvini, «che era formato da una ventina di magistrati... Così il Pool escogitò un trucco, costituendo un fascicolo che in realtà era un registro che riguardava centinaia di indagati (poi migliaia, con circa 9.000 richieste di arresto, ndr) su vicende completamente diverse: il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, estensibile a piacere anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva».

PRINCÌPI SOVVERTITI

Insomma, i princìpi dell'Ufficio furono sovvertiti radicalmente, spiega Salvini: «Ci fu un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per sbaglio... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92... prima ancora che potessi decidere su alcune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto e passò al gip Ghitti, evitando così che io o qualsiasi altro gip interferisse nella macchina di Mani pulite». Parentesi: la testimonianza dell'ex gip Salvini non attesta solo che Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, ma permette di retrodatare la decisione di direzionarsi verso una "rivoluzione" che i magistrati di Mani pulite hanno sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava: quando Ghitti divenne l'anomalo gip unico, a ben vedere, mancava ancora tempo alle elezioni "terremoto" del 5 aprile 1992, che pure registrarono una sostanziale tenuta del partiti; mentre era prossimo l'affiancamento all'inaffidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. Mani pulite cominciò così a correre da sola, con le sue anomalie e progressive forzature delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare (da maggio e soprattutto dall'autunno) che le permetterà addirittura di volare. Ancora prima delle elezioni del 1992, il gip Ghitti disse: «Il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». Bene, ma perché l'abbiamo definito ipocrita? La risposta sta in un altro esempio a margine del mancato arresto di Marcello Dell'Utri: il Tg5 anticipò la notizia (dopo discussione tra Andrea Pamparana ed Enrico Mentana) e il gip Ghitti disse: «Ricordo anche l'ora... le 15.57 dell'8 marzo 1994... Mi resi conto che non riponevo più fiducia nella correttezza di alcuni pm, ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pubblici ministeri». Ah, lo capì allora. Gherardo Colombo spedì in sala stampa addirittura un finanziere: «Allora, chi è stato? Chi vi passa le notizie?». Un cronista rise: «Ma dite sul serio?». Ma Ghitti era ipocrita anche per un'altra ragione, e qui segue un racconto personale. Ricordo bene: salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta, complici i buoni rapporti con due dei cronisti (uno era il mitico Frank Cimini) e l'apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Noi non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d'arresto che aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Funzionava anche così. Ghitti peraltro sapeva essere spietato: dopo aver firmato l'ordine d'arresto per Raul Gardini il 16 luglio 1993 (che però non gli venne consegnato per settimane, tenendolo in cottura e contribuendo al suo suicidio), ecco che subito dopo che il finanziere si era sparato Di Pietro mandò ad arrestare vari parenti e amici di Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani; e il gip Italo Ghitti disse: «Eccezionalmente su quei provvedimenti ho indicato l'ora. Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti». Più che la giustizia, gli arresti.

IL BAGNO ADIACENTE

Bene, ma allora: chi passava le notizie ai giornalisti? La risposta è: tutti. Magistrati, avvocati, segretarie dei magistrati, poliziotti, carabinieri, le squadre investigative dei pubblici ministeri, cancellieri, gente che coi giornalisti aveva anche tresche sessuali o voleva averne. Dall'aprile 1992 all'estate 1993 furono condivise in pool, poi non più. Poi naturalmente facevano qualcosa anche i cronisti, ce n'erano di bravi e non mancarono risvolti anche divertenti. Sino a un certo periodo fu sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c'era neppure bisogno di appoggiare l'orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano barzellette soprattutto sui socialisti. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero: uno entrò in bagno e trovò i cronisti come colpiti da dissenteria di massa. Poi c'era uno come Luca Fazzo, detto Panzer, che placcarlo era dura: il 30 marzo 1992, quando Mario Chiesa venne interrogato al gabbiotto (una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio), c'era una finestrella aperta, e per ascoltare bene Fazzo si appese a una grondaia. A semplificare tutto c'era che il Pool di Milano abolì di fatto il segreto istruttorio e anche in questo si sostituì al legislatore: che cosa fosse il segreto istruttorio presero a raccontarselo da soli, anche se il Codice prevedeva il contrario rispetto a certi comporti. Il 19 dicembre 1992 ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (giornalisti di sinistra) eil neo giurista Piercamillo Davigo la mise così: «Il segreto istruttorio è posto a tutela dell'attività investigativa, non dell'onorabilità dell'inquisito... Se mi dicono "sei un ladro" non posso difendermi dicendo "è un segreto", ma dimostrando che non è vero». Chiamasi inversione dell'onere della prova. Più ideologicamente, al convegno, disse il neo giurista Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza va tutelato, ma quando il progredire di tutti confligge con l'interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». Io penso. Anche il neo giurista Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, aveva spiegato che il segreto in pratica non esisteva più. Talché il noto avvocato Corso Bovio, legale dell'Ordine dei giornalisti lombardi, rispose: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho sostenuto decine di cause per violazione del segreto istruttorio promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga in ogni circostanza, e non solo nell'inchiesta sulle tangenti». Il procuratore neo giurista Marcello Maddalena, da Torino, sostenne invece che il diritto alla riservatezza dell'indagato «comunque è secondario rispetto all'esigenza di scoprire la verità». Insomma, la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque e piace a tutt' oggi.

L'AUTORE DEL CODICE

Chi il Codice l'aveva scritto, però, la pensava al contrario. Nel 1992 provai a intervistare Giandomenico Pisapia, co-relatore del Nuovo Codice chiamato "Pisapia Vassalli". Mi disse così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto serve a tutelare sia le indagini sia l'indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie possa pregiudicare un'immagine che, una volta guastata, non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». Sempre nel 1992, il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l'avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Fantascienza. Se interessa, era d'accordo anche un certo Giovanni Falcone, che lo disse davanti al Csm: «L'avviso di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell'interesse dell'indiziato». Archeo-fantascienza. 

“L’inciucio” delle carriere tra pm e giudice in una foto del ’92. Il Dubbio il 23 Febbraio 2022. 

Nel libro di Goffredo Buccini, “Il Tempo delle Mani Pulite”, spunta la foto del Gip Italo Ghitti e del Pm Di Pietro fianco a fianco. Eppure il primo avrebbe dovuto verificare la tenuta delle inchieste del secondo.

Un estratto del libro di Goffredo Buccini, “Il Tempo delle Mani Pulite”, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 231, 18,00 euro.

«Mentre Amato sale al Quirinale con la lista dei ministri, i socialisti scagliano attacchi pesanti contro Mani pulite, minacciando perfino dimissioni a raffica dalle cariche pubbliche se l’inchiesta non verrà fermata: una linea da cui si dissocia, pur tra distinguo, Claudio Martelli. Gennaro Acquaviva, un senatore molto vicino a Craxi, sostiene che “nelle indagini vengono adottati provvedimenti di tale violenza che non trovano riscontro neppure nelle inchieste contro la mafia e vengono commesse illegalità sempre più evidenti in dispregio dei diritti dei cittadini”. Ovviamente è in questione la “dottrina Davigo”, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti. Il giorno prima sono finiti in cella il segretario politico e quello amministrativo del Psi lombardo, il partito regionale è decapitato. Un avviso di garanzia arriva anche al deputato Sergio Moroni, a sua volta ai vertici regionali del Garofano fino a poco prima. Ormai pubblichiamo quasi ogni giorno gli elenchi dei “politici coinvolti”, una specie di summa quotidiana del crollo di sistema ridotta a infografico come le formazioni delle squadre di calcio nelle pagine sportive. A fine giugno i dc arrestati sono 11, 7 i pidiessini della corrente migliorista, 11 i socialisti, un repubblicano, 11 i parlamentari indagati tra democristiani, socialisti, repubblicani e pidiessini, 24 gli imprenditori incarcerati: ed è, chiaramente, solo l’inizio di ciò che ci aveva preconizzato ad aprile l’avvocato D’Aiello nei giardinetti davanti a San Vittore.

Severino Citaristi, segretario amministrativo nazionale della Dc, riceve il suo primo avviso di garanzia per finanziamento illecito del partito. Gliene arriveranno decine, facendone il recordman degli avvisi. In questo, a guardar bene, si potrebbe già cogliere un paradosso dell’indagine: perché Citaristi è un vecchio bergamasco onestissimo, tutti sanno che non si è messo in tasca una lira, e tuttavia il meccanismo è spietato, scivola verso la responsabilità oggettiva (che nel diritto penale non trova spazio, tranne che per eccezionali fattispecie). “Non può non sapere” è un assunto che, per il momento, affonda i contabili ma promette di arrivare ben oltre. Si danno intanto alla macchia Giovanni Manzi, presidente della Sea, e Silvano Larini, l’architetto craxiano animatore delle notti di Brera. Entrambi considerati membri del circolo più stretto attorno al leader. Il partito di Craxi si sente preso di mira, e lo è, ma non per congiura: piuttosto, per il semplice motivo che l’inchiesta ha quale epicentro Milano, la città dalla quale Craxi aveva iniziato a costruire la sua ascesa e in cui ha radicato il suo potere. Dopo l’affondo di Acquaviva, i giornali ci chiedono una reazione dalla Procura. In gruppetto saliamo alla stanza di Borrelli, dove ci riceve in anticamera Alfonso, il fidato segretario del procuratore, che dispensa a noi ragazzetti della cronaca sorrisi tra il bonario e l’altezzoso, da vecchio ciambellano della Real casa. Consumata una certa dose di attesa, si manifesta infine Borrelli, ironico, felpato, l’aria di chi sia appena stato distolto da una battuta di caccia alla volpe: alza gli occhi con un lieve moto di sopportazione verso il soffitto del suo studio imbiancato di fresco quando gli riferiamo le battute sulle illegalità dell’inchiesta. Finge chiaramente di apprenderle in quel momento e sogghigna a mezza bocca: “Vorrei proprio conoscere in dettaglio quali sarebbero le illegalità cui fanno riferimento i nostri critici. In realtà ne abbiamo molte di illegalità sotto gli occhi e riguardano comportamenti del passato. Finché la legge penale non cadrà in desuetudine, il mondo dell’illegalità starà lì, nelle cose e nei fatti di cui ci stiamo occupando”. È la prima volta che questo magistrato quasi invisibile, noto soprattutto per la sua prudenza e la sua discrezione, usa il rasoio contro chi critica l’inchiesta. Ho l’impressione che il ruolo non gli dispiaccia affatto. E ho quasi la certezza che quel ruolo possa trasformarlo in un grande comunicatore. In quelle ore, Giulio Anselmi pubblica sul Corriere un editoriale molto netto, “Di chi è la giustizia”, che traccia la linea ufficiale del giornale: ci chiama fuori dalla mitizzazione di Di Pietro ma chiede ad Acquaviva di produrre qualcosa di più di generiche accuse se vuole essere creduto. In realtà la vera notizia starebbe nella foto accanto al testo che gira in terza pagina: Di Pietro e il gip Ghitti insieme, sorridenti e sottobraccio alla festa dell’Arma; “due dei giudici che indagano sulle tangenti”, recita la didascalia, nella sostanza ineccepibile, nella forma giuridica gravemente sbagliata. Perché Di Pietro non è un giudice ma un pubblico ministero e perché Ghitti non dovrebbe indagare con Di Pietro ma giudicarne le indagini, essendo appunto il giudice delle indagini preliminari, il gip.

Questa confusione non scuote granché noi cronisti del pool, ma forse dovrebbe. Perché è il punto di caduta della storia del decennio precedente, che Anselmi sintetizza con efficacia nella prima parte dell’editoriale. La contesa comincia con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (nato dagli errori e dagli orrori del caso Tortora e voluto da Craxi nell’87) e si trascina fino alla battaglia sulla superprocura antimafia che avrebbe coinvolto Falcone. “In passato la maggioranza dell’opinione pubblica era assai ostile agli uomini in toga, spesso arroccati in una inaccettabile difesa dei loro interessi corporativi e non creduti neppure quando sostenevano che i politici volevano colpirli per motivi tutt’altro che nobili: svincolarsi da ogni controllo, impedendo ai magistrati di applicare la legge. Prendersela con i giudici, insomma, era politicamente redditizio. Oggi la situazione è radicalmente diversa…»

Tangentopoli vista da dentro: il libro di Goffredo Buccini in edicola con il «Corriere». MARCO IMARISIO su il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.

Siamo tutti reduci di qualcosa. E non c’è nulla di male. Abbiamo tutti una esperienza, lavorativa o di vita, e quasi sempre i due aspetti si sovrappongono, che ha in qualche modo definito quel che siamo, che ci ha segnato più di ogni altra vicenda. Goffredo Buccini, oggi editorialista e inviato del «Corriere», è stato un giovane redattore che all’inizio degli anni Novanta entrava nel palazzo di giustizia di Milano, intimidito dai suoi marmi razionalisti e dall’autorevolezza di colleghi più esperti di lui, convinti che la cronaca giudiziaria fosse ormai finita, non era più quella di una volta.

Il libro di Goffredo Buccini, «Il tempo delle mani pulite», sarà in edicola a partire dal 17 febbraio con il «Corriere della Sera» al prezzo di 12 euro. Il libro è realizzato in collaborazione con LaterzaNon sapevano di essere sull’orlo del vulcano. E ben presto la politica italiana e la società italiana sarebbero state travolte dalla sua esplosione. Non potevano immaginare che ben presto sarebbe cominciato un tempo nuovo, quello delle Mani pulite. Dopo, nulla sarebbe più stato come prima. Così la pensava Buccini in quegli anni, a dire il vero così la pensavamo tutti. Per chi cominciava a fare questo mestiere, e stava alla finestra, quella inchiesta e quel che stava succedendo, era tutto ciò a cui si poteva aspirare.

Goffredo Buccini è inviato speciale ed editorialista del «Corriere della Sera». Ha seguito in presa diretta per il quotidiano di via Solferino tutta la stagione di Mani puliteLa speranza di cambiare un mondo con i propri articoli, di redimere il proprio Paese dai suoi vizi endemici, si è rivelata una illusione. Poi venne la Seconda Repubblica e ora siamo nella Terza, e insomma, non rimane poi molto di quella stagione così aspra, se non una discussione ormai trentennale su quel che avrebbe potuto essere, e sugli errori e gli eccessi che lo hanno impedito. Ma il reduce Buccini non fa certo del reducismo, ai miei tempi era tutto più importante, eravamo tutti più bravi. Anche perché, a differenza di altri, lui è andato avanti, ha compiuto altri viaggi, altre esperienze, ha continuato a studiare.

Proprio per questo, Il tempo delle mani pulite (1992-1994) non è soltanto un libro di ricostruzione, di memoria e di riflessione su quella esperienza così importante. È anche un romanzo di formazione, è vita vissuta, elaborata con gli occhi di oggi, perché nessuno dovrebbe mai essere uguale al sé stesso giovane. Si cambia, si cresce, si diventa più consapevoli, così dovrebbe essere.

Anche chi ha trascorso gli ultimi trent’anni su Marte e non conosce Mani pulite dovrebbe leggere questo libro. Perché dentro ci sono tante altre cose. C’è quel rito così desueto in una società bloccata come la nostra, il passaggio del testimone tra diverse generazioni di cronisti, c’è la Milano degli anni Ottanta, forse da bere ma così orgogliosa di quel che era, fino a sconfinare nella presunzione, nel senso di impunità delle sue principali figure. C’è un percorso personale, raccontato senza sconti a sé stesso, con il quale è possibile immedesimarsi a prescindere dal proprio mestiere, con quella immagine del Duomo nella nebbia che per Buccini «è un ricordo di libertà, e di possibilità» che lo accompagna nei suoi primi anni, e chi non l’ha provata quella sensazione di Milano come terra promessa, che in qualche modo anche se non ci sei nato ti riconosce, come cantava Giorgio Faletti.

E poi, certo, Il tempo delle mani pulite è un bellissimo libro sul giornalismo. Sul senso di questo mestiere. Sulle scelte estreme che bisogna fare nel giro di dieci minuti, sulla fatica che ci vuole, per tirare fuori una notizia, scriverla, impaginarla. E subito pubblicarla, perché il frigorifero che le tiene al fresco consentendo di soppesarle e farle maturare non è stato ancora inventato. Quando, di preciso, abbiamo cominciato a pensare che «le carte» fossero l’unico prisma possibile per interpretare la realtà? Chi mette in circolo atti di procedimenti ancora aperti, brani di intercettazioni? Se ne discute da sempre. Anzi, da allora. Buccini lo sa, e lo racconta con episodi reali e senza fare teorie, come è cambiato il modo di fare cronaca e quali siano le conseguenze che ancora oggi paghiamo. Perché c’era quando tutto questo è cominciato, perché ha vissuto quell’epoca da protagonista, facendola coincidere per altri due anni con la sua vita, senza staccare, senza mai dormire tranquillo, con la paura del buco, la notizia mancante, sempre a ronzare nella testa.

L’opera che adesso viene pubblicata con questo giornale ha già fatto molto discutere, perché non si tratta di memorialistica, ma di una ricostruzione dei fatti che tiene conto di quel che sappiamo oggi, e di quel che siamo diventati. Buccini fa rivivere un’epoca che non considera più gloriosa come pensava allora. L’indignazione per quelle tangenti, per un malcostume noto a tutti e del quale nessuno parlava, era nell’aria. E non fu un bel sentimento collettivo. Produsse senso di onnipotenza nei magistrati, negli indagati paura di essere arrestati e messi alla pubblica gogna, con la confessione come unica via di uscita. Il popolo applaude, in Parlamento sventola il cappio.

I giornalisti di Mani pulite si sentono supereroi del fumetto che loro stesso contribuiscono a creare. Tempo per riflettere, non ce n’è, e in fondo nessuno vuole farlo. Ci sono invece i reati, dettaglio che troppo spesso oggi si tende a scordare, nell’autodafé del senno di poi. Buccini adotta la giusta distanza che all’epoca era oggettivamente impossibile mantenere. E nel farlo, scrive un libro al tempo stesso intimo e di interesse pubblico, che ci aiuta a capire davvero l’essenza di quel biennio così cruciale. E cosa ha significato, per tutti noi.

Mani Pulite trent’anni fa. Rivoluzione mancata che ha reso gli italiani più faziosi. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.  

Tutto cominciò a Milano il 17 febbraio 1992: il socialista Mario Chiesa riceve dall’imprenditore Luca Magni 7 milioni di lire in contanti. «Soldi miei» dice al capitano Zuliani che lo arresta. «No, sono nostri», replica il carabiniere. E parla a nome dell’Italia. 

30 luglio 1993: alcuni pm di Mani pulite in Galleria, nel centro di Milano, si dirigono verso il Duomo per partecipare ai funerali di Stato delle vittime della strage di via Palestro. Da sinistra Di Pietro, Colombo e il capo Borrelli

Quella sera a Milano c’è nebbia. Nella caserma della Celere di via Cagni, tra Bicocca e Niguarda, avvolge i lampeggianti delle volanti che scaricano 102 arrestati, una vera retata. Ed è rotta da un vocione che pare dirigere il traffico: «Di qua, di qua, portatemeli qua!». Si sbraccia Antonio Di Pietro mentre colloca nei loculi per gli interrogatori medici e notai, funzionari comunali, faccendieri e ispettori della motorizzazione catturati nell’inchiesta sulle patenti facili: un Caronte che smista anime in pena. Torchierà tutti quasi in contemporanea, saltabeccando da un terzo grado all’altro per contestare contraddizioni, e sbraitando a uso di noi cronisti, passati ... casualmente da quelle parti. Annoto con scrupolo, ma non capisco. Non ho gli elementi per rendermi conto che la sera del 1° dicembre 1987 sto assistendo alla nascita di un metodo: giudiziario e mediatico. Quando, oltre quattro anni dopo, mi ritrovo davanti quel semisconosciuto sostituto procuratore con astuzie da commissario messicano ed eloquio da presepe vivente, il metodo è perfezionato. E molte cose sono cambiate. Nel mondo, con la caduta del Muro di Berlino. E da noi: perché gli italiani cominciano a votare in libertà senza più lo spauracchio del comunismo.

Nuovo metodo e nuovo codice

Il nuovo codice di procedura penale (rito accusatorio, all’americana) ha ottenuto l’effetto contrario a quello che (occultamente) si proponeva: i socialisti al governo sognavano di ridimensionare i pubblici ministeri, facendone parti del processo pari agli avvocati; logico sarebbe stato alla lunga mettere i magistrati sotto qualche forma di controllo politico: prima che accadesse, i magistrati si sono messi a remare tutti assieme contro la politica.

QUEL GIORNO COMINCIO’ IL CROLLO DI UN SISTEMA DA CUI NASCERA’

UNA TRANSIZIONE CHE ANCORA OGGI NON SI E’ AFFATTO CONCLUSA

L’Italia ancora governata dal Caf (l’asse tra Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani) è attraversata da una crisi economica devastante: il premier socialista Giuliano Amato (braccio destro di Craxi) è stato costretto a una Finanziaria lacrime e sangue, la lira è uscita dallo Sme (il serpentone monetario progenitore dell’euro). Sono insomma finiti i soldi, sui quali si reggeva il patto degli anni Ottanta tra un sistema politico che otteneva consenso in cambio di debito pubblico, finanziamenti occulti in cambio di appalti truccati, e una popolazione ormai assuefatta all’assistenzialismo clientelare. Gli imprenditori si sfilano: i grandi perché sperano in una nuova Italia neoliberista che mandi al macero il keynesismo dei vecchi partiti e salti subito sul treno europeo del Trattato di Maastricht; i piccoli semplicemente perché strangolati da mazzette che non riescono più a pagare, in un Paese in cui il malcostume è diventato cavallo di battaglia di un comico genovese, Beppe Grillo, epurato dalla Rai per le sue barzellette anticraxiane.

Impresa di pulizia al Pio Albergo Trivulzio

Uno tra i più piccoli, Luca Magni, titolare di una ditta di pulizie che lavora col Pio Albergo Trivulzio (la Baggina, per i milanesi), non riesce più a sostenere l’ingordigia del patron dell’istituto, Mario Chiesa, socialista in rampa di lancio per Palazzo Marino e gran boiardo delle tangenti milanesi. Va dai carabinieri. Il capitano Roberto Zuliani lo porta da Di Pietro. Insieme firmano le banconote (sette milioni delle lirette d’allora) che Magni dovrà consegnare a Chiesa. Quando quello le prende, scatta il trappolone. «Sono soldi miei», dice il tangentista. «No, sono nostri», replica Zuliani a nome dell’Italia. È il 17 febbraio 1992, Mani pulite nasce così. E comincia così il crollo del sistema, da cui nascerà una transizione che ancora oggi, trent’anni dopo, non si è affatto conclusa. Finché il sistema teneva, nessuno aveva mai parlato, certo dell’impunità. Chiesa ci mette cinque settimane a San Vittore per capire che il sistema non tiene più e che il suo leader, Bettino, è così indebolito da doverlo insultare al tg («un mariuolo») per prenderne le distanze. 

Il crollo di Chiesa , tutti cella

Il 23 marzo, crolla. Parlerà per giorni, tirando dentro tutte le imprese che avevano rapporti col Trivulzio e attivando un meccanismo esponenziale, perché gli imprenditori chiamati in causa finiscono in cella e a loro volta parlano coinvolgendo altri ancora: per uscire. Solo chi confessa rompe il patto coi complici diventando inaffidabile: è la teoria di Piercamillo Davigo, il Dottor Sottile che, con il saggio Gherardo Colombo, il procuratore Saverio Borrelli affianca in pool Di Pietro quando, infine, si capisce che l’inchiesta è decollata e «i magistrati faranno centinaia di arresti e scriveranno un romanzo», come prevede il facondo avvocato Vittorio D’Aiello che intercettiamo nei giardinetti del carcere, tra un interrogatorio e l’altro dei suoi clienti. La novità sconvolgente è che per la prima volta in galera ci vanno tanti colletti bianchi, non più solo i barabba. Comincerà così, e durerà per mesi, la processione di “penitenti”, big indagati o solo sospettati che, per evitare il passaggio in carcere, si mettono in fila davanti all’ufficio di Di Pietro (la mitica stanza 254) assistiti da “avvocati accompagnatori”, legali amici della Procura aventi il solo vero mandato di verbalizzarne le confessioni.

Le elezioni e la Lega

Dopo le elezioni di aprile, che sanciscono la crisi dei partiti di governo e l’ascesa della Lega di Bossi, in poche settimane l’inchiesta travolge la politica milanese e poi quella nazionale, i tesorieri e i segretari di partito e i manager delle imprese maggiori: la spartizione è a monte, per quote fisse, con collettori designati dai segretari, e tiene dentro tutti, anche l’opposizione del Pci-Pds tramite cooperative.

Sotto il palazzo di giustizia di Milano cominciano a raccogliersi supporter, cortei, fiaccolate al grido di «Tonino salvaci dal male», si vendono magliette col logo di Tangentopoli, poster con le facce dei pm in versione Intoccabili , un film che spopola. Di Pietro, con la sua callidità da Bertoldo, diventa in breve l’eroe pop che dovrebbe vendicare gli italiani vessati dai partiti: la sua Montenero di Bisaccia sembra Camelot, la sua ostentata rudezza un antidoto marziale alle mollezze da fine regime della Prima repubblica. Una rappresentazione forzata, alla quale molto contribuiamo noi dei media, i primi talk show, la carta stampata. Noi, cronisti assegnati a questa storia, siamo quasi tutti giovanissimi e seconde firme: all’inizio nessuno credeva che Chiesa parlasse, così i big non erano stati mandati in campo; quando quello parla, noi abbiamo in mano tutte le fonti, così l’inchiesta non può togliercela più nessuno. Si tratta però di rischiare molto, raccontando dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno: non ha senso contenderci notizie, ha senso piuttosto controllare che siano tutte vere, che non ci lancino una “polpetta avvelenata” per intossicare l’intera narrazione (attorno al palazzo di giustizia corvi e volpi cominciano a raccogliersi in gran copia).

Il pool dei giornalisti

Una sera di primavera, al ristorante Gambarotta di via Moscova, nasce dunque il pool dei cronisti: reggerà bene il primo anno, la prima lunga ondata dell’indagine. Ma, certo, ci toglierà qualcosa; avendo quasi tutti la stessa formazione da sinistra studentesca, quasi tutti abbiamo gli stessi pregiudizi: il nostro Craxi “ideale” assomiglia molto a quello delle caricature di Forattini, gli imprenditori a certi caratteristi della Piovra. Siamo decisi a salvare il mondo per via giornalistica. Poiché l’inchiesta sembra regalarci proprio la verità che abbiamo già in testa, quasi nessuno di noi sente il bisogno di guardarla anche da qualche altra angolazione: il bene di qua e il male di là, è manicheismo giovanile.

NOI CRONISTI SIAMO GIOVANISSIMI, CON UN PASSATO NELLA SINISTRA STUDENTESCA: NON SENTIAMO IL BISOGNO DI DARE ALTRE ANGOLAZIONI

Sicché del memorabile discorso del leader socialista alla Camera, il 3 luglio, cogliamo solo la disperata e vana chiamata di correità davanti a colleghi muti e atterriti («se gran parte di questa materia va considerata criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale») e non, anche, la portata visionaria per quanto allucinata (da allora in avanti, la politica sarà sterco del demonio per tanti, troppi italiani). Quando ad agosto, isolato e ormai col fiato dei pm sul collo, Craxi lancia quattro corsivi sull’ Avanti per sostenere che Di Pietro non è forse l’eroe che pensiamo, elencando una lunga serie di suoi rapporti pregressi nello stesso milieu milanese poi oggetto dell’inchiesta, noi derubrichiamo tutto a fango. E, certo, il fine di Craxi è quello, infangare. Ma noi non ci domandiamo se in tanto fango ci sia qualche fiorellino di verità, non rilevante penalmente, s’intende, ma significativo sul piano dell’immagine se non della deontologia. Così, un po’ tradiamo i lettori o, almeno, impediamo alla parte più moderata di essi di avere un punto di vista completo, distante dalle fazioni che già si vanno delineando. Neppure sui suicidi, che iniziano quell’estate, ci soffermiamo a riflettere.

Il calderone

Il deputato socialista Sergio Moroni ammette, nella lettera d’addio al presidente della Camera, Giorgio Napolitano, di avere preso 200 milioni (di lire) per il partito. Ma non è un ladro, per sé non ha intascato un soldo. Sui media dovremmo distinguere meglio, proteggere le dignità: tutto finisce in un calderone da dove la rabbia popolare attinge. Ormai il piano è inclinato, verso l’inevitabile. Craxi prende il primo avviso di garanzia a metà dicembre 1992: molti gli appioppano l’infame soprannome di Cinghialone, l’obiettivo della caccia. Non c’è da stupirsi se, quando la Camera ne nega, ad aprile ‘93, l’autorizzazione a procedere, una folla inferocita lo copra di sputi e monetine davanti all’Hotel Raphaël, sua abituale residenza romana.

Il sistema è in ginocchio. E, come spesso in simili frangenti, in Italia si muovono forze oscure. Se il primo anno è stato segnato dagli attentati a Falcone e Borsellino, la seconda estate dell’inchiesta risuona delle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. Nella città di Mani pulite, un’autobomba davanti alla villa comunale fa cinque morti e dodici feriti. Due giorni dopo, ai funerali solenni, i milanesi seguono in un corteo spontaneo Borrelli e gli altri magistrati del pool, inneggiano a Di Pietro, invocano la forca, coprono di fischi e insulti le autorità dello Stato.

DI PIETRO È IL CAMPIONE DEL PAESE REALE ANTI ÉLITE E IL DIPIETRESE UN MIX DI PROVERBI DELLA NONNA E STRAFALCIONI FORSE STUDIATI

L’onda giustizialista

Nemmeno altri due suicidi eccellenti, quello del finanziere Raul Gardini e del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, invertono la grande onda giustizialista che sembra conquistare il Paese. Le vere esequie della Prima repubblica si celebrano pochi mesi dopo, in diretta tv. Al primo processo per la maxitangente Enimont (i 150 miliardi versati da Gardini ai partiti per sciogliersi dalla letale joint venture con la mano pubblica), Di Pietro decide di portare alla sbarra un solo imputato, il finanziere Sergio Cusani, consulente di Gardini, e tutti i segretari di partito come testimoni. In decine di udienze trasmesse al mattino da Un giorno in pretura , gli italiani vedono così i potenti d’un tempo flagellati dal loro amato pm: che li umilia (tutti tranne Craxi), sfoggiando per l’occasione il dipietrese, un mix di proverbi della nonna, imprecazioni, sbuffi e strafalcioni forse anche studiati, che ne accentuano la distanza di campione del Paese reale (che «parla come mangia») dall’élite tanto deprecata. Le forche caudine vengono però risparmiate al Pci-Pds: questo, oltre a generare polemiche che durano tuttora, convincerà gli eredi di Berlinguer e della sua questione morale di avere infine la via spianata (dai giudici) verso la conquista del potere. Achille Occhetto arma la sua «gioiosa macchina da guerra», che diventerà invece simbolo di sconfitta.

L’arrivo dell’imprenditore populista

Perché le elezioni di marzo ‘94 (le prime con un sistema a prevalenza di maggioritario) dimostrano che dalla caduta di un sistema parlamentare nessuno di quel sistema si salva. E consegnano il Paese al primo vero populista della nostra Repubblica, Silvio Berlusconi: imprenditore non certo osteggiato dai vecchi partiti, amico personale di Craxi, e tuttavia capace, con uno straordinario illusionismo politico e televisivo, di convincere milioni di italiani di essere una specie di maverick, un anticonformista, portatore di un ossimoro, la rivoluzione liberale. I lunghi mesi di tensione del suo governo con il pool sfociano nell’invito a comparire che Borrelli e i suoi gli fanno recapitare mentre è a Napoli, presiedendo per l’Italia un vertice mondiale sulla criminalità (sfregio che lui mai perdonerà) e nell’inopinato addio alla toga di Di Pietro, proprio a ridosso dell’interrogatorio cui il pm avrebbe dovuto sottoporre il premier (dopo avere annunciato ai colleghi «quello lo sfascio»). È un’Italia smarrita e avvelenata, quella che esce infine dai due anni più turbolenti della sua storia repubblicana, il 1992-94.

Due falsi miti

Gravata nei decenni successivi da due miti fasulli e contrapposti: il golpe giudiziario (mai avvenuto, poiché i partiti si suicidarono tramite corruzione e degrado morale) e la Mani pulite “mutilata” da un sistema ricompattato (altra fandonia, poiché a fermarla furono l’ambigua defezione di Antonio Di Pietro e la caduta di consenso tra cittadini stufi della mistica delle manette). Dopo stagioni di berlusconismo e antiberlusconismo, giustizialismo di piazza e garantismo peloso, retorica del vaffa e partitocrazia senza ormai partiti, l’etica pubblica è svanita quasi del tutto, la corruzione è più diffusa di prima e ha infettato perfino la magistratura: l’illusione di riformare un Paese per via giudiziaria mostra oggi tutte le sue falle. Più che un clamoroso processo in tv servono molte discrete ore di educazione civica in classe. «Sei un rinnegato», mi dice con ostinazione un vecchio cronista del nostro pool. Qualche orologio è rimasto fermo all’ora di trent’anni fa.

Mani pulite, 30 anni dopo: le tappe e i numeri. Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.  

Tangentopoli, Di Pietro vs Buccini: “Smettila di fare complottismo”. “Acrimonia inutile”. Gisella Ruccia su Il Fatto Quotidiano il 30 marzo 2015. 

Scontro concitato in più momenti tra l’ex leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, e il giornalista del Corriere della Sera, Goffredo Buccini, a L’aria che tira (La7). Il tema del dibattito verte sull’eredità di Mani Pulite, che Di Pietro difende appassionatamente, smentendo, in primis, la sua fama di pm “cattivissimo”. Poi spiega la frase di Piercamillo Davigo (“Rivolteremo l’Italia come un calzino”): “Significava voler andare a fondo delle indagini”. Buccini puntualizza: “Voleva anche dire rivoltare moralmente l’Italia, un’idea evidentemente sbagliata“. “Sono proprio curioso di vedere che ti inventi”, ribatte Di Pietro, che rinfaccia al giornalista il suo celebre scoop sull’avviso di garanzia all’allora premier Silvio Berlusconi (Fi), mentre guidava a Napoli un vertice sulla criminalità. Il dibattito esplode quando l’ex pm parla dell’operato del suo pool: “Prima di occuparci di Mario Chiesa, a Milano avevamo fatto tante inchieste. Buccini se lo dovrebbe ricordare, invece di teorizzare complotti politici e di fare il maestro. Eravamo solo funzionari dello Stato che facevano il loro dovere”. E, commentando un articolo dello stesso Buccini, rincara: “La mancata sconfitta della corruzione? E che è, colpa nostra? Andate a leggere i giornali oggi. Tutti pieni di questo fatto: ‘Avete sbagliato’. Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto fare, fino a quando l’abbiamo potuto fare. Se andate a leggere tutte le carte, vi accorgete che, man mano che siamo andati avanti, ci siamo soltanto dovuti difendere”. Buccini replica: “Mi sembra che da parte tua ci sia dell’acrimonia inutile“. E spiega il suo punto di vista, stigmatizzando l’entrata in politica dell’ex pm  di Gisella Ruccia

Il tempo delle mani pulite. 1992-1994 di Goffredo Buccini

Recensione del libro. Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia. È stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione e degli intrighi, l’illusione secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia. A costruire questa mitologia furono la carta stampata e le televisioni. E questa è la loro storia.

Trent’anni fa un giovane giornalista del “Corriere della Sera” viene assegnato alla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano. Siamo nel 1992 e la grande Storia ha deciso di mettersi improvvisamente in movimento e di farlo proprio a partire da qui. Nasce Mani pulite e a raccontarla è una banda di giornalisti ragazzini, i ‘mozzi’ delle diverse redazioni lasciati a seguire quelle che in un primo momento erano apparse come indagini senza futuro. Come un romanzo di formazione, li vediamo confrontarsi con i protagonisti di quei giorni, alle prese con la ruvida genialità di Di Pietro e le enigmatiche strategie di Borrelli, gli iperbolici paradossi di Davigo e l’amara saggezza di Colombo. Attorno, imprenditori e politici, avvocati e spioni, faccendieri e boiardi compongono una polifonia che non fa sconti su errori e orrori, dagli eccessi negli arresti alla catena di suicidi. Un’Italia dove si staglia la figura drammatica di Craxi e già emerge quella affabulatrice di Berlusconi; l’Italia scossa dagli attentati a Falcone e Borsellino e dalle stragi del ’93; quella della gogna per la Prima Repubblica in diretta tv al processo Cusani. È un racconto che abbraccia la vita di redazione di un grande giornale e le avventure sulle tracce dei latitanti di Santo Domingo. Trent’anni dopo, sarà solo la delusione di un gioco a somma zero.

Riduci

Una triste storia italiana. Il tempo di mani pulite e gli errori eterni del giornalismo giustizialista. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 30 Dicembre 2021.

Il libro di Goffredo Buccini dedicato a Tangentopoli, come quello di Mattia Feltri sul 1993, è un ottimo modo per ripercorre come in quegli anni i principi base dello stato di diritto sono stati calpestati in nome di un repulisti generale. Dovrebbero leggerlo i cronisti di oggi che hanno conosciuto non la tragedia, ma la sua ripetizione in farsa.

Nel 2022 saranno trascorsi 30 anni dalla discussa epopea di Mani pulite ed è prevedibile una ulteriore proliferazione di libri dedicati al Sacro Evento. Ulteriore, perché già ne sono usciti molti, quasi tutti di giornalisti o testimoni vari, in genere un po’ contriti per aver partecipato in modo acritico al banchetto retorico dell’epoca, i cui veleni hanno poi sparso, fino ai giorni nostri, conseguenze sulla vita pubblica (Regioni che cambiano colore politico in attesa che il Presidente arrestato venga infine assolto per non aver commesso il fatto) e purtroppo su quella privata di tanti.

Il suicidio di Natale del consigliere regionale piemontese Burzi assomiglia a un ultimo frutto tragico, coda interminabile anche di morte (44 casi, con questo), di quell’impasto mediatico giudiziario che ha radici nel doppio pool, giudiziario e giornalistico, che si occupò della questione dal 1992 al 1994. Nell’immaginario collettivo sono rimaste le mutande verdi del presidente leghista del Piemonte e tutti giù a ridere. Ma di cosa? Andrebbe davvero rivista e meglio approfondita anche questa rimborsopoli: spese definite legittimamente discrezionali, diventate peculato e variamente sanzionate a seconda delle Regioni, dell’esibizionismo dei pm e dei timori reverenziali dei giudici (nel caso Burzi: assoluzione, condanna, rinvio, condanna).

Della abbondante letteratura che si è occupata e sta occupandosi della questione, si segnalano in particolare due testi che meritano attenzione: “Novantatrè” di Mattia Feltri e il più recente “Il tempo delle mani pulite”, di Goffredo Buccini. Dicono cose simili, ma in modo molto diverso. Feltri ha inferto a sé stesso il supplizio di rileggere giorno per giorno l’agenda di quell’anno fatidico, reinterpretando gli appunti e gli articoli dell’epoca, propri e altrui, fino a rovesciarne spesso completamente il senso iniziale. Una specie di autofustigazione, un rimasticare le passioni violente di quei momenti, una espiazione da deglutire boccone per boccone, rospo per rospo.

Un esercizio che non sarà piaciuto ai tanti non pentiti di questa triste storia italiana, che non hanno nessuna voglia di rimettere in discussione qualcosa che la volontà generale ha già battezzato per sempre. Molto italianamente, si è storicizzato quell’evento al più come un eccesso necessario, un uscire dalle righe di gravità veniale, a fin di bene. È anche l’autoassoluzione degli stessi protagonisti: mica verranno a contestare a noi qualche forzatura del codice di procedura rispetto al codice penale, quello si, violato da corrotti e corruttori!

Nessun riferimento al fatto che la procedura è sostanza, e violarla significa cancellare gli assi portanti dello stato di diritto, conquista della civiltà giuridica, anzi della civiltà tout court. Che sarà mai? Stiamo a guardar il capello. Il giudice naturale spazzato via dal giudice per le indagini preliminari tuttofare, la custodia cautelare come strumento per sciogliere la lingua. Noi siamo i buoni, c’è stato ben altro, sul fronte dei cattivi!

Di queste forzature è ben consapevole Goffredo Buccini, che nel suo libro sceglie un approccio descrittivo più problematico, meno godibile di quello scoppiettante di Feltri, infarcito da citazioni e dichiarazioni Ansa dell’epoca che farebbero accapponare la pelle a un padre della Patria come Piero Calamandrei o all’autore del moderno codice penale, Giuliano Pisapia, ma forse anche al grande giurista del regime, Alfredo Rocco.

In modo molto sofferto e profondamente argomentato, Buccini ripercorre le vicende di quegli anni sfogliando non solo la propria memoria ma i ragionamenti, le riflessioni e un po’ anche i pregiudizi, le parzialità che lo avevano portato in quei momenti a giudicare in un certo modo i fatti che raccontava, giovane cronista tra l’incudine di Palazzo di Giustizia e il martello di un direttore, Paolo Mieli, che incombeva da via Solferino come un ascetico abate del nome della rosa, sempre imperscrutabile nella sua algida severità, disponibile a un buffetto amichevole solo in occasione dei numerosi scoop del cronista (le numerose interviste esclusive a Francesco Saverio Borrelli, la caccia ai latitanti di Santo Domingo).

Trent’anni dopo, le aberranti promesse di Piercamillo Davigo sull’Italia da rivoltare come un calzino, i cinici commenti di Gerardo D’Ambrosio per i suicidi evidentemente frutto della vergogna, i foruncoloni di Bettino Craxi irrisi da Antonio Di Pietro, possono essere riletti con distacco critico, ma in quel momento era oggettivamente impossibile qualunque obiezione.

L’aria era soffiata dall’indignazione, il peggiore sentimento collettivo che possa emergere in un popolo. Come la contestazione a Craxi davanti al Raphael, replica vergognosa di un eterno piazzale Loreto.

Le obiezioni odierne di Buccini al giornalismo dell’epoca, a cominciare da sé stesso, sono argomentate e sofferte – bisognerebbe le leggessero i cronisti della generazione successiva che hanno conosciuto non la tragedia, ma la sua ripetizione in farsa – ma nessuno in quella fase osava alzare il sopracciglio. Il pool, guidato dal moderato e aristocratico Borrelli, sembrava il politburo di un golpe quando si presentò alle telecamere per ricattare Governo, presidente della Repubblica con la penna già in mano, Parlamento, partiti e democrazia intera: se non ci fate più arrestare la gente per violazione del finanziamento dei partiti (per poi farli cantare in cella), noi ci dimettiamo e vedetevela voi con il popolo.

L’ordine giudiziario, funzionari statali scelti per concorso, che alzava la voce, sudato e affranto, in diretta TV, per intimidire gli unici poteri riconosciuti come tali dalla Costituzione.

Un appello furbastro alle casalinghe infuriate, agli imbrattatori di cavalcavia inneggianti a Di Pietro, al popolo dei fax che a spese del proprio ufficio, mandava lenzuolate a Palazzo di Giustizia, ai fiaccolatori della notte, ai tanti italiani sollevati dall’idea che le loro marachelle fossero ben poca cosa rispetto ai ladri di stato.

Popolo contro casta, un anticipo e un investimento sul primo comico che si fosse fatta venire l’idea di organizzare questa protesta all’insegna del fatti più in là, che tocca a me, perché l’onestà è tutta da una parte sola. Ma non si creda che il libro di Buccini sia la confessione di uno che ci ripensa, che vuol mettersi in pace con degli errori fatti in gioventù.

Il libro non cancella affatto quegli articoli scritti di getto, poco prima della chiusura del giornale. Li integra, li completa, consente di vedere i fatti da tutte le angolazioni ed è questo il suo contributo più importante alla ricostruzione della verità fattuale.

Le sue denunce sull’orrendo clima dell’epoca tengono dentro di sé anche le buone ragioni di una lettura critica di un contesto, e comunque non c’è alcuna intenzione di riabilitazione. I reati che c’erano, c’erano. L’omertà del sistema del cosi fan tutti erano un collante da sciogliere, ed era giusto farlo. Buccini non è insomma un Di Maio, che per convenienza dei tempi nuovi si converte al contrario di tutto ciò che lo ha portato al successo, uno che pensa che – per andare avanti e rinnovare il consenso – basta chiedere scusa, tenersi i voti raccolti con il populismo e praticare con compunzione, in giacca e cravatta, il più bieco conformismo del potere, auto blu e lottizzazione compresi.

Buccini non chiede scusa. Spiega a posteriori, e ci aiuta a capire.

Non è poco, e anche solo per questo val la pena di leggere un libro ben scritto, che serve anche a ricordare fatti e concatenazioni che tutti abbiamo un po’ dimenticato. È una ricostruzione che può illuminare meglio la storia recente d’Italia. Un solo errore, tra tanto anticonformismo: aver raccontato senza variazioni la storia della madre di tutte le tangenti, cioè la vicenda Enimont, cadendo nell’inganno che il processo Cusani sia stato anche il processo Enimont. Buccini è peraltro in buona compagnia, perché ripete quello che hanno detto e continuato a dire tutti i commentatori. Peccato, in un libro tanto controcorrente. Sarà per la prossima volta, dopo aver letto la sentenza Simi De Burgis, Cappelleri, Gatti, che parla non di una maxitangente ma di una molto successiva appropriazione indebita di privati versi altri privati. Meriterebbe un libro a sé.

Tangentopoli e i cronisti, il terremoto visto da Napoli: «Quelle urla in Procura...» Antonio Menna su Il Mattino Domenica 16 Gennaio 2022

Aleggia con dolcezza il fantasma di Giancarlo Siani, in questo bel libro di Goffredo Buccini, inviato ed editorialista del Corriere della Sera, origini napoletane e una carriera intera tra Milano e Roma. È una stella polare, Siani, che compare qui e là nel libro, quasi a voler raccontare la via di una generazione verso l'ambita professione. Cosa sarebbe stato se non avessi preso la strada per Milano, per quella scuola di giornalismo i cui diplomati sono stati poi tutti assunti? Che giornalista sarei diventato? Che opportunità avrei avuto? Con una domanda nella domanda: e se fossi stato al posto di Giancarlo, nelle periferie, nella rampa di accesso più estrema e contorta, così a ridosso del pericolo e della solitudine? Quanto poco è mancato perché lo fossi? Quasi come a dire che, per quella generazione di giornalisti non figli di giornalisti, che avevano la grande ambizione di entrare in una redazione, la vita era testa o croce. Testa ce la fai, croce no. A Buccini è uscito testa. A queste domande sull'esistenza e sul mestiere, sulle ambizioni e sulle vocazioni, sembra voler rispondere lungo tutto il libro, che annuncia di voler raccontare un'altra storia - un saggio storico su Mani pulite, l'inchiesta milanese che ha dato il via a Tangentopoli - mentre ci consegna un romanzo di realtà sui giornalisti che hanno raccontato Mani pulite, che si sono formati nell'altoforno del cambiamento d'epoca, e che poi hanno continuato a informare un Paese ubriaco di speranze e tramortito dalle delusioni, dove speranze e delusioni erano personali e universali. 

Per questo soprattutto vale la pena leggere Il tempo delle mani pulite (Laterza): non solo la memoria di una inchiesta giudiziaria che ha attraversato il Paese, scomponendolo, e di cui forse si è detto quasi tutto; ma l'epica di un giovane cronista di origini napoletane a Milano, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia, nella retrovia del più grande quotidiano italiano, accanto a veterani e nuove leve, a guardare la storia formarsi e formarsi lui stesso nella storia. Hanno sempre un grande fascino i racconti delle vite minime, personali, quando incrociano i grandi momenti collettivi. Buccini avanza con lo sguardo timoroso e spavaldo al tempo stesso, quello di un giovane trentenne uscito da pochi anni dalla scuola di giornalismo, approdato dopo un po' di gavetta al Corriere della Sera. È una epopea di capicronisti burberi e leali, come Ettore Botti, altro napoletano (calvinista) a Milano, detestato, temuto, amato, rispettato, quasi un prototipo di giornalista della fatica e del sacro fuoco, che muore troppo presto, anche un po' di solitudine. Buccini ci porta dentro la formazione di un giornalista, ed è molto affascinante questo viaggio nella professione. È un libro che deve leggere chi vuole fare questo mestiere: anche se il mondo è cambiato, sono cambiati i giornali, non è cambiato lo spirito, direi l'anima, del mestieraccio, e qui emerge tutta, col suo carico di dubbi, paure, guasconerie, sfide, trucchi, sussulti di coscienza, agendine nascoste, questioni di principio, vittorie, sconfitte, quasi mai un pareggio. L'esperienza di Buccini in quella sala stampa del Palazzo di Giustizia milanese, proprio quando da lì sta per venire giù il mondo, viene raccontata come deve essere: un cammino di formazione. 

Un romanzo dove i protagonisti sono colleghi come Peter Gomez (stessa scuola, quasi compagni di banco). E Piero Colaprico, Luca Fazzi, un laborioso e sardonico Alessandro Sallusti: rivalità, ostilità, amicizie, rispetto. E per una volta sullo sfondo, strano a dirsi, i protagonisti di quella storia. I politici, come Pillitteri, Tognoli, ovviamente Craxi. I magistrati, con i loro caratteri, raccontati sul particolare, come Di Pietro, Borrelli, Colombo, Davigo, D'Ambrosio, ma anche Ghitti, e la Boccassini, il suo atto d'accusa dopo la morte di Falcone, e l'amarezza di Falcone stesso, quando riceve al Ministero della Giustizia, guidato dal socialista Martelli, atti da Milano senza gli allegati, perché magari poteva spifferarli proprio ai socialisti. Lui. Falcone. 

E raccontata oggi, questa storia, ti mette davanti alla realtà a volte misera degli uomini, piccola, incapace di leggere la grandezza quando questa si manifesta. Tutto il libro di Buccini, seguendo un appassionante registro cronografico - dai primi anni Novanta con un capitolo finale sui 30 anni dopo - è una saggia mescolanza tra fatti minimi e fatti grandi, con l'inchiesta che parte timida, con la disillusione dei capi, quella Duomo connection che sfiora i vertici e tutti credono vada a tacere come sempre, fino a Mario Chiesa, con quella parola (mariuolo) che se Craxi non avesse pronunciato, forse non si sarebbe aperto il libro delle confessioni, tenuto ben vivace dal poliziotto Di Pietro. Insomma, c'è tutta la storia, nel racconto di Buccini, ma c'è soprattutto uno sguardo diverso. Muta il punto di vista rispetto a come ci è stata raccontata Mani pulite fino a oggi. Non è un resoconto esterno ma un origliare dalla stanza accanto. Sembra di stare lì, vicino alla 254 (ufficio laboratorio di Di Pietro), sembra di sentire le urla, sembra di capire, da un caffè al bar, da una telefonata a gettoni, da un dubbio, dalla paura di prendere un buco, dal titolo sparato con coraggio, che la storia poi quando si forma, lo fa proprio così: piano, lenta, dubbiosa, a piccoli passi sulle spalle degli uomini come Giancarlo Siani, che viene citato spesso, o come lo stesso Buccini - che imparano a fare tutto quello che stanno facendo già. 

Gli anni delle Mani pulite in un libro di revisionismo (e pentitismo) giornalistico-manettaro. SALVATORE MERLO il 2 novembre 2021 su Il Foglio.

Da Davigo a Mieli, da Borrelli a Boccassini: l'ultima opera di Goffredo Buccini ripercorre gli anni di Tangentopoli. Nei suoi punti più illuminanti, non mancano i ripensamenti di un cronista di quel “pool di giornalisti “che alla procura di Milano affiancò il “pool dei magistrati”

Quando la cacciò dal pool antimafia di Milano, nel 1991, Francesco Saverio Borrelli spiegò la scelta con questo motivo dichiarato: “L’individualismo, la carica incontenibile di soggettivismo, di passione, la non disponibilità al lavoro di gruppo… La mancanza di freddezza e di controllo nervoso… La scarsa volontà di porre in comune risultati, riflessioni e intenzioni”. Questo ritratto di Ilda Boccassini fatto dal procuratore Borrelli, ritratto in cui non si faticherà a riconoscere ancora oggi l’ex magistrato impegnata a raccontarsi in televisione da Enrico Mentana pure ieri sera come protagonista principale della storia d’Italia degli ultimi trent’anni (fino al cattivo gusto di strumentalizzare il nome di Giovanni Falcone per farsi pubblicità), ebbene questo ritratto così calzante e attuale è contenuto in un bellissimo libro di Goffredo Buccini, uscito da poco per Laterza: Il tempo delle mani pulite (1992-1994). 

Si tratta della biografia d’una procura, quella di Milano, fotografata negli anni determinanti in cui crollava la Prima Repubblica ma si ponevano anche le premesse per la delegittimazione cui sarebbe incorsa la magistratura italiana negli anni immediatamente successivi, fino a oggi, tra eccessi di protagonismo, inchieste farlocche, uso politico dell’azione giudiziaria, carrierismo e quant’altro. Un libro in cui, dunque, ricorrono oltre a quello di Ilda Boccassini soprattutto i nomi dei protagonisti di allora, da Francesco Greco a Piercamillo Davigo, fino a Gherardo Colombo: l’unico pm  del pool  che si è elegantemente sfilato dalla magistratura prima che emergesse il marciume. Lui infatti usciva da galantuomo, mentre Davigo e Greco quella stessa magistratura la scalavano (Di Pietro aveva già fatto in tempo a fare due volte il ministro). 

Ma quello di Buccini, oggi inviato del Corriere della Sera, è forse soprattutto un interessante diario a ritroso di quel periodo. E’ la storia ri-raccontata, riletta (o meglio rivissuta) da parte di uno dei giovani cronisti che in quegli anni di furore cavalcarono professionalmente il drago giudiziario entrando a far parte, a Milano, del “pool di giornalisti “che affiancava il “pool dei magistrati” e che dunque offriva quotidianamente scalpi di democristiani e socialisti a un’opinione pubblica assetata di sangue. A trent’anni di distanza Buccini (che con Gianluca Di Feo diede sul Corriere della Sera la notizia del primo avviso di garanzia a Berlusconi nel 1994) fa dunque un prezioso, documentato, vivace – e onesto – esercizio di revisionismo sugli eccessi giudiziari e sul ruolo militante dell’informazione in quegli anni. Persino sul suo giornale, il Corriere diretto da Paolo Mieli. 

Anche se l’autore non lo ammetterebbe nemmeno a se stesso. “Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Michele Brambilla, un cattolico per bene vicino a Comunione e liberazione, noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra”, scrive infatti a un certo punto Buccini con il passo appunto del diario. E poi: “In qualche modo l’inchiesta contiene almeno in potenza la conferma del male che abbiamo sempre pensato di certi socialisti craxiani traditori della nostra causa, certi andreottiani mafiosi, certi imprenditori tentacolari e, in generale, di un potere costituito che sempre si oppone alle ‘magnifiche sorti e progressive’ di cui abbiamo deciso di essere alfieri sin dei licei e delle università”. E ancora: “Bisogna ammettere che dall’arresto di Chiesa in avanti abbiamo perso qualcosa di essenziale della nostra funzione, guardando troppo spesso in una sola direzione e non consentendo a tanti lettori moderati non militanti di formarsi un’opinione davvero indipendente”. Ecco, questo grado di consapevolezza e di onestà ce l’hanno avuto in pochi finora. Tra i magistrati, nessuno.  

Salvatore Merlo. Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.

Mani pulite, coscienza sporca: analisi della rivoluzione per via giudiziaria. GIOVANNI FIANDACA il 19 novembre 2021 su Il Foglio  

La presunzione di potere rivoluzionare un paese intero per via giudiziaria si è rivelata uno zibaldone di errori e giudizi sommari. Il gran libro di Goffredo Buccini, entusiasta della prima ora convertito al realismo 

Èancora diffusa una narrazione, alimentata non a caso da alcuni esponenti della magistratura, noti anche per la loro esposizione mediatica, che somiglia a una favola e che può essere sintetizzata così. Ci sono stati negli ultimi decenni, e ci sono tuttora nel nostro paese, pubblici ministeri coraggiosi che hanno tentato e tentano di esercitare un controllo di legalità esteso al potere politico-amministrativo e a quello economico-finanziario. Ma gli appartenenti agli ambienti che temono questo controllo, simili ai cattivi delle favole che si coalizzano contro i buoni, fanno di tutto per bloccare le indagini giudiziarie, in combutta con criminali di varia specie e con la collaborazione di settori istituzionali “deviati” (a riprova della persistente attualità di questa vulgata si veda, ad esempio, l’intervista rilasciata da Nino Di Matteo al Fatto del 1° novembre scorso).    

Che le cose possono essere abbastanza più complicate di quanto vorrebbero far credere i narratori della favoletta moralisticamente semplificatrice di cui sopra ce lo dicono però la storia e la stessa esperienza umana, da cui traiamo l’insegnamento che quasi mai il bene sta tutto da una parte e il male dall’altra. Di questa vecchia verità fornisce significative conferme il recente libro “Il tempo delle Mani Pulite”, scritto da Goffredo Buccini ed edito da Laterza (ne ha già parlato su questo giornale, definendolo bellissimo e prezioso, Salvatore Merlo in un articolo del 2 novembre). In effetti, si tratta di un libro ben fatto e la cui lettura risulta utile sotto più angolazioni. Non solo cioè in chiave di importante testimonianza, essendo stato Buccini trent’anni fa un componente di primo piano del pool di “giornalisti ragazzini” addetti a seguire le indagini su Tangentopoli della procura milanese, capeggiata allora da Saverio Borrelli e simbolicamente rappresentata soprattutto da Antonio Di Pietro. Il maggiore valore del libro risiede, anche a mio avviso, nell’avere Buccini sottoposto a revisione critica, con lucidità e onestà intellettuale, un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico che lo aveva entusiasmato e profondamente coinvolto, anche in termini di piena condivisione ideale di una “rivoluzione giudiziaria” che appariva – almeno nei primi tempi – davvero volta e idonea a promuovere quel rinnovamento politico e quella rigenerazione morale di cui un’Italia percepita come sempre più marcia e corrotta avrebbe avuto bisogno. Solo che, riconsiderando a tre decenni di distanza quella straordinaria stagione di grandi aspettative (destinate però a rivelarsi in gran parte illusorie), Buccini prende realisticamente atto che tentare di “raddrizzare per via giudiziaria il legno storto dell’umanità è sempre una pratica che rischia di sfuggire al controllo di chi la applica”. Ma vi è di più. Anche se nel libro lo si adombra o accenna più di quanto non lo si riconosca espressamente, l’analisi che vi è sviluppata finisce anche col suffragare la fondatezza della tesi che fa risalire all’esperienza di Mani Pulite la genesi o l’aggravamento di alcune delle principali patologie di cui il sistema giudiziario e, più in generale, il nostro complessivo sistema democratico continuano a soffrire. Di quali patologie si tratti è facilmente intuibile, ma forse non è superfluo esplicitarle ancora una volta.    

Come primo fenomeno patologico consideriamo i danni o pericoli prodotti dal circuito mediatico-giudiziario, che la lettura del libro qui in discussione pone in evidenza in maniera difficilmente eguagliabile. La lucida e onesta narrazione di Buccini fornisce, infatti, un’emblematica riprova di come la cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite non si sarebbe potuta realizzare senza il complice sostegno sistematico di un gruppo di giovani giornalisti: per lo più, e non a caso, con formazione politica di sinistra, in qualche modo pregiudizialmente convinti che l’inchiesta milanese potesse confermare diffusi sospetti preesistenti su malaffari e malefatte – per dirla con le parole del libro – di certi socialisti traditori della causa, di certi andreottiani maleolenti e di certi imprenditori tentacolari (un pregiudizio, questo, che – come oggi Buccini riconosce – rischiava di inficiare l’obiettività del lavoro giornalistico nei suoi successivi sviluppi). Ma Mani Pulite ha anche fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato il duplice effetto, da un lato, di proiettare fuori dall’aula di tribunale lo scenario giudiziario e, dall’altro, di rendere i magistrati d’accusa personaggi sempre più simili a tribuni del popolo che impersonano ruoli politico-mediatici che si sovrappongono confusivamente ai ruoli giuridico-istituzionali. In particolare poi la trasmissione televisiva del processo Cusani, riletta in una prospettiva sociologica e semiologica, ha dato esemplare dimostrazione dell’attitudine di un processo mediatizzato gestito con abilità scenica a fungere da “rituale di degradazione” in grado di discreditare agli occhi del pubblico, al di là dei singoli imputati coinvolti, un’intera classe politica simbolicamente additata come corrotta e imbelle (come notato nel libro di Pier Paolo Giglioli e altri, “Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani”, il Mulino, 1997).    

Un secondo fenomeno sotto diversi aspetti patologico, strettamente connesso al primo, è costituito dalla tendenza a concepire e utilizzare il processo penale non solo come mezzo di lotta contro fenomeni di criminalità sistemica, ma al tempo stesso come strumento di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva (anche di questa tendenza o tentazione, il libro di Buccini offre numerosi riscontri concreti, sia espliciti sia impliciti o per facta concludentia). Sappiamo che in proposito, specie sul versante magistratuale, si suole ricorrere a un ben noto argomento autodifensivo: è lo stesso potere politico a delegare di fatto ai giudici la gestione dei mali sociali che esso non riesce ad affrontare e i problemi che non riesce a risolvere; per cui non è la magistratura a compiere invasioni di campo, bensì una politica debole e inetta a non avere la capacità di assolvere i propri compiti, e meno ancora di rinnovarsi e recuperare credibilità anche morale. E, quanto alla lamentata ispirazione politica di alcune inchieste, si obietta che le ripercussioni politiche rappresentano un inevitabile effetto oggettivo delle indagini che vertono sull’operato dei politici indagati, mentre i magistrati inquirenti non perseguirebbero intenzionalmente alcuno scopo politico trascendente il doveroso controllo di legalità spettante al potere giudiziario. Ora, a parte l’indeterminatezza e l’ambiguità del concetto di controllo di legalità (vuol dire che le procure dovrebbero attivarsi pure in via preventiva, per andare alla ricerca di eventuali ipotesi di reato, e non già soltanto quando se ne siano in concreto profilati i possibili presupposti, così trasformando l’attività giurisdizionale in attività amministrativa di polizia?), anche queste autogiustificazioni, a ben vedere, rischiano di somigliare a favole. Non perché non sia vero che vi è stata e continua a esserci una certa tendenza della politica a scaricare sui magistrati responsabilità che non riesce ad assumersi o compiti che non è in grado di svolgere. Ma perché è un’ipocrita bugia che non vi sia stata e non vi sia, a maggior ragione nei settori più militanti della magistratura, la volontà soggettiva di orientare anche politicamente l’azione giudiziaria: intendendo per orientazione politica sia l’obiettivo  (in teoria censurabile) di influire su dinamiche e scelte politico-partitiche contingenti, sia una mirata valorizzazione (in teoria ammissibile o comunque meno censurabile) delle accresciute dimensioni di politicità intrinseche a un’attività giurisdizionale esplicata nell’orizzonte della democrazia costituzionale contemporanea. 

Riportando il discorso su Mani Pulite, sarebbe da ingenui o da sprovveduti interpretare lo stile operativo di un pm come Di Pietro e dei colleghi al suo fianco come del tutto circoscritto nei limiti di una rigorosa e asettica ortodossia tecnico-giuridica, riluttante a farsi carico di valutazioni e preoccupazioni politiche in realtà anche esterne rispetto al momento investigativo-processuale in sé considerato: riferite cioè alla concreta incidenza che lo sviluppo e la direzione delle indagini giudiziarie avrebbero potuto esercitare allora sui partiti politici in profonda crisi e sul loro possibile destino. In realtà, funge da spia abbastanza sintomatica del fatto che Mani Pulite perseguiva obiettivi di rinnovamento politico (trascendenti, appunto, la funzione istituzionale di perseguire reati e condannarne gli autori) lo stesso linguaggio usato dai magistrati protagonisti, come emerge ad esempio persino dalle parole di un gip come Italo Ghitti, che Buccini riporta come emblematiche altresì di un ruolo di giudice vissuto in rapporto più di stretta contiguità che non di distanza critica rispetto ai colleghi pubblici ministeri: “(…) il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire”. Affermazione, questa, che in bocca a un giudice avrebbe in teoria dovuto sollevare reazioni pubbliche (in realtà mancate) ancora più vivaci di quelle che si sarebbero dovute levare contro il proposito, ancora più esplicito e drastico, di “rivoltare l’Italia come un calzino”, più volte com’è noto enunciato dal pubblico accusatore Piercamillo Davigo.    

Considerato nell’insieme, il libro di Buccini potrebbe costituire una fonte preziosa di riferimenti, dati, informazioni e spunti di analisi potenzialmente valorizzabili anche in vista delle più volte auspicate (ma finora compiute soltanto in piccola parte) indagini scientifiche a carattere multidisciplinare (giuridico, economico, politologico, sociologico e psicologico) su Mani Pulite come terreno privilegiato di osservazione e studio dei rapporti di scambio e delle relazioni ambigue tra – per dirla con Pierre Bourdieu – il campo della giustizia penale e gli altri campi con esso interagenti. Infatti, Buccini ben ricostruisce le situazioni e occasioni in cui i diversi componenti del pool milanese, agendo in gruppo o come singoli, hanno in formale veste giudiziaria svolto funzioni e realizzato condotte (anche extrafunzionali) dotate di una sostanziale valenza politica in vari sensi e in varie direzioni. Si considerino – oltre alle performance investigative o processuali con le quali in particolare Tonino Di Pietro si atteggiava a tribuno del popolo o a eroico vendicatore delle ingiustizie e dei soprusi compiuti dai politici corrotti, assurgendo così a simbolo di una sperata palingenesi – le spettacolari reazioni pubbliche o alle forme meno eclatanti di intervento di cui lo stesso Di Pietro da solo, o più spesso insieme ad altri colleghi, si è reso protagonista per bloccare riforme governative considerate inaccettabili o per promuovere invece riforme gradite allo stesso pool milanese: si allude al comunicato stampa contro il pacchetto di modifiche abbozzato dal neo guardasigilli Conso per depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti; al successivo pronunciamento televisivo contro il decreto Biondi volto a ridurre la possibilità di ricorrere alla custodia cautelare in carcere; e, in forma questa volta propositiva, alla presentazione da parte di Di Pietro all’annuale forum di Cernobbio di una proposta (destinata in realtà a rimanere tale) di un  disegno di legge di riforma dei reati di concussione e corruzione, recante altresì innovazioni in materia di benefici premiali per la collaborazione giudiziaria, elaborato dalla procura milanese insieme a un gruppo di professori universitari e avvocati e finalizzato ad agevolare la chiusura dei conti con gli episodi corruttivi del passato. A ben vedere, non è difficile individuare in queste prese di posizione del pool di Mani Pulite, miranti a interdire riforme avversate oppure a sollecitare riforme auspicate, significativi precedenti di una tendenza, successivamente consolidatasi nel potere giudiziario, a pretendere di sindacare in via preventiva il merito delle scelte politiche in materia penale, in teoria di esclusiva competenza del Parlamento e del governo, con conseguente (ma di fatto prevalentemente tollerata!) violazione del principio costituzionale della divisione dei poteri.    

Ma, come bene emerge anche dal libro di Buccini, una confusa sovrapposizione di ruoli giudiziari e ruoli sostanzialmente politici dipendeva anche dal fatto che in particolare Di Pietro e Davigo mantenevano rapporti sotterranei di vicinanza, non esenti da inevitabile ambiguità, con settori e personaggi del mondo politico di allora, perché in qualche modo e in qualche misura tentati di lasciare la toga per transitare in politica, cedendo alle offerte (a loro volta tutt’altro che disinteressate) di parti politiche desiderose di sfruttare a proprio vantaggio l’ampio consenso popolare acquisito dai due pubblici ministeri grazie alla guerra contro Tangentopoli. Così stando le cose, non solo si incrementava la sostanziale valenza politica dell’azione del pool, ma finivano con l’esserne corresponsabili anche quei settori politici che cercavano di attrarre nelle loro file i magistrati più in vista e più idolatrati. Com’è comprensibile, rispetto alla tentatrice scesa in politica hanno giocato un ruolo ancora più determinante le diverse caratteristiche psico-antropologiche dei singoli componenti del pool, e ciò è comprovato dalla scelta di lasciare la toga infine compiuta dall’eroe molisano e dal successivo andamento della sua non certo luminosa e gloriosa carriera politica.   

Quanto alla funzione di moralizzazione pubblica (complementare a quella di presunto rinnovamento politico), che non pochi magistrati specie dopo Mani Pulite ritengono rientrare nel loro ambito di competenze, tanto più se impegnati nel contrasto della corruzione o delle mafie, merita di essere ricordato un libretto di Alessandro Pizzorno dal titolo emblematico: “Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù”, edito da Laterza nel 1998. Da sociologo, Pizzorno non affronta il problema giuridico-costituzionale relativo al senso e ai limiti di una moralizzazione collettiva da perseguire con gli strumenti della giustizia penale, perché ciò che più gli interessa non è il piano deontologico: quel che più lo intriga è indagare il crescente spazio che i giudici sono di fatto andati conquistando nella sfera pubblica esterna alle aule giudiziarie, e nella comunicazione mediatica, quali autorità beneficiarie di consenso da parte della pubblica opinione anche nel ruolo di custodi o controllori delle virtù morali degli uomini politici e, più in generale, degli esponenti del ceto dirigente. Senonché, a Pizzorno è facile rivolgere – a maggior ragione oggi – più di una obiezione. Sullo stesso piano sociologico, è pressoché scontato obiettare che è quantomeno dubbio che il ceto giudiziario visto nel suo insieme si distingua per un livello di moralità superiore rispetto a quello della media dei cittadini (sembrerebbero confermarlo proprio certi comportamenti moralmente discutibili o deontologicamente scorretti dello stesso magistrato-simbolo della  rivoluzione giudiziaria milanese, di cui ben riferisce Buccini), per cui non è detto neppure che un magistrato abbia sempre una capacità di giudizio morale comparativamente più elevata (e ciò va rilevato anche a prescindere da recenti fenomeni di grave decadimento culturale e degrado morale registratisi in seno alla nostra magistratura). Premesso questo, rimane l’ulteriore problema – di natura appunto giuridico-costituzionale – di capire e specificare cosa significhi “virtù morale” di un politico nella prospettiva di un magistrato: vuol dire semplicemente che il politico deve essere onesto, non deve rubare e non deve corrompere e farsi corrompere, o significa qualcosa di più impegnativo? Se la risposta dovesse essere nel secondo senso, dubito che un giudice possegga una speciale legittimazione e una speciale competenza per formulare nuove regole morali nell’ambito di una società pluralistica come la nostra.  

Come sappiamo, tra i rilievi critici mossi all’esperienza di Mani Pulite ve ne sono alcuni che attengono più direttamente alle modalità di utilizzazione degli strumenti penalistici, sul duplice terreno sostanziale e processuale: ci si riferisce a una certa tendenza a forzare o manipolare l’interpretazione-applicazione di classiche figure di reato come la concussione e la corruzione, a un uso spregiudicato o ricattatorio a fini confessori della custodia cautelare in carcere, a un’insufficiente attenzione alle reazioni psicologiche e al conseguente rischio suicidiario di alcuni indagati e imputati (come sarebbe dimostrato dai non pochi suicidi effettivamente verificatisi). Anche di tutto questo troviamo più di una eco nella rivisitazione critica di Buccini, il quale fa – tra l’altro – questa osservazione che vale la pena riportare: a Di Pietro interessava “non tanto processare i singoli politici quanto sputtanare il sistema dei partiti”. Quale riprova migliore di questa si potrebbe ottenere di un possibile tradimento degli scopi fisiologici del diritto e del processo penale consumato in nome di eteronome finalità lato sensu politiche? Sempre a proposito di questo uso non canonico della giustizia penale, è il caso di richiamare un passo contenuto in una drammatica e commovente lettera scritta prima di togliersi la vita dal deputato socialista Sergio Moroni (indagato per avere raccolto mazzette non per sé ma per il partito) e indirizzata a Giorgio Napolitano, a quel tempo presidente della Camera: riferendosi all’esigenza da lui stesso condivisa di un diverso modo di operare dei partiti, Moroni rilevava che “non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle ‘decimazioni’ in uso presso alcuni eserciti”. Mi ha colpito, e continua a colpirmi questa idea di una sorta di decimazione realizzata per via di processi sommari e poco individualizzati: vi rinvengo una curiosa e inquietante coincidenza con l’impiego dello stesso termine da parte del presidente della Corte suprema Riches nel celebre dialogo con l’ispettore Rogas inscenato nel romanzo sciasciano “Il contesto”, in cui appunto il presidente della corte azzarda la pessimistica e paradossale previsione che nel futuro “la sola forma di possibile giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra si chiama decimazione”. Per fortuna, questa tragica previsione non si è avverata, ma resta il fatto che non è soltanto la pur sempre eccezionale stagione di Tangentopoli ad avere evidenziato in forma macroscopica un approccio molto sommario e affrettato alla questione del come punire. Come ho rilevato in un precedente articolo su questo giornale (il Foglio del 25 ottobre 2021), a tutt’oggi la determinazione concreta della pena da parte degli stessi magistrati giudicanti non è per lo più fatta oggetto di quella scrupolosa ponderazione che sarebbe in teoria auspicabile.  

In un precedente articolo su Mani Pulite, a venticinque anni di distanza (sul Foglio del 30 marzo 2017), avevo provato a stilare un bilancio complessivo degli esiti pratici anche di lunga scadenza di una rivoluzione politica tentata per via giudiziaria, che specie all’inizio tante speranze aveva acceso a dispetto della paradossale contraddittorietà insita nel considerare “rivoluzionaria” un’attività repressiva di fatti criminosi, sia pure ritenuti sistemici. Da allora a oggi, quel bilancio mi sembra ulteriormente avvalorato dalle conclusioni che Buccini trae nel suo libro. In sintesi, ribadirei che quella cosiddetta rivoluzione ha prodotto conseguenze fallimentari, o comunque negative su più versanti. E infatti non ha certo eliminato il fenomeno della corruzione, ma ha forse contribuito a determinare un mutamento delle sue modalità di manifestazione (per condivisibili rilievi sulla attuale fisionomia della corruzione in Italia si veda il recente intervento di Giuseppe Pignatone su Repubblica del 30 ottobre scorso); in luogo di promuovere un rinnovamento politico degno di questo nome, ha finito col (con)causare effetti politicamente regressivi, definiti persino “disastrosi”, ad esempio da Sergio Romano (sul Corriere della sera del 19 settembre 2016), alimentando una rozza e velleitaria antipolitica di ispirazione populista; ha inoltre, sul terreno dell’amministrazione della giustizia, fomentato il fenomeno del populismo giudiziario, inducendo parte dei magistrati  a ricercare il consenso popolare come fonte di vera legittimazione di un’azione giudiziaria che si vorrebbe pur sempre, e nonostante ogni contraria indicazione,  orientata al cambiamento  e alla moralizzazione (da qui l’emersione di nuove figure di magistrati d’accusa, imitatori più o meno credibili di Tonino Di Pietro, nell’ambiguo ruolo di ircocervi metà attori giudiziari e metà attori politico-mediatici).  

Certo, di questa eredità complessivamente fallimentare la causa unica non può essere ravvisata in un tentativo, invero di problematica idoneità in partenza, di fare la rivoluzione con procure e tribunali. I fattori causali coinvolti nelle complesse dinamiche politiche successive a Mani Pulite sono indubbiamente molteplici e chiamano in causa la responsabilità di diversi attori, non solo politico-istituzionali. Verosimilmente, ha ragione Goffredo Buccini nel rilevare nell’ultimo capitolo del suo libro: “Nessun problema appare risolto trent’anni dopo, perché il problema non erano i partiti, il problema siamo noi”.

Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita. VENANZIO POSTIGLIONE su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. 

Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza 

Bettino Craxi entra a Palazzo di giustizia per l’interrogatorio del processo Enimont. È il 17 dicembre 1993 (Fotogramma)

Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo.

«Il tempo delle mani pulite» di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18)

Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa.

Goffredo Buccini è inviato speciale ed editorialista del «Corriere della Sera»

È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro «Corriere della Sera» non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, «il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva», che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione.

Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino.

«Il telefono squilla presto e troppo», scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ’92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del «Corriere», talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte.

Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. «Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti». Il ’92 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di «un popolo di confidenti e flagellanti», è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma «i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». E qui Buccini ci va dritto: «Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione». Non solo. «Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?». C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores.

Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: «Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica». Craxi dice che «hanno creato un clima infame», Gerardo D’Ambrosio replica che «il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati». E i giovani socialisti contro-replicano: «Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare». Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora.

Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…». Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa.

Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: «La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!». Borrelli è il più lucido: «Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra». La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento («un’autobiografia nazionale»), si confida con l’autore del libro: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima». Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso.

Tocca al «nuovo miracolo italiano», alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che «tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale». La stiamo ancora aspettando.

Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, «perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria». La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: «Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto». La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore.

"Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto". Stefano Baldolini su huffingtonpost.it il 22 Ottobre 2021.

Chiacchierata con Goffredo Buccini, autore de "Il tempo delle mani pulite" (Laterza). Sui pm: "L'autonomia va garantita ma col pool ci fu abuso industriale degli arresti". Su Craxi e Di Pietro: "Il 1992 ha illuso una generazione e prodotto il grillismo" .

“Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto”. Non ha mezzi termini Goffredo Buccini, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera, nel suo “Il tempo delle mani pulite” (Laterza), libro di ricostruzioni, di memoria e di forte autocritica. Testimone dei fatti del 1992-1994, dall’escalation “industriale” degli arresti all’avviso di garanzia all’“uomo nuovo” Berlusconi. Un biennio drammatico che ha lasciato eredità complesse e non ancora risolte. 

Domanda di prammatica: perché è nata Mani Pulite?

“Per una serie di concause, anche internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino gli italiani avevano ripreso a votare liberamente senza ‘doversi turare il naso’, per citare Montanelli. Ma soprattutto perché i soldi erano finiti. Questo è un punto dirimente. I soldi erano il centro dell’accordo fondamentale tra impresa e politica che prevedeva da una parte il finanziamento illecito e dall’altra l’accesso agevolato agli appalti. Era un intero sistema ammalato che a un certo punto si è spezzato, in un momento di grande debolezza della politica. E questo ha fatto sì che la magistratura fosse chiamata a esercitare un ruolo di supplenza che in una città viva ed eticamente reattiva come Milano è diventata l’inchiesta Mani Pulite.”

Quindi il sistema non si è ammalato con Mani Pulite?

“Certamente no. Lo era da un pezzo e produceva consenso politico. Non è un caso che negli anni ’80 abbiamo avuto l’impennata del debito pubblico. Il sistema comprava consenso pompando debito. Comprava il nostro consenso a nostre spese. Dalla fine degli anni ’70 è andato via via avvitandosi su se stesso.”

Mani Pulite inizia il 18 febbraio 1992 con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Ma in realtà il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano non parla per cinque settimane. Poi arriva la parola chiave -“mariuolo” - pronunciata da Bettino Craxi. 

“La vulgata vuole che Chiesa si sia sentito schiaffeggiato da Craxi in pubblico. In realtà penso che l’interpretazione più corretta sia che in quel preciso momento Chiesa percepì il senso di debolezza del leader socialista. Dobbiamo confrontare questa situazione con l’arresto negli anni ’80 di Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese, snodo della circolazione delle tangenti. E soprattutto padre politico di Craxi, che lo andò a trovare in carcere da presidente del Consiglio. Poi lo fece senatore, e l’autorizzazione a procedere venne negata. Fu una manifestazione di forza del sistema straordinaria. Chiesa invece, che non è scemo, capisce che è stato lasciato solo, ha grandi problemi, anche personali, da risolvere e a quel punto comincia a parlare.”

E la slavina ha inizio. Nell’aprile successivo vengono arrestati otto imprenditori. Però a differenza di Chiesa che venne preso, citando Antonio Di Pietro, “con le mani nella marmellata”, i colletti bianchi milanesi non erano in ‘flagranza di reato’. È corretto dire che quello è stato il primo cambio di fase?

“Sì, ed è un cambio di fase clamoroso. L’idea di arrestare degli imprenditori, a Milano, non in flagranza di reato è un salto decisivo. Anche perché deriva sostanzialmente dalle confessioni di Chiesa e quindi apre un meccanismo esponenziale che nel giro di qualche settimana porterà alla grande serie di arresti veri e solo minacciati e alla grande fila di confessioni davanti alla porta di Di Pietro. Ognuno di quegli otto parla di altri otto. In una gigantesca catena di Sant’Antonio, e non è una facile battuta. Non era mai successo.” 

Ma perché si era creata la corsa a confessare?

“Bisogna essere onesti, la paura di essere arrestati è molto forte. E non stiamo parlando di persone della mala milanese, ma di borghesi abituati a una certa rispettabilità, che viene compromessa. Questa cosa peraltro si riverbererà nei suicidi degli indagati. Dopo di che, da un certo punto in poi c’è una sorta di condizionamento ambientale, di una grande bolla dentro cui tutti ci troviamo. Opinione pubblica, indagati, magistrati, giornalisti. È brutto dirlo, ma come in un rito catartico collettivo.

Poi un ruolo decisivo l’hanno giocato i cosiddetti avvocati “accompagnatori” degli indagati alla stanza 254 di Di Pietro, anticipando le istanze dello stesso pm. Lo racconta bene Gherardo Colombo che parla di fila di questi “penitenti” e del problema per il pool di Mani Pulite, siamo nell’estate ’92, di star dietro a questa messe di confessioni, ammissioni, chiamate di correo...”

Il pool si è già formato?

“Il pool nasce verso maggio-giugno per affiancare a Di Pietro, lui stesso non si è mai ritenuto un giurista raffinato, due magistrati di maggiore spessore dal punto di vista giuridico, strutturatissimi, di orientamento politico opposto, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Com’è noto, a coordinare il nucleo storico c’era il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, e l’esperto di reati finanziari, Francesco Greco.”

Un gruppo composito.

“Borrelli era una grande alchimista, grande conoscitore dei suoi pm e dell’animo umano. Bisogna tener conto però che all’inizio a parte Di Pietro nessuno ci credeva, a questa inchiesta. Ed è una delle ragioni per cui i giornalisti che la seguono sono le seconda file della giudiziaria e della cronaca, non le grandi firme. Non ci credeva nemmeno Borrelli che caricava Di Pietro di ‘processetti’. E una delle ragioni per cui lo stesso Di Pietro comincia ad avere relazioni con noi giornalisti è per avere un rapporto strumentale a suo favore.”

Addirittura.

“L’uomo è molto sveglio. Fa uscire piccoli brandelli di notizie, per spaventare questo o quell’indagato, ma soprattutto per mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica. E il suo obiettivo era tenere alta l’attenzione per tutto il tempo necessario per produrre effetti ulteriori. Fino alla grande svolta mediatica che arriva il primo maggio ’92 con il sindaco e l’ex sindaco di Milano, Tognoli e Pillitteri, indagati. Quando si capisce per la prima volta dove si stava andando a parare.”

“Solo chi confessa spezza il vincolo associativo: non può delinquere, quindi può uscire di galera”. Il metodo del ‘dottor sottile’ Davigo è efficace. 

“Intendiamoci su Davigo che nonostante si sia perso nelle sue reiterate iperboli per ‘épater le bourgeois’, da piccolo borghese lombardo che ama stupire, ha una fortissima cultura giuridica. Tuttavia, quel metodo era odioso e oggi provocherebbe reazioni molto forti. Ma non era un metodo illegale, com’è stato ampiamente riconosciuto, concorrendo nel manager o nel politico le note ragioni per cui puoi arrestarlo: il pericolo inquinamento prove, di reiterazione di reato e pericolo di fuga. Il problema semmai è l’abuso, è l’uso industriale. Ma questo diventa possibile proprio in virtù della debolezza della politica, del sistema, che non fu in grado di reagire in modo credibile e anzi si divise, e iniziò a scappare da tutte le parti. Anche con una certa miopia, e qui arrivo al discorso di Craxi del luglio del ’92. Alla chiamata di correità, a cui si reagisce o col silenzio o pensando di trarne vantaggio, senza capire che stava saltando tutto.” 

Per parlare di responsabilità, però neanche voi giornalisti che raccontavate Tangentopoli dagli albori avete colto che qualcosa non andava. Che c’erano delle storture, a partire dal metodo, dallì‘abuso ‘industriale’ degli arresti?

“Detto con una battuta, perché in parte su di noi aveva ragione Berlusconi.”

In che senso?

“Quando si è lamentato che i giornalisti sono tutti comunisti, ci è andato vicino. È indubbio che la mia generazione si è formata a sinistra. Il gruppo di ragazzini che seguivamo i fatti di Palazzo di Giustizia di Milano, tutti tra i 28 e i 32-33 anni, a parte rare eccezioni, era fortemente orientato a sinistra. Cresciuto in ambienti politici, universitari, liceali, di sinistra. Un grande brodo di coltura dove più o meno si pensava che Craxi fosse un manigoldo, Ligresti fosse un imprenditore della Piovra, che gli andreottiani fossero tutti marci. Così quando ti trovi a seguire un’inchiesta che ti racconta esattamente questo, tu pensi ‘hai visto, hai trovato la verità, non c’è altra verità da cercare’. Nel libro uso l’espressione: ‘Eravamo gli eroi del nostro stesso fumetto’.”

Sintesi notevole.

“Allora, io ho sempre pensato che uno che ha vent’anni e vuole fare il giornalista e non vuole cambiare il mondo, a cinquanta fa una brutta fine, perché è un mascalzone. A vent’anni devi avere dei sogni, delle utopie. Il problema è che quando ti sembra si stiano realizzando, devi essere pronto anche a guardare altrove. A non accontentarti di dire ‘è fatta’. Almeno questo è stato il mio sbaglio, la mia responsabilità. Poi ognuno si assuma le proprie.”

Quindi è stato un errore di visione politica?

“Direi di visione culturale. Eviterei di associare l’idea del Minculpop rosso al nostro pool. Che peraltro durò un anno e che nacque per le stessa esigenze del pool di Borrelli. Noi avevamo dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno. Non aveva senso farsi concorrenza tra testate, anzi il tuo unico problema era verificare che fossero tutte vere, non polpette avvelenate, che pure giravano, perché erano in molti a voler inquinare l’inchiesta. Tant’è che il pool dei giornalisti è finito, si è spaccato, quando è entrato in ballo il Pds e la Fininvest, le grandi questioni divisive, e quando le notizie sono diventate di meno. Quando la spinta di Mani Pulite iniziò ad affievolirsi e il consenso generale scemare perché - come racconta Gherardo Colombo - dagli intoccabili si iniziava a scender per li rami, a sfiorare la gente comune.” 

Quanti eravate prima di dividervi?

“Una decina, e non abbiamo guardato in tutte le direzioni perché quella direzione corrispondeva a una nostra formazione culturale. Errore gravissimo. Sto dicendo che altrimenti avremmo scoperto una Spectre dietro Mani Pulite? No, perché non lo penso nemmeno oggi. Ma avremmo scoperto che gli eroi non sono tutti giovani e forti ma sono anche dei personaggi con una vita con dei compromessi. Avremmo potuto tingere di chiaroscuro il nostro quadro per permettere ai lettori di averne uno più vero. E in secondo luogo avremmo dovuto avere più attenzione ai diritti individuali. Dietro a ognuno di quegli indagati c’era una persona, e io, parlo per me ovviamente, questo non lo coglievo molto chiaramente.”

Un’autocritica forte.

“Assolutamente. Per dire, il primo indagato che ho visto come persona è stato Sergio Cusani. Di Sergio Moroni, ho scritto due righe quando è stato indagato e l’ho ritrovato a settembre quando si è suicidato. Non l’ho mai visto. Ma il punto  era proprio quello. Quando tu scrivi della gente dovresti guardarla in faccia. Non era semplicissimo allora ma avremmo dovuto farlo. Quando ho guardato in faccia Cusani ho visto una persona estremamente più complessa, comprensibile e persino giustificabile, rispetto a quello che era stato tratteggiato semplicisticamente come ‘il Marchesino rosso’ dal chiacchiericcio della procura.” 

Se ho capito bene si è trattato di una fase molto disumanizzante.

“Non c’è dubbio e questa è una responsabilità che ci portiamo dietro. Certo, abbiamo attenuanti, bisognava starci per capire quanto il contesto fosse complicato per mantenere la barra dritta.”

Traspare un po’ di senso di colpa.

“Il senso di colpa è una categoria che non mi piace mettere dentro un dibattito pubblico. Eventualmente faccio i conti con me stesso. Sicuramente, dopo i primi suicidi avremmo dovuto lavorare diversamente. La lettera di Moroni - premesso che tutte le accuse a suo carico saranno confermate e i coimputati tutti condannati - ha una forza che viene colta dall’opinione pubblica, dai giornali, ma archiviata troppo in fretta. Avrebbe dovuto accompagnarci nel lavoro dei mesi successivi, invece fummo subito presi dalla rincorsa ‘alla prossima cosa’. Al vero bersaglio di quella stagione, il ‘toro’, Bettino Craxi. Il cui avviso di garanzia arrivò dopo tre mesi. Inoltre c’era una retorica odiosa, autoassolutoria e un po’ ipocrita, per cui la colpa dei suicidi era del sistema a cui apparteneva il suicida. Sicuramente abbiamo fatto, e ho fatto, errori importanti.”

Non per discolparti, e prendendo spunto dallo straordinario spaccato del giornalismo italiano di quegli anni che si trova nel libro, c’è da dire che le responsabilità non erano solo di chi come te stava in procura, o per strada, ma anche dei vostri superiori...

“Non c’è dubbio. Ma i giornalisti italiani, capiredattori, direttori... non erano scesi da Marte, ma appunto erano italiani e stavano in un Paese dove la selezione, le scelte erano fortemente condizionati. Si sono mescolati il senso di appartenenza, che poi diventava colpa, a senso di opportunismo. Non c’è bisogno di citare Flaiano per parlare degli italiani, della capacità di passare dalla parte dei vincenti.”

Come vincente fu l’irruzione di Berlusconi, nel momento più duro per il ‘toro’ ferito Craxi.

“Questo è il paradosso di tutta la storia. Berlusconi era un uomo con i colori della Prima Repubblica eppure viene percepito come nuovo. Gli stessi italiani che, nel giorno dei funerali per le vittime della bomba di via Palestro, inneggiano a Borrelli, Di Pietro e co., una sorta di corteo spontaneo e forcaiolo, sono gli stessi che neanche un anno dopo plebiscitano l’imprenditore più assistito dal sistema della Prima Repubblica. Questo è un popolo che cerca sempre una palingenesi ma non si guarda mai dentro. E non è un gran popolo.”

Non salvi né Craxi né Di Pietro. 

“Perché ciascuno dei due ha compiuto mosse che hanno condizionato gli italiani nel non credere ulteriormente nell’Italia. E non parlo delle vicende strettamente giudiziarie. Ma se un uomo di Stato a fronte di due condanne definitive comminate da sei collegi di magistrati se ne va all’estero, cosa sta dicendo agli italiani? Che non si può credere al Paese che pur si ama.

Prendiamo poi Di Pietro, che esce dalla magistratura in modo ambiguo e inspiegabile, e due anni dopo aver interrogato duramente Prodi come testimone diventa suo ministro. Per non parlare della candidatura al Mugello sostenuta dallo stesso Pds che la vulgata dice essere stato graziato dalle sue inchieste. Il combinato disposto delle due cose produce il messaggio che non si può credere alla magistratura. Se il moralizzatore passa alla politica che non è riuscito a moralizzare, non c’è nulla di vero. L’esito finale di queste due vicende personali è, molti anni, dopo il grillismo, l’onda selvaggia, la fine della credibilità delle istituzioni. Tu deludi e uccidi i sogni di un’intera generazione, i ragazzi degli anni ’90.” 

Siamo arrivati alla ‘rivoluzione interrotta’.

“Sì, anche se non penso affatto che quella fosse una rivoluzione. I Paesi non cambiano così. La scelta giusta, di medio e lungo periodo, l’ha fatta invece Gherardo Colombo, che ha lasciato la magistratura e ha iniziato a insegnare. Con l’idea che si debba ripartire non dai processi, ma dalla formazione di una classe dirigente, di una cittadinanza. La via giudiziaria non è risolutiva.” 

Concludendo, in occasione del trentennale di Mani Pulite, anche grazie al tuo libro, non c’è un rischio revisionismo? Senza parlare di criminalizzazione dei magistrati, che comunque ce la stanno mettendo tutta per perdere di consenso, non si corre il pericolo opposto, che non debba salvarsi proprio nulla del ’92? 

“Assolutamente. Di quel periodo va invece salvata la spinta di molta gente in perfetta buona fede. Va salvata in parte l’autonomia della magistratura, da rivedere ma non da cancellare completamente col rischio di uno scenario ungherese o polacco, di asservimento all’esecutivo. È stata una stagione di grande speranza, che non va buttata via. Però dopo trent’anni credo che se ne possa parlare diversamente, abbandonando i radicalismi, senza vedere l’altra parte necessariamente come un nemico. Basta con la storia della ‘rivoluzione’ contro i ‘manigoldi’. Troviamo una medietà e una compostezza che dobbiamo anche ai nostri figli. Ecco, io vorrei poter parlare con i ragazzi dell’età di mia figlia di quella storia, e del nostro mestiere. Perché quella è stata anche la storia del nostro mestiere. E di come questo si possa fare con più autonomia, con più coraggio, e forse con più attenzione.”

Il finanziamento illecito è figlio di Yalta. Finanziamento illecito ai partiti, dove nasce il sistema che ha fatto crollare la prima repubblica. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

L’Italia è stato l’unico paese europeo nel quale cinque partiti da sempre presenti nel parlamento e nel governo sono stati distrutti a colpi di avvisi di garanzia, di arresti, dalle cosiddette sentenze anticipate. Ciò ha riguardato in primo luogo il Psi, ma anche il centro-destra della Dc, il Psdi, il Pli, il Pri. Ciò è avvenuto in un paese nel quale dagli anni ’40 in poi tutti i partiti sono stati finanziati in modo del tutto irregolare. Tutto ciò deriva da ragioni tutt’altro che banali. La divisione del mondo concordata a Yalta fra Stalin, Roosevelt e Churchill aveva sancito un patto fondato sul fatto che la spartizione dell’Europa per sfere di influenza avveniva sulla base dell’occupazione militare da parte dell’Armata rossa o dell’esercito angloamericano.

Però nei paesi dell’Est Europa liberati-occupati dall’Armata rossa rapidamente i partiti comunisti conquistarono in modo totale il potere. Invece nelle zone liberate dall’esercito angloamericano la situazione era molto più articolata e in Francia e in Italia c’erano due forti partiti comunisti. Anzi, siccome Stalin, grazie all’operazione che passò sotto il nome di svolta di Salerno aveva costruito per il Pci di Togliatti uno spazio di piena agibilità politica, ecco che per rendere quel partito il più forte possibile esso ebbe dal fondo di assistenza per i partiti fratelli gestito dal Kgb degli enormi finanziamenti diretti. Valerio Riva ha calcolato che dall’Urss fra gli 850 e i 1.000 miliardi di lire sono stati immessi nel mercato della vita politica italiana. Quindi il finanziamento irregolare dei partiti deriva essenzialmente da qui, dalle conseguenze dell’intesa di Yalta e poi della guerra fredda.

Il primo partito azienda in Italia è stato il Pci che ha “figliato” le cooperative rosse, le società di import/export, l’Unipol, la gestione del Monte dei Paschi di Siena. Poi dal 1976 in poi ci sono state anche cose in comune fra i partiti: in Italstat l’esito degli appalti pubblici era concordato in partenza e alle cooperative rosse era riservata una quota fissa fra il 20 e il 30%. Sul lato opposto la Dc di De Gasperi era finanziata dalla Cia e dal “quarto partito” dell’Assolombarda, della Fiat, di una serie di altre imprese private e di alcune banche. Poi Fanfani per evitare che la Dc fosse finanziata solo dagli imprenditori mise in campo le industrie a partecipazione statale. L’Eni di Mattei finanziava tutti i partiti e poi, d’intesa con Albertino Marcora, egli fondò la sinistra di Base. Fino a Craxi, il Psi fu finanziato dal partito con cui era alleato, quindi prima dal Pci ai tempi del frontismo e poi dal sistema delle partecipazioni statali controllato dalla Dc ai tempi del centro-sinistra. Con Craxi la musica cambiò nel senso che egli puntò a realizzare un’assoluta autonomia del Psi sia dal Pci che dalla Dc anche sul piano finanziario.

Ora, tutto ciò era conosciuto benissimo sia dai magistrati, sia dai giornali. Poi quando fra il 1989 e il 1991 è crollato il muro di Berlino e è caduto il comunismo in Russia e nei paesi dell’Europa dell’Est, Francesco Cossiga è stato il primo a capire che sarebbero sorti enormi problemi non solo al Pci, ma anche alla Dc, al Psi, ai partiti laici. Infatti non appena venne meno il pericolo comunista, i “poteri forti” (in primo luogo la Fiat, Mediobanca e ancora di più la Cir di De Benedetti) ritirarono o ridimensionarono la delega data alla Dc e al Psi, ai partiti laici, specie per quello che riguardava la gestione dell’economia. Perdipiù a livello europeo il trattato di Maastricht cambiava tutto il quadro: l’economia italiana, con le buone o con le cattive, era sospinta a collocarsi sul terreno del libero mercato e della concorrenza. A quel punto il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico.

Di conseguenza in uno stato normale si sarebbe dovuta fare una grande operazione di unità nazionale con un’annessa amnistia per superare tutto il sistema allora in atto di finanziamento irregolare. Invece accadde esattamente l’opposto. Si aggregò un circo mediatico-giudiziario fondato sia su un nucleo di magistrati inquirenti, sia sui direttori di alcuni giornali che ritenne che era venuto il momento di smantellare il sistema dei partiti. In una prima fase anche il Pds era estraneo al circo mediatico-giudiziario, tant’è che tremò. Proprio per questo Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina a “chiedere scusa agli italiani”. Quali scuse doveva chiedere se il Pds era estraneo al sistema di Tangentopoli? A sua volta per qualche mese Borrelli accarezzò il sogno che il presidente della Repubblica chiamasse un nucleo di magistrati a gestire anche sul piano politico quel cataclisma. Quando questa operazione fu impraticabile ebbe buon gioco il viceprocuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, a spiegare al pool che era indispensabile avere un punto di riferimento fra i partiti e che questo non poteva che essere il Pds.

A quel punto il pool dei pm usò la linea dei due pesi e due misure, puntando a distruggere in primo luogo Craxi e il Psi, ma anche il centro-destra della Dc e i partiti laici e a salvare i massimi dirigenti del Pds e della sinistra Dc. Per portare avanti questa linea, poi, furono adottate procedure e sistemi del tutto perversi e forzati. Il primo era quello della sentenza anticipata. Siccome erano in azione e collegati fra loro i due pool, il pool dei pm e quello dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa, di Repubblica e dell’Unità, con il concorso del Tg3 e dei telegiornali Fininvest, ogni avviso di garanzia sparato sui giornali in prima pagina e dai Tg in prima serata era una sostanziale condanna definitiva con la conseguente distruzione del consenso dei leaders e dei partiti così investiti.

In secondo luogo, come ha ben spiegato Guido Salvini, tutti i procedimenti giudiziari vennero surrettiziamente concentrati in un unico faldone con un unico gip, Italo Ghitti, che controfirmava quasi tutte le richieste dei pm. In questo modo fu possibile utilizzare la minaccia del carcere o la sua messa in atto allo scopo di ottenere confessioni, spesso confessioni mirate rispetto a precisi uomini politici, in primo luogo Craxi. Non parliamo poi della sistematica violazione del segreto istruttorio e anche degli interventi davvero eversivi del pool rispetto a proposte di legge avanzate dal governo e dal parlamento.

Certamente, in seguito al blitzkrieg del ’92-’94, proseguito fino al 2013 con l’attacco frontale a Berlusconi, la magistratura inquirente ha conquistato il potere e il sostegno politico. Le conseguenze, però, sono state disastrose. In primo luogo i partiti o sono stati distrutti oppure sono stati ridotti in condizioni di subalternità (è il caso del Pd).

Il risultato è quello di un vuoto politico molto preoccupante. Ma effetti devastanti ci sono stati anche per ciò che riguarda la stessa magistratura. Essa oggi è dominata da un sistema (quello descritto nei libri di Sallusti e Palamara) fondato sulle correnti.

A loro volta le correnti sono dominate dai pm (con annessi cronisti giudiziari) che nel Csm fanno il bello e il cattivo tempo e in quella sede gestiscono anche le carriere dei magistrati giudicanti. In tutti questi anni la vita politica italiana è stata caratterizzata dal fatto influenti procure hanno messo di volta in volta nel mirino prima Craxi, poi Berlusconi, in certi momenti Salvini, adesso Renzi. Quindi l’anomalia italiana che nel passato consisteva nell’esistenza del più forte partito comunista dell’Occidente adesso fino a pochi mesi fa è stata caratterizzata dal prepotere di alcune procure. Ci auguriamo che alcuni dei referendum sulla giustizia servano a cambiare profondamente questo quadro. Fabrizio Cicchitto

La trama internazionale di Mani Pulite. Di Igor Pellicciari il 20/02/2022 su formiche.net.

Dal mancato ruolo di attore primario nella crisi dei Balcani alle difficoltà nei negoziati europei sull’immigrazione fino alla strada (in salita) nelle trattative sull’austerity. La vicenda Mani Pulite ha avuto un'(enorme) onda d’urto internazionale per l’Italia. L’analisi del prof. Igor Pellicciari (Università di Urbino) 

A ben tre decenni dal suo inizio, una ricostruzione storiografica di Mani Pulite resta complessa per la mancanza di fonti certe, di difficile accesso per via dell’acceso dibattito che persiste sul rapporto tra politica e giustizia. 

Qualche certezza in più la da contestualizzare Mani Pulite nel quadro internazionale del suo tempo, per cogliere specificità e tratti comuni di un fenomeno sì prettamente italiano ma non unicum assoluto (positivo o negativo) come è stato spesso raffigurato. 

Primo aspetto da sottolineare è che nei de-ideologizzati anni Novanta del post-bipolarismo, la Questione Morale acquista nuova forza come legittimo strumento di scontro politico non solo in Italia ma in numerosi contesti nazionali e multilaterali di prim’ordine.

In Francia l’episodio più eclatante è la campagna a mezzo stampa contro il primo ministro Pierre Beregovoy che lo spingono nel 1993 alla sconfitta elettorale e poi di lì a poco al tragico gesto di togliersi la vita, che segnerà l’inizio dell’ultima fase crepuscolare della Presidenza di Francois Mitterrand.

In Germania, sistema politico in genere meno esposto alla questione morale, gli anni Novanta vedono una concentrazione senza precedenti (ben nove) di scandali pubblici che al culmine bruciano il mostro sacro Helmut Kohl, tra i principali artefici della riunificazione tedesca.

In Spagna, accuse di corruzione amplificate dai Media portano nel 1996 alla sconfitta elettorale che impone al leader di lungo corso Felipe Gonzales di lasciare la guida del governo – tenuto ininterrottamente dal lontano 1982. 

Nello stesso quadro va collocato anche il più famoso scandalo presidenziale del decennio, con Bill Clinton sottoposto ad impeachment per avere mentito sul tipo di relazione avuto con la stagista alla Casa Bianca Monica Lewinsky.

Sul versante multilaterale, basti ricordare l’eclatante caso delle dimissioni cui viene obbligata nel 1999 la Commissione Europea guidata da Jacques Santer (ex-primo ministro del Lussemburgo) per le accuse di peculato mosse alla commissaria Edith Cresson (ex-primo ministro francese).

La specificità italiana è che ad iniziare l’ondata moralizzatrice sono settori del potere giudiziario; con un impatto radicale sul sistema politico, rivoluzionato in dinamiche e protagonisti. Altrove in Occidente sono invece i media a trainare l’azione moralizzatrice, con effetti non-sistemici che non vanno oltre il condizionamento delle sorti dei singoli esponenti politici coinvolti e non scuotono il sistema dalle sue fondamenta.

Altro aspetto poco trattato sono le conseguenze della sostituzione determinata da Mani Pulite della vecchia classe politica della Prima Repubblica con una nuova tutta concentrata sulla politica interna, con poco interesse per la dimensione internazionale e scarse competenze in politica estera.

Questo determina l’inizio di una fase di indebolimento del ruolo e del peso dell’Italia su scala europea, sancito dalla rinuncia a giocare un ruolo politico primario nella gestione delle crisi balcaniche, dalla Bosnia al Kosovo, cruciali nel ridefinire i nuovi equilibri del mondo post-bipolare.

Aprendo un trend ancora in corso, come dicono le periodiche difficoltà di Roma nel far valere le proprie ragioni a Bruxelles su temi come la ristrutturazione del debito pubblico (e revisione dei parametri del Patto di Stabilità) o la gestione dei flussi di immigrazione illegale (e riforma del trattato di Dublino).

Infine, la dimensione internazionale si incrocia con una delle questioni più controverse e aperte, riguardanti l’origine stessa della stagione di Mani Pulite. A fronteggiarsi sono ipotesi di una sua genesi endogena/italiana vs esogena/esterna.

Le prime la considerano nata dalla presa di coscienza della necessità di reagire ad un sistema di finanziamento illegale della politica attraverso appalti pubblici talmente endemico (riassunto nel neologismo Tangentopoli) da essere diventato insostenibile.

Secondo queste tesi, il contesto internazionale post-bipolare avrebbe l’effetto non di determinare ma semmai solo accelerare un processo oramai irreversibile di moralizzazione whatever-it-takes del sistema politico, perseguito da settori della magistratura, sostenuti da un diffuso sentire popolare.

Per le tesi esogene, invece, Mani Pulite sarebbe il capitolo italiano (magari sfuggito di mano ad un certo punto) di un’azione nata oltreoceano e rivolta a tutto il vecchio continente, con l’obiettivo statunitense di ridimensionare il ruolo politico europeo in rapida crescita. A partire dalle leadership carismatiche che hanno guidato l’affermarsi Occidentale nella Guerra Fredda, ora diventate ingombranti perché troppo autonome nell’aprirsi ai nuovi mercati politici ed economici dell’Est Europa post-comunista.

Il caso italiano sarebbe particolarmente attenzionato per via del paradosso di un paese che perde centralità come avamposto politico-istituzionale contro il blocco sovietico negoziato da Alcide De Gasperi; ma al contempo aumenta il suo peso strategico-militare come base imprescindibile per interventi nei crescenti scenari di crisi, dai Balcani al Medio Oriente.

Per sfruttare al meglio il potenziale logistico italiano, necessita che a Roma vi sia una classe politica pronta a ospitare passivamente operazioni straniere sul proprio territorio, senza opporvisi o trarne un proprio vantaggio autonomo. In controtendenza con quanto sperimentato nella Prima Repubblica con l’attivismo diplomatico di Giulio Andreotti in Medio Oriente o il protagonismo nazionale di Bettino Craxi nel G7 o nell’emblematico episodio dell’incidente di Sigonella.

Entrambe le tesi endogene ed esogene accanto a considerazioni credibili (ma non per questo vere), presentano punti deboli prontamente rimarcati dal fronte opposto. Resta innegabile che risale proprio agli anni Novanta e all’imporsi della questione morale in politica il crollo verticale di carisma che affligge le leadership europee, riducendone legittimità e impatto dell’azione di governo.

Si è trattato di un prezzo molto alto pagato in nome dell’obiettivo di moralizzare il sistema politico che peraltro – stando alle cronache – sembra essere rimasto largamente incompiuto. Lungi dall’avere debellato la corruzione dalla sfera pubblica (non solo in Italia).

Quell’Italian desk che teneva d’occhio Di Pietro e i suoi. Le responsabilità degli USA in Tangentopoli: occasione per fare piazza pulita dei politici e sostituirli con gli ex comunisti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Quanto c’entrano gli americani con l’operazione Mani pulite? “Mani Pulite”, giova ricordare, è la traduzione pura e semplice di “Clean Hands”, nome di un’operazione americana da lungo tempo attiva per combattere criminalità e malaffare. In Italia con la partecipazione di giudici italiani e americani, tra cui lo stesso Giovanni Falcone e Rudolph Giuliani all’epoca eccellente Procuratore, prima di diventare sindaco di New York durante l’attacco alle Torri Gemelle e poi avvocato del presidente Trump.

È totalmente inaccettabile l’idea che un evento del tutto casuale come il denaro trovato addosso a uno sconosciuto Mario Chiesa potesse essere la prima e unica esca affinché si accendesse il grande incendio dell’inchiesta che decapitò la Repubblica. Ho partecipato anche ieri a un talk show mattutino con vecchi cronisti che come me vissero le ore di Di Pietro al palazzo di giustizia di Milano come una seconda vita e proprio perché l’ho fatto e conservo ancora i quaderni scritti a mano con tutti gli appunti di quei giorni posso dire con certezza che quell’operazione fu voluta, fu fatta con determinazione secondo un piano, ebbe gli effetti desiderati che furono la decapitazione di una democrazia in vista di una sostituzione dell’intera classe dirigente con un’altra classe dirigente selezionata direttamente fra i quadri del vecchio partito comunista italiano costretto fino alla fine dell’impero sovietico a non poter entrare nei governi di maggioranza ma che era stato valutato con grande interesse dagli americani non soltanto democratici, se solo si ricorda quanto Henry Kissinger fosse diventato amico di Giorgio Napolitano e non soltanto perché fosse l’unico comunista che parlasse un buon inglese.

Gli americani hanno sempre chiarito il punto di vista: a noi non importa nulla di quale sia la politica di un governo alleato, vogliamo soltanto essere sicuri che i suoi ministri non vadano a spifferare tutto al nemico. Quindi non vogliamo comunisti nel governo italiano perché altrimenti dovremmo sospendere il flusso di informazioni a quel governo, come effettivamente fecero con il Portogallo dopo l’ingresso dei comunisti dopo la rivoluzione dei garofani. Contrariamente alla vulgata comunista secondo cui gli americani intendevano favorire governi di destra, liberticidio e nemici della classe operaia, gli americani erano al contrario favorevoli a governi progressisti, moderni, interclassista e per loro naturale tendenza sono sempre stati contrari a tutti i tipi di neofascismo e di conservatorismo: al Dipartimento di Stato la linea è sempre stata una sola per l’Italia: isolare i comunisti finché sono legati a filo doppio con Mosca e praticare una politica riformatrice e prepararsi ad accogliere un Pci totalmente autonomo che aspettiamo anche nella Nato. Non fu per caso che Enrico Berlinguer dichiarasse a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera che lui poteva sentirsi al sicuro soltanto sotto l’ombrello della Nato ma poi quando si trattava di schierarsi di fronte alla questione degli euromissili seguiva il gioco della grande potenza sovietica amica.

Fino al 1989 la guerra fredda fu una cosa reale ma già sgonfiata dalle sue asperità. Si era già formata nel Partito comunista italiano un’ala fortemente filoamericana e antisovietica. L’ambasciata di via Veneto era diventato un oggetto del desiderio di molti comunisti e fra loro e il gruppo di Armando Cossutta rimasto sempre fedelissimo al Cremlino cominciò una sorda guerra che raggiunse il suo acme quando anche in Italia fu pubblicato il libro Dossier Mitrokhin che provocò molta agitazione all’interno della sinistra italiana, ma questa è una storia che cominciò sei o sette anni dopo l’inchiesta Mani pulite. L’inchiesta si scatenò soltanto sui partiti non comunisti ovvero su quelli che avevano sempre governato la Repubblica dal 1948 e senza ipotizzare che ci fosse una reale etero direzione da parte degli americani, certamente dal Dipartimento di Stato e da quello della giustizia da Washington arrivarono soltanto grandi segnali di solidarietà e incoraggiamenti a proseguire su quella strada.

Qual era stato l’evento che aveva determinato la riesumazione di quanto, già noto almeno da 12 anni, era stato insabbiato? La logica suggerisce solo un punto: fine dei contributi annui del partito comunista dell’Unione Sovietica al partito comunista italiano. Quei miliardi versati nel corso degli anni avevano corrotto la politica interna italiana fornendo al partito comunista molti più mezzi di quanti potesse produrne e avevano offerto un gigantesco alibi a tutti gli altri partiti e politici per dire se lo fanno loro, noi non saremo da meno. Ma il rubinetto si era chiuso, il partito comunista dovete in fretta e furia cambiare nome, vendere la casa troppo prestigiosa per rifugiarsi in un locale al piano terra meno sfarzoso, per forza di cose il Pci ormai Pds non era più un’appendice dello Stato russo anche perché l’Unione Sovietica scompariva suddividendosi in tronconi, gli stessi che oggi vediamo minacciarsi tra loro di guerra appunto.

A dirla in breve, il gruppo di intellettuali e di funzionari del dipartimento di Stato dell’ “Italian Desk” videro che era arrivata l’occasione per fare piazza pulita di tutti quei democristiani, socialisti socialdemocratici e repubblicani e sostituirli con gente nuova. Il partito di Achille Occhetto, appunto. Nel frattempo, la magistratura aveva scoperto di possedere una forza invincibile e di poter godere se necessario di una impunità intimidatoria: aveva scoperto anche di poter sfidare il Parlamento e sostituirsi ad esso, leggendo un comunicato eversivo in televisione, equivalente a un colpo di Stato. Il Parlamento era umiliato. Craxi rifugiato come un malfattore sulle coste africane. Il democristiano Arnoldo Forlani umiliato in un processo e quanto a Giulio Andreotti – violentemente antiamericano – gli furono gettati di traverso alcuni cadaveri sul cammino (fra cui quello di Ambrosoli e Lima) e la sua carriera fu stroncata insieme all’ambizione di salire al Quirinale.

La stessa mafia che mai e poi mai si era permessa di varcare a mano armata i confini siciliani aveva fatto bravate incomprensibili come le operazioni a via dei Georgofili o a San Giovanni o nei pressi del teatro Parioli di Maurizio Costanzo, seguendo un copione mai sperimentato prima. Gli stessi omicidi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino si erano svolti secondo modalità totalmente estranee alle tradizioni della mafia di cui la giustizia non ha ancora trovato il bandolo. Ad Achille Occhetto che parlava metaforicamente di una sua «gioiosa macchina da guerra» tutti i giochi sembravano fatti: la vecchia politica era ridotta a poco meno di quaranta ladroni ed era arrivata l’ora del sangue nuovo.

Fu allora che l’imprenditore Silvio Berlusconi decise di compiere un’azione sconsiderata e meticolosa al tempo stesso radunando forze fra di loro ostili come il partito neofascista di Gianfranco Fini e la Lega Nord federalista di Umberto Bossi e vinse. Andò al governo ma un avviso di garanzia pubblicato sul Corriere gli stroncò subito le gambe e quasi sessanta processi piombarono su di lui come avvoltoi. Una legge retroattiva lo mise fuori dal Senato e un’orda di populisti analfabeti come nella notte dei morti viventi, cominciò a sciamare per le strade e nel Parlamento portando l’Italia al disastro da cui un Commissario benevolente mandato dall’Europa cerca di tirarla fuori dal baratro. Così è finita la grandiosa operazione Mani Pulite che dir si voglia, di cui alcuni dettagli potrete trovare nel libro “The Italian Guillotine” di Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, libro proibito per eccellenza, resta da acquistare una sola copia in magazzino.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

HMY Britannia (1953) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il Britannia a Cardiff.

Descrizione generale 

Proprietà Her Majesty's Government

Identificazione IMO 8635306

Costruttori John Brown & Company

Cantiere West Dunbartonshire, Scozia

Varo 16 aprile 1953

Entrata in servizio 11 gennaio 1954

Radiazione 11 dicembre 1997

Destino finale Esposta in museo aperto al pubblico

Caratteristiche generali

Dislocamento 4.320

Lunghezza 126 m

Altezza 42 (albero di maestra) m

Velocità 21,5 nodi (39,8 km/h)

Autonomia 2.400 mn

Equipaggio 19 ufficiali e 217 uomini di equipaggio, oltre ad un plotone di Royal Marines

HMY Britannia è stato il panfilo della Famiglia Reale Britannica. Si è trattato dell'83ª nave avente questa funzione dalla restaurazione di Carlo II d'Inghilterra (1660), ed il secondo a portare questo nome (il primo fu un cutter costruito per il Principe di Galles nel 1893). La nave è ormeggiata in modo permanente all'Ocean Terminal di Leith, Edimburgo.

Nel corso della sua vita operativa, percorse 1.087.623 miglia, pari a 2.014.278 chilometri. Oggi fa parte della National Historic Fleet ed è conservato come nave museo presso l'Ocean Terminal a Leith, Edimburgo.

Storia

La nave fu varata il 16 aprile 1953, ed entrò in servizio l'11 gennaio 1954. Dal punto di vista tecnico, era caratterizzata dalla presenza di tre alberi (alti 41 metri l'albero di trinchetto, 42 quello di maestra e 36 quello di mezzana). Gli ultimi 6 metri dei due alberi più alti erano incernierati, in modo da permettere il passaggio sotto i ponti. Il Britannia fu progettato per essere facilmente convertito in tempo di guerra in nave ospedale. 

Il Britannia, durante la sua vita operativa, è stato ampiamente utilizzato per il trasporto non solo dei membri della Famiglia Reale, ma anche di importanti personalità straniere. Il panfilo reale fu utilizzato anche da Carlo e Diana per il loro viaggio di nozze, nel 1981. Inoltre, il Britannia venne usato anche nel 1986 in occasione della guerra civile in Aden, per l'evacuazione di circa 1.000 rifugiati.

Nel 1997, il governo conservatore di John Major promise di costruire un successore al Britannia se fosse stato rieletto. Tuttavia, questo non avvenne: il 1º maggio 1997, la vittoria alle elezioni arrise al Partito Laburista. Questo decise di ritirare dal servizio la nave, che non sarebbe stata sostituita: tale scelta fu dettata da ragioni di ordine economico. La sua ultima missione fu quella di portare via dalla città di Hong Kong l'ultimo governatore della stessa, Chris Patten, ed il Principe di Galles, dopo che l'ormai ex colonia fu restituita alla Cina il 1º luglio 1997. Il Britannia fu radiato l'11 dicembre dello stesso anno, dopo oltre 40 anni di servizio.

Convegno sulle privatizzazioni in Italia e teorie del complotto[modifica | modifica wikitesto]

Il 2 giugno 1992, a bordo della nave si tenne un convegno sulle privatizzazioni in Italia, a cui presero parte importanti manager ed economisti[1]. Questo evento ha dato luogo a una delle più diffuse teorie del complotto che ritiene che quell'incontro abbia promosso la svendita delle imprese pubbliche italiane[2][3] e dato avvio alla caduta della Prima Repubblica italiana.

L'incontro avvenne in acque italiane. La nave attraccò al porto di Civitavecchia facendo poi rotta lungo la costa dell'Argentario. Alla riunione parteciparono, oltre ad alcuni banchieri inglesi, anche un gruppo di manager ed economisti italiani: Herman van der Wyck, presidente Banca Warburg; Lorenzo Pallesi, presidente INA Assitalia; Jeremy Seddon, direttore esecutivo Barclays de Zoete Wedd; Innocenzo Cipolletta, direttore generale di Confindustria; Giovanni Bazoli, presidente Banca Antonveneta; Gabriele Cagliari, presidente Eni; Luigi Spaventa. Fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il Direttore Generale del Ministero del Tesoro Mario Draghi. L'Unità e Il Fatto Quotidiano ricostruirono un suo discorso sull'inevitabilità delle privatizzazioni in Italia.

Fusaro, il Britannia e i complotti...e l'incapacità di usare internet. Michelangelo Coltelli (maicolengel) il 05 Febbraio 2021 su  butac.it 

Oggi facciamo davvero in fretta visto che quanto segue ci è stato segnalato da un nostro lettore che aveva già verificato i fatti. Il 4 febbraio 2021 sul canale YouTube di Diego Fusaro è apparso un video dal titolo:

Perché Wikipedia ha modificato il 3 febbraio 2021 la pagina del Panfilo Britannia?

Il video (che poi in realtà è un podcast) dura ben 2 minuti e 40 secondi. Così pochi che credo di fare cosa utile a riportare tutta la trascrizione di quanto viene detto dal turbocoglfilosofo:

…vi è un piccolo mistero che riguarda la pagina Wikipedia del panfilo Britannia. Il panfilo Britannia sapete fu quel quell’evento in realtà che caratterizzò l’Italia nel ’92 allorché sul panfilo della regina d’Inghilterra si diedero convegno al largo delle coste di ostia alcuni dei principali esponenti dell’élite turbo finanziaria i quali decisero la privatizzazione totale dell’Italia. La svolta neoliberista che proprio con Mani pulite fu possibile nel ’92 con un colpo di stato giudiziario ed extraparlamentare che cancellò la Prima repubblica e pose in essere la nuova governance tecnoliberista di liberisti di centro, liberisti di sinistra, liberisti di destra. Ebbene la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata in data 3 di febbraio 2021 alle ore 18 e 05, curiosa coincidenza davvero, anche perché come sapete Mario Draghi fu sul panfilo Britannia nel 1992, fu quindi tra coloro i quali decisero o quantomeno discussero delle sorti liberalizzatrici e privatizzatrici del Paese. Ebbene curiosamente la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata proprio il 3 di febbraio del 2021 alle ore 18 05 proprio nel giorno in cui Mario Draghi è stato convocato dal Presidente della Repubblica Mattarella per il nuovo governo. Ora si legge sulla pagina del panfilo Britannia, leggo, fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il direttore generale del ministero del tesoro Mario Draghi, insomma la pagina Wikipedia del panfilo Britannia ci spiega che Mario Draghi fece solo un breve saluto e prima che salpasse. Sul Fatto Quotidiano trovate invece il discorso che Mario Draghi tenne sul panfilo Britannia e consiglio davvero a tutti la lettura di quel discorso perché ci permette di capire molto di quello che accadde già nel ’92 e molto di quello che accadrà ora nel 2021 che Mario Draghi terrà tra le sue mani il timone della barca Italia, del nostro vascello italico, ebbene possiamo dire forse che ora è arrivato per Draghi il momento di portare a compimento i compiti del panfilo Britannia del ’92…

Come chiunque non sia nato prima degli anni Sessanta sa, le modifiche su Wikipedia sono pubbliche, non c’è nessun mistero su cosa sia cambiato nella pagina dedicata al panfilo Britannia e a quel viaggio, che sono ormai quasi trent’anni che solletica le fantasie prima di signoraggisti, poi di sovranisti e infine di turbofilosofi e criminologi de noantri…

Come ci è stato riportato nella segnalazione: il corpo del testo della pagina Wikipedia è invariato dal 2016. L’unica cosa che al 3 febbraio era stata modificata era la nota [6] a piè di pagina, che si accosta alla nota nota [5] già presente. La nota bibliografica [6] altro non è che un articolo del Fatto Quotidiano, che lo stesso Fusaro richiama dal minuto 2.10 al minuto 2.40. 

Quindi non c’era nessun mistero nella modifica della pagina, e non ci credo che un soggetto giovane come Fusaro possa non sapere, nel 2021, che tutte le modifiche apportate su Wikipedia sono pubbliche e verificabili dagli utenti. Se davvero non lo sa questa dovrebbe essere dimostrazione che non è un soggetto da seguire. Uno che parla di complotti e nemmeno conosce il funzionamento dello strumento su cui ogni giorno carica le sue sbrodolate in salsa complottista non è una fonte di informazione affidabile.

Della vicenda del Britannia ne ha parlato il sempre bravo Alessandro D’Amato su Today, con queste conclusioni:

La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice “saluto a nome del governo”, ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient’altro. A distanza di anni l’assalto dei complottisti di QAnon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c’è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.

Fusaro è uno di quelli alla guida del bus che sta tentando il frontale, fossi nei suoi follower scenderei alla prossima fermata. Detto ciò le modifiche alla pagina Wiki dedicata al panfilo non si sono fermate, come è normale che sia se un argomento torna virale dopo un po’ che non se ne è parlato. 

Basta andare sulla pagina “cronologia” per vederle tutte, e cliccando sul testo in blu potete vedere chi ha aggiunto o eliminato qualcosa e cosa è stato aggiunto o eliminato. Nulla di così difficile, a meno che non siate turbofilosofi.

Non credo sia necessario aggiungere altro.

Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia Today . Alessandro D'Amato il 03 febbraio 2021 su Today.

Da quando Mattarella ha annunciato di volergli conferire l'incarico è tornata a circolare la teoria del complotto su SuperMario e sul panfilo dove tenne un discorso sulle privatizzazioni italiane nel 1992. Ecco un estratto del suo discorso e un inquadramento storico della vicenda

Non appena Sergio Mattarella ha annunciato di voler conferire l'incarico di formare un nuovo governo a Mario Draghi, subito le agenzie di stampa facevano rimbalzare una dichiarazione del senatore del MoVimento 5 Stelle Elio Lannutti: "Draghi sul Britannia: il discorso dell'inizio della fine dell'Italia. Nel 2011 Monti. Oggi Draghi. Non governerà col mio voto. Mi spiace!". Subito dopo arrivava a dargli man forte l'ex grillino Gianluigi Paragone in un video su Facebook: "Draghi è quello del Britannia, quello delle privatizzazioni con cui abbiamo svenduto il paese. Ma ora vedremo le carte, si gioca a carte scoperte". Non solo: in alcune chat complottiste su Telegram e Whatsapp rimbalzava questo estratto di una dichiarazione a Uno Mattina dell'allora senatore a vita e già presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che di Draghi diceva: "Un vile affarista. Non si può nominare premier chi è stato assunto dalla Goldman Sachs. E male feci io ad appoggiarne la candidatura a Silvio Berlusconi. È il liquidatore, dopo la crociera sul Britannia, dell'industria italiana. Ora svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica ed Eni". Ma cos'è questa storia di Draghi e del Britannia? 

Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia

Si tratta di una delle più longeve teorie del complotto che abbiano mai attraversato la Repubblica italiana. Tutto parte dal 1992, ma prima bisogna fare un passo indietro. Dopo la conclusione del suo incarico come direttore esecutivo della Banca Mondiale, nel 1991 Draghi diventò direttore generale del ministero del Tesoro, chiamato a quel posto dall'allora ministro del Tesoro del settimo governo Andreotti Guido Carli. A suggerire il suo nome fu Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia e qualche anno dopo presidente del consiglio di un governo tecnico, come si appresta a diventare oggi proprio SuperMario. Nel 1992, mentre le finanze italiane versano in condizioni drammatiche (e di lì a poco il presidente del Consiglio Giuliano Amato decretò il famigerato prelievo sui conti correnti: la famosa patrimoniale del 6 per mille), si decide di dare il via per fare cassa a un piano di privatizzazioni delle società partecipate dallo Stato. Prima dell'inizio della stagione delle privatizzazioni, il 2 giugno Draghi si recò sul panfilo della regina d'Inghilterra Elisabetta II HMY Britannia per incontrare alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale. Di qui l'accusa: Draghi si accordò con la finanza internazionale per svendere l'Italia. 

Il 22 gennaio del 2020 il Fatto Quotidiano pubblicò un articolo a firma di Alessandro Aresu che parlava della vicenda, il commento dell'allora caporedattore dell'economia Stefano Feltri (che nel frattempo è diventato direttore di Domani) e il discorso integrale fatto da Draghi. Il contesto storico sintetizzato nella presentazione ricordava lo scioglimento delle Camere decretato da Francesco Cossiga il 2 febbraio 1992, la firma cinque giorni dopo del Trattato di Maastricht, in cui Carli ha un ruolo chiave, le elezioni di aprile con la prima affermazione della Lega Nord, l’accelerazione di Mani Pulite. Quel 2 giugno arriva pochi giorni dopo la strage di Capaci e l’ekezione di Scalfaro: "Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico", esordì Draghi. I British Invisibles erano allora il gruppo di interessi finanziari della City.

Per poi spiegare: "La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit. Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento".

Chi è Mario Draghi, chi voterà il suo governo tecnico e cosa succede adesso

Il discorso di Draghi sul Britannia il 2 giugno 1992

Poi, dopo aver elencato le condizioni dello Stato italiano e la decisione di muoversi verso un percorso di riforme insieme alle privatizzazioni: poco più tardi un referendum cambiò la legge elettorale introducendo il maggioritario e aprendo la via alla cosiddetta Seconda Repubblica. Draghi aggiungeva: "Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo".

E infine concludeva così: "I mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’ag - giustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni". E quasi trent'anni dopo Feltri commentava: "La lista di quello che bisognava fare e non è stato fatto è lunga. Draghi probabilmente riscriverebbe oggi quel discorso, parola per parola. Inclusa la parte che analizza perché gestire le aziende con logiche politiche e di consenso a breve termine è la premessa di disastri scaricati presto o tardi sui conti pubblici". Oggi Alessandro La Barbera su La Stampa ricorda che già in quei mesi a Draghi toccò l'accusa di aver svenduto l'Italia agli interessi stranieri: 

Gli capita ancora, a distanza di trent’anni, di ricordare con fastidio la campagna di discredito che gli fu riservata per essere salito pochi minuti sul panfilo della Regina d’Inghilterra attraccato al molo di Civitavecchia. L’invito fu spedito da un gruppo di investitori. Lui salì, fece un saluto a nome del governo, e se ne andò. Quel piano di privatizzazioni, attaccato da molti, fu una delle premesse per far entrare l’Italia nella moneta unica.

Draghi, il Britannia e... Beppe Grillo

La storia di Draghi e del Britannia va a incastrarsi con un'altra teoria del complotto che vede coinvolto Beppe Grillo. A partire dal 2000, per motivi non chiari, circolò la voce che anche l'attuale Garante del MoVimento 5 Stelle fosse a bordo del Britannia. Una storia alimentata da immagini che mostravano dichiarazioni attribuite a Enrico Mentana come questa: "Il 2 giugno 1992 ero sulla banchina del porto di Civitavecchia con la trouppe (sic) del TG5 per una edizione speciale sulla riunione a bordo del panfilo inglese di Elisabetta II. Saranno state le 14:30, intervistai in diretta Beppe Grillo subito dopo lo sbarco dal motoscafo che lo riportò in porto". Un'altra invece tirava in ballo Emma Bonino, “al microfono dell’unica troupe giornalistica del TG1 accreditata sulla nave. Si tratta di due bufale. Il direttore del Tg di La7 la smentì con il suo stile sei anni fa su Facebook: "Qualche mestatore imbecille ha rimesso in circolo la panzana secondo cui nel 1992 avrei intervistato Beppe Grillo che scendeva dal panfilo Britannia nel porto di Civitavecchia. Intervenga - se è possibile - chi è preposto a impedire la circolazione di notizie palesemente false sui social network. E riflettano tutti coloro che utilizzano Fb e Twitter per drogare la circolazione virale di bufale a scopo politico. E sono tanti.".  

Ma allora cos'è questa storia del Draghi e del Britannia? La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice "saluto a nome del governo", ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient'altro. A distanza di anni l'assalto dei complottisti di Qanon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c'è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.  

PRIVATIZZAZIONI. 1992, FALSI MITI ED ERRORI VERI 

“Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia. Il Fatto Quotidiano il 22 gennaio 2020.

Pubblichiamo il discorso di Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, del 2 giugno 1992: l'ex presidente della Bce parlò della vendita delle azioni pubbliche. Un processo con cui, 28 anni dopo, l'Italia fa i conti. Nelle sue parole i mercati come strada per la crescita, la fine del controllo politico, l'idea di public company, ma anche i tanti rischi: "Sarà più difficile gestire la disoccupazione. Non c'è una Thatcher - disse - servono strumenti per ridurre i senza lavoro e i divari regionali. Andranno tutelati gli azionisti di minoranza". E ancora: "Questo processo lo richiede Maastricht, facciamolo prima noi. Ma va deciso da un esecutivo forte e stabile. Ridurremo il debito".

DI MARIO DRAGHI:

Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.

Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.

Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi. Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi. Primo: privatizzazioni e bilancio. La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.

Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento). Le conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.

Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati. L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.

Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.

Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali. Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.

A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare? Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze. Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility). Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.

In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.

Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.

Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni. 

Mario Draghi, servitore dell’alta finanza massonica internazionale e dei poteri forti. Da Iacchite il 4 Febbraio 2021.

Accolto da un coro pressoché unanime e plaudente, Mario Draghi divenne il nuovo governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005. Per lui sono state sprecate le lodi e gli aggettivi specie da parte del “centrosinistra”: “una scelta di alto profilo” (Prodi), “Una guida forte e sicura per Bankitalia” (Veltroni), una “biografia intellettuale di tutto rispetto” (Liberazione), “Ama il dialogo, il lavoro di staff, la discussione, circondarsi di intelligenze” (il manifesto).

Ma chi è veramente l’uomo che venne presentato come una sorta di “salvatore della patria”, colui che sarebbe stato capace di restituire “prestigio” e “credibilità” a Palazzo Koch e all’Italia intera a livello internazionale?

Draghi è innanzitutto il grande privatizzatore che ha contribuito in prima persona a svendere tutto il patrimonio industriale e finanziario pubblico gettandolo nelle fauci del mercato privato italiano e internazionale con un costo sociale altissimo soprattutto in termini di occupazione.

È l’uomo dell’alta finanza massonica internazionale da Soros, ai Rothschild, alla Goldman Sachs, accusato di essere “l’anima nera” dei “poteri forti” internazionali organizzati in associazioni di tipo massonico come Bilderberg e Trilateral alle cui converticole è stato spesso presente.

Draghi è nato nel 1947 a Roma. Frequenta il liceo dei gesuiti Massimo. Il suo compagno di scuola è il futuro presidente della Fiat e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che, guarda caso, oggi è stato uno dei suoi principali sponsor. Negli anni ’70, all’università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si laurea in economia e che, da barone, imporrà la sua carriera accademica. Studia e insegna nei migliori campus Usa e consegue un Ph.d in Economics presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT). Gli Usa saranno una sua seconda patria. Poi verrà anche Londra, o per meglio dire la City.

Dal 1981 torna in Italia e insegna all’Università di Firenze. Alla fine degli anni ’80 approda nei corridoi ministeriali come consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l’Italia negli organi di gestione della Banca Mondiale. Draghi comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni.

Nel ’90 è consulente proprio della Banca d’Italia con Ciampi governatore, del quale si dice a tutt’oggi sia uomo fidato. Alla Banca d’Italia lavorava anche il padre di Draghi, Carlo, all’epoca di Donato Menichella.  Nel 1991 diventa direttore generale del Tesoro. Fino ad allora un incarico poco ambito. Ma Draghi riesce a trasformare quell’incarico in una delle poltrone chiave del potere economico e finanziario del Paese.

Negli stessi anni è membro del Comitato monetario della CEE e del G7, nonché presidente di Gestione Sace. Dal ’91 al ’96 è nel CdA dell’IMI e dal ’93 presiede il Comitato per le privatizzazioni. Dal ’94 al ’98 è presidente del G10 Deputies. Al nome di Draghi si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria, che passa alla storia, appunto, come Legge Draghi. Una legge che contiene le nuove regole sull’Opa.

In sostanza, per dieci anni, fino al 2001, Draghi resta alla torre di controllo dell’industria e della finanza pubbliche nonostante la giostra di ministri e di governi che si sono succeduti: dal governo Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi.

La chiave di volta della sua inarrestabile carriera, sembra essere il 2 giugno del 1992 quando Draghi partecipa a una “crociera” sul lussuoso yatch “Britannia” della regina Elisabetta d’Inghilterra che incrocia a largo di Civitavecchia. Tra i passeggeri figurano i rappresentanti delle banche più importanti e dell’alta finanza “giudaico-anglosassone”, Barings, Barchlay’s e Warburg, il banchiere e speculatore internazionale George Soros e, per l’Italia, Mario Draghi, Beniamino Andreatta, collaboratore di Prodi, e, sembra, il ministro del Tesoro Barucci.

Si dice che su quella nave sia stata messa a punto e deliberata una strategia che doveva portare alla svalutazione della lira e alla completa privatizzazione delle partecipazioni statali italiane a prezzi stracciati grazie alla svalutazione. Non vi sono prove, ma certo ciò che avvenne a distanza di soli tre mesi, non può essere pura coincidenza. Fatto sta che a settembre dello stesso anno viene lanciato un attacco speculativo che porta a una svalutazione della lira del 30% ed al prosciugamento della riserva della Banca d’Italia con Ciampi che arriva a bruciare 48 miliardi di dollari.

Una crisi che portò anche allo scioglimento del Sistema Monetario Europeo (SME). E subito dopo si apre la stagione delle privatizzazioni: da Eni a Telecom, da Imi a Comit, al Credit, a Bnl. Passano in mano del mercato estero, oltre a buona parte del sistema bancario, i colossi dell’energia e delle comunicazioni, la Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina, Mira Lanza e molte altre aziende dei settori strategici.

A governare lo smantellamento dell’Iri c’è Prodi col quale Draghi vanta un’antica amicizia e collaborazione nata nella frequentazione del Centro di studi economici bolognese Prometeia del DC Andreatta.

Sono tanto forti i legami di Draghi con buona parte della finanza internazionale, che Ciampi affida a lui tutto il lavoro diplomatico legato a superare le resistenze in Europa all’entrata dell’Italia nell’euro nel gruppo di testa. La lunga stagione di Draghi al ministero del Tesoro si chiude solo nel 2001, quando il ministro Tremonti chiama a sostituirlo Domenico Siniscalco.

Draghi lascia via XX Settembre e torna ad insegnare negli Stati Uniti. Dopo soli 5 mesi, nel 2002 entra in Goldman Sachs a Londra di cui ben presto diviene vicepresidente per l’Europa. Un altro clamoroso caso di conflitto d’interesse.

Nel curriculum di Draghi pochi ricordano il curioso riacquisto di una fetta di Seat da parte della Telecom che l’aveva appena ceduta. O del fatto che si è reso conto dell’affare “Telekom Serbia” solo quattro mesi dopo che l’operazione era stata conclusa. O della vendita alla Goldman Sachs per tremila miliardi delle vecchie lire dell’intero patrimonio immobiliare dell’Eni appena un anno prima, nel dicembre 2000, di essere nominato vicepresidente guarda caso proprio della Goldman Sachs.

Altro che “ottimo servitore dello Stato”. Piuttosto un ottimo servitore degli interessi speculativi dell’alta finanza e del capitalismo italiano e internazionale, quanto se non di più del deposto Antonio Fazio dal quale lo distinguono solo le principali correnti e lobby politiche, economiche e finanziarie di riferimento, che a volte agiscono in combutta, a volte in contrapposizione. Fonte: Il Bolscevico 

SERGIO ROMANO su corriere.it Martedi' 16 Giugno 2009 

LA CROCIERA DEL BRITANNIA FRA AFFARI E SOSPETTI. Che cosa accadde realmente il 2 giugno 1992 a bordo del Britannia, il panfilo della Corona d’Inghilterra, dove manager ed economisti italiani discussero con i banchieri britannici della prospettiva delle privatizzazioni in Italia? Una minicrociera di mezza giornata al largo di Civitavecchia attorno alla quale si è sviluppata la leggenda di un complotto per svendere l’industria pubblica italiana alla finanza anglosassone. Quali esponenti italiani vi parteciparono? Che effetti ebbe quella riunione? Giuseppe Zaro

Caro Zaro, Posso dirle anzitutto quello che accadde nei giorni seguenti. Vi furo­no indignate prese di posizio­ne della stampa nazionalista. Vi furono preoccupate inter­rogazioni parlamentari di esponenti del Msi. E vi fu un coro di voci allarmate che de­nunciarono la «regia occulta» dell’incontro, le strategie dei «poteri forti», la «svendita dell’industria italiana». L’uso del panfilo della Regina Elisa­betta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse sta­to organizzato da una società chiamata «British Invisibles» provocò una valanga di sorri­si, ammiccamenti e battute ironiche.

Cominciamo dal nome de­gli organizzatori. «Invisibili», nel linguaggio economico-fi­nanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, ri­lanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capi­tale di competenze nel setto­re delle acquisizioni e delle fu­sioni. Fu deciso che quel capi­tale sarebbe stato utile ad al­tri Paesi e che le imprese fi­nanziarie britanniche avreb­bero potuto svolgere un ruo­lo utile al loro Paese. «British Invisibles» nacque da un co­mitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Fi­nancial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazio­ne capì che anche l’Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’in­contro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasio­ne di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affit­tarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari bri­tannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occu­pazioni del governo del Re­gno Unito.

Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono banchieri pubblici e privati, manager dell’Iri e dell’Efim, rappresentanti di Confindu­stria. Vi fu anche Mario Dra­ghi, allora direttore generale del Tesoro nel governo di Giu­liano Amato. Ma Draghi si li­mitò a introdurre i lavori del seminario con una relazione sulle intenzioni del governo italiano e scese a terra prima che la nave salpasse per l’Ar­gentario. La crociera fu breve e pittoresca, con una orche­strina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei bri­tannici che si staccarono in volo da un incrociatore e sce­sero come stelle filanti intor­no al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizza­zione italiana degli anni se­guenti in cui la finanza an­glo- americana non abbia svolto un ruolo importante.

Estate ‘92: la crociera sul Britannia voluta da sua maestà che privatizzò l’Italia…Il 2 giugno 1992 sul panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia. Paolo Delgado su Il Dubbio il 22 agosto 2018.

Il 2 giugno 1992 l’ultima estate della Prima Repubblica non era ancora iniziata. Il panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, era all’ancora nel porto di Civitavecchia, in attesa di imbarcare ospiti importanti per una minicrociera verso l’isola del Giglio. Ci sarebbero stati manicaretti per pranzo, gamberetti e costolette d’agnello preparati da chef d’eccezione. Ci sarebbe stato un po’ di spettacolo, con i parà inglesi che si lanciavano dagli aerei decollati da un incrociatore. Ci sarebbe stata musica d’epoca, rigorosamente anni ‘ 30. Ci sarebbero stati soprattutto discorsi destinati a cambiare la storia d’Italia. Su quel panfilo, in quella giornata di sole e mare, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia.

Gli anfitrioni della Union Jack erano definitivi, invisibles, invisibili, non perché si trattasse di una losca setta in stile feuilleton ottocentesco ma perché così si chiamano nel Regno Unito quelli che si occupano di transizioni immateriali, dunque soprattutto di finanza: finanzieri e banchieri. Gli ospiti erano l’alto comando dell’economia di Stato italiana: il presidente di Bankitalia Ciampi e l’onnipresente Beniamino Andreatta, i due artefici del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro all’inizio degli anni ‘ 80, c’erano i vertici di Eni, Iri, Comit, Ina, le aziende di Stato e lepartecipate al gran completo. C’era, a introdurre il consesso, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Fu lui a tenere la relazione introduttiva sui costi e i vantaggi delle privatizzazioni. Dicono che dalle sue parole trapelasse un certo scetticismo e forse è vero. Di certo, terminata la prolusione, sbarcò senza proseguire alla volta del Giglio. Ma non c’era scetticismo che tenesse. L’operazione avviata in quella mezza giornata sul mare era in realtà già stata decisa e non solo perché quella era allo-ra, dopo la rivoluzione thatcherian- reaganiana, il dogma economico dal quale si erano lasciati ipnotizzare tutti, la sinistra “di governo” non meno della destra. Anche e soprattutto perché quella gigantesca dismissione era condizione imprescindibile per entrare nella nascente moneta unica. Ce lo chiedeva l’Europa. Chiedeva parecchio: lo Stato controllava treni, aerei e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’ 80% del sistema bancario, l’intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate: assicurazioni, meccanica ed elettromeccanica, settore alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio. Impiegava il 16% della forza lavoro nel Paese.

Vendere, o svendere, quel patrimonio, secondo i dettati della teoria economica imperante avrebbe raggiunto tre risultati: ridurre il debito pubblico che ammontava allora a 795 mld di euro, rendere più efficienti e competitivi i settori in via di privatizzazione, aumentare l’occupazione. In quell’inverno del 1992, mentre tangentopoli colpiva durissimo e si attendeva un referendum che tutti sapevano avrebbe siglato il Game Over per la prima Repubblica, nei corridoi di Montecitorio non si sentiva parlare che di “privatizzazioni” e “cartolarizzazioni”. Era la panacea, il sospirato miracolo, la bacchetta magica.

Si partì nel luglio 1993, con la vendita, o svendita, della prima tranche del gruppo SME, controllato dall’Iri. L’onore di aprire la strada toccò ai surgelati e ai dolci: Motta, Alemagna, Surgela più varie e molte eventuali. Se li aggiudicò la svizzera Nestlè.

Il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si prolungò fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le dismissioni presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a 56mila e passa. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale.

La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. L’incasso è stato cospicuo: 127 mld di euro, una decina ricavata solo dalla vendita di immobili. Sarebbe un record se non ci fosse l’inarrivabile Regno Unito thatcheriano e post- thatcheriano che è andato persino oltre. Il bilancio però è fallimentare, almeno se si tiene conto degli sbandierati obiettivi iniziali. Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo.

Il principale vantaggio promesso ai consumatori, l’abbassamento dei prezzi conseguente alla competività delle aziende private sul mercato, è stato rapidamente affondato dalla tendenza delle aziende stesse ad accordarsi ricreando di fatto condizioni di monopolio, solo a condizioni più esose. E’ vero che spesso gli utili delle aziende privatizzate sono cresciuti e spesso di parecchio. Però, come segnalava nel 2010 la Corte dei Conti, in una valutazione complessiva del ventennio delle privatizzazioni, non per il miglioramento dei servizi e la loro conseguente maggior appetibilità: solo per l’aumento delle tariffe.

Se sia oggi il caso di tornare a nazionalizzare è oggetto di disfide nelle quali è difficile, per chi non abbia le necessarie competenze tecniche, decidere dove siano le ragioni e dove i torti. Però ammettere che le privatizzazioni italiane sono state un fallimento sarebbe quanto meno onesto. 

Maastricht, Tremonti: "In Ue atto di straordinaria importanza ma in Italia abbattuta industria". Da adnkronos.com il 6 febbraio 2022.

"Poco dopo iniziò Mani Pulite e attraccò Britannia, avviando processo 'elegante' ma simile a quello oligarchi russi".

Se dal "lato europeo" il trattato di Maastricht "è un atto costitutivo di straordinaria importanza" per cui "la mia valutazione è assolutamente positiva", dal "lato italiano" appena "15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni" con "l'effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana" con "un processo che simile non c'è stato né in Germania né in Francia". Lo racconta l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che all'Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.

"Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano", spiega. Guardando a quello europeo "viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini - ribadisce l'ex ministro - una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress", insiste Tremonti ricordando come "dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori. L'ipotesi era che l'Unione basata sul mercato comune fosse modello per un mondo che a sua volta superando le ideologie si unificasse nella logica del mercato. Non è stato propriamente così, non è stata l'Unione ad essere modello e paradigma del mercato, ma è stato il mercato - sostiene Tremonti - ad entrare in Europa trovandola impreparata. Eliminati completamente i dazi, troppe regole imposte a imprese europee, costrette a competere con imprese estere prive di regole. C'è ancora molto da fare e può essere fatto".

Dal lato italiano, racconta specificando di "aver personalmente verificato le parole", sul volo di Stato di ritorno da Maastricht l'allora ministro del Tesoro Guido Carli "dice 'abbiamo aggiunto al vincolo Atlantico un ancora più forte vincolo europeo' e Andreotti dice 'a Roma non sanno quello che abbiamo fatto'. Mani pulite inizia 15 giorni dopo, il Britannia attracca poco dopo, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con gli oligarchi, i signori delle privatizzazioni. L'effetto finale - ricorda nuovamente l'ex ministro Tremonti - è stato quello di abbattere progressivamente la grande industria italiana. Un processo simile non c'è stato né in Germania né in Francia".

Trattato di Maastricht, 30 anni dopo. L’analisi di Tremonti: “Ha abbattuto la grande industria italiana”. Penelope Corrado su Secolo d’Italia domenica 6 Febbraio 2022. 

Se dal “lato europeo” il trattato di Maastricht “è un atto costitutivo di straordinaria importanza” per cui “la mia valutazione è assolutamente positiva”, dal “lato italiano” appena “15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più ‘elegante’ ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni” con “l’effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana” con “un processo che simile non c’è stato né in Germania né in Francia”. Lo racconta l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che all’Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.

L’ex ministro dell’Economia Tremonti spiega come hanno distrutto l’industria italiana

“Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano”, spiega. Guardando a quello europeo “viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini – ribadisce l’ex ministro – una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress”, insiste Tremonti ricordando come “dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori.  

Tremonti: «L’Italia entrò nell’euro per l’interesse tedesco Uscirne? Sarebbe distruttivo». Alessandro Graziani il 6 gennaio 2019 su ilsole24ore.com.

«La mia prima occasione di incontro con l’euro è stata accademica alla Oxford Union Society, 18 febbraio 1999. Dibattiti provocatori e paradossali, pensi che nel 1938 in un’occasione gli studenti votarono a favore di Hitler contro Churchill, salvo poi morire sui loro “spitfire”. A ogni modo, il mio dibattito era “euro is in our national interest”? Sarei stato il primo oratore italiano mai invitato, ma ad un patto: dimostrare che l'euro conveniva al Regno Unito. L'avversario era Frederick Forsyth, che oggi si direbbe “populista”. L'occasione era unica e perciò avrei parlato anche a favore del demonio. Alla fine votarono se pure per poco a favore della sterlina. Non credo che oggi farebbero diverso, anzi». L’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti inizia con un aneddoto la sua intervista a IlSole24Ore ed entra nel dibattito lanciato daquesto giornale su vizi e virtù dei 20 anni della moneta unica.

A venti anni dalla nascita, che giudizio dà dell’euro?

Per quanto atipico l'euro è comunque una moneta e, come tutte le monete, non può essere trattato come una “monade” e neppure come un “noumeno”. Che sia Platone o Kant, che sia la tecnica a farsi metafisica, troppi “esperti” oggi considerano l'euro come entità staccata o staccabile dalla realtà ed in specie dalla politica. E questo è per certi versi paradossale per due ragioni. In primo luogo perché l’euro fu concepito dai padri come strumento economico per fare politica: “federate i loro portafogli, federerete i loro cuori”. In secondo luogo perché gli ultimi venti anni, ovvero l’età dell'euro, sono anche gli anni nei quali sono cambiate la struttura e la velocità del mondo: venti anni fa non solo c'erano ancora le monete nazionali, ma c'era anche il telefono fisso, il commercio era ancora internazionale, non c'erano l'Asia o Internet. E già questo ci porta ad una prima considerazione: che effetti hanno sulla moneta la scomparsa della domanda salariale un tempo causa sistemica di inflazione o l'apparizione di circuiti finanziari automatici ed autogestiti che rendono la moneta, un tempo segno sovrano, sempre meno sovrana di sé stessa? 

È il caso di evitare l'errore “tecnico” che consiste nel considerare l'euro solo in termini di quantità monetaria, di velocità, di tassi di interesse o di cambio. Pensando che questo possa governare la realtà o prescindere dalla realtà. Soprattutto perché l'euro è moneta atipica. Per la prima volta nella storia, si ha moneta senza governi e governi senza moneta. All'origine ci furono un grande pensiero e grandi uomini. L'impressione è che la realtà presente sia un po' differente.

L’euro è anche frutto di grandi eventi storici, come la riunificazione tedesca. Che ne pensa?

Le date chiave sono il 9 novembre 1989 e il 15 aprile 1994. È più o meno qui che si colloca il “big-bang” della storia contemporanea: a Berlino con la caduta del muro e a Marrakech con il WTO. Non puoi capire l'una senza capire l'altra. Dal crollo del muro all'unione monetaria passano solo 700 giorni, ma sono i giorni nei quali è cambiata la storia. Forse una eterogenesi dei fini. Non la riduzione della forza tedesca con l'estensione del marco, ma l'effetto opposto. In ogni caso la storia si rimette in cammino. Dappertutto, anche in Italia. Ricordo due episodi per tutti: 15 giorni dopo Maastricht inizia a Milano “Mani Pulite”. Qualche tempo dopo attracca a Civitavecchia il Britannia.

L’ingresso dell’Italia nell’euro avvenne per merito o perchè conveniva ad altri Paesi europei?

È molto probabile che l'Italia abbia fatto il 3% di Maastricht perché si era già deciso di farla entrare nella moneta. Tutti gli Stati hanno fatto operazioni di bilancio per centrare il 3%, anche operazioni puramente contabili. Nel caso italiano la scelta fu tedesca, in terra neutra sul lago Lemano gli industriali tedeschi da un lato non ancora consolidati nella grande Germania e dall'altro temendo la concorrenza dell'industria italiana allora ancora molto forte convinsero la “banca tedesca” a fare entrare l'Italia nella moneta così che la curva dei tassi sul debito italiano crollò. Di incerto restava non l'ingresso, ma l'anno di ingresso. Non essendo un economista mi permetto di rinviare a quanto scritto da Modigliani e da Spaventa alle posizioni espresse da Ciampi, da Savona, da Romiti. È comunque probabile che il cambio lira/euro sia stato influenzato in negativo sull'Italia da tutto quanto sopra: come pizzino applicato sul biglietto di ingresso. Data la dimensione storica del fenomeno e la natura dell'Italia come paese fondatore, il tipico meschino errore.

La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata. 

L’ex premier Prodi ha scritto pochi giorni fa sul Sole24Ore che se l’euro fece salire i prezzi di merci e servizi, la responsabilità è del Governo di centrodestra che, quando a inizio 2002 l’euro entrò nelle tasche degli italiani, non vigilò adeguatamente. Come risponde?

Non possiamo mettere in pericolo la Coesione

Dobbiamo tutti essere d'accordo su un punto: non dobbiamo intaccare la coesione. Lo ha detto Elisa Ferreira, Commissaria Ue per le politiche regionali e urbane in occasione della pubblicazione dell'ottavo...

È polemica ed infantile l'idea dei controlli da fare H24. L'idea sinistra della polizia annonaria. Nella realtà, nella storia dell'Italia non ci sono mai stati o comunque diffusi pezzi monetari ad alto valore ma sempre pezzi cartacei e monetine. Perfino gli assegnini degli anni '70 erano pezzi di carta e come tali accettati. Se mi è consentito l'unica vera idea, e non solo per l'Italia ma per l'Europa, era quella della banconota da un euro ed un'idea non solo di interesse italiano come alcuni ottusi mi obiettarono ma di interesse per l'euro in sé, se l'euro aspirava a diventare una vera moneta globale. Forse non è un caso se esiste la banconota da un dollaro.

Superato il changeover, che giudizio dà dei primi anni dell’euro?

Nei primi anni, a partire dal 2002, tutto è stato relativamente tranquillo e credo ben governato nella relativa normalità, portata da quella che in effetti era una assoluta novità. Ad esempio nel 2003 il caso in cui i “custodi dell'euro” volevano applicare alla Germania non solo la procedura per deficit eccessivo, ma anche le sanzioni. Ricordo di aver fatto notare che il Trattato prevedeva le sanzioni solo nel caso di intenzionale e sfidante deviazione dai criteri di Maastricht e non nel caso di numeri generati da una economia in crisi. Premesso che dare le sanzioni alla Germania, ma anche a nessun altro, non è una cosa molto intelligente, premesso che la Corte di Giustizia avvalorò la proposta italiana (salvo un piccolo errore di procedura commesso perché si era all'alba), premesso che se colpita dalle sanzioni la Germania non avrebbe poi fatto le sue grandi riforme, fu davvero curioso che chi chiedeva le sanzioni in applicazione fanatica del Patto dichiarò qualche tempo dopo che il Patto era stupido.

Trattato di Lisbona, allargamento a Est della Ue, globalizzazione. L’Europa cambia. Con che impatto sull’euro?

La storia faceva il suo mestiere e troppi esperti, governanti e santoni non si accorgevano di quello che stava succedendo. Con il Trattato di Lisbona la piramide istituzionale dell'Europa si è rovesciata, trasferendo verso Bruxelles enormi quote di potere non più controllato in senso propriamente democratico. La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata: l'Europa a disegnare l'astratto mercato perfetto, le nostre imprese costrette a competere con mondi molto meno vincolati e regolati. L'allargamento ad Est? Giusto, ma troppo veloce. Ed ora chi lo chiedeva così veloce condanna Visegrad. Forse avrebbero dovuto leggersi un libro di storia. In ogni caso l'Est chiedeva democrazia e Bruxelles e il Lussemburgo si sono organizzate come la fabbrica della democrazia post-moderna ad esempio occupandosi della “horizontal family”. Infine la crisi. Non si trova la parola crisi nei Trattati se non a proposito delle calamità naturali e degli sbilanci commerciali in un singolo Stato. Il fondo anticrisi proposto dall'Italia nel 2008 fu costituito anni dopo usando un notaio che arrivò di notte all'Eurogruppo incorporandolo come un “hedge fund”.

Con la crisi divampa la polemica contro l’Europa delle regole e i burocrati di Bruxelles. Di chi è la responsabilità?

La sconfinata devoluzione di poteri verso l'alto e quindi verso un sostanziale vuoto democratico, l'orgia legislativa, la eliminazione totale istantanea dei dazi europei, la trasformazione dell'Europa in un corpus politico sui generis, la mala gestio della crisi, ciascuno di questi fatti capace da solo di produrre effetti violentissimi, e tutti insieme un caos, tutto questo per quasi venti anni è stato causato ma non capito dalla classe dirigente europea che adesso ricorda i nobili dopo la rivoluzione francese. Non hanno capito niente, ma ricordano tutto. Ricorda chi chiedeva di tenere ancora un po' i dazi e chi ancora nel '97 parlava della lumachina di mare, dei fagioli europei, dei furetti con il passaporto europeo, etc.? Pochi sanno che in extremis pochi giorni prima del voto sulla Brexit Bruxelles sospese il regolamento “toilet flushing” sugli impianti igienici da standardizzare nelle case europee. E poi uno si chiede perché “questa” Europa non è amata.

Soluzioni possibili?

Il venire meno della solidarietà con le atrocità combinate alla Grecia e con il golpe finanziario in Italia sono episodi che non possono più essere ripetuti e forse l'idea degli eurobond, già emersa con la proposta Delors nel 1994 e più avanti con la Juncker-Tremonti, potrebbe essere la soluzione.

Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity”?

Gli anni della crisi hanno portato alla ribalta la Bce. Con Qe e «whatever it takes» Draghi ha salvato l’euro. Concorda?

Una premessa. Mi risulta che il Parlamento tedesco abbia appena approvato, e che quello francese stia per farlo, una norma che sterilizza l'impatto di una “Hard-Brexit” sui derivati con controparti europee. Che cosa vuol dire? Io credo che pur determinata dalla scelta americana di creare moneta “ex nihilo” la scelta Bce della “quantitative easing” sia stata pur nella sua particolare applicazione una grande e giusta scelta: Ma forse anche per valorizzarla nella sua intelligenza politica è venuto il tempo di alcuni rilievi ed interrogativi: il 2% di inflazione è davvero un target o piuttosto un plafond? E comunque che effetto hanno gli strumenti monetari nel'età della globalizzazione? Nel wording Bce si legge da anni: “sovereign debt crisis”. Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity” salvo il caso di qualche Governo che ha fatto l'opposto? Ha avuto senso speculare contro gli Npl italiani sottraendo risorse alle nostre banche ed invece ignorare il mondo opaco ed enormemente più pericoloso dei derivati?

L’euro è irreversibile? La maggioranza degli italiani e degli europei è a favore della moneta unica. Che ne pensa?

Un conto è uscire da una moneta nazionale per entrare in una moneta sovranazionale. Un conto è uscire da una moneta sovranazionale per entrare in una moneta nazionale. Chi lo fa perde il futuro senza riacquistare il suo passato. Si dimentica che c'è stata e che c'è comunque la globalizzazione e che forze esterne distruggerebbero l'operazione. Tra l'altro per una moneta nazionale servirebbe coesione nazionale, non una parte che la vuole e l'altra no. Chi firmerebbe le nuove banconote e chi le prenderebbe in cambio delle materie prime che noi trasformiamo? Se è pur vero che in questo momento c'è più paura di perdere l'euro che fiducia nell'euro in sé, il popolo italiano nella sua profonda saggezza la dice molto lunga al proposito. Certamente qualcosa in più va fatto. Guardi la fotografia del Trattato di Roma: uomini, un tipo d'uomo che gli inglesi dicono “grave”, uomini che avevano fatto la prigione o l'esilio per le loro idee. Guardi le “family photo” europee attuali. La differenza non sta solo nel fatto che quelle erano foto in bianco e nero e queste sono foto a colori.

MANI PULITE 30 ANNI DOPO. L’arma delle mafie è la corruzione. Per i loro business la criminalità organizzata continua a usare le tangenti. Più esigue ma molto più diffuse di prima. Il vero pericolo è l’incontro tra i loro interessi e imprenditoria. Lirio Abbate su L'Espresso il 10 febbraio 2022.

La corruzione non si arresta. Nuovi processi riempiono sempre di più le aule giudiziarie, con gli imputati e le inchieste a dimostrare ancora una volta che le mazzette sono un’arma utilizzata dalle mafie per questo loro business “silenzioso”. La tangente, a distanza di trent’anni da Mani Pulite, viaggia ancora nei palazzi e negli uffici pubblici provocando contraccolpi negativi alla società che riceve servizi sempre più scadenti, opere pubbliche che non vedono quasi mai la conclusione dei lavori, al contrario della lievitazione dei costi.

L'ipocrisia del Belpaese. Dal caso Craxi ai nodi ancora irrisolti della giustizia. Marcello Lala su Il Riformista il 9 Febbraio 2022. 

Quando Ettore Rosato (presidente di Italia Viva) e Marco Di Maio (vicedirettore di Radio Leopolda) mi hanno chiesto che cosa ne pensassi di fare un podcast su Bettino Craxi e sulla sua storia sono stato non solo felicissimo ed onorato ma ho anche pensato che fosse necessario inventarsi qualcosa di nuovo, qualcosa di mai detto e la chiave era ascoltare le persone che come me hanno avuto la possibilità di vivere e di conoscere il vero Craxi, quello più intimo.

Insieme alla giornalista di Radio Leopolda Chiara Marconi siamo andati alla ricerca degli aspetti più personali e degli aneddoti più curiosi, cercando di evitare di affrontare quelli giudiziari e tristi di una vicenda che merita tutt’altro approfondimento. Non si possono scrivere parole di verità, ed il nodo Craxi non si può sciogliere, se non si parla del Craxi vero, quello che giornali e televisioni non hanno voluto raccontarci negli ultimi anni. Non una visione parziale delle cose, ma una visione intima e personale di uno dei padri del socialismo italiano che come più volte aveva detto «parla e continua a parlare» anche dopo la sua triste morte ad Hammamet avvenuta il 19 gennaio del 2000. Ed allora chi più dei figli, dei suoi più stretti collaboratori politici e non, gli amici (quelli veri) ci poteva raccontare Bettino Craxi cercando di trasmettere alle generazioni future tutto il valore della politica per un uomo che ne aveva fatto il senso della vita.

Affrontiamo temi attualissimi e che insieme alla figura di Craxi restano nodi ancora da sciogliere nel panorama politico italiano, e cioè la giustizia, l’immigrazione, l’importanza dei valori risorgimentali e della sofferenza che ha attraversato il nostro Paese nel dopoguerra, paragonando quel periodo al periodo che stiamo attraversando oggi con l’emergenza Covid. Quanto i valori del socialismo riformista sono attuali nel contesto attuale e quanto del riformismo di Craxi è presente nell’azione politica delle forze liberali e socialiste presenti in Parlamento. Quanto la cultura riformista può incidere ancora per lo sviluppo e la crescita dell’Italia. Tanti si professano socialisti e riformisti iniziando dal premier Mario Draghi, ebbene quanto dell’insegnamento di Craxi ha inciso su questa sua formazione politica e di quelli che a parole dichiarano di esserlo!

Il compito del podcast sarà quello di sciogliere un nodo che solo con la vera informazione si potrà sciogliere per liberare il Paese da una ipocrisia di base che ha origine da quella drammatica stagione che prese il nome di Tangentopoli ma che sin da subito Craxi definì «una falsa rivoluzione politico giudiziaria» e che vide insieme magistratura e politica (una parte della politica) con pezzi del sistema imprenditoriale italiano e cioè i padroni dei grandi giornali e delle tv infierire sul sistema dei partiti (alcuni partiti) per distruggerli e distruggerne la classe dirigente.

Il più ingombrante, il più moderno, il più determinato era Craxi, noto per il suo senso di libertà e di patria (altro che sovranismo) lasciato morire come un delinquente in Tunisia il 19 gennaio del 2000, come se tutto quello che avesse fatto per il nostro Paese non avesse contato nulla. Oggi con lo spettacolo quotidiano che ci mostrano i partiti, non ultimo quello offerto per l’elezione del Presidente della Repubblica, siamo qui a rimpiangere lui e quelli che come lui fecero dell’Italia un grande Paese ovvero la quinta potenza industriale del mondo. Marcello Lala

Feltri: Mani pulite fu una strage degli innocenti. Mi scuso con i lettori per gli eccessi di allora…il 09 febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Mani pulite come la “strage degli innocenti”. E Vittorio Feltri, che in quella stagione si fece interprete del vento dell’antipolitica, oggi si scusa con i suoi lettori per gli eccessi. A 30 anni dalle inchieste che decapitarono il pentapartito, ma lasciarono indenne il Pci, il bilancio di Feltri, in un lungo articolo su Libero, è amaro: tangentopoli aprì le porte alla seconda repubblica, che è stata peggio della prima.

Tutto cominciò con la tangente a Mario Chiesa

Tutto cominciò – scrive – quando il capo del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa venne beccato “mentre incassava una tangente in denaro contante”. “Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all’epoca si usava in politica. Il Pci era finanziato dall’Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori. Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell’epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l’impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene”.

La magistratura, Antonio di Pietro in testa, si diede da fare per organizzare “un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato”. A dire il vero anche il Msi uscì indenne dalla stagione di Mani pulite, e non perché godeva di simpoatie da parte del partito delle toghe ma perché era sempre stato fuori dal sistema.

Solo Craxi protestò con veemenza per Mani pulite

“L’unico che protestò con veemenza – ricorda Feltri –  fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché. All’epoca dirigevo da un paio di mesi L’Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempi la prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po’ di merda (testuale). La ricetta funzionò. Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo”.

Feltri: il soprannome di Cinghialone affibbiato a Craxi fu un errore

Feltri aggiunge di vergognarsi, oggi, del soprannome di “cinghialone” affibbiato a Craxi. “Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo. In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo “un tanto al chilo”. In quegli anni covava nelle gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'”.

“La mia indole di direttore in cerca di successo – conclude Feltri – era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali. Sta di fatto che quella stagione fu devastante, apri le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima”.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 10 febbraio 2022.

Mi fido della mia antica memoria. Sono trascorsi 30 anni da quando scoppiò Mani Pulite. Era il 17 febbraio 1992 quando la magistratura avviò l'inchiesta giudiziaria che diede la stura a una sorta di rivoluzione. Venne pescato il capo del Pio Albergo Trivulzio mentre incassava una tangente in denaro contante, alcuni milioni di lire, mentre lui, Mario Chiesa, preso in castagna, per evitare guai si affrettò a gettare la mazzetta nel water.

Furbata inutile, perché le forze dell'ordine capirono tutto e ripescarono i quattrini. Ciò bastò per aprire indagini che ebbero sviluppi clamorosi. Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all'epoca si usava in politica. 

Il Pci era finanziato dall'Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori.

Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell'epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l'impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene.

La magistratura, con Antonio di Pietro in testa, organizzò un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato.

L'intera compagine politica fu accusata di furti, cosicché sparirono la Dc, il Psi, i repubblicani e in socialdemocratici nonché i liberali. Un cimitero. Vi risparmio i dettagli della strage avvenuta secondo criteri che a distanza di anni appaiono grossolani. Craxi e Forlani, in particolare, furono massacrati. La Repubblica si inginocchiò alla magistratura, lasciando che l'impianto istituzionale che aveva favorito la rinascita postbellica del nostro Paese andasse a ramengo. Le conseguenze sono note e hanno provocato una crisi nel nostro sistema amministrativo da cui non siamo ancora riusciti a uscire.

La narrazione sommaria di questi fatti dimostra che la cosiddetta Prima Repubblica fu assassinata dalle toghe senza fatica, perché essa si arrese senza neanche tentare di reagire. L'unico che protestò con veemenza fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché. 

All'epoca dirigevo da un paio di mesi L'Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempila prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po' di merda (testuale). La ricetta funzionò.

Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo.

Cominciarono gli arresti, i suicidi. Le vendite dell'Indipendente si impennarono e mi indussero ad insistere sul caso che divenne nazionale, internazionale addirittura. Scrivevo articoli al fulmicotone in appoggio alla procura di Milano, costringendo i miei colleghi a venirmi appresso, dapprima timidamente, poi usando la grancassa. Il mio giornale andava a ruba e io godevo, non mi importava nulla del pressappochismo delle toghe.

Ero invasato, eccitato. Il soprannome Cinghialone affibbiato a Craxi lo inventai io, e ancora me ne vergogno. Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo. 

In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo "un tanto al chilo". In quegli anni covava nella gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'. La mia indole di direttore in cerca di successo era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali.

Sta di fatto che quella stagione fu devastante, apri le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima, quella in cui viviamo malamente con una classe politica assai peggiore della precedente. 

La parentesi berlusconiana ci ha illuso di essere tornati alla normalità, ma sappiamo come e perché Silvio innocente sia stato castigato con le stesse armi giudiziarie servite per uccidere la prima Repubblica. Oggi la classe politica è di infimo livello, la colpa è collettiva, anche mia. Mi scuso coi lettori se ho ecceduto nel menare le mani, ma ho qualche attenuante: mi prudevano.

Morto Rocco Stragapede, il poliziotto che collaborò con Di Pietro durante Mani Pulite. Ilaria Minucci l'01/02/2022 su Notizie,it.

Il poliziotto Rocco Stragapede è morto a 71 anni: il militare è stato uno storico collaboratore di Antonio Di Pietro, attivo durante Mani Pulite.

Il poliziotto Rocco Stragapede, uno dei più stretti collaboratori di Antonio Di Pietro durante Mani Pulite, è deceduto all’età di 71 anni: il militare era malato da tempo.

Morto Rocco Stragapede, il poliziotto che collaborò con Di Pietro durante Mani Pulite

Nella giornata di martedì 1° febbraio, il poliziotto Rocco Stragapede è morto a 71 anni: l’uomo era malato da tempo di SLA, a causa della patologia degenerativa diagnosticata, viveva ormai allettato.

Rocco Stragapede è stato uno degli storici e più stretti collaboratori Antonio Di Pietro all’epoca di Mani Pulite, assistendo il magistrato in occasione degli interrogatori che si dipanarono nel corso degli anni e delle indagini volte a smascherare la corruzione del sistema di potere esistente a Milano.

In tempi più recenti, il poliziotto era stato protagonista di uno speciale realizzato da History Channel nel quale raccontava gli eventi che caratterizzarono il 1992 e i turbolenti anni giudiziari di Mani Pulite.

Il legame tra Antonio Di Pietro a Rocco Stragapede, inoltre, si era tramutato in un rapporto di amicizia talmente forte da portare spesso l’ex magistrato a citare il poliziotto durante le interviste rilasciate alla stampa.

Il ricordo del collega e amico Giancarlo Spadoni

La notizia della morte di Rocco Stragapede è stata diffusa dal collega e amico trentennale Giancarlo Spadoni che, proprio come il collega, fece parte della squadra di polizia giudiziaria coordinata dall’ex magistrato Di Pietro durante Mani Pulite.

Con la sua scomparsa, il militare lascia la moglie Giovanna e il figlio Gabriele, che hanno trascorso gli ultimi anni accanto a Stragapede nel tentativo e nella speranza di riuscire ad “alleviare le sue sofferenze”.

In merito alla scomparsa dell’amico, Spadoni ha dichiarato: “Se ne è andato un amico e un combattente. È un altro pezzo del mio mosaico che se ne va”.

L’arrivo alla Procura di Milano e la collaborazione con Di Pietro

Alla fine degli anni 80, Rocco Stragapede entrò a far parte della Procura di Milano nel ruolo di assistente di polizia, iniziando sin da subito ah collaborare con Antonio Di Pietro. Prima di partecipare all’arresto di Mario Chiesa, Stragapede lavorò con l’ex magistrato a numerose inchieste tra le quali figurano anche quella incentrata sulla maxi truffa delle patenti.

Ora un’inchiesta (non giudiziaria) per scrivere la vera storia del deragliamento di Tangentopoli. Le indagini su Tangentopoli volevano dimostrare la contiguità della politica con la corruzione come "sistema", confondendo la condotta per tutelare lo Stato con il suo contrario. Giuseppe Gargani Il Dubbio il 21 gennaio 2022.

Ricorrono trenta anni dall’arresto di un signore di nome Chiesa al prossimo febbraio da parte della Procura della Repubblica di Milano che dette inizio alla lunga fase di indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “Tangentopoli”. Dopo il tempo trascorso è possibile dare un giudizio più obiettivo, in qualche modo storico, fuori dalle passioni e dalle polemiche di partito. È quindi necessario interrogare l’intelligenza giuridica del paese, gli avvocati e i magistrati in una convention che organizzeremo appunto a febbraio per porci alcune domande fondamentali che riteniamo doverose per ricostruire la storia vera degli accadimenti.

Non si può non riconoscere, che, sia le indagini di “Tangentopoli” che quelle che riguardano in particolare la mafia sono state utilizzate per “fare la storia”, per inventare una “storia” addomesticata, una “storia” tutta legata alle indagini giudiziarie non verificate, date come vere e diffuse mediaticamente ad un pubblico emotivo e rancoroso. “Mani Pulite” la storia puntava a condizionarla e a modificarla; e “mafiopoli” la storia ha puntato a ricostruirla ad uso e consumo di tesi politiche e di teoremi improvvisati senza tenere conto delle oggettive responsabilità.

Oggi però constatiamo che le sentenze di assoluzione sono in nettissima prevalenza e smentiscono i teoremi dei pubblici ministeri; e constatiamo altresì, con molto sollievo, che la sentenza della Corte D’Assise di Palermo dell’ottobre scorso ha negato la natura penale della “trattativa tra lo Stato e la mafia” che per molti anni ha avvelenato i rapporti tra le istituzioni e la magistratura, tra la politica e la stessa magistratura. Persiste l’annosa anomalia processuale che, attraverso la narrazione mediatica, rende certe e definitive le indagini e prevalenti rispetto alla verifica del processo: è per queste ragioni che la narrazione in questi lunghi anni delle indagini giudiziarie è stata manipolata e ha disegnato una storia distorta.

Constatiamo con soddisfazione che alcuni giudici hanno fatto giustizia di tante indagini avventate e false anche se è ancora centrale e dominante la figura del pm – accusatore. È dunque necessario e riflettere su quanto è avvenuto in questi trent’anni nei quali, si è destrutturato il sistema politico, e il tessuto democratico dei partiti e si è infangato lo Stato e tanti suoi fedeli rappresentanti.

Le indagini della procura di Milano sin dagli anni 90 sul finanziamento ai partiti, è correlato e collegato sempre e comunque a reati di corruzione che hanno dato valore assoluto alla cosiddetta “corruzione percepita”, e di conseguenza in Italia “tutto è diventato corruzione” dal malaffare all’abuso d’ufficio degli amministratori e questo ha inciso profondamente nel tessuto sociale determinando rancore e avversione ai poteri costituiti e diffidenza nei confronti della pubblica amministrazione.

Deve essere ristabilita la verità storica: questo il nostro fermo proposito. Natalino Irti in uno splendido scritto rileva che dalla sentenze non si “attende un giudizio sull’epoca storica“ ma solo la “verità giudiziale” su fatti sostenuti da prove. Dopo le argomentazioni e le valutazioni fatte, non è possibile, a distanza di trent’anni, ripensare “tangentopoli” come puro evento giudiziario separato dalla risonanza mediatica che l’ha accompagnato e amplificato e dalle conseguenze che ha determinato.

Possiamo oggi sostenere che il sistema democratico nel suo complesso non era corrotto ma vi erano certamente corrotti che non potevano intaccare il tessuto sano e affidabile dei partiti politici. Il fenomeno della corruzione pur presente nel paese, come si è detto, non fu individuato per singoli casi personali e nella forma prescritta dal codice, per la pretesa della magistratura di poter correggere la politica contestando il sistema! E questa contestazione ha finito poi per catturare il consenso popolare che ha costituito il sostegno vero alle iniziative giudiziarie. Vi è stata l’illusione di poter costruire uno Stato etico, moralistico con indiscriminate punizioni “ai cattivi” e in particolare alla “casta politica” e questo ha alimentato il rancore sociale. Questi interrogativi che presuppongono una analisi adeguata.

Siamo in presenza di una crisi della cultura giuridica, che è alla base e al tempo stesso conseguenza della crisi politica e che risale agli anni 70 quando sì era accentuata la crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario. E si è verificata in quel periodo un’intesa tra limitati settori della magistratura fortemente politicizzati e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che, attraverso l’azione dei magistrati, aveva intravisto la possibilità di sconfiggere i partiti della maggioranza non essendo riuscito a ridimensionarli attraverso il confronto elettorale e, in tal modo, conquistare il potere. È questa la premessa culturale che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico, non al di sopra delle parti, ma capace di assumere in sé una sorta di arbitraggio della questione sociale e partecipare, attraverso la giurisdizione, alla tutela appunto delle ragioni delle parti sociali in antagonismo tra loro.

Si sono condannati in tal modo i partiti e in particolare la DC e il PCI e, all’interno di questi, le correnti ritenute ostili in modo da distinguere i buoni dai cattivi. Questo consente di dire ancora oggi ad un politico accorto come Bersani che al PD hanno aderito i “democristiani buoni” i quali invece sono stati guidati solo dal trasformismo e da mere ragioni di potere!

Dobbiamo dunque porci la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così rilevante da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?! Le indagini della procura di Milano degli anni ‘ 90 volevano dimostrare la contiguità della politica con la corruzione come “sistema”, e le indagini della procura di Palermo hanno voluto considerare reato “la trattativa”, confondendo la condotta per tutelare lo Stato con il suo contrario.

Sarà necessaria un’indagine politica non giudiziaria che la classe dirigente che ha governato il paese fino agli anni 90 deve pur fare per l’interesse superiore di restituire dignità e veridicità alla storia, agli avvenimenti, al ruolo che le forze politiche hanno avuto in questi anni.

L’inchiesta non deve essere fatta contro la magistratura ma deve coinvolgerla se essa ha consapevolezza della necessità di una rivoluzione culturale, se si rende conto che è necessario ristabilire un equilibrio istituzionale, individuare e precisare il ruolo del giudice e del pubblico ministero nella società moderna.

Sinistra e magistratura: su Craxi hanno perso entrambe. Fabrizio Cicchitto e Biagio Marzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Vale la pena di partire dalla fine di tutta la storia, cioè dalla morte di Bettino Craxi avvenuta il 19 gennaio 2000.

Vale la pena di partire dalla fine di tutta la storia, cioè dalla morte di Bettino Craxi avvenuta il 19 gennaio 2000. A proposito di ciò che allora avvenne vale il motto di Bertold Brecht: «Chi non conosce la verità è soltanto uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia è un malfattore». Tutti sapevano che il leader socialista, operandosi in uno scalcinato ospedale militare tunisino non aveva scampo. In primo luogo lo sapeva Craxi, ma lo sapevano anche Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica, Massimo D'Alema presidente del Consiglio, Luciano Violante, presidente della Camera, e lo sapeva anche Borrelli, Procuratore Capo a Milano.

Che Craxi non fosse un cittadino qualunque era testimoniato non solo dal fatto che per 4 anni era stato presidente del Consiglio, ma che dopo la sua morte proprio la triade Ciampi, D'Alema, Violante propose i funerali di Stato, respinti dalla sua famiglia così come 22 anni prima li aveva respinti la famiglia di Moro.

Per Craxi gravemente ammalato, non si volle trovare una clausola o un salvacondotto per portarlo in una clinica italiana senza essere incarcerato. Anche su questo terreno è stato sempre fatto di tutto. Per esempio, successivamente, il 31 maggio del 2006 il presidente Napolitano graziò per le sue condizioni psicofisiche, inconciliabili con il regime carcerario, Ovidio Bompressi. A dir la verità, a quel che risulta, a essere favorevoli a una soluzione umanitaria fu in primo luogo Massimo D'Alema, e anche Ciampi e Violante, ma Borrelli si mise di traverso e prevalse: in quella fase era lui ad avere il potere politico reale in Italia. Come affermò in una famosa intervista Gherardo Colombo, «la seconda Repubblica era fondata sul ricatto», Colombo lasciò nel vago chi erano i ricattati, ma non ci vuole molto a capirlo. Ricattabili erano tutti coloro che, pur facendo parte del sistema del finanziamento irregolare, erano stati salvati dalla scelta del pool di Mani Pulite di usare il sistema dei due pesi e delle due misure: i massimi dirigenti del Pci-Pds e quelli della sinistra Dc «potevano non sapere», i dirigenti del Psi, dei partiti laici, del centrodestra della Dc, «non potevano non sapere» e quindi andavano perseguiti.

Recentemente il magistrato Guido Salvini ha spiegato il trucco a cui ricorreva il pool per avere un unico gip, del tutto compiacente, per tutti i processi di Mani Pulite, concentrandoli tutti in un unico fascicolo, operazione assolutamente indebita mentre l'ufficio milanese del gip era composto da ben 20 magistrati che si sarebbero dovuti alternare. In questo modo invece era molto stringente il metodo fondato sulla carcerazione per ottenere la confessione. Poi i casi della vita sono certamente infiniti per cui dopo il 1994 è accaduto che due pubblici ministeri chiave del pool sono finiti nelle liste del Pds venendo eletti per più legislature.

Adesso è annunciato per celebrare il trentennale di Mani Pulite che l'Anm ha convocato un convegno a Milano. Certamente l'Anm ha una ragione per farlo, perché da allora, in un crescendo parossistico, i settori più oltranzisti e rozzi della magistratura hanno conquistato di fatto il potere politico in Italia. Purtroppo però questo convegno si svolge in tempi sbagliati: esso viene fatto quando il Csm e l'Anm, in seguito a tutte le conseguenze del caso Palamara, stanno attraversando la fase più buia della loro esistenza. La magistratura è implosa per un eccesso di potere che non era in grado di gestire, ma che però ha segnato in Italia la devastazione dello Stato di diritto.

Ma i conti non tornano neanche in termini politici. Il disegno di D'Alema, espresso in un famoso libro-intervista, era sostanzialmente quello di eliminare Craxi e di sostituire il Pds a al Psi. Grazie al circolo mediatico giudiziario l'operazione in un primo tempo è riuscita anche per gli errori dei suoi dirigenti il Psi è stato raso al suolo. A distanza di anni, però le conseguenze finali sono le seguenti: l'erede del Pds è il Pd, un partito del 20 per cento, per una parte cospicua guidato dalla sinistra democristiana, accerchiato da un 40 per cento costituito dai due partiti sovranisti e che - eliminato il Psi- allo stato ha come possibile alleato solo un confuso movimento antipartitico, privo di una organica cultura politica che fa coalizione con chiunque pur di evitare le elezioni.

Come si vede, quindi, il percorso che va dalla morte di Craxi ai giorni nostri non ha avuto un esito felice certamente per i vinti ma neanche per i vincitori. Allora, al momento più alto della criminalizzazione di Craxi, il 30 aprile 1993 ci fu una versione moderna di Piazzale Loreto, con il lancio di monetine nel corso di una bella manifestazione fascio-comunista. Craxi non si volle arrendere e si rifugiò esule in Tunisia, come già avevano fatto negli anni Trenta un nucleo di antifascisti italiani che diedero anche vita a un bel giornale. Dopo di che nel 2000 sapendo bene a ciò a cui andava incontro, Craxi si operò nell'ospedale tunisino con una scelta che è sintetizzata nella epigrafe che sta sulla sua tomba: la mia libertà equivale alla mia vita. Fabrizio Cicchitto

Buoni o cattivi. I due schieramenti di Mani Pulite e il falò delle vanità dei giustizialisti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 17 gennaio 2022. 

Nel trentennale di Tangentopoli la maggioranza degli italiani continua a lodare quella stagione di inchieste fatte senza rispettare i principi base dello Stato di diritto. Solo pochi hanno il coraggio di denunciare le detenzioni ingiuste, i morti in carcere e lo show dei pm del pool di Milano davanti alle telecamere.

Saranno due gli schieramenti nel dibattito sul trentennale di Mani Pulite. Il primo, maggioritario, sarà formato da coloro che ne celebreranno l’epopea al grido di fummo i precursori dell’onestà, sostenuti dalla meglio Italia, finalmente applicammo la legge uguale per tutti contro quelli che si ritenevano più uguali degli altri. Il secondo schieramento, meno folto, sarà composto da coloro che opporranno all’apologetica del primo le detenzioni ingiuste, i morti di carcere, gli arresti in prima pagina e le assoluzioni in trafiletto tra le previsioni del tempo.

Nel primo schieramento non mancherà l’opportuna rappresentanza di seconda fila, modestamente penitenziale, che rivendicherà lo spirito benintenzionato di quell’operazione ma saprà dolersi di certi eccessi, di certe sensibilità assopite, del largheggiare magari necessario ma in ogni caso penoso della soluzione carceraria: un po’ come il cappellano che soffertamente benedice le baionette.

E nel secondo schieramento mancherà l’opportuna denuncia del nocumento capitale arrecato dal manipolo milanese: l’insulto mai prima così grave, lo sfregio mai tanto incensurato, l’attentato mai prima sperimentato con analoga capacità offensiva, allo Stato di diritto. E non si tratta neppure di quello scempio rappresentato dal gruppo sedizioso dei pm meneghini che convocava le telecamere per manifestare indignazione morale avverso il governo che osava approvare norme sgradite.

Si tratta di quando il loro capo, di cui il Corriere della Sera offriva memorabili immagini equestri, si metteva a disposizione della «chiama» presidenziale per prendere in mano il Paese e ripulirlo: «A un appello di questo genere del capo dello Stato», disse allora Francesco Saverio Borrelli, «si potrebbe rispondere con un servizio di complemento». E a guarnire di ulteriore violenza eversiva quello sproposito fu l’obliquo riferimento alla «folla oceanica» sotto ai balconi delle Procure, magari di per sé insufficiente a legittimare quella soluzione ma solo bisognosa, appunto, del piccolo passaggio formale con cui il despota incarica il colonnello di formare la junta.

Ci si duole episodicamente (ormai è quasi gratis, dopo trent’anni) di qualche suicidio di troppo, di qualche lieve ineleganza davanti all’imponderabile e fisiologico gesto del detenuto che infila la testa in un sacchetto di plastica («Si vede che c’è ancora qualcuno che si vergogna»), di qualche tenue scompostezza nei propositi dell’accusa pubblica («Io a quello lo sfascio»): ma è acqua sul marmo quel conato golpista dal pulpito della persecuzione associata, lo stesso da cui in finire di carriera si istigava a resistere, resistere, resistere nella costituzione in contro-governo del potere togato.

IL LIBRO. Raul Gardini, la sua morte ha deviato il corso del processo Enimont e quello della storia. Il Domani il 12 gennaio 2022.  

Il 13 gennaio esce in libreria il romanzo di Gianluca Barbera, L’ultima notte di Raul Gardini, edito da Chiarelettere. 

Ricorre quest’anno il trentennale di Mani pulite e molti conti ancora non tornano, tra cui la morte del famoso manager che guidava Montedison, trovato senza vita il 23 luglio 1993, lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto andare in procura a Milano dopo essere finito nel mirino del pool di Mani pulite.

Suicidio o omicidio? Per la magistratura non vi sono dubbi: Gardini si è tolto la vita. Ma molte cose non sono mai state chiarite.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.

L' ultima notte di Raul Gardini diventa un romanzo (e una serie tv) di Gianluca Barbera. Fondato su una rigorosa ricerca, il libro (edito da Chiarelettere, pp. 240, euro 16; in uscita il 13 gennaio) aggiunge alcuni personaggi di fantasia, un giornalista d'inchiesta e suo fratello, spione professionista, per mettere in fila i fatti e suggerire al lettore le diverse soluzioni: il suicidio, come da risultanze processuali, ma anche le altre piste, più o meno credibili, saltate fuori sui giornali e anche nei tribunali. 

Qualche cosa (forse) non funzionò nell'indagine: a partire dalla sospetta manomissione della scena del crimine, con le notizie di una pistola troppo lontana dal cadavere e appoggiata sul comodino. 

Barbera ricostruisce il clima da crollo di un impero per via giudiziaria, con lo spettro del carcere per chiunque avesse realmente le mani in pasta nel capitalismo italiano. Il 20 luglio 1993 si uccide Gabriele Cagliari in carcere. Tre giorni dopo, il 23 luglio, tocca a Gardini nel suo palazzo milanese, poco prima di recarsi in procura. Sono i tre giorni neri di Mani Pulite. È in quel momento drammatico che inizia a cambiare il vento dell'opinione pubblica.

Fu dunque per evitare l'arresto, a opera di Antonio Di Pietro, che Raul Gardini si suicidò? Non lo sapremo mai. Il romanzo è bello e serrato. Difficile staccare gli occhi dalle ultime cento pagine. Barbera ci racconta diverse storie italiane, che si intrecciano fino ad arrivare alla morte di Gardini. Assistiamo alla nascita della dinastia Ferruzzi, attraverso lo spirito imprenditoriale di Serafino, il capostipite che indicherà il suo successore nel genero, Raul, soluzione appoggiata dall'intera famiglia. Quello di Serafino era un altro capitalismo: meno attento ai bilanci e disposto a correre rischi altissimi. Serafino, però, aveva un senso della strategia che gli permetteva di trovare sempre una soluzione. Anche Raul ha un carattere simile, ma si trova a vivere in un'altra epoca: certe mosse da poker finanziario non sono più ammesse ed entrare nel salotto della finanza, senza chiedere permesso, può essere uno svantaggio. In più c'è la politica affamata di denaro e dalle pretese crescenti. Infine c'è l'inchiesta Mani Pulite che funge da detonatore.

La madre di tutti gli errori è il tentativo di Gardini di mettere le mani sul salvadanaio dei partiti, l'Eni, per creare Enimont: la famosa maxi-tangente nasce da questa operazione che poteva trascinare a fondo il gruppo. La famiglia scarica Raul e accetta di uscire da Enimont, in cambio di una cifra considerevolmente fuori mercato per eccesso. Gardini non è d'accordo, vede nella vendita delle quote l'inizio della fine, ma è tagliato fuori. Chiediamo a Barbera quale sia il rapporto tra verità e finzione nel romanzo: «Anche nelle scene inventate ho usato sempre dichiarazioni registrate da giornali, tribunali o agenzie. In una delle pagine iniziali assistiamo a una conferenza stampa di Idina, la moglie di Gardini. La conferenza stampa non ci fu. Ma lei disse veramente quelle cose, sono sempre parole sue».

Non teme qualche querela?

«No, in fondo al romanzo ci sono gli esiti giudiziari delle varie inchieste. Non ci sono peggioramenti delle figure reali. Nessuno è accusato di fatti per i quali non sia stato effettivamente condannato. Ho letto migliaia di pagine su Gardini, Sama, Cusani e tutti i personaggi reali. Mi sono attenuto alle loro parole». 

Nel finale, tra depistaggi e colpi di scena, si gioca sulla ambiguità: «Non è compito mio condannare o assolvere. La realtà è complessa, non do giudizi, sarebbe ridicolo. Non mi sono mai posto da un punto di vista moralistico. Credo che le relazioni personali siano ricche di sfumature. Per non dire delle sfumature che possiamo cogliere nella natura complessa del grande capitalismo. Ho preso un pezzo di Storia d'Italia e di una famiglia e l'ho raccontato in modo spero efficace». 

La pensa così la Mompracem, società di Carlo Macchittella e dei Manetti Bros, i registi più in vista del momento grazie al film Diabolik. Il romanzo diventerà una serie tv. Barbera sarà consulente al soggetto e alla sceneggiatura. Perché Gardini è così affascinante?

«È uno di quei grandi personaggi che non si fermano davanti a nulla. Diceva spesso di non essere interessato alle opinioni altrui». Un orgoglio che sconfina nella superbia: «Un segno di individualismo assoluto. La sostanza però c'era. Gardini era considerato in possesso di una grande visione, da Romano Prodi ad esempio. Voleva fare la Storia. In questo era simile a Serafino Ferruzzi. Quando voleva una cosa, non badava al prezzo. Spese cifre enormi anche per armare il Moro di Venezia, la sua passione, la barca a vela con la quale affrontò la Coppa America. Era talmente convinto di sé da credere.Il padre Ivan era un ricco imprenditore agricolo, impegnato nella bonifica dell'area paludosa attorno a Ravenna. Raul studiò presso l'Istituto agrario di Cesena dove conseguì il diploma di perito agrario. Nel 1987 gli sarà conferita la laurea honoris causa in agraria dall'Università di Bologna. Crebbe professionalmente nell'azienda di Serafino Ferruzzi, di cui diventò genero nel 1957 sposandone la figlia Idina (1935-2018). Il 10 dicembre 1979 Serafino Ferruzzi morì in un incidente aereo e i suoi quattro eredi (Idina, Arturo, Franca, Alessandra) affidarono a Gardini le deleghe operative per tutto il Gruppo che finì con lo specializzarsi in prodotti chimici dal basso impatto ecologico. La tentata fusione con Eni segna l'inizio della fine. Sotto il pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli. Gardini si uccise il giorno in cui doveva essere interrogato da Di Pietro di poter ripianare qualsiasi debito». Gardini sognava di essere leader mondiale nel settore energetico della agrochimica (benzine verdi).

Marciava nella giusta direzione. Era amato dai "colleghi" imprenditori? Barbera: «Era un parvenu nei salotti "aristocratici" di Cuccia e Agnelli. Gardini veniva dalla provincia e da una famiglia che fondava la sua ricchezza sulla terra. Aveva il diploma di perito agrario, la laurea honoris causa in agraria all'Università di Bologna risale al 1987. Non era simpatico al potere politico e credo non volesse scendere a compromessi. In un certo senso, è stato stritolato da un ingranaggio del quale non voleva tenere conto». Questa fu la sua rovina: «La fusione con Eni lo mise nelle condizioni di doversi obbligatoriamente confrontare con la politica». E Tangentopoli...

«È un missile che sarebbe finito comunque contro Eni e Montedison. Credo che questo Gardini lo sapesse. Essere personalmente coinvolto nell'inchiesta invece ebbe un effetto dirompente. Non poteva accettare l'onta di finire in carcere, di essere visto come un perdente». Di recente, Federico Mosso ha pubblicato Ho ucciso Enrico Mattei (Gog edizioni) in cui tiene banco la morte del fondatore di Eni (ancora e sempre Eni...). Nel prossimo futuro incuriosisce il romanzo di Alessandro Bertante sulle Brigate Rosse, Mordi e fuggi, in uscita a fine mese per Baldini & Castoldi (ne riparleremo). La Storia pare aver dato vita a un filone romanzesco tra verità e finzione, che il cinema, con risultati alterni, aveva già toccato.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.

Tutto in tre giorni. Fra il 20 e il 23 luglio 1993. Il momento forse più cupo di Mani pulite e uno dei più drammatici nella storia recente del nostro Paese. La mattina del 20 luglio, dunque, Gabriele Cagliari, ex potentissimo presidente dell'Eni, a San Vittore da 134 giorni, chiude la partita con un suicidio meticolosamente preparato: ferma la porta del bagno della sua cella, la 102, con un pezzetto di legno, poi infila la testa in un sacchetto di plastica bloccato con un laccio da scarpe e soffoca con una tecnica disumana ma collaudata.

Il giudice Simone Luerti, che si era occupato di questa tragedia e che interrogai, fu categorico: «Purtroppo in letteratura ci sono casi di questo tipo». Nessun presunto mistero e niente di anomalo, se non una carcerazione preventiva interminabile e intollerabile, la sensazione di essere dentro un meccanismo che ti sta stritolando e da cui non uscirai più.

Lo stesso clima che deve aver vissuto ventotto anni dopo, sia pure da uomo formalmente libero, Angelo Burzi che a Torino la notte di Natale l'ha fatta finita con un colpo di pistola. In quei mesi del terribile Novantatré, che sul calendario sembra riecheggiare gli eccessi dell'originale giacobino, Mani pulite è una macchina da guerra che pare travolgere tutto e tutti. Il 23 luglio Raul Gardini, uno dei più importanti capitani d'industria, ha appuntamento per un interrogatorio con i magistrati del Pool. Il suo destino è segnato e gli spifferi e i verbali in uscita proprio in quelle ore sul Mondo lo rendono ancora più fragoroso. Il Contadino è un imprenditore abituato al comando, non alle mortificazioni e alla discesa nell'ombra della vergogna e dell'immobilità.

Quando ha saputo della fine di Cagliari, ha telefonato al cognato Carlo Sama: «È morto da eroe». Un presagio, anzi un annuncio. Si sveglia nella sua residenza milanese di Palazzo Belgioioso e si spara. Questa volta il sempre risorgente partito del dubbio e del chissà che cosa c'è dietro ha qualche carta in più, ma i protagonisti dell'epoca mi consegnarono versioni concordi. Sergio Cusani, braccio destro di Gardini, fu netto: «Raul non concepiva l'idea di potersi trovare in una situazione del genere e si ammazzò». Antonio Di Pietro scivolò sul registro del rimpianto: «Chissà, se lo avessimo arrestato, forse lo avremmo salvato».

In un libro misurato, Storia di mio padre, Stefano Cagliari ricostruisce quelle ore spaventose, senza misericordia, con la pietà in fuga dalle vie di Milano, tanto che pure il funerale era diventato un problema quasi insormontabile: «Il parroco di San Babila non c'era, il vice si rifiutò e così pure il vicariò di Carlo Maria Martini all'Arcivescovado». La gogna e il giustizialismo erano arrivati fino a mettere a repentaglio le basi della convivenza civile. Chi avrebbe officiato le esequie? «Allora - prosegue Stefano Cagliari- il cardinale, che è in Francia, chiama il cappellano di San Vittore, don Luigi Melesi, e lo prega di celebrare la funzione al posto suo». Ma i colpi di scena non sono ancora finiti, anzi la successione crudele degli avvenimenti raggiunge il suo apice, come in un film: «La chiesa era gremita, la gente si accalcava fuori. Arrivò la notizia del suicidio di Raul Gardini», morto a poche centinaia di metri da San Babila, nel cuore colmo di spine della metropoli.

«Era tutto più grande di noi». I familiari leggono le lettere. Quella all'ormai vedova Bruna è stata scritta a San Vittore il 3 luglio ed è chiusa in una busta con la dicitura agghiacciante: «Da aprirsi al mio ritorno». Prima che il pm Fabio De Pasquale, oggi sotto accusa per altri verbali Eni, si rimangiasse la promessa di chiedere al gip gli arresti domiciliari per la vicenda Eni-Sai. Quell'episodio è forse la goccia che fa traboccare il vaso, ma la decisione è presa prima e spiegata in quella missiva di congedo: «Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima... Siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua esercitazione». 

Una critica feroce, meditata e in qualche modo fatta propria da Gherardo Colombo, storico magistrato del Pool Mani pulite che firma proprio la prefazione del libro di Stefano Cagliari: «Il magistrato si incentra sulle esigenze della giustizia termine che inserisco fra molte virgolette - ma così facendo non si rende conto delle conseguenze che i suoi atti producono su coloro che le investigazioni subiscono». 

Mani Pulite nel fango: la verità sulle toghe, 30 anni dopo Tangentopoli. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 gennaio 2022.

Non era necessario leggere le sentenze di Mani Pulite, né gli ordini di arresto che le precedevano, per accorgersi che qualcosa non filava per il verso giusto sul corso di quella presunta giustizia: bastava assistere a come essa era reclamata dal popolo degli onesti, adunato sotto ai balconi delle procure della Repubblica per istigare i giustizieri a non retrocedere, a portare a compimento il repulisti nei palazzi della politica marcia. Non era necessario andar di codice, essere giuristi, per capire che il carcere adibito a confessionale e le inchieste a strumento di moralizzazione della società corrotta denunciavano un vizio radicale di quelle iniziative e del movimento che le accreditava: era sufficiente avere occhi per vedere come la classe dirigente e politica su cui piovevano le monetine dello sdegno fosse la medesima cui prima si chiedevano i favori, le raccomandazioni, le leggi buone a fare i debiti di cui s' è ammalato il Paese. Non era necessario aver studiato nulla per prevedere come sarebbero finiti gli esponenti di quella rivoluzione che avrebbe rivoltato l'Italia come un calzino: uno a capeggiare un partito dei "valori" e a godersi il frutto milionario delle querelea nastro contro chi spulciava nelle sue scatole delle scarpe; un altro al seggio parlamentare, guadagnato per le nobili dichiarazioni a fronte dell'ennesimo suicida: «Si vede che c'è ancora qualcuno che perla vergogna si uccide»; un altro a tener requisitorie televisive, troneggiante sul giornalista in posizione Clean Hands Matter, inginocchiato, a ciucciarsi e a diffondere la verità dell'assoluzione come regalo al delinquente che la fa franca; un altro a coltivare il ricordo del padrino, il magistrato equestre che in una vergognosa rappresentazione pubblica («siete i miei pulcini, i miei aquilotti, i miei cuccioli») assisterà all'avvicendamento di potere nella Procura la cui storia cominciò nel ripescaggio di sette milioni di lire dal cesso di un cronicario e finì nelle veline cospiratorie scambiate sulla tromba delle scale del Consiglio superiore della magistratura. E via così. Tra poco sono trent' anni. Ed è una giustizia malvissuta quella che pretendeva di rimettere in riga l'Italia mascalzona.

Mani Pulite e il valore del principio di imparzialità e terzietà. Lascia perplessi l’accordo, tra l’Ufficio Gip e la Procura, di attribuire a un unico fascicolo e affidare a un solo magistrato tutte le posizioni riconducibili alla vicenda. Alessandro Parrotta su Il Dubbio il 30 dicembre 2021. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”: il principio menzionato trova il proprio fondamento nell’art. 25 della Costituzione ed è uno degli strumenti di cui l’ordinamento si avvale al fine di perseguire l’ideale dell’Organo Giudicante, terzo e imparziale, e che, concretamente, trova attuazione nelle norme relative alla competenza e alle linee guida dettate dal Consiglio Superiore della Magistratura in ordine ai criteri di attribuzione dei fascicoli, il cosiddetto sistema tabellare.

Tale sistema trova compimento con il R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 e ha lo scopo di dettare criteri oggettivi e predeterminati al fine di individuare il Magistrato competente per la specifica controversia, sì da evitare che tali attribuzioni restino governate dalla discrezionalità dei singoli.

L’art. 7 bis del succitato Regio Decreto precisa che le tabelle vengono costituite dai singoli uffici, sulla base del decreto emanato ogni triennio dal ministro della Giustizia, in conformità delle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura, assunte sulle proposte dei presidenti delle Corti di appello e sentiti i Consigli giudiziari. L’art. 7 ter determina, invece, le regole di assegnazione ai singoli uffici, secondo criteri “oggettivi e predeterminati”.

L’ultima circolare emessa con delibera di plenum in data 23 luglio 2020 – per il triennio 2020/ 2022, eventualmente prorogabile ai sensi dell’art. 7 bis R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 – al capo V, art. 157, dispone, altresì, che l’articolazione dei criteri di assegnazione degli affari spetta al Dirigente dell’ufficio, sotto sorveglianza del Presidente di sezione o del Magistrato che dirige ai sensi dell’art. 47 quater, R. D. 12/ 1941, per poi ribadire, al successivo articolo, che tali assegnazioni alle singole sezioni, Collegi e Giudici, debbano avvenire secondo criteri oggettivi e predeterminati.

Il compendio sull’attività di assegnazione degli affari agli Organi Giudicanti posto in premessa è doveroso e funzionale – tanto per chi scrive, quanto per il lettore – al fine di approcciarsi all’interessante intervista rilasciata su queste stesse pagine dal giudice Guido Salvini, Gip presso il Tribunale di Milano.

Il dottor Salvini, in particolare, ripercorre l’assai nota vicenda che aveva interessato l’Ufficio Gip nel caotico periodo di inizio anni ’90, allorquando il Paese attraversava i violenti scandali originati dai fatti riconducibili agli episodi corruttivi che avevano interessato tutto il mondo politico: inchiesta “Mani pulite”.

Il dottor Salvini ricorda come l’allora Ufficio Gip e la Procura si accordarono per far sì che ogni singola vicenda legata a fatti di corruzione nella Pubblica Amministrazione fosse riconducibile al medesimo procedimento, rispondente al numero di registro 8655/1992. A quel fascicolo, pertanto, venivano ricollegate le vicende giudiziarie più disparate, anche senza che vi fosse alcun collegamento soggettivo e/ o oggettivo.

L’obiettivo perseguito era quello di affidare ad un singolo Magistrato, il dottor Italo Ghitti, tutte le posizioni processuali anche solo potenzialmente riconducibili alla più larga vicenda Mani pulite, sì da agevolare, come ovvio, l’attività della Procura. Meno Sezioni e Giudici differenti dell’Ufficio Gip conoscevano la vicenda e meno probabile era il rischio che vi fosse una disparità delle decisioni assunte.

In altre parole, il meccanismo ideato dalla Procura e dal pool, che allora seguì la vicenda, era quella di accentrare tutti gli affari su una singola figura, già nota all’Ufficio di Procura, nonché in un unico fascicolo, estendibile a piacere, al punto che, allora, l’Ufficio Gip del Tribunale di Milano si vide assegnare fascicoli su cui non poteva vantare nemmeno la competenza territoriale. Alla luce dell’allora normativa – non troppo dissimile dall’attuale – non può non evidenziarsi come venne posta in essere una complessa violazione del principio posto in apertura del presente articolo.

Pur comprendendo le ragioni del pool operante alle indagini – le vicende che allora investirono il Paese richiesero uno sforzo immenso della macchina giudiziaria – non si può non rilevare come i criteri dettati dal R. D. 21/ 1942, in attuazione del principio ex art. 25 Cost., vennero completamente e sistematicamente disapplicati dall’Ufficio Gip del Tribunale di Milano, forse per un più alto scopo.

Risulta quasi superfluo, a parere di chi scrive, evidenziare come un accordo tacito tra la Magistratura Inquirente e Giudicante, sia lesivo del principio di imparzialità e terzietà del Giudice, così come lesivo appare l’aggiudicazione di ogni singolo fascicolo non sulla base di criteri predeterminati ed oggettivi, ma per una mera questione di comodo.

Con ciò non si vuol certo dire che il dottor Ghitti allora non svolse un lavoro che, si è di questo certi, avvenne nel massimo rispetto del dettato costituzionale e della Legge; tuttavia, non si può certamente sottacere come meccanismi procedurali posti a tutela del principio di imparzialità e terzietà vennero adattati alla necessità. Proprio su questa necessità è il caso di riflettere se fosse proprio indispensabile o, quantomeno, perfettibile con correttivi quali quelli di individuare una squadra di magistrati da applicare ai noti fatti.

Il “trucco” di Mani pulite tra gelida indifferenza e opposte “concordanze”. Luca Palamara nel suo “il Sistema”, Ilda Boccassini in “La stanza numero 30” e Nino Di Matteo ne “I nemici della giustizia”, descrivono un contesto deprimente della magistratura. Valter Vecellio su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Otto dicembre scorso: Guido Salvini, giudice per le Indagini Preliminari in forza a Milano, scrive per Il Dubbio un circostanziato articolo, con espliciti riferimenti, fatti, nomi e cognomi, e spiega cosa è accaduto nell’ufficio del Gip della sua città nella stagione di “Mani Pulite”. Per riprendere l’efficace sintesi giornalistica: “Il pool escogitò il semplice ma efficace trucco di un ‘registro’ con lo stesso numero per tutti i reati che era così di competenza di un solo Gip: Italo Ghitti”. Sempre Salvini racconta come un fascicolo, in questo modo, con questo “trucco” gli viene sottratto; stessa cosa accade ad altri Gip, il tutto con la fattiva copertura e tolleranza dei Capi dell’ufficio: “Non era il tempo di seguire la strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream”. In guerra e in amore tutto è lecito, si dice. Ma appunto: in guerra e in amore; amministrare la giustizia, applicare le leggi, non rientra nelle pratiche belliche, e neppure in quelle amorose, checché ne possa pensare qualcuno. Ad ogni modo: reazioni? Sì, qualche isolata voce, presto silenziata. Per il resto, sostanziale fastidio, gelida indifferenza. Un ulteriore passo indietro. A metà novembre Nino Di Matteo, magistrato attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia un’intervista a La7. Confessa un timore: “che si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Questa situazione dove (e chi) l’ha evocata e descritta prima di Di Matteo? Si deve recuperare un libro di grande successo, “Il sistema”, lunga conversazione tra l’ex magistrato Luca Palamara e Alessandro Sallusti: “…Le spiego una cosa fondamentale per capire che cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni”, dice Palamara. “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione…Ecco se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo interno. Soprattutto perché fanno parte di un ‘Sistema’ che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Nella sostanza le affermazioni di Di Matteo e Palamara si possono sovrapporre, due “opposti” che coincidono. Ma Di Matteo dice anche altro, nel libro “I nemici della giustizia”, scritto con Saverio Lodato. Quando si arriva alle pagine 75 e 76 si può leggere: “…Una cordata sorta attorno a qualche magistrato, di solito un importante procuratore, che ha saputo acquistare nel tempo, e spendere, la sua autorevolezza e il suo prestigio per occupare spazi sempre più ampi di potere dentro e fuori la magistratura…” con lo scopo “di fidelizzare altri colleghi, alti esponenti delle forze dell’ordine, acquisendo un potere tale da riuscire a influenzare scelte e nomine all’interno della magistratura e persino delle forze di polizia. Cordate, non più correnti…”. Ora idealmente si può far scendere idealmente in campo un altro personaggio, l’ex magistrato Ilda Boccassini. Ha scritto “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, di cui molto si è parlato e scritto, più che altro per il quarto capitolo: il racconto di una liason con Giovanni Falcone. Capitolo che fa perdere di vista il cuore dei problemi che questo libro pone. Perché in fin dei conti, cos’abbiano combinato sono affari di Boccassini e Falcone; si può al massimo eccepire che questa storia poteva restare nel cono d’ombra dove era relegato, conosciuta da pochi. Ma è la sostanza delle questioni che si è persa di vista. La sostanza è il racconto di anni e anni di storia della magistratura, dei magistrati, del loro operare: il loro letterale trescare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: dal libro di Boccassini insomma, emerge un quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta. Del lato meschino e vanesio di magistrati ed ex magistrati famosi; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma: un contesto, una “scena” e tanti retroscena, deprimenti. Significative queste ‘concordanze’ di personaggi così diversi, perfino opposti. Tutto ciò aggravato dal fatto che tutto ciò sembra scivolare come acqua su pietra liscia. Si può infine segnalare un’ulteriore, non meno grave “indifferenza”, che evidentemente (mal)cela una diffusa ostilità: verso i sei referendum per una giustizia più giusta promossi da Partito Radicale e Lega. Hanno superato il primo ostacolo, il vaglio della Corte di Cassazione. Ora la parola spetta alla Corte Costituzionale; non potrà falcidiare l’intero pacchetto; potrà dichiarare che qualche quesito non può essere sottoposto a referendum popolare, ma bocciarli tutti e sei non è cosa. Dunque, se non saranno sciolte le Camere (evento non meno improbabile), a primavera ci si pronuncerà su importanti questioni di giustizia e di come la si vuole amministrare. Che cosa attendono i mezzi di comunicazione, e in particolare quello che dovrebbe essere il servizio pubblico radio-televisivo, ad allestire spazi di informazione, confronto e dibattito tra sostenitori e avversari delle referendarie, non si capisce (o al contrario: lo si comprende bene). ‘Conoscere per deliberare’ è uno dei precetti di Luigi Einaudi: diritto alla conoscenza presupposto senza il quale non è data una vera democrazia. Curioso, ma anche indicativo, che filosofi, giuristi, commentatori, dedichino tempo ed energie nella denuncia di rischi e pericoli più supposti che reali per la democrazia, in Italia, in Europa, nel mondo, a proposito di una Pandemia che sconvolge il pianeta; e non una briciola di attenzione sul fatto che una questione essenziale come la giustizia e il modo in cui si amministra è argomento tabù: è scattato un verboten a cui pochi volenterosi vogliono e sanno sottrarsi, rapidamente, implacabilmente, silenziati: ridotti come il protagonista del celebre dipinto del norvegese Edvard Munch.

Il periodo di Tangentopoli. Italo Ghitti, l’unico gip di Mani Pulite: svelato il trucco del pool per sceglierselo. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Italo Ghitti è stato “il Gip di Mani Pulite”. L’unico. Per capirci: se il Pool ha aperto in quel periodo, per dire, cento indagini, cioè cento fascicoli diversi, per reati tra loro diversi, con indagati diversi, contesti diversi, insomma diversi, il Gip è stato sempre lui tutte e cento le volte. Lo sappiamo da sempre, noi penalisti lo abbiamo denunciato da subito e per decenni, ma nulla, come se niente fosse. Ora una meritevole intervista ad un Gip milanese, il dott. Guido Salvini, almeno ci fa sentire meno soli. Come è potuto accadere? Semplicissimo. I Pubblici Ministeri, gli eroici cavalieri senza macchia e senza paura del leggendario pool di Mani Pulite, inventarono un banale trucco. Tutte le nostre indagini fanno in realtà parte di una unica indagine, dissero (anzi, se lo dissero tra di loro, figuriamoci se qualcuno osò fare domande). Il fenomeno criminale è unico, la Corruzione ed il Finanziamento Illecito della Politica. Dunque tutti i fatti sui quali indaghiamo, dal Pio Albergo Trivulzio alla tangente Enimont, sono capitoli di una unica indagine purificatrice. Dunque un unico numero di procedimento e, per conseguenza, un unico Gip, Italo Ghitti. Un autentico gioco delle tre carte, che nemmeno a Forcella. Se un qualsiasi Procuratore oggi si azzardasse a fare una roba del genere, finirebbe diritto per diritto davanti ad un giudice disciplinare (almeno) a renderne conto. Per capirci, è come se la Procura di Palermo sostenesse che tutte le indagini di Mafia, qualunque siano i fatti, le cosche e i protagonisti, debbano ritenersi facenti parte di un unico fascicolo, e dunque affidate agli stessi inquirenti ed al controllo giurisdizionale di un unico Gip. La stampa nostrana non fece un plissé, e nemmeno ora, a babbo morto. I Santi non si toccano e non si bestemmiano. I famosi “cani da guardia” della verità contro i poteri, girano il muso da un’altra parte, abbassano le orecchie e semmai abbaiano contro i pochi che dovessero azzardarsi a dire qualcosa, quando si tratta del potere giudiziario. Nessuno che provi ad alzare il ditino, e a fare la ineludibile domanda: perché? Già, perché, secondo voi? Sarebbe bastato fare quello che normalmente si ha il dovere di fare, e cioè aprire per ogni nuova indagine un fascicolo nuovo con un nuovo numero, ed ecco lì che il Gip cambia. Dunque, la risposta è semplicissima: la Procura di Milano fece l’impensabile: si scelse il “suo” Gip. Punto. Traetene voi da soli le conseguenze. Io mi limito a ricordare quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, il ruolo ed il compito del Giudice delle Indagini Preliminari, per facilitarvi nel vostro giudizio su quello scandalo, oggi denunciato perfino da un coraggioso giudice milanese. Il Gip è colui che è chiamato ad esercitare il “controllo giurisdizionale” sulle indagini e sull’esercizio dell’azione penale. Perché, pensate un po’, nel nostro sistema processuale il Pubblico Ministero è certamente il dominus incontrastato delle indagini; ma appena ritiene di dover adottare misure che vanno ad impattare sui diritti delle persone indagate, non può far altro che “chiedere” al Gip di essere autorizzato a farlo. Può solo “chiedere” di intercettare, di sequestrare, di arrestare. Nei casi di urgenza può farlo di propria iniziativa, ma poi deve immediatamente informarne il Gip, che verificherà la legittimità dell’atto adottato con urgenza, e potrà convalidarlo o invece annullarlo. Il Pm chiede, ma è il Gip che adotta i provvedimenti più importanti nella fase delle indagini. L’analfabetismo diffuso fa dire che “Gratteri ha arrestato”, che “la Procura di Milano” ha disposto intercettazioni, che “la Procura di Palermo” ha sequestrato, ma non è così, perché quei provvedimenti sono del Gip. Ora voi comprendete bene quanto possa contare, per una Procura, avere un Gip, come dire, sulla propria lunghezza d’onda. Un Gip che non si metta a sindacare, ad approfondire, a questionare, e soprattutto a respingere le richieste. La partita della terzietà del Giudice, garante costituzionale dei diritti e del procedimento, si gioca innanzitutto e in modo quasi assorbente nella fase delle indagini. Il pool di Mani Pulite, a suggello della propria onnipotenza, si consentì il lusso di avere un solo Gip. Non voglio mancare di riguardo a nessuno, ma possiamo ragionevolmente dare per scontato che, come minimo, l’orientamento di quel Giudice non fosse sgradito all’Ufficio? Io penso proprio di sì. E più in generale: se si parla solo dei Pm quando si arresta, si intercetta, si sequestra, nonostante sia il Gip che ha arrestato, intercettato, sequestrato, non vi sorge il dubbio che in questo Paese il tema della terzietà del giudice, innanzitutto del giudice delle indagini preliminari, sia la vera, grande, decisiva, clamorosa emergenza della nostra giustizia penale?

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Sanità: pizzo di Stato.

Ha il cancro, niente visite: “Per ora non c’è posto”. Mariachiara Giacosa per La Repubblica il 10 settembre 2022.  

Negati a un uomo di 62 anni gli esami urgenti necessari all’intervento. “Sui tempi buio pesto. Ma nel privato possono operarmi in settimana”

La prossima settimana Dario Di Natale, 62 anni di Chieri, malato oncologico farà l’estremo tentativo. Tornerà dal suo medico di base («in realtà il sostituto, per via delle ferie») a chiedere l’impegnativa per un intervento urologico urgente: obiettivo, rimuovere la recidiva del tumore per cui era stato già curato tre anni fa. Se no la sua unica possibilità è sborsare 6 mila euro e essere operato la prossima settimana in una clinica privata, oppure aspettare gli esami gratuiti per confermare quanto lui ha già scoperto pagando le visite. Aspettare quanto? «Non si sa. Quando, a fine giugno, mi sono presentato all’Asl a Chieri con le prescrizioni urgenti, cioè da fissare entro 10 giorni, per una cistoscopia e una visita urologica, mi hanno detto che non c’erano possibilità, né lì né altrove in Piemonte. E non hanno saputo darmi neppure una tempistica», racconta Di Natale che a quel punto ha deciso di rinunciare alla cistoscopia e di rivolgersi a un urologo privato. «Ho fatto la visita, 120 euro: il medico ha confermato la macchia e mi ha detto che bisognava operare: privatamente, visto che lui non opera nel pubblico. Avrebbe potuto fissare l’intervento la prossima settimana». Tutto facile, ma con un preventivo da 6 mila euro. «È tutta la vita che pago le tasse: 40 anni di contributi e poi, di fronte a un cancro, non ho diritto alle cure gratuite» sottolinea Di Natale, agente di commercio. Quei soldi potrebbe pure recuperarli ma di una cosa è certo: «Non è giusto».

Anche perché tutta la sua storia racconta di una sanità che non rispetta i tempi. «Tre anni fa ho avuto un tumore alla vescica. Nel giro di due mesi ero stato operato, in convenzione con il servizio sanitario – racconta – Sfortunatamente la recidiva in queste neoplasie è molto comune. E così quando ho iniziato ad avere disturbi mi sono subito rivolto al medico. Mi ha prescritto una serie di esami: sangue, urine e un’ecografia. Quando sono andato per prenotarli, con la prescrizione urgente, mi hanno detto che gli esami avrei dovuto farli alle Molinette: per l’ecografia serviva qualche mese e io per accelerare ho deciso di farli a pagamento».

Un conto da 160 euro che ha confermato il verdetto temuto: una macchia, una visita e un esame specialistico da fare e la necessità di un’operazione. Che Di Natale, al momento, non potrà eseguire con il servizio sanitario. «Io capisco che dopo il Covid ci siano ritardi accumulati e che non sia semplice fissare gli appuntamenti a breve. Quel che trovo assurdo è che nemmeno si sappiano i tempi. A me hanno detto che per ora non ci sono posti disponibili. E io cosa dovrei fare? Aspettare che la malattia peggiori?». In primavera era toccato anche a sua moglie sottoporsi a controlli per sospetta neoplasia. «Anche in quel caso i tempi dell’Asl erano biblici. Abbiamo fatto tutti gli esami privatamente. Per fortuna era solo un’infiammazione, ma abbiamo pagato per scoprirlo».

·        Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Il "racket delle salme": cosa facevano negli obitori. Un giro d'affari da 100mila euro, le indagini della procura di Ravenna incastrano alcuni dipendenti Asl e impresari di pompe funebri. Emesse 16 misure cautelari. Federico Garau il 4 Novembre 2022 su Il Giornale.

Una vera e propria associazione a delinquere sulle salme dei defunti quella portata alla luce dai carabinieri di Ravenna. Questa mattina i militari hanno eseguito una serie di misure cautelari emesse dalla procura della Repubblica nei confronti di 16 soggetti implicati nell'inchiesta denominata "Caro estinto". Dalle indagini degli uomini dell'Arma è emerso che esisteva un accordo fra alcuni obitori nel Ravennate, nello specifico Lugo e Faenza, e certe agenzie di pompe funebri.

A mostrare il risultato delle indagini, condotte fra gennaio e maggio 2020, è stato il procuratore ravennate Daniele Barberini. L'attività investigativa ha portato allo scoperto una fitta attività di corruzione fra il Faentino e il Lughese. Alcuni dipendenti della Asl avrebbero infatti convinto i parenti dei defunti a rivolgersi a specifiche agenzie per la gestione delle salme, tutto in cambio di un lauto compenso. Un giro d'affari da 100mila euro.

L'associazione a delinquere

Il compito dei dipendenti Asl coinvolti, spesso infermieri, era quello di indirizzare i parenti dei defunti verso precise agenzie di pompe funebri. Il guadagno per tali interessati "suggerimenti" era di 15-20mila euro l'anno. Oltre ad acquisire clienti sicuri, le imprese di pompe funebri ottenevano considerevoli risparmi nei costi di gestione, dal 50-70%.

L'inchiesta, portata avanti dal pubblico ministero Daniele Barberini, ha incastrato i dipendenti Asl, infermieri addetti alle camere mortuarie che sono stati inchiodati alle loro responsabilità grazie alle intercettazioni.

Nei confronti degli operatori sanitari sono scattate le accuse di corruzione, oltre che di violazione della direttiva regionale del 2019 sulla gestione dei decessi ospedalieri. Gli infermieri, infatti, provvedevano alla vestizione delle salme. C'è poi l'accusa di associazione a delinquere rivolta non solo agli infermieri coinvolti, ma anche a un impresario di pompe funebri.

Le misure cautelari

In tutto, fanno sapere gli inquirenti, sono 37 le persone coinvolte a vario titolo nell'attività illegale e denunciate. Li misure cautelari emesse dal gip del tribunale di Ravenna, invece, sono 16.

Nello specifico è stata applicata una misura di custodia cautelare in carcere per un dipendente Asl addetto alla camera mortuaria di Faenza. A seguire ci sono stati 5 provvedimenti di arresti domiciliari nei confronti di 4 dipendenti Asl addetti alle camere mortuarie di Faenza e Lugo e di un impresario di pompe funebri.

Il gip ha inoltre emesso 10 misure di interdizione di esercizio dell’attività professionale con divieto temporaneo di 10-12 per 10 titolari di onoranze funebri operanti nel territorio ravennate.

"Un malcostume che purtroppo non vediamo per la prima volta", è stato il commento conclusivo di Barberini. "È un settore particolarmente delicato che coinvolge le persone in un momento in cui sono particolarmente sensibili quindi qualunque suggerimento che arriva dall'esterno viene colto, il quale non sempre è disinteressato", ha aggiunto.

Bologna, racket del caro estinto: 30 arresti, 5 pompe funebri coinvolte. Mazzette ai sanitari da 250 euro. In corso, l’operazione «Mondo Sepolto». Sessanta indagati, 8 i sanitari accusati di ricevere tra i 200 e i 250 euro a famiglia raggirata, 5 le ditte coinvolte, scrive Maria Centuori il 17 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera. Controllavano le camere mortuarie dei due principali ospedali in città, dell’ospedale Maggiore e del policlinico Sant’Orsola riuscendo ad avere il monopolio nell’aggiudicazione dei servizi funebri. Così i carabinieri di Bologna hanno smantellato due cartelli di imprese di pompe funebri. Dalle prime ore dell’alba i militari del Comando provinciale di Bologna, oltre 300 uomini, stanno eseguendo 30 misure cautelari (tutti i nomi) e 43 perquisizioni sotto le Due Torri e in provincia, ma anche nelle province di Bologna, Modena, Ferrara, Rimini e Gorizia. Sequestrato un patrimonio di 13 milioni di euro. Un giro d’affari milionario sul caro estinto. Nel mirino degli investigatori diversi infermieri e la maggioranza delle imprese funebri nate sotto le Due Torri. Indignati i partiti: dalla Lega passando per il Pd tutti chiedono verifiche sul caso. Intanto, il procuratore capo Giuseppe Amato stiletta la politica: «Il sistema dell’anti-corruzione non ha funzionato, non può essere tutto demandato a magistratura e carabinieri, ognuno deve fare la sua parte, le leggi ci sono».

L’inchiesta. Le indagini sono state coordinate dal reparto operativo e dal nucleo Investigativo e della Compagnia Bologna centro, coordinate dalla Procura della Repubblica di Bologna diretta dal procuratore Giuseppe Amato. Gli infermieri agganciavano i familiari dei defunti, mettendoli in contatto con i referenti delle varie agenzie di servizi, proponendo quelle più economiche o efficienti. Questi poi fornivano dettagli e indirizzavano i clienti verso gli uffici per le pratiche. Al vertice invece c’erano i rappresentanti di due consorzi, che dividevano i compiti e ridistribuivano le somme guadagnate. È questa la catena organizzativa ricostruita dai carabinieri del reparto operativo - nucleo investigativo e della Compagnia Bologna centro, che hanno smantellato un business legato al settore funerario. I militari stanno eseguendo un provvedimento emesso dal Gip per 30 persone, accusate a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, corruzione di incaricato di pubblico servizio, riciclaggio e violazioni connesse alla responsabilità amministrativa degli enti. Secondo le indagini i due «cartelli» controllavano le camere mortuarie dei due principali ospedali cittadini, il Maggiore e il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi.

Trecento militari in azione. Per l’esecuzione delle misure, dei sequestri e per le perquisizioni sono circa 300 i carabinieri impegnati, tra le province di Bologna, Ferrara, Modena, Rimini e Gorizia. Le indagini hanno documentato anche sistematiche condotte di riciclaggio promosse e coordinate dagli indagati di vertice, con il reinvestimento del rilevante `nero´ aziendale, realizzato con mancata fatturazione di parte dei servizi funerari e gestito attraverso specifiche contabilità parallele da parte di altre persone, incaricate della specifica mansione. Lo stesso denaro veniva di fatto impiegato per soddisfare la provvista corruttiva e implementare le singole fette di guadagno.

Il metodo. Nemmeno il tempo di aspettare che la famiglia potesse realizzare di aver perso un proprio caro e lì, fuori al capezzale, c’era un dipendente di una delle imprese funebri avvisato per tempo in cambio di almeno 200 euro dall’infermiere, che incontrava i famigliari. Otto infermieri coinvolti tra l’ospedale Malpighi- Sant’Orsola e il Maggiore. Cinque all’ospedale universitario di via Massarenti. Al Malpighi, infatti, gli infermieri capeggiati da uno di loro segnalavano in cambio di 250 euro il caro estinto, e prendevano fino a 100 euro per poterli vestire. «Tariffe» più basse al Maggiore, un caro estinto costava fino a 150 euro. Due gli infermieri coinvolti. Tutti addetti alle camere ardenti. In più, a loro volta le imprese funebri chiedevano alcune somme di denaro in contante ai famigliari. Giustificandolo con «spese per le tasse cittadine». Il loro modus operandi era lo stesso, per entrambe le organizzazioni che sapevano in modo tacito di doversi lasciare campo e di non prestarsi i piedi.

Il monopolio. Ad emergere è stato il monopolio conseguito dai due consorzi «Rip Service Srl» e «Cif Srl» nell’accaparrarsi i funerali nel capoluogo emiliano. Le intercettazioni, anche video, come spiega una nota dei Carabinieri, «hanno consentito di ricostruire compiutamente gli assetti interni caratterizzanti i due citati cartelli di imprese, rispettivamente riconducibili agli imprenditori bolognesi» Giancarlo Armaroli, amministratore unico del «Rip service», e Massimo Benetti, presidente del Consiglio d’amministrazione del «Cif» e della «Roncato Srl», dipendente della «Golfieri Srl», consigliere dell’«Antico Consorzio Funebre Bolognese», vicepresidente del cda della «Spv Bologna spa» ed amministratore delegato della «Bologna Servizi Cimiteriali Srl», società partecipata del Comune di Bologna (che detiene il 51% delle quote). Gli investigatori hanno disposto nell’ambito dell’inchiesta il sequestro di cinque immobili, 35 unità locali sedi societarie e circa 75 autoveicoli, per un valore complessivo di circa 13 milioni di euro.

Le menti. Ai vertici c’erano rispettivamente Giancarlo Armaroli, 68 anni, della Rip Service srl e Massimo Benetti, 63 anni, della Cif srl di via Zanardi, il consorzio che mette insieme tra le maggiori imprese funebri della città. Entrambi sono stati arrestati alle prime ore dell’alba. Contemporaneamente agli arresti, ben 30 su una settantina di indagati, i militari dell’arma hanno sequestrato diverse società. Sigilli posti anche alla Franceschelli Srl, alla Lelli srl, e alla Oreste Golfieri. Il giudice Alberto Ziroldi, su richiesta del pm Augusto Borghini, ha fatto sequestrare anche 5 immobili, 35 altre sedi societarie locali e 75 veicoli utilizzati dalle aziende per i servizi mortuari, per un valore complessivo di 13 milioni euro. «Quest’operazione rappresenta un’importante colpo alla corruzione che ha riguardato una gestione di malaffare riguardanti le camere ardenti di due dei maggiori ospedali della città», ha commentato il procuratore capo Giuseppe Amato. Le indagini dell’operazione «Mondo sepolto» sono partite da un esposto si sono sviluppate nell’ultimo anno e mezzo e sono state portate a compimento dal lavoro del reparto Operativo, dal nucleo Investigativo e dalla Compagnia Bologna Centro del comando provinciale dei carabinieri di Bologna.

La segnalazione dell’Usl all’Anac. Nel 2017 l’Usl di Bologna ricevette una segnalazione sull’accaparramento di clientela da parte di alcune società di pompe funebri, oggi fenomeno al centro di un’inchiesta giudiziaria, e lo comunicò all’Anac, Autorità nazionale anticorruzione. Quindi, per ridurre i rischi di corruzione decise di limitare il più possibile il flusso di comunicazioni alle portinerie quando in ospedale si verificava un decesso. Questo il motivo per cui l’Anac ha considerato la decisione una buona pratica in funzione di prevenzione della corruzione, tanto da menzionare il fatto nell’ultimo rapporto di giugno sul whistleblowing ovvero le segnalazioni di attività illecite nell’amministrazione pubblica o in aziende private da parte dei dipendenti che ne vengono a conoscenza l’Usl di Bologna è stata menzionata. Secondo quanto si apprende dalla stessa Autorità, nella gestione delle camere mortuarie l’Anac fin dal 2015 ha considerato il settore uno di quelli maggiormente a rischio corruzione indicando criticità e possibili soluzioni.

La Federazione degli infermieri: nessun coinvolto. «Nessun infermiere è coinvolto nell’operazione “Mondo sepolto”, che ha fatto emergere comportamenti criminali all’interno della gestione dei servizi funerari nel capoluogo emiliano-romagnolo». Lo segnala da Roma la Federazione nazionale Ordini professioni infermieristiche (Fnopi) alla luce dell’inchiesta dei Carabinieri a Bologna illustrata oggi. «Ancora una volta - scrive in una nota Fnopi, alla quale si associa il presidente Opi Bologna Pietro Giurdanella - la professione è stata coinvolta erroneamente in notizie inerenti fatti inaccettabili, che violano prima ancora delle leggi il codice etico che guida il lavoro quotidiano degli infermieri. Si tratta, infatti, di comportamenti disgustosi, messi in atto verso i familiari nel momento di maggior sofferenza che fa seguito alla scomparsa di un proprio congiunto». Così, l’Ordine delle professioni infermieristiche di Bologna, nel ribadire «l’estraneità degli infermieri a questi episodi», dice che continuerà a mantenere «alta la vigilanza» manifestando «pieno appoggio» e «gratitudine verso la magistratura e le forze dell’ordine, per il servizio che hanno reso anche in questo caso alla collettività, e a tutti coloro che svolgono con passione e correttezza ogni giorno il proprio lavoro». Inoltre, Fnopi chiede un impegno da parte delle istituzioni «per tutelare, in ogni sede, il buon nome della professione ed evitare l’utilizzo improprio della qualifica di “infermiere”, oggi estesa anche a personale privo della necessaria laurea abilitante e dell’obbligatoria, conseguente, iscrizione all’Ordine professionale».

Gli altri casi in Italia. Quello scoperto dai carabinieri di Bologna non è un caso isolato, il business dei funerali ha portato a arresti in tutta Italia per episodi non dissimili a quello al centro dell’inchiesta e dell’operazione scattata all’alba di giovedì. A Padova, nel 2016, fu scoperto un giro di micro mazzette sui morti all’ospedale: una trentina gli indagati proprio come nel Bolognese tra cui sei infermieri dell’obitorio e diversi titolari di onoranze funebri. Di recente, a Roma, si è aperto il processo sulle mazzette delle pompe funebri alla politica. E il 10 gennaio a Alezio, in Salento, c’è stato un attentato incendiario contro un’agenzia di servizi funebri, pare legato al racket del caro estinto.

Bologna, il racket delle pompe funebri: 27 arresti. Duecento euro agli operatori per un funerale. Furti e dileggio alle salme. "Gli ho messo una buccia di banana in mano, aveva fame...". Le due bande avevano il monopolio delle camere mortuarie dei principali ospedali, Maggiore e Sant'Orsola. In carcere i titolari di Rip Service e Cif. Sigilli anche alle agenzie Golfieri, Franceschelli e Lelli. Codacons: "In Italia business da 3,5 miliardi", scrive Giuseppe Baldessarro su "La Repubblica" il 17 gennaio 2019. I carabinieri di Bologna hanno smantellato due cartelli di imprese di pompe funebri che controllavano le camere mortuarie dei due principali ospedali cittadini riuscendo in pratica ad avere il monopolio nell'aggiudicazione dei servizi funebri. Sono 30 le misure cautelari (9 in carcere, 18 arresti domiciliari e 3 divieti di esercizio dell'attività d'impresa) e 43 le perquisizioni eseguite da 300 militari che hanno sequestrato un patrimonio di 13 milioni di euro. Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Bologna, hanno consentito di disarticolare una vera e propria associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e riciclaggio. I due cartelli, come accertato dagli investigatori, si spartivano i servizi nelle camere mortuarie dell'Ospedale Maggiore e del Policlinico Sant'Orsola-Malpighi, ottenendo di fatto il monopolio nel settore. Gli investigatori dei carabinieri hanno ricostruito due diverse piramidi ai cui vertici c’erano Giancarlo Armaroli, 68 anni, della “Rip Service srl” e Massimo Benetti, 63 anni, della “Cif srl” (entrambi arrestati). Due organizzazioni distinte che operavano alla stessa maniera, ma stavano ben attente a non “disturbarsi” tra di loro e che di fatto si erano spartite il mercato complessivo. Al di sotto dei due “boss” agivano tutta una serie di soggetti, amministratori e dipendenti delle aziende di pompe funebri, che bazzicavano negli ambienti ospedalieri tenendo saldi rapporti con i dipendenti delle sale mortuarie. Ultimo anello dell’organizzazione erano proprio i dipendenti del Sant’Orsola e del Maggiore che svolgevano il ruolo di procacciatori d’affari e che indirizzavano i familiari delle persone decedute verso le società “amiche” ricevendone compensi che andavano dalle 200 alle 350 euro a funerale procacciato. Denaro in nero che era gestito dai contabili delle aziende di pompe funebri attraverso un conto corrente sul quale nel giro di pochi mesi, secondo quanto accertato, sarebbero transitati centinaia di migliaia di euro. “Se dopo 20 anni che lavori nella sala mortuaria hai ancora da pagare il mutuo, vuol dire che non hai capito niente”, diceva uno degli infermieri intercettato dagli investigatori. Solti tanti soldi, tutti in nero (provenienti da una cassa occulta alimentata con false fatturazioni), per un servizio che per diversi anni ha completamente fatto saltare il mercato. Non mancano agli atti dell'inchiesta dei carabinieri aspetti da cui, secondo gli investigatori, emerge il trattamento di spregio riservato alle salme. In un'intercettazione, un indagato dice infatti: "Ho un filmato dove lui mette una buccia di banana in mano ad un morto...". Risposta: "Il morto, aspettando la barella... ha avuto fame!". In un'altra conversazione intercettata un'addetta si definisce "la regina della camera mortuaria" e in un'altra ancora racconta al compagno dei beni presi a un defunto: "Amò...ho trovato due anelli (...), l'ho messi già in borsa... però non so se è oro...". Giovedì mattina i militari dell’arma hanno sequestrato sei diverse società. Oltre la “Rip Service srl” e la “Consorzio imprese funebri - Cif srl” i sigilli sono stati posti anche alla “Franceschelli srl”, alla “Lelli srl, impresa funebre dei fratelli Lelli”, alla “Oreste Golfieri srl” e alla “Centro servizi funerari srl”. Il giudice Alberto Ziroldi, su richiesta del pm Augusto Borghini, ha fatto sequestrare anche 5 immobili, 35 altre sedi societarie locali e 75 veicoli utilizzati dalle aziende per i servizi mortuari, per un valore complessivo di 13 milioni euro.  I cartelli di pompe funebri smantellati dai carabinieri di Bologna rappresentano "una goccia nel mare, perchè il fenomeno del racket del caro-estinto è ancora diffusissimo negli ospedali italiani". Lo denuncia il Codacons, che da anni lancia l'allarme sui rapporti illegali tra infermieri, personale delle camere mortuarie e imprese funebri. "Il business dei funerali raggiunge in Italia quota 3,5 miliardi di euro annui e vede attive nel nostro paese più di 5 mila imprese funebri - spiega il presidente Carlo Rienzi - Un giro d'affari enorme che fa gola a soggetti senza scrupoli, avvoltoi pronti a pagare profumatamente infermieri e medici per avere in tempo reale i nominativi dei deceduti, così da avvicinare i parenti del defunto e sfruttare la loro situazione di sofferenza e confusione, offrendo servizi funebri a tariffe maggiorate rispetto ai prezzi di mercato". "In base ai calcoli del Codacons, infatti, - aggiunge -  i funerali con tangente incorporata costano mediamente il 30% in più rispetto ai costi medi dei servizi funebri". Il Codacons chiede dunque "di estendere i controlli in tutti gli ospedali italiani, al fine di stroncare le collusioni tra pompe funebri, infermieri e camere mortuarie, e invita i parenti dei defunti a non accettare mai l'offerta di agenzie che si presentano e offrono servizi senza essere state esplicitamente chiamate. Anche in queste situazioni drammatiche occorre avere il sangue freddo di dire un no deciso".

Racket pompe funebri, ecco i nomi degli indagati tra operatori e impresari. Gli accusati di far parte delle due associazioni a delinquere per spartirsi i morti di Sant'Orsola e Maggiore, scrive Giuseppe Baldessarro su "La Repubblica" il 17 gennaio 2019. Due diverse associazioni per delinquere in piena regola. Due diverse piramidi criminali smantellate che si erano spartite il mercato dei funerali che gravita attorno agli ospedali Sant’Orsola e Maggiore. Un gruppo era guidato da Giancarlo Armaroli, 68 anni, della “Rip Service srl”, l’altro da Massimo Benetti, 63 anni, del “Cif srl”. Sotto di loro un secondo livello di amministratori delle società, di contabili, di esperti di bilanci e di procacciatori d’affari, coinvolti a vari titolo nell’inchiesta che sta facendo tremare Bologna e che promette ulteriori sviluppi. A stretto contatto con Armaroli, e dunque per conto della “Rip Service”, lavorava Giuliano Vecchiatti, 38 anni; Domenico Evangelista, 76 anni; e Albertino Pinelli, 72 anni. Erano loro l’anello che univa i vertici dell’organizzazione con la base. Più in basso c’erano poi Giuseppe Venturi, 56 anni, e Giuseppe Parise, 61 anni, operatore che però, secondo i magistrati era a libro paga dei boss delle pompe funebri. Della stessa organizzazione che aveva messo le mani sul Sant’Orsola c’era anche alcuni amministrativi. Analogamente, a lavorare nell’interesse del “Cif” di Benetti, c’erano Graziano Muzzi, 62 anni; Maurizio Rossi 68 anni; Lorenzo Lelli, 55 anni; Gianluca Babina; 52 anni e Carla Bugamelli, 49 anni. Tra gli altri indagati figurano Marco Bertocchi, 58 anni; Andrea Ghini di 43 anni; Nadia Mazzini, 66 anni; Stefano Iannelli, 49 anni; Gianluca Palloni, 42 anni; Alessandro Sarti, 56 anni; e Marco Zambinelli, 66 anni. Sotto di loro una folto gruppo di operatori degli ospedali, soprattutto addetti alle camere mortuarie che indirizzavano i familiari delle persone decedute verso le agenzie “amiche” da cui ricevevano somme di denaro che andavano dalle 200 alle 350 euro. Tra questi i carabinieri hanno individuato Daniele Bultrini, di 63 anni; Maria Campisi, 41 anni; Paolo Montaguti, 60 anni; Francesco Ramoscelli, di 45 anni; e Raffaella Gianfrancesco, di 61 anni. Oltre loro risultano decine le persone indagate sulle quali gli investigatori stanno continuando a svolgere accertamenti.

Bologna, racket delle pompe funebri. 27 arresti, ecco i nomi. I due cartelli si spartivano i servizi al Maggiore e al Sant'Orsola. A dipendenti Ausl compiacenti tra i 200 e i 350 euro a servizio. Sequestrato patrimonio da 13 milioni. Ecco chi è coinvolto, scrive il 18 gennaio 2019 Il Resto del Carlino. Monopolio del caro estinto di due aziende funebri, la R.i.p Service all'ospedale Maggiore e la C.i.f srl al Sant'Orsola. Lo ha smantellato una maxi operazione (VIDEO) 'Mondo Sepolto' dei carabinieri di Bologna: hanno smantellato due cartelli di imprese di pompe funebri che controllavano le camere mortuarie dei due principali ospedali cittadini, riuscendo ad avere il monopolio nell'aggiudicazione dei servizi funebri, anche grazie a addetti alla camera mortuaria compiacenti e adeguatamente ripagati. Sono 30 le misure cautelari (9 in carcere, 18 ai domiciliari e 3 divieti di esercizio di attività di impresa) 43 perquisizioni (video) in tutta l'Emilia Romagna e sono stati sequestrati beni mobili ed immobili per 13 milioni di euro.

I vertici. L'indagine è partita dalle dichiarazioni di due indagati e sono poi supportate da intercettazioni telefoniche, ambientali e video hanno permesso di scoprire il meccanismo. Ai vertici dell'organizzazione ci sarebbero - secondo le accuse - due imprenditori bolognesi: Giancarlo Armaroli, 66 anni e amministratore unico di R.i.p. Service e Massimo Benetti, 62 anni, presidente del cda di C.i.f.. Entrambi sono finiti in cella questa mattina all'alba. Giancarlo Armaroli è amministratore unico della 'Rip. Service', mentre Massimo Benetti ha una quantità impressionante di cariche nelle maggiori società di servizi cimiteriali: era presidente del cda del Consorzio Imprese Funebri (Cif.) e della Roncato Srl e, allo stesso tempo, dipendente della Golfieri Srl, consigliere dell'Antico Consorzio Funebre Bolognese, vice presidente del cda della Spv Bologna Spa e ad della Bologna Servizi Cimiteriali Srl (totalmente estranea all'inchiesta), una società partecipata del Comune di  Bologna (che detiene il 51% delle quote). I carabinieri hanno sequestrato (FOTO) anche la Franceschelli Srl, la Lelli srl e la Oreste Golfieri: i servizi restano però attivi grazie a un amministratore designato dal giudice.

Gli arrestati. Sempre secondo le indagini, Armaroli della Rip ha due bracci operativi che sono stati arrestati: Giuliano Vecchiatti, 38 anni, e Domenico Evangelista, 76. La rete di Benetti della Cif, invece, è molto più vasta: si parte da Patrizia Bertagni, 62 anni e responsabile della sistematica raccolta dei liquidi per tutte le agenzie affiliate assieme a Roberta Mazzucchelli di 40 anni, Graziano Muzzi, 62 anni e Maurizio Rossi, 68. Poi ci sono le persone delle ditte 'consorziate': Lorenzo Lelli, 55 anni, Gianluca Babina, 52, Carla Bugamelli, 49 anni, della agenzia Lelli; Marco Bertocchi, 58 anni, Andrea Ghini, 43, Nadia Mazzini, 66, e Stefano Iannelli, 49 anni, della Franceschelli; Gianluca Palloni, 42 anni, Alessandro Sarti, 56 anni, Marco Zambonelli, 66 anni, della Golfieri.

I dipendenti Ausl. Giuseppe Venturi, 56 anni e Giuseppe Parise, 61, figurano nell'inchiesta dei carabinieri a libro paga di Armaroli. Entrambi vengono indicati nelle carte come "incaricati di pubblico servizio e appartenenti all'Ausl di Bologna". Sono loro che indicano i nomi e le informazioni sulle persone decedute al sodalizio. Agli arresti anche altri dipendenti Ausl, accusati di fornire "uno stabile contributo nell'aggiudicazione dei servizi funbebri da parte del consorzio Cif": Daniele Bultrini, 63 anni, Paolo Montaguti, 60, Maria Campisi, 41, Francesco Ramoscelli, 45, e Raffaella Gianfrancesco, 61 anni. Questi sono i nomi degli arrestati, ma ce ne sono anche denunciati. Per tutti - fanno sapere Sant'Orsola e Ausl - sono già state avviate le pratiche per la sospensione.

La spartizione. Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Bologna diretta dal procuratore capo Giuseppe Amato, hanno consentito di disarticolare una vera e propria associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e riciclaggio. I due cartelli, come accertato dagli investigatori, si spartivano i servizi nelle camere mortuarie. Lì infatti erano presenti in pianta stabile i rappresentanti delle due agenzie (cosa espressamente vietata dalla legge del 2009) che fungevano da anello di congiunzione tra i vertici - Armaroli e Benetti - e gli addetti alla camera mortuaria dell'Ausl, altro tassello fondamentale dell'associazione. 

200 euro a morto. Questi ultimi, infatti, avevano il delicato compito di avvicinare i parenti della persona appena deceduta nei due ospedali e presentare loro le agenzie, descrivendole come "le più economiche, efficienti e/o rapidamente reperibili o in grado di fornire prodotti eco-compatibili", spiegano i carabinieri. Il tutto, naturalmente, dietro lauto compenso in "contanti, per cifre variabili tra i 200 ed i 350 euro per ogni 'lavoro' fatto acquisire al gruppo". I dipendenti Ausl corrotti sono "una schiera rilevante".

Il "nero". Il trucco era semplice e molto consolidato. Per ogni funerale, le agenzie si facevano dare tra i 500 e i 900 euro in contanti, ossia in nero o con la tecnica del doppio assegno: uno intestato e l'altro in bianco. Convincevano i clienti facendo leva sulla possibilità di risparmio. Questi fondi servivano, almeno in parte, a finanziare questo giro di mazzette. La Rip e la Cif, avevano creato cartelli con altre agenzie di pompe funebri con le quali si spartivano i funerali e gli ingenti proventi di questo meccanismo. L''associato' - riportano i carabinieri - della Rip di Armaroli, era la 'Armaroli Tarozzi srl'. Mentre La Cif di Benetti poteva contare, oltre che dei dipendenti, anche "di una nutrita schiera di sodali a vario titolo". Compaiono i nomi della Franceschelli srl, Lelli srl e Golfieri srl. Tra il febbraio 2009 ed il maggio 2013 gli investigatori hanno accertato come i liquidi illecitamente realizzati dall'associazione sono stati depositati in un conto corrente aperto ad hoc e sul quale sono state registrate 520 operazioni con movimentazioni in entrata ed uscita pari a 435mila euro.

Lo spregio. Nelle pieghe dell'inchiesta finiscono, tracciati nelle intercettazioni, anche atti di spregio sui cadaveri. Un indagato dice: "Ho un filmato dove lui mette una buccia di banana in mano ad un morto...". Risposta: "Il morto, aspettando la barella... ha avuto fame!". In un'altra conversazione intercettata un'infermiera si definisce "la regina della camera mortuaria" e in un'altra ancora racconta al compagno dei beni presi a un defunto: "Amo'... ho trovato due anelli (...), l'ho messi già in borsa... però non so se è oro...". "Sono stati registrati alcuni episodi che vanno contro il sentimento della pietà dei defunti. Alcune frasi ironiche e battute quasi prendevano in giro i cadaveri", spiega il colonello dei carabinieri, Pierluigi Solazzo.

Le aziende sanitarie. “Si tratta di fatti molto gravi e non tollerabili, soprattutto perché coinvolgono famiglie colpite da un evento luttuoso – è l'amaro commento delle Aziende Policlinico Sant'Orsola e Usl di Bologna -. Le Aziende stanno prestando la massima collaborazione con l’Autorità Giudiziaria e, sul fronte delle responsabilità personali, hanno già avviato le procedure per la sospensione degli operatori tecnici (non infermieri) coinvolti nell’inchiesta”.

Bologna, racket delle agenzie funebri. Le intercettazioni shock. “Ho preso due anelli da un morto, ma non so se è oro”. E poi: "Gli ospedali? Devi ungerli", scrive Cristina Degliesposti il 18 gennaio 2019 su Il Resto del Carlino. Delle lacrime dei parenti a loro non importava nulla. Perché quelle salme, in obitorio, erano oro. Il lasciapassare per uno stipendio extra in nero. Corpi da saccheggiare e da schernire, con video e scherzi di dubbio gusto. E non si fermavano nemmeno di fronte ai colleghi freschi di incarico, appena spostati e assegnati al loro ufficio: non erano soggetti da temere, ma novellini da circuire e instradare alla via della corruzione. Perché “se dopo anni in camera mortuaria hai ancora dei mutui da pagare significa che non hai capito come funziona”, come spiegava Daniele Bultrini dell’Ausl non sapendo di essere videoregistrato. Una delle figure che spicca nell’ordinanza è proprio quella di Bultrini, capo indiscusso, per il Gip Alberto Ziroldi che lo ha mandato in carcere. Era così bravo a persuadere i parenti dei defunti e indirizzarli verso le agenzie funebri di sua fiducia da definirsi “un killer” in virtù della sua ventennale esperienza. “Non sto io là a parlare mezz’ora così, fa solo delle chiacchiere”, dice in una conversazione agli atti. Che quel lavoro gli operatori dell’obitorio lo avessero preso sul serio emerge in diverse intercettazioni. Nella collega Maria Campisi, Bultrini aveva intravisto una degna erede, e questo perché “lei con il lavoro normale è negata mentre per l’altro lavoro, che alla fine è quello che conta lì, lei ha delle potenzialità che loro non hanno”. Una lusinga che la donna non manca di riferire al fidanzato (“proprio lui mi ha detto, te diventerai la regina”), ma che a onor del vero quella dote le viene riconosciuta anche da Graziano Muzzi delle onoranze funebri: è “la numero uno”, “non ha paura di un cazzo”. Peccato che la Campisi, la migliore, sia molto solerte anche a ragguagliare il fidanzato di quanto accade al lavoro. Mentre parla col compagno di un defunto, descrive infatti il contesto in cui opera: “Amò... ho trovato due anelli...l’ho messi già in borsa... però non so se è oro”. “Qui in questo ambiente nessuno predica il pulito”. Parole usate dal gip Ziroldi per sintetizzare quanto succedeva intorno alle camere mortuarie nel provvedimento che riporta una citazione da “Apologo dell’onestà nel paese dei corrotti”, testo di Italo Calvino. Un esempio emblematico è l’arrivo, nel dicembre 2017, di una dipendente dell’Ausl all’obitorio del Maggiore che era ignara di quanto accadeva. Ma nel giro di poco, il tutoraggio è andato a segno. “Il problema della camera mortuaria qua! è sempre stato? Che ci si guadagna, non si vuole venire qua per...? Se tu dai via un morto ti danno magari 200 euro, capito?”, le dice un indagato e nel giro di poco la donna inizia ad accettare somme finendo complice in cinque episodi. Nelle conversazioni si parla anche degli operatori delle onoranze funebri. Benetti del Cif? “È il capo dei capi”, uno che “è entrato come dipendente, è entrato tipo...come posso dire, come bidello della scuola e nel giro di cinque anni è diventato preside”. Insomma un self made man. E quel giro di soldi facili diventa oggetto di più intercettazioni, perché “gli ospedali li devi ungere”. Non c’è solo la mera contabilità nelle intercettazioni dei carabinieri, perché quelle salme vengono anche dileggiate. “Ho un filmato dove lui mette una buccia di banana in mano ad un morto...”, dice Giuseppe Parise del Maggiore, ricevendo dal suo interlocutore una risposta dello stesso discutibile tenore: “Il morto, aspettando la barella... ha avuto fame!”. In un’occasione la tattica corruttiva si estende anche ad altro personale sanitario. In particolare, con un funerale già programmato, emerge un problema riguardante un pacemaker. L’ospedale comunica che non può toglierlo e si rendeva necessaria la rimozione urgente del dispositivo, non eseguibile se non da un medico. Che fare allora? Si pensa di chiamare un medico compiacente “che gli ha detto Luca di dargli 100 euro”.

RACKET DELLE POMPE FUNEBRI, CORROMPEVANO INFERMIERI A MILANO: 41 ARRESTI

Il business dei decessi arriva anche a Milano. Nella notte sono state arrestate 41 persone, coinvolte in un vasto giro di corruzione tra ospedali e imprese di onoranze funebri.

Molti degli arrestati sono infermieri di otto diversi ospedali o case di cura, che segnalavano alle pompe funebri dove e quando avveniva un decesso. L'operazione della polizia, coordinata dai sostituti procuratori del capoluogo lombardo Fabio Napoleone e Grazia Colacicco, si chiama "Caronte" e ha portato in carcere cinque persone. Tutte le altre sono invece agli arresti domiciliari.

Nella maggior parte dei casi le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla rivelazione di segreti di ufficio. L'indagine è nata da un vecchio esposto di un titolare di un'impresa di pompe funebri e da una denuncia del maggio 2007 di un comitato di familiari di deceduti in ospedale.

«Tangenti tra i 500 e i mille euro». «Noi stimiamo che le tangenti date agli infermieri per comunicare alle pompe funebri il decesso del paziente sia tra i 500 e i 1.000 euro, a seconda dell'ospedale e delle città». A dirlo è l'associazione dei consumatori Codacons, secondo cui, in questo modo, «i funerali offerti costano il 30% in più». La Codacons aveva già più volte denunciato il fenomeno del racket delle pompe funebri, facendo notare come «il business del caro estinto genera un giro d'affari annuo di tre miliardi e mezzo di euro per più di 5 mila imprese di pompe funebri».

Quella odierna battezzata ‘Caronte’, non è la prima inchiesta sul racket delle pompe funebri che interessa Milano.

Numerosi i precedenti, il più eclatante dei quali nel 1992.

Proprio un indagine su corruzioni e truffe intorno agli affari per ‘il caro estinto’ in alcuni ospedali, tra cui il Pio Albergo Trivulzio, portò sulle tracce di Mario Chiesa, il ‘mariolo’ come venne definito allora da Bettino Craxi, primo arrestato di ‘Mani Pulite’ per una tangente di 7 milioni di lire. Nel 1997 un’altra operazione portò la Procura di Milano a chiedere l’arresto (richiesta non accolta dal Gip), di 22 tra infermieri e procacciatori di sei imprese (san Siro, Lombarda Foroni, San Cipriano, La Milanese, la Casoratese Ognissanti) oggi quasi tutte nuovamente coinvolte. Ancora: nel 2004, 5 impiegati del Comune vengono indagati dalla Polizia Locale per reati analoghi.

A livello nazionale, tra i casi più recenti, le indagini della squadra Mobile di Arezzo nel 2006 (4 impresari arrestati e 5 infermieri indagati), della Guardia di Finanza di Torino nel 2001 e nel 2007 (9 indagati di cui 5 arrestati tra infermieri e impresari dell’ospedale Le Molinette) e dai Carabinieri di Bari nell’aprile di quest’anno (51 indagati di cui 33 arrestati in numerosi nosocomi del capoluogo pugliese). Secondo i dati Codacons il business del caro estinto genera un giro d’affari annuo di 3,5 miliardi di euro per più di 5 mila imprese funebri.

Per la mafia dei funerali le salme valgono 200 euro, scrive Carmine Spadafora su "Il Giornale". Arrestate 22 persone. «Fammi un piacere, quando vai a prendere il morto, dài la mazzetta a quelli sotto la sala mortuaria». È uno dei tanti dialoghi registrati dai carabinieri di Caserta e di Santa Maria Capua Vetere, intercorsi tra due impresari di pompe funebri casertani, arrestati all'alba di ieri in base a una ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Antonio Baldassarre. Diciassette persone sono finite in cella, cinque agli arresti domiciliari, mentre, altre undici hanno ricevuto una misura interdittiva. L'accusa, a vario titolo, per gli arrestati è di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, illecita concorrenza operata con violenza e minaccia nel settore delle imprese funebri, alla ripartizione secondo criteri territoriali delle esequie relative a decessi. Il racket ruotava attorno a tre figure essenziali: gli addetti alla sala mortuaria dell'Azienda ospedaliera casertana. Erano loro che, avvertivano tempestivamente gli impresari di pompe funebri, che c'era «un morto da venire a prendere». Secondo quanto accertato dagli investigatori, gli infermieri non solo avvisavano gli imprenditori delle ditte per garantire loro la tempestività in ospedale ma facevano anche intendere ai familiari dei defunti che il servizio fosse convenzionato con la struttura pubblica. Grazie a loro, a Caserta e provincia, si era creata una sorta di monopolio: lavoravano solo quattro agenzie di pompe funebri, più un paio del Napoletano, che si erano spartite il territorio. Le altre, zac! Tutte tagliate fuori. E, per chi non accettava questa dittatura del funerale, erano minacce e violenze. Ma, nonostante il clima di intimidazione, qualcuna delle vittime si è ribellata alle prepotenze e ha denunciato tutto ai carabinieri. Il monopolio è durato almeno una decina di anni. Imponente il giro di affari, quantificato in diverse centinaia di milioni di euro. Anche i tre infermieri in servizio presso l'Istituto di medicina legale dell'Azienda ospedaliera San Sebastiano di Caserta, se proprio non si sono arricchiti, poco ci manca. Quei millequattrocento euro di stipendio che gli passava lo Stato ogni mese, era un'inezia, rispetto al superstipendio da manager di grande azienda, che le pompe funebri consegnavano ai presunti corrotti: dai 5 ai seimila euro. Nel dettaglio, ogni salma valeva 100 euro, ma la cifra raddoppiava per i funerali importanti o per i feretri da trasportare fuori regione o addirittura all'estero. Dall'attività investigativa è emerso anche che uno dei tre infermieri truffava i colleghi di corruzione, tenendo per sé anche la parte destinata agli altri due. Emblematica appare una vicenda avvenuta un paio di anni fa in occasione del funerale di una donna, deceduta a Casapulla, la cui salma era da trasferire al cimitero di Lusciano (entrambe località del Casertano). Le esequie erano a carico di una ditta esclusa dalla spartizione (il cui titolare nel frattempo stava collaborando con i carabinieri) ma il carro funebre, una volta giunto a destinazione, ebbe l'amara sorpresa di trovare parcheggiato davanti alla chiesa, l'autocarro di una delle ditte del racket. Accanto al mezzo, una «scorta» minacciosa e armata di due pistole. Il titolare della ditta, che aveva eseguito il trasporto della donna deceduta, fu affrontato a muso duro dal collega dell'agenzia che operava in regime di monopolio. «La bara la portiamo noi dentro, voi dovete andare via di qui». Al rifiuto, uno degli indagati, gli disse: «Cornuti, andate via di qui... Stanotte vi incendio tutti e due gli uffici che avete». La seconda parte del funerale della donna, fu portata a compimento dalla ditta che faceva parte del racket.

A Barletta, emettevano certificati di morte per agevolare pompe funebri: indagati in 16. Le persone indagate sono medici, operatori sanitari della Asl, responsabili di imprese funebri, ma anche una guardia giurata e due volontari del tribunale dei diritti del malato. Le indagini furono avviate all’indomani di un decesso avvenuto nel 2005, decesso certificato quando, appunto, era ancora in vita la donna ricoverata in ospedale alla quale il certificato si riferiva.

A Caserta il racket ruotava attorno a tre figure essenziali: gli addetti alla sala mortuaria dell'Azienda ospedaliera casertana. Erano loro che, avvertivano tempestivamente gli impresari di pompe funebri, che c'era «un morto da venire a prendere». Secondo quanto accertato dagli investigatori, gli infermieri non solo avvisavano gli imprenditori delle ditte per garantire loro la tempestività in ospedale ma facevano anche intendere ai familiari dei defunti che il servizio fosse convenzionato con la struttura pubblica. Grazie a loro, a Caserta e provincia, si era creata una sorta di monopolio: lavoravano solo quattro agenzie di pompe funebri, più un paio del Napoletano, che si erano spartite il territorio. Le altre, zac! Tutte tagliate fuori. E, per chi non accettava questa dittatura del funerale, erano minacce e violenze.

Imponente il giro di affari, quantificato in diverse centinaia di milioni di euro.

Nella notte del 16 ottobre 2008 a Milano sono state arrestate 41 persone, coinvolte in un vasto giro di corruzione tra ospedali e imprese di onoranze funebri. Molti degli arrestati sono infermieri di otto diversi ospedali o case di cura, che segnalavano alle pompe funebri dove e quando avveniva un decesso.

Quella battezzata ‘Caronte’, non è la prima inchiesta sul racket delle pompe funebri che interessa Milano.

Numerosi i precedenti, il più eclatante dei quali nel 1992. Proprio un indagine su corruzioni e truffe intorno agli affari per ‘il caro estinto’ in alcuni ospedali, tra cui il Pio Albergo Trivulzio, portò sulle tracce di Mario Chiesa, il ‘mariolo’ come venne definito allora da Bettino Craxi, primo arrestato di ‘Mani Pulite’ per una tangente di 7 milioni di lire. Nel 1997 un’altra operazione portò la Procura di Milano a chiedere l’arresto (richiesta non accolta dal Gip), di 22 tra infermieri e procacciatori di sei imprese (san Siro, Lombarda Foroni, San Cipriano, La Milanese, la Casoratese Ognissanti). Ancora: nel 2004, 5 impiegati del Comune vengono indagati dalla Polizia Locale per reati analoghi.

A livello nazionale, tra i casi più recenti, le indagini della squadra Mobile di Arezzo nel 2006 (4 impresari arrestati e 5 infermieri indagati), della Guardia di Finanza di Torino nel 2001 e nel 2007 (9 indagati di cui 5 arrestati tra infermieri e impresari dell’ospedale Le Molinette) e dai Carabinieri di Bari nell’aprile del 2008 (51 indagati di cui 33 arrestati in numerosi nosocomi del capoluogo pugliese). Secondo i dati Codacons il business del caro estinto genera un giro d’affari annuo di 3,5 miliardi di euro per più di 5 mila imprese funebri.

Nella puntata del 7 Ottobre 2008 Le Iene di Italia 1 hanno scoperto a Roma una prassi, che risulterebbe comune fra operatori sanitari ed i servizi di ambulanza privata, quale la stecca o mazzetta per accaparrarsi la chiamata per le dimissioni.

·        Spettacolo mafioso.

Luca Monaco e Andrea Ossino per repubblica.it il 29 agosto 2022.

I pusher che girano "con lo zainetto pieno" al Festival del Cinema, i tentativi di riciclaggio con la pubblicità del Borotalco e le riprese del Commissario Rex, le apparizioni del boss de La Rustica vicino a Senese, Daniele Carlomosti detto "Il bestione", nella serie Romanzo Criminale, nei film con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks, oltre che in Gangs of New York, di Martin Scorsese. Anche la "mala" ama il grande schermo. 

I ruoli attoriali, certo. Basti pensare alla presenza dei Casamonica, degli Spinelli, dei Di Silvio, nelle serie Suburra o in Vita da Carlo di Verdone. Attrae però soprattutto la produzione. Tanto da indurre la criminalità a mettere in piedi il "sistema cinema": un fenomeno scandagliato dalla magistratura. 

La procura di Roma ha coordinato diverse indagini capaci di svelare le modalità attraverso le quali le organizzazioni criminali, specie certi personaggi vicini alla camorra, ripuliscono il denaro sporco infiltrando le loro aziende nelle produzioni degli spot pubblicitari e dei film. Rilevando cosa può avvenire dietro le quinte dei set cinematografici, ai festival o anche davanti alle telecamere, visto che i boss e i loro dipendenti non si sottraggono quando sono chiamati come comparse o attori, anche nelle pellicole da premio Oscar.

Gli affari di Vitagliano

A Roma l'interesse delle grandi consorterie criminali per il cinema è un fatto noto. I carabinieri e i finanzieri lo avevano capito già nel 2018, quando il sostituto procuratore Nadia Plastina aveva disposto l'arresto di Gaetano Vitagliano, un imprenditore napoletano ritenuto vicino al clan degli scissionisti di Secondigliano e altre 22 persone, sequestrando anche 280 milioni di euro tra immobili (261), conti correnti e 54 società. 

Secondo le accuse iniziali i personaggi in odore di camorra riciclavano denaro attraverso i locali della movida romana: dal Macao di via del Gazometro, fino alla catena di bar Babylon cafe, passando per il Mizzica e il Dubai Cafe. I seguenti processi non sempre accoglieranno le tesi della procura. Ma le successive indagini dei carabinieri hanno permesso di scoprire l'esistenza di tre società riconducibili a Vitagliano: la Cisco, la Cisco Unipersonale e la Project.

Seguendo le fatture emesse da quelle società gli investigatori hanno bussato alla porta delle più importanti società cinematografiche, costrette a dover "giustificare operazioni di impresa soggettivamente inesistenti, rappresentate da prestazioni in nero fornite da terzi sul set di varie riprese cinematografiche". 

Dalla pubblicità del Borotalco fino alla serie televisiva del Commissario Rex: molte produzioni venivano sfruttate dalla criminalità. Gli affari erano stati conclusi anni addietro, quelle indagini quindi sono state archiviate. Agli atti però resta quella che i carabinieri definiscono "una prassi consolidata": l'esistenza nel mondo del cinema, si legge nell'informativa redatta dai militari del Nucleo Investigativo, "di un consolidato e longevo sistema con il quale operai specializzati, quali macchinisti, elettricisti, fotografi, appartenenti a squadre costituite da tempo, si sono muniti di attrezzature e apparecchiature proprie".

Queste squadre, una volta assunte da un produttore cinematografico, "offrono alla produzione - spiegano ancora i carabinieri - il noleggio delle proprie attrezzature e apparecchiature senza che questi ultimi debbano ricorrere a gare di appalto e quant'altro". Da qui l'esigenza di giustificare le operazioni, soprattutto in caso di controlli da parte di chi ha emesso "finanziamenti a supporto delle medesime produzioni". 

Le testimonianze dei produttori

Per questo nell'autunno del 2017 molti produttori sono stati ascoltati come persone informate dei fatti dai carabinieri: nessuno di loro è mai stato indagato per alcun tipo di reato. Dal fratello di Massimo Boldi a quello di Pupi Avati. E ancora i legali rappresentanti della Cattleya, la società fondata da Riccardo Tozzi, il produttore nel 2001 ha sposato Cristina Comencini, la madre di Carlo Calenda. Mario Ferdinando Gianani, marito dell'ex ministro Marianna Madia e fondatore della Wildside, ha anche consegnato agli inquirenti cinque fatture siglate con le società lavatrici di Vitagliano.

I militari hanno passato al setaccio i bilanci relativi alla "produzione denominata Luigi Tenco" della Vega's project, a quella del film Tutto tutto niente niente della Fandango, e anche le fatture emesse per realizzare Romanzo di una strage o Matrimonio a Parigi. Le società lavatrici di Vitagliano sarebbero entrate in contatto anche con gli studios di Cinecittà e con alcuni operai che hanno lavorato al film Venuto al mondo, diretto da Sergio Castellitto. "Gaetano Vitagliano o soggetti a lui riconducibili hanno pagato operai in nero con denaro contante, ricevendo da questi gli assegni della Duea Film", aveva invece raccontato Antonio Avati, fratello del regista Pupi e amministratore della Duea Film.

L'indagine sul produttore Muscariello

Vitagliano non è stato il solo a capire le potenzialità che offre il cinema a chi intende riciclare denaro. "Perché un film può costare 200 mila ma può costare pure 50 milioni di euro", diceva il produttore Davide Muscariello, classe 1997, una relazione sentimentale con una "tentatrice" della seconda edizione di Temptation Island e un'indagine a carico in cui si sospetta che l'uomo, coinvolto nell'inchiesta della finanza insieme a un carabiniere, un poliziotto e altre sei persone, avrebbe ripulito i soldi del clan Mazzarella di Napoli.

Muscariello non disponeva di "una realtà aziendale, di strutture, di risorse umane, professionali e strumentali adeguate rispetto alle operazioni fatturate", dicono le indagini del pm Francesco Cascini. E i suoi film non resteranno negli annali del cinema. L'ultima produzione, All'alba perderò, si è trasformata in un presagio: all'alba del 17 marzo scorso i carabinieri lo hanno arrestato, trovando anche collegamenti con l'ultimo boss albanese della Capitale, Elvis Demce. 

Il Ghb al Festival del cinema

Non solo riciclaggio. Nel mondo del cinema e nei festival infatti girano molte persone e molti soldi. E il denaro attrae spacciatori di ogni sorta che sperano di fare affari. Lo spiega molto bene Clarissa Capone, la "zarina del Ghb" arrestata il 27 ottobre insieme ad altre 39 persone tra cui Claudia Rivelli, la sorella di Ornella Muti, che recentemente ha scelto di patteggiare la sua pena accordandosi con la procura per una condanna a 1 anno e 5 mesi di reclusione.

Spacciavano nuove droghe, tra qui quella dello stupro. Fentanili consumati nei festini della "Roma bene" o venduti nei festival. "Calcola che quando ci stava il Festival del Cinema io là ci andavo con lo zainetto pieno... cioè ci stavano giornalisti... cioè ci stava di tutto e di più... e da là poi so... sono arrivata ad un politico...da che ti fai il giornalista la voce si espande, la voce è arrivata pure all'assistente del politico...", conferma la ragazza non sapendo di essere intercettata.

La doppia vita del "bestione" Carlomosti dalla stanza delle torture al set

Soldi e fama. Le ambizioni dei criminali spesso coincidono con le opportunità offerte dal piccolo e dal grande schermo. E così capita spesso di trovare comparse o attori che tra estorsioni, furti, torture e crimini di ogni sorta prestano il loro volto al cinema. L'ultimo è Daniele Carlomosti, 43 anni, soprannominato "il bestione". 

È il boss di La Rustica, che trascorreva le sue giornate tra i set e la stanza delle torture allestita dentro un appartamento popolare in via Naide 116 per seviziare le sue vittime, i cattivi pagatori. Dalla borgata di Roma Est fino a Cinecittà, Carlomosti ha lavorato con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks.

Ha partecipato anche alle riprese di Gangs of New York, di Martin Scorsese ed è stato fotografato al fianco di Claudio Amendola sul set del film di Antonio Albanese, Come un gatto in tangenziale, la stessa pellicola dove le gemelle Valentina e Alessandra Giudicessa hanno interpretato due ladre seriali, un ruolo che deve essere venuto spontaneo visto che capita diverse volte di imbattersi nelle sorelle tra i corridoi della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio, dove le due sono state accompagnate a più riprese per aver commesso furti.

I Casamonica dalla Romanina a Cinecittà

Altro fenomeno è l'interesse dei Casamonica per il mondo del cinema. Già nel 2015 gli investigatori hanno annotato che Lenka Kviderova, compagna di Antonio Casamonica e indagata insieme al suo ragazzo e altre due persone per un'estorsione ai danni del titolare di un ristorante a Ponte Milvio, aveva redditi che provenivano da alcune produzioni cinematografiche. La donna infatti aveva recitato in diversi film tra cui Fantozzi 2000 - La clonazione e in Zora la vampira. 

Tre anni dopo, nel 2018, L'Espresso invece aveva scoperto che Luciano Casamonica, nipote del famoso Vittorio (ricordato per il funerale in stile "Padrino") e una serie di precedenti alle spalle, era stato reclutato nella serie co prodotta da Cattleya e Rai Fiction per scritturare sinti che recitarono nella seconda stagione di Suburra. I primi passi nel mondo del cinema Lucky Luciano, così si fa chiamare Luciano Casamonica, li ha mossi da bambino, recitando in western con Orson Welles e Tomas Milian. I suoi giovani parenti hanno coltivato la passione per il cinema. I Casamonica, gli Spinelli e i Di Silvio sono di casa a Cinecittà, non fosse per altro che la cittadella del cinema si trova a due passi dalle loro abitazioni alla Romanina e costituisce un importante polo economico sul territorio che controllano da decenni.

I nipoti di Nando, uno dei fratelli di Vittorio Casamonica, salutato con il funerale show in piazza don Bosco al Tuscolano nel 2015, hanno preso parte alla serie Vita da Carlo su Amazon prime, oltre che in Suburra, dove i Casamonica, non a caso, interpretano loro stessi. Attoriali durante le perquisizioni e gli arresti, ai funerali con la colonna sonora del Padrino come nei film.

·        La Mafia Green.

MAFIA GREEN. Redazione L'Identità il 16 Dicembre 2022

Ogni 20 minuti in Italia viene commesso un reato ambientale. Lo racconta anche quest’anno il report di Legambiente sulle ecomafie. Nello scorso anno i reati contro l’ambiente sono stati oltre 30mila e Legambiente sceglie di precisare che il 44%, meno della metà, sono stati commessi nelle 4 regioni che hanno dato origine, dall’Italia verso il mondo, alle principali mafie: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.

I reati accertati sono stati 30.590: 84 reati al giorno, 3,5 ogni ora, con gli arresti, 368, cresciuti dell’11,9%. Gli illeciti amministrativi sono il doppio dei reati, 59.268, 6,7 ogni ora. Ogni ora, in totale, sono state accertate nel 2021 circa 10 violazioni di norme poste a tutela dell’ambiente. Legambiente ne legge la condizione come dominata dalla corruzione: 115 le inchieste dal settembre 2021 al luglio 2022 e 14 i Comuni sciolti per mafia nel 2021 e 7 nel 2022, a cui vanno aggiunti gli ultimi, Anzio e Nettuno.

Le ecomafie valgono 8,8 miliardi di euro. Le filiere illegali maggiori sono quelle ove la criminalità organizzata ha da decenni il predominio: il ciclo illegale del cemento con 9.490 reati (31% del totale) e quello dei rifiuti (8.473). Ma sono di rilievo anche i dati dei reati contro la fauna (6.215), contro il patrimonio boschivo (5.385), contro il patrimonio culturale con l’aumento dei furti di opere d’arte (603).

Significativi i sequestri di rifiuti (nei primi 6 mesi dello scorso anno il doppio di quelli di tutto il 2020, con il dumping ambientale fiorente verso i Paesi asiatici) per 2,3 milioni di tonnellate, l’equivalente di 94.537 tir che se messi su strada lungo la Penisola formerebbero un serpentone di 1.286 chilometri da Reggio Calabria fino alla Svizzera. E il segmento del traffico illecito degli oli vegetali esausti, per il quale il Conoe stima 15mila tonnellate all’anno fuori dell’economia legale, un buco nero nelle attività di controllo sul territorio.

Dopo le regioni Campania, Puglia, Calabria e Sicilia più invase dalle ecomafie, al Nord la Lombardia ha il maggior numero di illeciti ambientali (1.821 reati, pari al 6% del totale nazionale e 33 arresti). Tra le province, Roma è Capitale con 1.196 illeciti ambientali, facendo quest’anno peggio di Napoli (1.058), superata anche da Cosenza (1.060).

Non solo dati da Legambiente. Anche proposte al Governo: dalla ormai rituale costituzione della Commissione Ecomafie all’assenza di improcedibilità per i delitti previsti dal titolo VI-bis del Codice Penale e per gli incendi boschivi, dall’ok al ddl contro le agromafie ai delitti contro gli animali nel Codice Penale, fino ai decreti attuativi per il Sistema Nazionale per la protezione per l’ambiente. E ribadisce con il suo presidente Stefano Ciafani la necessità di “non abbassare la guardia nei confronti degli ecocriminali, ora più che mai, visto che sono stati assegnati i primi finanziamenti dei bandi del PNRR, molti altri ne verranno aggiudicati nel prossimo futuro e presto si apriranno i molti cantieri dell’agognata transizione ecologica”. Segnalando che contro gli ecomafiosi “ladri di futuro”, non è stato rafforzato “il sistema di prevenzione e repressione dei reati”. Mentre Enrico Fontana, dall’Osservatorio Ambiente e Legalità, rammenta la stretta connessione tra abusivismo edilizio e ciclo illegale del cemento: “Si rilanci una stagione di demolizioni. E si affidi per legge ai prefetti, in caso di inerzia dei Comuni, la responsabilità degli abbattimenti decisi da ordinanze precedenti alla legge 120”.

·        Le Curve degli Stadi.

Milano, il capo ultrà Inter Vittorio Boiocchi e il business di San Siro: «Faccio 80 mila euro al mese con biglietti e parcheggi». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022

Vittorio Boiocchi è stato arrestato nel marzo 2021 per un tentativo di estorsione. Le intercettazioni della polizia svelano gli affari attorno allo stadio Meazza: «Ho fatto avere il posto a due paninari e mi danno una somma ad ogni partita»

«Quando sono entrati sti ca... di cellulari qua sembra di avere...».

«La rovina! Questa è una rovina veramente».

«Eh certo, che è una rovina! Sembra di avere una...».

«Una microspia addosso!».

«Sembra di avere un carabiniere dietro!».

Su due cose sbagliavano Gerardo Toto e il capo ultrà nerazzurro Vittorio Boiocchi. Il problema non erano i cellulari ma la microspia piazzata nell’auto del 69enne e soprattutto quelli che avevano «dietro», in realtà, non erano carabinieri ma poliziotti della squadra Mobile. Boiocchi era stato arrestato il 3 marzo di un anno fa con il «socio» Paolo Cambedda dopo essere uscito dagli uffici dell’imprenditore vittima dell’estorsione da due milioni di euro. In auto avevano uno storditore elettrico, una pistola, e pettorine della guardia di Finanza. Un arresto in flagranza compiuto proprio per il timore che quella sera potessero portare a termine il loro piano. Le indagini però erano già avviate da mesi. E tra le molte intercettazioni registrate dalle cimici piazzate dai poliziotti, guidati da Marco Calì, ce n’è una in particolare, che risale a febbraio 2021, in cui Boiocchi si lamenta con Toto perché «sta perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti».

Boiocchi, le condanne e la Curva Nord

Boiocchi ha trascorso in carcere 26 anni complessivi: 10 condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto. Nel 2019 era tornato non solo sugli spalti del Meazza ma aveva ripreso il controllo della Curva Nord interista come negli anni Ottanta e nei primi Novanta quando era tra i capi dei «Boys San». Al suo ritorno era stato protagonista di una scazzottata con il portavoce del tifo organizzato nerazzurro Franchino Caravita. Storia conclusa, ma solo di facciata perché di fatto la corona è rimasta sulla testa di Boiocchi, con una foto «a dito medio alzato» in ospedale tra i due litiganti: il 69enne era stato ricoverato la notte stessa per un attacco di cuore. Il ritorno di un nome tanto pesante aveva sconvolto, e parecchio, le dinamiche del mondo ultrà. Poi il nuovo arresto e i domiciliari concessi a Boiocchi dopo una condanna a 3 anni e 2 mesi.

La gestione dei parcheggi di San Siro

Nelle intercettazioni richieste dai pm Carlo Scalas e dall’aggiunto Laura Pedio, il capo ultrà racconta «che prende circa 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Dice che finalmente erano riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi, con 700-800 biglietti in mano, due paninari a cui hanno fatto avere il posto che gli danno una somma ad ogni partita». In sostanza, annotano gli inquirenti riportando le parole di Boiocchi «10 mila euro ogni partita». Il business intorno allo stadio Meazza non c’entra nulla con le accuse mosse nei confronti del capo ultrà e degli altri quattro arrestati. E non ha rilievi penali nell’indagine. Possibile si tratti solo di millanterie? La presunzione d’innocenza impone che sia così e lo stesso vale per tutte le accuse mosse dalla procura nei confronti degli indagati. Sempre nelle intercettazioni Boiocchi racconta i vecchi tempi della malavita a Milano con nostalgia, parlando di Guglielmo Fidanzati e di inchieste antidroga che lo hanno coinvolto: «Ringraziamo il signore che li ha fatti vivere questi periodi qui».

Giovanni De Luna per “la Stampa” il 21 giugno 2022.

I tifosi del Torino mi hanno sempre incuriosito. I riti, i lutti, le passioni che li attraversano mi sono sembrati da sempre un'anomalia da guardare anche con una punta di invidia. La loro fedeltà alla squadra è stata modellata sulle sconfitte, su un "albo d'oro" che sembra un necrologio, con le uniche gioie ossessivamente legate agli insuccessi dei rivali bianconeri. In realtà, come tifoso della Juventus, ho scoperto di condividere con loro la stessa malattia, anzi, come scrive Eduardo Galeano, di essere animato dall'identica, «certezza di essere miglior degli altri, che tutti gli arbitri sono venduti, che tutti i rivali sono imbroglioni». 

In una parola siamo tutti tifosi o, se volete, tutti convinti fedeli dello stesso culto. La frase di Galeano è l'incipit del nuovo libro (Tifo. La passione sportiva in Italia) di Daniele Marchesini e Stefano Pivato che ci racconta nei dettagli le modalità della passione sportiva, di come si siano trasformate a seconda delle varie fasi storiche attraversate dall'Italia e, più in generale, dal mondo occidentale. 

Tifo è un termine che designa un male ora debellato dai progressi della medicina ma che ha imperversato a lungo nelle nostre contrade con altissime temperature provocate da febbri che portavano anche a momentanee alterazioni mentali. Di qui l'ovvio paragone con la febbre sportiva che, «contagiosissima, esplode negli stadi e negli altri luoghi dello sport». 

Il termine usato in questo senso, e i suoi derivati come tifoso, tifoseria, tifare, esistono però solo nella lingua italiana; in questa accezione è entrato nel nostro vocabolario nel periodo successivo alla prima guerra mondiale; per la precisione, come ci informa il libro, nel 1923, quando Giovanni Dovara, sulla rivista II calcio di Genova, ne scrisse come di un «fenomeno di passione acuta a tal punto da rivestire e da assumere, in certi casi e in certe persone, i fenomeni più strani, più patologici». 

Dall'universo calcistico la parola transitò poi negli altri sport così che, alla fine degli anni Trenta, veniva ormai usata senza virgolette quando nel gergo sportivo si trattava di indicare «proprio il fatto di parteggiare, simpatizzare in forme accese per qualcuno».

Questi tratti si diffusero in maniera così larga da indurre Pivato e Marchesini a usare, al posto del tifo, termini che rinviano direttamente al mondo del sacro e del divino - si parla comunemente di una "fede" granata, o bianconera o giallorossa - così da attribuire a quello stato d'animo una dimensione decisamente religiosa. Religio etimologicamente significa qualcosa che lega, che tiene insieme, che indica i confini di un perimetro all'interno del quale ci si riconosce tutti in una comune appartenenza fondata sul medesimo "credo".

 Noi tifosi, più che dalla stessa malattia, siamo quindi uniti dal fatto di condividere forme specifiche di adorazione nei confronti degli idoli dello sport, eroi della moderna società di massa, che ne «rispecchiano e interpretano valori e attese diffusi»... 

Quando i romanisti inneggiano alla "magica Roma" trasportano il mondo della magia in quello del sacro restando sempre nella sfera del soprannaturale, adepti di un culto in cui «tutti desiderano partecipare alla natura semidivina dei propri eroi» (Edgar Morin).

Come tutte le religioni il tifo va esplorato studiandone i miti, i luoghi di culto - gli stadi, i ring, le palestre, le salite delle gare di ciclismo - e di memoria, i riti che si strutturano e i comportamenti che ne conseguono, l'adorazione dei corpi degli atleti che si spinge fino alle loro camere da letto, le manifestazioni di cordoglio per la loro morte, le fotografie usate come santini, i tappi, le biglie, le figurine che ne amplificano il mito, le canzoni (ricordate il Bartali di Paolo Conte) fino ai mezzi di comunicazione di massa della modernità novecentesca (stampa, radio, cinema, televisione), la loro più diffusa cassa di risonanza. 

Oggi è la rete ad amplificarne la presenza in modo quasi ossessivo: Cristiano Ronaldo può arrivare a guadagnare 975 mila dollari per ogni post pubblicato sul suo profilo personale di Instagram. 

La ricognizione di Marchesini e Pivato parte da lontano, dall'ottocentesco gioco del pallone a bracciale che propose gli sferisteri come i primi templi dove si celebrava il culto dell'eroe... Trasposizione pacifica degli antichi tornei cavallereschi quel tipo di sport non comportava necessariamente spargimenti di sangue ma restava ancora intriso di tutta violenza che derivava dalle sue origini belliche. 

Poi questa carica di aggressività andò assottigliandosi, imbrigliata in regole e procedure che accompagnarono il processo di civilizzazione che investì tutto il costume del mondo occidentale, e anche lo sport, nell'intento di «espellere dai giochi pubblici non solo il ricorso alla violenza ma anche di plasmare l'individuo di una società più raffinata» (Norbert Elias).  

La violenza, però, non è mai stata cancellata del tutto e si è ripresentata, enorme, eccessiva, con la fine del '900. Dal 1990, la curva dei tifosi della Stella Rossa Belgrado era stata il vivaio delle "Tigri di Arkan. eljko Ranatovi, "Arkan", fu incriminato dall'Onu per crimini contro l'umanità, essendosi reso protagonista di atti di genocidio e di pulizia etnica nel corso delle guerre che insanguinarono la ex Jugoslavia. Aveva cominciato la sua carriera proprio sugli spalti del Marakana (lo stadio dove gioca la Stella Rossa) diventando il leader indiscusso degli ultrà e schierando tutta la curva sulle posizioni nazionaliste più radicali.

 Quando iniziò la guerra con la Croazia fu incaricato di organizzare una milizia di volontari reclutando i suoi uomini tra i tifosi più violenti; furono tremila che risposero al suo appello; con il nome ufficiale di Guardia Volontaria Serba (successivamente modificato in Tigri), a partire dall'autunno 1991 questa unità paramilitare fu schierata lungo la frontiera serbo-croata massacrando migliaia di persone. Nel 2000, eljko Ranatovi fu assassinato nell'Hotel Intercontinental di Belgrado. In quell'occasione, nella curva della Lazio si materializzò uno striscione con su scritto "Onore alla Tigre Arkan".

La Curva Nord lascia San Siro. In un agguato a Milano ucciso il capo ultrà dell’Inter, il pluripregiudicato Boiocchi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Ottobre 2022. 

Il capo del tifo nerazzurro pluripregiudicato 69enne è stato ucciso nel quartiere Figino, periferia Ovest della città colpito mortalmente da 5 colpi d'arma da fuoco. I tifosi nerazzurri hanno abbandonato lo stadio all'intervallo della partita con la Sampdoria.

Tre anni dopo l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, il “Diabolik” che dettava legge nella Curva Nord della Lazio e stava scalando la suburra del narcotraffico romano, è morto ammazzato il capotifoso della gemellata tifoseria interista. Due storie parallele legate dal crimine, visto che le imprese di Boiocchi risalgono addirittura al 1974, alle prime rapine ai supermercati alle quali erano seguite quelle alle banche e, anche qui, i grossi traffici di cocaina ed eroina, dal Sudamerica alla Turchia, con un ruolo di livello all’interno di un cartello che comprendeva i fratelli Fidanzati, viceré di Cosa Nostra a Milano nello spaccio della droga.

Il capo ultrà dell’Inter Vittorio Boiocchi, 69 anni, pluripregiudicato, con 26 anni di carcere alle spalle, è stato ucciso in una sparatoria avvenuta in prima serata a Figino, periferia Ovest di Milan. Boiocchi, è stato colpito mortalmente da 5 colpi di arma da fuoco al torace in via Fratelli Zanzottera, non lontano dal suo domicilio. Tre proiettili lo hanno raggiunto al torace e al collo.  Al momento non ci sono testimoni della sparatoria, ma gli abitanti del quartiere hanno raccontato di aver sentito distintamente i colpi d’arma da fuoco. L’agguato è avvenuto poco prima della partita Inter-Sampdoria allo stadio San Siro. 

Baiocchi è morto subito dopo il ricovero all’ospedale San Carlo di Milano dove era stato trasportato in ambulanza in condizioni già disperate. Gli investigatori della Omicidi della Squadra Mobile, guidati dal dirigente Marco Calì, sono arrivati sul luogo dell’omicidio insieme al pm di turno  Paolo Storari a perlustrare la scena e a cercare testimoni e telecamere. L’unica traccia evidente è la grossa chiazza di sangue sul marciapiede. E i bossoli repertati dalla Scientifica. 

A San Siro il tam tam dei messaggi è immediato ed ha raggiunto la vicina Curva Nord dove i tifosi interisti hanno ritirato gli striscioni durante la partita, non hanno più cantato e alla fine del primo tempo la curva si è svuotata. Una delegazione di una trentina di tifosi (che sicuramente non sdaranno persone dalla fedina penale immacolata) ha finito la serata fuori dall’ospedale.

Le 10 condanne e i 26 anni passati in carcere

Vittorio Boiocchi ha trascorso in carcere 26 anni complessivi: 10 condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto. Nel 2019 era tornato non solo sugli spalti del Meazza ma aveva ripreso il controllo della Curva Nord interista come negli anni Ottanta e nei primi Novanta quando era tra i capi dei «Boys San».  

Al suo ritorno in curva a San Siro si era reso protagonista di una scazzottata con il portavoce del tifo organizzato nerazzurro Franchino Caravita. Storia conclusa, ma solo di facciata perché la corona è rimasta di fatto sulla testa di Vittorio Boiocchi, con una foto in ospedale tra i due litiganti con il dito medio alzato : il 69enne era stato ricoverato la notte stessa per un attacco di cuore. Il ritorno di un nome tanto pesante aveva sconvolto, e parecchio, le dinamiche del mondo ultrà. Poi il nuovo arresto e la detenzione domiciliare concessa a Boiocchi dopo una condanna a 3 anni e 2 mesi. 

Boiocchi era stato arrestato il 3 marzo di un anno fa con il “socio a delinquere” Paolo Cambedda dopo essere uscito dagli uffici dell’imprenditore vittima di un’ estorsione da due milioni di euro. In auto avevano un teser (storditore elettrico), una pistola, e pettorine della Guardia di Finanza detenute illecitamente. Un arresto in flagranza compiuto proprio per il timore che quella sera potessero portare a termine il loro piano. Le indagini però erano già avviate da mesi.

Tra le molte intercettazioni registrate dalle cimici piazzate dai poliziotti della Squadra Mobile di Milano, guidata da Marco Calì, ce n’era una in particolare, che risale a febbraio 2021, in cui Boiocchi si lamenta con Toto perché “sta perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti”.

Gli “80 mila euro al mese” e la nostalgia per i tempi della mala

Nelle intercettazioni richieste dai pm Carlo Scalas e dall’aggiunto Laura Pedio della Procura di Milano, il capo ultrà interista affermava “che prende circa 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Dice che finalmente erano riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi, con 700-800 biglietti in mano ( chi glieli dava ? n.d.r.) , due paninari a cui hanno fatto avere il posto che gli danno una somma ad ogni partita“. Gli inquirenti riportando le parole di Boiocchi annotavano “10 mila euro ogni partita”.  Sempre nelle intercettazioni Boiocchi raccontava i vecchi tempi della malavita a Milano con nostalgia, parlando di Guglielmo Fidanzati e di inchieste antidroga che lo hanno coinvolto: “Ringraziamo il signore che li ha fatti vivere questi periodi qui“. 

Ecco chi controllava e gestiva il tifo nerazzurro. Così come accade in altre tifoserie in altre città, che dietro i propri gruppi di ultras si nascondono attività delinquenziali. e vedere i tifosi ritirare gli striscioni ed abbandonare la curva nord di San Siro, non ispira un sentimento di condoglianze, ma bensì di disgusto di certe tifoserie e dei loro atteggiamenti. Redazione CdG 1947

Milano, sparatoria in strada: morto Vittorio Boiocchi, capo ultrà dell'Inter.  Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

L'agguato davanti all'abitazione del 69enne in via Fratelli Zanzottera, al quartiere Figino, nell'estrema periferia Ovest di Milano. Esplosi cinque colpi. Alla notizia della morte di Boiocchi, i tifosi hanno abbandonato la Curva Nord del Meazza

Il capo ultrà dell’Inter Vittorio Boiocchi, 69 anni, è morto dopo una sparatoria a Figino, alla periferia Ovest di Milano. L'uomo, che aveva trascorso in carcere 26 anni complessivi, era sorvegliato speciale. L'agguato è avvenuto alle 19.50 in strada in via Fratelli Zanzottera, non lontano da dove abitava Boiocchi. Sul posto è intervenuto anche l’elisoccorso del 118. 

Il 69enne è morto durante il trasporto all'ospedale San Carlo. Verso di lui sono stati esplosi almeno cinque colpi proprio mentre rientrava a piedi a casa, poco prima della partita Inter-Sampdoria allo stadio San Siro. Tre proiettili lo hanno raggiunto al torace e al collo.  Al momento non ci sono testimoni della sparatoria, ma gli abitanti del quartiere hanno raccontato di aver sentito distintamente i colpi d'arma da fuoco. Le indagini sono affidate alla polizia.  

Quando in Curva Nord è rimbalzata la notizia della morte di Boiocchi, i responsabili dei gruppi ultrà hanno immediatamente ritirato tutti gli striscioni esposti. Sugli spalti è calato il silenzio. Poi, dopo il primo tempo della partita, i tifosi hanno abbandonato la Curva. 

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2022.

Lo hanno colpito sotto casa. Un'ora prima dell'inizio di Inter-Sampdoria allo stadio Meazza. Un agguato costato la vita a Vittorio Boiocchi, 69 anni, capo ultrà della curva interista e pluripregiudicato con dieci condanne e 26 anni di carcere alle spalle per armi e rapina. Appena in curva si è diffusa la notizia dell'agguato, gli ultrà dell'Inter hanno smesso di cantare e hanno ritirato gli striscioni dalle balaustre. 

Poi hanno svuotato gli spalti. L'omicidio di Boiocchi scuote e preoccupa il mondo ultrà. E ricorda l'agguato dell'agosto 2019 al capo della curva laziale, Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik. Le indagini sono affidate agli investigatori della squadra mobile, con il supporto dell'ufficio prevenzione generale della questura e della Digos, coordinati dal pm Paolo Storari della Dda.

Contro Boiocchi sono stati esplosi almeno cinque colpi con una pistola semiautomatica, tre i proiettili andati a segno al collo e al torace. È morto durante il trasporto all'ospedale San Carlo. L'ultimo arresto nel marzo 2021 quando era stato fermato con un altro pregiudicato con in macchina pettorine della guardia di Finanza e un taser. 

Stavano andando a sequestrare un imprenditore per un'estorsione da 2 milioni di euro. L'agguato è avvenuto in via Fratelli Zanzottera, all'estrema periferia ovest di Milano dove aveva scontato i domiciliari. Era sorvegliato speciale e non poteva andare allo stadio perché doveva stare a 2 chilometri da San Siro.

«Abbiamo sentito i colpi, poi abbiamo visto una persona a terra sul marciapiedi», raccontano i testimoni. L'agguato è avvenuto alle 19.48, Boiocchi è stato sorpreso mentre stava rincasando a piedi. A sparare sarebbero state due persone poi fuggite in moto. Al momento non risulta che ci siano testimoni oculari. Nella strada, una via stretta poco prima della chiesa del piccolo borgo di Figino, non ci sono telecamere. I pochi clienti del bar Sahary, a quell'ora aperto, erano tutti all'interno.

Boiocchi era stato scarcerato nel 2019. Da quel momento aveva ripreso le redini della curva Nord, tornando sul trono occupato negli anni '90 al momento del suo arresto in una maxi operazione. Aveva approfittato di un cambiamento alla guida del direttivo del tifo organizzato interista avvenuto in seguito alla morte del tifoso varesino Daniele Belardinelli investito da un'auto di ultrà napoletani il 26 dicembre del 2018 durante gli scontri tra la tifoseria campana è quella interista in via Novara. Boiocchi era tornato in curva nel settembre 2019, la sua presenza aveva scosso e stravolto gli equilibri del tifo. 

Durante Inter-Udinese l'episodio più clamoroso con alcuni ultrà che hanno dedicato un coro al vecchio capo. Un'azione che aveva fatto volare gli schiaffi tra Boiocchi e lo storico portavoce della curva, Franchino Caravita. Poi Boiocchi era stato colpito da un attacco di cuore. Nei giorni successivi una fotografia postata sui social sembrava aver messo fine alla diatriba: nel suo letto d'ospedale Vittorio Boiocchi abbracciato da Caravita.

In realtà secondo gli investigatori si era trattato di un mero tentativo di far rientrare la crisi a livello mediatico. Da quel giorno infatti i vertici della curva erano tornati sotto il controllo del 69enne. Nei mesi scorsi il suo nome era emerso in un'indagine su affari legati all'indotto dello stadio come il business dei parcheggi.

Chi è Vittorio Boiocchi, capo ultrà dell'Inter ucciso in una sparatoria: «80 mila euro al mese con biglietti e parcheggi». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Vittorio Boiocchi, ucciso nel corso di una sparatoria in strada sabato 29 ottobre, era stato arrestato nel marzo 2021 per un tentativo di estorsione. Le intercettazioni della polizia avevano svelato gli affari attorno al Meazza 

Vittorio Boiocchi, capo ultrà dell'Inter, è stato ucciso nel corso di una sparatoria in strada a Milano la sera di sabato 29 ottobre 2022, colpito da almeno tre colpi d'arma da fuoco al torace e al collo. Questo è il ritratto pubblicato nel giugno scorso.

 «Quando sono entrati sti ca... di cellulari qua sembra di avere...». 

«La rovina! Questa è una rovina veramente». 

«Eh certo, che è una rovina! Sembra di avere una...». 

«Una microspia addosso!». 

«Sembra di avere un carabiniere dietro!». 

Su due cose sbagliavano Gerardo Toto e il capo ultrà nerazzurro Vittorio Boiocchi. Il problema non erano i cellulari ma la microspia piazzata nell’auto del 69enne e soprattutto quelli che avevano «dietro», in realtà, non erano carabinieri ma poliziotti della squadra Mobile. Boiocchi era stato arrestato il 3 marzo di un anno fa con il «socio» Paolo Cambedda dopo essere uscito dagli uffici dell’imprenditore vittima dell’estorsione da due milioni di euro. In auto avevano uno storditore elettrico, una pistola, e pettorine della guardia di Finanza. Un arresto in flagranza compiuto proprio per il timore che quella sera potessero portare a termine il loro piano. Le indagini però erano già avviate da mesi. E tra le molte intercettazioni registrate dalle cimici piazzate dai poliziotti, guidati da Marco Calì, ce n’è una in particolare, che risale a febbraio 2021, in cui Boiocchi si lamenta con Toto perché «sta perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti».

Le 10 condanne e i 26 anni in carcere

Boiocchi ha trascorso in carcere 26 anni complessivi: 10 condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto. Nel 2019 era tornato non solo sugli spalti del Meazza ma aveva ripreso il controllo della Curva Nord interista come negli anni Ottanta e nei primi Novanta quando era tra i capi dei «Boys San». 

La scazzottata con Franchino Caravita e il rientro in Curva

Al suo ritorno era stato protagonista di una scazzottata con il portavoce del tifo organizzato nerazzurro Franchino Caravita. Storia conclusa, ma solo di facciata perché di fatto la corona è rimasta sulla testa di Boiocchi, con una foto «a dito medio alzato» in ospedale tra i due litiganti: il 69enne era stato ricoverato la notte stessa per un attacco di cuore. Il ritorno di un nome tanto pesante aveva sconvolto, e parecchio, le dinamiche del mondo ultrà. Poi il nuovo arresto e i domiciliari concessi a Boiocchi dopo una condanna a 3 anni e 2 mesi. 

Gli «80 mila euro al mese» e la nostalgia per i tempi della mala

Nelle intercettazioni richieste dai pm Carlo Scalas e dall’aggiunto Laura Pedio, il capo ultrà racconta «che prende circa 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Dice che finalmente erano riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi, con 700-800 biglietti in mano, due paninari a cui hanno fatto avere il posto che gli danno una somma ad ogni partita». In sostanza, annotano gli inquirenti riportando le parole di Boiocchi «10 mila euro ogni partita». Il business intorno allo stadio Meazza non c’entra nulla con le accuse mosse nei confronti del capo ultrà e degli altri quattro arrestati. E non ha rilievi penali nell’indagine. Possibile si tratti solo di millanterie? La presunzione d’innocenza impone che sia così e lo stesso vale per tutte le accuse mosse dalla procura nei confronti degli indagati. Sempre nelle intercettazioni Boiocchi racconta i vecchi tempi della malavita a Milano con nostalgia, parlando di Guglielmo Fidanzati e di inchieste antidroga che lo hanno coinvolto: «Ringraziamo il signore che li ha fatti vivere questi periodi qui». 

Vittorio Boiocchi, cosa c'è dietro l'omicidio del capo ultrà dell'Inter: l'ossessione per i soldi e i contatti criminali. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Il capo ultras Inter ha frequentato il gotha criminale degli anni Novanta, dal clan di Cosa nostra dei Fidanzati fino ai Mannino e ai calabresi. Una vita spesa tra estorsioni, affari occulti nel controllo di piccole attività e droga. 

Più del tifo il potere. Più del potere, i soldi. Tanti soldi. Un'ossessione per chi ha trascorso 26 anni in carcere osservando il mondo cambiare da dietro le sbarre. E quando nel 2019 Boiocchi è tornato in curva lo ha fatto con i metodi di allora, quando negli anni Ottanta e Novanta guidava lo storico gruppo ultras Boys San. La verità è che quando in quell'Inter-Udinese del settembre di tre anni fa all'improvviso, e senza che i «capi» avessero dato l'ordine, s'è alzato il coro «Vittorio uno di noi, Vittorio uno di noi», molti in Curva Nord hanno capito che le cose sarebbero andate a finire male.

Perché anche in un mondo sul filo criminale come quello del tifo organizzato, uno come il 69enne Vittorio Boiocchi è un personaggio difficile da digerire, da sopportare e soprattutto da contrastare. Uscito di galera con i gradi di chi ha frequentato il gotha criminale degli anni Novanta (dal clan di Cosa nostra dei Fidanzati, fino ai Mannino e ai calabresi) s'è trovato una strada spianata davanti. Gli ultrà nerazzurri si stavano ancora leccando le ferite per quello sciagurato assalto ai tifosi napoletani della sera del 26 dicembre 2018 costato la vita a Daniele «Dede» Belardinelli. Gli arresti della Digos sono stati il pretesto per ribaltare gli equilibri in Curva. Il nuovo direttivo aveva visto la restaurazione dei «vecchi». Sull'operazione l'ombra del Re Boiocchi. E il coro dedicato da alcuni ragazzi durante quell'Inter-Udinese ne aveva certificato il ritorno. Chi non aveva accettato d'essere stato messo all'angolo, lo storico portavoce della Curva Franchino Caravita, quel giorno aveva affrontato Boiocchi sugli spalti. E gli era andata male, finendo vittima di un pestaggio. In realtà in ospedale c'era finito Boiocchi, colpito da un attacco di cuore la notte stessa. I medici del Monzino lo hanno salvato per miracolo, e chi sperava invece in un bel funerale, fu costretto a farsi da parte. Il giorno successivo alla diffusione della notizia dello scontro in curva, una foto postata sui social con Boiocchi e Caravita abbracciati e un bel dito medio rivolto ai giornalisti. Doveva essere il segnale di una pace, è stata invece l'immagine di una resa. Caravita ridimensionato e costretto a farsi da parte. 

Sabato sera, fonti interne alla Nord raccontano di un certo imbarazzo nella gestione della notizia. Prima la decisione di togliere gli striscioni appena rimbalzano le voci sull'agguato, poi quella di uscire dagli spalti a metà match. Con molti costretti a uscire loro malgrado con i metodi non proprio ortodossi degli ultrà. Ma anche di lunghe discussioni. Perché Boiocchi era il capo, ma era anche molto altro, e tutti lo sapevano benissimo sugli spalti. Ora probabilmente partirà il processo di beatificazione per farne un feticcio come i laziali hanno fatto con Diabolik. Ma potrebbe non essere così. E sarebbe un segnale importante. Tra i primi a postare un ricordo, l'amico Nino Ciccarelli, altro membro del direttivo, e altro frequentatore delle patrie galere a lungo: tre cuori neri su uno sfondo grigio scuro, postati sui social. Nessuna parola. Solo il lutto. Ma dicono che più d'uno in Curva sia rimasto sollevato alla notizia della sua morte mezz'ora dopo al San Carlo. Basta per farne un movente? Per niente. E forse il legame con la Curva in questa storia finisce qui. 

La sola circostanza che al momento lega l'agguato di sabato sera in via Fratelli Zanzottera, a Figino, con le questioni di tifo è l'orario in cui è avvenuta l'esecuzione. Un'ora prima della partita Inter-Sampdoria che si giocava a San Siro, stadio nel quale il capo della Nord però non poteva entrare a causa di un divieto di avvicinamento al Meazza. Chi ha sparato lo sapeva benissimo. Ma avrebbe potuto farlo in un altro giorno, in un'altra sera. Boiocchi non ha la patente «revocata da 50 anni», come raccontava lui intercettato. Si muoveva a piedi, frequentava il bar di fronte a casa, era un bersaglio facile e abitudinario. Perché ucciderlo la sera della partita? Per spostare l'attenzione su questioni di tifo? Per far credere che il calcio e lo sport c'entrino qualcosa? La circostanza è indubbiamente anomala anche per gli investigatori. Ma spesso ciò che appare molto suggestivo ha ragioni semplici. Forse, banalmente, con il resto degli amici e dei guardaspalle di Boiocchi allo stadio, i killer si sentivano più liberi di agire. O forse ciò che ha fatto scattare il delitto è maturato solo poche ore prima e gli assassini non badano al calendario del campionato. 

Chi lo conosceva bene racconta di una sola ossessione: i soldi. Farli in tutti i modi. Con estorsioni, affari occulti nel controllo di piccole attività, droga e chissà ancora cos'altro. E qui si sta concentrando l'attenzione degli investigatori della squadra Mobile, diretti da Marco Calì e coordinati dal pm della Dda Paolo Storari, che stanno cercando i due killer fuggiti su una moto. Nell'inchiesta che lo ha portato in carcere per estorsione l'anno scorso, in una intercettazione Boiocchi racconta d'avere interessi nel business dei biglietti e dei parcheggi di San Siro: «Sto perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti. Prendo 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Finalmente eravamo riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi  con 700-800 biglietti in mano, due paninari a cui abbiamo fatto avere il posto che ci danno una somma a partita. In sostanza 10 mila euro a partita». Una vicenda ancora tutta da chiarire ma sulla quale è possibile fossero già in corso gli accertamenti degli inquirenti. Le parole di Boiocchi più che quelle di un capo ultrà somigliano ai proclami di un capomafia. E questo, invece, potrebbe aver avuto un peso notevole nell'epilogo di sabato sera. 

Boiocchi è stato condannato dieci volte, come scrive il giudice Fabio Roia nel decreto con cui ha ordinato la sorveglianza speciale con divieto di avvicinamento a 2 chilometri dal Meazza, e ha iniziato con i primi reati nel 1974. Associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga (con il clan Fidanzati), porto d'armi, sequestro di persona, rapina. Ufficialmente non lavora, come sua moglie Giovanna Pisu. Dal '92 al 2018 ha trascorso in carcere «un periodo totale di 26 anni e tre mesi». Lì, tra Opera e Spoleto, ha accresciuto i suoi contatti criminali. Passando dai siciliani ai calabresi. 

Nel suo fascicolo c'è un evento recente considerato dagli investigatori molto importante. Il 27 luglio 2020 viene controllato in un bar di via Correggio a Milano insieme a Vincenzo Facchineri, figlio del boss della 'ndrangheta Michele detto «il Papa», e con Antonio Canito, detto «Caniggia» ras criminale di via Quarti e da sempre legato al clan pugliese dei Magrini. Nomi di un certo peso negli equilibri milanesi. Anche perché voci raccontano che con Canito, Boiocchi in passato abbia avuto più di un dissapore. Tanto che il fratello Massimiliano Canito fu vittima di un misterioso agguato in un bar: gambizzato a colpi di fucile. Caso mai risolto. Boiocchi, insomma, più che lo stadio frequentava altri ambienti. Dove il potere si costruisce in un solo modo: i soldi. E Boiocchi li chiedeva, li pretendeva da tutti, non c'era affare dove non volesse entrare. I soldi sono l'inizio di questa storia, la trama centrale, e probabilmente anche il finale. 

Vittorio Boiocchi, chi era l'ultrà che controllava la Curva dell'Inter: aveva passato 26 anni in carcere. La sua carriera criminale era iniziata nel 1974 con una serie di rapine a mano armata. L'ultimo arresto nel 2021: fermato a bordo di un'auto rubata era stato accusato di una estorsione da due milioni di euro. La Repubblica il 29 Ottobre 2022.

Non era soltanto lo storico capo ultrà dell’Inter, Vittorio Boiocchi. Ma un pluripregiudicato con una lunga carriera criminale. I suoi guai con la giustizia erano cominciati nel 1974, con una serie di rapine a mano armata e, complessivamente, il 69enne ucciso a colpi d'arma da fuoco sotto casa, a Milano, aveva 'collezionato' dieci condanne definitive per reati di associazione a delinquere, per traffico internazionale di stupefacenti, ricettazione, porto e detenzione illegale di armi, sequestro di persona e furto. Una lista lunghissima. Tanto che Boiocchi aveva trascorso 26 anni e tre mesi in carcere, nel periodo che va dal 1992 al 2018.

Vittorio Boiocchi e i rapporti con Cosa Nostra e la Mafia del Brenta

Tra le condanne, quella per essere stato, tra il 1996 e il 1997, il responsabile delle operazioni finanziarie di un gruppo che importava cocaina dalla Colombia ed eroina dalla Turchia, di cui facevano parte anche i fratelli Giuseppe e Stefano Fidanzati. Un sodalizio che lo aveva portato a contatti con esponenti di Cosa Nostra, in particolare con la cosca Mannino e con esponenti della cosiddetta Mafia del Brenta: legami grazie ai quali aveva sviluppato la capacità di reperire in breve tempo motonavi per il trasporto della droga da far distribuire su tutto il territorio milanese e a Genova.

Vittorio Boiocchi, la Curva dell'Inter e i rapporti con la criminalità

Eppure il suo cuore batteva sempre lì, tra gli spalti del secondo anello di San Siro. Appena uscito dal carcere, Boiocchi era tornato a frequentare la Curva Nord dell'Inter e a guidare i Boys, gli ultrà nerazzurri. Ma era tornato a frequentare anche altri personaggi ritenuti estremamente pericolosi dagli investigatori milanesi. Nel luglio del 2020, era stato notato ai tavoli del Bar Calipso in via Correggio, insieme a Vincenzo Facchineri "diretto appartenente della 'ndrina Facchineri, fratello di Luigi, divenuto boss dell’organizzazione criminale" e a Antonio Francesco Canito detto 'Caniggia', direttamente legato al clan Magrini, famiglia appartenente alla malavita barese", si legge nelle carte processuali più recenti.

Vittorio Boiocchi, l'ultimo arresto del capo ultrà e la tentata estorsione da due milioni di euro

A marzo del 2021, l'ultimo arresto. Era stato fermato a bordo di un’auto rubata: all'interno, finte pettorine della Guardia di Finanza, una pistola senza matricola con caricatore e sette cartucce, uno storditore elettrico, un coltello da cucina di grosse dimensioni, due manette in acciaio. Gli inquirenti avevano scoperto poi durante le indagini che era stato incaricato di una maxi estorsione da due milioni di euro nei confronti di un imprenditore milanese, Enzo Costa: l''ordine' era partito da Ivan Turola, uomo d'affari milanese già arrestato nel 2020 dai finanziari di Palermo per corruzione in appalti della sanità siciliana. Per quei fatti Boiocchi si era preso un’altra condanna a tre anni e due mesi in primo grado.

La sorveglianza speciale per Vittorio Boiocchi: "Necessaria per spezzare il pericoloso legame con i tifosi interisti"

A giugno del 2021, per lui era scattata la sorveglianza speciale. Una misura, scrisse allora la Sezione misure di prevenzione presieduta dal giudice Fabio Roia, necessaria per "spezzare quel legame pericoloso esistente fra Boiocchi Vittorio e la tifoseria interista anche al fine di tutelare i soggetti legati al mondo degli ultrà che non presentino caratteristiche criminali"

Indelebile nel ricordo dei tifosi della Curva, la scazzottata con Franco Caravita, altro storico capo ultrà dell’Inter, nel settembre del 2019: un diverbio nato durante la partita Inter-Udinese in cui i due si presero a pugni per un coro cantato dai Boys in onore di Boiocchi. La rissa era finita all’ospedale perché Boiocchi era anche cardiopatico. Sui social delle tifoserie era stato diffuso uno scatto riparatore dal lettino del pronto soccorso, l’unica foto ufficialmente in circolazione di Boiocchi. Quasi un manifesto: i due capi ultrà abbracciati a mostrare il dito medio al mondo.

Ucciso a colpi di pistola lo storico capo ultrà dell'Inter. Vittorio Boiocchi è stato raggiunto da cinque colpi di arma da fuoco mentre rincasava nella periferia ovest di Milano. Curva dell'Inter senza striscioni. Francesca Galici il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Con un vero e proprio agguato è stato ucciso a Milano Vittorio Boiocchi, 69 anni, storico capo ultrà della curva dell'Inter. Gli inquirenti stanno verificando la dinamica ma, per il momento, si sa che l'uomo attorno alle 20 è stato raggiunto da almeno cinque proiettili mentre rincasava in via Fratelli Zanzottera, periferia ovest di Milano. L'omicidio è avvenuto poco prima della partita Inter-Sampdoria: per rispetto, i tifosi della curva dell'Inter non hanno esposto gli striscioni.

Boiocchi non è morto sul colpo, al momento dell'arrivo dell'elisoccorso era ancora vivo ma le ferite d'arma da fuoco erano troppo gravi. L'uomo è deceduto all'ospedale San Carlo di Milano poco dopo il suo arrivo. A indagare sul suo omicidio è stata chiamata la squadra mobile della questura di Milano diretta da Marco Calì. Non si esclude un regolamento di conti, considerando che Boiocchi era un pluripregiudicato che aveva trascorso in carcere 26 anni della sua vita.

L'uomo è stato raggiunto al torace e al collo dai colpi di pistola e non avrebbe avuto alcuna possibilità di salvarsi. Al momento della sparatoria pare che nessuno fosse presente in quella parte di Milano e, quindi, non ci sarebbero per il momento testimoni che possono raccontare ciò che è accaduto. Le indagini delle forze dell'ordine dovranno concentrarsi sulle telecamere di sicurezza della zona e su eventuali tracce lasciate dall'assassino o dagli assassini. Per il momento restano aperte tutte le piste. A dare l'allarme sono stati alcuni passanti dopo qualche minuto, quando ormai Boiocchi era riverso in una pozza di sangue.

Dallo stadio alla morte. Gli assassini di Boiocchi l'hanno seguito in moto. La vittima era stata al Meazza a incitare i Boys prima del match con la Sampdoria. Paola Fucilieri il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La droga, i tentativi di estorsione, le rapine, i sequestri di persona, grossi giri di soldi, un potere esercitato con una ostentazione guascona ma tutt'altro che bonaria. Varie ed eventuali. Per descrivere un personaggio come Vittorio Boiocchi - l'intreccio tra gli anfratti del suo curriculum da pregiudicato con più di 26 anni di carcere alle spalle e l'istrionismo da vecchio capo ultrà della Curva Nord dell'Inter - ci vorrebbe un romanzo, criminale naturalmente. In certi ambienti, per tanti tifosi, non era esattamente uno qualunque quest'uomo di 69 anni che tra gli anni Ottanta e Novanta guidava lo storico gruppo ultrà «Boys San» e che è morto «giustiziato» sabato sera in strada, davanti a casa sua - in via Fratelli Zanzottera 12, nel quartiere Figino, ai limiti della periferia ovest della città - dopo che almeno tre dei cinque proiettili che gli erano stati sparati contro sono andati a segno tra il collo e il torace. Un «anziano» capo ultrà il cui ultimo atto, prima di andarsene, è stato quello, rituale e irrinunciabile nonostante fosse sommerso da divieti e Daspo, di andare ad arringare i Boys della curva davanti allo stadio Meazza prima del match dei nerazzurri con la Sampdoria nella dodicesima giornata di campionato. Ed è proprio da lì che i suoi killer devono averlo seguito.

Compiuta la sua «missione» con la tifoseria (tra i vari divieti il capo ultrà aveva quello di stare lontano almeno due chilometri dallo stadio di San Siro durante le partite dell'Inter, ma solo a partire dall'inizio del match) Boiocchi era tornato a casa in scooter. Gli aveva dato un passaggio un amico che, percorsi poco più di cinque chilometri, lo aveva lasciato a due passi dal suo condominio e dopo averlo salutato era ripartito. Sono le 19.50. In perfetto orario visto che il 69enne, in qualità di sorvegliato speciale, aveva l'obbligo di non uscire dalla sua abitazione a partire dalle 21. I suoi killer arrivano immediatamente dopo, anche loro in sella a un grosso scooter. Mentre l'uomo è ancora sul marciapiedi il passeggero, senza scendere, gli punta contro la sua semiautomatica e spara cinque volte. Immediatamente dopo il complice alla guida dà gas e si mette in fuga. Qualche avventore del vicino bar Sahary esce in strada ma non vede già più nessuno.

Nella strada, un budello stretto fatto di edifici bassi (e dove le poche telecamere non hanno ripreso le fasi del delitto) quei cinque colpi rimbombano fortissimi. «Sembravano delle esplosioni» spiegheranno subito dopo i vicini. E mentre la via viene transennata con i cordoni sanitari della polizia per delimitare l'area dell'omicidio segnata da una vistosa macchia di sangue, il 69enne muore al suo arrivo all'ospedale San Carlo senza mai riprendere conoscenza.

«Lo scenario non è chiaro, tutte le possibilità sono aperte» spiegano gli investigatori della Mobile guidati dal dirigente Marco Calì e che lavorano sul caso insieme alla Digos sotto la coordinazione del pm Paolo Storari della Dda. Tuttavia gli stessi sono praticamente certi che l'omicidio del capo ultrà nulla abbia a che fare con questioni riguardanti la Curva o comunque controversie interne alle tifoserie. «Se qualche dinamica all'interno delle tifoserie fosse cambiata nell'ultimo periodo se non la polizia, i carabinieri o la guardia di finanza ne avrebbero captato i segnali» spiegano in Procura.

Le modalità dell'agguato mortale parlano chiaro: si è trattato di un regolamento di conti in piena regola. E gli investigatori della questura sanno che, per risalire ai suoi killer, dovranno partire proprio dal passato di Boiocchi, mai davvero archiviato, nonostante i tanti anni di carcere, come dimostrano le sue recenti frequentazioni con 'ndranghetisti e pregiudicati di vario livello, molti narcotrafficanti di spicco. Senza mai tralasciare di dare un'occhiata a San Siro.

"Boiocchi era intercettato". Ucciso da proiettili da guerra. Era indagato per traffico di biglietti: dalle chiamate ci si aspetta la svolta. Dai testimoni nessun indizio. Luca Fazzo su Il Giornale l'1 Novembre 2022

Alla fine forse si scoprirà che lo stadio è solo uno sfondo, una quinta teatrale. E che la morte di Vittorio Boiocchi, capo storico degli ultrà dell'Inter, assassinato sabato sera sotto casa, ha poco a che fare con gli affari puliti e soprattutto sporchi che arricchiscono da decenni i club della curva nerazzurra, con in testa la feccia neofascista dei Boys. Di traffici Boiocchi ne aveva in piedi numerosi altri, altrettanto illeciti e ancora più redditizi. E proprio questa sua poliedricitià rischia di essere ora la zavorra che impedisce alle indagini di decollare.

Sull'uccisione di Boiocchi indaga il dipartimento omicidi della Procura milanese, e questo fa capire che per ora non viene catalogato come reato di mafia. Ieri il pm Paolo Storari ha disposto l'autopsia: puro scrupolo, visto che il colpo di pistola al collo ha forato in pieno la carotide del sessantanovenne pregiudicato. Qualche suggerimento in più si aspetta dalla perizia balistica, perché le cinque pallottole esplose dall'assassino non sono di uso comune, calibro 9 parabellum di provenienza dell'Est, roba da arma da guerra. In questa fase delle indagini ogni traccia è preziosa, perché di piste vere non ce ne sono. O ce ne sono troppe, che è la stessa cosa.

Il delitto Boiocchi rischia insomma di avere la stessa sorte del suo precedente più simile e più vicino: l'agguato che tre anni fa ebbe per vittima un'altra figura di rilievo della tifoseria ultrà di San Siro, ma sull'altra sponda. Enzo Anghinelli, esponente della Curva Sud rossonera, già sopravvissuto a un tentato omicidio, venne preso a colpi di pistola in testa. Incredibilmente non morì. Anche in quel caso si frugò nella curva, anche allora saltarono fuori (come probabilmente verranno a galla anche indagando su Boiocchi) storie di droga ambientate al «Meazza». Ma nulla in grado, almeno per ora, di spiegare i motivi dell'agguato. Oggi Anghinelli gira con una piastra di acciaio nel cranio e dice di non voler neanche sapere chi è stato a sparargli.

L'indagine su Boiocchi farà la stessa fine? Procura e Squadra Mobile ovviamente lavorano perché il fascicolo abbia un approdo migliore. Vicini allo zero gli spunti di interesse forniti dai testimoni oculari, si lavora sul telefono del morto, sui suoi contatti recenti e meno recenti. La vera svolta potrebbe arrivare se si scoprisse che Boiocchi, come in buona parte della sua vita fuori dal carcere, era oggetto di indagini ancora in corso, e che magari il suo telefono era sotto controllo da parte di una qualche autorità giudiziaria. A quel punto cambierebbe tutto, perché in qualche intercettazione potrebbero essere finite tracce delle frizioni più recenti con complici e rivali. Su questa possibilità gli inquirenti hanno bocche cucite. Ma l'Adnkronos rivela ieri che Boiocchi era attualmente indagato in una inchiesta su traffico di biglietti in curva. Da quelle intercettazioni qualche brandello di verità potrebbe arrivare.

Quanto e più della tragica fine del capo ultrà, ieri aveva impressionato i media quanto accaduto nella curva di San Siro, abbandonata in segno di lutto dai Boys e dagli altri club «duri»: costringendo a sloggiare anche gli altri spettatori desiderosi solo di vedersi in pace Inter-Sampdoria. La Digos fa sapere di non avere trovato nei video dello stadio scene di violenza. L'Inter ha comunque preso le distanze da «qualsiasi episodio di coercizione avvenuto sabato sera».

Monica Serra per “la Stampa” il 31 ottobre 2022.  

Chi lo conosceva racconta che Vittorio Boiocchi aveva un'unica ossessione: i soldi. Da fare in ogni modo, dentro e fuori dallo stadio. Con le estorsioni, le rapine, la droga e chissà cos' altro.

Lo dimostra il suo lungo curriculum criminale, dal 1974 a oggi. E anche, tra le tante, una intercettazione raccolta qualche tempo fa. Che racconta dei suoi interessi nel business dei biglietti e dei parcheggi di San Siro: «Sto perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti», si lamentava il capo ultrà dell'Inter. «Prendo 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Finalmente eravamo riusciti a fare una bella cosa con 700-800 biglietti in mano, due paninari, a cui abbiamo fatto avere il posto In sostanza parliamo di 10 mila euro a partita». 

È proprio su questa fissazione per gli affari criminali, tanti e di diverso tipo, che si stanno concentrando le indagini della Squadra mobile, diretta da Marco Calì, con l'aiuto dei colleghi della Digos, per scoprire chi ha ucciso Boiocchi.

Un agguato sotto casa, al civico 12 di via Zanzottera, una strada stretta e a senso unico, nel quartiere Figino, all'estrema periferia ovest della città.

Un'esecuzione organizzata, forse in fretta, da chi conosceva bene i movimenti dell'abitudinario fondatore dei Boys San. A San Siro sabato sera c'era la partita contro la Sampdoria. E Boiocchi, per via della sorveglianza speciale, non poteva vederla in Curva. Così, come ogni volta, anche l'altra sera è andato un paio d'ore prima al baretto davanti allo stadio, dove si incontrano gli ultras. Uno di loro lo ha riaccompagnato a casa in scooter poco dopo le 19. 30. 

Boiocchi si è diretto a piedi al cancello e in quel momento i killer sono entrati in azione.

Erano in due con giubbotti scuri e caschi integrali e una moto di grossa cilindrata. Lo hanno atteso sotto i portici all'angolo con via Anghileri. 

Solo uno dei due è sbucato fuori dal buio e ha iniziato a sparare mentre camminava, con una semiautomatica 9x21. I bossoli rimasti sull'asfalto sono di matrice straniera. Almeno cinque colpi sono stati esplosi. Due sono andati a segno. Uno al torace, da fianco a fianco. L'altro, sembra esploso più da vicino, al collo del 69enne, agonizzante per terra. Come racconta qualche testimone, il complice in moto è tornato indietro per caricare l'assassino e fuggire.

Quando la notizia della morte di Boiocchi ha raggiunto la Curva, la decisione di svuotare in segno di lutto gli spalti non sarebbe stata unanime. Anche se poi, una volta presa, come raccontano denunce social che nessuno per ora ha formalizzato, sarebbe stata portata avanti coi modi del tifo organizzato, a suon di spintoni e prepotenza. Tanto che il ministro dello Sport Andrea Abodi promette «immediati provvedimenti».

La verità è che però, da quando a settembre 2019, dopo 26 anni di carcere, Boiocchi si è ripreso la Curva, anche all'interno del direttivo c'era chi tollerava a fatica i suoi metodi. Che erano quelli di trent' anni fa, quando il 69enne frequentava il gotha criminale degli anni '90, dai clan di Cosa Nostra, come i Fidanzati e i Mannino, alle famiglie di 'ndrangheta. Così, approfittando del vuoto che si era creato dopo gli scontri con gli ultrà del Napoli in cui è morto Daniele Dede Belardinelli, Boiocchi era riuscito a imporsi sulla Nord a suon di pugni allo storico portavoce Franchino Caravita. Un arresto cardiaco nella notte aveva fatto finire Boiocchi in ospedale. La pace di facciata era stata sancita da una foto dei due abbracciati in ospedale.

Ma la spaccatura in Curva agli occhi di chi la osserva è da tempo evidente. Non così profonda, sembrerebbe, da giustificare un'esecuzione, che ha tanti punti in comune con l'omicidio del capo ultrà laziale Diabolik. E che, per gli inquirenti, potrebbe essere chiarita seguendo la pista dei soldi. Degli affari criminali. 

Di cui la moglie Giovanna Pisu, sorella di quel Marco Pisu tra i fondatori dei Boys San, poi diventato collaboratore dei poliziotti e ripudiato dalla Curva, dice agli investigatori di non sapere niente. Ma che il capo ultrà non aveva intenzione di mollare. Diventando così troppo ingombrante, forse, per chi voleva farsi spazio nello stesso mondo criminale.

I tifosi dell’Inter: «Costretti a lasciare la Curva dopo l’omicidio Boiocchi». Il ministro Abodi: «Inaccettabile». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Appresa la notizia dell’omicidio, gli esponenti del tifo organizzato avrebbero obbligato anche con la violenza i tifosi a lasciare il proprio posto. Il ministro dello Sport: «Inaccettabile». L’Inter potrebbe rimborsare i biglietti. 

A un certo punto, nell’intervallo di Inter-Sampdoria di sabato sera, la Curva Nord, quella che ospita gli ultrà dell’Inter, si è improvvisamente svuotata. E tanti tifosi che non appartenevano ai gruppi del tifo organizzato sono stati «costretti» ad abbandonare i propri posti non appena è arrivata la notizia dell’omicidio di Vittorio Boiocchi, il 69enne pluripregiudicato ultrà nerazzurro.

Sui social sono tanti i tifosi che hanno denunciato di essere stati obbligati a lasciare l’intero anello della Curva. Su Twitter, un testimone scrive: «La Curva Nord ha obbligato tutti i tifosi lì presenti, donne e bambini compresi, a lasciare la Curva con urla e spintoni, ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo verde e metà del secondo nel terzo verde, un comportamento indecente da parte dei capi ultrà». 

Un’altra testimone spiega: «Ieri sera mi trovavo in Curva Nord sono stata minacciata di essere presa a botte se non fossi uscita, ho visto un uomo essere preso a cazzotti davanti a me perché voleva far valere il suo diritto sacrosanto di vedere la partita. Io mi auguro che la società prenda provvedimenti». 

C’è chi conferma anche casi di violenza: «Ci stanno costringendo con le minacce a uscire, un padre picchiato con la bambina, gente che ha fatto 600 km costretta a tornare a casa», scrive un altro utente su Twitter. 

Il ministro dello Sport, Andrea Abodi, dopo aver detto di «doversi informare» sull’accaduto, nella serata di domenica ha detto che quanto avvenuto «è inaccettabile, non è tollerabile. Sono certo che saranno presi immediati provvedimenti. Non solo parole!». 

L’Inter, pur senza fare comunicati ufficiali, condanna ogni forma di violenza e sta valutando alcune iniziative per i tifosi che non riusciti ad assistere alla gara. Non è da escludere, ma è ancora prematuro parlarne, un rimborso del biglietto o un biglietto regalo per una delle prossime gare.

La curva nord nerazzurra lascia lo stadio. Chi era Vittorio Boiocchi, storico capo ultrà dell’Inter ucciso in strada: i rapporti con la malavita e le liti in curva. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Ottobre 2022 

E’ stato ucciso in strada un’ora prima dell’inizio di Inter-Sampdoria. La vittima si chiamava Vittorio Boiocchi, 70 anni, storico capo ultrà della curva nord dell’Inter, raggiunto da almeno tre proiettili, poco prima delle 20, in via Fratelli Zanzottera a Milano, nel quartiere  Figino in cui risiedeva.

L’uomo è stato vittima di un agguato, ammazzato dai killer con proiettili che l’hanno raggiunto al torace e al collo. Boiocchi è spirato dopo il ricovero all’ospedale San Carlo dove era arrivato in condizioni già disperate. Sull’omicidio indaga la squadra Mobile della questura guidata da Marco Calì. Al vaglio le immagini delle telecamere presenti nella zona per quello che sembrerebbe essere un omicidio legato agli ambienti della malavita.

Si tratta di un volto noto sia alle cronache sportive che giudiziarie. La notizia dell’omicidio si è rapidamente diffusa anche sugli spalti di San Siro dove alle 20.45 è iniziata la gara tra Inter e Samp e al secondo anello verde, i tifosi della Curva nord, hanno vietato i cori e fatto ritirare gli striscioni. Poi nell’intervallo il gruppo Boys ha abbandonano gli spalti.

Boiocchi, che nel 2019 si fece immortalare con il neo acquisto Romelu Lukaku, secondo la ricostruzione della Digos, aveva preso le redini della curva neroazzurra dopo gli scontri di Santo Stefano del 2017 tra ultras dell’Inter e quelli del Napoli dove perse la vita Daniele Dede Belardinelli, capo degli ultrà del Varese da sempre alleati con gli interisti.

Con un lungo passato in carcere per rapine e traffico internazionale di droga, Boiocchi era stato arrestato l’ultima volta il 3 marzo 2021 assieme al pluripregiudicato sardo Paolo Cambedda perché trovato con una pistola, un taser, manette e alcune pettorine della Guardia di finanza. L’ipotesi della Squadra Mobile è che i due con altre persone stessero per mettere a segno una rapina.

Classe ’52, il capo ultrà interista aveva riportato in passato dieci condanne definitive per reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti (con legami sia in Colombia che in Turchia), associazione a delinquere finalizzata alla ricettazione, porto e detenzione illegale di armi, nonché rapina, sequestro di persona e furto. In passato ha scontato una condanna a 26 anni e tre mesi dal 1992 al 2018.

Per gli investigatori aveva instaurato in passato legami sia con Cosa Nostra (con la cosca dei Mannino) che con esponenti della mafia del Brenta. Dopo la scarcerazione nel 2018, era stato fermato dalle forze dell’ordine in compagnia sia di persone legate alla ‘ndrangheta che alla malavita barese.

Tornando invece all’ambito “sportivo”, Boiocchi era considerato uno dei leader della curva interista (nonostante il lungo passato in carcere) insieme a Franco Caravita. Tra i due ci sarebbero state diverse frizioni negli ultimi anni. Ma le ricostruzioni della Digos sono sempre state smentite dai diretti interessati. Emblematica la foto nel settembre del 2019 quando, in seguito a un malore, Boiocchi venne sottoposto a un intervento in angioplastica. I due si fecero immortalare in ospedale in una immagine con tanto di dito medio e la seguente didascalia: “La nostra risposta alle vostre falsità… LA NORD È UNA FAMIGLIA”. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da liberoquotidiano.it il 30 ottobre 2022.

"Ma la società Inter non ha niente da dire su quel che è successo ieri sera sugli spalti di San Siro?": Enrico Mentana si riferisce al momento in cui ieri, appena si è sparsa la notizia della morte dell'ex capo ultrà Vittorio Boiocchi, la Curva Nord dell'Inter si è praticamente svuotata. Il giornalista e direttore del Tg La7 si è sfogato su Facebook: "Si può obbligare chi ha pagato il biglietto per vedere la partita a uscire contro la sua volontà per partecipare al lutto per la morte di un pluripregiudicato? Può una curva organizzata continuare a operare al di fuori delle regole e delle leggi?". 

Stando ad alcune testimonianze, infatti, non tutti i tifosi se ne sarebbero andati per propria volontà. Alcuni sarebbero stati obbligati a lasciare lo stadio. "Possono la Lega Serie A e la Federcalcio continuare a chiudere gli occhi sulle illegalità grandi e piccole che prosperano intorno al tifo organizzato di molta parte delle squadre italiane?", continua a chiedersi Mentana nel post su Facebook. 

Secondo il giornalista, "l'episodio di ieri sera è solo l'ultimo di una lunga serie di obbrobri visti in tanti stadi italiani da quando gli spalti si sono ripopolati". Infine un appello significativo: "Volete tutti continuare a voltare lo sguardo da un'altra parte?".

La vergogna della curva vuota dopo le minacce degli ultras. "Ho visto bambini piangere". Tifosi pacifici costretti a uscire dallo stadio con le buone o con le cattive. Bambini terrorizzati, padri minacciati, coppiette intimidite. Andrea Cuomo il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Tifosi pacifici costretti a uscire dallo stadio con le buone o con le cattive. Bambini terrorizzati, padri minacciati, coppiette intimidite. È stato un sabato nero al Meazza, un antispot per il calcio e per il tifo. Tutto è accaduto all'intervallo della partita Inter-Sampdoria, quando la Curva Nord, la tana del tifo organizzato nerazzurro, si è svuotata come gesto di omaggio per la morte di Vittorio Boiocchi, il sessantanovenne ex leader della tifoseria giustiziato sabato alla periferia di Milano in un regolamento di conti. La notizia dell'uccisione di Boiocchi si era diffusa già prima dell'inizio del match, previsto per le 20,45, ma inizialmente la Curva Nord aveva deciso soltanto di togliere gli striscioni e i tamburi e di azzittire i cori. Poi i leader ultrà hanno deciso che avrebbero lasciato lo stadio a fine primo tempo. Cosa che hanno fatto, pretendendo che anche gli spettatori pacifici facessero altrettanto. Anche i padri che avevano portato i figli a vedere l'Inter, anche chi mai si sarebbe sognato di santificare un personaggio che aveva scontato condanne definitive per rapina, traffico di droga, detenzione illegale di armi e sequestro di persona. In molti hanno manifestato l'intenzione di restare in curva finendo per essere insultati, spintonati e in qualche caso presi a cazzotti. Il tutto nell'indifferenza o nell'ignavia degli steward e delle forze dell'ordine. Il risultato è che all'inizio del secondo tempo la curva era completamente vuota. E se qualcuno dei tifosi più miti è riuscito a spostarsi in un altro settore per continuare a guardare il match, a molti altri non è restato che tornare a casa.

Sui sociali le testimonianze di quei minuti plumbei sono numerose. «Non mi capacito di come 8/10 persone abbiamo sgomberato un intero settore con urla, minacce e spintoni - twitta un tifoso interista -. Ho visto bambini piangere e persone venire spintonate perché non volevano andarsene. Io ero con una mia amica e mi è venuto un attacco di panico. Pensavo di prenderle».

Gli ultrà della Curva Nord ieri si sono limitati a ricordare Baiocchi, «lo Zio», con un messaggio su Facebook cercando di sopire ogni polemica («in questi interminabili attimi di buio e dolore è solo tempo di silenzio») e trovano l'isolata difesa dei «colleghi» del Milan (« se sei in curva è perché condividi una mentalità, non per farti due foto», sentenziano alcuni tifosi rossoneri). Per il resto, condanna unanime. Con l'Inter che ora potrebbe consolare i tifosi cacciati con un biglietto gratuito per le prossime partite. Ma chi li rimborserà per la paura? E quanta voglia avranno di riportare i figli o la fidanzata allo stadio? Sul caso è intervenuto anche il nuovo ministro dello Sport Andrea Abodi, chiamato in causa dal tweet di un tifoso che rivendicava il fatto che «lo stadio è di tutti i tifosi, compresi settori che da sempre sembrano in comodato d'uso a gente che nulla a che vedere con lo sport». Abodi ha promesso di informarsi personalmente «su quanto accaduto». 

La legge della giungla. Omicidio Vittorio Boiocchi, le minacce degli ultras per “rispettare” il capo: “Botte a papà davanti alla figlia per lasciare gli spalti”. Redazione su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

Bimbi in lacrime, tifosi che dopo aver percorso anche centinaia di chilometri costretti con la forza (calci e pugni) a lasciare gli spalti della curva nord di San Siro alla fine del primo tempo di Inter-Sampdoria. Il motivo? La scomparsa di Vittorio Boiocchi, capo ultras nerazzurro e pluripregiudicato ammazzato a 70 anni in strada da due killer entrati in azione in sella a una moto. L’omicidio è avvenuto sabato 29 ottobre poco prima delle 20, a un’ora dall’inizio della partita, e sarebbe riconducibile a dinamiche legate alla malavita milanese.

A denunciare l’accaduto, al momento solo sui social (in particolare su Twitter), sono diverse testimonianze dei tifosi presenti nel secondo anello della curva nord di San Siro. Tifosi che sarebbero stati minacciati dagli ultras dell’Inter che dopo aver appreso dell’assassinio di Boiocchi, hanno prima ritirato gli striscioni, poi hanno vietato i cori durante la prima frazione di gioco, in ultimo hanno liberato gli spalti in segno di “rispetto“. Purtroppo on si tratta del primo episodio registrato negli stadi italiani.

Tifosi che hanno successivamente tentato di rientrare in altri settori dello stadio trovando l’opposizione degli steward.

Un tifoso scrive: “La curva nord ha obbligato tutti i tifosi lì presenti, donne e bambini compresi, a lasciare la curva con urla e spintoni, ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo verde e metà del secondo nel terzo verde, un comportamento indecente da parte dei capi ultrà”. Un altro aggiunge: “Ci stanno costringendo con le minacce ad uscire, un padre picchiato con la bambina, gente che ha fatto 600 km costretta a tornare a casa“. Una tifosa racconta: “Ieri sera mi trovavo in Curva Nord sono stata minacciata di essere presa a botte se non fossi uscita, ho visto un uomo essere preso a cazzotti davanti a me perché voleva far valere il suo diritto sacrosanto di vedere la partita. Io mi auguro che la società prenda provvedimenti”.

Per il momento nessuna presa di posizione da parte della società nerazzurra e delle autorità sportive, Figc e Lega A. Sulle denunce social è intervenuto anche il neo ministro dello Sport e dei Giovani, Andrea Abodi (ex presidente della Lega B), rispondendo a un utente che ha fatto appello a lui per prendere provvedimenti sui fatti di ieri. “Mi informerò su quanto accaduto”, ha replicato Abodi al tifoso. Non è da escludere che l’Inter possa rimborsare almeno in parte i tifosi che non hanno potuto assistere alla seconda parte della partita.

Inter, il caso della curva svuotata per Boiocchi: una vergogna, ora tocca a noi tifosi farci sentire. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2022.    

Quello che è accaduto sabato sera a San Siro è vergognoso. Inquietanti i fatti. I tifosi dell’Inter, molti con famiglie e bambini, sono stati costretti a svuotare la curva dopo l’omicidio del pluripregiudicato Vittorio Boiocchi, capo ultrà legato alla criminalità. Dieci condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto.

Imbarazzante la reticenza. Della società, che si è fatta viva due giorni dopo, condannando genericamente «qualsiasi episodio di coercizione»; dei giocatori, uno dei quali si è lasciato fotografare con Boiocchi (vogliamo sperare che non sapesse chi era); di molti commentatori, che si sono limitati a rilevare l’episodio; di un governo che si indigna per i rave party a Modena e poi distoglie gli occhi da Milano. Qualcuno dirà: cose brutte accadono in molti stadi. Vero, purtroppo. Le infiltrazioni criminali nelle tifoserie della Juventus, del Milan, della Lazio, della Roma, del Napoli, del Palermo e di altre squadre hanno occupato, a turno, le cronache. Ma stavolta è accaduto a San Siro durante una partita dell’Inter. Tocca agli interisti farsi sentire. La cautela che si respira ha tre spiegazioni: paura, ignavia, rassegnazione.

La paura

La paura è diffusa, anche tra i tifosi. Ho ricevuto testimonianze e proteste, tra domenica e lunedì: famiglie e gruppi di amici cacciati dal secondo anello verde perché minacciati. Perché non sporgono denuncia? Per timore. Mi rivolgo ai nerazzurri, senza distinzione: vi sembra una situazione tollerabile? Una grande squadra dev’essere capace di autocritica. Chi l’ha evitata, ha pagato l’errore: con la reputazione, e non solo.

L’ignavia

L’ignavia è quella di chi non vuole grane. Di chi tace, sapendo che di certi episodi si parla molto, ma per poco. Poi vengono dimenticati, la mistica sportiva è potente, ripulisce tutto in fretta. A tutti coloro che vivono nel calcio, e preferiscono parlar d’altro, mi permetto di ricordare che, alla fine, tutti dobbiamo rendere conto a qualcuno: a un figlio, agli amici, a un telespettatore, a un lettore, alla nostra faccia nello specchio al mattino.

La rassegnazione

La terza spiegazione di tanta cautela si chiama rassegnazione. Tra le reazioni, la più comune. E la più scusabile, in apparenza. Perché arrabbiarsi, se poi non cambia niente? Be’, un motivo c’è. Le tragedie del calcio — il morto davanti allo stadio, la guerriglia urbana pre-partita — sono quasi sempre prevedibili, preparate da pessime abitudini tollerate troppo a lungo. Gli stadi sono una parte del territorio nazionale dove la legge è sospesa. Si può minacciare, insultare, diffamare, ricattare, menar le mani impunemente. Il sospetto è che la politica — tutta, senza eccezioni — abbia concluso che serve un luogo per lasciar sfogare l’aggressività: meglio che gli estremisti si raccolgano in uno stadio, invece che andarsene per le strade. C’è un particolare, non secondario: il calcio è di tutti, non dei violenti, dei criminali e di chi li tollera. Gli stadi sono il tempio della meraviglia del calcio. Gli appassionati — quelli che conoscono la gioia infantile di trovarsi in un mare di luce e di gente, con un prato verde nel mezzo — costituiscono la maggioranza, dovunque.

Ma devono sottostare a una minoranza e subirne le conseguenze. Dell’Inter ho scritto molto e, forse, parlato troppo. Ma è la squadra che amo: la considero una forma di allenamento alla vita, un virus dolcissimo che ho trasmesso a mio figlio e ai miei nipoti. Penso che il gol di Barella contro la Sampdoria meriti di essere esposto alla Triennale. Adoro San Siro, ci torno appena posso. Ho perfino accettato, anni fa, di partecipare a un paio di feste della curva Nord nerazzurra, fuori dallo stadio. Quando mi hanno passato il microfono, ho provato a dire: ragazzi, una grande squadra deve avere grandi tifosi. Cercate di essere diversi: non fatevi trascinare, spaventare, espropriare, umiliare. Lo ripeto oggi.

Gianni Santucci per corriere.it il 31 ottobre 2022.

Eravamo sul piazzale a bere l’ultima birra e sentivamo i cori per Stankovic. Tutto normale». Ore 20.15, Dejan Stankovic, bandiera dell’Inter del Triplete, allenatore della Sampdoria, viene omaggiato dalla Curva Nord nella serata del suo ritorno a San Siro. «Entriamo e intorno alle 20.40 iniziano a ripiegare gli striscioni. Poi i ragazzini iniziano a fare su e giù». 

Sono i messaggeri. La cinghia di trasmissione tra la testa (i capi della curva) e il corpo (la massa degli 8 mila interisti al secondo anello verde). I messaggeri si muovono e passano l’ordine: «Oggi non si tifa. Niente cori. È successo un fatto grave». 

Lo svuotamento della curva interista per l’assassinio del proprio capo criminale inizia in quel momento. Il racconto di un ex ultrà che continua a frequentare la Nord di San Siro permette di ricostruire al dettaglio quel che è accaduto. «A quel punto si sono attaccati tutti ai cellulari per cercare notizie. Così abbiamo capito quale fosse il “fatto grave”». La partita scorre nel silenzio. Arriva il primo gol dell’Inter. «Coi miei amici abbiamo esultato, come altri. Da sotto ci hanno guardato male. Ci hanno urlato dietro».

Arriva l’intervallo. Qualcuno inizia a uscire. E parte la seconda ronda dei «ragazzini». «Strillavano: “Adesso usciamo tutti”. Un signore vicino a me ha detto: “State scherzando? Io resto qua”. Uno gli ha risposto: “Invece te ne vai, sennò ti spacco la faccia”. Il ragazzotto s’è avvicinato per spintonarlo, ma ha perso l’equilibrio tra i seggiolini ed è caduto. C’è stato un momento di tensione, stava per scattare il parapiglia. Ci siamo messi in mezzo e abbiamo parlato con l’altro che dava ordini. Ci ha detto: “Dovete uscire sennò vengono e vi picchiano, rischiate grosso”.

I capi non si spostano, mandano avanti i ragazzetti a dare gli ordini. Però sai che i tizi pesanti stanno là, e che se ti opponi magari dopo, in un punto senza telecamere, te ne ritrovi addosso due o tre e qualche cazzotto lo prendi. Io pugni o calci non ne ho visti, ma urlacci, minacce e spintoni sì. Alla fine la gente lo sa come funziona: anche se non te ne frega niente e vuoi solo vedere la partita, te ne vai, perché sono persone pericolose». 

In linguaggio teorico, si definisce intimidazione ambientale. In curva è la regola. Centinaia di tifosi restano nei corridoi dello stadio. Nei bar. Provano a seguire il secondo tempo sui telefoni. «Poi abbiamo visto che c’era un ingresso lasciato aperto e siamo saliti in un altro settore, al terzo anello. Ormai eravamo al settantesimo minuto. Al terzo gol abbiamo esultato. Tutto abbastanza surreale. E molto ingiusto».

Da video.corriere.it il 31 ottobre 2022.

“Hanno minacciato di prenderci a schiaffi”, Antonio, tifoso interista arrivato a San Siro dalla Calabria con moglie e figlio, racconta a “Non è un paese per giovani”, condotto da Tommaso Labate e Massimo Cervelli su Rai Radio 2, cosa è accaduto tra il primo e il secondo tempo della partita dello scorso sabato tra Inter e Sampdoria dopo l’omicidio di Vittorio Boiocchi. 

”Alla fine del primo tempo gli ultras ci hanno chiesto in modo aggressivo di lasciare la Curva Nord, tra loro c’erano persone di tutte le età, adulti e giovani. Abbiamo protestato, e loro niente, ci hanno detto che dovevamo uscire per forza, e ho accettato anche per tutelare mia moglie e mio figlio. Le forze di polizia e gli steward dell’Inter? Non si sono visti. Queste cose non devono succedere, andare allo stadio è una festa, la curva si deve vivere in modo diverso.

Anche il presidente Figc Gabriele Gravina ha parlato di quanto accaduto a San Siro: “Non è una bella immagine. Ho sentito Marotta, mi ha garantito che l'Inter è a disposizione e che sta mettendo a disposizione della Digos tutte le immagini, se ci sono responsabilità in capo ad alcuni soggetti spetta agli organi di giustizia e polizia procedere".

Da tuttosport.com il 31 ottobre 2022.

L'Inter di Simone Inzaghi ha conquistato il 4° successo consecutivo in campionato battendo in casa la Sampdoria, il tutto, però, in un clima surreale a San Siro. Durante il match è giunta la notizia dell'omicidio di Vittorio Boiocchi, 69 anni, storico capo ultras dell'Inter. Dopo che la notizia è circolata la Curva Nord nerazzurra è restata in silenzio, senza esporre striscioni e intonare cori durante la partita contro gli avversari a San Siro, poi i Boys hanno abbandonano gli spalti (il secondo anello) durante l'intervallo.

Una situazione che ha portato anche a momenti di forte tensione all'interno della curva stessa Inter-Sampdoria, tensione in Curva Nord: le testimonianze Sui social sono tanti i tifosi presenti ieri allo stadio che hanno denunciato di essere stati obbligati a lasciare l'intero anello della curva nord. Su Twitter, un testimone scrive: "La curva nord ha obbligato tutti i tifosi lì presenti, donne e bambini compresi, a lasciare la curva con urla e spintoni, ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo verde e metà del secondo nel terzo verde, un comportamento indecente da parte dei capi ultrà". 

Un'altra testimone spiega: "Ieri sera mi trovavo in Curva Nord sono stata minacciata di essere presa a botte se non fossi uscita, ho visto un uomo essere preso a cazzotti davanti a me perché voleva far valere il suo diritto sacrosanto di vedere la partita. Io mi auguro che la società prenda provvedimenti". C'è chi conferma anche casi di violenza: "Ci stanno costringendo con le minacce a uscire, un padre picchiato con la bambina, gente che ha fatto 600 km costretta a tornare a casa", scrive un altro utente su Twitter.

C. Giu. per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2022.

La notizia rimbalza praticamente in diretta. «Hanno sparato a Vittorio». Lui non è ancora morto quando i vertici della Curva Nord interista decidono di zittire i cori e ritirare gli striscioni dalla balaustra del secondo anello verde. Passano quindi minuti con i capi del tifo organizzato che confabulano tra loro. Gli animi sono tesi, non c'è unità sulla strada da prendere. 

Alla fine l'ordine arriva: tutti fuori. Dalla balaustra il coro rimbalza di voce in voce, i più giovani risalgono la gradinata urlando. C'è chi borbotta, c'è chi si volta e imbocca l'uscita, c'è chi spinge fuori i riottosi, c'è chi ancora non capisce cosa sia successo. 

È successo che poco prima due killer in moto hanno freddato sotto casa Vittorio Boiocchi, 69 anni, pluripregiudicato uscito nel 2018 dopo 26 anni di carcere, e da allora tornato sul trono più alto del mondo ultrà interista. È morto il capo, non si può festeggiare neanche se nel frattempo in campo segna uno splendido gol Nicolò Barella. Anzi, la Curva è già praticamente fuori.

È in questo momento che si verificano momenti di tensione con alcuni tifosi non appartenenti a gruppi organizzati che non vogliono lasciare gli spalti. Le testimonianze arrivano via social dopo la partita. «Non mi capacito di come 8, 10 persone abbiamo sgomberato un intero settore con urla, minacce e spintoni», scrive un tifoso su Twitter. 

«Ho visto bambini piangere e persone venire spintonate perché non volevano andarsene. Io ero con una mia amica e mi è venuto un attacco di panico. Pensavo di prenderle», ha aggiunto un'altra supporter. Altri attaccano il comportamento delle forze dell'ordine: «Siamo stati costretti ad andarcene e nessuno steward/forza dell'ordine ha fatto qualcosa».

Un supporter nerazzurro si rivolge, sempre via Twitter, direttamente al ministro dello Sport Andrea Abodi: «Dopo i fatti di Inter-Sampdoria, mi appello al ministro: si prendano provvedimenti seri! Lo stadio è di tutti i tifosi, compresi settori che da sempre sembrano in comodato d'uso a gente che nulla a che vedere con lo sport». 

Abodi in risposta ha assicurato provvedimenti urgenti da parte del governo: «Quello che è successo è inaccettabile, non è tollerabile. Sono certo che saranno presi immediati provvedimenti. Non solo parole!».

Via social piovono decine di testimonianze: «Gente che si è fatta ore e ore di auto o treno costretta contro la propria volontà ad uscire dallo stadio». «Centinaia, migliaia di persone obbligate a uscire da uno stadio, per cui avevano pagato un biglietto, per rispetto nei confronti di un regolamento di conti tra criminali», scrive Alice. 

«Una delle pagine più nere nella storia del rapporto tra tifoserie organizzate e società», attacca Valerio Iafrate. Alcuni tifosi rimangono per il resto della partita in curva ma sui lati estremi, altri invece riescono a rientrare nel Meazza e a seguire il match dal terzo anello verde. «Ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo anello e metà secondo tempo nel terzo. Un comportamento indecente da parte dei capi ultrà».

Sono in molti, compreso il direttore del Tg La7 Enrico Mentana a tirare in ballo il club nerazzurro e il presidente Steven Zhang: «La società Inter non ha niente da dire su quel che è successo sugli spalti di San Siro? Si può obbligare chi ha pagato il biglietto a uscire contro la sua volontà per partecipare al lutto per la morte di un pluripregiudicato? Può una curva organizzata continuare a operare al di fuori delle regole e delle leggi? 

Possono la Lega Serie A e la Federcalcio continuare a chiudere gli occhi sulle illegalità grandi e piccole che prosperano intorno al tifo organizzato di molta parte delle squadre italiane?».

Dalla società nerazzurra non è ancora arrivata una risposta ufficiale, ma da viale della Liberazione filtra una dura «condanna verso le violenze» e la disponibilità a «forme di tutela e risarcimento per i tifosi costretti a uscire dalla curva». Nel frattempo sui social si rincorrono altre testimonianze che parlano di «un padre picchiato con la propria bambina». 

Episodi sui quali sono in corso le verifiche delle forze dell'ordine. Al momento non risultano denunce né persone soccorse dal 118. La questura lavora sulle immagini delle telecamere di sorveglianza per ricostruire i singoli episodi. Chi ha avuto comportamenti violenti rischia una denuncia per violenza e il Daspo.

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2022.  

«Eravamo sul piazzale a bere l'ultima birra e sentivamo i cori per Stankovic. Tutto normale». Ore 20.15, Dejan Stankovic, bandiera dell'Inter del Triplete, allenatore della Sampdoria, viene omaggiato dalla curva Nord nella serata del suo ritorno a San Siro.

«Entriamo e intorno alle 20.40 iniziano a ripiegare gli striscioni. Poi i ragazzini iniziano a fare su e giù». 

Sono i messaggeri. La cinghia di trasmissione tra la testa (i capi della curva) e il corpo (la massa degli 8 mila interisti al secondo anello verde). 

I messaggeri si muovono e passano l'ordine: «Oggi non si tifa. Niente cori. È successo un fatto grave». Lo svuotamento della curva interista per l'assassinio del proprio capo criminale inizia in quel momento. Il racconto di un ex ultrà che continua a frequentare la Nord di San Siro permette di ricostruire al dettaglio quel che è accaduto. «A quel punto si sono attaccati tutti ai cellulari per cercare notizie. Così abbiamo capito quale fosse il "fatto grave"». 

La partita scorre nel silenzio. Arriva il primo gol dell'Inter. «Coi miei amici abbiamo esultato, come altri. Da sotto ci hanno guardato male. Ci hanno urlato dietro». Arriva l'intervallo. Qualcuno inizia a uscire. E parte la seconda ronda dei «ragazzini». «Strillavano: "Adesso usciamo tutti". Un signore vicino a me ha detto: "State scherzando? Io resto qua". Uno gli ha risposto: "Invece te ne vai, sennò ti spacco la faccia".

Il ragazzotto s' è avvicinato per spintonarlo, ma ha perso l'equilibrio tra i seggiolini ed è caduto. C'è stato un momento di tensione, stava per scattare il parapiglia. Ci siamo messi in mezzo e abbiamo parlato con l'altro che dava ordini. Ci ha detto: "Dovete uscire sennò vengono e vi picchiano, rischiate grosso". 

I capi non si spostano, mandano avanti i ragazzetti a dare gli ordini. Però sai che i tizi pesanti stanno là, e che se ti opponi magari dopo, in un punto senza telecamere, te ne ritrovi addosso due o tre e qualche cazzotto lo prendi. Io pugni o calci non ne ho visti, ma urlacci, minacce e spintoni sì.

Alla fine la gente lo sa come funziona: anche se non te ne frega niente e vuoi solo vedere la partita, te ne vai, perché sono persone pericolose». In linguaggio teorico, si definisce intimidazione ambientale. In curva è la regola. Centinaia di tifosi restano nei corridoi dello stadio. Nei bar. Provano a seguire il secondo tempo sui telefoni. «Poi abbiamo visto che c'era un ingresso lasciato aperto e siamo saliti in un altro settore, al terzo anello. Ormai eravamo al settantesimo minuto. Al terzo gol abbiamo esultato. Tutto abbastanza surreale. E molto ingiusto». 

Cesare Giuzzi per corriere.it il 31 ottobre 2022.

Settore per settore, fila per fila. Gli investigatori della Digos milanese sono al lavoro sui filmati delle telecamere dello stadio Meazza per ricostruire cos’è accaduto davvero durante la ritirata dagli spalti della Curva Nord ordinata dai capi ultrà nerazzurri. 

Attimi concitati con migliaia di persone che si spostano verso le uscite, un esodo disordinato, caotico, dove la calca ai varchi, gli spintoni, le urla si mischiano. In quel momento però nessuno dei funzionari della questura impegnati in ordine pubblico nota aggressioni o attacchi ai tifosi. Tanto che la priorità è «gestire» l’uscita dei tifosi e il loro sostare, per il resto della partita, all’esterno dei cancelli.

Quando via social iniziano a rimbalzare racconti di aggressioni, il match è ormai concluso. A tarda ora da via Fatebenefratelli parte una sorta di «appello» a tutti i funzionari e ai dirigenti per verificare eventuali episodi di violenza. La stessa cosa avviene domenica mattina, con un supplemento di verifiche che ancora una volta, secondo quanto trapela, dà «esito negativo». 

La stessa richiesta viene fatta al 118, ai pronto soccorso, alla centrale che gestisce la sicurezza del Meazza. Ancora nulla. È per questo che da domenica mattina gli inquirenti della Digos e della scientifica stanno passando al setaccio tutti i filmati dello stadio che riprendono il secondo anello verde, quello degli ultrà della Curva Nord.

Né in questura né in procura al momento risultano denunce o esposti. Potrebbero arrivare, ma nessuno per ora s’è fatto avanti, neppure in forma anonima. 

L’inchiesta, almeno conoscitiva, è comunque partita. Gli inquirenti, diretti dal questore Giuseppe Petronzi, in caso di fatti di violenza accertati potrebbero far scattare la doppia strada della denuncia in procura (per violenza privata o lesioni, dove se ne fossero verificate) e del procedimento amministrativo del Divieto d’accesso allo stadio. Necessario però che ci siano stati atti di violenza verso le persone o le cose. O comunque di intemperanza rispetto alle regole del comportamento allo stadio.

Da via Fatebenefratelli non arrivano risposte ufficiali alle critiche, viene però fatto notare che non è vero che siano uscite 8 mila persone dalla curva, anche perché gli spalti del secondo anello verde nei settori laterali sono rimasti occupati. 

Bloccare gli ultrà nello stadio e impedirgli di uscire avrebbe provocato, molto probabilmente, una situazione simile a quella di Seul e il rischio altissimo di incidenti nello stadio. Sulle prime si temeva che i tifosi volessero poi muoversi in corteo verso il pronto soccorso del San Carlo dove è spirato Boiocchi. Ma alla fine in ospedale si sono presentati solo alcuni membri del direttivo.

Sulle polemiche che hanno fatto seguito all’uccisione di Boiocchi, invece, la linea è chiara. Solo lo scorso anno il questore ha emesso 33 Daspo per manifestazioni sportive. Nel caso di Boiocchi le indagini della polizia avevano portato all’arresto per estorsione e alla sorveglianza speciale per 2 anni. Lo stesso vale per il capo ultrà rossonero Luca Lucci (quello della stretta di mano a Matteo Salvini), condannato per droga a 7 anni. E daspati sono diversi esponenti del direttivo delle due tifoserie.

Le indagini sul mondo delle curve milanesi non si sono mai fermate. Anche perché all’attività della Digos si unisce spesso quella delle sezioni investigative di polizia e carabinieri. Inchieste per criminalità organizzata e traffico di droga, coordinate dalla Dda, che hanno messo in luce la commistione tra ultrà e clan mafiosi siciliani e calabresi. In questa direzione si muoveva anche il capo ultras Vittorio Boiocchi. E pensare che nei giorni scorsi il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Marino, Alessandro De Chirico, aveva proposto proprio la curva Sud milanista per l’Ambrogino d’oro.

Boiocchi, identificati i tre ultrà che hanno "svuotato" la curva. Ripresi dalle telecamere i responsabili delle minacce. Il movente del delitto tra parcheggi e bagarinaggio. Paola Fucilieri il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.

Sabato, stadio Meazza, secondo tempo di Inter-Sampdoria. Le immagini del deflusso forzato dal secondo anello verde - e dallo spicchio centrale del terzo - immortalano gli effetti dell'ordine di massa della Curva Nord alla notizia della morte del suo leader, il capo ultrà Vittorio Boiocchi. Vittorio, uno di noi, come recitavano i cori dei Boys, aveva 69 anni. Freddato con tre colpi di pistola alle 19.48 davanti a casa sua, in zona Figino, mentre stava rientrando, da due killer a bordo di un maxi scooter e poi fuggiti, Boiocchi veniva proprio dallo stadio Meazza dove era stato al «Baretto», abituale luogo di ritrovo della tifoseria, per incitare i tifosi, un rito irrinunciabile. Quindi, seppellito da Daspo e divieti vari (e con l'obbligo, in qualità di sorvegliato speciale, di rientrare a casa entro le 21) aveva raggiunto la sua abitazione strappando un passaggio in scooter a un amico. Non appena questi l'aveva lasciato, erano sopraggiunti i killer che, quasi sicuramente avevano seguito il capo ultrà sin dallo stadio e poi per tutto il tragitto fino davanti a casa sua, in via Fratelli Zanzottera. Da lì, dall'omicidio di Boiocchi (che, in attesa degli esiti dell'autopsia, il pm Paolo Storari non esita comunque a definire «opera di due professionisti») il successivo deflusso forzato dei tifosi allo stadio che tante polemiche ha suscitato.

Ieri, dopo due giorni di analisi dei filmati delle telecamere a circuito chiuso del Meazza, gli investigatori della Digos hanno isolato alcune sequenze significative di quel deflusso con cui la tifoseria nerazzurra dura e pura ha costretto 7500 persone, anche con la forza, a lasciare lo stadio.

Inviata una prima informativa in Procura, in cui veniva specificato di non aver ricevuto denunce né di aver riscontrato interventi del 118 a supporto di feriti o contusi, il lavoro della Digos procede sulle telecamere. E «ha già individuato alcuni ultras - si legge in una nota della questura - che hanno provocato il deflusso e isolato la posizione di un altro ultras responsabile di aver usato violenza verso una persona che esitava a lasciare lo stadio». Non ci sono al momento denunciati, in attesa di ulteriori riscontri: più probabile che gli eventuali responsabili siano colpiti da Daspo.

Inoltre, fanno sapere da via Fatebenefratelli, «altri approfondimenti sono in corso su due chiamanti che hanno contattato il 112 per lamentare, un'ora circa dopo i fatti, di essere stati allontanati dagli spalti». Più lunga sarà la verifica delle decine di post e messaggi su quanto stava accadendo al Meazza: «Si stanno altresì rintracciando alcuni autori delle segnalazioni sui social per circostanziare gli episodi lamentati».

Intanto le indagini sul movente, sui responsabili e naturalmente, sui mandanti dell'omicidio Boiocchi non si prospettano brevi. Vittorio uno di noi, criminale di lungo corso, aveva tessuto legami con trafficanti di cocaina e capi curva, mafiosi e manager delle società che hanno in concessione (dal pubblico) i parcheggi. Senza contare che, oltre agli interessi che muoveva e sui quali mai avrebbe mollato il colpo, era un tipo che, anche caratterialmente, non andava a genio a molti.

Milano, disposta la sorveglianza speciale per il capo curva dell'Inter Andrea Beretta.  Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022.

Per un anno e mezzo Andrea Beretta, leader della curva Nord dell'Inter, non potrà dimorare nel capoluogo lombardo. La misura era stata richiesta nei mesi scorsi dalla Questura milanese per la «pericolosità sociale» dell'ultrà. 

La Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, presieduta da Fabio Roia, ha disposto la misura della sorveglianza speciale per un anno e mezzo con divieto di dimora nel capoluogo lombardo per l'attuale leader della curva dell'Inter Andrea Beretta. Misura che era stata richiesta nei mesi scorsi dalla Questura milanese per la «pericolosità sociale» dell'ultrà che, tra l'altro, è stato sentito come teste di recente anche nel caso dell'omicidio di sabato scorso di Vittorio Boiocchi, leader storico della curva nerazzurra. 

La Questura di Milano aveva proposto la misura di sorveglianza, come si legge nel provvedimento dei giudici Roia-Tallarida-Profeta, perché Beretta, 47 anni, si è reso «responsabile di numerosi reati quali furto, rapina, sequestro di persona, violazione della normativa sugli stupefacenti, violenza e minaccia a pubblico ufficiale». E ancora lesioni, minacce, «estorsione» e «molteplici» violazioni del Daspo che gli è già stato comminato (per la durata di 10 anni). 

Tra gli ultimi episodi segnalati nel provvedimento quello del 16 febbraio scorso, quando il 47enne aveva minacciato un bagarino fuori da San Siro e lo aveva colpito «con calci e pugni». Per questo è accusato di lesioni e violenza privata anche con l'aggravante dell'odio «razziale-regionale». Gli avrebbe detto: «Noi siamo della curva, qua i napoletani non li vogliamo». 

Davanti ai giudici della Sezione autonoma misure di prevenzione Beretta, difeso dal legale Mirko Perlino, ha riconosciuto «di aver fatto degli sbagli, legati alle problematiche di gestione dei gruppi organizzati della Curva Nord» e ha spiegato che avrebbe violato il Daspo in certi casi per la «necessità di tenere sotto controllo alcune situazioni». Il Tribunale nel disporre la misura di prevenzione, con tutta una serie di prescrizioni, scrive che Beretta è una persona che tende a passare «con estrema facilità alle vie di fatto, anche per risolvere, in modo estremamente brutale, questioni o divergenze insorte nel quotidiano».  

Giulia Zonca per “La Stampa” l'1 novembre 2022.

Oltre lo scandalo resta il vuoto che stavolta, se non altro, si vede. Si impone: la curva deserta di San Siro è l’equivalente della casa piena di oro e marmo dei Casamonica. Quel troppo che lascia il segno, l’impunità che diventa fotografia e si pianta nel giudizio della gente. Ogni eccesso stucca, stufa, stanca, tanto da portare all’insofferenza, al disgusto. 

Prima di Inter-Sampdoria i clan della curva facevano quello che gli pareva, come da tradizione. Dopo potranno anche continuare a farlo, solo che ora resta quell’immagine, chissà se a fare da stacco o da ponte.

Tocca all’Inter, come alle altre società, decidere e di certo non è una scelta comoda, ma resta, esiste. Oltre i comunicati retorici e le scuse ripetute opposte all’indefinibile responsabilità di un reato che viene addirittura immortalato in uno scatto. E stavolta è quello giusto. 

Si parla della stessa curva da cui è stato lanciato un motorino in un derby incandescente interrotto per violenza. È successo più di 20 anni fa, solo che da quell’album esce uno sfondo di fumogeni rossastri davanti al profilo di Materazzi appoggiato alla spalla di Rui Costa, praticamente un’immagine romantica.

Una spremuta di empatica malinconia. Le suggestioni non te le scegli, ti arrivano addosso e quella sera, che poteva portare allo sfinimento, è stata tramandata come un nuovo inizio. Fosse stato vero non saremmo qui oggi a guardare i seggiolini abbandonati al loro verde plastica. Non staremmo davanti a un pezzo di stadio sventrato come se ci fosse scoppiata una bomba dentro. È successo qualche cosa di molto simile e ci sta che la strafottenza faccia l’effetto di un’arma chimica. Puzza. Strozza. Toglie il respiro. 

Il boss della curva, pregiudicato e trafficante, è morto e i capetti che lo circondano sentono il bisogno di rendere omaggio, solo che non invitano i presenti a unirsi al flash mob. Li cacciano. Spettatori malmenati perché abbonati nel settore meno caro. L’arroganza del bullo si nutre di sguardi impotenti.

L’Italia ha una lunga storia di sbruffoni malavitosi, di delinquenti tollerati per un finto quieto vivere. La mafia ha prosperato così, con l’inchino al don, per strada, nel giorno della festa della santa, con il crimine formato famiglia, definita dal sangue o dal tifo è uguale. 

Gli Spada prendevano a testate in pubblico chiunque osasse denunciarli, avvertimento dato da un circolo che solo l’anno scorso un giudice ha definito «clan mafioso». Giusto in ottobre uno degli esponenti di spicco è tornato libero. Ostia ha sparato i fuochi di artificio. I Casamonica hanno fatto i loro comodi nel bel mezzo di Roma, tra papi e ministeri e più dei tanti squallidi reati ha potuto quella villa confiscata ed esposta.

Da temuta e rispettata, l’organizzazione è diventata insostenibile per i bagni barocchi incastrati in un lusso da re. Il calcio tollera più della giustizia, in un sistema dove ci si nasconde dietro a inafferrabili «non posso», dentro curve che altrove, in Europa, denunciano Mondiali da sfruttamento e fanno campagne di sensibilizzazione. Qui sono occupate dai clan, a cui ancora i club si inchinano nel giorno della festa della santa, cioè ogni maledetto fine settimana. 

Nella rispettabile Milano succede spesso, come se a tenere certa gente lì, sotto telecamere che non forniscono mai prove, si facesse quasi un servizio sociale. 

Franco Giubilei per lastampa.it l'1 novembre 2022.

L’uccisione del capo ultrà interista Vittorio Boiocchi, eliminato per la strada a Milano con sei colpi di pistola secondo modalità da criminalità organizzata, è un nuovo segnale della mutazione profonda che interessa le curve italiane da una ventina di anni a questa parte. 

Il 7 agosto del 2019 era toccato a Fabrizio Piscitelli, “Diabolik” per tutto il mondo ultras ma soprattutto per gli Irriducibili della Lazio, di cui era uno dei capi storici: ammazzato da un colpo di pistola alla nuca su una panchina di un parco romano da un killer albanese che sarebbe stato ucciso a sua volta per vendicare la morte di “Diablo”.

Lo scenario dell’omicidio riportava al giro del grande traffico di stupefacenti nella Capitale, lontanissimo dalla curva nord dell’Olimpico dove Piscitelli si era conquistato i gradi di comandante secondo le modalità classiche del tifo ultras: difendendo con le buone e con le cattive i colori della sua Lazio in casa, ma soprattutto in trasferta, dove si misurava la capacità di farsi rispettare di un gruppo. 

Ma anche se persone borderline e violente sono sempre state presenti nelle tifoserie di tutta Italia, si trattava pur sempre di comportamenti riconducibili al teppismo e agli scontri fisici. Qui invece il salto di qualità è clamoroso: non più botte, pietrate, cinghiate e, alla peggio, coltellate, che pure hanno causato vittime e feriti, ma armi da fuoco. 

Tutt’intorno, i gruppi ultras rispettivi fanno muro intorno ai loro morti: così come la Nord della Lazio aveva omaggiato il suo ex leader presentandosi compatta ai funerali e commemorandolo allo stadio con striscioni e una grande bandiera con la maschera di Diabolik, tributo condiviso dalla curva dell’Inter, legata agli Irriducibili da solidissimo gemellaggio, anche gli ultras nerazzurri hanno ricordato il loro Boiocchi. Stavolta in tempo reale, perché l’omicidio ha avuto luogo alle 20 e la curva interista ne è venuta a conoscenza durante la partita con la Sampdoria: il tempo che la voce si spargesse e gli ultras hanno smesso di cantare, ritirato gli striscioni e abbandonato la Nord. 

Movente, autore e contesto del delitto sono al vaglio degli inquirenti, ciò che è appurato sono i trascorsi della vittima, condannato per narcotraffico e rapina negli Anni 90. In tempi recenti, Boiocchi era ricomparso in curva nord in posizione di primissimo piano, un ritorno in grande stile che aveva provocato un discreto subbuglio, nonché uno screzio con un altro capo storico dei Boys dell’Inter, Franco Caravita, poi ricomposto con tanto di foto sui giornali.

Quanto all’escalation della violenza in certe frange del tifo ultras italiano, accanto agli omicidi ci sono aggressioni gravissime come quella subita dal milanista Enzo Anghinelli nell’agguato del 2019 nel centro di Milano, proiettili calibro 9 sparati in faccia cui sopravvisse per miracolo, preceduti da un pesante pestaggio subito poche settimane prima a San Siro a opera di tifosi della curva rossonera. Il tentato omicidio era collegato con gli interessi del tifoso negli stupefacenti. La sottrazione di 200 chili di hascisc al racket era stata associata dagli investigatori all’assalto avvenuto a Porta Romana. Più di dieci anni prima, nel 2007, un ultrà del Milan era stato gambizzato nel quadro di un riassetto dei poteri nella curva rossonera che riguardava la richiesta di biglietti e altri benefit alla società da parte di nuovi gruppi emergenti.

Questioni di droga e di bagarinaggio sono chiavi di volta per capire anche le infiltrazioni mafiose nella curva della Juventus che hanno portato ad arresti e allo scioglimento dei gruppi coinvolti. Anche qui c’è stato un morto, ma l’indagine per omicidio è stata archiviata perché è stato accertato il suicidio: è Raffaello “Ciccio” Bucci, l’ex ultrà juventino assunto dalla società per coordinare i rapporti coi tifosi nonché informatore dei servizi, volato giù dal cavalcavia di Fossano l’estate del 2016 all’indomani di un colloquio coi magistrati che indagavano sulla gestione dei biglietti da parte della curva. Quanto siano state determinanti le pressioni esterne perché si buttasse, forse non lo sapremo mai.

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2022.

Non conta il risultato del campo. Contano i soldi e gli affari fuori dallo stadio. Il racket dei biglietti, pretesi dalle società con tentativi di estorsione e minacce, e quello dei parcheggi, dei venditori ambulanti, dei paninari. Business trasversali spartiti tra i capi delle tifoserie di Inter e Milan. Affari criminali nei quali c'è il sospetto sia coinvolta anche una famiglia di 'ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Ma non c'è solo il calcio, perché i soldi arrivano anche dai concerti e dalla gestione della security e dei bar. 

La spartizione Una montagna di soldi, di cui gli «80 mila euro al mese» citati da Vittorio Boiocchi in una intercettazione dello scorso anno, sarebbero solo una piccola parte. Perché tutto sarebbe spartito equamente tra interisti e milanisti, in base alla partita o all'evento. Nemici (di facciata) sugli spalti e soci negli affari.

È questo lo scenario in cui potrebbe essere maturato l'assassinio dello «Zio», il 69enne capo ultrà nerazzurro Boiocchi. Le indagini della squadra Mobile puntano ai killer fuggiti in moto, ma sullo sfondo c'è lo scenario di un assalto criminale ai business intorno al Meazza. E non solo. 

Perché il nome di Boiocchi compare in un'inchiesta della procura di Milano su cui non è stato ancora messo un punto. Un'indagine che vede al centro la compravendita dei biglietti e l'ipotesi, solo ventilata, di possibili ricatti alla società nerazzurra. Quattro dirigenti dell'Inter sono anche finiti indagati con l'ipotesi di reato di associazione per delinquere prefigurando qualche forma di collaborazione per favorire i capi ultrà fornendo biglietti a prezzi agevolati o facendoli entrare gratis.

In realtà, per i quattro dirigenti lo stesso pm Leonardo Lesti ha chiesto l'archiviazione, accolta dal gip Guido Salvini, che concorda nel concludere che i quattro «erano in realtà vittime del comportamento minaccioso ed estorsivo dei capi dei tifosi e quindi semmai persone offese dei reati». Vittime quindi, di uno scenario già visto sull'altra sponda del Naviglio quando nel 2007 scattarono gli arresti per la tentata estorsione al Milan. Anche qui minacce e ritorsioni ultrà per ottenere biglietti dall'allora ad Galliani. 

Il ruolo di Boiocchi Un punto fondamentale di questo scenario è il 2018, quando viene scarcerato dopo 26 anni proprio Boiocchi. Lui torna in curva e si «autoproclama» capo della curva Nord.

In dote porta la fondazione dei Boys San e legami con cosche: i Fidanzati, i Di Marco, i Mannino. Boiocchi, secondo quanto circola sottotraccia negli ambienti del tifo, avrebbe spodestato i vecchi capi con azioni violente e spartito il business tra alcuni membri del nuovo direttivo della curva. A loro, tra cui Franchino Caravita, Renato Bosetti, Andrea Beretta, Giacomo Pedrazzoli, Emiliano Cimbali ed Enzo Lentini, avrebbe affidato la questione dei biglietti. Si vocifera di 2 mila tagliandi a partita pretesi (con le brutte) dalla dirigenza. Ieri Beretta e altri del direttivo sono stati interrogati in questura nelle indagini sul delitto.

L'affare dei parcheggi Ma il grande affare del Meazza sarebbe invece quello dei parcheggi. Da gestire in alleanza con i «cugini» rossoneri: Luca Lucci - l'ultrà della stretta di mano a Salvini - e Giancarlo Lombardi, detto Sandokan, tornato nella Sud dopo la vicenda dell'estorsione nel 2007. Sullo sfondo Loris Grancini, capo dei Viking della Juventus ma da sempre vicino a Sandokan. Con le sue pesanti amicizie alla Barona, quartiere della periferia milanese.

Trafficanti di cocaina e capi curva, mafiosi e manager delle società che hanno in concessione (dal pubblico) i parcheggi. E qui sarebbero coinvolte anche società di comodo vicine alla famiglia Iamonte della 'ndrangheta. Una torta redditizia, spartita, non estorta, in cambio di protezione e forse altri affari come il traffico di droga (in curva e fuori) e il controllo di altre attività. Un affare grosso. Così tanto da valere un omicidio?.

Boiocchi al dirigente dell’Inter: «Ci prendiamo le cose a forza». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022.

L’inchiesta ha visto archiviati quattro dirigenti dell’Inter «vittime del comportamento minaccioso ed estorsivo dei capi dei tifosi e quindi semmai persone offese dei reati». La pretesa di andare a prendere all’aeroporto i giocatori 

«Adesso cambiamo tattica, adesso le cose ce le prendiamo per forza e poi vediamo cosa succede», gridava al telefono Vittorio Boiocchi, il capo ultrà assassinato sotto casa, a un dirigente dell’Inter «reo» di non averlo avvisato dell’arrivo nel gennaio del 2020 del neoacquisto Young in aeroporto, dove la Curva vuole dare il doveroso «benvenuto» e scattare le prime foto con le sciarpe al collo.

Rapporti difficili, spesso tesi tra ultrà e club. Collusioni però no. Il terreno è quello, scivoloso e in penombra, dei rapporti delle società di calcio con il tifo organizzato. Finito nel mirino della Digos e poi della procura di Milano, che seguendo gli affari dei principali esponenti della Curva (compreso Boiocchi) aveva — come si è scoperto — indagato quattro dirigenti dell’Inter ipotizzando addirittura il reato di associazione per delinquere: l’ipotesi era che ci fosse stata qualche forma di collaborazione per favorire i capi ultrà fornendo loro biglietti a prezzi agevolati o facendoli entrare gratis allo stadio o consentendo il commercio di merchandising.

In realtà per i quattro dirigenti lo stesso pm di Milano Leonardo Lesti ha chiesto sin dal giugno 2021 l’archiviazione, accolta nell’ottobre dello stesso anno dal giudice per le indagini preliminari Guido Salvini, che concorda nel concludere che i quattro «erano in realtà vittime del comportamento minaccioso ed estorsivo dei capi dei tifosi e quindi semmai persone offese dei reati».

Nessuna collaborazione, dunque, ma la difficile gestione dei rapporti con il tifo organizzato. Al massimo — come scrive il pm nella richiesta di archiviazione — «una minimizzazione di un problema che da anni affligge le squadre di A pressate da soggetti che si autodefiniscono tifosi/ultras, ma che in realtà per finalità essenzialmente personali esercitano un vero e proprio potere di ricatto nei confronti dei dirigenti». I quali si vengono a trovare in una situazione scomodissima: «Devono riuscire a gestirle senza incorrere in violazione della normativa vigente, rispondere alla proprietà che, ovviamente, almeno a parole, non intende cedere alle suddette richieste, e alle autorità incaricate della gestione dell’ordine pubblico». Ed evitare il peggio: un dirigente, scrive sempre il pm, ha riferito di «subire la pressione psicologica derivante dalla caratura criminale di alcuni esponenti , in particolare di Boiocchi» e di temere «che la mancata soddisfazione delle loro richieste si potesse trasformare in comportamenti della Curva quali cori offensivi, lanci di monetine, accensione di fumogeni durante le partite, nocivi per la società».

Un lavoro ingrato. Nella memoria difensiva scritta dal compianto avvocato Francesco Arata e dal collega Leonardo Cammarata, si legge la piena consapevolezza della difficoltà del compito. «La società ha impostato il proprio rapporto con la tifoseria al rispetto rigoroso delle norme», si difende uno dei dirigenti. Che si sfoga: «Io più che dire di no a tutti non so che fare».

Però le pressioni della Curva ci sono. Si concentrano soprattutto sulla vendita dei biglietti («che venivano poi parzialmente rivenduti a prezzi maggiorati con una sorta di “bagarinaggio”»), l’organizzazione delle trasferte e gli ingressi allo stadio. Com’è avvenuto quando un capo ultrà (colpito da Daspo), scontento perché non erano permessi cambi di nome sui biglietti e (cosa sorprendente) perché non c’era l’abbonamento gratis a don Mazzi, dice a un altro: «Non mi vogliono vedere perché prendo il martello e gli sfondo la testa con un martello a sto co...”; o come quando, in assenza del numero richiesto di tagliandi per una trasferta a Lecce, vengono prospettati disordini: «Allora io vado giù con 200 persone senza biglietto». Non è facile neanche riscuotere i crediti degli abbonamenti venduti(«Io gli ho detto, i tempi non li detti tu», dice un ultrà al dirigente interista).

Ma le pretese dei tifosi sono varie: lo stesso Boiocchi, come detto, fa pressioni per essere avvisato in tempo dell’arrivo in aeroporto dei giocatori acquistati. «Ma che c... sta succedendo che noi non sappiamo come e quando arrivano i giocatori». Risposta dall’Inter: «Ma io non posso mica dirvelo...». E di fronte a ulteriori resistenze: «Adesso cambiamo tattica: adesso le cose ce le prendiamo per forza».

II pm Lesti conclude quindi che «anche la dirigenza interista era vittima del comportamento estorsivo dei capi tifosi, che li utilizzava esclusivamente per il raggiungimento di finalità di prestigio personale quando non di mero profitto privato». Altro che tifosi, dunque.

Pierpaolo Lio per corriere.it il 7 novembre 2022.

Ci sono gli striscioni dei «Boys San» e della Curva Nord. E il coro «Vittorio uno di noi», intonato dagli ultrà all’uscita del feretro. Chiesa San Materno a Figino: all’interno, lunedì 7 novembre si svolgono i funerali di Vittorio Boiocchi, il 66enne capo della tifoseria organizzata nerazzurra, ucciso in un agguato la sera del 29 ottobre alla fine dei portici, sull’altro lato della strada. 

Di fronte alla chiesa si ritrovano in oltre 600 persone, la stragrande maggioranza tifosi, comprese alcune delegazioni della curva gemellata laziale, dei cugini-rivali rossoneri e del Varese. 

Alla cerimonia in chiesa hanno presenziato solo i famigliari e i conoscenti più stretti. «È un dolore difficile da provare, il tuo debito con la giustizia lo avevi pagato. Magari avevi sbagliato ancora ma nessuno aveva diritto di toglierti la vita», sono state le parole di una delle tre figlie in ricordo del padre. «Niente più di quello che è successo può ferirci maggiormente - ha aggiunto -. Avevi dei veri amici, dei fratelli, i tuoi ragazzi e la tua curva. Quando ne parlavi non capivo, oggi sì. Hai lasciato tanto a tutti. Seppure pochi sono stati gli anni più belli».

Da ilnapolista.it il 7 novembre 2022.  

Il calcio italiano si ostina a non vedere: basta non aprire i giornali stranieri, restare alle rassegne stampa italiane. Però la figuraccia – l’ennesima – delle curve in mano alla criminalità, territorio di senza legge, ovviamente svilisce l’immagine della Serie A all’estero.

Nell’immediato dell’ultimo scandalo – ne aveva scritto El Paìs – e anche con qualche giorno di decantazione. E così ora tocca alla Süddeutsche Zeitung raccontare la “quinta Mafia” italiana, quella degli Ultras. È un’etichetta complicata da strappare, quella della Mafia.

L’autorevole quotidiano tedesco racconta della Curva Nord svuotata per la morte dello “Zio” Vittorio Boiocchi. Riassume la vicenda e – giustamente – ne sottolinea gli aspetti più indecenti. Quel “tempo in prigione considerato un onore in questo ambiente”, che “appartiene a ogni rispettabile curriculum di un boss Ultras”.

“26 anni, la sua fedina penale si leggeva come l’indice del codice penale: traffico internazionale di droga, organizzazione criminale, detenzione di armi, furto, sequestro di persona, estorsione. È rimasto in carcere fino al 2018, poi, appena uscito, ha ripreso il controllo della Curva”.

Magari per gli italiani è una cosa quasi normale, ma in Germania i tifosi, anche i peggiori ceffi (lì non se la passano bene con gli ultras), difficilmente hanno curricula del genere. 

“E così – scrive la SZ – l’Italia torna a dibattere sui suoi ultras criminali, per lo più neofascisti, memorabilmente potenti e tuttavia costantemente sminuiti. Politica, media, tifosi di spicco: tutti sono indignati da un po’, anche quello è un classico. Non ci vuole mai molto prima che l’indignazione svanisca di nuovo”.

“Il club stesso ha impiegato due giorni interi per trovare le parole giuste, ma poi non le ha trovate. Il comunicato dell’Inter è rimasto generico, anche un po’ timido. Uno è contro la violenza, sempre. Chiaro. Ma anche tu non vuoi pasticciare con i sostenitori organizzati, temi il loro potere. 

La Süddeutsche fa sua la definizione dell’Espresso “Quinta Mafia”, “come se fossero in lista con la Cosa nostra siciliana, la ‘ndrangheta calabrese, la camorra campana e la pugliese Sacra Corona Unita. Potrebbe essere un’esagerazione. Ma l’analogia si adatta abbastanza bene”.

“Gli ultras lavorano con modalità simili a quelle della criminalità organizzata: estorsioni, intimidazioni, violenze, controllo del territorio. Il loro dominio sono gli stadi e le immediate vicinanze, dove decidono cosa funziona e cosa no, quando e come cantare, chi viene ricordato, chi può vendere e chi no”. 

La Süddeutsche richiama per forza i collegamenti dei capi-ultrà con le organizzazioni criminali. Non solo Baiocchi, ma anche il milanista Luca Lucci “famoso a livello nazionale per aver incontrato il vicepremier in carica Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno”. E il laziale Diabolik, Fabrizio Piscitelli. Il processo Last Banner sui Drughi della Juve e la ‘Ndrangheta. 

“Tutto scorre e tutti sanno cosa sta succedendo. Manca la volontà politica di unire le forze dello Stato, della polizia e dei club nella lotta alla quinta mafia”.

“Anche allo Stadio Olimpico di Roma gli ultras si vedono padroni di una zona franca, una zona franca a loro disposizione. In entrambe le curve: Curva Nord della Lazio e Curva Sud della Roma. Gli steward con le loro giacche giallo brillante guardano semplicemente cosa sta succedendo da una distanza di sicurezza, chi può biasimarli. Sono solo comparse, mal pagate”.

Inter, nella curva degli ultrà: «Boiocchi per noi resta un esempio». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.

Milano, nella curva degli ultrà dell’Inter: «Chi ci condanna ci fa solo venire la nausea». Le regole di tifo: «Se non salti, non canti e non insulti allora vattene via: qui non siamo mica a teatro»

A cento metri dal «baretto», il ritrovo dei seimila ultrà, i ragazzi se ne stanno come antichi strilloni: fermi col sorriso sotto la pioggia lenta mentre tutt’intorno gli altri 63 mila spettatori di Inter-Bologna vanno di fretta verso i cancelli, le mani poggiate su cappucci e cappelli, i mocassini a evitare le pozzanghere dove rotolano resti di panini straunti imbottiti di cipolle e peperoni; sì, strilloni ché in fondo distribuiscono un’edizione straordinaria, quantomeno nei contenuti del magazine di quattro pagine della Curva Nord. Dei tanti passaggi, questo: «Non negateci la purezza». Del resto «abbiamo le nostre regole». Così succede «da che mondo è mondo». Nei secoli dei secoli, militanza e fratellanza a oltranza.

Le 20.45, secondo anello verde dello stadio Meazza.

«Ciao zio»

Di sera lo stadio regala il meglio della propria anacronistica bellezza: che tormento questa lunga fase di passaggio dei tornelli, che pesantezza questi gradoni, che pietà questi gabinetti. Partita di campionato dentro la tribù della Curva. Ebbene: se non urli devi urlare, se non salti devi saltare, se non insulti devi insultare, insomma se pensi d’essere a teatro, fratello, ci ripete infastidito ogni vicino sia egli a fianco, dietro o davanti, tornatene a casa. E beninteso all’ode tributata allo «zio», che non è affatto la bandiera Giuseppe Bergomi, 519 presenze, ma il pluripregiudicato capo degli ultrà Vittorio Baiocchi ucciso a fine ottobre, 26 anni di galera, bisogna partecipare. Sentimento, commozione. Un comune grazie. Testa alta, mano sul cuore. Baci al cielo. «Da noi nessuno verrà discriminato per quello che è fuori dallo stadio».

Gli altri settori fischiano. Ultrà, Boiocchi... Ma basta, basta, basta. E già. Ci schifate ma tanto «siamo quelli che senza chiedere niente a nessuno fanno le coreografie che vi salvate come sfondo su computer e cellulari». Ah, i cellulari: altrove, ovunque altrove, sono puntati sul campo per filmare la partita senza godersi la partita medesima; qui no, qui sono in tasca, al diavolo i telefonini e quegli «sceriffi da social che ci hanno condannato fino alla nausea».

Gli umarell

La Curva vista e vissuta prima, durante e dopo (con annessa puntata proprio là, nella periferia della periferia, il quartiere Figino dove Boiocchi abitava e i killer l’hanno colpito). Due finanzieri, un bagarino, degli ambulanti. Completate le pacifiche operazioni di ordine pubblico, i finanzieri scelgono di farsi fare un panino alle bancarelle. O meglio, forse in considerazione dei prezzi che variano dai 6 euro in su, ne smezzano uno. Incrociano con gli occhi un bagarino, e chissà chi l’ha arruolato: poveretto, ha insormontabili problemi a parlare, lo aiutiamo a illustrare i prodotti che lui stesso offre (biglietti dal primo al secondo al terzo anello, cifre trattabili). Tre senegalesi che provano a piazzare braccialetti colorati di nerazzurro domandano monete per i caffè. Sfrecciano dei ragazzini, impennano sulle biciclette dello sharing che mollano lanciandole come stunt-man contro la recinzione saltando all’ultimo; un poliziotto racconta che sono presenze abituali, vengono dalle case popolari di San Siro, si mischiano per scippare i tifosi e pedalare via, in fuga.

Seduti su sedie da campeggio, in pausa, i commercianti delle bancarelle — non uno scontrino, un fluire di guadagni in nero nei quali peraltro, stando alle indagini, Boiocchi sguazzava inseguendo l’ossessione per il denaro —, ecco i commercianti cenano, mangiando non quello che vendono, per carità, ma insalate e zuppe cinesi. Dopodiché toh, ci sono anche gli umarell da stadio: amici che camminano intorno al Meazza, chiacchierano osservando manco fossero i cantieri i furgoni delle postazioni televisive, i blindati della polizia, i macchinoni dei ritardatari che s’infilano nei parcheggi (altro fluire di soldi in nero) lungo i cui perimetri, nelle aree laterali delle soste ufficiali a pagamento, i controllori staccano multe. Milano è sempre Milano.

Senza bandiere

Il questore Giuseppe Petronzi aveva ordinato niente striscioni, niente bandiere, niente di niente se non la presenza fisica, e la Curva obbedisce pur rimarcando, nel magazine, i racconti in malafede alla pirotecnica ricerca di scoop. A cosa si riferiscono? Ai post di Twitter, Instagram e Facebook relativi a Inter-Sampdoria, in contemporanea cioè con l’apprendere dell’omicidio di Boiocchi, e con la decisione di svuotare la Curva per lutto: taluni non ultrà avevano raccontato d’esser stati picchiati, adulti oppure bimbi senza distinzione, in quanto refrattari ad andarsene… Le notizie erano divenute tali senza conferme, i successivi accertamenti non avevano documentato il ricorso a sistematici pestaggi di massa. Qualche episodio comunque è avvenuto, ma più che altro «imputabile a un’imperfetta gestione della situazione. Ce ne scusiamo». Intanto in campo l’Inter fa l’Inter, affonda il Bologna perfino con fastidiosa facilità a ripensare alle cinque sconfitte in campionato. Pazienza, la fede calcistica è mistero e dolore con inusitata fiducia nel domani. Auto-definizione della Curva: «Siamo testuggine nella tempesta e volto fiero nell’avanzare».

Avanzano colossali cannoni di marijuana, bottigliette di whisky, un generale tanfo di sudore da un’ora di corsa al parco nonostante il freddo umido; avanza un tenace odio contro quelli del primo anello rosso, considerati dei debosciati convinti d’essere a teatro e lesti ad andarsene in anticipo, indifferentemente rispetto all’esito della partita pur di evitare il traffico al ritorno, d’altronde il milanese è sempre il milanese. Di nuovo fuori dallo stadio: i commercianti rimettono il grembiule e attaccano a friggere; frequenti le casse acustiche che rimandano a volume-bomba melodie napoletane; dietro al bancone si alternano anziani e ragazze, albanesi, romeni, coppie, volti stanchi; chiediamo in giro, in verità quale esercizio retorico, di Vittorio Boiocchi. «Chi?». Appunto.

Le indagini

Conviene spostarsi nella sua Figino, minuscola comunità con anima da paese; bello il bar «Sahary», che s’apre addirittura con una fornita libreria e inizia da una porta che sembra l’introduzione a un covo carbonaro; all’interno, vecchietti coi vestiti della festa consumano una torta fatta in casa, tre giovani in ciabatte e tuta conversano in arabo, due signore si consolano a vicenda evocando debiti su debiti, un gruppo di altri vecchietti gioca a carte sorseggiando un bianchino.

Boiocchi era un cliente fisso. Anche il 29 ottobre. Quando uscì, s’incamminò nella strada a senso unico e incrociò i killer. Che lo marcavano, che l’aspettavano, che se ne sono andati ignorando forse d’avere un insospettabile alleato: le telecamere comunali. Son queste le occasioni per narrare la distanza tra propaganda e reale: la maggioranza delle telecamere analizzate dagli investigatori difatti non funziona o ha prodotto filmati di penosa qualità. Una moto però è stata isolata, e alla scoperta seguono le azioni per mappare gli spostamenti cercando frame più dettagliati che permettano di identificare la marca, il modello, l’anno di immissione sul mercato, pezzi di targa nell’eventualità di un veicolo rubato. Non facile, non impossibile, pur se Boiocchi apparteneva a vaste e variegate sceneggiature criminali, una miriade di contatti balordi e frequentazioni con pezzi grossi, più della ’ndrangheta che di altre organizzazioni mafiose. Killer da fuori, killer da lontano?

Mazzi di fiori veri e finti, bandierone, sciarpe sull’asfalto della morte. Il Meazza, a cinque chilometri, rimane vicino. Con i suoi ultrà. Che han voluto così scrivere due righe del magazine: «Vittorio Boiocchi è il capo che si è preso la Curva dopo un burrascoso passato (e magari presente)».

Magari presente.

Bisogna fermare le «Curve», dove oggi lo Stato e le regole non esistono. Giovanni Capuano su Panorama il 31 Ottobre 2022.

L'episodio di sabato sera, con i tifosi obbligati con la forza a lasciare curva nord di San Siro dopo la notizia della morte di Vittorio Boiocchi (storico capo degli ultras) mostra che lasciare campo libero a certa gente sia del tutto sbagliato 

Quanto accaduto a San Siro, con lo sgombero forzato della Curva Nord ordinato dai capi ultras per la morte del vecchio leader Vittorio Boiocchi, sorprende solo chi ipocritamente pensa che le curve degli stadi italiani siano territorio sotto controllo dello Stato e non extra territori in mano a manipoli di facinorosi. Non è così, purtroppo, e anche le recenti inchieste che in alcune città hanno svelato i rapporti pericolosi tra ultras e grande criminalità organizzata non hanno cambiato il quadro. A Milano è successo quello che sarebbe potuto accadere ovunque: in curva comandano i ras e non c'è nessuno che abbia la forza e la volontà di opporsi al sistema.

I racconti di chi è stato fatto uscire a forza, anche se non aveva nessuna intenzione di abbandonare lo stadio, hanno riempito i social network e non - da quello che risulta in Questura - i moduli dei commissariati. Non è detto che accada, perché il clima in quel luogo senza controllo che sono le curve degli stadi italiani è qualcosa che richiama alla legge del più forte e non è scontato che ci sia chi abbia voglia di esporsi con il proprio nome e con la propria faccia. Fatti recenti dimostrano che non serve nemmeno e che le tecnologie in mano ai club e alle forze dell'ordine sono sufficienti per ricostruire l'accaduto e identificare gli eventuali responsabili, procedendo poi a denunce e Daspo perché restino lontani dagli stadi. Ansa Il problema, però, è a monte. Come è possibile che per un periodo di tempo di almeno una ventina di minuti ci siano state attività di svuotamento di una fetta di San Siro, coinvolgendo migliaia di persone, senza che nessuno ne prendesse il controllo diretto se non i capi della curva? A osservare le immagini di InterSampdoria non si vedono steward e non ci sono forze dell'ordine che, per norma, vigilano sull'esterno lasciando alle figure professionali (?!?) dei club ciò che accade all'interno. Risulta dai racconti che steward e poliziotti in tenuta antisommossa non abbiano mosso un dito per evitare che le intimidazioni (o peggio) si verificassero in curva salvo poi fare muro per impedire alle migliaia di sfollati contro la propria volontà di trovare posto in altro settore dello stadio. Che risponde a una logica, essendo San Siro praticamente tutto esaurito e dovendo evitare un pericoloso effetto calca, ma che crea un cortocircuito impossibile da spiegare ed accettare. L'indignazione del giorno dopo non serve a nulla. E' utile, invece, fare due ragionamenti che richiamano alle vere responsabilità nella gestione dell'ordine pubblico all'interno degli stadi italiani, così che si passi dalle parole ai fatti. Il primo: l'inchiesta sulle presenze della 'ndrangheta allo Stadium, oltre ad aver portato la Juventus su tutte le prime pagine dei giornali, hanno dimostrato che un club può strappare i lacci del rapporto con i propri ultras. Come? Denunciando, ricevendo la sponda delle istituzioni e pagando un prezzo alto fatto di scioperi, clima freddo allo stadio, settori meno pieni e incassi ridotti. Costa (tanto) ma si può fare e non solo sull'onda di un'indagine per fatti gravissimi. In Italia non c'è quasi nessuno che compie questo salto. Per intenderci, gli ultras della citata Curva Nord interista pagano il loro abbonamento 269 euro mentre i normali tifosi della curva opposta (stessa visibilità e la scomodità di dover traslocare per lasciare il posto alla Sud milanista nel derby) 325. Perché? Chi autorizza lo sconto alla frangia più calda ma anche meno controllabile? Punto due: gli steward sono spesso ragazzi o padri di famiglia poco formati e sottopagati che non hanno figura giuridica da pubblici ufficiali e non intervengono se la situazione si fa tesa. Tanto meno mettendosi contro i capi delle curve. Semmai sono forti con i deboli, cioè i normali tifosi che a volte vengono ripresi anche solo perché si scambiano i posti. E' evidente che l'esperimento di lasciare ai club la gestione interna dell'ordine pubblico togliendo la polizia dalle curve è fallito. Bisogna prenderne atto e ripristinare la legalità. Il nuovo ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, si faccia fare una relazione su come vanno le cose in questo strano mondo senza regole e prenda provvedimenti così come ha fatto per il rave party abusivo di Modena. Non si può continuare a fare finta che le curve siano un problema risolto e cavarsela poi con qualche rimborso postumo a chi è stato vittima dei soprusi. Tutto molto ipocrita, mentre lo spettacolo della Nord sgomberata per commemorare un vecchio capo ultras, pregiudicato e assassinato in chissà quali circostanze, fa il giro del mondo.

Ultras e curve, società da milioni di euro di fatturato l'anno.  Linda Di Benedetto il 4 Novembre 2022 su Panorama.

Biglietti, trasferte, droga, merchandising, persino la prostituzione. A Roma, come a Milano le attività criminali delle tifoserie organizzate portano a guadagni inaspettati

L’ennesimo fatto di cronaca che lega la criminalità alle tifoserie degli stadi avvenuto a San Siro ha di nuovo riacceso le luci sugli ultras del calcio italiano, la loro forza e soprattutto i loro traffici illeciti che portano a guadagnare fiumi di denaro. Persone in gran parte pregiudicate (circa un 30% secondo stime di polizia) e che nel caso della partita Inter-Sampdoria hanno obbligato migliaia di tifosi (a suon di minacce) a lasciare la curva dopo avere appreso dell’agguato in cui è rimasto ucciso Vittorio Boiocchi capo degli ultrà interisti freddato da due killer in moto. Boiocchi, tanto per raccontare il personaggio, non era un stinco di Santo, anzi; aveva scontato 26 anni di carcere per reati di ogni tipo e si vantava di guadagnare con le varie attività fuori e dentro allo stadio «80 mila euro in contanti, al mese». Una carriera criminale comune a molti ultras come Fabrizio Piscitelli capo degli “Irriducibili” detto Diabolik ucciso in strada o a di Gennaro De Tommaso, detto «Genny ‘a carogna» della curva A del Napoli con precedenti gravi e proveniente da una famiglia di camorristi. Ma nonostante da sempre fatti come quelli di San Siro non siano nuovi alle cronache, continuano a stupire ogni volta, destando clamore mediatico e preoccupazione nell’opinione pubblica. Il fenomeno della criminalità nelle curve è presente in tutti gli stadi italiani. A Roma ad esempio la situazione non è poi così diversa da Milano. Anzi, è identica in tutto e per tutto. Il giro è il solito: minacce di comportamenti ed azioni illecite (e dannose per le società con lo stadio a rischio squalifica o chiusura e conseguente perdita dei milioni di incasso) per ottenere il controllo della vendita di migliaia di biglietti per le partite casalinghe e soprattutto per le trasferte. Insomma, il bagarinaggio legalizzato. I biglietti infatti vengono acquistati al prezzo di costo e poi rivenduti ai tifosi con un immancabile ricarico. Difficile quantificare ma chi in Questura si occupa di questo particolare settore di indagine non fatica a stimare in 100 mila euro gli introiti per una singola trasferta, questo tra biglietto e treno (o aereo). Un pacchetto viaggio tutto compreso organizzato dai capi della curva. E dato che le trasferte sono 25 l'anno (tra campionato, coppa Italia e competizioni europee) si arriva in fretta ad un minifatturato di 2,5 milioni di euro. Il guadagno sui biglietti avviene anche per le gare casalinghe (stiamo parlando di migliaia di tagliandi per altri 25 incontri. Ipotizzare un altro milione di introiti (qui il trasporto non è compreso) non è molto lontano dalla realtà.

Ma il potere e gli interessi economici degli ultras non si fermano a questo; si va oltre, ci si allarga a tutto quello che il mondo dello stadio offre. Ecco quindi la gestione di parte del merchandising (non ufficiale), la percentuale sui parcheggiatori abusivi, gli interessi sui famosi baracchini che offrono cibo e bevande. Non solo. Dentro lo stadio poi si arriva ad offrire anche diversi optional per regalarti una partita la più divertente possibile. Non manca infatti lo spaccio di sostanze stupefacenti (altri soldi) e persino la prostituzione. Si, avete capito bene. Allo Stadio Olimpico esisterebbe anche un micro giro di attività sessuali a pagamento e che avviene nel segreto dei bagni. Insomma, attività criminali e soprattutto economiche a tutto tondo che potrebbero anche arrivare a 7-8 milioni di incasso globale l'anno, a conferma di quanto raccontato da Boiocchi, uomo (raccontava lui nelle intercettazioni) da un milione netti in contanti l'anno. Traffici noti a tutti e per i quali la polizia in passato ha preso provvedimenti incisivi come la separazione delle curve in più settori in modo da rompere il controllo da parte delle organizzazioni che si dividono le curve degli stadi dove tra i tifosi c’erano soggetti con gravi precedenti penali o comunque con storie personali contraddistinte da comportamenti aggressivi e antisociali, pronti a dare luogo a violenze, fuori dello stadio o sugli spalti, contro la tifoseria avversaria o contro le forze dell’ordine oltre che a gesti antisportivi e cori razzisti. La gravità della situazione descritta suggerisce che ci sono due modi per far finire tutto questo. Il primo è che le società rompano i rapporti con i gruppi ultras ed aprano le curve alle famiglie, come ha fatto la Juventus. La seconda è che la Polizia ritorni a presidiare negli stadi con un impiego di forze maggiore.

Violenza, racket e affari: cambiano i governi ma gli ultras restano i padroni indisturbati. L’omicidio Boiocchi e il lutto imposto a migliaia di tifosi a San Siro dicono che lo Stato ha rinunciato a lottare contro i clan della curva. Il neoministro Abodi annuncia provvedimenti, ma la storia recente dice che la tolleranza e qualche Daspo non hanno ottenuto risultati. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 31 ottobre 2022.

Con la quinta mafia, gli ultras, funziona come con tutte le mafie. Da un lato, c’è chi vuole trattare il fenomeno come si tratta il crimine organizzato e ritiene insufficienti i Daspo, i divieti di ingresso allo stadio. Dall’altro, ci sono i negazionisti e, soprattutto, i riduzionisti, quelli che guai a confondere il tifo sano con pochi facinorosi.

Poi capita che nella periferia ovest di Milano, a Figino, un signore di 69 anni di cui 26 trascorsi in carcere venga abbattuto a colpi di pistola alla vigilia di Inter-Sampdoria. Il modus operandi dell’esecuzione non lascia dubbi sulla professionalità e, molto probabilmente, l’intracciabilità degli assassini.

Dal punto di vista penale, l’omicidio di Vittorio Boiocchi, storico capo della curva interista sottoposto a Daspo, è in cima alla lista dei reati. Dal punto di vista sociale, è molto più grave quanto è accaduto nella curva Nord di San Siro appena si è sparsa la notizia dell’agguato. In omaggio al loro vecchio ras, benché ormai mal tollerato, i capitifosi hanno sgomberato manu militari un intero settore dello stadio aggredendo chi pretendeva di rimanere a vedere la partita. Una violenza particolarmente vigliacca perché ha coinvolto genitori picchiati davanti ai figli minorenni. Ma una violenza significativa perché la prima manifestazione del crimine organizzato sta nell’occupazione e nel controllo di un territorio.

Il caso Boiocchi quindi ha due facce. Quella poliziesca e processuale, per ora contro ignoti. Il movente c’è già. Boiocchi si vantava dei suoi guadagni al telefono, pur mettendo in conto di essere intercettato. A suo dire, il pizzo su parcheggi e chioschi di panini gli fruttava 80 mila euro al mese, quasi un milione di euro all’anno. Decisamente troppi anche per un capo ultras che non ha voluto, o non ha saputo, riconoscere i rapporti di forza con le altre mafie interessate ai business collaterali di San Siro.

Il secondo aspetto è politico e ha già sollecitato l’allarme del neoministro dello sport Andrea Abodi. In un governo che prende a manganellate gli studenti in corteo e che spezza le reni ai rave party, è quanto meno incoerente combattere la quinta mafia con i Daspo o, peggio, con la promessa che gli stadi nuovi cureranno tutti i mali. Non è successo a Torino dove, a dispetto dello sfolgorante Stadium sponsorizzato dal gigante assicurativo Allianz, la gestione delle biglietterie era infiltrata da elementi dei clan calabresi onnipresenti al Nord. Anche il gruppo storico dei Drughi, dopo il misterioso suicidio del capo Raffello “Ciccio” Bucci, è finito nell’area di influenza del clan Mancuso secondo le dichiarazioni di un pentito del vibonese. L’obiettivo era portare la droga dentro l’impianto.

Per essere chiari bisogna aggiungere che il problema ultras ha toccato tutti i maggiori club italiani. Poco prima dello scorso Natale è stato arrestato per traffico di stupefacenti Luca Lucci, 41 anni, leader della curva milanista in rapporti di cordialità con l’allora ministero dell’Interno e vicepremier, il cuore rossonero Matteo Salvini, oggi di nuovo vicepremier e titolare delle infrastrutture nel governo di Giorgia Meloni. Ad aprile del 2019, in una zona centrale di Milano, ha rischiato grosso Vincenzo Anghinelli, ultras rossonero e broker della droga, salvo per miracolo dopo quattro colpi di pistola sparati da sicari in moto. Tre anni dopo l’agguato è senza colpevoli.

Nella capitale c’è una vasta casistica su entrambi i fronti del derby. Dal lato della Ss Lazio, è durata anni la vicenda degli Irriducibili e del loro capo carismatico Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, assassinato tre anni fa per questioni di droga dopo anni di contestazioni contro il presidente del club, e neosenatore, Claudio Lotito per controllare merchandising e biglietteria. Una volta pacificato il rapporto con il proprietario, finito comunque sotto scorta per le minacce, la Nord dell’Olimpico ha avuto modo di distinguersi per la distribuzione di figurine di Anna Frank in maglia giallorossa nell’ottobre di cinque anni fa.

Dal lato dell’As Roma, i padroni della Sud hanno tentato di ricattare Franco Sensi quando l’imprenditore ha rilevato i giallorossi dopo i disastri di Giuseppe Ciarrapico negli anni Novanta. La pagina più nera risale al 3 maggio 2014 quando, prima della finale di Coppa Italia fra Napoli Fiorentina, l’ultras romanista Daniele De Santis ferì a morte il tifoso azzurro Ciro Esposito. A garantire l’ordine pubblico intervenne il capo dei Mastiffs napoletani Gennaro De Tommaso, meglio noto al grande pubblico come Genny ‘a Carogna, immortalato dai fotografi sulla balaustra dell’Olimpico mentre trattava con i tutori dell’ordine sotto gli occhi dell’allora presidente del Consiglio, e tifoso viola, Matteo Renzi.

De Tommaso è stato arrestato, processato e assolto per la maglietta “Speziale libero”, dedicata al tifoso del Catania accusato dell’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti nel 2007 prima di un derby con il Palermo. Poi nel 2017 per Genny sono arrivati un altro arresto, stavolta per traffico di droga, e una condanna a vent’anni. In carcere ha iniziato a collaborare con la giustizia e nel 2020 la sua pena è stata ridotta in appello a sette anni.

La trattativa di Napoli-Fiorentina del 2014 ricorda un Genoa-Siena del 2012 quando i tifosi della squadra più antica d’Italia obbligarono i calciatori a togliersi la maglietta e l’attaccante Giuseppe Sculli, nipote in linea diretta del boss calabrese Giuseppe “Tiradritto” Morabito, andò sotto la curva di Marassi a placare gli animi con la maglietta addosso, in quanto unico degno di rispetto. Secondo il collaboratore di giustizia Domenico Ficarra, coinvolto nell’inchiesta “Cavalli di razza” insieme a Davidino Flachi, il figlio del boss Pepè, lo jonico Sculli è uno dei nuovi padroni di Milano in buona compagnia con il tirrenico Mommino Piromalli, della famiglia mafiosa di Gioia Tauro.

Questo elenco parziale non tiene conto dei rapporti diretti di certe curve con l’ultradestra ma restituisce una panoramica di reati molto ampia e del tutto sovrapponibile a quella di qualunque cosca. C’è la violenza fino all’omicidio, l’estorsione sulle attività commerciali, il traffico di merci falsificate, la distribuzione della droga che gira nelle curve e nei locali eleganti delle città italiane. Del resto, gli ultras non si limitano da tempo a dedicare striscioni ai diffidati. È considerato normale che le curve dedichino cori affettuosi ai carcerati e invochino la loro liberazione.

Mentre si puniscono, anche troppo tardivamente, i cori razzisti, sull’esaltazione dei condannati il sistema si gira dall’altra parte. Il motivo? Senza ultras non è vero calcio, come dimostrerebbe il periodo di lockdown in pandemia che, invece, è stata l’ennesima occasione mancata per tirare una linea di demarcazione netta rispetto alla quinta mafia.

E dove una volta le società finanziavano sotto banco le trasferte, regalavano biglietti e permettevano di fatto la gestione del merchandising, oggi ci sono gli acronimi inglesi come Slo o supporter link officer, l’ufficiale di collegamento con il tifo organizzato che, come minimizza con l’Espresso uno di loro sotto garanzia di anonimato, aiuta chi non ha i soldi per accompagnare la squadra in trasferta.

Ma chi pratica le curve sa che ormai gli amministratori delegati del tifo non si limitano a guidare i cori spalle alla partita ma danno ordini su come si deve vivere il match, quando si deve cantare e che cosa, quando si deve saltare e quando bisogna mettersi a lutto. Chi pensa di avere diritti in quanto spettatore pagante o i poveri steward messi lì per quattro soldi e timorosi persino di recuperare un pallone calciato troppo alto non ha capito come funziona e chi comanda. Per questi ingenui sabato 29 ottobre a San Siro gli ultras interisti hanno tenuto un corso di aggiornamento a pugni e calci. In molti altri stadi sarebbe stato lo stesso.

Juventus, la quinta mafia sono gli ultrà. La società con più scudetti d’Italia tratta con il tifo organizzato sapendo di piegarsi a criminali con precedenti penali fino all’omicidio. Che questi criminali siano o non siano manovrati dalla ’ndrangheta è solo questione di tempo, scrive Gianfrancesco Turano il 4 aprile 2017 su "L'Espresso". L’Italia del calcio si desta al campionato dopo la pausa per la Nazionale. Si ridestano anche le polemiche sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in curva con Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, che vuole sentire il presidente bianconero Andrea Agnelli e il capo della polizia, Franco Gabrielli. Il match si annuncia caldissimo. Ha aperto le ostilità Michele Uva, direttore generale della Federcalcio, persona equilibrata, competente, per bene. «Forse per il paese ci sono problemi più urgenti che la questione dei biglietti dati dai club a una curva», ha dichiarato il dg dal ritiro della Nazionale prima del match con l’Albania dove gli ultras hanno fatto sospendere la partita per otto minuti lanciando qualsiasi cosa gli sia stato consentito di portare dentro lo stadio, ossia di tutto. Anche una persona competente, equilibrata, per bene come Uva ha il diritto costituzionale e umano di dire una fesseria. Perché questa è una fesseria colossale. Certo che ci sono problemi più urgenti dei biglietti agli ultras. Ci sono l’aids, i rifugiati che affogano, il buco nell’ozono e la scissione del Pd. C’è il non sapere chi siamo e dove andiamo. Il punto è che la Commissione parlamentare antimafia non si occupa di malattie, di ecologia, di scissione dell’atomo politico e di filosofia teoretica. Si occupa, pensa tu, di mafia. E gli ultras come li conosciamo in Italia, in Europa, in Sudamerica, sono spesso o sempre organizzazioni criminali di tipo mafioso. La magistratura se ne è dovuta occupare infinite volte per un elenco di reati che non lascia nulla di intentato rispetto al codice penale. Gli ultras non sono la frangia minoritaria di un tifo sano. Sono una realtà a parte, con riti di iniziazione, capacità di intimidazione, armi. E con un circuito di business spesso o quasi sempre illecito. Gli ultras della Juventus, i Vikings nel caso di specie, hanno la capacità di lasciare un settore dello Stadium vuoto durante la partita contro l’Inter il 5 febbraio scorso per mostrare chi comanda in curva. L’inchiesta della Dda di Torino sulle infiltrazioni della ’ndrangheta allo Stadium chiarirà le responsabilità dei dirigenti bianconeri. Forse il presidente Andrea Agnelli non ha incontrato un esponente del clan Dominello. O forse lo ha incontrato, ma non da solo e senza sapere chi era. O forse sapeva chi era ma sapeva anche che Rocco Dominello era incensurato, dunque meritevole della presunzione di innocenza. Il punto è che non è questo il punto. La Juventus, non l’ultimo club della Terza Categoria, aveva ceduto in franchising agli ultras la gestione dei biglietti di curva sud. È questo il punto. La società con più scudetti d’Italia, con uno stadio di proprietà, risultati agonistici e finanziari ottimi, abbondanza di steward pagati con fior di voucher, tratta con il tifo organizzato sapendo di piegarsi a criminali con precedenti penali fino all’omicidio. Che questi criminali siano o non siano manovrati dalla ’ndrangheta è solo questione di tempo. Il crimine organizzato maggiore finisce sempre per prendere il controllo delle bande minori. L’avvocato della Juve Luigi Chiappero ha detto all’Antimafia che tutti i club scendono a patti con gli ultras. Già questo merita un’inchiesta a tutto campo della Commissione. Un’ultima osservazione di natura economica. È o non è importante sentire dal legale di una società quotata che, in pratica, gli ultras sono una parte correlata del business? A quando Genny ’a carogna & friends nei comunicati della Borsa?

Calcio e mafia, parla Dino Zoff. «Oggi è tutto esagerato: la tensione, i gesti in campo, i soldi.  E così si perde ogni bellezza». Parola del portiere campione del mondo, scrive Floriana Bulfon il 31 marzo 2017 su "L'Espresso". Responsabilità e dignità disegnano la sua area di rigore. Quella da difendere sul campo e nella vita. Sono i giorni di un calcio malato, imprigionato in una ragnatela di affari e di interessi criminali. Chiamata in causa è proprio la sua Juventus per i presunti rapporti tra la dirigenza ed esponenti della ’ndrangheta annidati nelle curve. Tifoserie organizzate, bagarinaggio e il calcio che dimentica la poesia e implode in se stesso. «Non conosco i dettagli dell’indagine e per questo, come è mia abitudine, non commento. Vero è che prima le società hanno supportato le curve per sostenere le squadre e poi nel tempo gli hanno permesso di influire sulle scelte. Non credo però che abbiano un potere così determinante. E comunque non diverso da quello di trenta anni fa. Però mi sembra di assistere alla decisione di ridurre il limite di velocità a trenta chilometri orari per quelle strade piene di buche, invece di intervenire sul problema riparandole. In questo Paese accade. Fuori e dentro il mondo del pallone». A parlare è Dino Zoff, il portiere nazionale. Quattro Mondiali, 40 anni di calcio tra i pali e la panchina d’allenatore. Per tutti SuperDino. Più semplicemente, una persona seria.

«Con mio padre non si parlava tanto, le regole erano quelle, se avessi trasgredito mi sarei ritrovato fuori dalla porta». Mariano del Friuli, case in fila sulla provinciale e filari di vigna, ai margini dei confini, in una terra di trincea e di mani indurite dal lavoro nei campi. «La scelta era tra studiare e imparare un mestiere. E poi se c’era tempo, c’era anche il calcio. Perché era considerato un gioco, non un lavoro. Un gioco autentico». Fatto di poesia e di essenzialità, dove non si misura tutto in gol e parate. «L’esaltazione di una singola vittoria, sbandierata in maniera esasperata, svilisce la sostanza del calcio. Gli fa perdere la bellezza». È lo Zoff di sempre, ma nel suo consueto rigore si intravede una serena consapevolezza. Non è vero che parla poco, è che ricerca con misura le parole. Gli dà un senso per esprimere concetti importanti, oggi più che mai fondamentali. «Sono vecchio», sorride. «E anche responsabilità è una parola vecchia». In effetti spiazza sentir parlare di responsabilità guardando al mondo del calcio di oggi, ai suoi protagonisti in campo e fuori. «Ci sarebbe bisogno di responsabilità, di avere comportamenti adeguati», ammette. «Nella vita mi sono sempre ispirato a valori fondamentali e mi sono sempre sentito vincolato nel non tradirli. Diversamente, se si vive tutto in maniera troppo esasperata e senza rispetto, si perdono le basi della civiltà». Si fa per un attimo pensieroso per poi chiedere: «Forse sto parlando troppo di me? Sono narciso?».

Un ossimoro: Dino Zoff un narciso. Lui diretto, non accomodante, con poca voglia di stare in prima pagina. Non un titolo, ma un contenuto. Ancora oggi mito dello sport. Persino i ragazzini, quelli del nuovo Millennio, lo riconoscono e gli chiedono di farsi una fotografia insieme. «Sono stimato dalla gente che non appare, la maggioranza silenziosa. Dal fornaio al professore, credo apprezzino la mia coerenza». Eroico capitano della Nazionale vittoriosa nel Mondiale 1982, le cui braccia, che alzavano il cielo la coppa, sono finite su un francobollo commemorativo da mille lire. Quella coppa poggiata a lato di un tavolino ha assistito alla partita di scopone più famosa per il nostro Paese. Due coppie: Bearzot-Causio contro Pertini-Zoff. Una foto testimonia gli sguardi concentrati in una sfida senza sconti. «È venuta fuori autentica, non era impostata. Il presidente della Repubblica già sugli spalti aveva dimostrato la tensione e la partecipazione di un vero tifoso. Però in quella partita, abbiamo perso per un suo errore. L’ha ammesso solo dopo anni. Del resto lo scopone pareggia, mette tutti sullo stesso livello». Gli brillano gli occhi, il ricordo è vivo. Ma poi continua fermo: «Rispecchia quel momento perché non era finta. Oggi se ne fanno tante, ma spesso danno l’impressione di essere artefatte».

Quella foto non raffigurava solo un momento di successo per l’Italia, ma misurava il senso di appartenenza di tutti gli italiani per il proprio Paese. Un’immagine simbolo ormai ingiallita, impolverata dal tempo trascorso e dalle troppe lacerazioni che ci hanno intorbidito. In un mondo che urla, Zoff prosegue serafico ricordando: «Quelli sono stati Mondiali irripetibili. Facevamo gol su azione, uno spettacolo, una progressione inarrestabile. È stato un crescendo rossiniano. È diventato così sentito perché ha rappresentato il riscatto dei perdenti. Tutti dicevano a Bearzot che non c’era la squadra. Siamo un Paese che spesso non ha memoria. Già nel ’78 eravamo una grande Nazionale, se avessi giocato meglio io saremmo arrivati in finale. Quattro anni dopo però ci consideravano scarsi, insignificanti. È stata una rivincita della Nazionale e della nazione».

Le critiche per il ct Bearzot furono aspre, continue, inarrestabili. Diradata la nebbia delle polemiche con quel risultato scoppiò l’entusiasmo. «Per me è stato un secondo padre», confessa Zoff. «Un uomo ferocemente onesto. Solo con lui si poteva vincere quel Mondiale, perché era un comandante determinato, coraggioso con i dirigenti. Aveva la faccia da pugile e credevano non avesse cultura e invece parlava in latino, aveva studiato al liceo classico di Gorizia. Era un uomo puro. Era il suo modo di essere». Enzo Bearzot, friulano della bassa come lui. Di quella terra carsica che ha partorito tanti campioni del calcio italiano. «Una volta», sottolinea Zoff, «eravamo almeno dieci in serie A, tre o quattro in Nazionale. Eravamo abituati al sacrificio e il calcio non era solo un sacrificio, era anche un piacere. Era la cosa più piacevole che c’era. Ora i pochi bambini che ci sono nella nostra regione hanno la possibilità di fare sport diversi o forse hanno cose più piacevoli da fare con meno impegno».

Chi invece decide di praticare il calcio oggi troppo spesso lo vive prima ancora di iniziare con un senso di competizione, come una carriera già avviata, dove la sobria fatica è fuori moda e i ruoli vengono interpretati in maniera esasperata, teatrale. «Se la palla è tre metri fuori è inutile che ti tuffi. Mi è sembrato di tradire la Nazionale quando ho bloccato al volo un pallone destinato fuori dai pali. Avevo calcolato male la traiettoria. Serve invece più semplicità. C’è bisogno di ricercare l’essenzialità». Complicato farlo quando non si hanno stabili punti di riferimento. Le squadre hanno delle rose in continuo mutamento «adesso se uno non è esperto di calcio ha difficoltà a riconoscere persino i giocatori della propria squadra. I giocatori hanno contratti a termine, una volta il cartellino era della società, c’era un legame. Tutto questo produce disaffezione». Il calcio che allo stesso tempo continua ad accomunare generazioni di tifosi, ad appassionare a tutte le latitudini, con i paesi emergenti che riempiono gli stadi e danno vita a nuovi interessi e investimenti. Le risorse economiche e finanziarie si sono fatte globali. Cinesi, arabi investono nei club europei. «Ai tempi dell’avvocato Agnelli il rapporto era diretto. Era uno innamorato del calcio. Quando sono arrivato a Torino venivo dal Napoli e avevo già fatto 19 partite in Nazionale. Mi chiese tutti i dettagli, di ogni centravanti incontrato voleva sapere le caratteristiche offensive», ricorda. Era la Juve della famiglia Agnelli e della Fiat. Parlava italiano. «Non era tanto un investimento, quanto una cosa di cuore, di tifo», sottolinea.

Zoff ci crede ancora in questo gioco. Ma con responsabilità e dignità. Quella dignità messa in discussione da Silvio Berlusconi all’indomani della sconfitta onorevole alla finale dell’Europeo del 2000. «Ho sempre accettato le critiche, ma in quell’occasione mi ha definito “indegno” e io mi sono dimesso. Secondo me se uno ha un piatto di minestra se non ha la dignità, non è un uomo. Diverso è se uno un piatto di minestra non ce l’ha perché in quel caso è sopravvivenza. Sennò anche se hai tutto sei nessuno».

Dimettersi non è stata solo una reazione, ma una scelta di coerenza. Per quella dignità che ha assorbito in una famiglia di contadini, dove le scarpette affondavano nel fango e la palla si faceva pesante. La forza e la voglia di faticare e crescere passava per le uova della nonna preoccupata per la statura di quello che sarà e che rimane il portiere leggenda azzurra. Lui che è partito in salita e all’esordio in A ha subito cinque gol. Dai campi alla città, ma non un emigrato. «Mi sento sradicato. Emigrati sono quelli che non hanno avuto la mia fortuna. Il legame con la mia terra però non è mai stato reciso. Non ricordo di aver mai parlato così a lungo. Forse l’ho fatto perché lei è friulana». Si alza e si avvia verso la porta. «Ariviodisi», arrivederci.

Se la sinistra giustizialista vuole arrestare anche la Juve. L'Antimafia indaga sulle infiltrazioni delle cosche in curva: «Interroghiamo Agnelli», scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". La zona grigia. Non quella classica, fra società civile e cosche. No, quella più evoluta e sofisticata che separa i grandi club del calcio dalla grande criminalità. Finora, allo Juventus Stadium, si era visto solo il gioco a zona, ma sul terreno. Ora gli occhi vigili dell'Antimafia, e dei suoi corifei della sinistra giustizialista, puntano gli occhi su quel che accade più in alto, fra le tribune e la curva. Terreno, in verità, di scorribande da parte di ceffi poco raccomandabili. Un'informativa della Digos di Torino, anticipata ieri dalla Gazzetta dello sport, tratteggia un quadro inquietante sui pregiudicati, dal curriculum corposissimo, o loro parenti che attraverso gli ultrà e i loro gruppi hanno messo le mani sul business del bagarinaggio. Un'inchiesta, Alto Piemonte, ha svelato le infiltrazioni della 'ndrangheta nel Torinese e addirittura nel tempio del football, ci sono stati 18 arresti e 23 rinvii a giudizio. Il processo è alle porte. E la vicenda si porta dietro anche il giallo di un suicidio, quello di Raffaello Bucci, presunto anello della catena. La Juventus però non è coinvolta, almeno sul piano penale. E i suoi dirigenti non sono indagati, anche se è stranoto che molte società, non solo i campioni d'Italia, nel tempo hanno cercato di gestire il malaffare che albergava sui gradoni proponendo patti non proprio pedagogici ai capi delle tifoserie: pace in cambio di biglietti su cui lucrare. Perfetto. Ma ora l'antimafia militante ascolta i pm titolari del fascicolo, Monica Abbatecola e Paolo Toso, poi invade il campo con dichiarazioni di guerra. Attacca Marco di Lello, appena transitato nel Pd: «Secondo la procura la Juve non è parte lesa e neanche concorre nel reato, dunque c'è una grande zona grigia su cui la commissione ha il dovere di indagare e di proporre soluzioni normative». Insomma, si dà il calcio d'inizio a una nuova partita, con i parlamentari ruota di scorta delle procure, anzi pronti a rilanciare sospetti e accuse spingendosi ben oltre la cornice del codice. Ancora Di Lello: «Per un processo occorrono elementi che i pm non hanno ravvisato. È una valutazione che rispettiamo». E ci mancherebbe. Può darsi che l'abnegazione degli onorevoli impantanati nella zona grigia finisca lì, ma pare di no. Claudio Fava (Sel) che dell'Antimafia è vicepresidente, allarga il raggio della sua inchiesta e sale su, su fino alla vetta: «Appaltare la sicurezza negli stadi a frange di ultrà infiltrati da elementi della criminalità organizzata è cosa irrituale e preoccupante. È grave aver permesso che a gestire il bagarinaggio su biglietti e abbonamenti della Juve fosse l'esponente di una solida e nota famiglia di 'ndrangheta». Per la cronaca l'imputato chiave di Alto Piemonte è Rocco Dominello, leader di due sigle ultrà, e legato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Fava non agita ancora le manette, non chiede ancora l'arresto del club bianconero in blocco, ma fa di meglio: «Per tutto questo chiederò che in commissione venga audito anche il presidente Andrea Agnelli». C'è posto pure per lui nelle nebbie della zona grigia.

Alleanze e giri d'affari. Nelle curve di serie A la mafia è senza colori. Strani legami tra capi ultrà di Milan e Juve schierati contro i club per gestire i biglietti, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale".  «I colori non cancellano l'amicizia - Loris libero». Il lungo striscione bianco apparve nel cuore della Curva Sud di San Siro la sera del 22 ottobre del 2006, poco prima che iniziasse Milan-Palermo. Sono passati più di dieci anni, ma nulla è cambiato. Perché di quello striscione si ritorna a parlare ora, nelle carte dell'indagine che scuote il mondo del calcio, l'inchiesta sui rapporti tra la Juventus e una tifoseria ultrà legata a doppio filo al crimine organizzato. Lo striscione «Loris libero» racconta che il problema non si ferma allo Juventus Stadium, che un filo lega ormai tifoserie di opposte sponde, e che si tratta di un filo criminale: obiettivo, da Nord a Sud, prendere possesso delle curve, del business del bagarinaggio, taglieggiare le società. Nel milieu criminale, i colori delle bandiere contano poco. Di striscioni in difesa di arrestati e diffidati, le curve ne espongono in continuazione. Ma il lenzuolo che i milanisti appendono a San Siro quella sera di ottobre ha una particolarità: non è dedicato a un milanista. «Loris» è Loris Grancini, capo dei Viking, uno dei club più potenti della curva della Juventus. Altra particolarità: pochi giorni prima della partita Grancini è finito in galera non per un reato «da curva», ma per un regolamento di conti da Far West in una piazza milanese, quando fa sparare a un piccolo balordo che gli aveva mancato di rispetto. A eseguire l'ordine di Grancini, un ragazzotto che di cognome fa Romeo, e che - si legge nella sentenza di condanna - è «figlio di un affiliato alla 'ndrangheta». E allora, viene da chiedersi, perché il 22 ottobre 2006 la curva rossonera prende le difese di un rivale finito in galera per un delitto da gangster? La risposta si trova in un rapporto che la Squadra Mobile di Milano invia in Procura nove giorni prima: «Nel corso degli ulteriori sviluppi investigativi, emergeva il probabile coinvolgimento nel delitto di un ulteriore personaggio identificato per Lombardi Giancarlo, potente leader del gruppo ultrà milanista Guerrieri Ultras e legato da uno stretto vincolo di amicizia con Grancini Loris nonostante la diversa fede calcistica». E chi è Lombardi? Risposta: «Sandokan», il capo incontrastato insieme al «Barone» Giancarlo Cappelli della curva rossonera. «La locale Digos - aggiunge la Mobile - comunicava di avere visto in più di una circostanza Grancini utilizzare una Ferrari e Lombardi è proprietario proprio di una Ferrari 360 Modena». Il rapporto riappare ora nelle carte che il questore ha inviato alla sezione «misure di prevenzione» del tribunale di Milano, chiedendo che Grancini sia sottoposto alla sorveglianza speciale. A carico del capo dei Viking, ci sono i rapporti con i mafiosi calabresi del clan Pesce, arrestati nell'inchiesta sulla Juve: è a Grancini che uno dei capiclan, Giuseppe Sgrò, si rivolge il 7 aprile 2013 per chiedere il permesso di far entrare allo Stadium un nuovo club ultrà, i Gobbi. Malavitoso e capo ultrà si danno del «fratello». E Grancini accetta: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma le carte dell'inchiesta raccontano che essere juventini conta fino a un certo punto: anzi, Grancini è tra quelli che trasformano in una rissa furibonda tra club bianconeri l'incontro con la dirigenza della società, il 14 settembre 2006. Il legame vero, quello che apre le porte al grande business delle curve, è il legame malavitoso. E la grande amicizia tra Grancini e Lombardi, tra il capo ultrà juventino e il boss della curva rossonera, è il rapporto tra due che nel mondo del crimine hanno solidi agganci. Grancini, il bianconero, ha precedenti di ogni genere, dalla droga al gioco d'azzardo, l'ultima denuncia l'ha presa per avere picchiato la sua donna; «Sandokan» sta scontando la pena che gli è stata inflitta per i ricatti al Milan, e anche le carte di quell'indagine sono istruttive, perché raccontano di cupi legami di Lombardi con i protagonisti di storie e di droga e di sangue. Mani sporche, insomma, sulle curve: una conquista annunciata già nel 2009, quando i capi di Viking e Guerrieri si incontrarono a Milano, e c'erano anche i capi dei Boys dell'Inter, per pianificare lo sbarco. È a questo nuovo tipo di tifoso-malavitoso che si riferiva Paolo Maldini quando disse: «Sono contento di non essere uno di voi».

Agnelli: “Io e la Juve deferiti dalla procura, ma nulla da temere”. La Figc: “Non ha impedito i rapporti con la malavita”. Il presidente bianconero, nell’inchiesta su biglietti agli ultrà e rapporti con la ’ndrangheta: «Tutto ciò è inaccettabile, mi spiace ma non mi dimetto». John Elkann: «Piena fiducia in mio cugino», scrive Massimiliano Nerozzi il 18/03/2017 su “La Stampa”. È pesante l’accusa che la Procura della Fgci muove ad Andrea Agnelli: «Non impedì a dirigenti, tesserati e dipendenti di avere rapporti con la malavita organizzata». Ma il presidente della Juventus, che ha ricevuto oggi parole di fiducia da John Elkann, non ci sta, respinge ogni addebito e parla di fango gettato sulla Juve. Andrea Agnelli convoca i giornalisti d’urgenza e in 4 minuti e 30, tutto d’un fiato parla del suo deferimento e di quello di altri uomini Juve da parte della Procura della Federcalcio, in merito all’inchiesta su biglietti, ultrá e esponenti della ’ndrangheta. E parla del fango gettato sulla Juve e di «quei curiosi procedimenti sperimentali» di cui sarebbe oggetto il club. Ecco le sue parole: «Nella giornata odierna, pochi minuti fa, mi è stato notificato un deferimento da parte della Procura Federale. Tale deferimento riguarda il sottoscritto, il dottor Francesco Calvo, all’epoca nostro dirigente, il signor Alessandro D’Angelo e il signor Stefano Merulla. Questa società, i suoi dipendenti e il sottoscritto non hanno nulla da nascondere o da temere ed è questo il motivo per cui sono qui oggi davanti a voi, seppur per pochi minuti». «Sono certo che la piena disponibilità della Juventus a collaborare con la giustizia farà emergere la totale estraneità della Società agli addebiti mossi». Lo afferma John Elkann, presidente di Exor, holding della famiglia Agnelli proprietaria della Juventus. «Desidero ribadire la mia totale fiducia - sottolinea - nell’operato di mio cugino Andrea, che ha guidato la Società e il suo gruppo dirigente fino ad oggi, e che continuerà a farlo anche in futuro». 

I FATTI. «Nei mesi scorsi i dipendenti della Juventus, che godono della mia massima fiducia, hanno collaborato con la Procura della Repubblica di Torino in veste di testimoni, nel quadro di un’indagine riguardante alcuni personaggi legati al mondo della criminalità organizzata. Questa veste di testimoni è stata sottoposta ad un controllo invasivo e meticoloso, anche con l’uso di intercettazioni ambientali e telefoniche, e non è mai mutata. Erano TESTIMONI e sono rimasti TESTIMONI fino alla chiusura delle indagini penali». 

IL DEFERIMENTO DELLA PROCURA. «Oggi la Procura Federale, anziché limitarsi a contestare eventuali irregolarità nella vendita dei biglietti, emette un deferimento nel quale il mio nome e quello dei nostri dipendenti rivestirebbe un ruolo di “collaborazione» con la criminalità organizzata. «Tutto ciò è inaccettabile - continua Agnelli - e frutto di una lettura parziale e preconcetta nei confronti della Juventus e non rispondente a logiche di giustizia. Vi ricordo che le attività di ordine pubblico e di prevenzione per le partite di calcio vengono svolte in stretta collaborazione con tutte le forze dell’ordine dal personale Juventus». 

L’ACCUSA. Andrea Agnelli è stato deferito dalla Procura federale per non aver impedito «a tesserati, dirigenti e dipendenti della Juventus di intrattenere rapporti costanti e duraturi con i cosiddetti gruppi ultras, anche per il tramite e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata». È quanto si legge nelle motivazioni della Procura che insieme al presidente Juve ha anche deferito tre dirigenti (Francesco Calvo, Alessandro D’Angelo e Stefano Merulla) e il club bianconero «per responsabilità diretta». Agnelli, si legge nelle motivazioni, è stato deferito «per la violazione dei principi di lealtà, correttezza e probità e dell’obbligo di osservanza delle norme e degli atti federali, perché, nel periodo che va dalla stagione sportiva 2011-12 a quantomeno tutta la stagione sportiva 2015-16, con il dichiarato intento di mantenere l’ordine pubblico nei settori dello stadio occupati dai tifosi ultras al fine di evitare alla Società da lui presieduta pesanti e ricorrenti ammende e/o sanzioni di natura sportiva, non impediva a tesserati, dirigenti e dipendenti della Juventus di intrattenere rapporti costanti e duraturi con i cosiddetti «gruppi ultras», anche per il tramite e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata, autorizzando la fornitura agli stessi di dotazioni di biglietti e abbonamenti in numero superiore al consentito, anche a credito e senza previa presentazione dei documenti di identità dei presunti titolari, così violando disposizioni di norme di pubblica sicurezza sulla cessione dei tagliandi per assistere a manifestazioni sportive e favorendo, consapevolmente, il fenomeno del bagarinaggio». La Procura contesta ad Agnelli di aver «partecipato personalmente, inoltre, in alcune occasioni, a incontri con esponenti della malavita organizzata e della tifoseria ultras, assecondando, in occasione della gara Juventus-Torino del 23 febbraio 2014, l’introduzione all’interno dell’impianto sportivo, ad opera dell’addetto alla sicurezza della Società D’Angelo, di materiale pirotecnico vietato e di striscioni rappresentanti contenuti non consentiti al fine di compiacere e acquisire la benevolenza dei tifosi ultras. Insieme al presidente della Juventus, sono stati deferiti Francesco Calvo, all’epoca dei fatti tesserato quale Dirigente Direttore Commerciale del club, Alessandro Nicola D’Angelo, all’epoca dei fatti dipendente addetto alla sicurezza (Security Manager) e Stefano Merulla, all’epoca dipendente responsabile del ticket office della Juventus. Ai tre viene contestato il fatto di aver intrattenuto rapporti con i gruppi ultras «e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata».  

LA DIFESA. «Mi difenderò, difenderò i nostri collaboratori e soprattutto difenderò il buon nome della Juventus che per troppe volte è già stato infangato o sottoposto a curiosi procedimenti sperimentali da parte della giustizia sportiva. Tale difesa avverrà nelle sedi opportune, ma vi invito fin da oggi ad approfondire con grande attenzione le tematiche di un’inchiesta che ha visto curiosamente scomparire dalla scena mediatica gli accusati di reati mafiosi, per essere sostituiti da testimoni che hanno l’unica colpa di lavorare in una società molto famosa e sulla bocca di tutti». «Per evidenti motivi non rispondo nel merito del provvedimento oggi davanti a voi, - continua il presidente bianconera - perché penso che sia doveroso farlo davanti alla giustizia sportiva. Vi invito tuttavia ad essere a vostra volta testimoni e non strumenti per conclusioni pregiudiziali che sarebbero a mio avviso sbagliate e in pieno contrasto con quelle tratte dalla giustizia penale». Come ho scritto alcuni giorni fa, non ho mai incontrato boss mafiosi. A cadenze regolari come è noto ho incontrato tutte le categorie di tifosi, siano essi Club Doc, Member o gruppi ultras. E’ sempre stata un’attività fatta alla luce del sole e che penso rientri a pieno titolo nei doveri di un presidente di una società calcistica. Se alcuni di questi personaggi hanno oggi assunto una veste diversa agli occhi della giustizia penale, questo è un aspetto che all’epoca dei fatti non era noto, né a me, né a nessuno dei dipendenti della Juventus. E all’argomento che qualcuno di voi potrebbe opporre, che gli ultras o i loro capi non sono stinchi di santo, io vi dico che condivido ma rispetto le leggi dello stato e queste persone erano libere e non avevano alcuna restrizione a frequentare lo stadio e le partite di calcio». «La Juventus, così come ogni altra società calcistica, collabora con lo Stato ed è stata negli anni scorsi indicata come esempio virtuoso, ma non può certamente sostituirsi alle forze dell’ordine. Penso che fosse doveroso da parte mia presentarmi davanti a voi oggi, così come ho dato la mia disponibilità a presentarmi davanti alla Commissione Antimafia, perché poteste quantomeno sapere direttamente da me quale sia il mio pensiero senza alcuna mediazione». «Da ultimo: so che alcuni di voi si sono esercitati nei giorni scorsi in ipotesi riguardanti il cambio del management della Juventus. Mi dispiace deludervi, ma questo gruppo dirigente, formato dal sottoscritto, dal vicepresidente Pavel Nedved, dall’amministratore delegato Giuseppe Marotta e dal direttore sportivo Fabio Paratici, ha intenzione di continuare a far crescere la Juventus ancora per parecchio tempo». 

L'intercettazione che inguaia Andrea Agnelli, presidente della Juventus: "Questa è gente che ha ucciso", scrive su "L'Huffington Post" Mauro Bazzucchi il 22/03/2017. I rapporti diretti tra il presidente della Juventus Andrea Agnelli e Rocco Dominello, figlio di un boss della ndrangheta, sono documentati da due intercettazioni e da una testimonianza dello stesso Dominello resa nel corso dell’interrogatorio in carcere. I documenti che contraddicono quanto affermato dall’avvocato della Juventus Luigi Chiappero nell’audizione in commissione Antimafia sono contenuti nel deferimento del procuratore della Figc Giuseppe Pecoraro, avvenuto in settimana e citato non a caso oggi dalla presidente della commissione Rosy Bindi per contestare a Chiappero quanto affermato in entrambi le audizioni rese a San Macuto. Elementi che hanno spinto l’ex-prefetto di Roma ad aprire un procedimento sul fronte della giustizia sportiva, che viaggia su binari autonomi da quella ordinaria, visto che nell’ambito dell’inchiesta penale “Alto Piemonte” la Procura di Torino ha considerato gli esponenti della società semplicemente testimoni, ma che il legale bianconero ha dichiarato di non conoscere. Nella prima parte dell’audizione, avvenuta mercoledì scorso, Chiappero aveva escluso categoricamente ogni contatto diretto tra Dominello e Andrea Agnelli, aggiungendo che in ogni caso nessun dipendente della società era a conoscenza dei rapporti di Dominello con la ndrangheta. Tale atteggiamento aveva provocato la reazione piccata della Bindi, che aveva accusato la Juventus di aver negato l’infiltrazione della ndrangheta in curva. Poi, quattro giorni fa, il colpo di scena del deferimento della Juventus, in cui si contraddicevano le tesi difensive di Chiappero. Oggi, la stessa Bindi e altri esponenti della commissione hanno più volte secretato l’audizione, in coincidenza dei passaggi in cui sono state lette le intercettazioni tra Agnelli e il responsabile sicurezza da cui si evincono i rapporti di conoscenza tra il presidente e Dominello. Nel documento, ancora secretato, di cui l’Huffington post è entrato in possesso, Pecoraro afferma che “non solo Agnelli fosse consapevole dei rapporti strutturati e delle concessioni fatte in favore dei gruppi del tifo organizzato e di esponenti malavitosi, ma che acconsentiva a tale condotta”. Pecoraro allega quindi un’intercettazione in cui Agnelli è a colloquio con il responsabile sicurezza della Juve Alessandro D’Angelo, in cui si parla chiaramente di un incontro tra Agnelli, Dominello e altri ultrà presso la Lamse SpS, holding controllata dallo stesso Agnelli. La conversazione risale all’agosto del 2016, e Agnelli racconta: “So che erano lì…io ogni volta che li vedevo, quando li vedevo a gruppi facevo scrivere sempre le cose sui fogli, perché nella mia testa era per dargli importanza che scrivevo quello che dicevano”. Più avanti Agnelli si riferisce alla rivendita di biglietti forniti dalla società: “loro comprano quello che devono comprare, a noi ci pagan subito e poi gestiscono loro!”. Pecoraro cita anche un’altra intercettazione, risalente al marzo del 2014, per smontare anche la linea secondo la quale la società Juve non fosse a conoscenza del profilo criminoso di alcuni esponenti ultrà: “Il problema è che questo – dice Agnelli riferendosi al capo ultrà Loris Grancini – ha ucciso gente”. D’Angelo replica che “ha mandato a uccidere”. Siamo all’inizio del 2014, e il rapporto con Dominello e gli altri proseguirà ben oltre questa conversazione. Inoltre, nel suo interrogatorio in carcere avvenuto il 3 agosto del 2016, Dominello racconta di aver conosciuto Agnelli a una cena a cui era presente anche D’Angelo, avvenuta nel 2011, di aver poi frequentato la sede della Juve a partire dal 2012, e di aver in seguito parlato sempre con Agnelli della vendita di stock di abbonamenti ai capi ultrà. Sempre nello stesso documento, si cita una conversazione telefonica in cui D’Angelo si confida con il responsabile rapporti con la tifoseria Alberto Pairetto, dicendo di aver “paura” di essere invischiato in un’inchiesta penale, perché “tutti sapevano dell’estrazione familiare di Rocco Dominello”. Il quale, tra le altre cose, come risulta da un’altra intercettazione tra Agnelli e D’Angelo, aveva avviato una costante e cordiale corrispondenza via sms con l’allora allenatore della squadra Antonio Conte, che addirittura, a detta di Dominello, “si apre” con lui. Al termine dell’audizione di oggi, Chiappero ha chiesto la desecretazione degli atti citati, e ha ribadito la disponibilità di Agnelli ad essere ascoltato, il che avverrà verosimilmente ad aprile.

Juventus, Agnelli e i rapporti con la malavita: il giallo dell'intercettazione. Un colloquio citato dal procuratore Pecoraro all'Antimafia e che nessuno trova negli atti. Chi sta sbagliando? Scrive Giovanni Capuano il 23 marzo 2017 su "Panorama". "I due fratelli sono stati arrestati. Rocco è incensurato, parliamo con Rocco". Parole che Andrea Agnelli ha (avrebbe) detto ad Alessandro D'Angelo, security manager della Juventus, contenute in un'intercettazione citata dal procuratore della Figc Pecoraro davanti alla Commissione Antimafia e che proverebbero la conoscenza da parte del presidente del club del profilo malavitoso di Rocco Dominello e la sua storia familiare di rapporti con la 'ndrangheta. Il giallo delle carte apparse nell'inchiesta sui presunti legami tra la Juventus e gli ultras, con sospetto di infiltrazione della malavita organizzata nella gestione dei biglietti dello Stadium per garantirsi la pace con la curva, ruota intorno a quelle dodici parole. Stralcio di un'intercettazione che non compare nelle migliaia di pagine di atti messe a disposizione dalla Procura di Torino e che la Commissione Antimafia e la Juventus hanno studiato. Ma che il procuratore Pecoraro ha citato nella sua audizione secretata a inizio marzo - così ha detto Stefano Esposito nel corso dell'audizione in Commissione - e che, se vera, inchioderebbe Agnelli. Oppure, al contrario, andrebbe spiegata perché su di essa poggia gran parte del teorema sul legame tra la Juve e le cosche. Un vero giallo che ha spinto alcuni componenti la Commissione a chiedere di verificare con la Procura di Torino l'esistenza di intercettazioni non fornite. E che rappresenta il cuore della vicenda. Perché un conto è ammettere e ricostruire i rapporti con i capi ultras - circostanza peraltro non negata nemmeno dal presidente della Juventus -, un altro è avere la prova che il numero uno sapeva di essersi affidato alla 'ndrangheta per non avere problemi allo Stadium.

L'intercettazione inedita e le domande senza risposta. Se l'intercettazione esiste davvero, giustificherebbe quanto scritto dalla Procura Figc nel deferimento per Agnelli e la Juventus, con il sospetto di "collaborazione" con la criminalità per gestire la curva. Ma allora non è chiaro perché il procuratore Pecoraro non l'abbia inserita nelle venti pagine del dispositivo di cui ne è stata resa pubblica solo una parte qualche ora dopo che lo stesso Agnelli in conferenza stampa aveva informato i giornalisti sul ricevimento dell'atto. E se l'intercettazione esiste - circostanza che metterebbe Agnelli in posizione di forte imbarazzo - è anche necessario capire perché non sia andata ai legali e alla Commissione Antimafia e sia finita, invece, nelle mani della Procura Figc. Se, invece, quanto riportato da Pecoraro e citato dal senatore Stefano Esposito prima della richiesta di desecretare gli atti non corrisponde ad alcun documento esistente o ne è una interpretazione forzata, cadrebbe la ricostruzione della consapevolezza di Agnelli di avere a che fare con un personaggio dalla storia familiare legata alle cosche e Pecoraro dovrebbe spiegare come sia stato possibile citarla. Di conseguenza verrebbe meno la parte più dura e del deferimento, quella che ha spinto il legale della Juventus a dire "ammettiamo quanto viene contestato sulla gestione dei biglietti, ma quello che non consente di andare dal procuratore federale a chiudere la partita (patteggiando ndr) è che c'è un'affermazione non vera". Ovvero che la Juve era a conoscenza del profilo di Dominello.

Il duello davanti all'Antimafia sulla conoscenza Agnelli-Dominello. Il caso è scoppiato nel corso della seconda e ultima audizione dell'avvocato Chiappero davanti alla Commissione Antimafia che si sta occupando dei rapporti tra i club di calcio e il mondo degli ultras. Davanti all'ennesima negazione di "rapporti amicali" tra Agnelli e Rocco Dominello con traccia di un unico possibile incontro avvenuto alla presenza del presidente, ma nessuna intercettazione diretta o indiretta che provi la consapevolezza del profilo dell'interlocutore, la presidente Rosy Bindi ha citato intercettazioni e documenti forse non in possesso della difesa.

Poi l'Huffington Post ha pubblicato un estratto del deferimento della Juventus e di Agnelli da parte della Procura Figc con due intercettazioni e il riassunto di un interrogatorio dello stesso Dominello. Prima una telefonata tra Agnelli e il security manager Juventus, Alessandro D'Angelo, dell'agosto 2016 per ricostruiore l'incontro avvenuto con i capi ultras alla presenza del presidente ("So che erano lì. Io ogni volta che li vedevo, quando li vedevo a gruppi, facevo scrivere sempre le cose sui fogli perché nella mia testa era dagli importanza").

Poi un'intercettazione del marzo 2014 nella quale Agnelli, parlando di Loris Grancini capo del gruppo dei Viking, dimostra di conoscere bene il suo curriculum criminale ("Il problema è che questo ha ucciso gente" dice a D'Angelo che risponde: "Ha mandato a uccidere"). Non Dominello, ma comunque un malavitoso con accesso - secondo la Procura Figc - ai più alti livello della società torinese per la gestione dei biglietti da dare ai gruppi ultras per garantirsi la pace.

Che il clima sia teso lo dimostra anche l'iniziativa di due componenti della Commissione Antimafia (Stefano Esposito e Massimiliano Manfredi) che, oltre a chiedere chiarimenti sugli atti 'fantasma' citati a Pecoraro, hanno messo nero su bianco una smentita dell'accostamento tra il nome della Juventus e la 'ndrangheta. "Spiace rilevare come si continui, da parte di molti, ad avvalorare l'idea di una contiguità tra vertici della Juventus e la 'ndrangheta" è scritto in una nota che parla di "campagna mirata" e di interpretazione "strumentale" del contenuto delle audizioni. Tra l'altro tutto avviene nelle ore in cui il Gup di Torino ha negato alla Questura il Daspo di 8 anni chiesto per Loris Grancini, ritenuto elemento pericoloso da chi si occupa dell'ordine pubblico allo Stadium. Libero di tornare in curva anche subito.

Tutto ruota attorno a una frase: “I due fratelli sono stati arrestati, Rocco è incensurato, parliamo con lui”. Sarebbe la prova, secondo la Procura Figc, che il presidente conoscesse la storia famigliare del capo ultras. Riportata nel corso di un’altra audizione (secretata), non era conosciuta dal club: non è presente né nell’atto di deferimento né in altri. "Se non si trova si apre uno scenario completamente diverso", dice il senatore dem, scrive Andrea Tundo il 23 marzo 2017 su “Il Fatto Quotidiano”.

“Si sta dicendo da settimane che il presidente della Juve era consapevole di chi fosse Rocco Dominello. Se non si trova traccia di quella intercettazione, si apre uno scenario completamente diverso, visto che finora si sono accostate la Juventus e la ‘ndrangheta”.

Il giorno dopo lo scontro in commissione Antimafia e i colloqui telefonici svelati dall’Huffington Post, il senatore del Pd Stefano Esposito torna a ribadire a ilfattoquotidiano.it quanto aveva sostenuto già nella tarda serata di mercoledì, 22 marzo. Tutto ruota attorno a una frase: “I due fratelli sono stati arrestati, Rocco è incensurato, parliamo con lui”. Sarebbe la prova, secondo la Procura Figc, che il presidente della Juventus Andrea Agnelli conoscesse la storia famigliare di Rocco Dominello. Quell’intercettazione, riportata nel corso di un’altra audizione (secretata) da parte di un altro soggetto, ha sostenuto l’avvocato della Juventus Luigi Chiappero, non era conosciuta dal club: non è presente né nell’atto di deferimento né in altri. Per questo il legale è rimasto sorpreso quando durante la seconda parte della sua audizione a Palazzo San Macuto, mercoledì 22 marzo, gli è stata letta da Esposito. Il senatore dem e Massimiliano Manfredi, altro esponente Pd in Antimafia, hanno sostenuto mercoledì sera in una nota: “Da una nostra verifica sulle intercettazioni trasmesse dalla procura di Torino alla commissione, non abbiamo trovato traccia della stessa”.

In quali atti è contenuta quindi quella intercettazione? E in quale audizione è stata riferita alla commissione? Interrogativi sui quali i due parlamentari del Partito democratico chiedono di fare chiarezza. “Abbiamo chiesto alla presidente Rosy Bindi di verificare presso la procura di Torino se esistono intercettazioni che non sono state trasmesse – dicono Esposito e Manfredi – perché risulta evidente che l’eventuale inesistenza di questa intercettazione avrebbe particolare rilievo rispetto alla discussione fin qui avvenuta”. Quella frase, infatti, è la base della tesi secondo cui Agnelli fosse a conoscenza della caratura criminale di Rocco Dominello, accusato nel processo Alto Piemonte – iniziato oggi – di associazione per delinquere di stampo mafioso. “Non è un boss mafioso, valuteremo ai fini di querela le dichiarazioni rese da tutti quanti, comprese quelle del procuratore federale Giuseppe Pecoraro. Agnelli dice il vero quando afferma di non avere mai incontrato un boss, perché il mio assistito non lo è”, ha detto oggi Ivano Chiesa, legale di Dominello.

Una vicenda che esula comunque dal capo di accusa di Agnelli – non implicato, come qualunque altro dirigente della Juve, nell’indagine penale – da parte della procura Figc, che contesta la gestione della vendita dei posti assegnati allo Juventus Stadium perché configurerebbe la violazione dell’articolo 12 della giustizia sportiva. Ma in questo quadro si è inserita la figura di Dominello, motivo per il quale i bianconeri non patteggeranno davanti alla giustizia sportiva: “Questa esperienza ci ha minato profondamente – ha detto Chiappero – Se ammettiamo quanto ci viene contestato sulla gestione della vendita dei posti assegnati, quello che non ci consente di chiudere la partita col procuratore federale (patteggiando, nda) è che siamo accusati di aver utilizzato, sapendolo, Rocco Dominello, della cui provenienza eravamo invece totalmente all’oscuro. Non avevamo motivo di avere il minimo sospetto”.

Per la Juventus era solo un ex ultras incensurato e Agnelli non ha avuto contatti “amicali” con lui. Secondo l’intercettazione, citata ieri dal senatore Esposito durante l’audizione in Antimafia, il presidente conosceva la sua storia famigliare. Inoltre, sostiene l’avvocato di Dominello, gli incontri tra i due ci furono ma vanno letti in un’ottica diversa: “Si sono incontrati più volte, sia a tu per tu, sia alla presenza di altre persone, come spesso accade tra un presidente di una squadra di calcio e il rappresentante di un gruppo ultras. Sono stati incontri leciti, alla luce del sole”, ha riferito a margine della prima udienza del processo Alto Piemonte.

Esposito e Manfredi hanno anche voluto sottolineare che per Loris Grancini, citato nelle intercettazioni rivelate dall’Huffington, “la questura di Torino aveva richiesto 8 anni di Daspo” ma “abbiamo appreso dal sito internet del Grancini stesso che, nella giornata di martedì un giudice del tribunale di Torino ha negato il provvedimento”. “Pur nel rispetto delle valutazioni del magistrato, risulta evidente come sia necessario riflettere sulle oggettive difficoltà attraverso le quali si muovono le società calcistiche italiane – concludono – soprattutto se figure dal profilo criminale come quelle di Grancini possono continuare liberamente ad accedere agli stadi”.

Stefano Esposito sul caso Juve 'ndrangheta: "Campagna politica contro Agnelli. Qualcuno non ha capito che non fa più il prefetto", scrive su "L'Huffingtonpost" Mauro Bazzucchi il 24/03/2017.  Il senatore del Pd Stefano Esposito, membro della commissione Antimafia, ha fortemente contestato, al termine dell’audizione del legale della Juventus Luigi Chiappero, la tesi secondo cui il presidente della società bianconera Andrea Agnelli fosse a conoscenza della provenienza ndranghetista del capo ultrà Rocco Dominello, “portavoce” della curva e gestore di un lucroso giro di bagarinaggio organizzato grazie alla fornitura dei biglietti da parte della società stessa. Una tesi che viene caldeggiata nel deferimento alla giustizia sportiva fatto dal procuratore federale Giuseppe Pecoraro (in cui figurano alcune intercettazioni che dimostrano gli incontri e i rapporti diretti tra Agnelli e Dominello e la conoscenza del profilo criminale di alcuni capi ultrà) ma che molti asseriscono essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio da una “prova regina”: un’intercettazione che inchioda Agnelli, su sui però si sta sviluppando una sorta di giallo, perché non presente né nelle intercettazioni allegate al deferimento né negli atti trasmessi alla commissione dalla procura di Torino, ma evocata più volte nel corso dell’audizione.

Senatore, secondo lei la commissione Antimafia vuole colpire Agnelli?

«Non sono tenuto a dare giudizi. Mi compete capire se gli atti relativi alle infiltrazioni accertate della ndrangheta nella vicenda del bagarinaggio fosse un’infiltrazione di cui c’era consapevolezza da parte di Agnelli o se invece così non è. E sulla base di ciò che noi abbiamo ascoltato e di ciò che abbiamo finora a disposizione si evince con certezza che la Juventus ha violato le regole sulla vendita dei biglietti. Che Andrea Agnelli sapesse che Dominello era un esponente della ndrangheta, o meglio che la sua famiglia avesse un curriculum ndranghetista, non c’è da nessuna parte, non c’è nessuna evidenza di questo. Mentre è chiaro che, nella Juve, almeno il responsabile sicurezza D’Angelo e il direttore commerciale Francesco Calvo fossero a conoscenza dei pregressi dei Dominello. Trovo singolare la certezza con la quale il procuratore federale scrive quelle cose su Andrea Agnelli».

Però in commissione molti suoi colleghi, oltre a ritenere sufficiente quanto contenuto nel deferimento, sono sicuri che la consapevolezza di Agnelli sia suffragata da una “prova regina”. Perché?

«Ho letto in un documento secretato, riferibile a soggetti che sono stati auditi…»

Il procuratore Pecoraro?

«Non posso confermare, questo lo dice lei…sono tenuto al segreto…comunque ho letto nel documento che questa persona, per spiegare alla commissione che Agnelli era consapevole della provenienza ndranghetista della famiglia Dominello, cita un’intercettazione da cui risulta evidente che Agnelli sapesse in maniera puntuale che la famiglia Dominello era legata alla ndrangheta. E siccome si trattava di uno stralcio citato da questa persona, ho chiesto di poter vedere tutte le intercettazioni che ci sono state trasmesse dalla Procura e non l’ho trovata. Non risulta da nessuna parte. Lo stesso avvocato Chiappero, che ha letto tutte le intercettazioni, non ha trovato nessuna intercettazione di questo tenore in capo ad Agnelli. E’ per questo che ho chiesto la desecretazione dell’audizione, ma per ottenere ciò ci vuole l’assenso del diretto interessato. E un’eventuale risposta negativa del soggetto mi porterebbe ad alcune valutazioni…»

E cioè che c’è un teorema contro Agnelli.

«In questa storia, molti hanno interesse ad attaccare la Juve perché rende elettoralmente nei propri collegi, anche se la magistratura ha già chiarito tutto. Si sta montando una campagna di stampa orchestrata da soggetti politici che poi se ne assumeranno la responsabilità».

Chi è che orchestra?

«Non posso dirlo, ho le mie opinioni e lo dirò nelle sedi preposte».

Ecco, ma se la Procura ha già detto la sua, che interesse ha Pecoraro ad insistere?

«Pecoraro lo sta dicendo nuovamente lei…di certo se questa intercettazione non esistesse, lo scenario cambierebbe di molto, e chi vuol far passare Agnelli come complice della ndrangheta non avrebbe più alcuna credibilità. Credo che qualcuno stia trattando questa vicenda come si trattano le interdittive antimafia, che possono basarsi solo sul sospetto. Temo che qualcuno non abbia capito di non essere più un prefetto che deve valutare le interdittive antimafia, ma che è chiamato ad attenersi alle prove. Non mollerò l’osso fin quando non avrò la certezza dell’esistenza o meno della “prova regina”. Tutto il resto parla di altro, non dei rapporti tra Agnelli e la ndrangheta. Tutto il resto è libera interpretazione, è il giochetto stile M5S, che considera mafiosi quelli che vengono chiamati in causa per corruzione. Noi siamo l’Antimafia, questo giochetto lasciamolo ai grillini».

Si smonta il processo mediatico su Andrea Agnelli e la 'ndrangheta. Il procuratore della Figc Giuseppe Pecoraro, ascoltato nuovamente dall'Antimafia, ritratta sull'intercettazione che avrebbe incastrato il presidente della Juve: "Non è sua", scrive "Il Foglio" il 5 Aprile 2017. Un po' alla volta il processo sulla Juventus e sui presunti rapporti tra il presidente Andrea Agnelli e la 'ndrangheta si sta dimostrando per quello che è: un processo mediatico. Il Foglio aveva già cercato di spiegare come la principale accusa rivolta al numero uno bianconero si fondasse, in realtà, su un'intercettazione inesistente. E oggi è arrivata la prova definitiva. A fornirla colui che con le sue dichiarazioni, secretate ma comunque uscite dalla commissione Antimafia, aveva dato fiato a tifosi e giustizialisti: il procuratore generale della Figc, Giuseppe Pecoraro. Chiamato nuovamente davanti alla commissione presieduta da Rosy Bindi, Pecoraro ha dovuto chiarire (e ritrattare) parte di ciò che aveva detto nella prima audizione. "Sono qui - ha esordito - per integrare quanto detto il 7 marzo scorso. E anche nella speranza di chiudere le polemiche susseguite dopo quella data e di bloccare un processo mediatico inopportuno che non fa bene né alla giustizia sportiva né a quella ordinaria".

Si comincia dall'intercettazione incriminata. "L'intercettazione di cui si è parlato l'altra volta, su cui sono state dette tante cose - ha spiegato -, è un'interpretazione che è stata data. Noi abbiamo dato una certa interpretazione, perché da quella frase sembrava ci fosse una certa confidenza fra Agnelli e Dominello, ma probabilmente era del pm quella frase. Anzi, da una lettura migliore la attribuisco al pubblico ministero". Secondo la prima versione, infatti, in una telefonata tra il presidente bianconero e il dirigente Alessandro D'Angelo, parlando di Rocco Dominello (capo ultras, "portavoce" della curva bianconera attualmente indagato per associazione mafiosa), Agnelli dimostrava di sapere perfettamente che il tifoso aveva legami con la criminalità organizzata. Poi si è scoperto che la telefonata era tra D'Angelo e un altro dirigente, Francesco Calvo ("Sì però parlavano di Agnelli" si disse). Ora si scopre, finalmente, che il numero uno della Juventus non c'entrava niente. E non finisce qui, perché Pecoraro ha anche respinto l'accusa di aver accostato il nome di Agnelli alla 'ndrangheta. "Io non faccio la Procura ordinaria - ha aggiunto -, io mi occupo della gestione dei biglietti, poi se c'è una permeabilità della dirigenza juventina con la 'ndrangheta non riguarda me, ma la Commissione, e ha riguardato la Procura ordinaria (nel processo in corso la Juventus non è minimamente coinvolta ndr). Io mi occupo dei biglietti. Ho dato degli elementi alla Commissione, la cosa certa è che i biglietti sono stati dati anche a persone legate alla criminalità, questo è il dato. Sarà il giudice sportivo a tenerne conto, ma non chiedetelo a me. Chi dominava nel bagarinaggio dei biglietti dello Stadium era Dominello, il resto lo fa la Procura ordinaria. Ora, il tribunale federale nazionale della Figc e, in secondo grado, la Corte d'appello federale valuteranno se le mie interpretazioni saranno accoglibili o meno. La procura federale si è basata solo su atti dell'inchiesta "Alto Piemonte" e tengo a specificare che ciò che può non essere rilevante per giustizia ordinaria lo può essere per sportiva". La Juventus, il cui presidente è stato deferito dallo stesso Pecoraro, non ha mai contestato l'accusa sui biglietti. Ciò che contestava era proprio l'idea che Agnelli potesse aver avuto rapporti, consapevoli, con esponenti della 'ndrangheta. A questo punto lo scenario cambia radicalmente. Non si parla più di rapporti ma di possibili infiltrazioni. La stessa Rosy Bindi ha sottolineato che "in Italia le mafie arrivano persino alla Juventus e questo è chiaro". Ma ha anche aggiunto che "in quella telefonata non si sta parlando del presidente della Juventus Agnelli". Ciò nonostante la commissione Antimafia sentirà il presidente della Juventus nelle prossime e settimane. E, entro l'estate, verranno sentiti il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, il capo della Polizia Franco Gabrielli, i presidenti delle leghe di Serie A e B oltre ai presidenti di Genoa, Crotone, Lazio, Roma, Inter, Milan e Napoli.

Componente della commissione antimafia con una sciarpa anti-Juve: è polemica, scrive il 23.03.2017 Rosa Doro. Sta facendo molto discutere la foto che ritrae Ignazio La Russa, dichiarato tifoso dell'Inter con Marcello Taglialatela, componente della commissione antimafia che si sta occupando della vicenda che riguarda Agnelli. Sui social imperversa la foto, risalente a qualche anno fa con i due che tengono insieme una sciarpa inequivocabile: Juve Merda”. E la polemica tra i tifosi bianconeri scatta naturale. Ecco uno dei tantissimi tweet di indignazione.

Gazzetta, macchina da guerra antiJuve, scrive Sandro Scarpa il 4 marzo 2017. Dopo Juve-Inter avevamo smascherato la faziosità della Gazzetta, la strategia palese dietro gli attacchi concentrici alla Juve e a tutela di quell’Inter tanto cara alla rosea. Avevamo scomodato Chomsky e il suo modello di propaganda per avvalorare la nostra tesi. Ci sbagliavamo. La Gazzetta non si limita a falsare il gioco parteggiando apertamente per una squadra (Inter) per ragioni commerciali, ancorché di affinità elettiva, il giornale più letto (e un tempo autorevole) semplicemente è diventata una perfetta macchina da guerra AntiJuve, in linea col mercato del giornalismo sportivo e con la domanda del Paese. Gli episodi ed il post-gara di Juve-Napoli li abbiamo trattati altrove, regolamento alla mano, con occhi allibiti da tifosi o stigmatizzando ironicamente il comportamento di Giuntoli. Qui ci interessa invece esaminare la macchina da guerra. Cosa fareste voi al fischio finale di Juve-Napoli se foste il direttore di un’ipotetica “Gazzetta AntiJuve”?

La prima cosa da fare è scrivere a caldo che la Juve ha vinto meritatamente e gli episodi arbitrali non sono clamorosi, ma dubbi, di qua e di là ma “domani rischiate di sentir parlare solo di quelli: due rigori per la Juve, sotto 1-0, sono abbastanza per animare discussioni in bar e uffici”. A scriverlo è Valerio Clari, che ironizza e stigmatizza il solito chiacchiericcio, ma dimentica di scrivere “discussioni in bar, uffici E GAZZETTA”.

La seconda cosa da fare è agire immediatamente sulla moviola. E’ una gara di Coppa Italia, non ci sono i moviolisti Sky e Premium che daranno la linea, c’è il solo Sconcerti che dà per buoni i rigori Juve (anzi ne vede un terzo) e nega quello per il Napoli. La moviola Gazzetta quindi diventa prezioso punto di riferimento. A chi affidarla? Non a qualcuno dei 5-6 inviati allo Stadium, non ai soliti moviolisti (Ceniti in primis). Affidiamola ad un non moviolista (ultima moviola fatta 5 anni fa in un Chievo-Samp...) ma al redattore più tifoso del Napoli e più apertamente antiJuve della Gazzetta: Vincenzo Cito, questo signore qui: «Conte "assurdo parlare di aiutini a favore della Juve". Sono abituati a ben altro. La Juve è la più forte ma certe cose fanno pensare: gol in fuorigioco all'andata, rigore non visto al ritorno, il furto a Chievo: +6 su Roma. Conte che dà lezioni di educazione è come se Giuliano Ferrara ne facesse di corretta alimentazione. Per evitare ulteriori e dannose polemiche, Juve-Milan domenica comincerà direttamente dall'1-0.»

Certo, anche un ultrà antijuve che sui social dimostra un’ossessione radicata, può essere competente (anche se non fa moviola da 5 anni) e imparziale, ma sarebbe opportuno quantomeno salvare le apparenze. Cito omette -toh!- il contatto Strinic-Dybala e giudica (unico tra i moviolisti) SOLARE il rigore su Albiol.

La terza cosa da fare, il giorno dopo, è un fuoco di fila massiccio contro l’arbitraggio e contro la Juve e che pompi a dismisura lo scandalo e la vergogna. Non solo il tono dei pezzi, soprattutto la quantità, le sfumature, le prospettive, il background, i precedenti, e i retroscena dello scandalo. La SSC Napoli che tuona (omettendo di giudicare, fare fact-checking), le immagini mancanti, le riprese video opache, i mille dubbi, le poche certezze. Dal mattino successivo ci sono 11 pezzi sullo “scandalo” su 13 totali in homepage. Se ne accorge Daniele Manusia, osservatore neutrale (e romanista) che pone una domanda ficcante: "In questo momento sulla homepage di Gazzetta 11 pezzi su 13 sono sulle polemiche post Juve-Napoli. Notizia o modello economico?"

La quarta cosa da fare è allargare il fronte. Qui non si tratta di difendere il Napoli, peraltro poco nei cuori del target Gazzetta, antijuventino sì, ma soprattutto milanese ed in particolare interista. Tocca coinvolgere nello scandalo, appassionare alla vergogna anche i propri clienti, toccandoli nelle corde più profondo dell’odio AntiJuve. Si ripesca quindi la Pietra Filosofale dell’Antijuventinismo, Iuliano-Ronaldo.

Certo, anche la redazione più scafata e priva di scrupoli della nostra Gazzetta AntiJuve si sarà posta il problema: come si può seriamente paragonare un giocatore forse toccato che si infila in mezzo ad altri due ad un body-checking? L’analogia è la BEFFA, il rigore SOLARE non dato (fa nulla se in analoghi contatti con altre maglie la stessa Gazzetta ci dice che quelli non sono rigori) da cui parte un’azione BEFFA in contropiede e un altro rigore dato alla Juve, su cui nel frattempo sorgono dubbi (qui si va oltre l’ultrà Cito e verso il superultrà Pistocchi che smentisce sé stesso). Doppia, tripla beffa!

La quinta e ultima cosa da fare è consegnare l’episodio alla Storia, con dichiarazioni conclusive fatte dai SuperBig dell’antijuventinismo, dai Padri Fondatori dello stesso. E chi chiamereste? Gigi Simoni eZdenek Zeman.

Una macchina da guerra perfetta. Anche se stavolta i Padri un po’ tradiscono, e pur ammettendo i soliti favori e aiutini, sono meno netti del solito, forse perché qui si parla del Napoli (e non delle loro squadre) e quindi l’accusa dura e pura la lasciamo agli Auriemma, agli Alvino, ai Cito…Non vogliamo condannare il solito Pistocchi, il solito Ziliani (che arriva a vedere un offside nel gol di Higuain), il solito Liguori (a cui non basta Juve-Napoli ma accusa la Juve di essere la mandante dell’Atalanta nelle vittorie contro Napoli e Roma per i rapporti sul mercato. E Gagliardini? E Grassi?). Non vogliamo nemmeno ridere amaramente di Bergonzi (sì, quello di Buffon-Zalayeta) che contraddice la sua storia alla Radio di Auriemma o sorridere del pezzo dello spagnolo AS (molto citato dai tifosi Napoli) che però si scopre essere scritto da un collaboratore di TuttoNapoli. Qui ci limitiamo a contemplare come l’ex-autorevole Gazzetta sia diventata una macchina rodata e perfettamente orchestrata al servizio di quel sentimento popolare che essa stessa, assieme agli altri, ha contribuito a creare. L’oltraggio finale è che gli stessi giornalisti si rifiutano di dialogare con tifosi e blogger “Eh, ma voi siete tifosi, siete di parte…”, quando in realtà anche il tifoso Juve più oltranzista non arriverebbe mai ai livelli dei Cito, Pistocchi e Ziliani, Simoni e Zeman, che ci hanno raccontato il calcio in questi anni. La macchina ha il preciso scopo di insudiciare inevitabilmente tutti gli anni di successi meritati, di sacrificio, lavoro, competenza e qualità della Juve, e quindi di sporcare, di insozzare il gioco del calcio stesso, lo sport fatto di vincitori e vinti, prima ancora di fomentare antipatia e odio. A quello ci pensano già i tutori della sicurezza, come il Sindaco di Napoli in un post social a dir poco indecoroso per inesattezze, retorica e tentativo maldestro di raccattare voti e soprattutto aizzare animi. Peccato che De Magistrisi non potrà più affidarsi al suo ex-Assessore alla sicurezza Narducci, dimessosi, dopo essere stato indagato –e prosciolto- per abuso di ufficio. Narducci sì, il PM di Calciopoli, quello di “piaccia o non piaccia”, altra affinità elettiva.

Moggi lancia l'allarme: “Sembra di essere nel 2006. Si stanno fomentando gli animi”, scrive Luca Russo il 5 marzo 2017. ​Nell'ultimo periodo, in Italia, si è venuto a creare un clima abbastanza teso attorno alla Juventus. Il club bianconero, infatti, è stato attaccato e criticato da diversi fronti, reo di aver usufruito di presunti errori arbitrali a suo favore. Il punto, però, è che talvolta l'universo anti-Juve vede soltanto quello vuole vedere. E purtroppo determinate accuse non sono altro che alibi che permettono ad alcuni club di 'giustificare' le sconfitte. Tale discorso è stato affrontato, in prima persona, da Luciano Moggi, che ha reso noto il suo pensiero sul giornale Libero.  

Moggi: "ll calcio purtroppo sta ripercorrendo la strada interrotta nel 2006". Luciano Moggi torna sulle polemiche post Juve-Napoli sulle colonne di Libero: "Ci mancava la Coppa Italia per attizzare l’ambiente calcio ed ecco Juve-Napoli servita sul piatto per alimenta...Di recente ho letto e sentito polemiche che non hanno motivo di esistere - spiega l'ex dirigente della Juventus - perché se un arbitro assegna due rigori sacrosanti non c'è motivo di gridare al complotto. Tutto ciò, in ogni caso, è servito al Napoli per arrogarsi del diritto di perdenti. Perché hanno addirittura interrotto il silenzio stampa per scagliarsi contro l'arbitraggio. Sembra di essere tornati nel 2006, il clima è quello, come se le partite le giocassero gli arbitri. Certe lamentele vengono poi alimentate da opinionisti, giornalisti ecc...a seconda della loro fede calcistica”. Luciano Moggi ha poi aggiunto: “Nessuno si rende conto che fomentando gli animi si rischia di ricreare determinati incidenti che poi, tra l'altro, vengono etichettati come gesti incivili dalle stesse persone. Basti pensare che al giorno d'oggi anche politici e sindaci si travestono da tifosi senza rendersi conto delle cause e delle conseguenze che potrebbero scatenare”. Luciano Moggi torna sulle polemiche post Juve-Napoli sulle colonne di Libero: "Ci mancava la Coppa Italia per attizzare l’ambiente calcio ed ecco Juve-Napoli servita sul piatto per alimentare polemiche che non hanno ragione di esistere. Se un arbitro, nel caso Doveri di Roma, dà due rigori alla Juve, sacrosanti, si parla già di complotto a favore dei bianconeri, non importa se si dimentica di darne un altro per fallo di Strinic su Dybala. È stato comunque sufficiente per consentire al Napoli di arrogarsi del diritto dei perdenti e interrompere il silenzio stampa per insultare l’arbitro, reo di aver favorito la Juve facendole vincere immeritatamente la partita. Il calcio purtroppo sta ripercorrendo la strada interrotta nel 2006, sembra infatti, ora come allora, che le partite le giochino gli arbitri, che i giocatori siano i testimoni oculari estranei a qualsiasi tipo di contesa, quasi spettatori non paganti, che gli spettatori paganti siano invece le vere vittime perchè costretti, a loro insaputa, a vedere una fiction piuttosto che una partita di calcio vera. Lamenti che poi vengono colti dai tanti opinionisti di tv, radio e giornali, ognuno a raccontare la propria verità, a seconda della bandiera di appartenenza. Nessuno a tenere conto che fomentando gli animi si possono creare quegli incidenti di cui spesso siamo testimoni, che poi vengono etichettati con la parola «inciviltà» dagli stessi fomentatori. Persino i politici e adesso anche qualche sindaco, si vestono da tifosi, senza pensare alle cause che ne potrebbero derivare (....)".

Luciano Moggi il 10 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”: Andrea Agnelli rischia di fare la mia fine. Rimbomba e si dissolve nel cielo il grido «The Champions» in un San Paolo gremito che acclama il Napoli: la speranza, ultima a morire, è dipinta nella faccia di questi tifosi, battere il Real campione del mondo sarebbe stato il sogno della vita. Purtroppo non si è avverato, è stato Zidane a prevalere. Grande comunque la prestazione dei napoletani nei primi 45 minuti contro un Real in attesa: due disattenzioni della difesa vanificano il gol di Mertens e quanto di buono fatto fino lì. Sarri ha tentato di giustificare la disposizione a zona in occasione dei due gol presi da corner senza però ottenere consensi. Si sa infatti che Sergio Ramos sui calci d’angolo anziché sostare in area vi entra di corsa per colpire con più violenza, per cui qualcuno avrebbe dovuto frapporsi per frenarlo, anche a costo di fare fallo... Se lui ti frega una volta e si ripete subito dopo, vuol dire che non è marcabile a zona ma significa anche - e purtroppo - che né Albiol né Koulibaly e tanto meno Sarri avevano capito la lezione. Se del Real il migliore è stato proprio Ramos, nel Napoli tutti bene (che pubblico!) mentre il peggiore è De Laurentiis, che trova modo di polemizzare contro la stampa e contro il giornalista della Gazzetta, Mimmo Malfitano, come se la sconfitta dipendesse da questa persona che, tra l’altro, è stimata da tutti per la sua serietà. Non gli era bastata la dichiarazione nel post Madrid, ha voluto attizzare nuove polemiche. Bisogna riconoscergli il merito di aver riportato il Napoli in serie A ma troppa è la differenza con il patron storico, Corrado Ferlaino, verso il quale tutti hanno il massimo rispetto e chi vi scrive la massima stima per aver collaborato con lui, in qualità di Direttore Generale, negli anni in cui arrivò Maradona e fu costruita la squadra capace di vincere due scudetti, una Supercoppa, una Coppa Uefa e la Coppa Italia. Ora, il Napoli ospita il Crotone e deve rituffarsi all’inseguimento del secondo posto della Roma. I giallorossi saranno a Palermo dove un nuovo presidente (?) ha sostituito (per ora?) Zamparini: da questo cambio gli isolani riceveranno sicuramente una spinta emotiva... non è dato sapere in quale direzione. La Lazio ospita lunedì il Toro per avvicinare proprio il Napoli ma anche garantirsi un posto in Europa League: impegno non facile ma alla portata. L’Inter a San Siro ospiterà la grande rivelazione del campionato, quell’Atalanta che ha messo in difficoltà quasi tutte le squadre incontrate: sarà un incontro spareggio per assicurarsi l’Europa. Stesso discorso per il Milan, solo che i rossoneri saranno stasera allo Stadium, fortino della Juve. Purtroppo, ancora, dobbiamo registrare quanto cara possa costare al club bianconero questa supremazia calcistica. È risaputo come in Italia regni sovrana l’invidia che è l’arma dei deboli, le cui insinuazioni ne costituiscono la forza per tentare di stravolgere le situazioni e buttar giù chi sta dimostrando di saper lavorare per il bene della propria azienda e per il calcio italiano. È ora il turno di un bravo manager, Andrea Agnelli, coinvolto in una non precisata connivenza a livello di biglietti con alcuni boss della malavita. Per chi conosce Andrea, è un’accusa che farebbe ridere anziché piangere, rimbalzata su tutti i giornali nonostante le smentite del Procuratore Federale, Pecoraro. La Juve è di nuovo sotto l’attacco di chi non sa batterla sul campo. Non bastava quanto successo nel 2006...di Luciano Moggi

Il direttore generale della Figc: “Sulla Juve un processo mediatico”. Michele Uva interviene sull’indagine conoscitiva della Commissione Antimafia: no a passi avanti frettolosi, scrive Guglielmo Buccheri il 24/03/2017 su “La Stampa”. «Il caso Juve-ultras? Penso che sia in corso un processo mediatico...». Da Palermo, dove la Nazionale di Giampiero Ventura si prepara ad affrontare l’Albania con in gioco punti decisivi sul cammino verso il Mondiale 2018, il direttore generale della Figc Michele Uva, interviene sull’indagine conoscitiva della Commissione Antimafia. «Forse - dice Uva - ci sarebbero problemi più importanti per l’Italia che la questione dei biglietti dati dai club. Sulla Juve c’è un procedimento sportivo che, in piena autonomia, concluderà il suo iter: se è stata violata qualche norma, si vedrà. Per il resto, come detto, no a passi avanti frettolosi o a processi mediatici». Immediata la replica dell’onorevole Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia: «Noi non facciamo processi, men che meno mediatici. Di questo si cerchino altrove le responsabilità. Preoccupa che il direttore generale della Federcalcio ritenga che ciò di cui ci stiamo occupando non sia una cosa seria. Ciò che fa male all’Italia sono le mafie, anche quando si infiltrano nello sport, e la sottovalutazione di questo fenomeno. L’inchiesta della Commissione proseguirà a tutto campo». Dello stesso parere anche il vicepresidente della commissione Claudio Fava: «Se il Dg della Federcalcio definisce “una cosa banale” un’inchiesta penale sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nel circuito del tifo organizzato c’è da essere preoccupati. Se poi si chiede alla Commissione Antimafia di “occuparsi d’altro” c’è da essere anche imbarazzati».

Lo stato della gogna giudiziaria nel 2016. Uno studio dell'Unione delle camere penali: dopo avere esaltato arresti e indagini, soltanto l'11% degli articoli racconta come va a finire un processo, scrive Maurizio Tortorella il 15 dicembre 2016 su Panorama. È probabilmente la prima volta che un tribunale penale aggredisce la "gogna giudiziaria" su internet. Il primato spetta a Genova, dove sono state appena depositate le motivazioni di una sentenza del 20 giugno scorso (per i cultori del genere, è la numero 3582). È una condanna per diffamazione: stabilisce che "chi inserisce notizie a mezzo internet relative a indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l'esito positivo per l'indagato o l'imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa". Il processo di primo grado ha chiuso così la vicenda della pubblicazione sul sito di un’associazione di consumatori della notizia relativa al rinvio a giudizio per concussione del presidente e vicepresidente di un'associazione, alla fine di un’inchiesta su presunti appalti irregolari. In seguito, i due indagati erano stati prosciolti, ma la notizia online non era mai stata aggiornata. Per il tribunale di Genova il reato sussiste in quanto non c'è dubbio che "l'omesso aggiornamento mediante inserimento dell'esito del procedimento penale" configuri un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato "è certamente idonea a qualificare negativamente l'immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico". Quindi la notizia, che pure era vera e corretta al momento della sua pubblicazione online, avrebbe dovuto essere aggiornata perché smentita dall'evolversi del procedimento penale. "La verità della notizia" sostiene testualmente la condanna "deve essere riferita agli sviluppi d’indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all'epoca dell'acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda". La sentenza, ignorata dai siti internet come dalla stragrande maggioranza dei giornali, arriva proprio nel momento in cui l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali italiane (l’associazione degli avvocati penalisti) dà alle stampe un saggio rivelatore. Per sei mesi, dal giugno al dicembre 2015, gli avvocati hanno raccolto e analizzato la cronaca giudiziaria di 27 quotidiani. È una massa imponente di materiale: 7.373 articoli. Quasi sette su dieci danno notizie sulle indagini preliminari, e in particolare il 27,5% tratta dell’arresto di un indagato. Ma quando poi il processo arriva al dibattimento, l’attenzione si dissolve: solo il 13% degli articoli segue le udienze in tribunale. Va ancora peggio alla sentenza: appena l’11% degli articoli informa i lettori su come è andata a finire la vicenda giudiziaria che nelle fasi iniziali, invece, veniva squadernata su pagine e pagine. Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente, scrive che "le informazioni sulle indagini preliminari vengono sapientemente pubblicate e divulgate per creare consenso preventivo". Il risultato è negativo anche sulla correttezza del processo, perché si viola "la verginità cognitiva del giudice, che viene bombardato da informazioni riguardanti le indagini". Secondo lo studio, gli articoli sono dichiaratamente colpevolisti quasi nel 33% dei casi; un altro 33% riporta le tesi della pubblica accusa senza esprimere giudizi; il 24% ha toni neutri. E soltanto il 3% prende una posizione più garantista, se non direttamente innocentista. Soltanto il 7% degli articoli riporta notizie di natura difensiva, fornite dall’avvocato dell’indagato o dell’imputato. 

·        L’Occupazione delle case.

Nove militanti condannati per associazione a delinquere. Davano case a chi non le ha, puniti i Robin Hood del Giambellino. Frank Cimini su Il Riformista l’11 Novembre 2022

Organizzavano l’occupazione di case sfitte di Aler per darle a famiglie bisognose in una metropoli dove c’è fame di abitazioni. Non prendevano soldi, non c’era fine di lucro come riconosciuto nel corso delle indagini dagli stessi pm. Ma nove militanti del comitato Giambellino-Lorenteggio sono stati condannati per associazione a delinquere finalizzata all’occupazione abusiva.

Le pene, più alte di quelle richieste dall’accusa, vanno da un anno e 7 mesi a 5 anni e 5 mesi. Il Tribunale ha deciso che dovranno anche risarcire Aler. Soprannominato “Robin Hood” quello contro il comitato era un processo simbolo sull’emergenza abitativa.

“In una città così escludente e spietata come Milano aiutavano povera gente a sopravvivere, offrendo solidarietà senza chiedere nulla e sono stati trattati e un’organizzazione criminale” dice l’avvocato Mauro Straini. “La sentenza dimostra che alcuni valori costituzionali sono per alcuni giudici caduti in disuso. A cominciare dal diritto all’abitazione. Per il Tribunale chi si è attivato per adempiere al dovere di trovare una casa è meritevole di essere inserito in una associazione per delinquere – spiega Giuseppe Pelazza altro legale della difesa – È ciò a fonte della violenza delle istituzioni che hanno azzerato i fondi per l’edilizia pubblica omettendo le indispensabili manutenzioni dei pochi stabili di edilizia popolare facendo così aumentare il numero dei senza casa e di chi viene costretto a vivere in situazioni di pesante degrado”.

Pelazza aggiunge che siamo costretti e sembra paradossale a rimpiangere Giorgio La Pira che da sindaco di Firenze andava personalmente a requisire gli appartamenti sfitti per assegnarli a chi casa non aveva. La sentenza bastona chi cerca di tutelare i diritti dei più deboli, secondo il legale. “E prima o poi non potrà non succedere qualcosa che rimetta le cose a posto”.

Il comitato del Giambellino aveva creato uno sportello di aiuto per le persone in difficoltà, racconta l’avvocato Eugenio Losco – organizzando attività ricreative, doposcuola, ambulatorio popolare, tutte attività lecite. “Lo scopo era questo e non quello di commettere reati. In particolare trovo fantasioso – aggiunge Losco – che si possa costituire una associazione per delinquere per commettere il reato di resistenza. Un reato dettato da ragioni estemporanee che mal si concilia con una ideazione a tavolino. Le resistenze peraltro non sono state dimostrate. Un conto è opporsi con violenza e minacce alla polizia un conto è partecipare la propria solidarietà e anche protestare l’illegittimità politica degli sfratti. Da condannare sono le istituzioni totalmente assenti. È solo un bene che siano nati questi comitati che portano aiuto a chi ha bisogno”. Insomma una volta si parlava di giustizia di classe e visto quello che accade lo si può ancora fare senza essere sospettati di delirare. Frank Cimini

Che tristezza la sinistra che tifa per le occupazioni. Il sindaco Gualtieri ha firmato la direttiva che autorizza la deroga al “decreto Lupi” facendo un regalo agli abusivi.  Giorgio Spaziani Testa su Nicolaporro.it il 6 Novembre 2022.

“I soggetti «meritevoli di tutela» e fragili devono poter contare sulla possibilità di iscrizione della residenza nel luogo in cui hanno la dimora abituale e di potersi allacciare ai servizi pubblici essenziali (es. acqua, energia ecc.)”. Inizia così il comunicato stampa del Comune di Roma con cui si rende noto che il sindaco Gualtieri ha firmato la direttiva che autorizza la deroga all’art. 5 del cosiddetto “decreto Lupi”, la norma che prevede – per chiunque occupi abusivamente un immobile – il divieto di chiedere la residenza nell’immobile occupato, di chiedere l’allacciamento ai pubblici servizi e, se si tratta di alloggi di edilizia residenziale pubblica, di partecipare per cinque anni alle procedure di assegnazione di alloggi della stessa natura.

La norma in questione è contenuta nel decreto-legge n. 47 del 2014 (di cui fu promotore, appunto, l’allora ministro Maurizio Lupi), ma nel 2017 fu modificata attraverso l’inserimento di una facoltà di deroga da parte dei Comuni, così formulata: “Il sindaco, in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto ai commi 1 e 1-bis, a tutela delle condizioni igienico-sanitarie”. Proprio avvalendosi di questa facoltà, il sindaco di Roma ha varato la direttiva in questione, che fa seguito a una mozione nello stesso senso approvata dall’assemblea capitolina.

Leggiamo ancora dal comunicato del Comune di Roma (anzi, di Roma Capitale, come pomposamente si chiama da qualche anno): “La direttiva di oggi specifica che tale deroga debba essere considerata «nella fase transitoria che precede la ricollocazione», almeno per persone seguite dai servizi sociali e con particolari fragilità e vulnerabilità (disabili, minori, ultrasessantacinquenni), con un reddito inferiore a quello richiesto per accedere alle graduatorie Erp. Idem per i richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale e, infine, per le persone e i nuclei familiari in condizione di precarietà abitativa, tale da mettere in discussione le condizioni igienico-sanitarie minime”.

Insomma, mentre fighetti, politicanti, penalisti della domenica e cialtroni vari ci ammorbavano con i rischi per la democrazia, la libertà e la pace nel mondo provocati dalla norma anti rave party (non certo perfetta, per carità, ma neppure minimamente pericolosa come qualcuno prova ancora a far credere), il sindaco di Roma preparava questa vera e propria offesa al diritto di proprietà.

E non ci si lasci ingannare dal riferimento alla “fragilità” o alla “vulnerabilità” (termini di moda da un po’): il titolo di fragile o vulnerabile, in Italia, è come quello di dottore: non lo si nega a nessuno. E poi basta leggere l’elencazione fatta nel comunicato del Comune per capire la presa per i fondelli: basta portarsi nel gruppo un bebè e il gioco è fatto, come da sempre accade. La realtà è che, con questa “deroga”, la norma del “decreto Lupi”, che non era altro che semplice civiltà giuridica, viene di fatto annullata. Con tanti saluti alla legalità.

Giorgio Spaziani Testa, 6 novembre 2022

Roberto Gualtieri, scandalo a Roma: ecco a chi regala luce e gas. Elisa Calessi su Libero Quotidiano il 06 novembre 2022

D'ora in poi, a Roma, chi occupa una casa illegalmente, ma ha con sé minorenni, soggetti «fragili» o «meritevoli di tutela», potrà tranquillamente allacciarsi alla rete dell'acqua, ai tubi del gas, ai fili della luce e persino richiedere la residenza in un appartamento che non è suo, oltre che rientrare nelle graduatorie per un alloggio popolare. Il tutto in deroga a un decreto, firmato a suo tempo da Maurizio Lupi quando era ministro, che prevede il divieto di residenza, di allacciamento ai pubblici servizi per chiunque occupi illegalmente un immobile e l'impedimento per 5 anni a partecipare alle procedure di assegnazione di alloggi popolari. Proprio per scoraggiare le occupazioni illegali. Nel comune di Roma, da oggi, si potrà fare. Merito di una direttiva firmata dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, che autorizza la "deroga" all'articolo 5 del decreto Lupi.

Il provvedimento segue una mozione che era stata votata dall'Assemblea Capitolina lo scorso giugno, dove si prevedeva la possibilità di non rispettare i divieti contenuti nel decreto, «in presenza di minorenni e meritevoli di tutela e a garanzia delle condizioni igienico- sanitarie». La direttiva, firmata ieri, specifica che la deroga non vale per sempre. Segno, evidentemente, che anche sul Campidoglio si è consapevoli del fatto che il decreto era nel giusto. La sospensione di quello che prevedeva la legge, spiega la direttiva, deve essere considerata «nella fase transitoria che precede la ricollocazione». Insomma: fino a che non si ha una casa popolare, si può occupare illegalmente un immobile e fruire di tutti i servizi pubblici. Chi potrà farlo? La lista è questa: «Le persone seguite dai servizi sociali e con particolari fragilità e vulnerabilità (disabili, minori, ultrasessantacinquenni)», le persone «con un reddito inferiore a quello richiesto per accedere alle graduatorie Erp», «i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale» e, infine, le «persone e i nuclei familiari in condizione di precarietà abitativa tale da mettere in discussione le condizioni igienico-sanitarie minime».

Gualtieri ha difeso la scelta, spiegando che «la dignità delle persone viene prima di tutto». Detto questo, ha aggiunto, «Roma Capitale è per il rispetto della legge». All'attacco tutta l'opposizione di centrodestra, che ha fortemente criticato la decisione del sindaco di Roma. «La direttiva contiene delle belle frasette come "dignità delle persone" o "meritevoli di tutela", e qualche locuzione in burocratese che non distraggono dal reale contenuto di questo assurdo provvedimento», è il commento dei consiglieri della Lega Fabrizio Santori e Davide Bordoni. «La deroga all'articolo 5 consentirà a tutti gli illegali, clandestini e furbetti di ottenere la residenza e l'allaccio ai servizi: costi che naturalmente andranno a carico dei romani.

E a corollario apre la via grande per l'ottenimento di una casa prima degli altri in graduatoria anche da anni». È «un altro insulto a chi attende da anni una casa, uno schiaffo alla legge e al più elementare senso di giustizia e legalità». Sulle barricate anche Fratelli d'Italia: «È un atto irresponsabile che consente una sanatoria di fatto a tutti coloro che hanno occupato un alloggio popolare», ha detto il senatore di Fratelli d'Italia Andrea De Priamo. «Dopo gli strali che la sinistra ha lanciato contro la previsione del reato di organizzazione di rave realizzato occupando illegalmente stabili e terreni, questa nuova concessione è un chiaro invito ad occupare un alloggio senza attendere le infinite graduatorie per la concessione di alloggi».

Difende il sindaco, il Pd: «È un provvedimento di giustizia sociale. Quella norma vietando la residenza, quindi la possibilità di accedere a servizi pubblici essenziali condannava le persone all'invisibilità», hanno spiegato i consiglieri del Partito democratico in Campidoglio. 

Giorgia Chiodo per “La Verità” il 4 novembre 2022.

Finalmente è finito il calvario degli abitanti di via Bolla, a Milano. Nella mattinata di ieri, alle 8 circa, sono iniziate le operazioni di sgombero degli appartamenti occupati abusivamente dai rom. Il maxi blitz ha visto coinvolti più di 200 appartenenti alle forze dell'ordine in tenuta antisommossa, con l'ausilio di vigili del fuoco, polizia locale e Protezione civile. 

A questi si sono aggiunti i tecnici dell'Unareti Milano, società che gestisce l'energia elettrica e il gas, dell'Aler e artigiani fabbri. Sono stati svuotati i civici 38, 40 e 42, per un totale di 156 alloggi, di cui 90 occupati abusivamente. Diverse le famiglie con minori, che verranno seguite dai servizi sociali del Comune di Milano.

Questo è il primo passo di un progetto di riqualificazione della zona, per cui Regione Lombardia ha stanziato 33 milioni di euro. Le manovre di sgombero hanno avuto inizio con il ritrovo alle 7.30 presso Piazzale Moratti di poliziotti, quasi tutti provenienti dai reparti mobili milanesi e dalle regioni vicine, agenti in forza al commissariato Bonola, alla Squadra mobile, all'ufficio immigrazione della questura, e carabinieri. 

Con blindati, macchine di servizio e auto civetta sono poi giunti presso i fatiscenti e degradati palazzi di via Bolla e hanno dato avvio a perquisizioni e allo svuotamento degli appartamenti occupati abusivamente. Nei giorni precedenti già numerose famiglie rom avevano abbandonato spontaneamente le abitazioni, mentre sono circa 70 le persone che nella mattinata di ieri hanno lasciato gli appartamenti, con grandi valigie e borsoni. Tutto è avvenuto tra grandi applausi e apprezzamento dei residenti regolari.

«Finalmente possiamo tornare a vivere tranquilli, senza più paura di uscire di casa ed essere costretti ad assistere a episodi pericolosi», dice una donna. «Speriamo che questo sia l'inizio di un'effettiva ripresa della zona e che non sia l'ennesima promessa non mantenuta». Lo sgombero è stato pianificato dal questore, Giuseppe Petronzi, e dal prefetto, Renato Saccone. Sul posto presenti anche l'assessore regionale alla Casa e housing sociale, Alan Rizzi, e l'assessore di Municipio 8, Fabio Galesi. La questura fa sapere che le operazioni si sono svolte senza problemi, senza litigi e urla: solo alcune persone si sono inizialmente rifiutate di lasciare gli appartamenti, cedendo però poco dopo. 

Affidandosi a un post su Instagram, l'assessore comunale alla Sicurezza, Marco Granelli, ha scritto: «Dopo un lavoro di sei mesi guidato dalla prefettura, intensamente chiesto e incoraggiato dal Comune, e dopo anni di completo abbandono da parte di Aler e Regione Lombardia, si compie una vera svolta.  

Aler, l'azienda che gestisce le case popolari della Regione, sta mettendo in sicurezza e a breve inizierà una riqualificazione totale. I servizi sociali del Comune di Milano hanno analizzato una a una le situazioni sociali ed economiche dei nuclei familiari, Aler ha messo a disposizione numerose soluzioni per il sostegno abitativo, cui ha contribuito anche il Comune, per circa 50 nuclei familiari con minori, perché non si mettono in strada i minori».

E ha aggiunto: «Chi governa una città, chi deve tutelare sicurezza e ordine pubblico ha il dovere di affrontare e risolvere i problemi. Questo il Comune ha scelto di fare, cercando soluzioni concrete, per il bene della città, per la legalità, la sicurezza, la giustizia sociale». Forse però questa operazione doveva essere fatta prima, quando sono cominciate le denunce dei residenti. Prima che ci fossero risse, spacci di droga, uso di armi. Prima che la zona diventasse teatro e palcoscenico dell'illegalità e della criminalità. Però come si dice, «meglio tardi che mai». Non è certo una coincidenza, comunque, che questa operazione sia coincisa con il cambio della guardia al Viminale.

A proposito dello sgombero dell’immobile occupato abusivamente da stranieri a Roma:

Perché gli organi di informazione ideologizzati, che hanno perso ogni forma di credibilità, esaltano una frase detta sotto pressione e tensione da un solo poliziotto e sottacciono le violenze a danno degli altri agenti di polizia? E perché gli scribacchini si indignano dello sgombero di un immobile occupato abusivamente e pagato con i fondi pensione dei cittadini italiani, mentre tacciono spudoratamente, quando ad essere cacciati di casa sono quei cittadini italiani vittime di sfratti o di esecuzioni forzate, frutto di usure bancarie impunite o di sentenze vendute?

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Gli abusivi? Sette su dieci sono stranieri. E scattano le ronde nei quartieri popolari. Sono 3.114 le case popolari occupate a Milano: il 67% degli abusivi sono stranieri. L'assessore alla Sicurezza della Regione punta il dito contro Sala. Francesca Galici il 30 settembre 2022 su Il Giornale.  

La gestione di Milano è, ormai, sempre più discutibile. Il Comune non sorveglia e non vigila adeguatamente il territorio e lo dimostrano la bassa percezione di sicurezza dei cittadini ma anche l'aumento dei reati e l'aumento delle occupazioni degli edifici, sia comunali che privati. Fenomeni contro i quali Beppe Sala non sembra intenzionato a intervenire ma che a Milano rappresentano ormai un problema grave e preoccupante. Secondo l'ultimo rapporto richiesto dall'assessore alla Sicurezza di Regione Lombardia, Romano La Russa, dal 2012 a oggi l'Aler registra un incremento costante delle occupazioni illecite nelle case popolari. Di queste, il 67% è a opera di cittadini stranieri.

Le occupazioni a Milano

I casi di occupazione irregolare a Milano sono migliaia, si va da chi scassina le serrature per impadronirsi di immobili già occupati da legittimi inquilini che, magari, per un periodo si trovano lontani dal loro appartamento. Oppure, gli irregolari riescono a individuare alloggi vuoti e a impadronirsene ed è quanto meno strano che immobili agibili siano ancora vuoti, senza assegnatari ufficiali, viste le liste di attesa enormi del Comune di Milano. In molti casi non si tratta di semplici occupazioni che hanno la connotazione del temporaneo, perché ci sono casi di persone che da anni vivono indisturbate nelle case occupate, che nel frattempo sono state arredate e vissute come legittime dagli occupanti. Stando al rapporto, sono 3.114 gli appartamenti Aler abitati da inquilini irregolari. "Aler si sta mobilitando fino all'inverosimile per controllare i quartieri popolari più problematici della città, anche se l'autorità preposta sarebbe la polizia locale, che tuttavia se ne mantiene alla larga per volere del sindaco Sala, come fossero zone franche della città", ha spiegato l'assessore alla Sicurezza, immigrazione e polizia locale di Regione Lombardia, Romano La Russa.

L'azione di Aler

Nonostante gli ostacoli posti dal Comune di Milano, Aler è impegnata in operazioni di controllo, verifica e dissuasione. Come riferisce il quotidiano Libero, da lunedì partirà il servizio di ronda effettuato dai volontari di Api, l'Associazione poliziotti italiani, ossia gli ex poliziotti in pensione che si mettono a disposizione per un servizio inizialmente istituito da Letizia Moratti nel 2010 durante la sua giunta per garantire la sicurezza a bordo delle metropolitane. Servizio che, come immaginabile, è stato fatto saltare dall'insediamento della sinistra a Palazzo Marino e che ora riprenderà vita sotto le insegne della Regione su un altro ambito.

Gli eventi che inneggiano alle occupazioni abusive che Sala non vede. Milano terra di centri sociali e abusivi: nelle periferie ancora eventi pubblicizzati in favore delle occupazioni e delle autogestioni. Francesca Galici il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.

Ormai, Milano è diventata quasi terra di nessuno per quanto concerne il rispetto delle regole, che valgono sempre più solo per i cittadini e i residenti regolari. Ai centri sociali, nella Milano di Beppe Sala, è permesso tutto. O quasi. Lo dimostrano i tanti eventi irregolari che si susseguono giorno dopo giorno, che vengono effettuati senza chiedere permessi e senza che le autorità intervengano per fermare il tutto, nonostante si tratti di manifestazioni ampiamente pubblicizzate e sponsorizzate, sia sui social che sul territorio. Diverso è il trattamento per i privati cittadini che, invece, sono costretti a lunghe trafile burocratiche, senza che nemmeno ci sia la certezza di ottenere le autorizzazioni. Lo sanno bene i residenti della zona di via dei Transiti, periferia nord-orientale di Milano, che da anni subiscono le prepotenze dei centri sociali.

I concerti illegali dei centri sociali che Sala finge di non vedere

"Concerti, cene e manifestazioni in via dei Transiti. Tutte illegali e senza autorizzazioni, nonostante rassicurazioni del presidente Municipio 2, proseguono come se nulla fosse. In vista delle elezioni anche i centri sociali manovalanza a buon mercato?", chiede provocatoriamente Luca Lepore, capogruppo della Lega nel Municipio 2, che da tempo denuncia le irregolarità dei centri sociali. Una domanda retorica, la cui risposta è ben nota. Il centro sociale T28 di via dei Transiti ha una pagina Facebook costantemente aggiornata, in cui pubblicizza un vero e proprio calendario di eventi, che si protraggono da mesi, con l'unica sospensione durante le ferie estive: "A luglio avevo chiesto spiegazioni al Presidente del Municipio 2, Simone Locatelli del Pd, in merito ai concerti illegali organizzati nel parchetto prospiciente il centro sociale e aveva garantito che avrebbe informato la polizia locale".

Nonostante sia passato del tempo, le cose in via dei Transiti non sono cambiate. "ad oggi pare che gli unici a non esserne informati sono gli antagonisti del T28 che tanto per cambiare proseguono nei loro eventi che incitano alle occupazioni abusive che, sempre che Locatelli e il Sindaco Sala non ne siano informati, costituisce reato ex articolo 633 del codice penale". Gli eventi pubblicizzati sono per la maggior parte delle volte fantomatiche cene popolari al grido di "supporta le occupazioni, diffondi autogestione". Non si usano nemmeno troppi giri di parole per spiegare il fine di questi eventi. "Se la sinistra legittima l’illegalità lo dica chiaramente senza fingere di non essersene accorta per prendere per i fondelli i residenti che subiscono il caos degli antagonisti", conclude Luca Lepore.

Lorenzo D’Albergo per repubblica.it il 14 agosto 2022.

Il primo censimento è finito: stando ai controlli del dipartimento Patrimonio del Campidoglio, gli alloggi di housing sociale sono occupati per la metà da inquilini che non hanno i minimi requisiti per abitarli. 

Il nucleo al servizio degli uffici capitolini coordinato da Massimo Ancillotti, già comandante dei vigili urbani, ha scovato 114 irregolari a fronte di 115 regolari. Ora mancano soltanto le sanzioni a quei costruttori rei di non aver rispettato i patti e aver assegnato gli appartamenti a canone calmierato a chi non ne ha diritto.

La storia, raccontata da Repubblica, è partita quando il Comune ha avviato le sue indagini sulla grande truffa dei palazzinari. Un raggiro da centinaia e centinaia di alloggi. Pensato per venire incontro alle famiglie che non possono acquistare o affittare una casa ai prezzi del costosissimo mercato immobiliare capitolino - insomma, per cercare di risolvere l'apparentemente irrisolvibile piaga dell'emergenza abitativa - lo strumento imposto ai costruttori dalla Regione per l'edilizia sociale è finito fuori controllo. 

L'accordo che permette agli imprenditori di realizzare più appartamenti a patto di cederne almeno il 30% a chi è in lista per un alloggio di housing sociale non è stato rispettato nel 50% dei casi.

Quelle case sarebbero dovute finire a famiglie numerose, over 65, coppie under 35, studenti fuorisede, sfrattati, disabili, reduci da divorzi e separazioni, appartenenti alle forze dell'ordine, ai vigili del fuoco o all'Esercito. Un bersaglio difficile da mancare, ma comunque snobbato da buona parte dei costruttori coinvolti nell'indagine dell'amministrazione capitolina. 

Nel mirino, tra gli altri, sono finiti gli imprenditori che hanno realizzato il palazzone che affaccia su via del Porto Fluviale e sul Tevere, fronte ponte di Ferro, a quelli che hanno investito sulle villette a schiera disseminate da Ostia alle periferie Est, Ovest e Nord della capitale. Il totale fa 90. Tante sono le imprese finite nell'inchiesta interna del dipartimento Patrimonio.

In molti casi gli alloggi per l'housing sociale, annota la direzione Emergenza alloggiativa, sono stati assegnati in barba alle regole: "I soggetti beneficiari, nella maggioranza dei casi, non appaiono economicamente fragili e/o bisognosi". Nuclei familiari spesso "vicini o legati al soggetto attuatore ( dell'intervento, il costruttore, ndr) per rapporti di lavoro, parentali o amicali". 

Durante la prima tornata di verifiche, "raramente si sono riscontrati casi con reali fragilità sociali".

Capitolo sanzioni. Oltre a dover liberare gli appartamenti e ad assegnarli a chi ne ha veramente bisogno, i costruttori rischiano di essere multati dal Campidoglio. A patto che l'amministrazione capitolina si decida a individuare chi deve intervenire. Dopo una fase di stallo, la partita è finita sul tavolo del direttore generale Paolo Aielli. 

Il city manager scelto dalla giunta Gualtieri dovrà dire chi deve entrare in azione a questo punto. Se a dare l'input, infine, dovrà essere l'assessorato al Patrimonio di Tobia Zevi o quello all'Urbanistica del collega Maurizio Veloccia. 

L'importante è trovare una soluzione per chiudere questa storia. Quindi, ultimo passo, il Campidoglio dovrà decidere se portare l'intero faldone all'attenzione della procura, a piazzale Clodio, e a quella dei magistrati della Corte dei Conti.

"26 case popolari su 31 agli stranieri". Lo squilibrio della Milano di Sala. Il 20% della popolazione residente regolarmente a Milano è straniera ma gli aiuti del Comune vanno per lo più in quella direzione, spiega il consigliere comunale Silvia Sardone. Francesca Galici il 2 Agosto 2022 su Il giornale.

A Milano, ormai da parecchi anni, il refrain sembra essere sempre lo stesso: priorità agli stranieri. E non si tratta di mere supposizioni o deduzioni ma di conclusioni tratte a partire dai numeri forniti dallo stesso Comune di Milano, come ha spiegato il consigliere comunale Silvia Sardone in un'intervista rilasciata al quotidiano Libero. In particolare, a segnare le differenze di trattamento sono le assegnazioni delle case popolari, destinate ai cittadini in difficoltà e rientranti nel progetto "Polmone abitativo" attivo dal 2019 al 2021, nato per garantire un tetto alle famiglie indigenti di Milano. Come segnalato su Libero, 26 dei 31 appartamenti individuati per questo piano sono stati assegnati a bando a nuclei stranieri.

Ed è facile fare i conti: il Comune ha destinato circa 3 case su 4 a cittadini extracomunitari. Il tutto rendicontato dal Comune di Milano e, per la precisione, le assegnazioni sono state così ripartite: nel 2019 Palazzo Marino ha assegnato 15 appartamenti a cittadini stranieri e solo 4 a nuclei italiani; nel 2020 sono stati 3 quelli consegnati a cittadini extracomunitari e nemmeno uno agli italiani; nel 2021 il rapporto è stato di 8 a 1. E risulta quanto meno strana la proporzione, considerando che il 2020 e il 2021 sono stati gli anni della pandemia, durante i quali molti italiani hanno perso il lavoro o sono stati sfrattati dalle loro abitazioni perché incapaci di pagare gli affitti ai privati a seguito della cassa integrazione Covid e della crisi economica. Eppure, a fronte di una popolazione straniera di appena il 20%, a Milano la maggior parte degli appartamenti del progetto "Polmone abitativo" sono stati assegnati a cittadini extracomunitari.

A Milano più case popolari agli stranieri che agli italiani

I numeri sono emersi grazie all'interrogazione di Silvia Sardone all'assessorato alla Casa del Comune di Milano: "Lo squilibrio è evidente ma non ci stupisce visto che quando si parla di politiche sociali e abitative i nostri connazionali vengono sempre scavalcati e a tal proposito ci sono una marea di esempi significativi, vedi bebè card, misure di sostegno al reddito, borse lavoro, esenzione mense. A sinistra grideranno al razzismo ed è verissimo che c'è razzismo: ma verso gli italiani, non certo verso gli stranieri".

A livello di proporzioni, si è davanti a uno squilibro notevole. "Possibile che gli italiani debbano sempre venire dopo? Ci sono migliaia di milanesi, in difficoltà economico-sociali, che abitano nella nostra città da decenni: perché chi è appena arrivato merita più aiuto rispetto a loro? Il welfare anti-italiano della sinistra è sempre più pericoloso e soprattutto ingiusto", dice ancora Silvia Sardone al quotidiano Libero. Al di là dei numeri, è sufficiente anche fare un passaggio nelle periferie di Milano, dove la lingua italiana è diventata minoritaria: "È così difficile per il sindaco Sala e la sua giunta supportare i nostri cittadini? Stop a questo razzismo al contrario".

Via Bolla Milano, rivolta nelle case popolari: rissa a sprangate tra 60 persone, un bambino di 2 anni in ospedale. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.

Spranghe, bombe carta e bastoni: feriti una donna di 44 anni, un ragazzino di 17 e un bambino di 2 anni. Blindati e agenti di polizia in assetto anti-sommossa per fermare i disordini. Famiglie rom, tensioni tra inquilini regolari e abusivi, sentinelle a guardia dei palazzi: «Prima o poi ci scappa il morto» 

L’intervento della polizia in via Bolla

La rivolta esplode alle 21.20 di venerdì 10 giugno, ma è solo l’epilogo di una settimana di tensioni e liti. In via Bolla, «buco nero» da più di dieci anni al quartiere Gallaratese, si affrontano una sessantina di abitanti con spranghe, bombe carta e bastoni. Il bilancio finale è di tre feriti, una donna di 44 anni, un ragazzino di 17 e un bambino di 2 anni, tutti romeni, che finiscono al San Carlo con contusioni e ferite lievi. Ma è soprattutto sul fronte dell’ordine pubblico che si segnalano i problemi maggiori. La polizia interviene con dieci volanti ma non basta e da via Fatebenefratelli, su ordine del questore Giuseppe Petronzi, vengono inviate cinque squadre del reparto mobile con gli agenti in tenuta anti sommossa. Ci vogliono più di due ore per riportare la calma e quando all’una di notte i blindati lasciano via Bolla l’impressione è di una pace solo sospesa, con le tensioni destinate a riaffiorare presto. Come del resto era già successo nei giorni scorsi con diversi interventi di polizia e carabinieri arrivati per sedare liti e aggressioni tra gli abitanti. Quando la polizia lascia la strada, dal cortile al civico 40 riprende il via vai di Bmw e grosse berline. Sono le «sentinelle» degli abusivi che controllano che, davvero, la notte di battaglia si sia conclusa.

Lo scontro tra regolari e abusivi

Secondo la prima ricostruzione degli investigatori alla base della maxi rissa tra abitanti di varie etnie sembra ci siano problemi di convivenza forzata tra regolari (pochi) e abusivi, e anche con gli inquilini dei palazzi di fronte sempre di edilizia popolare ma gestiti da Mm, da tempo esasperati. Da una parte ci sono i rom, bosniaci e serbi, che hanno ormai occupato quasi per intero tre palazzine di via Bolla gestite dall’Aler. Sono gli stessi edifici dove a febbraio un incendio nelle parti comuni piene zeppe di spazzatura aveva innescato tensioni e polemiche. Gli abusivi qui sono una novantina, alloggi occupati negli ultimi cinque anni sfruttando il degrado mai sanato da chi, nel complesso popolare, dovrebbe far rispettare le norme minime di convivenza, igiene e sicurezza. Invece al momento la sola ricetta di Aler sembra quella di un paventato abbattimento degli stabili considerati ormai irrecuperabili. Ma ogni volta che una famiglia regolare è stata trasferita negli alloggi temporanei in vista dei lavori, l’appartamento è finito occupato nel giro di poche ore. E i palazzi sono diventati in breve dei fortini.

Le corse in auto

La causa scatenante della rivolta sembra legata a un episodio già visto più volte nel recente passato: auto che sgommano a tutto gas, con rom alla guida, e che secondo alcuni testimoni si sarebbero addirittura scontrate all’uscita dal cortile rischiando di investire un bambino. Vero o non vero è comunque la scintilla che fa deflagrare giorni di altissima tensione. Dai palazzi scendono altri rom, poi anche gli italiani degli stabili di fronte. Ci sono anche magrebini. In mano ai contendenti ci sono bastoni, spranghe, qualcuno racconta anche di presunti spari (due) di cui comunque non ci sono prove certe. Ci sono invece sull’asfalto le tracce di due bombe carta, tipo cipolle, che vengono lanciate dai balconi di via Bolla quando è già presente la polizia. Altri, con le spranghe, danneggiano l’auto parcheggiata nel cortile di uno degli abitanti magrebini. Episodio che chi vive qui definisce «importante e non esente da strascichi»: «È un pezzo grosso, gliela farà pagare». Alla fine il 118 soccorre tre feriti che vanno in ospedale in codice verde.

Le famiglie rom nelle case Aler

Il clima resta però pesante. E nonostante i molti interventi delle forze dell’ordine in questi mesi, mai prima d’ora si era verificato un così problematico e numeroso scontro tra gli abitanti. Il problema ormai endemico di convivenza è ulteriormente peggiorato dopo l’arrivo di nuove famiglie rom. Alcuni hanno anche piazzato i camper nei parcheggi, sempre stracolmi di spazzatura. Quattro, cinque caseggiati Aler che a giudizio di chi si occupa di sicurezza sono un unicum per gravità e per concentrazione di problemi rispetto al resto delle periferie milanesi. Una situazione che però somiglia ormai ad una polveriera. In una palazzina c’è un solo regolare, anziano e disabile, in mezzo agli abusivi. In altre i titolari dell’assegnazione si contano sulle dita di una sola mano. «Prima o poi ci scapperà il morto — sintetizza un residente della zona a spasso con il cagnolino —. E ci vorrà davvero il morto per far sì che finalmente lo stato intervenga con fermezza». Venerdì sera la tragedia è stata solo sfiorata, mentre da anni ormai la politica rimbalza le responsabilità da uno schieramento all’altro. Nel frattempo però il caso via Bolla è diventato, tra problemi irrisolti che si sono stratificati, un problema di ordine pubblico come in città non si vedeva dai tempi della rivolta di via Spaventa nel 1998 o dal più recente sgombero della palazzina di via Adda vicino alla Centrale (2004).

Via Bolla, favela Aler di Milano: così è nata la battaglia tra gli abitanti nel «campo rom verticale». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2022.

Nelle tre palazzine alla periferia Nord Ovest di Milano gli inquilini abusivi sono l’80% dei 156 residenti. Corse di auto, impianti fognari ed elettrici logori, box arredati come appartamenti: il disastro del caseggiato Aler e le accuse tra Comune e Regione

La scintilla è una vecchia Citroen Xara che corre nel cortile come in un circuito di Formula 1. Sgomma, accelera, rischia di investire altri abitanti. Ma la causa della rivolta che venerdì sera porta in strada una sessantina di persone con mazze, bastoni, bombe carta, ha radici ben più profonde. Che affondano in anni di convivenza forzata tra occupanti abusivi che hanno trasformato questi tre palazzi dell’«edificio B» di via Bolla, estrema periferia Nordovest di Milano, in una sorta di campo nomadi verticale.

L’assedio degli abusivi in via Bolla

Gli abusivi sono l’80 per cento dei 156 abitanti, quasi tutti di origini rom. Romeni, bosniaci e serbi che mal si sopportano da mesi, e italiani — quelli rimasti sono meno di una decina — che un po’ resistono e un po’ contribuiscono a gettar benzina esasperati e arrabbiati. Perché la polveriera di via Bolla è un buco nero da anni. L’Aler, che dipende dalla Regione e gestisce queste palazzine, ha da tempo alzato bandiera bianca. La soluzione studiata, drastica e non ancora chiara nei tempi, è quella di salvare alcuni palazzi e praticamente abbatterne altri. Per questo i regolari sono stati via via «smistati» in alloggi temporanei, ma a ogni trasloco s’è succeduta una nuova occupazione. E oggi, mentre il Comune attacca «anni di gestione fallimentare di Aler» e della giunta del governatore Attilio Fontana, il centrodestra replica chiedendo «un presidio dell’esercito» (l’assessore regionale alla Casa, Alessandro Mattinzoli) o mettendo in luce le mancanze del Viminale: «Ci aspettiamo dal ministro Lamorgese un segnale forte per Milano» (il leghista Stefano Bolognini).

Il bilancio dei disordini

Venerdì sera il bilancio è stato di una donna 44enne italiana, un ragazzino romeno di 17 anni e un bambino di 2 portati in ospedale. Gli stessi, ripresi in alcuni video mentre partecipano ai primi disordini quando sono ancora le nove e venti di sera. Ma è dopo che la situazione peggiora, tanto da spingere il questore Giuseppe Petronzi a «inviare» cinque blindati del reparto mobile dislocati in centro per il Fuorisalone a dar manforte alle dieci volanti già presenti. Gli agenti con gli scudi e i caschi in un paio d’ore riescono a riportare la calma. Anche se tutti sanno che qui l’armistizio sarà solo temporaneo. Quando all’1,20 di notte gli agenti lasciano via Bolla ricomincia la spola di sentinelle sulle Bmw in cerca delle fazioni nemiche. In cortile rimangono i segni di una battaglia a spranghe e bastoni di legno ricavati da resti di mobili ammassati negli spazi comuni. I resti di due grossi petardi lanciati, sembra, da un balcone, e al centro del cortile una Bmw station wagon con targa francese e il vetro sfasciato a bastonate.

I rom romeni contro i bosniaci

«Hanno ragione gli italiani a lamentarsi — attacca Costantin, 36 anni, romeno, lavoro come manovale, abusivo, e un passato nella favela rom di via Triboniano —. Qui è tutto uno schifo». I rom romeni puntano il dito contro i bosniaci e in particolare contro una famiglia «arrivata da poco». Eppure qui da anni si ripetono scene identiche, nel 2017 erano già intervenuti i blindati. «Adesso è ancora peggio», si lamenta Barbara dal balcone del primo piano. Lei è una delle cinque regolari del palazzo. Venerdì sera è rimasta ferita negli scontri: «Ci hanno attaccati e ci siamo difesi. La polizia mi ha dovuto scortare a casa dall’ospedale». Gli ascensori non funzionano. Il solo attivo non ferma al piano terra. Le cantine piene di spazzatura sono andate a fuoco a febbraio. I tubi dello scarico fognario sono logori: i liquami finiscono sul pavimento di un locale comune. Alcuni bosniaci hanno arredato i box come case perché c’è meno caldo: «Noi non sappiamo neanche cosa sia successo. Non c’entriamo niente. Fate vedere solo il degrado. Andate via, siamo ubriachi e drogati, vi spacchiamo tutto».

Case popolari far west: guerriglia fra inquilini e rom abusivi. Francesca Galici l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Tensione altissima nelle periferie popolari di Milano, dove 60 persone, abusive e regolari, si sono affrontate in una rissa durata oltre due ore.

Le periferie di Milano sono una polveriera pericolosissima, dove anche il minimo problema rischia di trasformarsi in una tragedia. Lo dimostra quanto accaduto in via Bolla, zona franca per il crimine e i reati, nel quartiere Gallaratese di Milano, dove un litigio tra vicini si è trasformato in una rissa che ha coinvolto 60 persone, molte dei quali rom e abusivi. "Noi ci siamo solo difesi. I rom hanno usato le spranghe e ci hanno lanciato contro i loro bambini per aggredirci", dicono oggi i residenti che hanno deciso di alzare la voce per protestare e per parlare degli scontri di ieri sera con i giornalisti.

Il portavoce dei residenti ha riferito: "I rom che abitano abusivamente negli alloggi popolari e nei camper sotto lo stabile hanno iniziato a sgommare con le auto nel piazzale. Ci siamo spaventati e siamo scesi a vedere cosa stava succedendo". A quel punto è scoppiata la rissa: i rom avrebbero preso alcune spranghe da un cantiere vicino: "Noi ci siamo difesi con calci e pugni, ma non abbiamo toccato i bambini". A quel punto i residenti hanno chiamato la polizia: "Siamo rimasti svegli tutta la notte, io sono stata scortata dalla polizia fin dentro casa. Al mio civico siamo solo in 5 italiani". Come riportato dai residenti, non è la prima volta che vengono aggrediti.

Come riporta il Corriere della sera, quanto accaduto nella notte tra venerdì e sabato è solo l'epilogo di lunghi giorni di forti tensioni. Sessanta persone residenti in via Bolla si sono armate di coltelli, spranghe e bastoni e si sono affrontate. Sono state esplose anche delle bombe carta e in pochi minuti è scoppiato il caos, si sono precipitate dieci volanti della polizia ma non sono state sufficienti per contenere la rivolta. Si sono dovute aggiungere altre 5 pattuglie in assetto antisommossa per riportare la situazione alla calma. Sono servite due ore alle forze dell'ordine per sedare la rissa e mettere in sicurezza il quartiere. Il bilancio finale è di diversi feriti, tra i quali una donna di 44 anni, un ragazzino di 17 e un bambino di 2 anni, tutti di origine romena.

Ma si tratta solo di una pace apparente, una quiete passeggera che al primo screzio farà esplodere nuovamente gli animi dei residenti. Qui, di notte e di giorno, si muovono berline di grossa cilindrata che svolgono il compito di sentinelle di quartiere. Fanno la ronda per proteggere gli abusivi, verificare se ci siano movimenti sospetti di forze dell'ordine o di nuovi possibili occupanti. Alla base di tutto, come riferito anche dai residenti, c'è l'abitudine di effettuare corse abusive con le auto di grossa cilindrata da parte dei rom, che spesso rischiano di provocare incidenti e di coinvolgere anche i bambini. Gli abitanti regolari sono stremati, vorrebbero vivere in un ambiente civile e sano ma la delinquenza di questo fazzoletto di Milano è ormai dilagante e tutti sembrano aver perso le speranze di poter recuperare quest'area della metropoli. L'unica ricetta finora individuata da Aler è l'abbattimento dei palazzi, ormai fatiscenti e abbandonati al loro destino. Ma i residenti chiedono più tutele.

Davanti ai commenti del Pd, che ha messo nel mirino la gestione Aler, si è alzata la voce di Silvia Sardone, consigliere della Lega a Milano: "Puntano il dito contro Aler mostrando tutta la loro ignoranza in materia: l’azienda infatti non ha alcuna competenza di ordine pubblico, a differenza del Comune di Milano, amministrato dalla sinistra da 11 anni, che ben si guarda dall’usare le pattuglie di polizia locale a supporto delle altre forze dell’ordine per quanto riguarda gli sgomberi e di farle girare sul territorio, specie nei quartieri più difficili come via Bolla". L'esponente della Lega ha poi aggiunto: "Forse si dimentica il Pd che i rom e gli abusivi che popolano quei caseggiati popolari possono fare il bello e il cattivo tempo proprio a causa del loro lassismo e della loro voglia sfrenata di integrazione che, guarda caso, rimane sempre solo ed esclusivamente sulla carta". Quello di via Bolla è stato solo uno dei tanti episodi e Silvia Sardone ha sottolineato che "se Milano è in testa alle classifiche sul crimine di tutta Italia la responsabilità e unicamente della sinistra".

"Più case agli occupanti". Il "regalo" di Gualtieri ai centri sociali. Alessandra Benignetti il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

La giunta Dem ha deciso di aumentare la percentuale di alloggi popolari da destinare alle famiglie in emergenza abitativa. Il Pd: "Tuteliamo chi è sotto sfratto". Ma la destra insorge: "Regalo ai centri sociali".

Più case popolari per chi si trova in emergenza abitativa. È la ricetta della giunta Gualtieri per fronteggiare un problema annoso per la Capitale. Ma la delibera approvata venerdì scorso in Campidoglio fa discutere. La proposta dell’assessorato al Patrimonio e alle Politiche Abitative, guidato da Tobia Zevi, è di portare al valore massimo stabilito dal regolamento regionale del 2000 la quota di alloggi da destinare a chi si trova in condizioni di necessità. Tra questi ci sono donne vittime di violenza, persone con handicap psicofisici e malattie psichiatriche, vittime di calamità, ma anche chi viene sgomberato da alloggi di proprietà pubblica e i destinatari di provvedimenti esecutivi di rilascio forzoso di case occupate.

La decisione, spiega al Giornale.it Yuri Trombetti, presidente della commissione Patrimonio e Politiche abitative di Roma Capitale, è stata presa per cercare di andare incontro a chi rischia di ritrovarsi in mezzo alla strada con la fine del blocco degli sfratti. "Le esecuzioni sono riprese in modo drammatico e con l’innalzamento dal 15 al 25 per cento della parte di immobili popolari da assegnare in deroga cerchiamo di offrire una casa a chi per colpa del Covid non è più riuscito a pagare l’affitto". Per l’opposizione, però, in questo modo la giunta finirebbe per strizzare l’occhio agli occupanti abusivi. Se da una parte è vero che la quota di immobili da destinare a chi viene sgomberato dai palazzi occupati gestiti dai collettivi di sinistra con la "sanatoria" voluta da Zingaretti nel 2020 resta al 10 per cento, dall’altro lato viene denunciata l’ambiguità sulle "categorie" che potranno scalare la graduatoria ed ottenere un’abitazione nel giro di qualche mese.

"Nella delibera che fa riferimento al regolamento regionale si parla di sgomberi di alloggi di proprietà pubblica, significa che chi occupa i palazzi di proprietà di enti pubblici potrà guadagnare posizioni e avere le chiavi di un appartamento di proprietà del comune? Se così fosse si sta offrendo di fatto una corsia preferenziale ai movimenti per la casa, è il trionfo dell’illegalità", attacca Fabrizio Santori, consigliere della Lega, che sul caso depositerà nei prossimi giorni un’interrogazione e un esposto alla Corte dei Conti. "Insomma, chi occupa una casa popolare non può più presentare domanda mentre chi occupa con i movimenti di estrema sinistra l’alloggio popolare può ottenerlo e anche in tempi brevi, è vergognoso", incalza Santori. E poi, si chiede ancora il consigliere: "Come verranno gestite le assegnazioni in concreto? Su che basi verranno assegnate le case e con quali criteri?".

Per il leghista sarebbero circa 7mila gli alloggi che ogni anno potrebbero essere consegnati agli abusivi. "Bisogna ricordare – sottolinea – che il 25 per cento da assegnare in deroga è riferito agli alloggi effettivamente disponibili, mentre il 10 per cento riservato agli inquilini dei palazzi occupati si riferisce al totale del patrimonio, circa 60-75mila immobili". Le proporzioni, è il ragionamento del consigliere, sono nettamente sbilanciate a favore dei collettivi. "Paradossalmente - è la conclusione - conviene mettersi nelle mani dei centri sociali per ottenere una casa popolare, piuttosto che seguire le regole". "Da mesi – attacca Santori - la città è ferma su rifiuti, mobilità, gestione del verde e guarda caso il primo atto concreto della giunta sembra essere un regalo ai centri sociali, un chiaro accordo politico fatto passare sotto traccia: non dimentichiamo che Gualtieri è il sindaco che non si fece problemi ad andare a fare campagna elettorale in un palazzo occupato, finito più volte sulle pagine di cronaca per morosità e festini abusivi".

Dal Pd però assicurano che si tratta di un equivoco. "Le case - spiega Trombetti - andranno a chi, con un contratto privato, occupa l’alloggio perché non riesce più a pagare l’affitto per la crisi economica e soprattutto si trova in una posizione utile in graduatoria". "Le faccio un esempio – ci dice al telefono – se una famiglia viene sfrattata perché non ce la fa più a pagare e occupa il ventunesimo posto in graduatoria non le facciamo passare sei o sette mesi in mezzo alla strada ma le assegniamo subito la casa popolare". I movimenti, sottolinea ancora il consigliere Dem, "non c’entrano nulla". "A loro – ricorda – è già riservato il 10 per cento degli alloggi secondo la legge regionale".

Assieme alla delibera che aumenta la percentuale di alloggi da assegnare alle famiglie in emergenza, il dipartimento delle Politiche Abitative ne ha approvata un’altra che istituisce una task force di 15 agenti per sgomberare gli alloggi di edilizia residenziale pubblica e gli appartamenti dei centri di assistenza abitativa temporanea (Caat) occupati da soggetti non assegnatari e recuperare gli immobili del patrimonio indisponibile. Il rischio, però, attaccano dall’opposizione, è che gli abusivi, una volta sgomberati finiscano nelle case popolari come legittimi assegnatari, scavalcando chi da anni è regolarmente in attesa di un alloggio.

Case popolari a Roma, 10 mila occupate da abusivi. Maria Egizia Fiaschetti su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.

Secondo le stime del Sunia, il sindacato degli inquilini, si aggira intorno a questa percentuale il numero di alloggi abitati da persone senza alcun titolo su un totale di 76 mila unità immobiliari del patrimonio Ater e del Comune.

Sono 1o mila, a Roma, le case occupate abusivamente secondo il Sunia (Sindacato unitario nazionale inquilini assegnatari) su un patrimonio di edilizia residenziale pubblica di circa 76 mila unità immobiliari, 48 mila dell’Ater e 28 mila del Comune. In base alle risultanze dell’Ater sono 1.500 gli alloggi occupati da persone che non hanno alcun titolo, fuori dai termini previsti dalla legge regionale (la sanatoria varata nel luglio 2020). Il Sunia stima invece che le richieste di regolarizzazione siano tra le 6 e le 7 mila. Pur in assenza di dati ufficiali, e di una mappatura capillare, è evidente quanto il problema incida sulla vita delle oltre 13 mila famiglie in graduatoria, senza contare i casi più eclatanti degli immobili ubicati in aree di pregio affittati a canone irrisorio a inquilini dal reddito medio-alto.

Dalla Regione fanno sapere che «negli ultimi due anni Ater è riuscita a recuperare oltre 500 alloggi, anche grazie all’aumento delle restituzioni spontanee incentivate dalla stretta in corso sulle morosità, ai controlli avviati sulla regolarità degli inquilini che avevano perso i requisiti e agli interventi immediati sugli alloggi, ripresi e “sigillati” prima della riassegnazione».

Le abitazioni riacquisite al patrimonio Erp sono presenti in tutti i quadranti periferici: Ostia, Tiburtino III, Tufello, Laurentino, Tor Sapienza, San Basilio, Tor Bella Monaca, Pietralata, Val Melaina e Quarticciolo. «Con la nuova amministrazione comunale - confida l’assessore regionale alle Politiche abitative, Massimiliano Valeriani - sarà possibile accelerare questo processo e fornire un prezioso contributo che si aggiunge ai numerosi interventi per dare risposte concrete al diritto all’abitare».

Qualcosa si muove anche in Campidoglio, dove venerdì la Giunta ha approvato la proposta di delibera per riservare alloggi di edilizia residenziale pubblica alle situazioni di emergenza abitativa, presentata dal responsabile capitolino del Patrimonio, Tobia Zevi. Il provvedimento prevede di aumentare dal 15 al 25 per cento l’aliquota di case popolari destinate a questa fattispecie. I criteri per l’ammissione sono: pubbliche calamità; provvedimenti esecutivi di rilascio forzoso dell’alloggio occupato (viene accordata la priorità alle famiglie con reddito più basso); lo sgombero di alloggi di proprietà pubblica da destinare a uso pubblico; la permanenza in strutture assistenziali gestite da realtà riconosciute del terzo settore; il rientro in Italia di persone emarginate per ristabilirvi la propria residenza; l’avvio di provvedimenti giudiziari per donne vittime di violenza domestica; persone con handicap psicofisici o disturbi psichiatrici idonee al reinserimento sociale. Il Comune riserva inoltre il 10 per cento alle gravi situazioni di emergenza abitativa, tra cui rientrano le procedure di sgombero decretate dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Nel frattempo, per mettere ordine (secondo il Sunia gli alloggi comunali occupati sono intorno ai 3 mila) in dipartimento sarà operativa la nuova task force, formata da 20 agenti di polizia locale che saranno impegnati in attività di ricognizione e contrasto dell’illegalità.

Lorenzo d’Albergo per “la Repubblica – ed. Roma” il 27 marzo 2022.

L'housing sociale ridotto a un'etichetta. Un contenitore vuoto. Peggio, riempito con affittuari fuori dai parametri previsti dalla legge. Pensato per venire incontro alle famiglie che non possono acquistare o affittare una casa ai prezzi del costosissimo mercato immobiliare capitolino, per cercare di risolvere l'appartemente irrisolvibile piaga dell'emergenza abitativa, lo strumento imposto ai costruttori dalla Regione per l'edilizia sociale è finito fuori controllo. 

I canoni calmierati, pensati per mettere un tetto sopra la testa di chi non se lo può permettere, alla fine sono stati applicati ai parenti e agli amici del palazzinaro di turno. È questa la grande truffa ai danni delle fasce fragili della città raccontata dai documenti riservati del Campidoglio: ci sono 1.386 appartamenti sotto inchiesta.

Presto scatteranno le prime sanzioni. A ricostruire punto per punto l'inghippo è il report della direzione Emergenza alloggiativa del Comune, guidata da Massimo Ancillotti, uno dei comandanti più esperti dei vigili urbani. 

Si parte dal 2012 e dal regolamento regionale, poi rivisto nel 2015, che determina i criteri per l'accesso all'edilizia sociale. Il sistema è semplice: seguendo i dettami del Piano casa (demolizione e ricostruzione) a fronte di un aumento di superficie edificabile il costruttore si impegna a cedere almeno il 30% degli alloggi che realizzerà seguendo le norme dell'housing sociale.

Le case sarebbero quindi dovute essere cedute in affitto (tra i 4 e i 5 euro al metro quadrato) a chi risiede o lavora a Roma, non possiede già almeno il 50% di un appartamento adeguato al proprio nucleo familiare e non ha un reddito superiore alle fasce previste per l'accesso all'edilizia agevolata. 

Favorite famiglie numerose, over 65, coppie under 35, studenti fuorisede, sfrattati, disabili, reduci da divorzi e separazioni, appartenenti alle forze dell'ordine, ai vigili del fuoco o all'Esercito. Uno spettro piuttosto ampio.

Un bersaglio difficile da mancare, ma comunque accuratamente snobbato da buona parte dei costruttori coinvolti nell'indagine del Comune. Si va dagli imprenditori che hanno realizzato il palazzone che affaccia su via del Porto Fluviale e sul Tevere, fronte ponte di Ferro, a quelli che hanno investito sulle villette a schiera disseminate da Ostia alle periferie Est, Ovest e Nord della capitale.

Qui gli alloggi per l'housing sociale, annota la direzione Emergenza alloggiativa, sono stati assegnati in barba alle regole: «I soggetti beneficiari, nella maggioranza dei casi, non appaiono economicamente fragili e/o bisognosi». Nuclei familiari spesso «vicini o legati al soggetto attuatore (dell'intervento, il costruttore, ndr) per rapporti di lavoro, parentali o amicali».

Una pratica piuttosto diffusa: sui primi 301 contratti verificati sono state individuate 104 violazioni. Più di un terzo degli affittuari degli alloggi di edilizia sociali è sicuramente abusivo. Altri 63 casi sono ancora sotto inchiesta, mentre 24 posizioni risultano «dubbie» e quindi richiederanno ulteriori approfondimenti.

Verifiche anagrafiche, reddituali, catastali. Richieste di dati e informazioni ai comuni di residenza di costruttori e locatari. Insomma, il comandante Lancillotti non vuole lasciare nulla di intentato. Perché, durante la prima tornata di verifiche, «raramente si sono riscontrati casi con reali fragilità sociali». 

Pochi i nuclei numerosi, gli anziani ultrasessantacinquenni, i disabili e chi suo malgrado è reduce da uno sfratto. Troppi gli appartamenti affidati ad amici, parenti e colleghi dei 90 imprenditori che li hanno realizzati. Mentre chi ha davvero bisogno attende invano quattro mura.

Tor Bella Monaca, nessuno vuole le case dei clan: appartamenti vuoti. Federico Garau il 25 Marzo 2022 su Il Giornale.

Gli appartamenti sgomberati restano vuoti, troppa la paura dei boss. All'ultima assegnazione tutte le famiglie convocate hanno rifiutato le case.

C'è ancora diffidenza nei confronti di alcune case Ater di Tor Bella Monaca, rifiutate dagli assegnatari perché appartenute un tempo ai clan di Roma. Gli appartamenti sono sgomberi da mesi, eppure nessuno si è trasferito: basti pensare che, come riportato da Il Messaggero, lo scorso mercoledì mattina ben 7 famiglie sono state convocate per l'assegnazione, ma nessuno ha accettato. Tutti preferiscono altri quartieri.

Tor Bella Monaca in piazza contro spaccio e mafia

Nessuno vuole le case dei "boss"

Dallo scorso 17 settembre tutti gli appartamenti della cosiddetta "Torre della legalità" di Tor Bella Monaca sono rimasti vuoti, pur essendo stati sgomberati dalle forze dell'ordine. Troppa la paura dei clan. Si parla, per la precisione, di quelle case popolari site in via Santa Rita da Cascia, specie nella torre 50. Nessuno vuole trasferirsi lì. Ed è così da mesi.

Fra alcuni ex inquilini di quegli appartamenti, figuravano, giusto per fare un esempio, certi esponenti della famiglia Moccia. Giuseppe Moccia, pregiudicato per reati di droga, è il cognato di Vincenzo Nastasi, conosciuto anche come 'O Principe'.

Molte di quelle case erano utilizzate da anni dai clan come base operativa, spesso vi si verificavano episodi di spaccio. In tanti non vogliono avere nulla a che fare con quelle abitazioni, malgrado l'operazione di sgombero e pulizia condotta da carabinieri e prefettura.

"Abbiamo paura di vivere in un quartiere così difficile. Avendo la possibilità di scegliere, preferiamo andare altrove. In un quartiere meno problematico", è quanto riferito al Messaggero da una delle intestatarie degli appartamenti. Non solo le case di Tor Bella Monaca, a quanto pare anche alcune abitazioni di San Basilio vengono rifiutate. San Basilio viene infatti considerato un quartiere ad alto rischio.

Il problema delle assegnazioni

Il sistema delle assegnazioni prevede che vengano proposte tre alternative ai cittadini che hanno diritto ad una casa popolare. Gli appartamenti di Tor Bella Monaca, tuttavia, continuano ad essere rifiutati. Tre su cinque, in particolare, starebbero dando parecchie preoccupazioni.

"Per paura, certo. Ma in alcuni casi, si tratta di rispetto che i capo famiglia si sono guadagnati imponendosi nel quartiere", ha spiegato il presidente Commissione Patrimonio e Casa del comune di Roma Yuri Trombetti al Messaggero. "La situazione non è ancora cambiata ed è molto delicata. Mi aspettavo altre rinunce, ma sappiamo che il quadrante sta cambiando e abbiamo molti segnali positivi". La speranza, dunque, è che un giorno anche queste case vengano assegnate, e che nel quartiere torni la legalità. "Dobbiamo far sentire ai romani che vivono queste difficili realtà che non sono soli e che le istituzioni ci sono", ha aggiunto Trombetti.

Milano, la donna processata due volte per aver occupato una casa Aler: un giudice la condanna, l’altro la assolve. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.  

La 33enne si era sistemata, con i suoi 5 bambini, nell’appartamento di un’anziana deceduta. Due pm dello stesso Tribunale hanno chiesto il processo, uno all’insaputa dell’altro, e così si è arrivati ai due verdetti. 

Due processi in primo grado: stessa imputata, medesimo il reato (occupazione abusiva), identico il fatto e la data e la località (una casa popolare dell’Aler di Milano nel 2017). Solo che un processo finisce con la condanna della donna, l’altro processo invece con la sua assoluzione. Non in due città diverse. Ma nello stesso Tribunale. In due sezioni sullo stesso corridoio. A 40 passi di distanza l’una dall’altra. È il segno di quanto l’informatizzazione degli uffici giudiziari abbia ancora molta strada in concreto da fare per uscire dalla retorica degli annunci.

Ciò che infatti si sarebbe portati a pensare, e cioè che esista un qualche computer che in automatico avverta la Procura che sta chiedendo il giudizio di una persona già mandata a giudizio per lo stesso fatto, o avvisi il Tribunale che sta processando una persona già giudicata per quello stesso fatto, nella realtà non esiste. Sicché, se capita (come può capitare) che per lo stesso fatto arrivi più di una denuncia, e in Procura la notizia di reato venga iscritta per sbaglio due volte, e assegnata quindi a due pm diversi, e poi questi pm chiedano il processo a reciproca insaputa, e uno dei due processi si concluda, ecco che in Tribunale i giudici e le cancellerie dell’altro processo sono «ciechi» rispetto a questo errore, di cui soltanto il difensore potrebbe avvedersi.

Ma l’avvocato deve giustamente fare l’interesse del proprio assistito. E siccome in caso di sentenze contrastanti viene messa in esecuzione quella più favorevole (assoluzione contro condanna, oppure la pena più bassa tra due condanne), ecco che nel caso accaduto a Milano, nel quale l’imputata era stata condannata nel primo processo, l’avvocato ha coltivato tutto l’interesse a far finire il secondo processo per vedere se la propria assistita potesse trarne beneficio. Come appunto è avvenuto con l’assoluzione.

Il primo processo inizia l’1 aprile 2019 e finisce il 16 ottobre 2019, e l’accusa alla donna («aver arbitrariamente invaso, al fine di occuparlo», un alloggio popolare dell’Aler a Milano «in data anteriore e prossima al 28 luglio 2017») nasce da un controllo degli ispettori Aler che in quell’appartamento (assegnato a una signora nel frattempo morta) trovano senza diritto la 33enne con 5 figli piccoli, che anche in altri cinque controlli nelle settimane successive dice di stare lì da 9 mesi, e di avere avuto le chiavi dal compagno di una sua amica che l’aveva accolta per scontare una condanna in detenzione domiciliare.

Ma anche se fosse così, argomenta la giudice Amelia Managò della VI sezione penale del Tribunale, comunque «non è configurabile lo stato di necessità», perché non ogni permanente difficoltà economica può scriminare l’occupazione abusiva, ma solo «la presenza di un pericolo imminente di danno grave alla persona», pena legittimare la «surrettizia soluzione delle esigenze abitative dell’occupante e della sua famiglia»: da qui la condanna a 4 mesi, a lasciare l’immobile, e ad anticipare intanto 3.000 euro di risarcimento all’Aler.

Ma la stessa imputata viene citata a giudizio il 27 settembre 2019 per lo stesso fatto davanti all’VIII sezione del Tribunale, dove il processo inizia il 19 ottobre 2020 e finisce il 16 giugno 2021 con l’assoluzione dell’imputata (difesa dal legale Marco De Giorgio) perché l’accusa, per la giudice Luisa Savoia, «non ha provato che l’occupazione dell’alloggio a partire dal 27 aprile 2017 sia avvenuta ad opera dell’imputata: il solo dato oggettivo che fosse dentro casa il 7 marzo 2019 non consente di riferire all’imputata la condotta di occupazione dell’immobile, considerato che al momento del controllo nell’appartamento era presente anche un’altra persona di cui nulla è stato accertato sulla disponibilità o titolarità dell’immobile». Perciò «si deve dare credito, in mancanza di emergenze di segno contrario, alla versione difensiva della donna, che ha riferito di essere stata ospitata dall’amica per l’esecuzione della detenzione domiciliare».

·        Il Contrabbando.

Miriam Romano per “Libero quotidiano” il 31 marzo 2022.

Un piccolo banco allestito in una via di Frattaminore, in provincia di Napoli. I passanti che si fermavano a contrattare il centesimo e lui, 28 anni, mille euro in tasca e poche decine di pacchetti di sigarette illegali, faceva i suoi affari in un angolo. Di nascosto e a voce bassa, scambiava le "bionde" con banconote e monete che finivano dritte nelle sue tasche. Ma i carabinieri lo hanno colto sul fatto.

Nemmeno il tempo di raccogliere la merce, che le forze dell'ordine lo hanno acchiappato e sono andate a fondo. Hanno voluto perquisire anche nell'abitazione del ragazzo a Orta di Atella a Caserta, dove hanno sorpreso un 42enne incensurato. Lì sono stati sequestrati altri 4.364 pacchetti di sigarette illegali per un peso di 88 chili. In più, hanno trovato dieci piante di canapa indiana in piena fioritura, alte tra i 50 e i 70 centimetri, ben 2 chili di peso. In cucina, cinque barattoli con 140 grammi di marijuana e 2 bilancini di precisione.

È scattato l'arresto per coltivazione di stupefacenti. Ma soprattutto per contrabbando di sigarette. E pare di fare un salto all'indietro nel tempo di almeno quarant' anni. Quando il contrabbando di sigarette era un fenomeno di "strada". 

Contrabbandieri smerciavano tabacco illegale agli angoli dei marciapiedi, un modo per arraffare qualche soldo mentre l'economia colava a picco. Lo spaccio più semplice e in voga negli anni '70 e' 80. In molti acquistavo sigarette dai contrabbandieri per risparmiare qualche spicciolo. A Napoli c'erano gli scafi blu che sferzavano sul mare, caricavano il tabacco illegale e sfuggivano alla Guardia di Finanza.

Poi le sigarette senza sigillo finivano sulle bancarelle di legno dei ragazzi che le vendevano nei vicoli a gran voce. Ma il fenomeno è tutt' altro che scomparso. Secondo uno studio condotto dalla Guardia di Finanza insieme all'Università di Trento, l'Italia continua a perdere circa 800milioni di entrate l'anno a causa della vendita illegale di sigarette. La situazione pandemica, inoltre, ha modificato le zone con più incidenza del contrabbando e i canali di spaccio.

 Trieste (25,3%) e Udine (22,2%) si attestano per la prima volta al primo e al secondo posto della classifica dei comuni con la maggiore incidenza di prodotti di contrabbando. La ragione è probabilmente la loro vicinanza con la Slovenia, da cui si sono registrati nel 2020 i principali flussi verso il nostro Paese. Nel 2019 la Guardia di Finanza ha realizzato 2.863 operazioni nel contrasto al fenomeno del contrabbando.

I tabacchi sequestrati sono per la maggior parte illicit whites (68,7%), ossia sigarette a basso costo prodotte nei Paesi di origine (Cina, Emirati Arabi Uniti, Russia, Bielorussia e Ucraina) spesso con pacchetti molto simili alle marche più conosciute e acquistate in Europa, ma non ammesse alla vendita all'interno dell'Unione europea perché considerate non rispondenti agli standard di sicurezza unionali e più dannose per la salute.

 Ma un'evoluzione nel contrabbando di sigarette c'è stata. Sulle bancarelle non si trovano più solo le classiche bionde anni '70-'80. I prodotti illeciti sono soprattutto quelli di ultima generazione. Mentre dal 2018 il consumo di sigarette tradizionali nel mercato legale è infatti in calo (-8,4%), al contrario sia quello di prodotti del tabacco riscaldato che dei liquidi da inalazione per le sigarette elettroniche è cresciuto fortemente (+250,2% per i primi, +200% per il consumo dei liquidi).

La crescita del consumo si è riversata anche in una crescita della domanda e dell'offerta sul mercato illecito. Circa 4 utilizzatori di sigarette elettroniche su 10 hanno acquistato i liquidi da inalazione per sigarette elettroniche da uno o più canali non autorizzati: siti Internet stranieri o che comunque spediscono in Italia i propri prodotti da Paesi stranieri (28%), bancarelle dei mercati (12% dei consumatori) e venditori ambulanti (8%). Le motivazioni dell'acquisto risiedono nel risparmio (53%), nella possibilità di comprare prodotti in grande quantità (28%) e di acquistare liquidi con additivi non disponibili nei rivenditori leciti (27%).

"Devo lubrificare gli amici": la trama di complicità e corruzione sul contrabbando di sigarette a Bari. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 14 gennaio 2022.  

A svelare il sistema è l'indagine che ha portato agli arresti un appuntato della Guardia di finanza. Che al collega diceva: "Ci danno 10mila euro ciascuno. Non farti mettere di turno ai seggi elettorali". 

Ci sono ancora carichi milionari di sigarette di contrabbando che viaggiano attraverso l'Adriatico, con la copertura di trasporti di dolci e frutta. È il primo dato che emerge dall'operazione Porto Franco della Guardia di finanza, che ha fatto finire agli arresti sei persone e una con l'obbligo di firma.

Il secondo è che i trafficanti usano parte dei guadagni a sei zeri per corrompere pubblici ufficiali che riescono a trasformare il porto di Bari in una groviera, come aveva fatto l'appuntato Vincenzo Azzarello.

A tutto fumo. Report Rai PUNTATA DEL 24/01/2022 di Antonella Cignarale. Collaborazione di Eva Georganopoulou. Immagini: Chiara D’Ambros, Tommaso Javidi, Davide Fonda, Giovanni De Faveri, Dario D’India 

La direttiva europea sugli aromi nel tabacco rischia di essere facilmente aggirabile.

Gli aromi aggiunti nei prodotti di tabacco possono aumentarne l’attrattività, se la nicotina è irritante per la bocca e l’odore, questi aromi, invece, rischiano di creare una illusione di piacere e non di fastidio, favorendo l’iniziazione al tabagismo soprattutto dei giovani. L’Unione Europea ha cercato di porre un rimedio vietando l’uso di additivi nelle sigarette e nel tabacco da arrotolare, ma solo se assumono quella concentrazione tale che li rende aromi caratterizzanti. Per valutare però, se un aroma è caratterizzante non c’è una quantità prestabilita, una soglia oggettiva. Mentre le società del tabacco e le istituzioni preposte al controllo cercano una quadra per stabilire se le sigarette con il mentolo oggi in commercio abbiano o meno un aroma caratterizzante, le scappatoie per il fumo aromatizzato sono offerte in tutti i prodotti accessori non regolamentati dalla direttiva europea. Un’inchiesta in collaborazione con il consorzio di giornalisti d'inchiesta OCCRP e i suoi media partner, tra cui TBIJ (UK) e RISE Project (Romania).

TUTTO FUMO di Antonella Cignarale collaborazione di Eva Georganopoulou Immagini di Chiara D’Ambros, Tommaso Javidi, Davide Fonda, Giovanni De Faveri, Dario D’India

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Da un anno è stato posto un limite all’utilizzo di aromi nelle sigarette e nel tabacco da arrotolare: il cacao, il maltolo, la liquirizia, il mentolo sono additivi usati per aumentare la piacevolezza del fumo.

 FUMATRICE Io ho iniziato a fumare quando avevo 18 anni con le sigarette al mentolo: ho provato, mi sono piaciute, la freschezza, insomma, che lasciava in bocca.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E questo rischia di attirare in una dipendenza che ogni anno provoca otto milioni di morti per malattie correlate al fumo.

VICENZO ZAGA’ – PNEUMOLOGO - SOCIETÀ ITALIANA DI TABACCOLOGIA Questi otto milioni devono essere rimpiazzati.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Uno studio condotto negli Stati Uniti stima che negli ultimi 40 anni dieci milioni di americani abbiano cominciato a fumare con le sigarette al mentolo. L’Unione Europea ha cercato di porre rimedio, ponendo un limite all’utilizzo degli aromi, ma è rimasta ambigua su come quantificarlo.

WALTER SPINAPOLICE - DIRETTORE UFF. ACCERTAMENTO AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI L’utilizzo di questi aromi è vietato soltanto se assumono quella concentrazione tale per cui superano una soglia che li rende cosiddetti aromi caratterizzanti.

ROBERTO BOFFI – PNEUMOLOGO - IRCSS ISTITUTO NAZIONALE DEI TUMORI – MILANO Caratterizzante mi fa pensare un po’ a questo, ecco, un modo di rendere la cosa più opinabile e, quindi, più facilmente anche aggirabile.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Ci sono poi prodotti che non rientrano nell’ambito dei divieti. Per esempio, il sigaretto può contenere nel filtro una clip piena di liquido aromatizzato alla menta. E poi ci sono le sigarette elettroniche e a tabacco riscaldato, che troviamo a tutti i gusti. Ma allora che cosa è rimasto in piedi di questo disincentivo al fumo aromatizzato?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che se la battaglia per disincentivare al fumo passa attraverso la parola “caratterizzante” l’abbiamo già persa in partenza. Buonasera. Le multinazionali usano l’aroma per rendere più piacevole e meno urticante l’impatto del fumo, del bruciato al palato ed è una trappola nella quale possono cadere i giovani. L’Unione Europea ha cercato di porre un freno, vietando nelle sigarette, nel tabacco aromi cosiddetti caratterizzanti. Poi, però, nelle linee guida non ha fissato dei limiti, delle quantità per definire oggettivamente caratterizzante un aroma. Ecco, mentre si cerca, da una parte, di porre questi divieti, dall’altra, invece, fioriscono degli accessori, proliferano degli accessori – filtri e capsule varie – che, invece, contengono aromi in quantità. Ora la battaglia ovviamente è sterile, è come cercare di tenere ferma la marmellata con gli elastici. L’inchiesta di Antonella Cignarale è in collaborazione con il consorzio giornalistico Occrp.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Le scappatoie sono offerte in tutti i prodotti accessori che non rientrano nel divieto: ci sono le capsule alla menta, da inserire nei filtri di sigarette; le carte di infusione al mentolo, da inserire nei pacchetti; e i filtri al mentolo, che sono tutti elencati nella lista della Agenzia delle Dogane e Monopoli. Qui ci sono anche i filtri Rizla al mentolo e li troviamo anche al tabacchi, eppure non sarebbero destinati al mercato italiano. Sta di fatto che i filtri al mentolo possono essere usati per aromatizzare il tabacco da arrotolare e le sigarette.

TABACCHI Hanno fatto una sigaretta col filtro bucato dove dentro vai a mettere un filtro al mentolo: sicuramente è uno dei pochissimi escamotage che hanno trovato per quello e si chiama Elixir.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Questo filtro ha all’interno una pallina aromatizza e si può infilare nel filtro forato della sigaretta, si schiaccia e l’aroma viene rilasciato mentre si fuma. Le sigarette con dentro la pallina sono state ritirate dal mercato proprio per il loro aroma caratterizzante, però se ce le facciamo con prodotti venduti separatamente è tutto regolare, basta farlo “in casa”, che poi è anche il motto della Landewyck, la società che produce sia i filtri Energy che le sigarette Elixir. Anche la British American Tobacco produce sigarette con filtro forato e le sue Lucky Strike Eclipse ci vengono proposte in più tabaccai tra i marchi di sigarette al mentolo.

ANTONELLA CIGNARALE Quali sono le sigarette al mentolo?

TABACCHI 2 Chesterfield, Winston, Camel, Lucky Strike.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Sigarette e filtri li facciamo analizzare nei laboratori dell’Istituto Mario Negri, accreditato dall’OMS per le analisi sul tabacco. Vediamo che in alcune sigarette ci sono solo tracce di mentolo, in tre marchi, invece, è aggiunto in quantità più elevate, il picco più alto tra tutti gli aromi analizzati.

ENRICO DAVOLI – CENTRO RIC. SPETTOMETRIA SALUTE E AMBIENTE – IST. MARIO NEGRI È il composto volatile presente a maggiore concentrazione. Se fosse solo mentolo, si sentirebbe chiaramente. Ci sono tutti gli aromi che ricordano la frutta, ci sono gli aromi che ricordano il legno, che ne mascherano l’effetto.

 ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Dove l’aroma è più deciso è nei filtri, in quelli dichiarati al mentolo e nelle capsule incorporate nei filtri.

ANTONELLA CIGNARALE Se prendiamo una sigaretta che ha il filtro forato e poi ci mettiamo dentro un filtro al mentolo, alla fine stiamo fumando una sigaretta con aroma caratterizzante al mentolo.

ENRICO DAVOLI – CENTRO RIC. SPETTOMETRIA SALUTE E AMBIENTE – IST. MARIO NEGRI Molto probabilmente è caratterizzante, comunque, in ogni caso, va dimostrato che è caratterizzante e questo è molto difficile da fare: ci sono delle linee guida ma un metodo ancora definito e accettato non c’è.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Lo chiediamo all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli che insieme al ministero della Salute è l’ente preposto a vigilare sul rispetto della normativa.

ANTONELLA CIGNARALE Oggi nulla vieta che si possano fumare le sigarette mettendo a parte un filtro e schiacciando, così, fumarsi comunque una sigaretta dove la menta, insomma, si sente. Voi l’avete testata se si sente abbastanza da essere considerata caratterizzante?

WALTER SPINAPOLICE - DIRETTORE UFF. ACCERTAMENTO AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Le posso dire sicuramente che questo è un sistema che è rispettoso formalmente delle disposizioni normative ma può costituire un modo per eludere le disposizioni normative ma qui, però, è il consumatore che fa una scelta di acquistare quel filtro che contiene il mentolo.

ANTONELLA CIGNARALE A me, quando sono state vendute, sono state vendute praticamente insieme.

WALTER SPINAPOLICE - DIRETTORE UFF. ACCERTAMENTO AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ah, le so’ state vendute insieme e lo so…

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO La direttiva non lo vieta, ciò che invece vieta è l’utilizzo di aromi nelle confezioni dei prodotti di tabacco e nel pacchetto delle sigarette Camel Activate abbiamo notato questa linguetta metallica: tirandola, sembra che esca un aroma lì dove era incollata. Dalle analisi risulta che un po’ di mentolo sia anche qui ma la Japan Tobacco International assicura di non applicare mentolo o altri aromi sugli imballaggi. Eppure, a sentirlo non siamo solo noi…

ANTONELLA CIGNARALE Se lei si leva la mascherina e lo sente, sentirà che un aroma ce l’ha...

WALTER SPINAPOLICE - DIRETTORE UFF. ACCERTAMENTO AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Sì, sì.

ANTONELLA CIGNARALE Noi abbiamo trovato nelle Lucky Strike Eclipse 2,8 mg di mentolo, nelle Winston Expand 3 e nelle Camel Activate 2,8 mg di mentolo. Questi tre marchi voi li avete mai analizzati?

WALTER SPINAPOLICE - DIRETTORE UFF. ACCERTAMENTO AGENZIA ACCISE DOGANE E MONOPOLI Ma, guardi, le posso dire che quelli contenenti mentolo sono stati tutti ritirati dal mercato dai produttori, quelli che non sono stati ritirati, sono sotto istruttoria.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Per stabilire se un aroma è caratterizzante, si verifica in laboratorio la quantità dichiarata dal produttore, poi degli esperti annusano il tabacco. Se gli aromi del tabacco vengono superati da quelli aggiunti, quali il mentolo, o il cacao o la vaniglia, allora l’aroma è caratterizzante. L’analisi degli esperti delle Dogane è sensoriale.

SALVATORE GIULIANO - RESPONSABILE LABORATORI CHIMICI SICILIA- ADM Nell’analisi sensoriale il termine caratterizzante non esiste.

ANTONELLA CIGNARALE È fatto perfetto questo caratterizzante!

SALVATORE GIULIANO - RESPONSABILE LABORATORI CHIMICI SICILIA- ADM Non è facile, stiamo parlando di linee guida ancora. Per fare un esempio, l’analisi organolettica dell’olio di oliva è normata, nel senso che è previsto come venga effettuato l’assaggio dalla A alla Z. L’analisi organolettica del tabacco ancora non è normata.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E il mentolo, che lo sentiamo o meno, ha una caratteristica intrinseca, rinfresca.

ENRICO DAVOLI – CENTRO RIC. SPETTOMETRIA SALUTE E AMBIENTE – IST. MARIO NEGRI Il mentolo, attenzione, viene percepito sugli stessi recettori dell’infiammazione che vengono stimolati dal fumo della sigaretta. Quindi, se ho un recettore del calore e gli metto qualche cosa di fresco, che è il mentolo, è come se annullassi la sensazione di bruciato che deriva dal fumo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Questo potrebbe facilitare l’inalazione del fumo. Le multinazionali non concordano ma secondo i ricercatori indipendenti del progetto Joint Action Tobacco Control, voluto dalla Commissione Europea e coordinati dalla sanità olandese, l’effetto che annulla la sensazione di bruciato si attiva anche a basse concentrazioni di mentolo, non c’è bisogno che sia caratterizzante.

ANTONELLA CIGNARALE In alcune sigarette abbiamo trovato una concentrazione di mentolo di 2 milligrammi e 8: con questa concentrazione il mentolo può facilitare l’inalazione del fumo?

ANNE HAVERMANS – RICERCATRICE JOINT ACTION TOBACCO CONTROL Sì, l’effetto di facilitazione di inalazione che dà il mentolo si attiva con qualsiasi quantità presente nelle sigarette anche a basse concentrazioni. Noi abbiamo raccomandato ai paesi dell’Unione Europea di vietare il mentolo, in qualsiasi quantità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli esperti dei maggiori paesi europei hanno lanciato un allarme ben preciso, tuttavia la situazione è in stallo perché né i paesi né l’UE hanno il coraggio di prendere una decisione chiara sul tema, e lasciano che la strategia la conducano le multinazionali del tabacco. Ora, la Japan Tobacco International, che produce le Camel Activate e le Winston Expand, ci dice che i risultati delle loro analisi non coincidono con quelle nostre: c’è meno mentolo dicono, ma non dicono esattamente qual è la concentrazione perché c’è il segreto industriale. Poi dicono che le informazioni le danno alle autorità che stanno svolgendo delle istruttorie. Poi la Japan sostiene che non ci sono studi che proverebbero che il mentolo faciliti l’inalazione. Ecco, ce ne sono, però, altrettanti che testimoniano il contrario. Alla Landewyck, che produce filtri al mentolo, abbiamo invece chiesto se mettendo il filtro che loro producono alla sigaretta si ottiene poi una sigaretta con aroma caratterizzante. Preferiscono non commentare. Mentre la British American Tobacco ci dice che “accolgono con favore la valutazione di conformità dei prodotti”. Mentre per quello che riguarda i filtri Rizla al mentolo l’Imperial Tobacco Italia ci scrive che non li importano loro né sono importati da Rizla, vengono importati attraverso altri distributori. Insomma, abbiamo capito che le leggi sul tema sono, hanno le maglie molto larghe. E poi le multinazionali del tabacco, una volta che è stato vietato l’aroma caratterizzante nelle sigarette e nel tabacco, che cosa hanno fatto? Hanno spostato il loro business degli aromi sulle sigarette elettroniche e sul tabacco riscaldato, dove là proprio non ci sono limiti per l’utilizzo dell’aroma. Ma qual è il messaggio che vogliamo mandare ai giovani? Quali messaggi vogliono mandare le istituzioni? E a proposito di istituzioni, è emerso che Licio Gelli, e cambiamo tema, avrebbe pagato cinque milioni di dollari nel 1980 per organizzare la strage di Bologna. Quella che manderemo in onda questa sera è un’inchiesta dall’alto valore simbolico, e ancora più alto proprio questa sera mentre ci sono in atto le votazioni del presidente della Repubblica che è il custode della Costituzione, e la verità è tutelata dalla Carta. Proprio Sergio Mattarella ha provato il dolore dell’uccisione del fratello Piersanti Mattarella: dal racconto che faremo questa sera emergerebbe che gli autori della morte del fratello Piersanti sarebbero gli stessi e anche le menti sarebbero le stesse della strage di Bologna.

·        La Cupola.

I quesiti di domenica 12 giugno. Referendum, cinque Sì per scalfire il potere che da 30 anni soffoca l’Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Giugno 2022. 

Mentre alcuni pubblici ministeri, o ex procuratori di prestigio come Giancarlo Caselli e Armando Spataro si affannano nella campagna per il no o per l’astensione sui cinque referendum di giustizia, altri famosi accusatori vedono a Brescia offuscata la loro “cultura della giurisdizione”, cioè la capacità di essere anche un po’ giudici. Sembra una nemesi anticipata della storia, quella che colpisce il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e il pm Sergio Spadaro, oggi alla nuova Procura europea antifrodi. Perché oggi sono accusati dalla Procura di Brescia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per “rifiuto d’atto d’ufficio”, proprio del comportamento opposto a quello rivendicato dalla casta dei togati per escludere la necessità di separare le carriere, o almeno le funzioni, tra chi nel processo fa l’accusatore e chi poi dovrà decidere, cioè il giudice.

Si parte dal processo Eni-Nigeria, quello su cui la Procura di Milano, quando il capo era Francesco Greco, aveva fatto un grande investimento anche sulla propria reputazione. Era stato costituito un apposito pool di affari internazionali, presieduto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che si era impegnato, con il collega Sergio Spadaro, soprattutto nelle inchieste che riguardavano una serie di relazioni internazionali dell’Eni e il sospetto di gravi e lucrosi atti di corruzione. E in particolare quello con cui l’Ente petrolifero aveva cercato di ottenere le concessioni sul giacimento Opl-245, oggetto del processo terminato il 17 marzo 2021 con la clamorosa assoluzione di tutti gli imputati, a partire dall’ ad Claudio De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.

In attesa del processo d’appello –voluto da Fabio De Pasquale, ma che sarà sostituito in aula dalla pg Celestina Gravina, su decisione del vertice della procura generale- va constatato che è proprio sulla base del comportamento dei due pm nel dibattimento che la procura di Brescia ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Perché i due magistrati avrebbero tenuto nascoste al tribunale le prove a discarico degli imputati. Avrebbero cioè violato la legge che impone all’accusa la capacità di farsi un po’ giudice, e se scopre qualche fatto che potrebbe giovare alla difesa, deve metterlo a disposizione del tribunale. È quella che i detrattori in toga del quesito referendario sulla separazione delle funzioni chiamano la “cultura della giurisdizione”, accusando i sostenitori del SI di volere un pm-sceriffo. Ma se tu pm hai a disposizione la registrazione video di un testimone dell’accusa, il quale, due giorni prima di presentarsi in procura ad accusare di corruzione i vertici Eni, preannunciava di avere intenzione di farli coprire da “una valanga di merda”, e la tieni nascosta, come deve essere qualificato il tuo comportamento? Lo stesso dicasi, sostiene la Procura di Brescia, per una serie di chat da cui emergerebbe l’intento calunnioso di quel testimone.

Nonostante questa vicenda sia sotto gli occhi di tutti, indipendentemente da come finirà l’aspetto strettamente giudiziario, una cosa è palese. Che se anche consenti, come capita oggi, al pm di fare passaggi di carriera e quindi di alternarsi con il giudice, un accusatore non sarà mai meno sceriffo. Dire il contrario è una colossale ipocrisia. Il codice di rito accusatorio, adottato (se pur timidamente) dall’Italia nel 1989, non prevede imbrogli né ambiguità. Le due parti, accusa e difesa, sono parti e il giudice, che sta sopra di loro, non deve avere nulla a che fare con nessuna delle due. Occorrerà arrivare all’abolizione del concetto stesso di magistratura, dunque, e a due carriere paritarie di accusa e difesa, ben distinte e distanti dal Giudice, termine che andrebbe sempre scritto con la maiuscola, per rispetto e deferenza.

Il motivo principale per cui il Partito dei pubblici ministeri, che esiste e sta resistendo con molta forza a qualche barlume di cambiamento, non vuole staccarsi dai giudici è il timore della perdita del potere di condizionamento. Troppe volte abbiamo dovuto assistere alla pedissequa ricopiatura, da parte di qualche gip, degli argomenti delle richieste del pm. Soprattutto quando si tratta di decidere sulla custodia cautelare in carcere. È inutile girarci intorno, la “colleganza” conta. Poi sarà anche vero, come ha detto di recente in un convegno l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, che lui è andato al bar del Palazzo di giustizia più spesso con avvocati che con giudici. Magari alcuni legali gli erano più simpatici, ma diverso è far parte della stessa cucciolata, essersi nutriti alla stessa mammella e al mattino recarsi negli stessi uffici. Indossare una toga che, finché le carriere non saranno separate, sarà sempre diversa da quella dell’avvocato, che deve portarsela dallo studio, perché nel Palazzo non c’è un ufficio né un attaccapanni per lui.

Un referendum infilato nell’altro, dalla separazione delle funzioni alla custodia cautelare. Il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, calpestato in almeno mille casi all’anno da pubblici ministeri e giudici insieme. Perché uno chiede, ma l’altro è quello che concede, e se sbagliano, sbagliano in due, e se si accaniscono lo fanno in coppia. E se quel sospetto sul futuro, in cui una persona, ancora innocente secondo la Costituzione, potrebbe reiterare (cioè ripetere) un reato che forse, in un caso su due, non ha neanche commesso, può portare a un carcere ingiusto, aboliamo il principio. E votiamo per dire NO al carcere preventivo basato su quel sospetto. Ma la vera regina del sospetto è il Grande Algoritmo chiamato “legge Severino”, un meccanismo automatico di espulsione da luoghi elettivi o di governo su cui precedentemente avevano deciso i cittadini elettori.

Qui siamo addirittura persino all’esproprio dell’autonomia del giudice, svincolato dal diritto-dovere di decidere se il condannato debba essere anche colpito dall’interdizione dai pubblici uffici e, nel caso, per quanto tempo. Una norma che presenta anche gravi profili di incostituzionalità (nonostante la Consulta si sia pronunciata diversamente) nella parte in cui sospende l’amministratore locale dopo una condanna in primo o secondo grado, quindi non definitiva. Questo punto, messo in discussione anche da sindaci e assessori del Pd (che timidamente ha presentato un proprio blando disegno di legge in Parlamento) è particolarmente cruento e anti-democratico perché rovescia gli assetti di governo, entrando a gamba tesa nelle sorti politiche di una città, di una provincia, di una regione.

Dove spesso poi si candida addirittura un magistrato. Ma non si può dire, perché se c’è un soggetto che non si può mai criticare né giudicare è proprio quello che indossa la toga “giusta”. Però, se passasse (insieme a quello sulle firme per l’accesso al Csm) anche il quesito referendario per consentire anche agli avvocati e ai docenti universitari di dare il proprio giudizio sull’attività e sulle carriere dei magistrati, forse si potrebbe incrinare almeno un pochino questo blocco di potere che soffoca la democrazia italiana da un trentennio. Coraggio, andiamo ai seggi e votiamo cinque Sì.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Primo processo per Amara a Milano: “Calunniò ex Csm Mancinetti”. Rinviato a giudizio con Calafiore e Centofanti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Novembre 2022.

Lo ha deciso il gup di Milano Lorenza Pasquinelli che ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio dei pm Monia Di Marco e Stefano Civardi, che hanno mandato a giustizio in questo troncone processuale tranche anche il suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore e l'imprenditore Fabrizio Centofanti che oggi era presente in aula

Nuovo processo per Piero Amara, l’ex legale esterno dell’ Eni finito al centro negli anni di vari procedimenti giudiziari e i cui verbali sulla ‘Loggia Ungheria‘ hanno anche ‘terremotato‘ la Procura milanese , il primo però a Milano, dove a è giudizio per l’accusa di calunnia nei confronti dell’ex componente del Csm Marco Mancinetti. Lo ha deciso il gup di Milano Lorenza Pasquinelli che ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio dei pm Monia Di Marco e Stefano Civardi, che hanno mandato a giustizio in questo troncone processuale tranche anche il suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore e l’imprenditore Fabrizio Centofanti che oggi era presente in aula. La prima udienza si terrà l’8 febbraio 2023 dinnanzi alla IV sezione del Tribunale Penale di Milano .

La vicenda vede al centro, in particolare, una registrazione del maggio 2019 che fu depositata in Procura a Milano da Calafiore e alcune affermazioni con cui Mancinetti sarebbe stato, secondo l’accusa, calunniato. Davanti al gup Lorenza Pasquinelli, le difese avevano presentato una serie di eccezioni preliminari, che sono state tutte respinte dal giudice. A Milano ci sono già diversi fascicoli, coordinati anche dall’aggiunto Maurizio Romanelli, nell’ambito dei quali deve essere accertato se Amara, con quelle sue dichiarazioni sulla “Loggia Ungheria” nell’inchiesta milanese sul cosiddetto “falso complotto Eni” abbia o meno calunniato le persone, tra cui rappresentanti delle istituzioni, che a suo dire avrebbero fatto parte della fantomatica associazione segreta. Tra i venti fascicoli (alcuni iscritti sulla base di denunce, altri d’ufficio) aperti uno vede, ad esempio, come presunta vittima di calunnia, l’ex ministro della Giustizia e avvocato Paola Severino.

Il fascicolo milanese nei confronti di Amara ha origine dalle indagini di Perugia che, dopo aver archiviato Mancinetti dall’accusa di istigazione alla corruzione e trasmessa l’archiviazione al Csm per i profili disciplinari, ha invitato i colleghi milanesi a comprendere come e perché sia stata “costruita” e “offerta” l’accusa di corruzione nei riguardi del giudice Marco Mancinetti. La vicenda nasceva dalle dichiarazioni dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. Nella registrazione tra Centofanti e l’ex rettore di Tor Vergata si ascoltava l’affermazione “Era pronto a cacciare i soldi”.

Ma secondo il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone non vi erano evidenze per andare a giudizio, e quindi la posizione di Mancinetti, accusato di induzione alla corruzione, venne archiviata, anche se nelle motivazioni Cantone non risparmiò nessuno: dalla versione improbabile di Mancinetti, le giustificazioni dell’ex rettore di Tor Vergata. Da qui si è arrivati al processo per calunnia nei confronti di Amara. Infatti secondo la Procura di Perugia, che ha inviato le carte a Milano, Amara avrebbe potuto sapere della registrazione per sfruttare quegli elementi a proprio vantaggio. Elementi usati anche per parlare della loggia Ungheria. Ed ora il “faccendiere” siciliano dovrà affrontare un nuovo processo per calunnia. Redazione CdG 1947

Processo Davigo, Di Matteo show in aula: «Volevano fregarci». Il pm testimone al processo sui verbali di Amara: «In atto una manovra per calunniare e screditare Ardita». In aula anche Morra: «Mi mostrò i verbali ma non mi disse che erano coperti da segreto». Simona Musco su Il Dubbio il 16 novembre 2022.

«Per me c’era in atto una manovra per calunniare e screditare Sebastiano Ardita e colpirlo nella sua funzione di consigliere del Csm». Il magistrato Nino Di Matteo non ha dubbi: la diffusione dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, autore delle dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria, era finalizzata a colpire il suo collega e amico, tirato falsamente in ballo come membro dell’associazione segreta.

Processo a Davigo, Di Matteo in aula: «In atto una manovra per calunniare e screditare Ardita»

Un’opera di delegittimazione che il pm della trattativa Stato-mafia ha denunciato in plenum al Csm, svelando di aver ricevuto in un plico anonimo i verbali segreti di Amara, consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Piercamillo Davigo come forma di autotutela, data la presunta inerzia della procura di Milano a procedere con le indagini. Parole che Di Matteo ha confermato oggi a Brescia, dove è in corso il processo all’ex pm di Mani Pulite, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver fatto vedere quei verbali a diversi consiglieri del Csm, alle sue segretarie e al presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Di Matteo ha descritto il clima surreale respirato al Csm nei mesi che precedettero la consegna di quei verbali, finiti nelle mani di Davigo, secondo il suo racconto, ad aprile 2020.

Ma già a marzo, nel corso di una riunione «choccante» del gruppo Autonomia & Indipendenza, fondato proprio da Ardita e Davigo, l’ex pm milanese aveva palesato tutto la sua insofferenza nei confronti del collega, in occasione della discussione sulla nomina del procuratore di Roma. Mentre Davigo, infatti, sosteneva la candidatura di Michele Prestipino, Ardita e Di Matteo erano orientati sul nome dell’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Dichiarazione di intenti che provocò una reazione violenta da parte di Davigo.

«Con una veemenza inaudita e grida che si potevano sentire nella stanza accanto o nel salottino adiacente – ha spiegato Di Matteo -, disse ad Ardita: “Se tu non voti Prestipino, sei fuori da tutto” e ancora “Se tu non voti Prestipino sei con quelli dell’Hotel Champagne”». Ma Ardita, ha spiegato il pm palermitano, «era indicato come un “talebano” nelle intercettazioni delle indagini su Luca Palamara», dunque lontanissimo da quelle logiche. La reazione di Davigo lasciò basito Ardita, che chiese spiegazioni all’ex amico. Ma a quel punto, ha affermato ancora Di Matteo, «Davigo con un fare molto aggressivo replicò dicendo: “Tu mi nascondi qualcosa” e quando Ardita lo invitò a spiegare le ragioni del contrasto davanti a tutti, lui disse “Te lo spiego dopo separatamente”. A quel punto anche io alzai la voce e dissi che quel gruppo era peggio degli altri, perché non si consentiva ai consiglieri di votare secondo coscienza i propri candidati. Reagii in maniera istintiva e dissi a Davigo: “Non mi sono fatto condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina, figuriamoci se mi faccio condizionare dalle tue minacce”».

Caso Verbali, la denuncia Di Matteo in plenum

Quando nel marzo 2021 Di Matteo ricevette il plico anonimo con i verbali, decise di far scoppiare il bubbone prima consegnando il tutto alla procura di Perugia e poi parlandone pubblicamente nel corso di un plenum. «Quando rividi Ardita al Csm gliene parlai – ha aggiunto – . Gli dissi: “Ti avverto perché ti vogliono colpire, ci vogliono dividere e ci vogliono fottere sia a te che a me”». Anche perché le accuse nei confronti di Ardita «mi sembravano calunniose e risibili, individuabili da tutti quelli che conoscevano la sua storia. Mi convinsi subito che ci fosse in atto una manovra per colpirlo nella sua funzione di componente del Csm», ha aggiunto.

Poco prima di parlarne al plenum, Di Matteo informò il vicepresidente David Ermini della sua decisione, scoprendo che la vicenda gli era già nota. «Ermini fu molto corretto e mi disse che potevo dire quello che volevo», ha spiegato. Ma il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, era di parere contrario. «Poco prima del plenum mi invitò a non fare questo intervento perché aveva già preso contatti con la procura di Milano» per dare un impulso alle indagini sulle rivelazioni di Amara. «Salvi mi disse: “Allora posso contare sul fatto che non lo fai” – ha detto Di Matteo -. E io risposi: “No, io lo faccio”. Mezzo Csm lo sapeva, lo sapevano anche i giornalisti. Io non mi sono pentito di aver fatto scoppiare il bubbone», ha concluso Di Matteo.

Ma se Davigo ha sempre sostenuto che il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm, giustificando così la sua decisione di informare i colleghi, è più difficile giustificare la scelta di informare anche Morra, esterno al Csm e all’ordine della magistratura. L’ex presidente dell’Antimafia, in aula, ha confermato di aver visto i verbali al Csm, dove si era recato sperando di poter ricucire lo strappo tra Davigo e Ardita. «Due fatti mi colpirono – ha detto in aula Morra -. Chiedendo a Davigo se c’era la possibilità di una conciliazione con Ardita, lui prese un faldone, coperto da fogli protocollo a righe, e mi invitò a seguirlo fuori dal suo ufficio, nelle scale. Aprendo questo faldone mi fece leggere il cognome Ardita» e mi disse che «c’erano dichiarazioni in base alle quali un dichiarante che stava collaborando con una procura del Nord affermava che Ardita facesse parte di un’associazione che aveva il vincolo della segretezza e per questo motivo non era più un soggetto affidabile. Ricordo di aver avuto quasi una sorta di colpo allo stomaco, ero emotivamente segnato, perché riponevo tanta fiducia in Ardita. Davigo non fece riferimento che fossero coperte da segreto».

Ma l’ex pm invitò Morra ad essere prudente, pur senza interrompere i rapporti con il magistrato, per evitare «errori», dal momento che – ma non si sa se Davigo ne fosse a conoscenza – «era caldeggiato un incarico per Ardita nella Commissione Antimafia». Incarico che saltò proprio a causa delle parole di Davigo. «Sono stato cauto e questa ipotesi non è diventata realtà», ha concluso Morra. In aula anche altri consiglieri del Csm, che hanno confermato di aver saputo dei verbali e della presunta affiliazione di Ardita da Davigo. Verbali che, secondo la presunta postina Marcella Contrafatto, ex segretaria del pm milanese e accusata di aver spedito quelle carte a Di Matteo e a diversi giornalisti, gli sarebbero costati la permanenza al Csm. Una decisione, quella di “buttarlo fuori”, non condivisa dal laico Fulvio Gigliotti.

«Inizialmente il comitato di presidenza pareva orientato per la permanenza del consigliere Davigo e mano a mano che ci si avvicinava la data della sua pensione, l’orientamento è cambiato – ha chiarito Gigliotti -. Io ho sentito anche l’esigenza di spiegare sui giornali il perché votavo a favore del consigliere Davigo, ovviamente su base tecnica giuridica perché all’interno del Csm ho sempre agito su basi giuridiche. E proprio sul piano tecnico ritenevo che dovesse completare la consiliatura». Gigliotti non ha escluso che dietro al cambio di orientamento del Csm potessero esserci anche influenze esterne. «Le politiche consiliari sono complicate da leggere – ha concluso Gigliotti – e spesso non orientate solo in base a situazioni interne, ma anche da situazioni esterne». Sui verbali, ha aggiunto, «mi raccomandò la massima riservatezza e mi disse che in quanto componente del Csm non poteva essere opposto il segreto al consiglio». I due erano d’accordo sulla necessità di approfondire la questione, ma Gigliotti non diede troppo credito ad Amara. «Se avessi immaginato che fossero vere avrei mantenuto distanze con Mancinetti (Marco, altro consigliere del Csm indicato come affiliato alla loggia, ndr) e Ardita che non ho mantenuto».

Davigo temeva inoltre che anche per il caso Amara potessero esserci delle fughe di notizie. «La sensazione – ha detto Gigliotti – era che non ci fosse impermeabilità». Il consigliere Giuseppe Cascini ha invece spiegato che Davigo gli parlò dei verbali per verificare l’attendibilità di Amara, di cui il magistrato si era occupato in un’indagine a Roma. «Erano dichiarazioni esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della procura di Milano fare un’indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese. Che invece ci fosse una situazione di stallo da parte della procura di Milano, che dopo qualche audizione non aveva fatto alcuna iscrizione, era motivo di preoccupazione», ha aggiunto, chiarendo che il coinvolgimento di due consiglieri del Csm lo aveva indotto a pensare «che ci sarebbe stato uno tsunami come quello del 2019» per le vicende legate al caso Palamara.

Le dichiarazioni di Amara non apparvero a Cascini totalmente credibili: «La mia sensazione era che ci fosse un “mischio” di cose vere e cose false». Ma la mossa di Storari, secondo il consigliere togato, sarebbe stata una semplice richiesta di consigli ad un collega. Sarebbe stato poi compito della procura di Milano trasmettere gli atti al Csm. «La situazione di stallo era un elemento di preoccupazione», ha aggiunto. Davigo parlò dei verbali anche con il laico Stefano Cavanna, al quale riferì di una presunta loggia massonica di cui avrebbero fatto parte anche Ardita e Mancinetti. «Mi disse che era una cosa molto riservata e mi impose il silenzio, consegna che io rispettai alla lettera. Non ha fatto riferimento al segreto, da avvocato so che un’informazione su un’indagine è riservata – ha spiegato in aula -. Non ho mai visto i verbali, non sapevo neanche che esistessero. lo non chiesi di più. Non ritenni opportuno indagare oltre. Del fatto che fossero verbali secretati – ha concluso – non se ne parlò».

La Procura di Perugia chiede archiviazione per ipotesi di corruzione e sulla Loggia Ungheria. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Novembre 2022.

La Procura di Perugia ha già chiesto di archiviare anche l'indagine sulla presunta loggia Ungheria aperta sulla base delle dichiarazioni dell'avvocato-faccendiere Piero Amara

La Procura della Repubblica umbra guidata dal magistrato Raffaele Cantone ha chiesto

l’archiviazione del fascicolo che ipotizzava reati di corruzione, nato come troncone dell’inchiesta sulla cosiddetta “Loggia Ungheria” sulla scorta delle dichiarazioni di Piero Amara. Inchiesta per la quale i magistrati della Procura di Perugia avevano chiesto l’archiviazione lo scorso luglio. E’ quanto emerso oggi in tribunale a Perugia, nel corso dell’udienza per corruzione nel quale Luca Palamara è imputato insieme ad Adele Attisani.

Il filone di inchiesta ha riguardato il presunto interessamento di Palamara, quando era consigliere del Csm, per le sorti dell’ex pm di Siracusa Maurizio Musco, amico dell’avvocato Piero Amara, e sotto processo disciplinare per abuso di ufficio. Amara, attraverso il “lobbista” Fabrizio Centofanti, avrebbe spinto Palamara ad avvicinare Stefano Mogini, il giudice di Cassazione che si doveva occupare del caso. Nel corso dell’udienza di oggi è emerso anche che la Procura della Repubblica ha depositato come integrazione di indagine alcuni atti di quel procedimento. Atti ritenuti di interesse in relazione al processo attualmente in corso.

Tra gli atti depositati a integrazione da parte della procura di Perugia, due annotazioni del Gico della Guardia di finanza di Roma dello scorso 18 e 23 febbraio 2022, il verbale di sommarie informazioni del

giudice Stefano Mogini e dal magistrato Giovanni Ariolli, il verbale di interrogatorio di Fabrizio Centofanti, reso l’11 novembre 2021. La Procura di Perugia ha già chiesto di archiviare anche l’indagine sulla presunta loggia Ungheria Redazione CdG 1947

Il pm Storari assolto anche in appello. Loggia Ungheria, Cantone chiede l’archiviazione ma… non ha indagato. Paolo Comi su Il Riformista il  4 Novembre 2022

Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, con i sostituti Gemma Milani e Mario Formisano, lo scorso 5 luglio ha chiesto l’archiviazione del procedimento sulla loggia Ungheria, l’associazione paramassonica la cui esistenza era stata rivelata dall’avvocato Piero Amara, la gola profonda delle Procure italiane. Dell’atto, 167 pagine, sono stati pubblicati in questi mesi ampi stralci, in particolare sul Domani, quotidiano sempre molto bene informato dell’attività della Procura Perugia.

In attesa che il gip si esprima, ad esempio avallando la richiesta di Cantone e quindi mettendo una pietra tombale su un fascicolo che ha terremotato la Procura di Milano (ieri l’assoluzione anche in appello per il pm Paolo Storari accusato di aver dato a Piercamillo Davigo gli atti sulla loggia Ungheria, ndr) ed il Consiglio superiore della magistratura, ecco alcune considerazioni.

La competenza

Amara, interrogato dai pm milanesi, fra cui Storari, a dicembre 2019, aveva riferito che “l’allora procuratore della Repubblica di Perugia De Ficchy era una persona alla quale io potevo arrivare perché faceva parte dell’associazione Ungheria”. L’art. 11 del codice di procedura penale stabilisce che “i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge“ .

Al momento del fatto, come riferisce lo stesso Amara, Luigi De Ficchy era il procuratore della Repubblica di Perugia e quindi la legge avrebbe voluto che fosse stata la Procura di Firenze ad indagare sulla loggia Ungheria. Non si capisce quindi perché la Procura di Milano abbia mandato i verbali di Amara a Cantone e perché Cantone non li abbia trasmessi a Firenze (visto che nella loggia sono indicati quali appartenenti magistrati in servizio a Roma e magistrati in servizio, al momento del fatto, a Perugia) e non si capisce perché la Procura di Firenze non abbia sollevato conflitto con la Procura di Perugia.

Le (non) indagini

Contrariamente a quanto scritto in modo elogiativo dagli organi d’informazione ‘vicini’ alla Procura di Perugia, dalla richiesta di archiviazione emerge la quasi totale assenza di indagini. Secondo l’avvocato siciliano della loggia avrebbero fatto parte circa 90 persone tra politici, ex ministri, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, imprenditori e liberi professionisti ma la Procura di Perugia ha proceduto soltanto nei confronti di pochi nomi. In particolare di coloro che si era autoaccusati di far parte della loggia, Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro, e degli imprenditori Alessandro Casali, Fabrizio Centofanti oltre a Denis Verdini, questi ultimi tre già compromessi da precedenti indagini.

Tale modo di agire ha comportato l’impossibilità di fare indagini nei confronti dei non iscritti (perquisizioni, tabulati, intercettazioni) e quindi di ottenere risultati di rilievo o anche solo dimostrare la reciproca conoscenza di coloro che venivano indicati come appartenenti alla loggia. Nella richiesta emerge che il solo atto di indagine invasivo effettuato dalla Procura di Perugia è consistito nella perquisizione a Calafiore, colui che avrebbe avuto la disponibilità degli elenchi degli iscritti alla loggia, effettuata dopo che costui si era rifiutato di rispondere all’interrogatorio del 6 maggio 2021. Una perquisizione fuori tempo massimo considerato che della loggia Ungheria Amara ha cominciato a riempire verbali a Milano a dicembre 2019. Ed infatti la perquisizione di Calafiore ebbe esito negativo.

Altro dato che balza agli occhi è che l’indagine è stata delegata, ancora una volta, al GICO della guardia di finanza di Roma (che viene citato ben 19 volte), quello del trojan ‘a singhiozzo’ che ha intercettato i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e non ha intercettato l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Lo stesso comandante del GICO, del resto, nel processo che si sta svolgendo a Perugia nei confronti degli ex pm Luca Palamara e Stefano Fava, all’udienza del 9 giugno 2022 aveva dovuto confessare che il suo reparto consegnava le informative ad Amara, l’indagato principale di questo procedimento, prima ancora che tali informative fossero depositate alla Procura di Roma. Gli uomini del GICO, poi, avrebbero avvisato Amara in anticipo delle perquisizioni che dovevano essere effettuate. Si comprende quindi perfettamente come le indagini condotte non potevano portare ad altro risultato che non fosse l’archiviazione.

Le indagini

Il nome dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara nella richiesta di archiviazione ricorre per 111 volte. Quasi in ogni pagina quindi. Eppure Amara e Calafiore hanno sempre escluso che Palamara facesse parte della loggia Ungheria. Ciononostante le indagini sono state indirizzate nei confronti dell’ex consigliere del Csm con lo scopo, neppure tanto nascosto, di attribuire un parvenza di credibilità ad Amara.

La credibilità (inesistente) di Amara

I pm di Perugia concludono la richiesta di archiviazione disponendo la trasmissione degli atti “alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano perché valuti se siano o meno configurabili i delitti di cui agli artt. 368 e 369 c.p.”. L’articolo 369 codice penale incrimina l’autocalunnia. Ciò significa che i pubblici ministeri non credono ad Amara neppure quando accusa se stesso però gli credono quando accusa Palamara.

I (non) diritti delle difese

Amara è stato esaminato in dibattimento al processo di Perugia nei confronti di Palamara e Fava lo scorso 7 ottobre. Nonostante ripetute richieste la Procura di Perugia non ha rilasciato ai difensori copia della richiesta di archiviazione del procedimento sulla loggia Ungheria. I difensori non hanno quindi potuto utilizzare questo atto nel controesaminare Amara nonostante sia in possesso, come detto, di alcuni selezionati giornalisti dal mese di luglio e nonostante vi sia una indagine nei confronti di un cancelliere della Procura di Perugia che lo avrebbe illecitamente divulgato. Paolo Comi

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 4 novembre 2022.

Il pm di Milano Paolo Storari non ha commesso alcun reato consegnando i verbali delle dichiarazioni dell'ex avvocato esterno dell'Eni, Piero Amara, all'allora consigliere del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo. Anche la Corte d'Appello di Brescia ha dunque confermato la sentenza di primo grado con cui, lo scorso marzo, al termine del processo in abbreviato, Storari era stato assolto dall'accusa di rivelazione del segreto.

Il collegio, dopo un'ora e mezza di camera di consiglio, ha rigettato la richiesta del sostituto procuratore generale che aveva chiesto una condanna a 5 mesi e 10 giorni di reclusione, con la non menzione e la sospensione condizionale. Alla sentenza di primo grado aveva fatto opposizione anche il togato del Csm Sebastiano Ardita, ammesso come parte civile. 

Storari era stato accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per aver consegnato a Davigo, nei primi mesi del 2020, i verbali in cui Amara aveva descritto l'esistenza di una loggia paramassonica denominata "Ungheria", composta da magistrati, ufficiali delle forze dell'ordine, professionisti. Il pm milanese aveva chiesto di essere processato con il rito abbreviato ed era stato assolto per errore di diritto, in quanto non avrebbe avuto la consapevolezza di violare la legge consegnando a Davigo tali verbali.

Nella ricostruzione ad indurre in 'errore' Storari era stato proprio Davigo affermando che i componenti del Csm sarebbero stati esonerati dal rispetto del segreto. Tesi a cui non avevano creduto alla Procura di Brescia, competente peri reati commessi dai pm milanesi, che avevano deciso di mandarli a giudizio e che, per Storari, avevano poi chiesto una condanna a sei mesi di reclusione. 

L'errore in cui era incorso Storari era «un errore su norma extrapenale», dal momento che lo stesso magistrato «era convinto di rivelare informazioni segreti a soggetto deputato a conoscerle», e per questo «di non commettere alcuna rivelazione illegittima, ma "autorizzata" e/o addirittura dovuta». Un errore ritenuto quindi "scusabile" dai giudici bresciani.

«Piercamillo Davigo non era un mio amico prima, non lo è oggi. Ho una frequentazione con lui solo perché conosco la sua compagna. Mi sono rivolto a lui perché è l'unica persona che conosco che avesse un ruolo istituzionale. Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare», aveva detto in aula Storari. 

La consegna dei verbali fu un gesto che Storari ha sempre definito di «autotutela» nei confronti dell'asserita inerzia nelle indagini da parte dei vertici della Procura milanese. «Con gli elementi di oggi», aveva aggiunto Storari, «credo che non si volesse disturbare il processo Eni-Nigeria, il processo più importante a Milano, fatto dal dipartimento più discusso, una sconfitta significava mettere in dubbio l'organizzazione di Francesco Greco».

Il magistrato voleva arrestare Amara per calunnia ma ciò avrebbe messo in difficoltà i processi milanesi per corruzione internazionale dove quest' ultimo era fra i principali testi dell'accusa.

«Siamo assolutamente soddisfatti di questa assoluzione piena» che conferma «l'esito di un giudizio di totale innocenza che è particolarmente profondo e netto», ha commentato l'avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, lasciando il Palazzo di Giustizia bresciano. Storari, visibilmente emozionato, ha preferito invece non dire nulla. Per le motivazioni bisognerà attendere 90 giorni.

Quella di oggi è la terza "vittoria" del pm in questa vicenda. A parte gli aspetti penali, vi era stata anche la bocciatura della richiesta cautelare di trasferimento d'urgenza, con contestuale cambio di funzioni, avanzata nei suoi confronti nell'estate dell'anno scorso a Palazzo dei Marescialli dell'allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi su richiesta del procuratore di Milano, Greco. Il processo per rivelazione del segreto resta ora in piedi solo per Davigo che ha scelto il rito ordinario.

L'ex pm di Mani pulite ha sempre giustificato il suo operato dicendo che «se c'è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo». Per la Procura di Brescia, invece, lo scopo di Davigo non sarebbe stato far luce su quanto accadeva a Milano, ma solo trovare una scusa per motivare al Csm la rottura dei rapporti con Ardita, suo collega di corrente, il cui nome sarebbe comparso fra gli appartenenti alla loggia

La sentenza d'Appello. Loggia Ungheria, Storari assolto anche in Appello: non fu reato dare i verbali di Amara a Davigo. Redazione su Il Riformista il 3 Novembre 2022 

Paolo Storari ottiene l’ennesima vittoria nell’aula di tribunale, la seconda sui due giudizi che lo hanno coinvolto fino ad oggi in merito alla nota vicenda degli interrogatori consegnati nell’aprile 2020 all’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, ai tempi membro del Consiglio superiore della magistratura, sull’esistenza della presunta associazione segreta “Loggia Ungheria”.

Della loggia aveva parlato negli interrogatori resi allo stesso Storari e al procuratore aggiunto milanese Laura Pedio l’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara in cinque interrogatori resi tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020.

Dopo l’assoluzione in primo grado del marzo scorso ad opera del gup Federica Brugnara, è arrivata per il pm milanese anche lo stesso verdetto dalla Corte d’Appello di Brescia, nel processo con l’ipotesi di reato di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procuratore generale Francesco Prete, che aveva impugnato la sentenza di assoluzione di primo grado, aveva chiesto nella scorsa udienza una condanna a 5 mesi e 10 giorni con la sospensione condizionale e la non menzione.

Per Storari è invece arrivata l’assoluzione piena, come commenta soddisfatto il suo legale, l’avvocato Paolo Della Sala: “Siamo assolutamente soddisfatti, ho difeso con fermezza la sentenza di primo grado, non solo perché coraggiosa, ma anche perché poggiava su un impianto giuridico complesso”. La decisione “conferma – ha aggiunto Della Sala – l’esito di un giudizio di totale innocenza particolarmente profondo e netto”.

La difesa di Storari ha sempre sostenuto che il pm aveva consegnato quei verbali a Davigo per autotutelarsi dalla presunta inerzia dei vertici della procura di Milano sulle indagini, in particolare da parte dell’allora procuratore capo Francesco Greco e della stessa Pedio, rivolgendosi dunque all’ex consigliere del Csm, ora in pensione, perché considerato tra i massimi esperti in materia di circolari del Consiglio superiore della magistratura.

Nei confronti di Storari anche il Csm, l’organo di autogoverno delle toghe, aveva bocciato la richiesta di “cacciata” avanzata in via d’urgenza nell’estate 2021 dall’allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 18 ottobre 2022.

Non esistono prove che la Loggia Ungheria sia mai esistita, e Piero Amara è un uomo «abilissimo nell’arte manipolatoria, estremamente pericoloso quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri». 

Contemporaneamente, però, l’avvocato di Siracusa non è affatto, come «in questi mesi si è insinuato da più parti, un “invasato o un mitomane”, né uno sprovveduto faccendiere in cerca di notorietà. Amara al contrario ha avuto certamente rapporti ad altissimo livello con soggetti operanti nelle istituzioni di questo paese, e tantissimi ed indiscutibili riscontri esterni sono emersi su tanti episodi da lui riferiti agli inquirenti».

Così sintetizzano i pm di Perugia Raffaele Cantone, Gemma Miliani e Mario Formisano nelle 167 pagine di cui è composta la lunghissima richiesta di archiviazione in merito all’inchiesta sulla fantomatica Loggia Ungheria, l’associazione segreta che secondo Amara avrebbe condizionato per anni nomine dei vertici di enti pubblici ed istituzioni, in particolare della magistratura e del Csm.

Un documento che Domani ha letto ora integralmente, e che rappresenta non solo la sintesi del lavoro ciclopico della procura umbra che ha quasi chiuso (si aspetta la decisione del gip) una vicenda delicatissima che ha terremotato per mesi il mondo della politica, delle istituzioni e della magistratura. Ma anche la descrizione minuziosa del “fenomeno Amara”, che i pm non banalizzano come semplice magliaro o bugiardo matricolato.

Al contrario, ritengono «acclarata» l’esistenza di «un “sistema Amara”», che da «avvocato di provincia, dopo aver intessuto stretti rapporti con i magistrati siciliani, nell’anno 2012 giunge a Roma dove si colloca per anni, in maniera indubbia, al centro di scambi di favori, inerenti anche alle nomine apicali della magistratura ordinaria e amministrativa e al centro di dinamiche di potere che si intersecano con momenti topici della storia del paese». Come evidenziano le chat estrapolate dal cellulare di Denis Verdini, appunti sul computer dello stesso Amara. Oppure i contatti e gli appuntamenti con il lobbista Luigi Bisignani.

I pm, in pratica, spiegano che nonostante una serie di balle sesquipedali sulla loggia e suoi presunti adepti (una ventina di persone sulle 90 tirate in ballo dal faccendiere hanno già depositato querela per diffamazione e calunnia, come l’avvocata Paola Severino, il comandante della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana o l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti), su Amara «un giudizio tranchant di attendibilità/inattendibilità non sarebbe possibile, perché in sé non riuscirebbe a cogliere l’estrema poliedricità del soggetto che ci si trova di fronte, e soprattutto della sua narrazione».

Il suo modus operandi complesso, che mette «insieme fatti indiscutibilmente veri e circostanze non riscontrate», ha dunque convinto Cantone e i suoi uomini ha usare il “criterio della frazionabilità”, indicato anche dalla corte di Cassazione come quello migliore per effettuare vagli rigorosi per distinguere i racconti accertati da prove e testimonianze terze da quelli invece che non ne hanno alcuna.

Andiamo dunque con ordine, partendo dai racconti in tutto, o almeno in parte, riscontrati. Innanzitutto, Amara – avvocato originario di Augusta che ha lavorato da giovane nel prestigioso studio di Giovanni Grasso, era davvero «diventato uno degli avvocati di riferimento di una società pubblica, l’Eni: malgrado i tentativi più o meno maldestri da parte della società di prenderne adesso le distanze» scrive Cantone «si era occupato di numerose e delicate vicende che avevano visto coinvolti, a vario titolo, i vertici delle strutture aziendali dell’Eni operanti in Sicilia».

Secondo i magistrati perugini, anche i rapporti con Tinebra e con l’Opco sarebbero confermati. In particolare, esistono riscontri sul fatto che Amara sia riuscito, grazie ai suoi rapporti con la magistratura siciliana, ad ottenere un trattamento di favore in alcuni processi in cui era stato coinvolto già nel 2006. 

Cantone segnala come l’avvocato riuscì ad ottenere «ben due pareri favorevoli del procuratore generale di Messina, un’oggettiva stranezza», aggiungendo poi «un dato che fa riflettere: nonostante il procedimento penale, peraltro generato da una vicenda con possibili connotati di mafiosità, e persino una condanna definitiva patteggiata, vicende che avevano avuto un certo clamore in Sicilia, Amara ha continuato negli anni seguenti a tessere rapporti con la magistratura di ogni dove, con parlamentari della Repubblica e uomini delle istituzioni!».

Tra le persone che Amara conosceva, ricorda Cantone, c’è il giudice Lucia Lotti, oggi pm a Roma. Il faccendiere ha raccontato come lui stesso si fosse adoperato affinché la Lotti fosse nominata a capo della procura di Gela, dove insiste una grande raffineria dell’Eni, e come questo gli avrebbe poi permesso di avere l’ufficio di Gela «totalmente» nella sua «disponibilità». La Lotti è stata così indagata dalla procura di Catania per corruzione, ma i pm hanno chiesto l’archiviazione perché non hanno riscontrato do ut des di sorta. Il gip ha però chiesto nuove indagini, e ad ora non si è ancora espresso. Forse anche in attesa di un contraddittorio e – segnala la magistrata – per acquisire le nuove trascrizioni dei verbali di Amara» 

Al netto delle responsabilità penali che la Lotti nega ovviamente con forza, quale sarebbe secondo Amara la natura del loro rapporto? «Il favore che egli le aveva fatto procurandole un contatto con il consigliere laico del Csm Ugo Bergamo» si legge nelle carte di Perugia che citano le accuse dell’avvocato «gli sarebbe stato ricambiato con la sostanziale “messa a disposizione” del magistrato nella gestione di alcuni procedimenti che erano di suo interesse, quale difensore dell’Eni».

Gli investigatori ricordano poi che Angelo Mangione, difensore storico di Amara, ha detto ai pm milanesi come la Lotti prima della sua nomina a procuratore gli chiese davvero di incontrare Amara, aggiungendo però che «non mi disse per quale motivo voleva incontrarla». Pure Saverio Romano, ex ministro dell’Agricoltura e uomo di fiducia di Verdini che aveva rapporti costanti con Amara, ha ammesso di aver effettivamente incontrato il faccendiere e la Lotti, per discutere dell’aspirazione della predetta ad essere nominata procuratore a Gela. 

Ma come mai i due andarono proprio dal potentissimo Romano? Perché il consigliere Bergamo che aveva dubbi sulla promozione della magistrata era stato eletto in quota Udc, lo stesso schieramento politico del politico.

«A seguito di tale abboccamento Romano avrebbe incontrato Bergamo, al quale avrebbe esternato i dubbi del magistrato» dice Cantone «Bergamo, sentito, non conserva invece alcun ricordo dell’episodio. La Lotti non è mai stata sentita e quindi non si conosce la sua versione». I giudici umbri ammettono che alla fine riscontri sull’incontro «fra la Lotti e Romano, mediato dall’Amara» sono emersi, ma che comunque esso non è certo prova dell’esistenza di una logga coperta, ma tutt’al più «un tentativo di captatio benevolentiae di un avvocato che aveva indiscutibili interessi professionali a Gela». Per la cronaca, la Lotti ha indagato per anni per disastro ambientale colposo, e alla fine del suo incarico ha chiesto 22 rinvii giudizio tra direttori e tecnici della società “Raffineria di Gela” ed Enimed.

Come ha anticipato Antonio Massari sul Fatto quotidiano, nel documento di archiviazione si evidenzia come vere o verosimili appaiono anche i resoconti di Amara in merito a cene e incontri che Amara ha avuto per provare a favorire le carriere e le promozioni di magistrati di peso. In primis quella di Carlo Capristo, poi promosso dal Csm procuratore a Taranto grazie anche (secondo le accuse) all’iperattivismo di un sodale di Amara, il poliziotto Filippo Paradiso. 

«L’episodio comprova in modo inequivocabile – scrivono Cantone, Miliani e Formisano – le capacità istituzionali di Amara, in grado certamente di “entrare” nelle dinamiche delle nomine del Csm sfruttando i suoi rapporti con i consiglieri laici grazie al contatto con politici influenti (Luca Lotti, Saverio Romani e Denis Verdini), o grazie a rapporti con soggetti come Centofanti, in grado di influire su magistrati come Luca Palamara».

Anche in merito alla vicenda di Francesco Salluzzo, che Amara avrebbe incontrato a Roma un paio di mesi prima alla sua nomina di procuratore generale di Torino, secondo Cantone «esistono diversi elementi di riscontro». Basate sulle testimonianze del dirigente del consiglio di stato Antonino Serrao (pure registrato di nascosto da Amara che gli ha teso «una trappola») e di un imprenditore vicino a Salluzzo, Paolo Torresani, che di fatto confermano in gran parte quanto raccontato «dal dichiarante». Ossia l’avvenuto pranzo a casa di Torresani podromo a trovare un modo per avvicinare la consigliera del Csm Paola Balducci e raccomandare Salluzzo.

Se i due hanno tentato di ridimensionare le dichiarazioni dell’avvocato di Augusta in merito all’importanza dell’incontro, Cantone ha un’idea diversa: «Sembra molto più plausibile che il Serrao, compulsato da Torresani, abbia portato al pranzo Amara proprio in ragione delle sue note entrature all’interno del Csm: il che dimostrerebbe che non solo in Sicilia, in Puglia e a Roma, ma anche a Torino nel 2016 potevano essere giunte notizie circa le capacità di Amara...per aumentare le chance di vittoria» in relazione alle domande che i magistrati facevano al Csm. 

Secondo Cantone il presunto “soldato” della loggia Ungheria racconta pezzi di verità significative e verificate anche nelle vicende cha hanno travolto Palamara (a processo proprio a Perugia); nell’aiuto dato al figlio dell’ex consigliere del Csm Marco Mancinetti per accedere alla facoltà di medicina di Tirana (pende su Amara un processo per calunnia, perché a volte il legale aggiunge a storie vere episodi corruttivi non dimostrabili); nei presunti rapporti con Luca Lotti, anche in merito a un incontro con l’allora sottosegretario «richiesto da uno dei vertici della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, in relazione a un fascicolo da lui trattato che avrebbe coinvolto l’allora premier Matteo Renzi». 

In merito alle dichiarazioni su Giuseppe Conte, Cantone evidenzia un altro aspetto tipico del modus operandi di Amara. Come svelato da Domani, l’avvocato disse che il professionista prima di diventare premier aveva ottenuto consulenze da 400 mila euro tramite Centofanti dalla società Acqua Marcia, aggiungendo che la nomina del leader dei Cinque Stelle insieme a quella di Guido Alpa fosse legata a un favore da fare a Michele Vietti, presunto capo della Loggia, e che le nomine erano necessaria ad ottenere l’ammissione al concordato preventivo del gruppo.

I pm di Perugia spiegano che Centofanti non ha confermato la ricostruzione dell’amico (lo avesse fatto, aggiungiamo noi, avrebbe rischiato anche lui un’indagine per corruzione). «Appare ipotesi verosimile – conclude Cantone – che l’Amara certamente a conoscenza dell’incarico, abbia riferito all’autorità giudiziaria un fatto vero, attribuendosi un ruolo che invece non pare esservi stato. Il riferimento al professor Conte? Un modo per accreditare ulteriormente la rilevanza del suo narrato». 

Ma la richiesta di archiviazione contiene anche la descrizione di menzogne vere e proprie inventate da Amara e accuse che non hanno la minima evidenza.

Seppure la procura considera «spontanee» le prime dichiarazioni sulla Loggia Ungheria («in quel momento era indagato per una vicenda marginale rispetto all’indagine su Eni, aveva definito le sue pendenze giudiziarie a Roma e Messina con patteggiamenti non elevatissimi, che interesse aveva quindi ad aprire un fronte nuovo?», si domanda Cantone senza poter poter dare una risposta), i pm chiariscono che nessun riscontro all’associazione è stato trovato. 

La lista con i nomi, che il sodale di Amara Giuseppe Calafiore avrebbe fotocopiato e poi dato a un agente segreto di Dubai, non è mai stata consegnata agli inquirenti. Avrebbe comunque avuto poco valore investigativo: senza firma e non su carta intestata, chiunque avrebbe potuta comporla.

Amara ha nel corso delle dichiarazioni ha via via ridimensionato la natura e la funzione della loggia, mentre le poche testimonianze che hanno detto che erano a conoscenza di Ungheria o di una simil-loggia segreta (il giudice Dauno Trebastoni, l’ex pm Maurizio Musco e l’imprenditore Fabrizio Centofanti) non hanno alcun «valore ponderale: sono tutte legate da rapporti molto stretti con Amara, e due su tre hanno ricevuto informazioni sa una persona defunta». Cioè Giovanni Tinebra, ex capo del Dap e procuratore generale a Catania che secondo Amara fu fondatore e animatore di Ungheria.

Insomma, dell’esistenza dell’associazione non c’è traccia. Cantone, tuttavia, fa un passaggio non banale in cui spiega che la fuga di notizie sulle dichiarazioni dell’avvocato («accadimenti SUBITI da questo ufficio», ci tiene a sottolineare il capo della procura) avrebbe compromesso in nuce la possibilità di indagare a dovere su reati associativi già in se difficilissimi da provare. Divulgazione di segreti istruttori che hanno convinto alcuni indagati ad avvalersi della facoltà di non rispondere o di non presentarsi affatto negli uffici di Cantone

«Una scelta – si legge nella richiesta di archiviazione – che può essere ricondotta al clima creatosi intorno a questa indagine» dopo la fuga di notizie, per cui sono a processo il pm milanese Paolo Storari (assolto in primo grado, qualche giorno fa il procuratore generale di Brescia ha chiesto in appello una condanna a cinque mesi) e l’ex consigliere del Csm Pier Camillo Davigo, che ha avuto i verbali da Storari e poi ne ha parlato in via informale con vertici della magistratura. La ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto, è invece indagata come colei che avrebbe consegnato gli interrogatori ad alcuni giornali.

Cantone segnala pure come Amara, in un memoriale scritto il 5 ottobre 2021 dal carcere di Terni dove stava scontando la sua pena per diverse condanna definitive per corruzione (oggi è in regime di semilibertà) «lamenta la condizione in cui si trova: essere accusato da vari soggetti di calunnia proprio perché le prove dei fatti da lui affermati non possono essere più acquisite». Amara scrive, letteralmente, di trovarsi «nella paradossale situazione di dover occuparsi delle accuse di una serie di soggetti che hanno potuto eludere l’effetto sorpresa a causa non del dichiarante, ma del magistrato indagante». Cioè Storari.

Secondo Cantone, le «considerazioni di Amara appaiono sul punto avere un loro fondamento. Non certo la consegna dei verbali a Davigo, ma la successiva pubblicazione di essi ha infatti creato una situazione oggettivamente paradossale per cui i chiamati in causa hanno potuto denunciare per calunnia il chiamante in correità prima persino che potessero compiersi le indagini e i necessari approfondimenti». 

Per la cronaca, c’è un altro passaggio del documento dei pm di Perugia che, se fosse vero, sarebbe fonte d’imbarazzo per la procura di Milano. Quello in cui si sintetizza un’altra parte del memoriale dell’ex avvocato dell’Eni: «Il dichiarante afferma che tra dicembre 2019 e febbraio 2020 aveva rappresentato al pm Storari che, in uno al suo amico e sodale Calafiore, avrebbe proceduto a cercare riscontri (!!) su quanto aveva già verbalizzato ed aveva preavvertito il medesimo pm che avrebbe registrato di nascosto colloqui con soggetti in grado di confermare i fatti». Insomma, si sarebbe proposto come sorta di “agente provocatore”, per ottenere prove di quanto già raccontato alla procura di Milano.

Sia come sia, le discrasie e le contraddizioni nella narrazione di Amara intorno alla presunta Loggia sono tali che secondo i pm quest’ultima rischia di non essere mai esistita come tale. Non solo. Alcune accuse dell’avvocato sarebbero del tutto false. In primis, quelle contro l’allora consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che sarebbe stato un affiliato e che l’ex avvocato esterno dell’Eni avrebbe conosciuto a una cena nella sede dell’Opco (un centro studi siciliano creato da Tinebra). 

Per Cantone «Amara non è in grado nemmeno di dire quali attività gli altri “fratelli stessero svolgendo in quel momento: bisognerebbe ritenere contro ogni logica che la cena di presentazione sarebbe stata “muta”...non sapeva nemmeno che uno di essi (l’Ardita) era andato via da Catania da oltre 6 anni!».

Come mai Amara coinvolga Ardita (nemico giurato di Davigo) resti un mistero. Anche in merito alle accuse contro il generale Zafarana, definito dal faccendiere come un affiliato che aveva chiesto a lui in via indiretta una raccomandazione per far assumere una persona nel suo studio, il giudizio della procura di Perugia è caustico: «Non può qui non essere rilevata l’assoluta illogicità di una richiesta di un generale cha avrebbe fatto veicolare, per il tramite di un terzo estraneo, ad un soggetto che fra l’altro avrebbe dovuto essere stato un suo “fratello” di una potente ed occulta loggia massonica. 

Resta non comprensibile la ragione per cui Amara riferisce fatti non veritieri: è un’ipotesi che ha la sua plausibilità quella di un rapporto non idilliaco tra Amara e la Gdf, avendo quest’ultima condotto tutte le indagini del passato che hanno poi portato all’arresto e alla condanna dell’avvocato siciliano». Che adesso dovrà dare conto delle sue parole in molteplici processi per calunnia.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 19 ottobre 2022.

Incrociando alcuni verbali inediti contenuti nelle carte di Perugia che sentenziano l’inesistenza della Loggia Ungheria con alcune sentenze recenti che non hanno avuto grande eco sulla stampa nazionale, è possibile raccontare dettagli importanti di quello che Raffaele Cantone, capo della procura umbra, definisce il «sistema Amara». Una rete che negli anni è riuscita «certamente» a entrare in contatto con «il mondo politico e i vertici istituzionali», con l’obiettivo primario di gestire le nomine dei giudici e le promozioni decise dal Csm. 

Uno dei principali interlocutori politici di Amara – si legge nella richiesta di archiviazione di Cantone – è stato Denis Verdini, per anni braccio destro di Silvio Berlusconi, condannato con sentenza definitiva per bancarotta e, qualche giorno fa a Messina, ad altri due anni per concorso in corruzione. Per una vicenda che ha al centro, ancora una volta, le accuse dell’ex avvocato esterno dell’Eni («ho dato 300mila euro a Verdini in contanti per agevolare la nomina del giudice Giuseppe Mineo al Consiglio di stato», ha detto nel 2018) che evidentemente i giudici in primo grado hanno considerato in parte vere e riscontrate. 

Verdini viene interrogato dai pm umbri un anno fa. Cantone e i suoi uomini vogliono chiedergli se conosce la Loggia Ungheria, e soprattutto quali sono i suoi rapporti con il pregiudicato di Augusta. L’ex parlamentare risponde a tutto campo, permettendo «con un’apprezzabile scelta di trasparenza» anche agli investigatori di scaricare tutte le chat con Amara. Da cui esce uno spaccato notevole di un pezzo del potere italiano, e della rete gigantesca del legale siciliano.

«Escludo di aver fatto parte dell’associazione denominata “Ungheria”», comincia Verdini. «La voce della mia appartenenza alla massoneria venne messa in giro durante la campagna elettorale del Mugello del senatore Antonio Di Pietro. Fu addirittura il presidente Cossiga, forse per scherzo, a fare una dichiarazione in tal senso. Io tuttavia per cultura sono lontano da qualsiasi loggia massonica». 

Cantone segnala pure come Verdini, già deputato forzista e di Ala e oggi “suocero” di Matteo Salvini, riferisce che fu l’ex ministro «Saverio Romano, nell’ambito delle trattative per le nomine dei vertici delle grandi società di stato, tra le quali l’Eni, a presentargli “un professionista che aveva peso nel mondo Eni”, ovvero Amara». 

Poi Verdini si schermisce dalle accuse principali: «Io richieste sul Consiglio di giustizia amministrativa siciliana non ne ho mai ricevute. Amara millanta di aver avuto influenze su tante vicende, ma lui riferisce alcuni fatti senza sapere bene come io operavo: io (al tempo di Renzi premier, ndr) non frequentavo palazzo Chigi, io frequentavo il Nazareno (la sede del Pd)».

Quando i pm Cantone, Mario Formisano e Gemma Miliani gli chiedono se Ala ha preso denaro in contanti come dice Amara ai colleghi di Messina per perorare la causa del giudice Mineo al Consiglio di stato, risponde: «Probabilmente Amara mi ha fatto donazioni di importo modesto. Lui mi presentò diversi politici e imprenditori, come Adolfo Messina, Ezio Bigotti, Giannusso... questi ultimi facevano offerte di denaro per sostenere il movimento, ma io le ho sempre rifiutate». 

Nelle chat con Amara, segnalano i pm di Cantone, i contatti tra i due erano numerosi e niente affatto sporadici. Verdini chiede per esempio all’avvocato «curricula per la nomina di un componente del Consiglio di stato», chiosano i magistrati di Perugia.

«Amara fa riferimento a un intimo amico di Del Sette. Nello stesso giorno viene fatto anche il nome di Antonio Serrao, che sarebbe voluto da Del Sette, a sua volta intimo amico di Luca Lotti, circostanza ribadita più volte con plurimi messaggi (per la cronaca, anche il piddino ha querelato Amara per calunnia, ndr). Sempre per le nomine dei componenti del Consiglio di stato, Amara scrive di avergli girato i curricula di Mineo e tale Fiaccavento, di Massimo Dell’Utri e Luciano Ciccarello».

I messaggi analizzati sono decine, e contengono richieste di sponsorizzazione di un emendamento di Sergio Romano, mentre con alcuni messaggi del 24 e 31 ottobre 2016 il faccendiere chiede a Verdini di organizzare un incontro tra Lotti e Massimo Mantovani e Antonio Vella, al tempo tra i massimi dirigenti dell’Eni. «Vero, posso dire di aver ricevuto da Amara tante richieste e sollecitazioni, a cui io non davo risposta», si giustifica Verdini.

Ma quando Cantone chiede come mai il legale siciliano ha voluto attribuirgli un ruolo così rilevante in Ungheria, il politico racconta episodi e incontri inediti che svelano un rapporto tra i due affatto banale. Va ricordato il tempo e il contesto: Verdini è uno degli uomini vicinissimi a Berlusconi e Renzi, uno dei politici più potenti d’Italia. 

«Amara era amareggiato per le dichiarazioni che aveva reso a Messina: io a quel punto decisi di incontralo nell’ufficio di Ignazio Abrignani (ex deputato di Ala, ndr). Eravamo solo io e lui. Gli dissi che aveva dichiarato il falso, affermando di avermi dato dei soldi. Lui mi aggredì, e mi disse che mi aveva dato somme mensilmente, affermò di avermi consegnato 40mila euro per sette mesi, pari quindi a 280mila euro. Io negai decisamente e affermai che doveva curarsi. Gli chiesi se avesse un registratore: mi parvero dichiarazioni farneticanti, forse finalizzate a fornirsi una prova».

L’ex parlamentare però spiega che, nonostante tutto, accettò di vedere Amara e il suo avvocato una seconda volta. «Mi disse che poteva ritrattare le sue dichiarazioni (su Mineo e i 300mila, ndr), ma io in cambio avrei dovuto dichiarare che lui era intervenuto per la nomina di Claudio Descalzi (ad dell’Eni, ndr) e che aveva fatto da tramite tra me e Claudio Granata (braccio destro del manager, ndr). Io rifiutai di rendere tali false dichiarazioni».

Secondo Verdini, spiega Cantone, «Amara sarebbe stato del tutto estraneo alla scelta di Descalzi, avendogli soltanto esternato il gradimento di una parte dell’Eni». Sia come sia, è per questo motivo, conclude Verdini, che l’ex sodale lo mette nel mirino e lo indica calunniosamente come uno dei vertici della loggia segreta.

Ma l’ex forzista ha o meno avuto da Amara la raccomandazione per promuovere Mineo al Consiglio di stato, visto che il nome effettivamente spuntò in una short list della presidenza del Consiglio prima di essere cassato?

«La nomina del dottor Mineo non venne chiesta da Amara, ma da Giuseppe Drago (ex governatore della Sicilia e deputato di Forza Italia, ndr). Evidenzio che avendo un rapporto con il governo, mi fu chiesto da Lotti se avessi dei nomi da mandargli. In prima battuta gli dissi di no, in seguito inviai il curriculum di Drago». Per i giudici di Messina invece Amara non mente. E Verdini, almeno in primo grado, ha dovuto incassare l’ennesima condanna.

L’imputato Davigo torna alla carica contro il ritorno di Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Se fossimo in un paese civile, non ci sarebbe neppure bisogno di una “legge Severino”, perché comunque Berlusconi non sarebbe mai tornato in Senato. Insomma, quei due milioni circa di voti non li avrebbe avuti. Chi lo dice, nel giorno del grande rientro del leader di Forza Italia dopo la brutale cacciata del 2013? Forse un avversario politico? Magari Enrico Letta, che è andato a occupare il posto di Matteo Renzi, che aveva liquidato Berlusconi con il suo perfido “game over”. Invece.

Invece, come se non fosse lui stesso un imputato sottoposto a Brescia per quella rivelazione di atti d’ufficio che per un magistrato è un fatto gravissimo, ricompare d’improvviso in tv Piercamillo Davigo. A parlare di Silvio Berlusconi il “pregiudicato”, come se non fossero stati in qualche momento della loro vita tutti e due, l’ex toga e l’attuale senatore, un po’ sulla stessa barca in un’aula di tribunale. Da imputati. Colui che fu un tempo un trionfatore di “Mani Pulite”, uno che incedeva nel corridoio del quarto piano del tribunale di Milano, fregiato indebitamente del titolo di “dottor sottile” come se avesse la raffinatezza di Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale, non si è mai sottratto alle telecamere.

Ama esibire la propria competenza tecnico-giuridica, e anche ripetere ossessivamente storielle paradossali che con la reale amministrazione della giustizia hanno poco a che fare. Così non si è negato neanche questa volta all’invito di Giovanni Floris, invitato a nozze a dire la sua proprio la sera precedente il rientro di Silvio Berlusconi a Palazzo Madama. Avrebbe potuto declinare, oppure concordare di essere invitato solo come “tecnico”, sia pure magistrato ormai in pensione. Ma il personaggio non è fatto così. E neppure la storia del suo processo è proprio edificante, sul piano del rigore. Ancor meno il suo comportamento in tv. Tanto che, quando un altro ospite della trasmissione, il direttore di Libero Sandro Sallusti, nel ricordargli di essere stato da lui due volte querelato ed esserne uscito vincente, gli rinfaccia di essere un “indagato”, l’ex magistrato non lo corregge. Già, perché Davigo non è più un semplice “indagato”, ma un imputato a tutti gli effetti, con un processo in corso. Innocente secondo la Costituzione, come tutti gli imputati, naturalmente.

Avrebbe dovuto rivendicarlo, con orgoglio, ma anche con la dignità che in questo caso è mancata. Avrebbe dovuto ricordare l’articolo 27 della Costituzione, gridando la propria estraneità al reato che gli viene contestato. Invece, muto. Silenzioso e sornione anche il conduttore, che non può ignorare la realtà dei fatti. Eppure le cronache sono state clamorose, fin dall’inizio “dell’affare Amara” con la deposizione dell’avvocato sulla presunta “Loggia Ungheria” e la storia della famosa chiavetta che, dalle mani del sostituto procuratore milanese Paolo Storari, passando da quelle del dottor Davigo membro del Csm, ha fatto uno strano giro dell’orologio, arrivando nella sua versione verbale fino al Presidente Mattarella, come ha testimoniato il vicepresidente del Csm David Ermini. E non si può dimenticare la presenza fisica e l’orgoglio da combattente dell’imputato Davigo nell’aula del tribunale di Brescia il giorno della prima udienza.

Era il 20 aprile scorso, e c’erano le telecamere. Non si sa che cosa il dottor Davigo pensasse di ricavare sul piano mediatico, fatto sta che il suo comportamento aveva stuzzicato persino il bonario presidente della prima sezione del tribunale Roberto Spanò, che a un certo punto si era visto costretto a dirgli paternamente: “È difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato”. Un invito inutile. Perché se è vero, come dicono molti magistrati, che la toga in qualche modo ti rimane appiccicata addosso anche quando non frequenti più le aule di giustizia, anche quando sei ormai in abiti “borghesi”, nel caso del dottor Davigo e del suo atteggiamento c’è qualcosa di più e di diverso. Perché in questo processo bresciano c’è il rischio che vada in pezzi del tutto la sua immagine dei tempi che furono, quella dei successi di “Mani Pulite”. Lui lo sa.

Lo ha dimostrato la sua agitazione quando David Ermini nella sua testimonianza ha chiarito che il magistrato, all’epoca membro del Csm, non gli chiese mai di formalizzare la consegna dei verbali secretati di Amara. Verbali che furono mostrati o finirono nelle mani, oltre che di cinque consiglieri, anche di persone estranee al Csm come il presidente della commissione antimafia Nicola Morra, e anche delle due sue segretarie. Quel giorno in quell’aula c’era solo un imputato in difficoltà. Come tanti. Magari anche come Berlusconi quando è stato condannato per frode fiscale. Un grande ex magistrato con la toga e la giustizia nel cuore sarebbe stato generoso, martedi sera. Avrebbe potuto ricordare che il leader di Forza Italia ha scontato la sua pena, pur ritenendola, e non solo lui, ingiusta. E anche che comunque due milioni di persone lo hanno riportato al Senato. Ma non c’è niente da fare. Quale grandezza aspettarsi da uno che non ritiene esistano innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca? Potremmo ricordarcene il giorno della sentenza che assolverà o condannerà l’imputato Piercamillo Davigo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L’ex segretaria di Davigo è stata assolta perché «il fatto non sussiste»: era accusata di calunnia. Per tutti era lei la “postina” dei verbali di Amara, finiti in mano ai giornalisti. Simona Musco su Il Dubbio il 16 dicembre 2022

Marcella Contrafatto non era il “corvo” del Csm, ma forse solo l’ennesima vittima di una storiaccia degna di una serie tv. L’ex segretaria di Piercamillo Davigo, licenziata in tronco da Palazzo dei Marescialli senza nemmeno attendere di conoscere l’esito delle indagini, ieri è stata prosciolta «per non aver commesso il fatto» dal gup di Roma Nicolò Marino, di fronte al quale la donna è scoppiata a piangere per «la fine di un incubo».

A suo carico era stata mossa l’accusa di calunnia ai danni dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco: secondo la procura di Roma sarebbe stata lei a spedire i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara ai giornalisti e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Verbali ai quali era allegato un biglietto anonimo, «in cui tra l’altro si affermava che il verbale in questione era stato ben tenuto nascosto» da Greco «chissà perché» e che «in altri verbali c’è anche luì (parte manoscritta volta verosimilmente a evidenziare che da alcuni verbali di interrogatorio risulta la presenza del dottor Greco)». In quei documenti, il discusso “pentito” Amara aveva raccontato dell’esistenza della fantomatica “Loggia Ungheria”, una presunta società segreta della quale avrebbero fatto parte pezzi dello Stato – inclusi alcuni magistrati e consiglieri del Csm – e capace di pilotare le nomine ai più alti livelli. La Loggia, però, secondo la procura di Perugia non sarebbe mai esistita e quei verbali sono serviti solo a far scoppiare l’ennesima guerra tra toghe e a infangare decine di persone, primo fra tutti il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita. Quei verbali erano stati consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari, per denunciare l’immobilismo dei vertici della procura milanese.

E Davigo, anziché consigliare le vie formali, mostrò quei documenti a diversi consiglieri, alle sue segretarie e all’allora presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, consigliando a tutti di prendere le distanze da Ardita. Vittima, secondo Di Matteo e la procura di Brescia – dove è in corso il processo a Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio -, di un complotto. E vittima di un complotto, forse, potrebbe esserlo stata anche Contrafatto, dipinta a Brescia dalla sua ex collega Giulia Befera e dallo stesso Davigo come una persona «sopra le righe» e dunque probabilmente capace di fare un gesto del genere per vendicare la cacciata dell’ex pm di Mani Pulite dal Csm.Ma gli elementi di questa storia – indicativi, secondo la procura, di una responsabilità della donna – racconterebbero una verità diversa. Verità ricostruita meticolosamente da Alessia Angelini, legale di Contrafatto, che ha smontato pezzo per pezzo la tesi dell’accusa. «Sono molto soddisfatta, perché non era semplice, ma siamo riusciti a confutare uno per uno tutti gli indizi, dimostrando che erano solo elementi inconferenti – ha spiegato al Dubbio Angelini -. L’unico vero elemento indiziante era la consulenza della pubblica accusa che sosteneva che quelle cinque parole scritte in stampatello fossero attribuibili alla signora Contrafatto. Quella era l’unica prova diretta. Ma l’esito della perizia disposta dal giudice è stato negativo: quella grafia non era assolutamente la sua». Ma anche gli altri indizi si sono dimostrati inadatti a suffragare la tesi che fosse lei la responsabile.

Nel caso della telefonata con la quale “il corvo” ha anticipato l’invio dei verbali alla giornalista di Repubblica Liana Milella, infatti, non c’erano elementi per sostenere che a chiamare fosse stata l’ex segretaria di Davigo. L’unico collegamento era la sim, intestata al Csm e nella disponibilità di Contrafatto. Ma a quel telefono, ha sostenuto la donna davanti al gup, avrebbero potuto accedere più persone a Palazzo dei Marescialli. «Contrafatto aveva due telefoni – ha spiegato Angelini -, uno personale e uno dell’ufficio. Sicuramente la telefonata è partita da quest’ultimo, ma la voce non era certamente la sua. Sono state fatte due telefonate a Milella, la seconda delle quali di 11 minuti, e la giornalista ha detto chiaramente di ricordare che si trattava della voce di una giovane donna del nord, che di certo non poteva essere la mia assistita». C’è poi la consegna del plico al Fatto Quotidiano, dove la “postina” si era recata il 9 novembre 2020 alle 17.30. Secondo quanto riferito dal receptionist, a consegnare i verbali sarebbe stata una donna, arrivata sul posto alla guida di un’auto bianca. «Al receptionist sono state sottoposte quattro fotografie e non ha mai riconosciuto Contrafatto – ha aggiunto l’avvocata -. Inoltre le telecamere degli edifici contigui alla redazione avevano ripreso sette vetture bianche transitate per quella strada tra le 16.30 e le 18.30.

L’unica che poteva corrispondere ad una di quelle nella disponibilità di Contrafatto era una Smart fortwo, ma quello specifico modello è stato prodotto dopo il 2014 e noi abbiamo dimostrato che l’auto della signora Contrafatto risale al 2010. Inoltre, la mia assistita non usa quell’auto dal 2019, ovvero da quando l’ha regalata alla figlia». Ma c’è di più: la consulenza disposta da Storari sui verbali consegnati al giornalista del Fatto ha evidenziato delle differenze tra i verbali arrivati in redazione – e quindi spediti dal “corvo” – e quelli originali. «Non potevano dunque essere gli stessi – ha aggiunto la legale -. I verbali, com’è stato dimostrato, circolavano già da un anno». Verbali che sono arrivati anche a Contrafatto via posta a giugno 2020.Qualcuno ha voluto incastrarla, dunque? «Non penso si tratti di un’azione volontaria – ha concluso Angelini -. Penso che qualcuno li abbia mandati a lei perché non aveva il coraggio di fare tutto questo in prima persona e pensava che la mia assistita avrebbe fatto scoppiare il caos, prima del voto sulla permanenza al Consiglio del dottor Davigo. Ma Contrafatto non si sarebbe mai sognata di inviare dei verbali».

Caso verbali, parla Contrafatto: «La mia vita in pasto ai giornali, ma il corvo non sono io». L'ex segretaria di Davigo davanti al gup. Ma la grafia sui biglietti spediti a Di Matteo non sarebbe la sua. Simona Musco Il Dubbio il 24 novembre 2022

«Mi hanno ritenuta responsabile senza neanche aspettare il processo. Il mio equilibrio ne è uscito devastato». L’ex segretaria di Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto, non riesce nemmeno a spiegare a voce quanto sia stato furioso il fiume di fango che l’ha travolta. Così, davanti al gup di Roma Nicolò Marino, dove è in corso l’udienza preliminare per calunnia ai danni dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, ha preferito affidarsi ad una breve memoria, dove ripercorre le assurde tappe di questa vicenda. Per la procura di Roma sarebbe lei, infatti, «la postina» dei verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria, verbali consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Davigo per denunciare l’immobilismo dei vertici della procura milanese e poi inviati anonimamente alla stampa e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Verbali nei quali veniva indicato tra gli affiliati anche il consigliere Sebastiano Ardita, vittima – secondo Di Matteo e la procura di Brescia (dove è in corso il processo a Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio) – di un complotto.

E vittima di un complotto, forse, si sente anche Marcella Contrafatto. Licenziata in fretta e furia dal Csm senza attendere gli sviluppi della vicenda giudiziaria e trattata da colpevole, oltre che da pazza. Ma i pezzi del puzzle cominciano lentamente a ricomporsi restituendo un’immagine diversa da quella iniziale. A partire da un dato di non poco conto: la grafia sul biglietto spedito a Di Matteo insieme ai verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Amara non corrisponde alla sua. È quel biglietto, di fatto, a rappresentare la calunnia: su quel pezzo di carta, infatti, c’era scritto «che il verbale in questione era stato ben tenuto nascosto dal procuratore di Milano Francesco Greco "chissà perché"» e che in «altri verbali c’è anche luì». Ma la perizia grafologica disposta dal giudice «ha escluso la riconducibilità alla mia assistita della lettera recapitata a Antonino Di Matteo», ha spiegato al termine dell’udienza preliminare l’avvocato Alessia Angelini, difensore di Contrafatto. Un elemento che fa il paio con un altro dettaglio: l’anonima che telefonò alla giornalista di Repubblica Liana Milella dal telefono del Csm in uso a Contrafatto era la voce di una giovane donna del nord. Insomma, un identikit diverso da quello dell’ex dipendente del Csm.

«Mi spedirono a casa una busta con i verbali» 

Nelle 12 pagine di memoria emerge tutta l’amarezza della donna per una vicenda nella quale si è vista coinvolta, a suo dire, senza un perché. «Nel mese di giugno 2020 – ha spiegato – trovai sopra la cassetta delle lettere una grossa busta a me indirizzata, con il mio nominativo e l’indirizzo stampati». All’interno c’erano i verbali di Amara, ma anche un verbale che riguardava l’ex capo dell’Anm Luca Palamara. Verbali di cui aveva sentito parlare da Giulia Befera, altra assistente di Davigo, e poi dallo stesso ex pm di Mani Pulite, al rientro dal lockdown a maggio 2020. «Ricordo che era molto preoccupato» perché «chi doveva fare gli accertamenti non lo stava facendo» e «non si dava pace. Non mi riferì, però, chi lo avesse messo al corrente di questo». E non le avrebbe nemmeno mostrato i verbali prima di ottobre 2020, verbali che Contrafatto non sapeva dove fosse custoditi. Ma in tanti, al Csm, erano a conoscenza di quei documenti, tra i quali il consigliere Giuseppe Cascini, che «venne nello studio del dottor Davigo a riportare una cartellina bianca che io ritenni essere quella indicatami dalla Befera. Del resto – ha aggiunto – ho visto la stessa cartellina nelle mani del dottor Davigo anche il giorno che mi disse di andare nella stanza del vicepresidente Ermini».

Ma perché incastrare proprio Contrafatto? «Mi sono interrogata a lungo sul perché» e soprattutto «su chi potesse essere stato. Sicuramente, ho pensato, una persona a me vicina, al punto da conoscere il mio indirizzo di casa. Posso solo supporre che l’autore o l’autrice dell’invio "contasse" su una mia iniziativa personale per far emergere la vicenda all’esterno», qualcuno che forse «non aveva il coraggio di esporsi in prima persona ed assumersi la responsabilità di diffondere notizie così eclatanti». Ma «non ho mai pensato che a spedirmi il plico, e dunque a strumentalizzarmi, fosse stato il dottor Davigo, dal momento che quel modo di fare non appartiene alla sua persona». E inoltre «non mi sarei mai spinta a fare nulla del genere». D’altronde, per ben 35 anni – il periodo trascorso da Contrafatto al Csm – nessuno si è mai lamentato «della mia affidabilità». Né era mai stata definita prima «folle» o «sopra le righe», come detto da Befera e Davigo, con espressioni praticamente sovrapponibili. 

«Ardita? Una persona estremamente gentile»

Contrafatto ha parlato anche di Ardita, della cui presunta affiliazione a Ungheria era stata Befera a parlarle. «Davigo mi intimò di non far avvicinare Ardita alla sua stanza: esternai la mia incredulità – ha spiegato – dal momento che conoscevo personalmente il consigliere Ardita e lo ritenevo persona gentile e perbene, cosicché stentavo a credere che potesse essere coinvolto nella loggia massonica. Il commento lapidario del dottor Davigo fu: "c’è tutto il mondo". Ebbi l’impressione che lui credesse fermamente alle dichiarazioni contenute negli interrogatori dell’avvocato Amara». Il rapporto tra i due si era incrinato a febbraio, quando litigarono sulla scelta del nome da proporre per la procura di Roma nel corso di una riunione che Di Matteo, in aula, ha definito surreale, al punto di parlare di «minacce». Ma dopo il lockdown la situazione era degenerata. Così Ardita tentò due volte di chiarirsi con Davigo, «ma il presidente (così Contrafatto chiamava Davigo, ndr) gli chiuse la porta in faccia. Io tentai di intercedere – ha aggiunto – perché il dottor Ardita con me si era sempre dimostrato estremamente gentile», gentilezza di cui «sarò sempre riconoscente. I miei tentativi sono caduti nel nulla».

Contrafatto è amareggiata per le parole di Befera e Davigo sulla sua persona, sottolineando come mai, prima, fosse stata tacciata di complottismo. E anzi sia Befera sia Davigo si erano spesso rivolti a lei in caso di necessità. Anche la lettura in aula, da parte di Befera, delle chat con Contrafatto nelle quali la donna diceva di volersi rivolgere alla stampa per far scoppiare una bomba sarebbe stata «stravolta e mistificata. Io avrei voluto solo sensibilizzare» Marco Travaglio «affinché caldeggiasse la permanenza» di Davigo «al Csm, come in effetti è avvenuto dopo il voto (alla memoria è allegato un articolo del Fatto, ndr), ma certo mai mi sarei sognata di inviare a lui dei verbali così delicati». Ma il punto è anche un altro: Contrafatto non ha mai conosciuto Greco, «né ho mai avuto qualcosa da recriminare nei suoi confronti. Non ho inviato al dottor Di Matteo nessun interrogatorio e tantomeno lettere. Peraltro non avrei avuto necessità di spedire nulla, lavorando all’interno dello stesso edificio. Tantomeno ho mai telefonato alla dottoressa Milella. Il mio cellulare, proprio perché intestato al Csm, non aveva blocchi e mi è capitato più di una volta di lasciarlo incustodito sulla scrivania». 

Una gogna pazzesca

Tutto questo, per lei, si è trasformato in un incubo: «Dal giorno della perquisizione nella mia casa e al Csm la mia vita si è stravolta. Circondata da venti persone tra pm e finanzieri che mi chiedevano con insistenza circostanze a me sconosciute, incalzata da pressanti domande sulla mia vita personale e familiare io ho subito un vero e proprio trauma. Sono stata trattata come la peggiore dei delinquenti senza aver fatto nulla di male. La mia vita è stata data in pasto ai giornali che mi hanno battezzato "il corvo del Csm", "la postina" dei verbali. Sono stata inseguita dai giornalisti anche sotto la mia abitazione». Una vera e propria gogna.

Monica Serra per “La Stampa” il 27 Ottobre 2022.

«Alla fine andiamo carcerate noi». È la mattina del 15 ottobre 2020 e mancano cinque giorni al pensionamento del consigliere del Csm Piercamillo Davigo per sopraggiunti limiti di età. La segretaria dell'ex pm di Mani pulite, Marcella Contrafatto, e l'assistente di studio Giulia Befera sono molto preoccupate. 

Nelle chat, sequestrate dalla procura romana e solo ora depositate al processo che vede Davigo imputato a Brescia per rivelazione del segreto d'ufficio - per aver diffuso i verbali segretati di Piero Amara sulla fantomatica loggia Ungheria - le due donne si scambiano pensieri su quello che sta accadendo al Consiglio superiore della magistratura. Su un presunto «complotto» contro Davigo, sui «poteri forti che decidono tutto a tavolino». Sulla «bomba che bisognerebbe far esplodere» sui giornali per impedire che termini il mandato dell'«ultimo baluardo della legalità».

La prima a scrivere è Contrafatto, poi licenziata dal Csm, ora imputata a Roma per calunnia ai danni del procuratore milanese in pensione Francesco Greco. Soprattutto indagata in un secondo fascicolo per rivelazione del segreto d'ufficio e favoreggiamento personale: un'inchiesta che l'accusa di essere l'autrice del dossieraggio a diverse testate giornalistiche dei verbali segretati di Amara, che il pm milanese Paolo Storari aveva consegnato a Davigo per «tutelarsi dalla inerzia della procura» che le indagini non hanno confermato. 

L'ex segretaria di Davigo, che si è rifiutata di testimoniare a Brescia perché imputata nell'altro processo, racconterà per la prima volta la sua verità il 27 novembre al gup romano che dovrà decidere se rinviarla o meno a giudizio. «Tu conosci la mail personale di Marco Travaglio?», chiede Contrafatto a Befera (non indagata). «Come mai?». La risposta: «Potrebbe essere utile». «Ma prima di lunedì o martedì» sottolinea la più giovane assistente presentata a Davigo proprio da Contrafatto e che ha finito di lavorare al Csm al termine del mandato del consigliere. «Ma non possiamo dire quello che sappiamo. Come? Con che prove? Alla fine andiamo carcerate».

Come Befera spiegherà all'udienza del processo bresciano in cui ha testimoniato, la volontà più volte manifestata da Contrafatto - che definisce «sopra le righe, ultimamente fuori di testa» - di rivolgersi ai giornali le sembrava una «pazza idea», un «intento fantasioso». «Meriterebbero un ricatto: se sto fuori racconto tutto. Ma che ci vuole?», è sempre Befera a scrivere, riferendosi a Davigo.

«Non dirà niente. Stefano dice che potrebbero ammazzarlo. Ho avuto paura», scrive Contrafatto tirando in ballo il magistrato Stefano Amore, assistente alla Corte costituzionale. «Parliamo di poteri forti. Maledetto il giorno in cui ha saputo queste cose. È iniziata la fine di tutto», sostiene riferendosi ai verbali su Ungheria che sono «in uno scaffale» dell'ufficio di Davigo noto a entrambe. 

Contraffatto rincara la dose: «Pensavo a un grande titolo a effetto sul giornale: "Ricattato dai vertici del Quirinale. Come mai? Personaggio scomodo"». Befera prova a tagliare corto: «Davigo non ne sarebbe contento». La risposta: «Lui non deve sapere. Lui non lo saprà mai». E ancora scrive Contrafatto: «Non siamo solo noi che sappiamo. Sono sicura che Ermini lo sa, che Salvi lo sa. Lo sa Marra, lo sa Ilaria. Perché proprio noi? Io manco ho mai visto niente».

Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 20 ottobre 2022.

Come chiarito dalle carte giudiziarie pubblicate da Domani, Raffaele Cantone e i pm della procura di Perugia che hanno chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla Loggia Ungheria («non ci sono riscontri né prove della sua esistenza») considerano Piero Amara un pentito spesso attendibile. 

I cui racconti contro giudici, politici e potenti assortiti sono stati – associazione segreta a parte – più volte riscontrati. Tanto che le sue accuse hanno portato condanne pesanti contro magistrati ed ex parlamentari (Denis Verdini il più recente) nei tribunali di Roma e di Messina.

Tra le storie dell’ex avvocato esterno dell’Eni che Cantone ha messo sotto la lente d’ingrandimento ce n’è una affatto scialba, che ha portato (come anticipato da Giacomo Amadori sulla Verità) all’apertura di un fascicolo per ora senza indagati e senza ipotesi di reato a cui sta lavorando la procura di Messina.

La vicenda è quella, in parte ancora oscura, che ruota intorno all’omicidio di Luigi Ilardo, un ex boss di Cosa nostra che divenne confidente dei carabinieri, prima di essere tradito da qualcuno nelle nostre istituzioni che lo vendette alla mafia catanese, che lo ammazzò in auto una sera del 10 maggio del 1996.

Ilardo era imparentato con la famiglia dei Madonia (il cugino era il numero due della Cupola comandata da Totò Riina), alle spalle dieci anni di carcere, era chiamata fonte “Oriente” dagli investigatori che nel 1993 iniziarono a ascoltare il pentito che aveva deciso di cambiare vita e “normalizzarla”, trasformandosi in un infiltrato.

È così che inizia la collaborazione con Michele Riccio, colonnello dei Ros, a cui racconta segreti delle famiglie mafiose che avevano dato il via alla stagione del terrore. Sentenze alla mano, è un fatto che Ilardo riesce a portare gli inquirenti a pochi passi da un nascondiglio di Bernardo Provenzano, e che si fosse deciso a svelare i retroscena da lui conosciuti dei massacri del 1992, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un uomo diventato pericolosissimo per i padrini, che ordinarono di ammazzare la fonte “Oriente” prima che potesse raccontare tutto quello che sapeva.

Possibile che oltre alla mafia anche pezzi dello stato temevano le confessioni dell’ex boss? Amara con i pm di Perugia parla proprio dell’assassinio di Ilardo. È il 6 settembre 2021, e il legale siciliano è rinchiuso nel carcere di Terni. Accetta di essere ascoltato da Cantone. Stavolta l’avvocato, rispetto a quanto detto in interrogatori precedenti, comincia anticipando la nascita della loggia Ungheria al 1993, «collegandola casualmente alla “crisi” di valori del paese successiva a Tangentopoli».

Per poi affermare come «uno dei problemi concreti che la loggia dovette affrontare fu la gestione dei procedimenti nei confronti di Silvio Berlusconi aperti a Palermo e a Catania in relazione al “dopo stragi” rispetto ai quali (Amara) accenna al ruolo che avrebbero avuto i magistrati Paolo Giordano e Alessandro Centonze», quest’ultimo ex giudice delle indagini preliminari a Caltanissetta. Per la cronaca, Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono stati già archiviati anni fa nei vari processi siciliani sulle vicende del 1992 e 1993, ma pende su di loro l’indagine dei pm di Firenze che li hanno iscritti per concorso in strage in merito a un presunto ruolo di mandanti esterni: presto i magistrati potrebbero chiedere il rinvio a giudizio dei due fondatori di Forza Italia oppure, come molti osservatori si aspettano, una nuova archiviazione.

Secondo Amara, sintetizza Cantone, «questo intervento di Ungheria ci sarebbe stato grazie e per effetto del profondo legame tra Giovanni Tinebra (potente magistrato ormai deceduto, e definito di fatto fondatore e animatore di Ungheria, ndr) e Berlusconi e del suo governo». Tinebra, che dal 1992 al 2001 fu procuratore della Repubblica di Caltanissetta e titolare delle inchieste sugli eccidi di Capaci e di via d’Amelio, nonché “gestore” del falso pentito Vincenzo Scarantino, avrebbe «gestito in modo scorretto i procedimenti nei confronti di Berlusconi pendenti nella sua procura». E poi organizzato l’avvio della collaborazione di Ilardo, «sostanzialmente boicottandola».

Cantone, appena ascoltato Amara, visto la gravità delle ricostruzioni ha girato le sue dichiarazioni alla procura nazionale antimafia, che dopo venti giorni ha inviato una nota dettagliata sui fatti con la quale «si può affermare che alcune circostanze narrate da Amara sono (almeno in parte) riscontrate». 

Non solo perché nella sentenza che ha condannato il boss Giuseppe Madonia e altri mafiosi per l’omicidio di Ilardo «si trovano elementi potenzialmente confermativi delle dichiarazioni di Amara» si legge nel rapporto dell’Antimafia «ad esempio sull’interessamento del dottor Tinebra nella gestione della prossima collaborazione di Ilardo».

Ma anche perché il colonnello Riccio dei Ros, il primo a cui il pentito si avvicinò esternando la volontà di collaborare con lo stato, si era convinto dell’«infedeltà di soggetti istituzionali. È evidente come i suoi sospetti attingano, oltre che i vertici dell’epoca dei Ros, l’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra. Al quale nel racconto di Riccio sarebbe imputabile il rinvio della collaborazione di Ilardo, con la conseguente accelerazione dei tempi dell’omicidio al fine di congiurare l’imminente formalizzazione della scelta» del pentito. 

L’ex mafioso, in effetti, fu lasciato solo da chi lo doveva difendere: preziosa fonte informativa dal 1993 al 1996, non riuscì ad entrare mai ufficialmente nel programma di protezione testimoni, e fu ammazzato a causa di una probabile soffiata istituzionale, come fa intendere la sentenza sul suo assassinio.

Non è tutto. Nelle righe che la procura antimafia manda a Cantone si segnalano altri «riscontri alle dichiarazioni dell’Amara». Ad esempio sul giudice Antonino Ferrara, al tempo gip a Catania, che nell’aprile del 2000 «effettivamente dispose l’archiviazione in merito agli appunti e alle dichiarazioni di Michele Riccio che coinvolgevano Tinebra, ipotizzando sue responsabilità in merito all’omicidio di Ilardo».

Il capo della procura umbra sottolinea infine come «in merito ad Alessandro Centonze (magistrato che Amara dice di essere a Tinebra assai legato, ndr) dalla nota si evince che effettivamente il medesimo pm, presso la procura di Caltanissetta, ha gestito unitamente a Paolo Giordano il procedimento “sui mandanti occulti bis delle stragi” che vedeva indagato anche Berlusconi e Dell’Utri, per il quale nel giugno del 2003 venne richiesta l’archiviazione dal procuratore e dal pm Giordano». 

Alla fine della fiera, le carte perugine danno atto ad Amara che le ombre gettate sulla figura di Tinebra «in relazione all’omicidio» della fonte Oriente non sono affatto inventate, e che è veritiero «il dato storico dell’archiviazione decisa dal gip Ferrara del procedimento relativo anche al coinvolgimento di Tinebra». L’ex capo della procura e del Dap è morto ormai da sei anni, molti dei fatti sono vecchi di decenni, ed è improbabile che i pm di Messina possano fare nuove indagini per capire se davvero pezzi dello stato abbiano tradito Ilardo, oppure se Tinebra “aggiustò” i processi di Berlusconi. Ma per Cantone Amara della vicenda sa molto. Al netto dell’inutilità della storia in relazione alla volontà del pregiudicato di voler provare l’esistenza della fantomatica Ungheria.

Amara “rivela”, la Dna riscontra: ma sono suggestioni già conosciute. La Direzione nazionale antimafia sarebbe giunta alla conclusione che questi fatti narrati sono riscontrati, ma si tratta di ricostruzioni pubbliche. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 ottobre 2022.

Dalla notizia data da Il Domani si apprende che Piero Amara ha fatto nuove “rivelazioni”. Nonostante sia stata sconfessata l’esistenza della cosiddetta loggia Ungheria, la magistratura inquirente ha continuato ad ascoltarlo e addirittura, almeno così emerge dalla ricostruzione giornalistica, la Direzione nazionale antimafia ha trovato i riscontri. Peccato che le sue dichiarazioni siano narrazioni note alla conoscenza di chiunque e fortemente opinabili.

Quali sarebbero queste scottanti rivelazioni? Che la prima inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi di Capaci e Via D’Amelio sarebbe stata archiviata su pressione dell’allora capo della procura di Caltanissetta Gianni Tinebra (episodio, in realtà, già “denunciato” dal magistrato Nino Di Matteo) e addirittura con la complicità dell’allora sostituto procuratore Francesco Paolo Giordano. Quest’ultimo un magistrato per bene, ma “reo” di aver chiesto l’archiviazione.

Una grave colpa, che a questo punto è stata reiterata da altri suoi colleghi. Nel ’98, la procura di Firenze l’ha archiviata per mancanza di prove. Dopo quattro anni è stata la volta della procura di Caltanissetta. A indagare i pm Luca Tescaroli e Di Matteo, ma anche quella volta un nulla di fatto: archiviata. Ci riprova nuovamente la procura di Firenze nel 2008 con l’ennesimo fallimento. Arriviamo nel 2017, siamo nuovamente a Firenze, e l’indagine viene riaperta come conseguenza delle intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio. Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sul teorema trattativa Stato-mafia. Ma visto quello che è emerso, ovvero quasi tutte suggestioni, il destino probabilmente sarà lo stesso di sempre. Con tutte queste archiviazioni, casomai dimostra la fondatezza della richiesta di archiviazione del magistrato Francesco Paolo Giordano.

Pietro Amara ha anche “rivelato” delle responsabilità dell’omicidio del pentito Luigi Ilardo, ucciso nel 1996 e -secondo contraddittorie ricostruzioni e mai accertate dai fatti-, prima che potesse raccontare presunti retroscena degli eccidi di Falcone e Borsellino. In sostanza ha raccontato ciò che si scrive da anni sui soliti giornali, libri e convegni sponsorizzati da taluni magistrati.

La Direzione nazionale antimafia, almeno così si apprende da Il Domani, sarebbe giunta alla conclusione che questi fatti narrati sono riscontrati. Certo, come già detto, sono ricostruzioni pubbliche. Che riscontro sarebbe? Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, rilasciò una bella intervista al compianto Giuseppe D’Avanzo. Alla domanda sul terzo livello ed entità, ecco cosa rispose: «Credo che sia fuorviante immaginare una Spectre dietro le azioni della mafia e vedere questo delitto come una strage di Stato. Prima di avventurarsi in questo ragionamento, bisogna accertare i fatti e attenervisi». Attenersi ai fatti dovrebbe essere anche la missione di una seria Direzione nazionale antimafia. E i fatti, come quelli reclamati da Fabio Trizzino, avvocato dei figli di Borsellino, non mancando di certo.

Le dichiarazioni dell'avvocato. Il giornale di De Bendetti “sponsorizza” Amara: sul Domani la richiesta di archiviazione. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Un articolo apparso ieri sul quotidiano Domani ha fatto tornare ancora una volta alla ribalta le gesta dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, gola profonda di almeno sei Procure. Un tentativo, quello di Amara, di attribuirsi e farsi attribuire una sia pur parziale attendibilità per poter riacquisire la libertà ma soprattutto poter godere del patrimonio che alla data odierna non risulta inspiegabilmente sequestrato.

Al momento l’unica Procura italiana che pare essere rimasta a dargli credito è quella di Perugia mentre fioccano nei suoi confronti decine di procedimenti per calunnia. Ma andiamo con ordine. Nell’articolo sono riportate le dichiarazioni rese il 6 settembre del 2021 da Amara, mentre era in carcere a Terni, ai pubblici ministeri perugini e poi confluite nella richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria di cui ancora nessuno degli indagati, a differenza del giornalista del quotidiano di Carlo De Benedetti, risulta avere copia. Stralci parziali dell’atto e, con ogni probabilità, di altri atti di indagine che mettono in difficoltà il gup del Tribunale di Perugia Angela Avila, vittima dell’ennesima e non perseguita fuga di notizie, che nei prossimi giorni dovrà esprimersi proprio su questa richiesta di archiviazione.

L’intento dell’articolo pare essere quello di attribuire credito al racconto di Amara che ha rispolverato davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone una storia vecchia ed arcinota: quella sulle dichiarazioni del pentito di mafia Luigi Ilardo e sulla connivenza dell’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra con la loggia Ungheria e con Silvio Berlusconi. A rendere ancora più inquietante la vicenda sono queste dichiarazioni su fatti e notizie facilmente reperibili da fonti aperte e addirittura discusse negli anni passati al Csm. Ciò nonostante, nel tentativo di dare un barlume di credibilità al racconto di Amara, la Procura di Perugia si è trovata costretta a scrivere alla Procura nazionale antimafia retta da Giovanni Melillo che, evidentemente, non ha potuto far altro che confermare quello che era già noto: si tratta di fatti e di vicende risalenti nel tempo.

Circostanza, quella della interlocuzione fra Cantone e Melillo, finita in maniera sorprendente anch’essa nell’articolo. La fuoriuscita di anticipazioni della richiesta di archiviazione della Loggia accende un faro anche sui traballanti processi perugini a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il concreto rischio che il ‘pentito’ Amara possa essere bollato come teste falso rischia di esporre a pericolo non tanto egli stesso, oramai subissato da numerosi procedimenti per calunnia, quanto soprattutto quei pm che gli hanno dato credito. Amara ha, infatti, riferito fatti di dominio pubblico ed in particolare, per quanto riguarda Berlusconi, i contenuti della richiesta di archiviazione fatta dall’allora procuratore della repubblica di Catania Mario Busacca e dal procuratore aggiunto Vincenzo D’Agata il 12 gennaio 2005 e il decreto di archiviazione del presidente della sezione gip Sebastiano Cacciatore il 31 gennaio 2005 e, a seguito di ulteriore indagine, anche il 13 luglio 2006.

Per quanto riguarda invece la vicenda Ilardo, Amara ha invece riferito i contenuti della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Catania il 27 febbraio 2018 che ha condannato Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola, Maurizio Zuccaro e Orazio Benedetto Cocimano all’ergastolo per il suo omicidio. La nota della Procura nazionale antimafia inviata alla Procura di Perugia e finita non si sa come nelle mani del Domani non fa altro, quindi, che riportare i contenuti di questi provvedimenti a tutti noti e che, contrariamente a quanto indicato nell’articolo, non idonei a riscontrare alcunché. La vicenda del pentito tarocco Vincenzo Scarantino dovrebbe aver insegnato qualcosa. Paolo Comi

(ANSA il 13 ottobre 2022) - "Piercamillo Davigo mi parlò in modo sommario e confidenziale dei verbali su una ipotetica loggia all'interno della quale si diceva ci fossero esponenti delle forze dell'ordine e magistrati e mi fece il nome di Sebastiano Ardita. Mi disse che quei verbali gli erano stati consegnati da qualcuno della procura di Milano ed era preoccupato di un certo immobilismo, che non venisse aperta una indagine per capire.  Era preoccupato per il nome di Ardita, una persona che conosceva molto bene e aveva frequentato". 

Lo ha spiegato in aula a Brescia, Giulia Befera, assistente giuridica dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo imputato a Brescia per il caso dei verbali di Piero Amara. La testimone sta parlando davanti al Tribunale nel corso del processo ripreso oggi dopo la pausa estiva. "Io sapevo che Davigo voleva compulsare l'avvio delle indagini".

(ANSA il 13 ottobre 2022) - "Marcella Contrafatto mi disse 'ho questa pazza idea' ossia di mandare i verbali ai giornali per ristabilire un ordine, nella sua ottica, dopo il voto contrario sulla permanenza di Davigo al Csm" . 

Lo ha spiegato in aula a Brescia Giulia Befera, assistente giuridica dell'ex consigliere del consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo imputato per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Befera, nel raccontare quanto le disse la collega, si riferisce a uno scambio di messaggi via telefono aggiungendo di aver risposto alla donna, indagata a Roma, "stai scherzando? Il consigliere Davigo non ne sarebbe felice. Io mi dissocio". Befera ha spiegato che "Davigo non era stato al corrente al 100% dell'iniziativa" della Contrafatto che lo lasciò "choccato".

(ANSA il 13 ottobre 2022) - "I nostri rapporti personali sono finiti perché io non mi fidavo più di lui e non gli ho rivolto più la parola. Pensavo mi nascondesse qualcosa". È un passaggio della dichiarazione spontanea resa in aula a Brescia da Piercamillo Davigo, ex componente del Csm imputato per la vicenda dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. 

Davigo si riferisce al consigliere uscente del Consiglio superiore della magistratura Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra componenti della presunta e mai accertata Loggia, parte civile al processo in quanto ritiene di essere stato danneggiato dalla diffusione di quei verbali. Davigo ha ricordato che i contrasti con Ardita sono cominciati ben prima di aver saputo della vicenda Ungheria.

Davigo ha spiegato al collegio presieduto dal giudice Roberto Spanò, che lo scontro con Ardita, allora compagno di corrente, sulla nomina del Procuratore di Roma, nel febbraio 2020, "è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso". In precedenza c'era stata una serie di episodi che "inizialmente pensavo fossero di natura caratteriale ma poi mi hanno preoccupato. Una somma di varie cose che mi ha fatto interrompere i rapporti. Non gli ho più rivolto la parola. Poi è arrivata loggia Ungheria...". 

Oggi è stata convocata come teste la consigliera del Csm uscente Ilaria Pepe, tra i primi a Palazzo dei Marescialli ad essere informata da Davigo delle dichiarazioni di Amara. Al termine del primo lockdown, ai primi di maggio del 2020, nel cortile di palazzo dei Marescialli, Davigo "mi disse che era preoccupato per alcune dichiarazioni rese alla Procura di Milano che collocavano due consiglieri, Ardita e Mancinetti, in una loggia.

Rimasi colpita e gli chiesi che cosa aveva intenzione di fare visto che noi arrivavamo da un terremoto non secondario" ossia il caso Palamara, "che già pregiudicava la tenuta del Consiglio". Ilaria Pepe ha precisato che Davigo aveva intenzione di riferire al vicepresidente del Csm David Ermini, affinché informasse il presidente Sergio Mattarella, e al pg della Cassazione Giovanni Salvi. 

"Era preoccupato dalle dichiarazioni di Amara e dal fatto che non si facevano indagini". Pepe, tra l'altro, ha precisato di aver successivamente visto fisicamente i verbali, in quanto Davigo glieli mostrò, ma di non averli "mai letti" e che, riguardo al segreto istruttorio, "mi assicurò che a noi consiglieri non era opponibile". Infine, rispondendo a una domanda precisa, Pepe ha detto di aver ricevuto da Davigo un "invito alla cautela" nei rapporti con Ardita. Così dopo aver saputo delle dichiarazioni di Amara "ho preso ancora più le distanze. Ovviamente ero preoccupata".

«Contrafatto voleva vendicarsi del torto subito da Davigo al Csm». Caso verbali, in aula la testimonianza dell’ex assistente giuridica Giulia Befera. L’ex segretaria del pm di Mani Pulite indagata anche per rivelazione di segreto. Simona Musco su Il Dubbio il 14 ottobre 2022.

La testimone più attesa, alla fine, non si è presentata in aula. Marcella Contrafatto, la presunta postina dei verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria, ex segretaria dell’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere ieri a Brescia, dove è in corso il processo nei confronti dell’ex pm di Mani Pulite per rivelazione di segreto d’ufficio.

Un’assenza comunicata via mail e non giustificata dalla sua veste di imputata per calunnia nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco – formulata sempre in relazione alla diffusione dei verbali -, ma in virtù di una nuova inchiesta della procura di Roma, che indaga su di lei per lo stesso reato che oggi vede alla sbarra Davigo. E proprio in merito a questo procedimento, l’ex segretaria – licenziata dal Csm senza attendere l’evoluzione della sua vicenda giudiziaria – ha intenzione di rendere dichiarazioni spontanee davanti al gip di Roma il prossimo 25 novembre.

Il presidente del collegio Roberto Spanò ha dunque proposto di acquisire i verbali di quelle dichiarazioni, ammettendo che «la perdita di questo teste può essere più di un danno per l’accertamento della verità». Ieri a parlare è stata però l’ex assistente giuridica di Davigo, Giulia Befera. Che ha raccontato di come Davigo le abbia riferito di essere venuto a conoscenza dell’indagine della procura di Milano sulla presunta (e smentita) esistenza della loggia dal pm Paolo Storari, che gli consegnò i verbali ad aprile 2020, lamentando l’inerzia dei colleghi. «Mi aveva detto che era in stallo ed era preoccupato da questo immobilismo», ha raccontato.

In quell’occasione – siamo agli inizi di maggio 2020 – Davigo le riferì in via confidenziale, nel cortile di Palazzo dei Marescialli, che tra i presunti affiliati c’erano, oltre che membri delle Forze dell’ordine e della magistratura, anche due consiglieri del Csm in carica, ovvero Sebastiano Ardita, suo ex amico e parte civile nel processo, e Marco Mancinetti. «Mi fece qualche nome, tra cui quello di Ardita», ha sottolineato. Nome che poi, in un secondo incontro, Befera vide direttamente sui verbali. Ma la parte più corposa delle dichiarazioni della teste ha riguardato Contrafatto e i messaggi scambiati tra le due nel periodo che precedette e seguì la fine dell’esperienza di Davigo al Csm, dal quale fu “cacciato” con voto del plenum avendo raggiunto l’età del pensionamento. Un “allontanamento” che, paradossalmente, non trovò d’accordo proprio quello che ormai era l’ex amico Ardita, che votò a favore della permanenza di Davigo in Consiglio.

«Lei mi mandò un messaggio chiedendomi la mail di Marco Travaglio e dicendomi “ho questa pazza idea di mandare i verbali a giornali e giornalisti per ristabilire un ordine” – ha raccontato -. Nella sua ottica si doveva sapere la verità. Le ho risposto dicendo che Davigo non ne sarebbe stato felice. Mi ero completamente dissociata. Davigo non ne era al corrente al 100 per cento». E l’ex pm, di fronte alla divulgazione dei verbali, era apparso «scioccato» : «Ci siamo incontrati – ha aggiunto Befera – e mi ha detto che non avrebbe mai immaginato che Marcella sarebbe arrivata a tanto. Aveva capito che lei aveva agito con un fine di giustizia, per riequilibrare un ordine. Ma lei vedeva molti complotti e pensava che questa divulgazione potesse compensare» il torto subito da Davigo. Insomma, «un’iniziativa vendicativa, ma di suo solo pugno: dal suo punto vista ha agito immaginando di poter far del bene».

Davigo, infatti, era stato rassicurato sulla possibilità di rimanere in Consiglio. Ma a pochi giorni dal voto il procuratore generale e il primo presidente della Cassazione gli avevano annunciato il loro voto contrario, rendendo ormai certa la cessazione della sua esperienza al Csm il giorno del suo 70esimo compleanno. Proprio per tale motivo, secondo Befera, Contrafatto voleva far scoppiare una bomba giornalistica, con titoloni sul Fatto Quotidiano, pensando così di «poter deviare il corso degli eventi» : la cacciata di Davigo dal Csm, secondo l’ex segretaria, era infatti legata al fatto di essere venuto a conoscenza dell’esistenza della loggia. Contrafatto era dunque una donna «sopra le righe», secondo Befera.

In aula, ieri, ha testimoniato anche Ilaria Pepe, attuale consigliera del Csm eletta nella lista di Autonomia& Indipendenza, la corrente fondata da Ardita e Davigo. Anche a lei Davigo parlò dei verbali a inizio di maggio 2020, nel cortile del Csm, dicendosi «estremamente preoccupato» per la presunta affiliazione di Ardita e Mancinetti. «I verbali li ho visti fisicamente, ma non li ho mai letti, perché lì per lì ebbi la sensazione di essere coinvolta in una cosa più grande di me. Ma non parlammo del fatto che fossero secretati», ha spiegato Pepe. Alla quale Davigo disse di cautelarsi, «perché laddove le dichiarazioni fossero state dimostrate noi, in quanto gruppo, saremmo stati verosimilmente chiamati a dare conto di ogni nostro contatto e vicinanza con Ardita».

Ma le discussioni tra i due magistrati precedono la vicenda dei verbali e risalgono alla travagliata scelta del nuovo procuratore di Roma: dopo aver votato in Commissione per Marcello Viola, indicato a sua insaputa come candidato da favorire durante la famosa cena all’Hotel Champagne, Davigo virò su Michele Prestipino, mentre Ardita sosteneva la candidatura di Giuseppe Creazzo, anche lui tra le vittime collaterali di quel summit notturno. La questione portò ad uno scontro tra i due durante un vertice del gruppo di A& I. Una discussione che «ha rilasciato tossine – ha ricordato Pepe – e lì per lì Davigo disse che avrebbe interrotto i rapporti con Ardita».

In quell’occasione, infatti, Davigo reagì malamente contro Ardita, dicendogli «tu non mi dici tutto». Ed è stato in questo momento che l’ex pm di Mani Pulite ha spiegato i motivi del suo allontanamento dall’ex amico. Dovuto non solo al contrasto su Roma, ma a tanti piccoli momenti per lui sintomo di un comportamento poco trasparente. «Accade in sequenza una serie di cose che inizialmente ho attribuito a questioni di natura caratteriale, ma poi mi hanno preoccupato», ha dichiarato. Tra le quali «lo stato di prostrazione» vissuto a suo dire da Ardita dopo lo scandalo dell’Hotel Champagne, «come se avesse da temere chissà che», tanto da dire «che vuole dimettersi».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è però un’altra: «Per due o tre giorni si è chiuso in ufficio con Lepre (Antonio, ex consigliere, presente all’Hotel Champagne, ndr). Ok, siamo colleghi, ma io dopo aver saputo che si erano riuniti con un imputato della procura di Roma (Luca Lotti, ndr) per discutere della nomina del nuovo procuratore non ho dato più la mano a nessuno. Gli ho detto: ma ti rendi conto che qualcuno può chiamarti in correità, vuoi essere un po’ prudente? Non mi fidavo più di lui e ho interrotto i rapporti. È chiaro che quando è emersa la storia di Ungheria ho reinterpretato tutte queste vicende».

Estratto dell’articolo di Ermes Antonucci per “Il Foglio” il 15 ottobre 2022.

È stata un’udienza da dimenticare per Piercamillo Davigo, quella svoltasi ieri a Brescia nell’ambito del processo che vede l’ex pm di Mani pulite ed ex consigliere del Csm imputato per rivelazione di segreto d’ufficio. L’accusa è di aver divulgato i verbali segreti di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari nell’aprile 2020. 

L’ex assistente  di Davigo, Giulia Befera, ha infatti ammesso molto serenamente di aver avuto notizia dell’indagine e anche di alcuni nomi dei soggetti coinvolti (in particolare dell’allora membro del Csm Sebastiano Ardita, parte civile nel processo) proprio dal suo “capo”: “Piercamillo Davigo mi parlò in modo sommario e confidenziale dei verbali su una ipotetica loggia all’interno della quale si diceva ci fossero esponenti delle forze dell’ordine e magistrati e mi fece il nome di Sebastiano Ardita.

Mi disse che quei verbali gli erano stati consegnati da qualcuno della procura di Milano ed era preoccupato di un certo immobilismo, che non venisse aperta una indagine per capire. Era preoccupato per il nome di Ardita, una persona che conosceva molto bene e aveva frequentato”. 

“Quando mi parlò della presunta loggia Ungheria mi fece vedere qualche rigo dove si faceva un elenco dei nomi, i verbali li ho visti cartacei dalle mani di Davigo”, ha aggiunto Befera. […] 

Befera ha messo nei guai anche Marcella Contrafatto, all’epoca segretaria di Davigo, ora indagata per calunnia a Roma con l’accusa di aver inviato copia dei verbali secretati ad alcuni giornalisti e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. “Marcella Contrafatto mi disse ‘ho questa pazza idea’, ossia di mandare i verbali ai giornali per ristabilire un ordine, nella sua ottica, dopo il voto contrario sulla permanenza di Davigo al Csm”, ha riferito Befera.

Il riferimento è alla delibera con cui il Csm aveva decretato la decadenza dell’ex pm di Mani pulite dalla carica di togato a Palazzo dei Marescialli, per raggiunti limiti di età. Contrafatto giunse a chiedere a Befera l’e-mail di Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano. “Io le dissi che Davigo non ne sarebbe stato assolutamente felice, mi sono dissociata”, ha aggiunto Befera nella sua testimonianza in aula a Brescia, aggiungendo che Davigo era all’oscuro di quanto sarebbe stato fatto dall’ex segretaria.

 Nell’udienza di ieri è stata sentita come testimone anche Ilaria Pepe, componente togata del Csm. Pepe ha confermato di essere stata informata da Davigo agli inizi di maggio 2020 sull’esistenza dell’indagine sulla presunta loggia Ungheria: “Davigo mi parlò nel cortile del Csm di dichiarazioni rese da Amara alla procura di Milano. Mi disse che era estremamente preoccupato perché nelle dichiarazioni Amara indicava due componenti del Consiglio, Ardita e Mancinetti, come vicini, affiliati o coinvolti in una loggia”. 

Pepe ha anche confermato di aver “fisicamente visto” i verbali di Amara, ma di non averli letti, poiché Davigo aveva detto che avrebbe informato della vicenda il vicepresidente del Csm e il procuratore generale della Cassazione. […]

Davigo, come sempre presente all’udienza, non si è trattenuto anche questa volta dal rilasciare alcune dichiarazioni spontanee per chiarire le dinamiche del suo rapporto con Ardita: “I nostri rapporti personali sono finiti perché io non mi fidavo più di lui e non gli ho rivolto più la parola. Pensavo mi nascondesse qualcosa”, ha detto Davigo, precisando che i contrasti con Ardita sono cominciati ben prima di aver saputo della vicenda Ungheria, e più precisamente ai tempi dello scandalo dell’hotel Champagne. “Questa non è una causa di separazione e divorzio”, aveva ironizzato in precedenza (inutilmente) il giudice Spanò.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2022.

Accusato nel luglio 2019 dall'indagato ex avvocato Eni Piero Amara d'aver cercato con il numero uno Eni Claudio Descalzi di depistare il processo Eni-Nigeria, «le prove nei confronti» del capo della Sicurezza Eni, Alfio Rapisarda, «non hanno trovato riscontro, e questo è sicuramente sufficiente per escluderne ogni responsabilità, ma di per sé non configura a carico di Amara il reato di calunnia», giacché «non vi è prova che i fatti riferiti da Amara siano falsi né che abbia agito con il dolo di calunniarlo»: può finire così, pari e patta?

Sì per l'aggiunto della Procura della Repubblica milanese Laura Pedio con i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, la cui richiesta il 26 aprile di archiviare Amara era in agenda oggi davanti al gip Magelli. No, invece, per la Procura Generale guidata da Francesca Nanni: che, come di rado accade, l'ha avocata (cioè tolta) ai pm, assegnandola alla pg Celestina Gravina affinché ne rivaluti la fondatezza nel merito (come insisteva il legale di Rapisarda, Paolo Tosoni) e la competenza (Brescia).

Antonio Di Pietro, detto zanzone, il suo mantra: «Capisci a ’mme». Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 9 ottobre 2022.

Al nostro primo incontro, me ne torno al giornale con un piede rotto. Niente violenze «messicane», per carità: solo la mia ansia da cronista ragazzino, buio e nebbia milanese. Sì, c’è ancora la nebbia a Milano quella sera di dicembre 1987 e alla caserma della Celere di via Cagni, tra Niguarda e Bicocca, ovatta gli spigoli e avvolge i lampeggianti dei cellulari che scaricano 102 arrestati pronti per essere torchiati: medici e notai, funzionari comunali, faccendieri e ispettori della motorizzazione, tutti catturati nell’inchiesta sulle patenti facili. In quella bolgia dantesca si sente il vocione di un Caronte molisano che dirige le operazioni, «qua, qua, portatemeli qua!»: è lui, Antonio Di Pietro, detto Tonino, il giovane pubblico ministero maniaco di informatica che ha fiutato tanfo di bruciato negli esami di guida passati da tanti con troppa disinvoltura e, fascicolo dopo fascicolo, è risalito allo gnommero, il groviglio di quella micro-corruzione meneghina. Lo condisce con sapienza manco avesse acchiappato la Piovra, a uso e consumo dei giovani cronisti di nera «informalmente» avvisati della retata dalla Polizia: «Capisci a ‘mme, dottorino» (ci chiama tutti dottori e dottorini, un po’ per celia e un po’ per celare la distanza con noi, ragazzini-bene dagli studi comodi che a lui, ex ragazzo sfuggito ai campi di Montenero di Bisaccia, sono costati migrazione, doppi lavori e notti insonni).

Il metodo

Saltabecca da un arrestato all’altro, perciò li ha voluti tutti assieme come un gregge, li coglie in contraddizione, sbraita, verbalizza, ammicca, tratta: è un ante litteram di sé stesso. Sto assistendo alla nascita di un metodo ma ancora non lo so. Comprendo bene, invece, che devo correre ad avvisare il giornale e quindi trovare un telefono a gettoni (al tempo non esistono i cellulari!). Trovo invece un buco nel marciapiede, mi ci infilo come un tonno, il resto è gesso. All’incontro successivo, quattro anni dopo, sono già a Palazzo di giustizia, corso di Porta Vittoria, secondo di giudiziaria del Corriere. Lui, Tonino, è nella sua stanza, la 254, che diventerà mitico crocevia di sommersi e salvati ma per ora è solo un parametro antropologico, misura la distanza col procuratore Borrelli, il cui ufficio sta dall’altro capo dello sterminato corridoio ad angolo: in mezzo, decine di sostituti impregnati di «cultura della giurisdizione» che guardano Tonino, ex commissario di Ps, come un entomologo guarda uno scarafaggio (pure reazionario: «Qui non si sciopera», affigge infatti lui sulla porta, in occasione di una protesta dell’Anm, guadagnandosi l’amore di Cossiga).

Mani pulite

In realtà lo scarafaggio è uno scarabeo d’oro. Quando gli arriva l’occasione della vita, l’arresto del boiardo craxiano Mario Chiesa con le mani dentro sette milioni (di lire) di mazzetta, Di Pietro ha alle spalle così tanta esperienza di mondi e sottomondi e così tanta fortuna da trasformarla nella rivoluzione giudiziaria a lungo inseguita e sempre mancata dai suoi più dotti colleghi. Gherardo Colombo, per dire, aveva acchiappato due volte il drago per la coda, con la P2 e i fondi neri dell’Iri, ma era stato fermato. Francesco Greco s’era visto sfilare dalle mani Antonio Natali, il papà politico di Craxi, imbuto di tangenti milanesi. Persino la caduta del Muro di Berlino congiura invece nell’aiutare il nostro ex sbirro, stavolta (gli italiani non hanno più paura di cambiare sistema: e il sistema crolla). Lui, temendo che l’inchiesta gli si possa comunque chiudere addosso, nei primi mesi tiene un filo teso con noi cronisti (siamo le seconde linee, perché nessuno pensa che Chiesa parli davvero e che l’indagine vada lontano: poi, quando Chiesa parlerà, le fonti saranno tutte nostre e nessuno potrà più rimpiazzarci). «Capisci a ‘mme, dottorino», ammicca con ognuno (birra e salsicce, direbbe Totò), sempre con l’aria di fare a ciascuno un favore «in esclusiva», gettandogli qualche brandello di notizia inoffensivo per l’indagine ma prezioso per tenere desta l’opinione pubblica. Una sera, alla rassegna stampa di mezzanotte in tv, vedo che la concorrenza ha uno scoop, un nuovo conto svizzero scoperto a Chiesa: mi appare un «buco» terribile, mi immagino un sacrosanto cazziatone dal mio capocronista. Nonostante l’ora, chiamo Tonino a casa, urlando, fuori di me. Lui, mezzo addormentato, anziché farmi arrestare (avrebbe dovuto...), farfuglia scuse, giura che la notizia è falsa. Naturalmente la notizia è verissima ma a Di Pietro serve tenerci tutti buoni, persino me, tutti sotto la sua ala, in quel primo periodo in cui il sistema può ancora serrarsi a riccio e stritolarlo. Di solito ci riceve nella stanza 254 verso le sette di sera, introdotti da un ex poliziotto che un po’ gli somiglia, Rocco Stragapede, passo strascinato e sussiego da gran ciambellano. Tutti quelli della sua squadretta un po’ gli somigliano. Faticano come muli ma comunicano sempre un’idea di trattativa, una specie di patteggiamento a prescindere. Lui ci aspetta come in un B-movie americano, coi piedi sulla scrivania. Si tira su i calzoni e si gratta le caviglie con voluttà, «capisci a ‘mme, dottorino». Paolo Colonnello, il collega del Giorno che ha con lui più confidenza, lo chiama «zanzone», imbroglione, in milanese. Tonino se ne compiace, gli/ci regala una risatona tonitruante, fuori in strada sta venendo giù la Prima Repubblica.

Le fiaccolate

La gente ha fiaccole in mano, cartelli, «Di Pietro, liberaci dal male», in un Paese sempre malato di bipolarismo etico (oggi tutti forcaioli, domani tutti evasori e via col pendolo). Quando comincio a pubblicare fuori dal suo circuito, non lo sopporta. Mi dedica una scomunica in dipietrese: «Fuggitore di notizie!».Pensiamo di sfotterlo, ruvido com’è: ma è lui che prende in giro tutti noi. Anche questa sua neolingua, che ne enfatizza il deficit scolastico, è un trucco geniale, buono per incantare gli italiani appiccicati alla diretta tv del processo Cusani, il vero dibattimento spettacolo di Mani pulite: ecchéc’azzecca? La sua è la scommessa di un gambler, la magia di un illusionista. I giocatori d’azzardo non amano chi va a vedere il bluff, i prestigiatori amano ancor meno chi ficca il naso nella valigia dei trucchi. Così, per non litigare con lui, tocca credergli (ricordando sempre che è uscito immacolato dai numerosi processi subiti a causa delle vendicative denunce di molti suoi imputati). Tocca credergli e basta. Quando dichiara ai giudici di Brescia di non essersi sentito ricattato dal ministro Previti col preannuncio di un’ispezione ad personam, così spingendolo a mollare toga e colleghi prima di torchiare Berlusconi. Quando per spirito di servizio, certo, si fa eleggere senatore coi voti di un partito da lui inquisito appena tre anni prima. Quando fonda poi la sua Italia dei Valori per rilanciare la questione morale in politica e infatti seleziona Razzi, Scilipoti e De Gregorio. Tocca credergli. E io gli credo. Capisci a ‘mme, Toni’.

Potenza, il gup boccia Amara: «L’ex avvocato non è affidabile». No al patteggiamento a 3 mesi. La difesa insiste: ha fatto scoprire le trame di Capristo. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Settembre 2022.

L’avvocato siciliano Piero Amara avrebbe continuato a delinquere anche dopo il 2018, e - soprattutto - non avrebbe prestato una collaborazione sufficiente a meritare un patteggiamento a tre mesi. Cioè quello concordato con la Procura di Potenza nell’ambito dell’inchiesta che coinvolge anche l’ex procuratore di Taranto, Carlo Capristo. La circostanza è emersa nell’ambito dell’udienza preliminare davanti al gup lucano Annachiara Di Paolo, che deve decidere se rinviare a giudizio l’ex procuratore insieme all’ex commissario Ilva, Enrico Laghi, all’ex poliziotto Filippo Paradiso, all’avvocato Giacomo Ragno e all’ex pm Antonio Savasta.

La proposta di patteggiamento è infatti stata respinta già a giugno, sulla base di due elementi. Intanto per il fatto che Amara risulta condannato per una bancarotta commessa nell’aprile 2018, cioè due mesi dopo l’arresto (anche se relativa a fatti di molti anni prima). E poi, appunto, l’impossibilità di valutarne il contributo alle indagini di Potenza. Il difensore dell’avvocato siciliano, Salvino Mondello, ha però annunciato che riproporrà la richiesta di patteggiamento nella prossima udienza (17 ottobre): con una memoria sostiene, in estrema sintesi, che Amara sia stato determinante per mettere a fuoco le accuse ora mosse a Capristo e agli altri coindagati.

La Procura di Potenza ritiene che l’ex procuratore di Trani e Taranto (che per questa vicenda l’8 giugno 2021 fu sottoposto ad obbligo di dimora) avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» ad Amara, a Laghi e al consulente Nicola Nicoletti (che ha patteggiato 16 mesi) in cambio «del costante interessamento» per la sua carriera e «per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale», l’avvocato Ragno. Amara ritiene di aver consentito alla Procura di Potenza di comprendere bene il ruolo di Capristo nello scambio di favori contestato dall’accusa: «Non era certamente Taranto la sede cui originariamente aspirava il dott. Capristo», scrive la difesa di Amara, riferendosi alla candidatura per la Procura generale di Bari in cui fu battuto al filo di lana nella votazione al Csm. Amara si intesta anche il merito di aver «ben evidenziato il ruolo che aveva avuto nella vicenda de qua il prof. Laghi, sia nella fase iniziale del conferimento dell’incarico all’avv. Amara sia in relazione alle nomine pervenute all’avv. Ragno da parte della struttura commissariale» dell’Ilva, oltre che di aver tirato in ballo l’ex pm Savasta («sconosciuto nella fase dell’indagine preliminare»), che ora risponde di rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al falso esposto contro i vertici Eni che Amara fece pervenire a Capristo mentre era ancora procuratore di Trani.

Ma è ancora più interessante quello che Amara scrive per accreditare la sua credibilità giudiziaria nei processi in cui ha già patteggiato e nelle inchieste che ancora lo coinvolgono tra Roma, Milano e Perugia. A partire proprio dalla vicenda della loggia segreta Ungheria di cui si parla nei verbali di interrogatorio della Procura di Milano: «All’esito delle indagini - scrive la difesa - non è stato affatto affermato che la vicenda Ungheria sia stata una invenzione dell’avv. Amara, ma semplicemente che “l’esistenza dell’associazione non è stata adeguatamente riscontrata”». E questo mancato riscontro «non può essere addebitato ad imprecisioni dell’avv. Amara, ma soprattutto al comportamento quantomeno anomalo del dottor Paolo Storari», il pm di Milano titolare del fascicolo, accusato (e poi assolto) per aver consegnato quei verbali all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo.

Nell’indagine di Potenza, Amara risponde di concorso in corruzione in atti giudiziari tra il 2015 e il 23 luglio 2019, con Capristo (nel frattempo andato in pensione) che avrebbe sfruttato i rapporti di Amara e Paradiso per ottenere raccomandazioni al Csm «in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti». La Procura aveva accordato al legale siciliano una pena di tre mesi in continuazione con la condanna riportata a Messina (un anno e due mesi), a sua volta in continuazione con la condanna di Roma (6 mesi).

La testimonianza a Perugia. Amara sulla faida in procura: “Una misteriosa tenentina mi disse…”. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Ottobre 2022 

Tutto abbondantemente secondo le previsioni della vigilia. Chi si aspettava qualche colpo di scena sarà rimasto sicuramente deluso. Stiamo parlando della attesissima testimonianza di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni e ‘gola profonda’ di almeno 6 procure della Repubblica, ieri presso il tribunale di Perugia nel processo nei confronti di Luca Palamara e Stefano Rocco Fava. I due magistrati, all’epoca alla procura di Roma, secondo l’accusa avrebbero posto in essere nel 2019 una campagna a mezzo stampa per screditare sia l’aggiunto Paolo Ielo che il procuratore Giuseppe Pignatone.

Palamara, rientrato a piazzale Clodio dopo aver terminato a settembre del 2018 l’incarico di consigliere del Csm, avrebbe in sostanza ‘istigato’ Fava a presentare un esposto proprio a Palazzo dei Marescialli nel quale venivano evidenziate alcune mancate astensioni del procuratore e dell’aggiunto in diversi procedimenti penali. Lo scopo ultimo dell’esposto sarebbe stato, sempre secondo l’accusa, quello di consumare una “vendetta” nei loro confronti. Ielo, in particolare, doveva essere danneggiato in quanto aveva trasmesso alla procura di Perugia il fascicolo con i rapporti che Palamara aveva avuto con il faccendiere Fabrizio Centofanti e che gli avevano provocato l’accusa di corruzione, impedendogli di fatto di poter aspirare ad uno dei posti disponibili di procuratore aggiunto a Roma.

Nella sua testimonianza durata l’intera giornata, Amara ha confermato quanto già dichiarato in precedenti occasioni sul ‘potere’ di Palamara al Csm in materia di nomine. A sentire Amara ci sarebbe stata una fila di non meglio precisati magistrati che gli chiedevano di intercedere per un incarico. E Centofanti, in particolare, avrebbe fatto da tramite con Palamara. Sul clima di tensione in Procura a Roma, e quindi sui rapporti tesi fra Palamara e Fava da un lato e Ielo e Pignatone dall’altro, è spuntata poi una tenente della guardia di finanza, allo stato non identificata, che avrebbe riferito ad Amara di tali propositi vendicativi. Ad ascoltare la testimonianza di Amara era presente Ielo che si è costituito parte civile contro Fava.

Anche Amara, che si è avvalso della facoltà di non rispondere a tutte le domande che riguardavano la loggia Ungheria essendo indagato in procedimento connesso, aveva chiesto, ricevendo un diniego, di costituirsi parte civile. L’avvocato aveva quantificato in 500mila euro la somma a titolo di risarcimento per l’ingente “danno morale che ha causato sofferenza interiore” provocato dal comportamento di Fava e Palamara. Sia Fava che Palamara hanno sempre negato di aver posto in essere alcuna campagna diffamatoria che poi sarebbe consistita in un paio di articoli pubblicati il 29 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano e La Verità.

Rispetto a Palamara, Fava è anche accusato di essersi abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap della procura di Roma per acquisire atti riservati. Una condotta che secondo i pm umbri sarebbe avvenuta “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”. Tutto secondo le norme, invece per il magistrato, ora giudice a Latina, che si era solo premurato di verificare le circostanze conosciute nell’esercizio delle sue funzioni, “per potere presentare una denuncia e sottoporre alla valutazione degli organi competenti fatti veri e documentati, nel convincimento della loro possibile rilevanza penale e della doverosità di un loro approfondimento nelle giuste sedi”.

Fava ha più volte sottolineato di non essere stato istigato da Palamara e di aver voluto solo segnalare agli organi competenti, Csm in primis, “nel rispetto della legge”, quanto era accaduto, ad iniziare dalla revoca da parte di Pignatone delle indagini che stava conducendo contro lo stesso Amara. Nei mesi scorsi erano stati anche interrogati i cronisti del Fatto Quotidiano e della Verità, autori degli articoli, i quali avevano negato di aver ricevuto informazioni da Fava sull’esistenza dell’esposto. L’iniziativa per la pubblicazione degli articoli era stata presa da entrambi in piena autonomia, senza pressioni da parte di Fava e Palamara, trattandosi di fatti noti al palazzo di giustizia di Roma.

 La rivelazione nel processo Palamara e Fava. La Guardia di Finanza passava le carte ad Amara: così l’avvocato preparava le contromosse. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Giugno 2022. 

L’avvocato Piero Amara, uno dei capi della loggia Ungheria, ha ricevuto per anni in anteprima le informative della guardia di finanza che lo riguardavano.

La clamorosa circostanza è emersa giovedì scorso nel processo in corso a Perugia a carico di Luca Palamara e Stefano Fava per la presunta rivelazione di segreto in due articoli del 29 maggio 2019, pubblicati dalla Verità e dal Fatto Quotidiano, sulla presentazione di un esposto al Csm nei confronti dell’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.

Rispondendo alle domande dei difensori degli imputati, il maggiore Fabio Di Bella del Gico della guardia di finanza di Roma, braccio destro del colonnello Gerardo Mastrodomenico, uomo di fiducia di Pignatone, ha ammesso che le informative del Gico, redatte da egli stesso e dai suoi sottoposti, prima ancora che in procura venivano consegnate ad Amara che era l’indagato principale del procedimento le cui indagini gli erano state delegate. Di Bella, comandante della seconda sezione di Gico di Roma, ha dichiarato senza tanti giri di parole che all’avvocato Amara qualcuno o più militari del Gico di Roma hanno consegnato numerose informative “prima che venissero depositate all’autorità giudiziaria”. Il postino sarebbe stato il carabiniere Antonio Loreto Sarcina, in forza ai Servizi, il quale, per tale servizio, avrebbe ricevuto da Amara delle somme di denaro.

E alla domanda su quali fossero le informative consegnate ad Amara, Di Bella ha dovuto ammettere che venne consegnata anche quella conclusiva del Gico del 15 settembre 2017, di oltre 800 pagine, che comprendeva tutti gli elementi a carico raccolti nei confronti dell’avvocato siracusano che quindi ha avuto tempi e modi per predisporre le più adeguate ‘contromisure’. Fra le ‘anteprime’ date ad Amara dal Gico, le perquisizioni che dovevano essere eseguite nei suoi confronti. Gli avvocati di Palamara e Fava, per non farsi mancare nulla, hanno poi acquisito, in un altro procedimento, la contestazione che gli stessi pubblici ministeri di Perugia, Gemma Miliani e Mario Formisano titolari del procedimento per la rivelazione del segreto, avevano formulato a carico di Sarcina dove si poteva leggere che il Gico di Roma aveva fornito ad “Amara e Calafiore”, sempre per il tramite di Sarcina, oltre che l’informativa di oltre 800 pagine del 15 settembre 2017, anche “la notizia dell’imminente esecuzione di perquisizioni personali e domiciliari nei confronti di Amara e Calafiore”.

Gli avvocati dei due imputati, visto che nessuno ci aveva pensato prima, hanno quindi chiesto a Di Bella di riferire i nomi dei militari del Gico che avevano fornito ad Amara e Calafiore, per il tramite del Sarcina, questi atti e queste notizie. Il maggiore Di Bella, sorridendo, ha dichiarato di avere accertato, dal settembre 2017 al 9 giugno 2022, responsabilità soltanto a carico di Sarcina. Resta quindi da capire per quali ragioni, a tutt’oggi, le indagini su Amara continuino ad essere delegate, sia dalla Procura di Roma che dalla Procura di Perugia, al Gico che si occupa dell’avvocato siciliano ininterrottamente dal settembre 2016 senza accorgersi che, nel frattempo, aveva continuato a delinquere tanto da essere arrestato dalla Procura di Potenza per corruzioni in atti giudiziari ed indagato dalla Procura di Milano, che ha emesso avviso di conclusioni delle indagini preliminari, anche per associazione per delinquere finalizzata alla calunnia e al depistaggio “commesso dall’estate del 2015 al dicembre 2019”.

In tale scenario, è indubbio che le indagini fatte dalla Procura di Perugia e dalla Procura di Roma tramite il Gico del maggiore Di Bella consentano ad Amara di dormire sonni tranquilli. Chissà se il Csm si deciderà prima o poi a fare luce su questa vicenda.

(ANSA il 10 Giugno 2022) - La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano e responsabile del pool affari internazionali, Fabio De Pasquale, e del pm Sergio Spadaro (oggi alla nuova Procura europea antifrodi) per 'rifiuto d'atto d'ufficio' per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, concluso il 17 marzo 2021 con assoluzioni 'perché il fatto non sussiste'. A darne notizia è oggi il Corriere della Sera.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022. 

La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano e responsabile del pool affari internazionali, Fabio De Pasquale, e del pm Sergio Spadaro (oggi alla nuova Procura europea antifrodi) per «rifiuto d’atto d’ufficio» nel non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, concluso il 17 marzo 2021 con assoluzioni «perché il fatto non sussiste» (l’Appello il 19 luglio).

I fatti contestati

L’accusa è cioè aver lasciato le parti ignare di talune prove che, trovate dal pm Paolo Storari e segnalate quantomeno dal 15 e 19 febbraio 2021 in mail all’allora procuratore Francesco Greco e all’altra sua vice Laura Pedio, potevano riverberarsi sulla traballante attendibilità dell’accusatore di Eni: il coimputato/dichiarante Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni allora molto valorizzato sia dai due pm titolari del processo Eni-Nigeria, sia (al pari dell’ex legale esterno Eni Piero Amara) da Pedio che all’epoca indagava per depistaggi giudiziari l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata.

Le omissioni

L’ufficio bresciano del procuratore Francesco Prete contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le vere chat del telefono di Armanna dalle quali emergeva un suo rapporto patrimoniale di 50.000 dollari con il teste che doveva confermarne le accuse a Eni, il supposto 007 nigeriano «Victor»: chat che Armanna aveva portato ai giudici ma amputatandole (come segnalato allora da Storari e ora confermato da una perizia) di altri messaggi che invece avrebbero mostrato il nesso tra la disponibilità del teste a deporre e i 50.000 dollari, o come esplicita corruzione giudiziaria o come acquisto di un imprecisato documento in Nigeria.

Taciuti anche i messaggi dai quali Storari aveva fatto emergere che un altro teste, l’uomo d’affari nigeriano Mattew Tonlagha, fosse stato indottrinato sempre da Armanna sulle risposte da dare (contro l’Eni) alla pm Pedio. 

Un terzo filone riguarda gli screenshot delle asserite chat che Armanna (mostrandole nel novembre 2020 in una intervista a un quotidiano, per introdurle di sponda nel circuito giudiziario) sosteneva di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata a riprova del loro ruolo di depistatori: qui Brescia contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le (persino banali) indagini dalle quali Storari aveva compreso che quelle chat erano un clamoroso falso (come ora confermato da una perizia), in quanto i numeri ascritti da Armanna ai due vertici Eni nemmeno erano attivi nel 2013, risultando utenze che non potevano produrre traffico.

Il mancato deposito della videoregistrazione

Infine è imputato ai due pm il mancato deposito (già censurato come «incomprensibile» dalla sentenza Eni-Nigeria) della videoregistrazione, effettuata clandestinamente nell’ufficio dell’imprenditore Ezio Bigotti, di un incontro con Amara nel quale Armanna, due giorni prima, nel 2014, di presentarsi in Procura con le prime accuse ai vertici Eni, preannunciava di volerli fare coprire da «una valanga di merda».

La scelta di far rientrare queste condotte dei pm nel contenitore penale del reato di «rifiuto d’atto d’ufficio» è sdrucciolevole perché apre inediti scenari nei rapporti, interni nelle Procure, tra titolari di un processo e altri pm. Forse per questo la richiesta bresciana di processare i due pm rimarca la differenza del loro comportamento: a inizio 2021 non depositarono queste prove potenzialmente favorevoli alle difese, mentre invece nei mesi precedenti, per argomentare manovre su Armanna ordìte dal mondo Eni, avevano invece proclamato di voler assicurare alle difese una «simmetria» e perciò riversato da altri fascicoli verbali di testi, chiamandoli in aula a deporre (come Salvatore Carollo) o chiedendo al Tribunale di convocarli in extremis (come Amara).

Procura di Brescia: “Processate i pm De Pasquale e Spadaro”: prove a favore delle difese nel processo Eni-Nigeria mai depositate. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2022. 

L'accusa è di non aver depositato nel 2021 prove che avrebbero minato la credibilità dei testimoni contro Eni nel processo per corruzione internazionale che si concluso il 17 marzo 2021 con l'assoluzione "perchè il fatto non sussiste" di tutti gli imputati

La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e del pm Sergio Spadaro oggi in forza alla nuova Procura europea antifrodi, accusati di “rifiuto d’atto d’ufficio” per non aver voluto depositare nel 2021 delle prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, conclusosi il 17 marzo 2021 con assoluzioni “perché il fatto non sussiste” per il quale il giudizio di appello si terrà il prossimo 19 luglio. 

L’ufficio della procura bresciana guidato del procuratore capo Francesco Prete contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le vere chat del telefono di Armanna dalle quali veniva alla luce un suo rapporto patrimoniale di 50.000 dollari con il teste che doveva confermarne le accuse a Eni, il supposto 007 nigeriano «Victor», Una chat che Armanna aveva consegnato ai giudici ma cancellandone altri messaggi, come venne da segnalato da Storari e confermato da una perizia, conversazione che avrebbero evidenziato e confermato il collegamento tra la disponibilità del teste a deporre e i 50.000 dollari, o come esplicita corruzione giudiziaria o come acquisto di un imprecisato documento in Nigeria. 

Occultati anche i messaggi dai quali il pm Storari aveva fatto emergere, che l’uomo d’affari nigeriano Mattew Tonlagha, altro teste , fosse stato istruito sempre da Armanna sulle risposte contro l’Eni da rendere alla pm Laura Pedio. Un terzo filone riguarda gli screenshot delle asserite chat del 2013 con Descalzi e Granata a riprova del loro ruolo di depistatori, che Armanna aveva mostrato in una intervista a un quotidiano nel novembre 2020, per farle entrare indirettamente nel faldone giudiziario. In questo caso la procura di Brescia contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le indagini dalle quali Storari aveva intuito e dedotto che le chat erano un clamoroso “falso” come è stato in seguito confermato da una perizia, in quanto peraltro i numeri telefonici ascritti da Armanna ai due vertici dell’ Eni non erano neanche attivi nel 2013 , utenze che sono risultate disattive e che non potevano produrre traffico.

I fatti contestati a De Pasquale e Spadaro

L’accusa è di aver lasciato le parti della difesa ignare di alcune prove che scovate dal pm Paolo Storari e segnalate quantomeno dal 15 e 19 febbraio 2021 in mail all’allora procuratore Francesco Greco e all’altra sua vice Laura Pedio, potevano “pesare” sulla traballante sempre meno credibile attendibilità dell’accusatore di Eni, e cioè il coimputato e dichiarante Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni allora ritenuto molto attendibile al pari dell’ex legale esterno Eni Piero Amara, sia dai due pm titolari del processo Eni-Nigeria, che da Laura Pedio la quale indagava in quel periodo per depistaggi giudiziari l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata. 

Infine i due pm De Pasquale e Spadaro sono accusati del mancato deposito, già criticato e censurato come “incomprensibile” dalla sentenza Eni-Nigeria e della videoregistrazione effettuata clandestinamente di un incontro avvenuto nel 2014 con Amara nel quale Armanna, avvenuto due giorni prima nell’ufficio dell’imprenditore Ezio Bigotti, di presentarsi in Procura con le prime accuse ai vertici Eni, preannunciando di volerli fare coprire da “una valanga di merda”. La scelta di far rientrare queste condotte dei pm nel contenitore penale del reato di “rifiuto d’atto d’ufficio” è scivoloso perché accende dei fari su scenari inediti nei rapporti interni nelle Procure, tra titolari di un processo e altri pm.

Probabilmente è questa la differenza che ha indotto la procura bresciana a richiedere di processare i due pm rimarca la differenza del loro comportamento: a inizio 2021 De Pasquale e Spadaro non depositarono queste prove potenzialmente favorevoli alle difese, mentre invece nei mesi precedenti, per argomentare manovre su Armanna (provenienti da ambienti Eni), invece avevano proclamato di voler assicurare alle difese una “simmetria” e perciò riversato da altri fascicoli verbali di testi, chiamandoli in aula a deporre come il caso di Salvatore Carollo o chiedendo al Tribunale di convocarli in extremis come Piero Amara. Redazione CdG 1947

Prove nascoste sul caso Eni "Ora processate i due pm". Luca Fazzo l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

De Pasquale e Spadaro sono imputati a Brescia: per la procura hanno occultato i verbali di Amara.

Il dipartimento di punta della Procura di Milano è da ieri guidato da un magistrato formalmente imputato di nascondere le prove. È questa la sostanza della svolta - resa nota ieri dal Corriere della sera - dell'inchiesta a carico del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, suo braccio destro all'epoca dei processi Eni. La Procura di Brescia, competente a indagare sui reati commessi dai colleghi milanesi, aveva iscritto De Pasquale e Spadaro per il reato di rifiuto di atti d'ufficio, e in autunno aveva comunicato a entrambi la chiusura delle indagini preliminare. In novembre i due magistrati erano stati sentiti e su loro richiesta era stato concesso un supplemento di indagine, per verificare la fondatezza delle loro tesi difensive. Ma la verifica non ha dato i frutti sperati. E la procura bresciana si è convinta che davvero, nel corso del processo per corruzione internazionale ai vertici Eni, De Pasquale e Spadaro abbiano intenzionalmente tenute nascoste alle difese le prove, già acquisite al fascicolo, che il «superteste» Vincenzo Armanna inquinava l'inchiesta promettendo soldi ai testimoni e fabbricando false chat per incastrare i vertici del colosso di Stato. Un comportamento che la Procura bresciana, guidata da Francesco Prete, inquadra nel furore riversato dalla Procura milanese nel processo Eni, che andava vinto a tutti i costi; lo stesso furore che portò a imboscare i verbali dell'altro pentito, Piero Amara: «De Pasquale disse che andavano chiusi nel cassetto per due anni», ha dichiarato a verbale il pm milanese Paolo Storari, finito anche lui nel frattempo sotto processo.

Dopo decenni di buon vicinato, è la prima volta che la Procura di Brescia interpreta così energicamente il ruolo che la legge gli assegna di vigilanza sui reati eventualmente commessi nel palazzo di giustizia di Milano. Sotto processo sono già Storari e Piercamillo Davigo, ora rischiano di finirci De Pasquale e Spadaro, mentre l'ex capo Francesco Greco è sotto inchiesta per il caso del Monte dei Paschi di Siena. Il problema è che mentre Greco e Davigo sono ormai ex magistrati, De Pasquale è in funzione a tutti gli effetti, ed è a capo di uno dei settori più delicati di tutti, la corruzione internazionale. Con che serenità possa svolgere la sua funzione, vista la gravità delle accuse che gli pendono sulla testa, è facile da immaginare. D'altronde il Consiglio superiore della magistratura, che aveva avviato una procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale a carico di De Pasquale, ha congelato tutto per evitare accavallamenti con l'indagine in corso a Brescia. E anche il procedimento disciplinare avviato dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, è rimasto finora privo di effetti concreti.

Così, in attesa che venga vagliata la richiesta di rinvio a giudizio avanzata contro De Pasquale e Spadaro, la Procura di Milano, uno degli uffici giudiziari più delicati del paese, rimane in mezzo al guado dei veleni del caso Eni. Frastornati dal putiferio piombato sul loro ufficio, ottanta pubblici ministeri chiedono solo che si volti pagina e si torni a lavorare serenamente, con il nuovo capo Marcello Viola. Ma la strada a quanto parre sarà ancora lunga.

(ANSA l'8 luglio 2022) - La procura di Perugia ha chiesto di archiviare il procedimento sulla cosiddetta "loggia Ungheria", indagine partita dai verbali dell'ex legale esterno di Eni Piero Amara. La richiesta avanzata al gip è di 167 pagine ed è accompagnata dall'intero fascicolo, contenuto in quasi 15 faldoni di documenti. 

Il procedimento ha riguardato una presunta associazione segreta, denominata "Ungheria", che avrebbe agito in violazione della Legge Anselmi, norma che punisce le associazioni segrete che "svolgono attività diretta ad interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali".

(ANSA l'8 luglio 2022) - Il complesso delle indagini condotte dalla procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria "ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell'avvocato" Piero Amara. 

Che per l'Ufficio guidato da Raffaele Cantone "tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo, come da lui riferito". Lo si legge in un comunicato della stessa Procura.

«Loggia Ungheria, riscontri insufficienti»: chiesta l’archiviazione. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.  

Un’indagine svelata anzitempo e inquinata da «fughe di notizie» che hanno finito per danneggiarla in maniera irreparabile: anche per questo, dopo un anno e mezzo di scrupolosi accertamenti, la Procura di Perugia ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla cosiddetta Loggia Ungheria, presunto centro di potere occulto dedito a «interferenze su organi costituzionali, a partire dal Consiglio superiore della magistratura, e altri enti e istituzioni pubbliche», denunciato dall’avvocato siciliano Piero Amara ai pubblici ministeri di Milano sul finire del 2019. Una vicenda che ha generato il terremoto dei «verbali segreti» circolati dentro e fuori il Csm, per la quale è sotto processo a Brescia l’ex consigliere Piercamillo Davigo, ma che al momento deve chiudersi perché — spiega il procuratore del capoluogo umbro Raffaele Cantone nel provvedimento e nel comunicato che l’annuncia — «sull’esistenza di un’associazione segreta denominata Ungheria si è concluso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata».

Che non significa del tutto falsa, così come non lo sono le lunghe dichiarazioni rese da Amara agli inquirenti perugini che hanno ereditato il fascicolo dai colleghi milanesi per l’asserito coinvolgimento di alcuni magistrati romani. Le indagini hanno infatti evidenziato «le tante aporie e contraddizioni emerse», oltre a numerose smentite del racconto dell’avvocato, ma anche «le non poche conferme con riferimento ad alcuni specifici episodi». In particolare interventi su o per conto di magistrati, contatti con il sottobosco politico-affaristico romano e altro ancora. Di qui la convinzione dei pm: «Le complessive dichiarazioni dell’avvocato non devono considerarsi affette da quella inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante», ma è «necessario un livello di riscontri particolarmente elevato per ritenere accertati i fatti da lui narrati».

Tanto più in virtù dei nomi tirati in ballo come affiliati o affini alla Loggia: dall’ex procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra (morto nel 2017) all’ex vice-presidente del Csm Michele Vietti, dall’ex deputato forzista Denis Verdini al magistrato e deputato renziano Cosimo Ferri, il faccendiere Luigi Bisignani e molti altri: politici, imprenditori, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e degli apparati di sicurezza.

Attualmente il cinquantaduenne Piero Amara sta scontando in semilibertà (fuori dal carcere di giorno e dentro di notte) il cumulo di pene per corruzione accumulate con i patteggiamenti ottenuti davanti a diversi tribunali d’Italia. E resta da chiarire per quale motivo, quando aveva chiuso i suoi conti con la giustizia, abbia voluto avventurarsi in questa nuova partita giudiziaria che quasi certamente gli costerà nuovi processi per calunnia e altri reati: la Procura di Perugia infatti, insieme alla richiesta di archiviazione, ha deciso lo stralcio per proseguire le indagini su alcuni episodi, e la trasmissione alla Procura di Milano (dove furono resi i primi interrogatori) per eventuali calunnie o autocalunnie.

Il movente di Amara è tuttora un mistero. E i magistrati umbri sottolineano come «soprattutto nei più recenti interrogatori ha modificato alcune delle affermazioni iniziali, sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova “Loggia P2” dichiarando anzi che essa era nata con finalità nobili, e che non tutti gli adepti sarebbero stati a conoscenza delle interferenze effettuate dall’associazione su organi pubblici o costituzionali. Ha aggiunto persino che fin dal 2015 egli aveva tentato di creare un’altra organizzazione, di cui ha fornito anche alcuni elementi anche documentali, ma di cui non aveva mai riferito nei primi interrogatori milanesi».

Enigmi che solo Amara potrebbe spiegare, come quello dell’elenco degli affiliati, descritto ma mai consegnato dal socio dell’avvocato che l’avrebbe fotocopiato. Amara ha parlato di almeno 90 nomi ma il procuratore Cantone con i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano ne hanno iscritti solo 9 nel registro degli indagati, limitandosi alle persone da interrogare in cerca di riscontri, per evitare -— in assenza di altri elementi — un «inutile e ingiustificato “stigma”». Quanto alle «interferenze o tentativi di condizionamento di nomine di vertice della giurisdizione o di enti, istituzioni e società pubbliche che possono ritenersi avvenute», sarebbero dovute a «interessi personali o professionali diretti di Amara o soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una Loggia».

Ora spetterà al giudice dell’indagine preliminare, esaminati la richiesta di 167 pagine e i 15 faldoni di atti raccolti dai pm, decidere se mandare il fascicolo in archivio o ordinare nuovi accertamenti.

Processo Davigo: il vicepresidente del Csm Ermini interrogato. Renzi torna all’attacco: “Conferma quello che ho scritto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Luglio 2022.

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l' avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del "falso complotto Eni", ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici.

Dopo una settimana di silenzio, Matteo Renzi è tornato ad attaccare pesantemente la magistratura. E lo ha fatto attraverso la propria pagina Facebook. “Oggi il vicepresidente del Csm Ermini, interrogato come testimone nell’ambito del processo Davigo, conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro “Il Mostro”. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l’ha capito. Ancora poche settimane e il Csm di David Ermini sarà solo un brutto ricordo”. Parole che si riferiscono, in modo chiaro ed inequivocabile alla presunta “loggia Ungheria” e agli interrogatori dell’avvocato Pietro Amara. 

Renzi nelle pagine del suo libro “Il Mostro”, ha accusato senza mezzi termini Ermini di aver distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano, eliminando il corpo del reato”. Immediata la replica del vicepresidente del Csm, sostenendo che si trattava di una “affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria”. 

Una polemica quella fra Renzi ed Ermini datata metà maggio che torna di stretta attualità oggi, a distanza di quasi due mesi. Un’unica, granitica certezza è che questa sarà la battaglia più importante della carriera politica del leader di Italia Viva. Uno scontro dal quale uscirà o vincitore assoluto o sconfitto, senza prove di appello, destinato all’oblio e ricordato solo come un enfant prodige che non ce l’ha fatta. 

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l’ avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto Eni”, ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori “non firmati, inutilizzabili e inservibili”, il cui contenuto però era dirompente. Una “presunta loggia massonica coperta“, ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

Il vice presidente del Csm David Ermini e l’ex consigliere Davigo

“Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica” perché “della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia – ha spiegato Ermini – specialmente Polizia e Carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm“.  “Io risposi di sì – ha aggiunto Ermini – . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo“. Mattarella “non fece alcun commento“. Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari della procura di Milano . Il magistrato aveva voluto in questo modo “autotutelarsi” di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

“Ritenni quella di Davigo una confidenza”, ha ricordato Ermini, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. “In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali”, ha spiegato. Non solo. “La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno”, ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l’avvocato Amara avesse indicato i magistrati consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti come “affiliati” alla loggia coperta .

Ermini in tribunale a Brescia ascoltato come testimone

“In cuor mio pensavo che quelle carte” relative agli interrogatori in cui Amara parlava della loggia Ungheria “dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali”, ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm “non avrebbe potuto fare nulla”. “Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi”, ha precisato Ermini.

L`ex pm di Mani Pulite ora in pensione, aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini “la vicenda era finita“. “Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni”, dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm “una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare“, ha chiarito Ermini.

Piercamillo Davigo, Pietro Amara e Paolo Storari

“Io che me ne dovevo fare di questi verbali? – ha aggiunto –  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara“. Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  “Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura” del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  “Non si trattava di una vicenda isolata e anomala – ha chiarito Davigo –  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare“.

“Quando il pm Storari viene da me” per “autotutelarsi” di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini io ricevo una notizia di reato – ha proseguito Davigo -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c’erano i binari della legalità“.

Ermini ed il Pg della cassazione Salvi (a giorni pensionato)

“Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati “- ha concluso Davigo che ogni tanto svanisce la memoria come per incanto – “ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla”. Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Luca Palamara, ecco il suo partito: "Cancelleremo l'uso politico della giustizia". Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara scende in campo e fonda «Oltre il Sistema», una «proposta per l'Italia dove al tema centrale della giustizia verranno affiancati i temi dell'ambiente, del lavoro, della guerra, dell'economia, della scuola, dall'informazione, delle piccole e medie imprese, della sicurezza, della giustizia sociale». Un programma di governo in vista delle prossime elezioni politiche da condividere senza preclusioni partitiche. «Ho deciso di continuare la mia marcia per tit la verità e perla democrazia in questo Paese. E invito tutti coloro che condividono questo messaggio a metterci la faccia insieme a me e scendere in campo per far sì che la giustizia sia un tema dirimente è imprescindibile per le elezioni del 2023», afferma Palamara.

«Mi rivolgo - prosegue - a tutti, destra, sinistra, centro, astenuti, apolitici: voglio creare una piattaforma iniziale su cui innestare con forza un movimento riformatore nuovo». L'appuntamento per gli Stati Generali è per sabato 23 luglio a Roma all'hotel Baglioni. Il simbolo del movimento: la dea bendata della giustizia con l'Italia sullo sfondo ed il tricolore in basso. «Ho provato sulla mia pelle cosa significhi andare contro un "Sistema" che si regge da anni e determina l'inizio e la fine di un leader politico, la fine ad orologeria di governi eletti dal popolo: io credo che oggi dopo che si è squarciato il velo di ipocrisia che attanaglia da decenni la giustizia, sia giunto il momento di dare un taglio secco col passato e di cancellare per sempre il ricorso strumentale all'uso politico della giustizia», ricorda Palamara, secondo cui «la giustizia deve essere declinata in ogni sua forma a partire dalla giustizia sociale, alla giustizia economica, alla giustizia fra popoli, giustizia nei concorsi (sperando che non siano già coi posti assegnati)». Un compito certamente impegnativo, ma è l'unica strada per fare rinascere l'Italia e «riportarla ad essere fra le prime dieci potenze mondiali». 

Nuova indagine su Palamara, l’ex pm: «Usano Amara per salvare i processi contro di me». Il Dubbio il 10 luglio 2022.  

L'ex zar delle nomine indagato per istigazione alla corruzione nel caso dell'ex pm Musco, poi radiato dalla magistratura: è uno degli stralci dell'inchiesta sulla Loggia Ungheria

Nuova inchiesta su Luca Palamara, ex consigliere del Csm, indagato a Perugia per istigazione alla corruzione. L’indagine parte dalle dichiarazioni di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, “pentito” a credibilità alternata che aveva dichiarato l’esistenza di una loggia paramassonica la cui esistenza non è mai stata dimostrata. Ma alcune delle sue dichiarazioni, come chiarito dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, sono risultate parzialmente riscontrate, da qui lo stralcio di alcune posizioni per ulteriori indagini. Cantone, nella nota con la quale aveva annunciato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, aveva stigmatizzato la discovery senza precedenti che ha caratterizzato l’inchiesta, con i verbali finiti su tutti i giornali e la possibilità di vederci chiaro sfumata assieme alla segretezza degli atti. Ma ora le cose sembrano non essere molto diverse: quegli atti, teoricamente segreti, si trovano già sui giornali, a partire dall’indagine su Palamara.

Secondo quando riferito dal Corriere della Sera, Palamara avrebbe aiutato l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato di abuso d’ufficio, poi condannato e allontanato dalla magistratura. Il dato «inquietante» e nuovo, secondo i pm di Perugia, sarebbe stato l’avvicinamento, da parte di Palamara, del giudice di Cassazione Stefano Mogini, ma senza successo, grazie alla «schiena dritta» del magistrato.

Mogini avrebbe confermato la circostanza, raccontando dell’appuntamento fissato con l’allora consigliere del Csm alla vigilia del processo. Palamara gli disse che il processo meritava particolare attenzione e che uno dei principali imputati, Musco, era affetto da una grave malattia. «Io rimasi un po’ stupito di questo riferimento e genericamente gli dissi che eravamo abituati ad essere particolarmente scrupolosi sempre». Il processo fu poi rinviato e Palamara comunicò a Mogini di averlo saputo dal presidente della Corte di Cassazione. L’ex zar delle nomine, dunque, «monitorava» il processo, secondo i pm perugini.

Per chiedere l’interessamento di Palamara, secondo l’accusa, Amara aveva fatto organizzare al lobbista Fabrizio Centofanti una breve vacanza con mogli e fidanzate nello chalet al Sestriere dell’imprenditore piemontese Ezio Bigotti, a marzo 2015. Ma quando sull’aereo per Torino il magistrato si accorse della presenza di Amara, già noto per alcuni guai giudiziari, protestò con Centofanti che chiese all’avvocato di ritornare subito indietro. Tutto riscontrato, secondo la Procura, dai tabulati telefonici, biglietti aerei e voli.

Amara ha raccontato ai pm perugini che per l’interessamento all’affaire Musco «Palamara fece capire che avrebbe gradito un regalo di un orologio d’oro del valore di 30.000 euro per la sua compagna. E io gli dissi “se tu ti comporti male con Maurizio io ti scanno». Dopo questa frase i pm hanno dovuto aprire il nuovo fascicolo a carico di Palamara, che già tre anni fa, all’inizio dell’indagine sfociata nel processo in corso, fu accusato da un altro magistrato di aver intascato 40.000 euro per una nomina al Csm, ma poi la stessa Procura accertò che non era vero. Ma l’interessamento di Palamara al caso dell’ex magistrato siracusano sarebbe dimostrato anche da una email ricevuta dal segretario generale della Corte nel febbraio 2017 con tutti gli aggiornamenti sul «procedimento Musco». Per la Procura di Perugia Amara «è un soggetto abilissimo nell’arte manipolatoria e di conseguenza estremamente “pericoloso”, soprattutto quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri»; tuttavia gli «indiscutibili riscontri esterni» emersi, «dimostrano che non è affatto (quantomeno soltanto) un millantatore o

Dopo la pubblicazione della notizia, non si è fatta attendere la reazione di Palamara. «Con riferimento alle notizie apparse oggi sui quotidiani Repubblica e corriere della sera (che non mi hanno assolutamente fatto andare storta la colazione nella magnifica cittadina di Modica dove ieri sera ho avuto il piacere di presentare il mio libro) ho inviato una nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti Perugini – ha sottolineato -. Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate nel corso di un interrogatorio del 14 giugno 2022 proprio sulla vicenda Musco.

Perché durante quell’interrogatorio – nel quale mi vennero contestate le fantasmagoriche accuse dell’avvocato Amara “ti darò 30.000 euro e ti scanno se non lo fai” in relazione alle quali pur non registrando l’interrogatorio in tono amichevole dissi al procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio – la pubblica accusa non mi ha dato lettura delle dichiarazioni di Mogini? E perché invece le dichiarazioni di Mogini sono state riportate dai giornali di riferimento peraltro già denunciati a Firenze?».

Quanto al merito e al presunto interessamento alla vicenda Musco, «si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema».

Petrolo era stato incolpato nel 2013 di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio all’avvocato Galati, difensore in quel momento di esponenti di una famiglia di ‘ndrangheta del Vibonese – i Mancuso – nel corso di una conversazione avvenuta tra i due nell’agosto del 2011, alla presenza anche di un poliziotto. Notizie che riguardavano un’indagine della Dda di Roma su una presunta associazione a delinquere dedita al narcotraffico, con conseguenti misure cautelari.

Il provvedimento emesso dalla sezione disciplinare è stato più duro rispetto alle richieste avanzate dal sostituto procuratore generale Luigi Cuomo, il quale aveva invocato la perdita di due mesi d’anzianità, ritenendo provate le incolpazioni rispetto ai fatti illustrati in apertura di seduta dal giudice relatore Carmelo Celentano. A nulla sono valse quindi le argomentazioni difensive esposte dal magistrato Stefano Guaime Guizzi che nel corso della sua discussione aveva spiegato in fatto e in diritto che in realtà il collega Petrolo non avesse commesso alcun illecito disciplinare, relativamente alle accuse che in sede penale si erano concluse con una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, dopo l’annullamento con rinvio dell’assoluzione decisa dalla Cassazione nel 2020.

Il pm Paolo Petrolo dunque lascia la procura di Reggio Calabria, oltrepassando lo Stretto per iniziare una nuova carriera professionale. Scontato, infine, il ricorso in Cassazione, una volta che la sezione disciplinare, presieduta dal vicepresidente David Ermini, depositerà le motivazioni. (a. a.)

 Palamara di nuovo sotto inchiesta: «Intervenne per un pm sotto processo». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 9 luglio 2022.

Dall’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, che secondo la Procura di Perugia deve andare in archivio in assenza di adeguati riscontri, emerge una nuova inchiesta a carico di . L’ex magistrato, radiato dal’ordine giudiziario e già sotto processo per corruzione, è indagato per istigazione alla corruzione in un procedimento nato da dichiarazioni dell’avvocato siciliano Piero Amara (lo stesso che ha parlato dell’associazione segreta ora sconfessata dai pubblici ministeri) che gli inquirenti ritengono confermate — almeno in parte — in maniera significativa. Le affermazioni sul coinvolgimento di Palamara in questa vicenda, sostengono nella richiesta di archiviazione, sono tra «quelle più riscontrate e “solide”, dal punto di vista della attendibilità estrinseca e intrinseca, nel complessivo narrato del dichiarante»

«Dato inquietante»

L’ipotesi di accusa riguarda l’interessamento dell’allora componente del Consiglio superiore della magistratura per agevolare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato di abuso di ufficio, in seguito condannato e a sua volta spogliato della toga. Al di là del racconto di Amara e delle verifiche sui singoli indizi, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone e i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano scrivono che «il dato nuovo più rilevante (e purtroppo molto inquietante) è l’“avvicinamento” da parte di Palamara del giudice di cassazione Stefano Mogini, del quale Amara indica il nome il 3 novembre 2011 (quindi in un degli ultimi interrogatori, ndr), avvicinamento che, grazie alla schiena dritta del magistrato indicato, non portò alcun risultato positivo per Musco».

A confermare l’intrusione di Palamara è stato lo stesso Mogini, già capo di gabinetto dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, che ha raccontato di un appuntamento fissato con l’allora consigliere del Csm alla vigilia del processo Musco in Cassazione, che per improvvisi impegni lui chiese di rinviare. Ma Palamara si offrì di raggiungerlo in un bar vicino al suo ufficio. Parlarono «del più e del meno», e fu Mogini a dirgli che l’indomani aveva «un procedimento particolarmente delicato che vedeva imputati tre magistrati di Siracusa; Palamara mi disse che conosceva la vicenda e sapeva quanto era ingarbugliata. Mi aggiunse che il procedimento meritava grande attenzione e poi mi disse anche che uno dei magistrati coinvolti, Musco, era affetto da una grave malattia. Io rimasi un po’ stupito di questo riferimento e genericamente gli dissi che eravamo abituati ad essere particolarmente scrupolosi sempre».

Vacanza al Sestriere

Il processo fu rinviato, e in un successivo incontro Palamara disse a Mogini di averlo saputo dal presidente della Corte. Considerazione dei pm: «Palamara quindi ha monitorato l’evoluzione del processo parlando non solo con il relatore, ma interloquendo direttamente e personalmente persino con il presidente della Corte di cassazione!». Per chiedere l’interessamento dell’ex consigliere del Csm, Amara aveva fatto organizzare al lobbista Fabrizio Centofanti (coimputato di Palamara a Perugia) una breve vacanza con mogli e fidanzate nello chalet al Sestriere dell’imprenditore piemontese Ezio Bigotti, a marzo 2015. Ma quando sull’aereo per Torino il magistrato si accorse della presenza di Amara, già noto per alcuni guai giudiziari, protestò con Centofanti che chiese all’avvocato di ritornare subito indietro. Tutto riscontrato, secondo la Procura, dai tabulati telefonici, biglietti aerei e voli.

L’orologio d’oro

Amara ha raccontato anche di due incontri con l’ex magistrato per parlare di Musco, riferendo che «Palamara fece capire che avrebbe gradito un regalo di un orologio d’oro del valore di 30.000 euro per la sua compagna. E io gli dissi “se tu ti comporti male con Maurizio io ti scanno». Dopo questa frase i pm hanno dovuto aprire il nuovo fascicolo a carico di Palamara, che già tre anni fa, all’inizio dell’indagine sfociata nel processo in corso, fu accusato da un altro magistrato di aver intascato 40.000 euro per una nomina al Csm, ma poi la stessa Procura accertò che non era vero. Ora, al di là dell’orologio, l’interessamento di Palamara al processo in Cassazione che stava a cuore ad Amara sarebbe dimostrato anche da una e-mail ricevuta dal segretario generale della Corte nel febbraio 2017 con tutti gli aggiornamenti sul «procedimento Musco». Per la Procura di Perugia Amara «è un soggetto abilissimo nell’arte manipolatoria e di conseguenza estremamente “pericoloso”, soprattutto quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri»; tuttavia gli «indiscutibili riscontri esterni» emersi, «dimostrano che non è affatto (quantomeno soltanto) un millantatore o peggio ancora un semplice mitomane».

Il caso Amara non finisce più: nuove accuse su Palamara e indagine sulla fuga di notizie. Il Domani il 10 luglio 2022

Indiscrezioni su una nuova indagine nei confronti dell’ex membro del Consiglio superiore della magistratura. Che annuncia una «nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini». 

Archiviata a Perugia l’indagine sulla cosiddetta “Loggia Ungheria”, il caso che vede coinvolto l’ex pubblico ministero Luca Palamara e l’ Piero Amara è tutt’altro che finito. Da una parte infatti nella richiesta di archiviazione, secondo quanto ricostruito da Corriere e Repubblica, si fa riferimento a una nuova indagine in cui Palamara risulterebbe indagato per istigazione alla corruzione, mentre dall’altra la notizia di questa nuova indagine ha portato i pubblici ministeri di Perugia ad aprire un nuovo fascicolo sulla fuga di notizie.

Il fascicolo sulla fuga di notizie è stato aperto dalla procura di Perugia dopo la pubblicazione di alcuni contenuti della richiesta di archiviazione, inviata dai pubblici ministeri al giudice per le indagini preliminari, che non erano stati resi pubblici. 

IL CASO MUSCO

L'ipotesi di accusa nei confronti di Palamara riguarderebbe il presunto interessamento dell'allora componente del Consiglio superiore della magistratura per agevolare l’ex magistrato Maurizio Musco, amico di Amara e all'epoca accusato di abuso d'ufficio.

Palamara ha annunciato una «nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini».

«Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate». ha sottolineato oggi Palamara. Nel corso dell’interrogatorio del 14 giugno in cui gli furono contestate le accuse di Amara che Palamara definisce «fantasmagoriche», argomenta l’ex membro del Csm, «dissi al procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio».

Secondo Palamara il suo interessamento alla vicenda Musco sarebbe stata già smentita dalla documentazione già a disposizione della Procura di Perugia e le dichiarazioni di Amara, è la ricostruzione dell’ex pm, servirebbero a salvare procedimenti in corso, in questo caso proprio quelli contro l’ex magistrato.

La Procura di Perugia apre un fascicolo per fuga di notizie sulla Loggia Ungheria. In Puglia invece sono più distratti. E la stampa locale ringrazia…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Luglio 2022. 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita "cerchia" di magistrati della corrente sinistrorsa di "Area", fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano

La procura di Perugia ha aperto un fascicolo sulla fuga di notizie in relazione alla pubblicazione di alcuni contenuti della richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria, formulata dai pm e trasmessa al Gip. Il fascicolo è stato aperto ieri mattina dopo che il Fatto Quotidiano ha pubblicato alcuni passaggi della richiesta di archiviazione seguiti dalle notizie riportate poi dal Corriere della Sera e da La Repubblica. Stralci che non era contenuti nella nota stampa diffusa dalla procura con cui si dava notizia della richiesta di archiviare l’indagine. “ È un fatto gravissimo e la Procura di Perugia  – ha dichiarato  il procuratore capo Raffaele Cantone all’agenzia Adnkronos – è vittima di questa fuga di notizie“.

Nonostante i verbali degli interrogatori di Amara fossero stati “secretati” sono diventati di dominio pubblico, il procuratore Cantone nei giorni scorsi aveva già avuto modo di affermare : “Vi è stata una sostanziale e totale discovery anticipata della parte più significativa del materiale probatorio costituito dalle dichiarazioni dall’avvocato Piero Amara che stava riferendo della presunta associazione segreta, con la pubblicazione sui media integralmente di gran parte dei verbali di interrogatorio che avrebbero invece dovuto restare segreti”. 

“In particolare già nel novembre 2020 era emersa la certezza che i verbali di interrogatorio di Amara fossero nella disponibilità di soggetti estranei al processo tanto da essere trasmessi integralmente ad un giornalista, e tale propalazione è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con l’invio di una parte dei verbali di dichiarazioni ad altro giornalista e ad un consigliere Csm“, il togato Nino Di Matteo, “che ne aveva fatto anche pubblica menzione in un intervento al Plenum dell’organo di autogoverno”. “Nella primavera del 2021 per oltre un mese giornali, trasmissioni televisive si sono occupati della vicenda, pubblicando verbali ed altri documenti e facendo rendere dichiarazioni ed interviste ai soggetti ritenuti interessati all’indagine», si legge ancora nella nota – e (…) quanto avvenuto ha certamente inciso sulle attività investigative in corso, che avrebbero al contrario, in relazione alla tipologia di reato da accertare, richiesto massima riservatezza e segretezza. Basterebbe in questo senso rimarcare come più di un soggetto si è avvalso della legittima facoltà di non rispondere, proprio motivando la sua scelta in relazione al grave strepitus fori verificatosi“.

il vero intento della corrente di Area al CSM: pilotare, controllare, condizionare nomine 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita “cerchia” di magistrati della corrente sinistrorsa di “Area”, fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano. Guai a disturbare il “manovratore”: cane con cane non si morde. Sopratutto se porta la toga. 

Con una nota l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara, facendo riferimento alle notizie apparse oggi sui quotidiani La Repubblica e Corriere della Sera ha reso noto di aver inviato una nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini. “Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate nel corso di un interrogatorio del 14 giugno 2022 proprio sulla vicenda Musco.

Perché durante quell’interrogatorio – nel quale mi vennero contestate le fantasmagoriche accuse dell’avv.Amara “ ti darò 30.000 euro e ti scanno se non lo fai” in relazione alle quali pur non registrando l’interrogatorio in tono amichevole dissi al Procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio – la pubblica accusa non mi ha dato lettura delle dichiarazioni di Mogini? E perché invece le dichiarazioni di Mogini sono state riportate dai giornali di riferimento peraltro già denunciati a Firenze?“ 

“Quanto al merito e al mio asserito interessamento alla vicenda Musco – continua Palamara – si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della Procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avv. Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno“. Redazione CdG 1947

Talpa nella procura di Perugia: torna in azione la “manina”. Cantone apre un fascicolo per trovare il «traditore» che ha passato ai giornali le carte sulla nuova inchiesta a carico di Palamara. Simona Musco su Il Dubbio il 12 luglio 2022.

«La procura di Perugia è parte offesa», ha detto nel fine settimana il procuratore Raffaele Cantone nel commentare l’ennesima e non più sorprendente fuga di notizie su indagini che riguardano l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Un’affermazione che basterebbe da sola a certificare un fatto: a indagare sul fuggi fuggi di carte per l’ennesima opera di cecchinaggio ai danni di Palamara non può essere la procura del capoluogo umbro, bensì quella di Firenze, alla quale l’ex zar delle nomine si è subito rivolto per denunciare i fatti. Ovvero la pubblicazione, su Corriere della Sera e Repubblica, dell’indagine a carico dell’ex consigliere del Csm per istigazione alla corruzione, uno stralcio della ben più corposa richiesta di archiviazione avanzata da Cantone per quanto riguarda l’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, bollata come una bufala ad uso e consumo dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara. Un “pentito” la cui credibilità risulta ridotta al minimo, ma nonostante questo alcune delle sue dichiarazioni, parzialmente riscontrate, rimangono ancora in ballo per fare da ossatura ad un numero imprecisato di fascicoli che il procuratore di Perugia distribuirà ai colleghi per competenza territoriale. Tra queste, ci sono quelle relative al presunto tentativo di Palamara di salvare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato per abuso d’ufficio, poi condannato e allontanato dalla magistratura. Il dato «inquietante» e nuovo, secondo i pm di Perugia, sarebbe stato l’avvicinamento, da parte dell’ex zar delle nomine, del giudice di Cassazione Stefano Mogini, ma senza successo, grazie alla «schiena dritta» del magistrato. Notizie rese note nonostante si trattasse di atti coperti dal segreto, per i quali è vietato qualsiasi tipo di pubblicazione, anche solo del loro contenuto: l’atto è infatti segreto «fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza» e se ritenuto necessario dal pm anche dopo la sua conoscenza o conoscibilità.

«Non abbiamo mai avuto alcun interesse a che il contenuto della richiesta di archiviazione venisse pubblicato dai mezzi d’informazione. Faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita», ha assicurato Cantone. Ma chi ha passato la velina alla stampa sapeva dove andare a pescare. Così come nel 2019, quando le intercettazioni che fecero scoppiare il Palamaragate finirono sugli stessi due giornali oggi protagonisti del nuovo presunto complottone. Ad agire sarebbe stato un «traditore», ha sbottato Cantone, inviperito per una «vicenda di una gravità assoluta». Grave tanto quanto lo era stata la pubblicazione dei verbali di Amara sulla vicenda Ungheria, bollata dal procuratore di Perugia come «una situazione che probabilmente non ha precedenti per indagini giudiziarie quantomeno di così rilevante impatto», essendoci stata «una sostanziale e totale “discovery” anticipata della parte più significativa del materiale probatorio». Quello “sputtanamento”, di fatto, fece finire al macero l’inchiesta, depotenziando l’attività istruttoria. E in quell’occasione, proprio come sta accadendo ora nel caso della richiesta di archiviazione, fu la stessa procura che stava indagando sulla loggia, quella di Milano, a investigare sulla fuga di notizie, innescata involontariamente dal pm meneghino Paolo Storari, che consegnò i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Ma di chi è la manina che ha fatto finire sui giornali atti ancora segreti? Stando a quanto reso noto da Cantone, la richiesta di archiviazione non era in possesso né della procura di Milano né della procura generale della Cassazione. E nemmeno il Gico della Guardia di Finanza avrebbe avuto disponibilità degli atti al momento dell’ennesima discovery. Il fascicolo a modello 45, senza ipotesi di reato né indagati aperto inizialmente da Cantone, si è intanto trasformato in un’indagine per rivelazione di segreto. Il fascicolo incriminato, nei giorni precedenti al comunicato che annunciava la richiesta di archiviazione, passava di mano in mano nelle varie cancellerie. L’ipotesi più accreditata in procura, al momento, è che sia stato qualche investigatore a fare da tramite con i giornali, su mandato ignoto. Anche perché Cantone esclude categoricamente che a spifferare tutto ai giornalisti possano essere stati i due magistrati che lo affiancano nell’indagine, ovvero Gemma Miliani e Mario Formisani, gli stessi che rappresentano l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara. Ma la tesi che la spia possa essere un uomo in divisa non convince l’ex presidente dell’Anm.

«Per la mia esperienza, in questi casi i giornalisti hanno rapporti diretti con i magistrati – spiega al Dubbio -, quanto emerso dalle conversazioni captate con il trojan nel 2019 spiega bene come si mettono in movimento le manine. Come mai su 167 pagine si sono mossi solo quelle che mi riguardano?», si chiede l’ex pm, convinto che comunque si tratti di «accuse che si smontano da sole». A scoprirlo sarà forse la procura di Firenze, alla quale si è rivolto annunciando di voler «andare fino in fondo». La stessa procura dalla quale aspetta, però, risposte da circa due anni in merito alle denunce sulla vecchia fuga di notizie. Ma non solo: Palamara ha anche invocato un intervento degli ispettori ministeriali, convinto che la situazione non possa essere ignorata, al punto da essere pronto a proteste eclatanti, come incatenarsi davanti al Palazzo di Giustizia. Quanto al merito e al presunto interessamento alla vicenda Musco, aveva spiegato l’ex consigliere del Csm nei giorni scorsi, «si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema». Insomma, questa volta la talpa potrebbe aver commesso un passo falso. E le prossime pubblicazioni potrebbero smascherarla.

 Giacomo Amadori per “la Verità” l'11 luglio 2022.  

Come un fantasma, a Perugia, a tre anni di distanza dal Palamara-gate, è ricomparsa la manina che sottrae dalla Procura umbra carte coperte da segreto e le consegna sempre agli stessi giornali per far bombardare l'ex presidente dell'Anm, ma non solo. Nel 2019 su alcuni quotidiani, Corriere della Sera e Repubblica in testa, apparvero succose intercettazioni in quel momento in viaggio da Perugia verso il Csm.

Nessuno scoprì (o volle scoprire) l'autore. Ma con quest' ultima fuga di notizie fotocopia, forse il mariuolo, come ogni criminale seriale, potrebbe aver lasciato un'impronta decisiva sulla scena del crimine. In questo caso ha messo in circuito la richiesta di archiviazione per i fatti collegati alla loggia Ungheria e descritti ai pm dal faccendiere Piero Amara. In quelle 167 pagine erano citate vicende ancora coperte da segreto. 

Comprese alcune dichiarazioni testimoniali non ancora contestate a Luca Palamara e pronte per essere depositate nel processo per corruzione già in corso a Perugia.

Il procuratore Raffaele Cantone ha annunciato una guerra senza quartiere a quello che ha già bollato senza giri di parole come «un traditore», nonché colpevole di «una porcata».

Per la toga si tratta di una «vicenda di gravità inaudita» che può essere paragonata alla divulgazione dei verbali di Amara. La richiesta di archiviazione, come è specificato in un comunicato diffuso ieri, non era stata ancora inviata né alla Procura generale di Milano, né a quella della Cassazione, né alla polizia giudiziaria. Anche il Gico della Guardia di finanza, che aveva chiesto copia del provvedimento, sarebbe rimasto a mani vuote. «Nell'interesse vostro, l'avrete quando l'avranno tutti», sarebbe stato spiegato ai militari. «È un fatto gravissimo», ha rincarato la Procura con le agenzie. «Faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita».

Come dimostrano altre indagini su rivelazioni di segreto, in questi casi volere è potere.

Sabato mattina, dopo aver letto un articolo sul Fatto quotidiano che conteneva diversi virgolettati della richiesta, Cantone ha immediatamente fatto aprire un fascicolo a modello 45 (senza ipotesi di reato, né indagati) che però a partire da stamattina è diventato un modello 44 per rivelazione di segreto. 

Anche perché ieri sono usciti due articoli fotocopia su Corriere della Sera e Repubblica che riguardavano le nuove accuse di corruzione e istigazione nei confronti di Palamara che hanno fatto immaginare a Cantone che qualcuno sia andato a pescare proprio quel capitoletto nelle 167 pagine della richiesta e lo abbia poi consegnato ai cronisti. Insomma, un sicario con un preciso obiettivo, lo stesso di chi ha colpito nel 2019.

Il procuratore è in attesa delle prossime pubblicazioni sui giornali e di un qualche passo falso della talpa. Gli inquirenti escludono che la richiesta possa essere uscita dall'ufficio gip, ma notano che il corposo documento da quattro o cinque giorni era oggetto di fotocopie negli uffici di cancelleria e di passaggi da una stanza a un'altra. Per questo i pm stanno cercando di capire se, durante queste operazioni, le carte possano essere fuoriuscite in modo clandestino per finire magari in mano a qualche investigatore e poi nei computer dei giornalisti.

Con alcuni stretti collaboratori Cantone ha escluso categoricamente il possibile coinvolgimento nella fuga di notizie dei sostituti procuratori che lo affiancano, Gemma Miliani e Mario Formisano. Il magistrato napoletano è pronto a mettere la mano sul fuoco sulla lealtà dei suoi due dioscuri, di cui sostiene di fidarsi quasi più che di sé stesso. «Se fossero loro la delusione sarebbe enorme, la più grande della mia vita. Un vero atto di tradimento», ha commentato con il tono di chi ritiene di essere di fronte a un'ipotesi dell'irrealtà. E allora?

In questo momento i principali indiziati sembrano essere gli operatori della polizia giudiziaria che hanno rapporti costanti con le cancellerie ed è a quel livello che gli inquirenti stanno cercando la falla.

Ieri Palamara ha presentato a Firenze, competente per i reati dei magistrati di Perugia, una denuncia per la fuga di notizie che lo riguarda. Si tratta delle (ennesime) dichiarazioni che Amara ha rilasciato contro l'ex pm, in questo caso nell'ambito di un procedimento per istigazione alla corruzione. 

L'avvocato siracusano ha riferito che, nel 2015, mentre si trovava a bordo di un aereo con Palamara, avrebbe ricevuto da quest' ultimo, ai tempi in cui era consigliere del Csm, una presunta richiesta di 30.000 euro, per aggiustare un procedimento disciplinare riguardante l'ex pm Antonio Musco. Un'accusa che anche in questo caso Palamara considera senza alcun riscontro e facilmente contestabile, carte alla mano. Le stesse che sta mettendo da parte con gli avvocati.

«Palamara purtroppo ha straragione. Ha fatto benissimo a denunciare», ha commentato con i suoi collaboratori Cantone. Per una volta l'ex presidente dell'Anm e il suo grande accusatore si sono trovati dalla stessa parte del campo. Come ai tempi in cui giocavano nella Nazionale magistrati. Infatti in Procura ritengono che questa fuga di notizie danneggi «in modo rilevantissimo» le inchieste, anche perché «la vicenda Palamara è solo un pezzetto della richiesta di archiviazione». Ma evidentemente qualcuno ha interesse solo a quello.

I testimoni del processo a Davigo fanno luce sui veleni al Csm prima dello scandalo Ungheria. GIULIA MERLO su Il Domani il 17 novembre 2022

Gigliotti ha raccontato cosa può aver influenzato le decisioni del Csm nel pensionamento di Davigo, poi lo scandalo della procura di Roma, il parere di Cascini sull’inerzia della procura di Milano e Di Matteo ha spiegato che al Csm tutti sapevano dei verbali, ma nessuno parlò

Il processo di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio all’ex magistrato e membro del Csm, Piercamillo Davigo, sta entrando nel vivo del dibattimento. Davigo, imputato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver rivelato ad alcuni membri del Csm e a un parlamentare il contenuto degli atti riservati di Milano sulla loggia Ungheria, ha scelto il rito ordinario.

Nelle scorse settimane il pm milanese Paolo Storari, imputato per lo stesso reato ma che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto anche in appello. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni, ma l'ipotesi è che il giudizio della Corte non si discosti di molto da quello del primo grado, che ha ritenuto di assolvere Storari, incorso «in un errore di norma extrapenale», perchè era convinto di rivelare informazioni segrete a chi era deputato a conoscerle in quanto consigliere del Csm.

Intanto, davanti ai giudici di Brescia stanno prendendo la parola come testimoni i principali protagonisti di quella fase del Csm e dalle loro parole si sta delineando il clima che si respirava a palazzo del Marescialli nei mesi precedenti alla divulgazione pubblica dei verbali della presunta loggia Ungheria. Tra i testimoni sono stati sentiti i consiglieri del Csm, Fulvio Gigliotti, Giuseppe Cascini e Nino Di Matteo, oltre al presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra.

Ognuno ha aggiunto un pezzo della sua verità su come andarono i fatti e soprattutto su come l’iniziativa di Davigo di divulgare i verbali incise su altre scelte. 

IL PENSIONAMENTO DI DAVIGO

Il consigliere laico del Csm, Fulvio Gigliotti, ha spiegato di essere stato messo a conoscenza dei verbali di Amara sulla loggia Ungheria da Davigo e ha raccontato anche come si è giunti alla decisione di far decadere Davigo dal ruolo di consigliere del Csm, una volta andato in pensione.

 «Ho avuto modo di parlarne anche con altri consiglieri e mi sono reso conto che non c'era convergenza totale. Inizialmente il comitato di presidenza pareva orientato per la permanenza del consigliere Davigo e mano a mano che ci si avvicinava la data della sua pensione, l'orientamento è cambiato. Io ho sentito anche l'esigenza di spiegare sui giornali il perché votavo a favore del consigliere Davigo, ovviamente su base tecnica giuridica perché all'interno del Csm ho sempre agito su basi giuridiche. E proprio sul piano tecnico ritenevo che dovesse completare la consiliatura».

Si è parlato di questo argomento perchè Gigliotti ha detto di non poter escludere che il cambio di orientamento del Csm potrebbe essere stato determinato da influenze esterne. «Le politiche consiliari sono complicate da leggere e spesso non orientate solo in base a situazioni interne, ma anche da situazioni esterne».

Gigliotti ha concluso dicendo di non aver creduto al contenuto dei verbali: «Se ci avessi creduto ne avrei tenuto conto nei rapporti con i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti, cosa che non ho fatto», ha detto riferendosi ai due componenti del Csm nominati nei verbali. Quanto a chi fosse a conoscenza dei verbali, Gigliotti ha detto di aver saputo che «era stato avvisato il Quirinale e il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi». 

 L’INERZIA DI MILANO

E’ stato ascoltato anche il togato di Area, Giuseppe Cascini, che ha raccontato di aver parlato con Davigo perchè quest’ultimo sapeva che lui si era occupato di una indagine in cui compariva anche Piero Amara, voce dei verbali. «Davigo voleva sapere se fosse affidabile o meno».

Cascini ha detto che, secondo lui, Davigo fosse nel giusto nel ritenere che la procura di Milano dovesse fare un’indagine: «Erano dichiarazioni esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della Procura di Milano fare un'indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese. Che invece ci fosse una situazione di stallo da parte della Procura di Milano, che dopo qualche audizione non aveva fatto alcuna iscrizione, era motivo di preoccupazione». Secondo Cascini, infatti, la procura di Milano avrebbe dovuto «trasmettere queste informazioni al Csm in modo che fosse investito il Consiglio. Dissi a Davigo che Storari doveva dire al procuratore di mandare gli atti al Consiglio. La mia prima valutazione è che la procura di Milano non stava rispettando la circolare: la regola era di investire il Csm. In quelle dichiarazioni si parlava di molti magistrati e a norma fatti di possibili rilievo ai danni di magistrati devono essere segnalati al Consiglio». 

GLI EFFETTI DELLE RIVELAZIONI SU ARDITA

Davigo ha avvertito del contenuto dei verbali anche il senatore e presidente della commissione Antimafia del Movimento 5 Stelle, Nicola Morra. Lui era amico sia di Davigo che di Ardita e, sapendo che tra i due i rapporti si erano raffreddati, aveva provato a fare da pacere. «Chiedendo al Davigo se c'era la possibilità di una conciliazione con Ardita, lui prese un faldone, coperto da fogli protocollo a righe, e mi invitò a seguirlo fuori dal suo ufficio, nelle scale. Aprendo questo faldone mi fece leggere il cognome Ardita» dicendogli che, secondo alcune dichiarazioni in una indagine, «Ardita faceva parte di un'associazione».

Morra ha raccontato che Davigo lo invitò a fare attenzione. Infatti, Morra ha confermato che la prospettiva di nominare il consigliere del Csm Sebastiano Ardita (che nel processo a Davigo si è costituito parte civile) come consulente in qualche attività della commissione parlamentare antimafia è «naufragata» dopo le rivelazioni di Davigo. 

IL CASO PRESTIPINO ALLA PROCURA DI ROMA

Come testimone è intervenuto anche il consigliere del Csm, Nino Di Matteo, che è stato anche colui che ha rivelato l’esistenza dei verbali della loggia Ungheria, comunicandola al plenum del Csm e definendoli «diffamatori» dopo averli ricevuti in plico anonimo. Di Matteo ha sempre sostenuto che «c'era in atto una manovra per calunniare e screditare Sebastiano Ardita e colpirlo nella sua funzione di consigliere del Csm».

Davanti ai giudici, Di Matteo ha raccontato anche di una riunione del gruppo associativo con il quale era stato eletto e fondato da Davigo, Autonomia e Indipendenza, avvenuta nel marzo 2020 per parlare della nomina del nuovo procuratore di Roma. Dopo lo scandalo Palamara che fece saltare nomina di Marcello Viola (oggi procuratore di Milano) dopo i fatti dell’Hotel Champagne, il plenum del Csm doveva esprimersi sui nuovi candidati.

«Ho partecipato ad una riunione choccante alla presenza di Davigo, Ardita, della consigliera Ilaria Pepe e dell'ex consigliere Alessandro Pepe e la consigliera Pepe era colpita dal fatto che sui quotidiani si parlasse di una spaccatura all'interno della nostra corrente sull'elezione del procuratore di Roma. In un articolo del Fatto Quotidiano si diceva che io e Ardita non avremmo votato per Prestipino ma per un altro candidato, Michelazzo. A quel punto Davigo, con una veemenza inaudita disse ad Ardita: “Se tu non voti Prestipino, sei fuori da tutto” e ancora “Se tu non voti Prestipino sei con quelli dell'Hotel Champagne”».

Davanti alla scena, Di Matteo ha raccontato di aver detto che «quel gruppo era peggio degli altri, perché non si consentiva ai consiglieri di votare secondo coscienza i propri candidati. Reagii in maniera istintiva e dissi a Davigo: “Non mi sono fatto condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina, figuriamoci se mi faccio minacciare dalle tue minacce”».

TUTTI SAPEVANO, NESSUNO PARLÒ

Di Matteo ha ricostruito anche le reazioni nel Csm, quando disse ai colleghi che intendeva parlare dei verbali della loggia Ungheria davanti al plenum del Csm. «La sapevano tutti e quando dissi al vicepresidente David Ermini che volevo parlarne al plenum, lui già sapeva di Ardita».

Il consigliere Csm ha anche ricostruito che il vicepresidente Ermini gli disse che «potevo dire quello che volevo». Invece, prima del plenum, «il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, mi invitò a non fare questo intervento perché aveva già preso contatti con la Procura di Milano» per dare impulso alle indagini. Invece, Di Matteo decise di intervenire e dire tutto pubblicamente, perchè già «mezzo Csm sapeva» e anche molti giornali. 

Domani, infatti, in quei giorni aveva pubblicato un articolo a firma di Emiliano Fittipaldi che dava conto dell’esistenza dei verbali segreti.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Caso verbali, il consigliere del Csm Cascini “accusa” Greco: «Fu lui a sbagliare». Secondo il togato Csm, testimone al processo a carico di Davigo, l’onere di trasmettere a Palazzo dei Marescialli gli atti sulla “loggia” ricadeva sull’ex procuratore di Milano. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 novembre 2022.

L’Interpretazione di una circolare del Consiglio superiore della magistratura del 1995 potrebbe essere fra le cause che determinarono il terremoto che ha travolto in questi mesi la procura di Milano per la vicenda della Loggia Ungheria. Un terremoto che ha poi avuto anche degli strascichi sotto il profilo penale, coinvolgendo un magistrato come Piercamillo Davigo, ora sul banco degli imputati al tribunale di Brescia per “rivelazione del segreto d’ufficio”.

La circolare in questione ha ad oggetto “Informative concernenti procedimenti penali a carico di magistrati” e regolamenta in maniera dettagliata le comunicazioni istituzionali fra il Csm ed i vari procuratori generali e procuratori della Repubblica. Costoro, in particolare, devono “dare immediata comunicazione al Csm con plico riservato al Comitato di presidenza del Csm di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio”, salvo che sussistano “specifiche esigenze di segretezza”.

Il dovere di comunicazione da parte dei procuratori sussiste, prosegue la circolare, qualora abbiano “notizia di fatti suscettibili di valutazione disciplinare o di valutazione sotto il profilo dell’eventuale incompatibilità di sede o di ufficio”. Aspetti, quest’ultimi, che non possono non essere portati a conoscenza del Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, composto dal vice presidente del Csm e dai vertici della Cassazione, il procuratore generale ed il primo presidente. Già all’epoca il Csm stigmatizzava la “reticenza” del procuratore a fornire tali informazioni, sottolineando come in molte occasioni erano «mancate le comunicazioni» ed il Consiglio aveva così dovuto apprendere i fatti «attraverso la stampa».

Il “deficit” informativo aveva come conseguenza quella di limitare l’attività del Csm, impedendogli di «svolgere le proprie funzioni», con conseguente «spreco di attività di comunicazione, richieste, sollecitazioni» al fine di porvi rimedio. Tale circolare è stata richiamata questa settimana dal togato del Csm Giuseppe Cascini, già procuratore aggiunto a Roma, sentito come testimone proprio nel processo nei confronti di Davigo a Brescia. L’accusa mossa all’ex pm di Mani pulite è quella di aver rivelato il contento dei verbali delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla Loggia Ungheria. Verbali che Davigo aveva ricevuto dal pm milanese Paolo Storari, il quale si era rivolto all’allora componente del Csm per segnalare “l’inerzia” dei vertici milanesi nel svolgere indagini sul contenuto di queste dichiarazioni.

Sul punto Cascini non ha avuto dubbi, affermando che le dichiarazioni di Amara «erano esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della procura di Milano fare un’indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese». I nomi degli appartenenti alla Loggia fatti da Amara erano diverse decine, fra cui molti magistrati, in servizio ed in pensione, oltre a due componenti in quel momento in carica del Csm. Per Cascini la Loggia Ungheria «era in sostanza la prosecuzione della P2 e aveva la sua base in Sicilia». Il non aver mai trasmesso gli atti al Csm da parte dell’allora procuratore di Milano Francesco Greco, anche dopo che era esploso lo scandalo, potrebbe quindi essere stato determinato da una interpretazione della circolare.

Anche se la comunicazione deve riguardare i «fatti e circostanze che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio», Greco potrebbe aver ritenuto che essendo l’indagine nella fase iniziale, senza che fosse stata effettuata alcuna iscrizione, non sussisteva l’obbligo di trasmissione al Csm. A tal proposito ci sarebbe il precedente recente delle ormai famose chat di Luca Palamara che furono trasmesse dalla procura di Perugia dopo un anno al Csm, in quanto non utili per le indagini penali potevano però essere d’interesse per le incompatibilità ambientali o per gli eventuali profili disciplinari a carico dei vari magistrati coinvolti.

Tornando, invece, al destino del procedimento sulla Loggia Ungheria, poi trasmesso per competenza territoriale da Milano a Perugia, la Procura del capoluogo umbro ha richiesto lo scorso luglio la sua archiviazione. La richiesta di ben 167 pagine, accompagnata da 15 faldoni di documenti, è ancora oggetto di valutazione da parte del gip.

Ieri sentito anche Di Matteo. Cascini contro Greco: “Sulla Loggia Ungheria doveva indagare”. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Novembre 2022.

Sulla Loggia Ungheria bisognava fare le indagini. Parola di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e attuale componente del Consiglio superiore della magistratura. Sentito ieri in qualità di testimone nel processo a Brescia per rivelazione del segreto nei confronti di Piercamillo Davigo, Cascini ha ‘sconfessato’ quanto raccontato in questi mesi dagli allora vertici della Procura di Milano, dando sostanzialmente ragione al pm Paolo Storari che aveva sempre parlato di “inerzia” nel fare accertamenti sul sodalizio paramassonico. L’esistenza della Loggia era stata rivelata, alla fine del 2019, dall’avvocato Piero Amara, poi diventato la gola profonda di almeno cinque Procure. Le dichiarazioni di Amara, per Cascini, “erano esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della Procura di Milano fare un’indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese”.

Amara aveva fatto decine di nomi, fra alti magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e professionisti, tutti accomunati in quella che, sempre secondo Cascini, “era in sostanza la prosecuzione della P2 e aveva la sua base in Sicilia”. Davanti a questo scenario inquietante, la Procura di Milano, all’epoca diretta da Francesco Greco, ora consigliere per la legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, era in una situazione di “stallo” e “non aveva fatto alcuna iscrizione” nel registro degli indagati. Cascini, preoccupato per l’inattività milanese, ha poi svelato un particolare a dir poco sorprendente. Pare, infatti, che i verbali delle dichiarazioni di Amara, finiti in questi mesi tutti i giornali, non vennero mai trasmessi al Csm. “Ritenni che il procuratore di Milano, non trasmettendo al Consiglio, non stava facendo il suo dovere: non stava rispettando la circolare che prevede che atti di fatti di possibile rilievo a carico di magistrati devono essere trasmessi al Csm anche se c’è il segreto, a meno che ci siano particolari esigenze investigative”, ha affermato Cascini, ‘giustificando’ così la decisione di Storari di consegnarli a Davigo: “Era una richiesta di consiglio” come “tante volte anche a me è capitato di ricevere dai colleghi” più giovani e, quindi, “non era una cosa che mi sembrava anormale. Era una comunicazione informale di un collega”.

Amara era una vecchia conoscenza di Cascini in quanto in passato lo aveva indagato a Roma. Davigo, allora, gli chiese cosa ne pensasse e Cascini rispose che quanto raccontato Amara “faceva tremare i polsi, ma la narrazione non era solida. La prima percezione è che si trattasse di un mischio di verità e finzione e quindi, il mio parere di pubblico ministero, è che bisognava fare indagini”. Indagini che, come si è visto, non furono mai effettuate lasciando per sempre il dubbio se la Loggia sia esistita o meno. E sempre ieri a Brescia ha testimoniato anche il pm antimafia Nino Di Matteo, il primo a svelare l’esistenza del sodalizio paramassonico in Plenum, raccontando di una riunione molto ‘particolare’ del gruppo di Autonomia&indipendenza a marzo 2020 in vista della nomina del nuovo procuratore di Roma. Oltre a Di Matteo, all’incontro erano presenti Davigo, il pm Sebastiano Ardita, la giudice Ilaria Pepe e l’ex consigliere del Csm Alessandro Pepe.

Di Matteo e Ardita avrebbero detto che non era pronti a votare per Michele Prestipino, allora vice di Giuseppe Pignatone. A quel punto Davigo “con una veemenza inaudita e grida che si potevano sentire nella stanza accanto” rispose ad Ardita che se non avesse votato Prestipino era “fuori da tutto”, aggiungendo che era “con quelli dell’Hotel Champagne”. Anche Di Matteo iniziò ad urlare dicendo che “quel gruppo era peggio degli altri, perché non si consentiva ai consiglieri di votare secondo coscienza i propri candidati” e, guardando in faccia Davigo: ‘Non mi sono fatto condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina, figuriamoci se mi faccio minacciare dalle tue minacce”. Proprio un bell’ambiente. Paolo Comi

Giacomo Amadori per “la Verità” il 14 luglio 2022. 

Continuano a Perugia le verifiche sui presunti accessi illeciti alla banca dati della Procura da parte della presunta talpa. La situazione viene definita dagli inquirenti «molto delicata». Il dipendente, indagato per accesso abusivo e rivelazione di segreto, avrebbe scaricato dal sistema carte dell'inchiesta Ungheria (fascicolo a cui non era applicato), a partire dalla richiesta di archiviazione, e, forse, le avrebbe consegnate ad alcuni giornalisti. Dai primi accertamenti risulta che l'uomo si fosse già impossessato di altro materiale sensibile.

In attesa di sviluppi, vale la pena esaminare con attenzione la richiesta di archiviazione sulla supposta loggia firmata dal procuratore Raffaele Cantone.

In essa emerge adesso come Amara, dopo aver reso sei interrogatori a Milano tra il 2019 e il 2020, per svelare l'esistenza della loggia Ungheria, ne abbia impiegati cinque, nel 2021, per smontare le sue stesse dichiarazioni. 

Scrive la Procura: «Progressivamente, ma chiaramente, Amara ha compiuto una vera e propria inversione ad "U"» e «in modo anche molto abile ha via via sminuito il ruolo della loggia Ungheria e il proprio contributo in essa». Alla fine ha sostenuto, contrariamente a quanto affermato tra il 2019 e il 2020 a Milano, che Ungheria «non era un'associazione massonica segreta ("coperta"); che non era un'associazione a delinquere finalizzata a commettere reati; che non perseguiva finalità illecite, ma principi ideali dello Stato liberale; e che essere associato non significava essere disponibile a commettere reati».

Anzi, a suo dire, sarebbe esistito «un altro centro di potere, parallelo a Ungheria, all'interno del Csm nella consiliatura 2014-2018 che aveva gestito le nomine dei vertici apicali della magistratura ordinaria». Ed egli stesso, a un certo punto, «unitamente ad altri due associati "delusi"» di Ungheria, «aveva mutato le sembianze dell'associazione Aprom, per farla diventare una nuova associazione quale strumento di esercizio di potere e scambio di favori». 

Nella sua nuova versione Amara fa sapere che con Ungheria inizia a perdere i contatti una volta trasferitosi a Roma. A quel tempo, con la loggia, si relaziona a «spot» ed è deluso dal suo modo di operare, dal momento che risponderebbe più «alle esigenze di alcune persone che all'affiliazione ad Ungheria». Ecco così pronti i bagagli.

Amara narra, si legge nella richiesta, del suo intento di «costituire unitamente ad un altro associato "deluso", il dottor Pasquale Dell'Aversana (un importante burocrate, che aveva rivestito un ruolo di vertice nell'Agenzia delle entrate), una nuova associazione a Roma, sfruttando i canali e le relazioni anche di Ungheria, si da poter avere un ruolo più centrale che non riusciva ad avere nella loggia, ed utilizzando una realtà associativa con finalità di studio già esistente e creata da Dell'Aversana, denominata Aprom».

L'Aprom è l'acronimo di Associazione per il progresso del Mezzogiorno. Si tratta di un gruppo di persone molto attive nell'organizzazione di eventi e convegni a cui partecipavano diversi magistrati. Già nella primavera del 2021, in un'intervista pubblicata su Panorama, dopo l'esplosione del caso Ungheria, Amara aveva evidenziato il cambio di strategia e aveva consigliato al cronista di puntare l'attenzione sull'«Aprom di Dell'Aversana, un altissimo funzionario dell'Agenzia delle entrate, associato a Ungheria come non mai». 

Insomma la fase 2 era già iniziata. Negli interrogatori Amara definisce Aprom «una nuova scatola di specchi, in cui pero non doveva esistere, almeno tra i componenti, la segretezza nel senso ognuno deve sapere dell'altro». In essa sarebbe stata invitata «gente che faceva parte di Ungheria», ma avrebbe avuto una finalità «meramente relazionale», «lobbistica», cioè senza «scopi ideali». A riscontro di queste dichiarazioni, Amara ha consegnato una lista di nominativi in allegato a una mail da lui inviata in data 8 luglio 2015 all'avvocato V.M.L.R. denominata «aderenti ad associazione A.pro.m.eu».

Ma anche in questo caso ci troveremmo di fronte al gioco delle tre carte: «L'elenco depositato [] ad una lettura testuale, sembrerebbe trattarsi di un documento riferibile alla associazione Aprom tout court, come del resto si legge nel testo della mail ("lista certi cenacolo culturale") e non anche di neofiti di un gruppo di potere, costituito dai "delusi" di Ungheria» annota la Procura.

Di fronte a questa clamorosa retromarcia i pm ritengono che la questione cruciale sarebbe capire perché Amara riferisca solo il 3 novembre 2021 della «sua delusione rispetto ad Ungheria» e della sua intenzione di «creare un nuovo gruppo». Ma anche perché a Milano abbia tirato fuori la storia della loggia. A questo secondo quesito per gli inquirenti umbri l'avvocato siracusano probabilmente non risponderà mai in modo sincero.

In compenso ha provato a spiegare i motivi per cui non aveva fatto riferimento ad Aprom nelle precedenti dichiarazioni meneghine, di cui sembra essersi pentito: «Premetto che io oggi non parlerei più di Ungheria, in quanto mi rendo conto che alcune circostanze le ritenevo poco credibili. Che ad esempio Canzio (Giovanni, primo presidente emerito della Cassazione, ndr) e Berlusconi (Silvio, ndr) facessero parte di Ungheria mi sembrava inverosimile». 

Poi incolpa del polverone sollevato il pm che per primo lo ha interrogato, vale a dire Paolo Storari: «Mi fu detto di riferire tutto senza timore anche le circostanze poco attendibili e che la Procura avrebbe fatto delle verifiche. Non ho parlato di questa vicenda, quella del cenacolo in Aprom, per timore e perché non avevo delle prove che ho acquisito solo successivamente». A partire dalla mail inviata all'avvocato romano di cui abbiamo già fatto cenno.

Il commento di Cantone è tagliente: «Amara riferisce a dicembre 2019 a Milano di Ungheria, definendola una potentissima associazione, paragonabile alla P2, indica con certezza gli affiliati e a distanza di due anni afferma, invece, che in realtà già dal 2015 era sostanzialmente uscito dal gruppo perché deluso e che la da lui riferita affiliazione di alcuni degli adepti sembrava (persino a lui) del tutto inverosimile!». Alla fine di Ungheria resta poco o niente. Amara anticipa la nascita della loggia agli anni 1993-95, e la collega «alla "crisi" di valori del Paese, successiva a Tangentopoli» e «in questo senso essa sarebbe la "continuazione" della P2».

Ma alla fine più che «ristabilire un sistema di valori (perduti)», Amara ha affermato che «uno dei problemi concreti che la loggia dovette affrontare fu la "gestione" dei procedimenti nei confronti di Berlusconi, aperti a Palermo e Catania (in relazione al "dopo-stragi")». Inchieste in cui l'ex premier è stato già archiviato. Siamo di fronte all'ennesimo colpo a salve di Amara? In realtà il «dichiarante» in questo caso è stato ritenuto parzialmente credibile. Come spesso capita quando di mezzo c'è il Cav. Ed è prevedibile che non mancheranno le polemiche. 

L'intervento pro Silvio di Ungheria (con tanto di boicottaggio delle dichiarazioni del pentito Luigi Ilardo) sarebbe stato reso possibile dal «profondo legame tra Giovanni Tinebra», ex influente magistrato siciliano defunto, e «Berlusconi (e il suo governo)».

Su tale filone Perugia ha attivato sia la Procura nazionale antimafia che quella di Messina come si evince da questo passaggio: «Delle dichiarazioni rese sul punto e stata immediatamente messa al corrente la Procura nazionale antimafia con nota del 9 settembre 2021 ed esse sono state trasmesse alla Procura di Messina, dopo averle stralciate ed inserite in un fascicolo iscritto a modello 45».

L'Antimafia ha già risposto con l'invio di documentazione, circostanza che ha portato Cantone a scrivere «che alcune circostanze narrate da Amara sono (almeno in parte) riscontrate». Ma la Procura non ha considerato una potenziale notizia di reato solo le dichiarazioni anti Berlusconi, ma pure quelle che riguardano l'ex capo della Procura Luigi de Ficchy.

Amara per confermare i suoi rapporti privilegiati con alcuni magistrati ha fatto togliere dalla naftalina un bigliettino sequestrato dalla Procura di Roma con sopra un elenco di nominativi e indirizzi che sarebbe stato utilizzato per recapitare alcuni doni in vista delle festività pasquali a diversi personaggi, tra cui De Ficchy («una stampa di un certo valore») e l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone («un regalo non meglio precisato»).

Un foglietto mai valorizzato in passato né nelle indagini romane, né dallo stesso Amara. Ma se per l'autista del faccendiere siciliano quei regali non erano altro che cassette di ciliegie, a giudizio di Cantone, quella noticina, pur non dimostrando l'esistenza di alcuna loggia, «potrebbe, pero, avere un indiscutibile rilievo come ulteriore prova di un circuito relazionale ad alto livello del dichiarante, che avrebbe intrattenuto rapporti anche con importanti magistrati».

A questo proposito Amara ha anche riferito in un'annotazione redatta in carcere «una vicenda riguardante il figlio» di De Ficchy. Il successore di quest' ultimo, Cantone, non ha fatto sconti: ha disposto «lo stralcio del memoriale» e lo ha «già trasmesso al pm di Firenze» Luca Turco. Il quale è da tempo titolare di un fascicolo su De Ficchy, come rivelato dalla Verità, aperto in seguito a un precedente stralcio della Procura di Milano e relativo alle prime dichiarazioni di Amara sulla loggia. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 luglio 2022.

La storia della presunta talpa della Procura di Perugia vede come unico indagato (per il momento) un saggista che nei suoi libri si occupa di cold case rimasti irrisolti. Ma lui, forse, potrebbe aver lasciato qualche traccia. Ieri nella libreria Feltrinelli di corso Vannucci era rimasta solo una copia del libro La scomparsa di Adinolfi, firmato dal già cancelliere della Procura Raffaele Guadagno, sospettato di essere la gola profonda di alcuni quotidiani, e dall'ex giornalista Rai Alvaro Fiorucci.

Al primo sfoglio quello che salta all'occhio è l'autore della prefazione, l'inviato del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, lo stesso cronista che, insieme con due colleghi della Repubblica con cui non di rado opera in pool, domenica ha pubblicato un articolo che conteneva alcune parti della richiesta di archiviazione sulla cosiddetta loggia Ungheria che, a giudizio del procuratore Raffaele Cantone, erano ancora coperte da segreto.

E a scaricare illecitamente i file, non essendo collaboratore dei pm che indagavano, sarebbe stato proprio Guadagno, cinquantottenne originario di Santa Maria di Vico (Caserta), ma da anni trapiantato in Umbria. Attualmente lavora all'ufficio esecuzione della Procura e non ha più nulla a che fare con le indagini. 

È sospettato di essersi intrufolato nel sistema anche in altre occasioni, scaricando ulteriori documenti riservati. Al momento gli inquirenti non sono riusciti a trovare tracce di intrusioni riferibili alla tarda primavera del 2019, quando esplose il Palamara gate e sui giornali finirono decine di intercettazioni e atti di indagine non ostensibili. Una rivelazione del segreto investigativo senza precedenti di cui la Procura di Perugia, all'epoca non ancora guidata da Cantone, non riuscì a trovare i responsabili.

Questa volta, invece, i magistrati potrebbero aver scoperto l'autore in meno di 48 ore.

Le investigazioni dovranno innanzitutto accertare se sia stato proprio il funzionario a fornire le carte ai giornalisti e in caso di risposta affermativa se lo abbia fatto anche in altre occasioni. 

In città le perquisizioni nei confronti di Guadagno rappresentano un piccolo choc essendo l'ex cancelliere molto stimato in Procura e non solo per il suo eclettismo e la sua cultura.

Un uomo intelligente e fisicamente fragile. Da anni è presidente di un'associazione per la lotta all'ictus cerebrale, di cui è stato vittima. E le ultime vicende lo hanno ulteriormente provato. Ma l'inchiesta prosegue. Come è normale che sia. L'avvocato Chiara Lazzari ci spiega di non avere novità sulle indagini e che la sua nomina non è ancora stata depositata. 

Sulla quarta di copertina del suo ultimo lavoro Guadagno è definito «studioso di indagini e di processi» ed è specificato che «ha seguito i maggiori casi di cronaca giudiziaria in Italia e all'estero». Nel 2018 ha pubblicato Il Divo e il giornalista. Giulio Andreotti e l'omicidio di Carmine Pecorelli: frammenti di un processo dimenticato, un procedimento che Guadagno conosce a menadito e la cui conclusione senza colpevoli ritiene un'ingiustizia.

Ma è il «mistero irrisolto» sulla scomparsa del giudice romano Paolo Adinolfi l'opera che ci collega maggiormente alla vicenda della talpa.

Destino vuole che lo scorso settembre alla presentazione in una sala dell'Archivio di Stato abbia presenziato anche Cantone, che nell'occasione auspicò che il libro potesse «contribuire a individuare nuovi elementi utili a riaprire il caso sulla scomparsa del giudice». Sarà anche per il ricordo di quella serata che, non appena è stato aperto il fascicolo, il procuratore ha parlato di un vero e proprio «tradimento». 

Comunque a Perugia non c'è avvocato o magistrato che non spenda parole di stima per Guadagno. Giuliano Mignini, il pm del caso Meredith, si è limitato a dire: «Non so se sia di destra o di sinistra, di certo è una persona molto attenta al tema della legalità».

Sui social Guadagno è molto critico con quasi tutta la classe politica, a partire dalla Lega e dal Movimento 5 stelle.

«Salvini, Conte e Letta un triumvirato che mi "agita"» ha scritto. Non ha risparmiato stilettate neppure alle signore della destra Giorgia Meloni e Marine Le Pen («Io sto con Macron senza se e senza ma»). Mentre esprime grandissima stima per il presidente Sergio Mattarella («Un gigante») e il premier Mario Draghi, che ringrazia per aver salvato l'Italia. 

Ha nostalgia della Prima Repubblica: fa sapere di rimpiangere Bettino Craxi e Claudio Martelli e si è schierato contro il taglio dei parlamentari, da lui considerato «una via reazionaria». Nei suoi post non mancano neppure le citazioni di Ernesto Guevara, «un grande condottiero».

Il rapporto con magistrati e giornalisti è più lineare rispetto a quello con la politica.

Sia gli uni che gli altri affollano le presentazioni dei suoi libri. In un'immagine pubblicata su Fb si trova a fianco dell'ex toga ed ex presidente del Senato Piero Grasso. Il Divo e il giornalista contiene la prefazione dell'ex procuratore generale di Perugia e presidente della Fondazione Umbria anti usura Fausto Cardella, un magistrato a cui Guadagno è molto legato. Per esempio l'indagato ha organizzato con lui nel proprio paese natale un evento sulla strage di Capaci. 

A dicembre, alla presentazione romana del suo secondo libro, sono intervenuti il campione della magistratura non allineata Nino Di Matteo e una giornalista della Rai.

Nella locandina era indicato tra i relatori pure Antonio Massari, inviato del Fatto Quotidiano, che, però, alla fine non prese parte alla serata.

Si limitò a scrivere un articolo sul libro.

Massari è il cronista che per primo ha pubblicato il contenuto della richiesta di archiviazione. Ma, al contrario dei colleghi di Repubblica e del Corriere della Sera, non si è concentrato sul caso Palamara. L'unico collegamento tra Guadagno e l'ex pm radiato dalla magistratura (che ha presentato denuncia a Firenze per la fuga di notizie) lo abbiamo trovato sul profilo Facebook dell'indagato. In un post del primo aprile 2021 riprendeva l'annuncio di un'intervista all'ex presidente dell'Anm, sul best seller Il Sistema, ospitata dal sito Darkside del suo editor, Gianluca Zanella. Sotto il post, un suo amico, G.M., commentava: «Forse non è molto etico che questo indagato debba arricchirsi con le sue malefatte».

E ricordava che l'ex pm era diventato «il vessillo dei media del noto piduista» Berlusconi, «acerrimo nemico della magistratura tutta». E si stupiva anche per «la grande attenzione per i fatti disvelati dai trojan palamareschi» e definiva l'ex pm «solo una gran bella faccia di tonno», rubando una citazione all'ex presidente Francesco Cossiga. 

Guadagno gli rispondeva in modo sibillino: «Caro amico mio, le tue parole, come sempre, sono "piene". Purtroppo ahinoi "dobbiamo stare muti"... e tu sai perché». Il motivo del forzato silenzio non è esplicitato, ma lascia intravedere in filigrana il giudizio del dipendente sotto inchiesta su Palamara. E anche se, tra i suoi numerosi amici giornalisti, c'è chi ipotizza che Guadagno possa essere un «capro espiatorio», restano aperti alcuni quesiti: è stato lui a selezionare per i giornalisti il capitoletto contro l'ex consigliere di Palazzo dei marescialli? Oppure sono stati i cronisti a scegliere quella parte della richiesta? Ma soprattutto Guadagno, sempre che sia lui il «colpevole», ha fatto tutto da solo? La risposta dovrà darla la Procura di Perugia. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 19 luglio 2022.  

La presunta talpa della Procura di Perugia, al secolo il cinquantottenne casertano Raffaele Guadagno, sarebbe l'ideatore di una società oggi in liquidazione, la Nventa id srl di Todi, che a partire dal 2009 avrebbe fornito servizi di intercettazione e altri tipi di consulenza agli inquirenti del capoluogo umbro.

Presentando centinaia di migliaia di euro di fatture che sono state anche al centro di polemiche finite sui giornali e di attenzione da parte del Csm.

Socio di minoranza e amministratore unico della ditta è stato per anni Luigi Guadagno.

Quest' ultimo, classe 1974, è il fratello di quel Raffaele iscritto la settimana scorsa dal procuratore Raffaele Cantone sul registro degli indagati con l'accusa di accesso abusivo alle banche dati della Procura e rivelazione di segreto ad alcuni giornalisti. L'indagine adesso si sta allargando anche alla storia della Nventa. 

Dunque a Perugia avrebbero affidato a parenti e amici del presunto «spione» la gestione della delicatissima attività di intercettazione ambientale e di controllo Gps. Dal 2017 la collaborazione con la Procura del capoluogo umbro si sarebbe interrotta, ma nel frattempo la Nventa, anche dopo l'acquisto di un costoso software da 220.000 euro, avrebbe sopperito a questo problema, iniziando a fare intercettazioni telefoniche per altre 15-16 Procure. Il primo anno l'azienda ha incassato da vendite e prestazioni 249.000 euro di ricavi. Il doppio nel 2010. Da allora il valore della produzione è oscillato tra i 140.000 (dato più basso) e i 250.000 euro, con tre exploit: 450.000 euro (2015), 530.00 (2017), 440.000 (2018).

Poi il crollo del 2019 (53.000) e lo scioglimento. Nella ragione sociale della Nventa si legge che l'attività riguarda «noleggi, manutenzione e assistenza, computer e relativo software e altre apparecchiature elettriche ed elettroniche». 

La ditta è stata costituita il 17 gennaio del 2009 nello studio del notaio di Todi Salvatore Clericò con un capitale sociale di 100.000 euro. Le quote sono così ripartite: il 91% appartiene al ragioniere-commercialista Luigi Menghini, il 4% a testa a Guadagno jr e al compaesano Gianmaria Iaculo (sono entrambi di Santa Maria di Vico) e il resto a due nipoti di Menghini. Quasi subito, il 2 aprile 2009, la società, che non aveva certo ancora avuto il tempo di farsi conoscere, ottiene un incarico sostanziosissimo dalla Procura di Perugia nell'ambito del procedimento per la morte di Meredith Kercher che in quel momento vedeva imputati Rudy Guede, Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

La Nventa è incaricata di realizzare «una ricostruzione animata in 4D dell'ambientazione e della scena del delitto». Nel pacchetto entrano anche un «dvd per speech support in formato Pal in ambito giudiziario» e la «progettazione e realizzazione database per supporto requisitoria pm». Il tutto alla modica cifra di 152.320 euro a cui bisogna aggiungerne 34.464 di Iva (per complessivi 182.784 euro). 

La consulenza sarebbe durata sino al novembre 2011 e la fattura porta la data del 2 febbraio 2010, spesa che il direttore amministrativo Stefania Miggiano della Procura liquida con bonifico esattamente un anno dopo, mentre il pagamento diventa esecutivo il 15 marzo 2011. Il decreto di liquidazione indennità è «a favore del dottor Luigi Guadagno, legale rappresentante della ditta Nventa Id». Il conto viene spedito a Sollecito e alla Knox nelle case circondariali di Perugia e Terni dove i due ragazzi erano rinchiusi in attesa di giudizio.

Il filmato della durata di circa mezz' ora venne utilizzato nel processo di primo grado e i magistrati Giuliano Mignini e Manuela Comodi, dopo averlo mostrato ai giudici a porte chiuse, non lo depositarono agli atti affinché non venisse divulgato. Panorama descriveva così l'opera: «Iniziava con alcune immagini tratte da Google maps per poi entrare dentro la villetta dove Amanda, Raffaele, Meredith e Rudy Guede, appaiono in forma stilizzata, come in un cartone animato. [] Nel video la studentessa inglese viene sbattuta contro il muro, aggredita da Amanda che impugna un coltello e da Raffaele che tenta di strapparle il reggiseno. Meredith crolla a terra, i due fidanzatini prendono i telefonini e scappano, mentre Rudy si porta le mani alla testa». I giudici stabiliranno che le cose non sarebbero andate così e per questo assolveranno Amanda e Raffaele, lasciando il conto da pagare allo Stato.

Nel 2012 «un gruppo di privati cittadini» inviò un esposto alla Corte dei conti per quella spesa e i giudici contabili aprirono un'istruttoria. L'allora procuratore regionale Agostino Chiappiniello ricorda con La Verità: «Non ci fu nessuna citazione in giudizio perché è stato ritenuto che far realizzare quel filmino rientrasse nella discrezionalità del magistrato». La Procura generale della Cassazione portò la Comodi davanti alla sezione disciplinare del Csm. 

L'accusa mossa al pm, secondo i giornali dell'epoca, sarebbe stata l'omessa motivazione della spesa nel decreto di pagamento e la conseguente «mancata applicazione dei criteri e tabelle predisposti per la corretta anticipazione della somma da liquidare». Nell'atto di incolpazione gli ermellini rilevavano che con tale condotta il magistrato avrebbe «arrecato un danno ingiusto all'Erario» che aveva anticipato «l'ingente somma». Il sostituto pg di Cassazione, Antonio Gialanella, in udienza, rilevò una «inescusabile negligenza» della pm, sollecitando la sanzione, seppur lieve, dell'ammonimento.

La sezione disciplinare del Csm assolse la Comodi, escludendo sue responsabilità. Il socio di maggioranza della Nventa, Menghini, con La Verità nega di aver speculato sul prezzo: «Noi abbiamo pagato le parcelle di otto ingegneri e alla fine l'utile per la società è stato di 14.000 euro. All'inizio avevamo chiesto 220.000 euro. Poi, dopo alcune trattative, siamo scesi». Quindi continua: «I due magistrati venivano a controllare il lavoro e spesso ci dicevano che non andava bene. "Voi dovete dimostrare la tesi della Procura e non altro" ci spiegavano».

Ricorda anche le trattative con la Comodi: «Le dissi che avevamo risolto tutti i problemi e che avevamo trovato dei giornali disposti a sponsorizzare la realizzazione del filmato. Lei rispose che non eravamo al mercato e che quando si lavora per la Procura si lavora solo per questa. Alla fine pattuimmo 150.000 euro più Iva». 

La società aveva già realizzato un'altra ricostruzione video di un omicidio per la stessa Procura. Mentre le ultime collaborazioni risalgono al 2017: la Nventa ha gestito tre localizzatori Gps di quelli che si collocano sotto le auto e uno di questi era collegato a una microspia. Questi incarichi sono stati affidati dal procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini. Menghini assicura di non essere un prestanome, bensì di essere colui che ha messo i soldi: «Loro non avevano una lira. E adesso sto pagando 450.000 euro di perdite per non fallire». 

Quindi ammette: «L'idea della società non è stata mia. Io sono stato chiamato per fare questo lavoro, perché io, facendo il commercialista, di Procure, di intercettazioni nulla sapevo e poco so ora». L'idea della Nventa sarebbe stata di Raffaele Guadagno: «Ammetto che abbiamo iniziato grazie a delle conoscenze, ma poi abbiamo dimostrato di saper lavorare. Lui non lavorava per sé.

Quando ha parlato con me ha chiesto solo di coinvolgere suo fratello e un amico, Gianmaria Iaculo, che produceva Gps e si occupava di ambientali». Menghini ricorda anche il primo incontro con il procuratore Nicola Miriano, di cui Guadagno era il cancelliere di fiducia: «Mi disse si ricordi bene una cosa: qui si lavora non perché siamo amici di quello e di quell'altro se ciò che fate è valido lavorate, se non lo è la mattina dopo andate a casa». Alla fine hanno resistito dentro al Palazzo per almeno otto anni. Menghini oggi è molto arrabbiato con i fratelli Guadagno. E su Raffaele conclude: «L'errore che ha fatto è aver iniziato a scrivere libri. Gli è partita la testa». 

Giacomo Amadori per “La Verità” il 20 luglio 2022.

Per capire qualcosa in più dell'affaire della presunta talpa della Procura di Perugia, l'ex cancelliere che, secondo gli inquirenti umbri, scaricava file riservati e li distribuiva (anche) ai giornalisti, bisogna fare un salto nell'area industriale di Todi, in provincia di Perugia. 

Nella frazione di Ponterio si trova l'appartamento del cinquantottenne Raffaele Guadagno, impiegato dell'ufficio esecuzioni della Procura. Il condominio, moderno e piuttosto anonimo, da giorni ha le finestre oscurate e la tenda da sole abbassata. È qui che l'11 luglio scorso si è recato il procuratore Raffaele Cantone per seguire personalmente la perquisizione del collaboratore. 

Esattamente di fronte si trova un altro indirizzo importante nella nostra spy story. In una piccola palazzina color mattone ha sede la società Nventa, la ditta di intercettazioni telefoniche ideata da Guadagno e sino al 2017 guidata dal fratello Luigi, amministratore e socio prima al 33 per cento, poi al 50 infine al 6.

Oggi l'azienda è in liquidazione e le quote sono passate quasi interamente al ragioniere Luigi Menghini, settantunenne tuderte, dopo un discusso aumento di capitale. «Ce lo richiese una banca finanziatrice e visto che loro non si sono resi disponibili l'ho fatto da solo. Ma subito dopo Luigi, visto che non era più socio alla pari, si è completamente allontanato». 

Si è passati così alle carte bollate. Guadagno jr ha fatto un arbitrato per ottenere le proprie spettanze (circa 140.000 euro) e Menghini ha risposto a colpi di decreti ingiuntivi per avere indietro parte delle rate dei mutui che sta pagando. Eppure nel 2009 la partenza era stata molto promettente, sebbene la Nventa non avesse esperienza nel settore, non possedesse il nulla osta di sicurezza (nos) e avesse un imputato di favoreggiamento nella compagine sociale. 

Oggi al piano terra della ditta sono rimaste due stanze piene di materiale inutilizzato e ormai obsoleto: gps, computer e microspie. Nessuno opera più. Menghini sta solo cercando di incassare le ultime fatture del lavoro che fu. Tutto era iniziato quasi per caso. Raffaele Guadagno aveva iniziato a frequentare lo studio di Menghini per alcuni problemi con la ditta di maglieria della moglie. I conti non tornavano più e i coniugi non riuscivano più a pagare il mutuo. La signora Valeria si trasferì per motivi professionali in Bulgaria e in quei mesi difficili il ragioniere e il cancelliere divennero amici.

Sino a quando Guadagno lanciò un'idea: realizzare una ditta di intercettazioni partendo dai gps e dalle microspie di ultima generazione trattate da un compaesano di Santa Maria di Vico, Gianmaria Iaculo. 

Menghini insieme con due nipoti, Luigi Guadagno e Iaculo diventarono soci al 33 per cento con un capitale di 12.000 euro. «Raffaele ci ha dato l'input per fare la società e ci ha accompagnato dentro la Procura di Perugia per alcuni incontri, in particolare quello iniziale con il procuratore Nicola Miriano» ricorda Menghini.

Che però evidenzia come i rapporti con quasi tutte le altre Procure che diventarono clienti non fossero gestiti da Raffaele: «Lui non veniva con noi. Ci muovevamo io e suo fratello. E quando andavamo alla ricerca di incarichi non ci rapportavamo direttamente con i magistrati, ma ci facevamo conoscere dalle forze dell'ordine illustrando i nostri prodotti e servizi». 

Nella brochure di presentazione dell'attività, erano elencate le Procure presso le quali erano accreditati. Una lista di 20 uffici: Perugia, Terni, Spoleto, Arezzo, Viterbo, Trani, Lagonegro, Napoli, Benevento, Avellino, Macerata, Forlì, Urbino, L'Aquila, Trieste, Lanciano, Avezzano, Ascoli Piceno, Pescara e Bari. Le fatture sono intestate però a 34 uffici inquirenti. 

Tra questi ci sono anche Roma, Milano, Palermo, Catania, Bologna e Catanzaro oltre a Rossano Calabro per le intercettazioni dentro al supercarcere per terroristi. Potrebbe far sobbalzare sulla sedia qualche pm sapere che oggi l'ispiratore della ditta sia sotto inchiesta per rivelazione di segreto, ma all'epoca in tanti si affidavano a questa neonata società dai prezzi concorrenziali per fare intercettazioni telefoniche e ambientali.

«A Lanciano, Urbino e Rieti abbiamo vinto la gara» ricorda Menghini. Cioè lavoravano quasi in esclusiva. Ma la vera gallina dalle uova d'oro è stata Perugia. In base ai bilanci che ci ha mostrato il ragioniere 262.609 euro sarebbero arrivati (Iva esclusa) nel 2009, 302.522 nel 2010, 346.830 nel 2011. 

In quel periodo la Nventa produce anche una ricostruzione animata in 4D del delitto di Meredith Kercher che costa 152.000 euro e suscita molte polemiche. A conferire l'incarico e a finire per questo sotto procedimento disciplinare è stata la pm Manuela Comodi, che è stata prosciolta sia dal Csm che dalla Corte dei conti.

Anche il fidanzato della Comodi, Umberto Rana, ex presidente della sezione fallimentare del Tribunale, aveva rapporti di lavoro con Menghini a cui affidava incarichi di curatore fallimentare. Rana è imputato a Firenze per corruzione, falso ideologico e abuso d'ufficio e al Csm è incolpato a livello disciplinare per aver mancato ai doveri di correttezza (in un'intercettazione si sarebbe anche preoccupato per la nomina della fidanzata ad aggiunto di Perugia). 

«Non credo alle accuse che gli hanno rivolto. Con me si è sempre comportato in modo regolare» assicura il ragioniere. Che aggiunge: «Ai tempi del video sull'omicidio Kercher un giornalista chiamò la Comodi davanti a me per chiederle se fosse al corrente dei miei precedenti. E lei rispose che conosceva benissimo i propri collaboratori» rammenta con riconoscenza Menghini.

Il quale, in effetti, mentre lavorava con la Procura di Perugia, era sotto processo in Lombardia per il presunto favoreggiamento di alcuni coimputati accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dell'Erario, al contrabbando e alla falsità ideologica. Menghini è stato anche 21 giorni in prigione, un'esperienza che oggi sdrammatizza con una ricca aneddotica da reduce. Nel 2008, dopo la modifica delle imputazioni era stato condannato a 1 anno e 6 mesi. 

Per i giudici avrebbe fatto sparire e contraffatto alcuni documenti contabili. Contestazione sempre respinta da Menghini, che in vista dell'Appello cambiò difensore e ingaggiò Chiara Lazzari, moglie dell'allora procuratore di Urbino Alessandro Cannevale (già pm a Perugia e dal 2015 a capo degli inquirenti di Spoleto), il magistrato che nel 2018 ha firmato la prefazione del primo libro di Guadagno, Il Divo e il giornalista. 

Fu l'ex cancelliere a presentare all'amico ragioniere la Lazzari, che oggi difende proprio la presunta «talpa». Il secondo grado di Menghini non andò meglio del primo e nel luglio del 2011 arrivò la conferma della condanna. Successivamente il professionista ha usufruito della prescrizione del reato.

Nel 2012 la collaborazione della Nventa con la Procura di Perugia rallenta. Infatti, pochi mesi prima, tra settembre e novembre 2011 si era svolta una gara per l'aggiudicazione del servizio di intercettazioni. Per concorrere la Nventa dovette allearsi con una società lombarda che aveva l'indispensabile nos, di cui la ditta di Todi era sprovvista. Ma alla fine la gara venne assegnata alla società Area Spa. Così nel 2012 da Perugia arrivano solo 60.000 euro, meno di 4.000 tra il 2013 e il 2015. 

Le commesse calano, ma aumentano i clienti: Spoleto, L'Aquila, Benevento, Pesaro, Arezzo, Urbino, Avezzano. Nel 2014 gli incarichi valgono 310.000 euro, poco meno nel 2015. Un anno dopo gli introiti che arrivano dalle Procure salgono a 508.000 euro e Perugia torna a far lavorare la Nventa liquidando 107.000 euro. Nel 2017, l'ultimo anno di attività effettiva, su 583.000 euro di fatture, il 38 per cento (222.800 euro) viene saldato da Urbino, il 24 da Lanciano (143.500), il 14 da Perugia (81.700) e l'11 da Spoleto (67.700). Nel 2018, invece, la ditta ottiene il pagamento di circa 450.000 euro di parcelle arretrate, di cui 132.675 da Perugia e ben 185.000 da Urbino. 

In tutto dalla Procura del capoluogo umbro sarebbero confluiti nelle casse della Nventa circa 1,3 milioni di euro, iva esclusa. A fronte di questi incassi non sarebbero mancati disservizi e problemi tecnici. Menghini ammette: «Il nostro amministratore ha mancato qualche appuntamento. Si comportava più come un dipendente che come un imprenditore. Per quanto riguarda la tecnologia non siamo riusciti ad adeguarci al 5g, ma i nostri prodotti sono stati concorrenziali sino alla fine del 2017». Il ragioniere di Todi è pentito di questa avventura? «Mi sono infilato in questa storia perché mi sembrava di fare un po' lo 007» confida con un sorriso dolceamaro.

(ANSA il 22 luglio 2022) - Ci sarebbe stato un incontro tra uno dei legali di Luca Palamara e il cancelliere della Procura di Perugia Raffaele Guadagno, indagato per rivelazione di segreto d'ufficio e accesso abusivo a sistema informatico dopo la pubblicazione su alcuni giornali della richiesta di archiviazione relativa alla cosiddetta loggia Ungheria. 

Circostanza sulla quale l'ex consigliere del Csm, al centro di diverse indagini e processi nel capoluogo umbro, sono stati sentiti dal procuratore Raffaele Cantone. La notizia e' riportata oggi dal quotidiano la Verità che nei giorni scorsi avevano anticipato dell'incontro. 

Palamara e i suoi legali - viene riportato - hanno confermato di avere incontrato il cancelliere dopo l'estate 2021, anche se sulla data non ci sarebbe certezza. Guadagno - in base a quanto emerso finora - avrebbe riferito ora di alcune vicende interne alla Procura.

Come una richiesta di astensione del sostituto Gemma Miliani all'allora procuratore De Ficchy e di un'altra questione riguardante l'altro magistrato Mario Formisano, entrambi co-titolari dei fascicoli su Palamara e sulla fuga di notizie. L'Ufficio guidato da Cantone sta ora svolgendo accertamenti per stabilire con certezza se l'incontro, che finora non sarebbe emerso da alcuna indagine, ci sia stato e i suoi eventuali contenuti.

Intanto - secondo quanto risulta all'ANSA - l'indagine sulla fuga di notizie sta andando a ritroso. Starebbero infatti emergendo centinaia di accessi abusivi da parte di Guadagno ad alcuni dei più significativi fascicoli della Procura di Perugia. 

Fonti inquirenti parlano di un uno "spaccato inquietante". Le stesse fonti evidenziano i "tempi particolarmente rapidi" dell'indagine sulla fuga di notizie e gli elementi "documentali" acquisiti. I magistrati intendono ora accertare se il cancelliere abbia agito per curiosità professionale o sia legato ad altri.

(ANSA il 22 luglio 2022) - Conferma di essere stato sentito ieri dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, davanti al quale dice di avere "chiarito tutti i fatti" a sua conoscenza in relazione alla vicenda del cancelliere della Procura di Perugia, Raffaele Guadagno, l'ex magistrato Luca Palamara. 

L'incontro è avvenuto a Roma, alla presenza dei legali dell'ex consigliere del Csm che hanno confermato anche loro lo "svolgimento di un atto istruttorio". Palamara non è voluto entrare nel merito della vicenda ma ha spiegato che l'attività svolta dal suo legale rientra "nell'ambito di indagini difensive".

"Ho sempre agito - ha detto - nella convinzione che le procure competenti faranno uscire il reale accadimento dei fatti ed il tentativo di screditamento della mia persona". "Il nostro assistito ha chiarito ogni aspetto della vicenda" il commento degli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, difensori di Palamara. 

"I temi affrontati - aggiungono in una nota - sono noti a livello processuale atteso che sulle anomalie del trojan stanno indagando ben due procure (Napoli e Firenze). Sul fronte della fuga di notizie rileviamo come il dott. Palamara sia stato l'unico a denunciare le ripetute violazioni che si sono succedute dal 29 maggio 2019 con denuncia alla Procura di Firenze.

Anche questa volta la sua iniziativa è stata tempestiva avendo depositato già l'11 luglio 2022 ulteriore denuncia alla Procura di Firenze. Confidiamo che sia fatta piena luce su tutta la vicenda nell'interesse in primo luogo della giustizia e del nostro assistito".

Giacomo Amadori per “La Verità” il 22 luglio 2022.  

La Procura di Perugia ha messo il turbo. Il capo degli inquirenti umbri Raffaele Cantone sta mostrando ai suoi predecessori come si indaga su una fuga di notizie. E ieri ha interrogato a Roma Luca Palamara su un nostro scoop. 

Confermato a verbale dall'ex presidente dell'Anm, il quale era accompagnato dai suoi avvocati, Roberto Rampioni e Benedetto Buratti, quest' ultimo testimone diretto della vicenda di cui si è discusso. 

In questi giorni abbiamo raccontato ai nostri lettori la storia della presunta talpa di Perugia, al secolo Raffaele Guadagno, cinquantottenne dipendente dell'ufficio esecuzioni della Procura, sospettato di aver scaricato file coperti da segreto, come la richiesta di archiviazione per i presunti grembiulini della loggia Ungheria, e di averli consegnati ai giornalisti.

Sabato abbiamo anche rivelato che Guadagno avrebbe incontrato l'avvocato Buratti per riferirgli presunti segreti sull'inchiesta che riguardava Palamara. In particolare, che esisterebbero una richiesta di astensione della pm Miliani, respinta dall'ex procuratore Luigi De Ficchy, e una fantomatica trascrizione delle chiacchiere scambiate durante la cena del 9 maggio 2019 da Mamma Angelina, ristorante in cui il procuratore Giuseppe Pignatone ha cenato con Palamara e un lobbista indagato per la loggia. La versione ufficiale è che il trojan quella sera non funzionò. Quella di Guadagno (a detta di Palamara) che invece sarebbe stata occultata. 

Per questi incroci pericolosi tra procedimenti diversi, l'ex pm è stato interrogato per un paio d'ore come indagato di procedimento connesso: «Ho chiarito davanti all'autorità giudiziaria tutti i fatti di mia conoscenza relativi alla vicenda Guadagno già anticipati dalla Verità» ci ha confermato Palamara. 

L'ex pm ha raccontato a Cantone l'origine del colloquio del suo avvocato con Guadagno: l'ex cancelliere è assistito da Chiara Lazzari, la quale insieme con Buratti ha fatto parte del pool di legali del processo Cepu.

L'incontro con il dipendente della Procura sarebbe avvenuto nell'ambito delle indagini difensive legate al trojan. Durante l'interrogatorio di ieri sarebbe stata individuata la data esatta del faccia a faccia presso lo studio Lazzari tra Buratti e Guadagno: 7 gennaio 2022. 

A verbale sono stati ricostruiti anche alcuni precedenti scambi di informazioni tra avvocati che avrebbero portato i difensori di Palamara a interloquire con la Procura tramite istanze, come quella presentata il 17 settembre 2021 per sapere se De Ficchy avesse fatto richiesta di astensione in considerazione dei rapporti con uno dei coimputati di Palamara, il pierre Fabrizio Centofanti. Buratti, mentre il suo assistito verbalizzava, non ha smentito le parole dell'ex magistrato.

Conclude Palamara: «Perché non ho fatto il matto a quattro dopo aver ricevuto certe notizie? Perché di storie strane nella mia vicenda ne ho sentite tantissime. Ma poi c'è bisogno delle prove. Io ho sempre confidato e confido che siano gli uffici competenti ad accertare il reale accadimento dei fatti».

Il cancelliere Guadagno ha contattato i legali dell’ex leader dell’Anm. Rivelazione della talpa di Perugia: “Contro Palamara fu un complotto”. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Luglio 2022 

Raffaele Cantone ha deciso di imprimere un’accelerazione alle indagini sulla fuga di notizie avvenuta nei giorni scorsi sulla richiesta di archiviazione, quasi 180 pagine, del procedimento sulla Loggia Ungheria. Dopo aver iscritto a tempo di record il cancelliere Raffaele Guadagno, accusato di aver passato l’atto riservato al Corriere e a Repubblica, e prima ancora al Fatto Quotidiano, il numero uno della Procura del capoluogo umbro si è recato giovedì scorso a Roma per interrogare in gran segreto presso gli uffici del comando provinciale dei carabinieri l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, persona danneggiata dalla fuga di notizie. Guadagno, stando a quanto reso noto da Cantone, si sarebbe introdotto senza averne titolo all’interno del sistema informatico della Procura di Perugia, scaricando alcuni documenti, tra i quali appunto quelli relativi all’archiviazione del fascicolo sulla Loggia Ungheria che conteneva anche una nuova indagine per corruzione nei confronti Palamara.

I destinatari delle informazioni, coperte dal massimo riserbo, erano stati gli stessi quotidiani, i quali per l’occasione hanno pubblicato articoli ‘fotocopia’, che nel maggio del 2019 fecero lo scoop sul Palamaragate, riportando in tempo reale e a indagini in corso le trascrizioni dei colloqui registrati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. “Un fatto gravissimo”, aveva detto immediatamente Cantone, procedendo subito all’individuazione della ‘talpa’, a differenza di quanto accaduto nel 2019. In quell’anno, infatti, la Procura del capoluogo umbro, all’epoca guidata dal procuratore Luigi De Ficchy, prossimo alla pensione per raggiunti limiti di età, non fece nulla per scoprire chi fosse stato il ‘postino’ che consegnò gli atti ai giornali, utilizzati, secondo Palamara, per bloccare la nomina di Marcello Viola alla Procura di Roma e stroncare Magistratura indipendente, la corrente di destra, fino a quel momento maggioranza a Palazzo dei Marescialli. Guadagno, prima della fuga di notizie dell’altra settimana, avrebbe tentato un approccio con i legali di Palamara per fornirgli le prove di un complotto a suo danno.

Si trattava, nello specifico, di informazioni particolarmente importanti, come la richiesta di astensione avanzata dalla pm Gemma Miliani, che insieme a Mario Formisano, sta rappresentando l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara, e respinta da De Ficchy, e l’esistenza di una trascrizione della famosa cena del maggio del 2019 presso il ristorante Mamma Angelina ai Parioli tra l’ex capo dell’Anm e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Trascrizione che è stata negata dai pm che hanno sempre respinto quanto affermato in senso contrario dai consulenti della difesa di Palamara che, a tal riguardo, aveva depositato una relazione da cui emergeva che il trojan fosse stato in funzione durante tutta la serata. Se fosse vero che questa trascrizione, sempre negata, è realmente esistita, nei confronti dei pm umbri sarebbe difficile non aprire una indagine. E certamente non potrebbe essere, per ovvi motivi, la stessa Procura di Perugia ad effettuarla. Se, di contro, Guadagno si fosse inventato tutto, allora i pm umbri sarebbero persone “offese” in quanto oggetto di una gravissima calunnia. Ed anche in questo caso non potrebbe essere Perugia ma Firenze, secondo le regole sulla competenza, a svolgere gli accertamenti.

Come mai, invece, sta procedendo Cantone? E soprattutto, cosa sta facendo la Procura di Firenze dove dal 2020 è pendente una denuncia di Palamara proprio a proposito delle fughe di notizie che hanno contraddistinto l’indagine nei suoi confronti? Cosa è stato fatto in questi anni dal procuratore Luca Turco, attuale facente funzioni dopo il trasferimento di Giuseppe Creazzo, titolare del dossier? La vicenda ha tutti i connotati di una spy story dal finale imprevedibile. L’unico elemento certo, ad oggi, è il canale privilegiato che alcuni giornalisti, sempre gli stessi, hanno avuto (ed hanno) con personale giudiziario e delle forze di polizia allo scopo di destabilizzare l’organo di autogoverno delle toghe. Come accaduto nel 2019. Tornando alla testimonianza di Palamara, “il nostro assistito ha chiarito ogni aspetto della vicenda”, è stato il commento ieri dei suoi difensori, gli avvocati Benedetto Mazzocchi Buratti e Roberto Rampioni. “I temi affrontati – hanno aggiunto – sono noti a livello processuale atteso che sulle anomalie del trojan stanno indagando le Procure di Napoli e Firenze”. Paolo Comi

Luca Fazzo per “il Giornale” l'11 luglio 2022.

È l'altra faccia del «Sistema», la fuga di notizie utilizzata come arma impropria per indirizzare il corso e l'impatto delle indagini giudiziarie. Male atavico e inestirpabile contro il quale si trova ieri a fare i conti Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, che vede la notizia - in teoria segreta - di una nuova indagine a suo carico approdata sulle pagine di due quotidiani. I giornalisti hanno fatto il loro mestiere, chi gli ha passato le carte no.

Palamara sembra non avere dubbi: è stata la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, la stessa Procura che indaga su di lui mentre invece - è notizia di tre giorni fa - decide di archiviare l'inchiesta sulla loggia Ungheria, ritenendo non riscontrate le dichiarazioni del pentito Piero Amara sulla presunta congrega di magistrati, politici e generali. Mentre invece per indagare Palamara le dichiarazioni di Amara vanno benissimo.

Nel caso specifico, Amara accusa Palamara di essere intervenuto su un giudice di Cassazione a favore del pm siciliano Maurizio Musco, che era sotto processo per corruzione. Il giudice di Cassazione, Stefano Mogini, interrogato da Perugia, dice che in effetti Palamara gli chiese delle informazioni. E Amara dice che per l'interessamento «Palamara gli fece capire che avrebbe gradito un orologio d'oro da trentamila euro per la sua compagna».  Orologio mai arrivato.

Ma a Perugia l'inchiesta va avanti. Il vero problema è che queste carte sono contenute nei quattordici faldoni che la Procura di Perugia ha inviato al giudice preliminare per chiedere l'archiviazione della indagine «Ungheria». Non le hanno gli avvocati, non le ha la polizia giudiziaria, le hanno solo i magistrati. 

Ieri Cantone comunica l'apertura di una indagine sulla fuga di notizie, sostenendo che la Procura di Perugia è la vera vittima della violazione del segreto, «faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita». Ma vittima e colpevole potrebbero, se ha ragione Palamara, coincidere. E con quale credibilità la magistratura del capoluogo umbro potrebbe indagare su se stessa?

Non è un caso isolato, negli ultimi decenni tutte le inchieste sulle fughe di notizie sono state condotte dalle stesse Procura dove le fughe erano avvenute, e infatti nessun colpevole è stato mai individuato. Spesso non si trattava di notizie scivolate dal segreto per caso, leggerezza, simpatia, ma di operazioni decise a tavolino con fini precisi. 

Ieri, dopo lo scoop sui suoi nuovi guai, Palamara va giù pesante: parla di «una giustizia che si serve dei giornali di riferimento per cecchinare il nemico di turno», allo stesso modo in cui «nel maggio 2019 la pubblicazione di intercettazioni non depositate ha consentito a una corrente della magistratura di gestire il potere per quattro anni».

La «manina» che passa le carte ai giornali, sostiene Palamara, non lo fa perché ha a cuore la libertà di informazione ma perché sa che la campagna mediatica è funzionale alla battaglia giudiziaria. Le dichiarazioni di Amara vengono usate «per salvare i processi a mio carico», dice l'ex magistrato, come a Milano vennero usate per cercare di affossare un giudice scomodo e salvare i processi Eni. «Oggi si ripete la stessa storia», dice Palamara.

Il problema è che nessuno sa quante altre storie siano contenute, pronte ad esplodere, nei faldoni di Perugia che dovevano essere segreti ma evidentemente non lo sono più. Cosa aspetta il ministro Cartabia, chiede alla fine Palamara, a mandare i suoi ispettori nella Procura umbra?

Alessandro Da Rold per “La Verità” il 21 luglio 2022

Era l'11 settembre del 2014 quando il Corriere della Sera dava in prima pagina, a caratteri cubitali nel taglio del quotidiano, la notizia che l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi si trovava sotto inchiesta per una tangente da più di un miliardo di euro legata all'acquisizione della licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria. 

A distanza di quasi otto anni, il quotidiano di via Solferino ha dedicato uno spazio di gran lunga minore alla notizia dell'assoluzione definitiva del manager del Cane a sei zampe. Eppure, martedì la Procura generale di Milano ha preso una posizione molto netta sul processo che avrebbe dovuto dimostrare la corruzione di una delle aziende più importanti di questo Paese. 

Il procuratore generale Celestina Gravina ha deciso di rinunciare al ricorso e ha ribadito come, nel procedimento, non ci fosse «prova dell'accordo per una corruzione» o «pagamento di un'utilità corruttiva». E ha insistito sul fatto che il processo non andava neppure celebrato. Men che meno l'appello, anche perché non esistono nuovi elementi «per sostenere l'accusa». 

Quindi un eventuale ricorso non avrebbe avuto alcuna forza «per un eventuale ribaltamento del principio dell'oltre ragionevole dubbio». 

Per il Corriere, però, questa presa di posizione si vede che non è bastata per dimostrare l'inutilità di un nuovo appello dopo l'assoluzione di tutti gli imputati in primo grado «perché il fatto non sussiste».

Così nel pezzo di cronaca di ieri, il quotidiano di via Solferino ha comunque voluto ribadire come «di certo la scelta della pg è intanto un peccato. Un'occasione persa persino per gli imputati, perché finisce per indebolire la considerazione dell'assoluzione di primo grado, che invece da un vaglio e da una riconferma in Appello sarebbe uscita rafforzata, magari anche nelle aspre critiche ai due pm indagati intanto per non aver depositato prove favorevoli alle difese».

In via Solferino, alle prese con il nuovo capo della Procura Marcello Viola, forse non si sono resi conti che le tesi di Celestina Gravina non sono esattamente un caso isolato. Non tanto in Italia, quanto nel mondo intero. È lunga la lista dei Paesi che si sono espressi su quella che veniva considerata come la tangente del secolo. Negli Stati Uniti la Sec (Securities and exchange commission) già due anni fa aveva chiuso le sue indagini senza portare avanti altri procedimenti contro Eni e Shell.

Negli ultimi mesi la corte inglese, il giudice Sara Cockerill, si è pronunciata a favore di Jp Morgan Chase nella causa da 1,7 miliardi di dollari promossa dal governo nigeriano rispetto al presunto ruolo della banca d'affari nelle trattative di acquisizione della licenza petrolifera nel 2011. L'alta corte di giustizia del Regno Unito ha ribadito la sua decisione lo scorso 7 luglio, impedendo al governo federale nigeriano di appellarsi alla sentenza. Proprio come sostenuto dal procuratore generale Gravina, anche l'alta corte ha affermato che non vi era «alcuna prospettiva reale» di ribaltare la sentenza.

E ha stabilito una volta per tutte che non c'erano prove che la Nigeria fosse stata truffata nell'accordo tra Eni, Shell e Malabu. C'è poi da ricordare che su Opl 245 non è mai iniziato alcun processo in Olanda, dove la compagnia petrolifera Shell non è mai finita sotto accusa. Gli olandesi, infatti, hanno sempre preso tempo in questi anni, stando ben attenti a mettere sotto accusa un'azienda strategica come Shell. Persino l'alta corte federale di Abuja in Nigeria si è più volte espressa contro le ipotesi di corruzione nella vicenda. 

Nel 2018 aveva già stabilito che l'ex ministro di giustizia Adoke Bello non poteva essere ritenuto personalmente responsabile per quanto riguardava i pagamenti a Malabu perché stava semplicemente eseguendo le legittime direttive e approvazioni del presidente Goodluck Jonathan. L'ultima decisione di Abuja è di poche settimane fa. I giudici nigeriani hanno ribadito di non riuscire «a vedere alcun fatto a sostegno della tesi che i soldi siano il risultato di attività illegali».

In sostanza, la corte nigeriana ha escluso che vi siano evidenze di provenienza illecita dei fondi. La repubblica nigeriana aveva presentato ricorso per ottenere in via di urgenza il sequestro delle somme depositate presso conti correnti in banche svizzere, anche questo sulla base dell'attività della Procura di Milano, dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. In questi anni l'unica sentenza di condanna è stata quella nel processo abbreviato a carico di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, i presunti intermediari della mazzetta. Anche questa è stata ribaltata in appello. Non è rimasto più nulla dal punto di vista giudiziario.

Lo strano caso della talpa a Perugia che colpisce solo Luca Palamara. L’ultima fuga di notizie sulle indagini che riguardano l’ex consigliere del Csm è legata a filo doppio con quella, più clamorosa, del 2019. Palamara conferma a Cantone l'incontro con Guadagno. Il dipendente della procura è solo un capro espiatorio? Simona Musco su Il Dubbio il 22 luglio 2022.

C’è qualcosa che non torna nella vicenda della talpa di Perugia che ha inviato alla stampa le notizie sulla nuova indagine a carico di Luca Palamara. Una storia torbida, che si incastra nella più ampia telenovela iniziata il 29 maggio 2019, quando su Corriere e Repubblica vennero pubblicati i contenuti delle intercettazioni della cena all’Hotel Champagne sul cosiddetto “mercato delle toghe”, che causò una slavina di scandali sul Csm, portando alle dimissioni di diversi consiglieri e alla modifica degli equilibri di potere all’interno di Palazzo dei Marescialli.

Oggi come allora, ad indagare sulle attività dell’ex presidente dell’Anm è la procura del capoluogo umbro, all’epoca guidata dal procuratore Luigi De Ficchy. Che però non mosse un dito per scoprire da chi fossero partite le veline ai giornali, servite, secondo Palamara, a bloccare la nomina di Marcello Viola alla procura di Roma e ridurre il potere delle correnti della magistratura fino a quel momento più potenti. Ora, invece, Raffaele Cantone non ha perso un secondo di tempo: due giorni dopo la pubblicazione di stralci della richiesta di archiviazione dell’inchiesta sulla Loggia Ungheria, l’ex presidente dell’Anac ha iscritto sul registro degli indagati un dipendente amministrativo, Raffaele Guadagno, scrittore di libri gialli nel tempo libero e autore, secondo la procura, della clamorosa fuga di notizie che ha avuto come protagonista Palamara.

Guadagno, stando a quanto reso noto dalla procura, avrebbe fatto accesso abusivamente al sistema informatico della procura, scaricando alcuni documenti, tra i quali quelli relativi alla nuova indagine sull’ex toga. E a ricevere le informazioni scottanti, ancora una volta coperte da segreto, sono stati gli stessi due quotidiani, che hanno pubblicato due articoli praticamente identici sul caso. «Un fatto gravissimo», ha tuonato Cantone, palesemente infastidito dalla falla interna alla sua procura. Ma quella del maggio 2019 rimane la fuga di notizie più clamorosa: una vera e propria violazione del segreto istruttorio rimasta impunita, nonostante da due anni la procura di Firenze – alla quale Palamara si è rivolto per scoprire di chi fosse la “manina” – stia indagando sulla vicenda. L’ex pm romano non si è arreso e il nuovo fuggi fuggi di carte gli ha fornito l’occasione per rivolgersi ancora alla procura ora retta dall’aggiunto Luca Turco, sperando, questa volta, di avere risposte. Risposte che pretende anche dal ministero della Giustizia, al quale ha chiesto l’invio degli ispettori per chiarire cosa si agiti negli uffici giudiziari del capoluogo umbro. Anche perché l’idea che a gestire questo traffico di informazioni – finalizzato finora a colpire sempre la stessa persona – sia stato un dipendente amministrativo convince poco l’ex consigliere del Csm. Persuaso sempre di più che dietro ci siano ben altri mandanti, da individuare nel mondo della magistratura.

Guadagno sembra, anzi, la vittima sacrificale ideale in questa vicenda: i suoi contatti con i giornalisti non sono un mistero e creano le condizioni perfette per rendere il sospetto sempre più fondato. Il quotidiano La Verità, nei giorni scorsi, ha reso noti molti particolari della vicenda, in seguito alla quale il dipendente della procura di Perugia ha accusato un malore che lo ha costretto al ricovero in ospedale. Un vero e proprio “sputtanamento” fatto di dettagli scabrosi sulle sue attività all’interno degli uffici giudiziari, compreso il presunto tentativo di fornire a Palamara prove di un complotto a suo danno. Si tratta, nello specifico, di tre informazioni, che Guadagno avrebbe offerto ad un intermediario, ovvero uno dei suoi avvocati. Si tratta di segreti importantissimi: la richiesta di astensione avanzata dalla pm Gemma Miliani – che rappresenta l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara – e respinta da De Ficchy, le informazioni fornite dall’altro pm, Mario Formisani, all’ex procuratore di Perugia, andato in pensione a fine maggio 2019, e, soprattutto, l’esistenza di una trascrizione della famosa cena tra Palamara e Giuseppe Pignatone, registrazione misteriosamente scomparsa e la cui sussistenza è stata sempre negata dagli inquirenti. Palamara era però già informato di quei fatti, informazioni raccolte nell’ambito dell’attività difensiva legata all’utilizzo del trojan inoculato nel suo cellulare svolta dai suoi legali. Trojan sul quale l’ex consigliere del Csm non ha mai nascosto i suoi dubbi: serviva, a suo dire, per provocare un terremoto.

Qual è, dunque, il ruolo di Guadagno in questa vicenda? Che ruolo gioca nella guerra tra procure ormai senza quartiere? Proprio alla luce di queste consapevolezze, infatti, l’ex pm è convinto che il dipendente della procura di Perugia possa essere il capro espiatorio ideale per non scoprire mai la verità sulla fuga di notizie. Anche perché sono troppe le tracce lasciate in questa occasione: è possibile che qualcuno abbia usato le credenziali del dipendente per scaricare gli atti e girarle ai giornali incastrando un “semplice” amministrativo? E perché colpire solo Palamara e ignorare tutto il resto degli atti? Interpellato dal Dubbio, l’ex presidente dell’Anm si limita a ribadire di voler approfondire il tutto nelle sedi giudiziarie: «Chiarirò ogni cosa quando e se verrà chiamato», dice laconico. E proprio ieri è stato sentito da Cantone, al quale ha confermato la circostanza dell’incontro con Guadagno, avvenuto lo scorso 7 gennaio.  Forse il bubbone della procura di Perugia sta per esplodere.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 21 luglio 2022. 

L'immagine del paese che siamo non viene soltanto dal Parlamento di ieri, di cui il giornale offre dettagliati racconti, ma anche dal palazzo di giustizia di Milano, dove l'altro ieri la procuratrice generale ha rinunciato all'appello per la maxitangente Eni in Nigeria, roba da un miliardo di dollari. 

E infatti è una tangente che non esiste: i vertici dell'Eni, in particolare l'ex e l'attuale amministratore delegato, Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, sono stati assolti l'anno scorso perché - formula tecnica - il fatto non sussiste. 

Intanto i due pm titolari dell'accusa, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono indagati a Brescia per aver omesso prove in favore degli imputati, e vedremo come va.

Stiamo parlando dell'Eni, politicamente l'azienda più importante del paese, di un'azienda strategica per gli interessi italiani nel mondo. Nel rifiutare l'Appello, la procuratrice ha detto che «il processo deve finire qui perché non ha fondamento», anzi «avrebbe dovuto essere fermato all'inizio», ma perlomeno adesso «dopo otto anni di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali», e deve finire qui perché è figlio «della fantasia sfrenata dei pm», di «vicende buttate lì come una insinuazione» e perché l'appello è fondato su motivi «fuori dal binario di legalità».

Chi pensa che il nostro unico problema sia la politica, pensi anche a un ufficio giudiziario che per otto anni tiene al palo la più importante e strategica azienda del paese sulla base di fantasie sfrenate, e in nome di un'indipendenza che è diventata frivolo abuso di potere delle cui conseguenze non si è mai chiamati a rispondere.

Magistratura, Alessandro Sallusti: "Qui serve il lanciafiamme". Libero Quotidiano l'11 luglio 2022.

Qualcuno si ricorderà il caso della loggia Ungheria, una presunta associazione segreta svelata da un losco figuro specialista in avvelenamento di pozzi e verità a cui la magistratura per suo tornaconto a tratti ha dato grande credibilità, tale avvocato Pietro Amara, che entra ed esce dal carcere con la facilità con cui noi andiamo a cena la sera. Ecco, il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha letto le carte del dossier che per due anni era stato imboscato dalla procura di Milano - lo stesso per intenderci che ha messo nei guai Piercamillo Davigo per averlo divulgato - ed è giunto a una conclusione pazzesca. Di tutti i nomi e gli episodi citati da Amara, che riguardano magistrati, imprenditori e politici di chiara fama compreso l'ex premier Giuseppe Conte, l'unico che a suo avviso è fondato e ha rilevanza penale è quello che riguarda contatti inopportuni che Luca Palamara avrebbe avuto con altri colleghi.

Io ho un grande rispetto del dottor Cantone, ma se pensa che noi siamo tutti degli stupidi boccaloni si sbaglia di grosso. Lui può fare quello che crede, anche la figura del fesso di turno, ma c'è un limite a tutto. Amara è un cialtrone millantatore che mischia mezze verità a palesi menzogne su tutto ma non su Palamara, cioè non sul magistrato che con le sue rivelazioni ha messo alla berlina il magico mondo di Cantone e dei giornali che gli fanno da ufficio stampa.

Tempo fa un magistrato mi disse che nella ricostruzione degli ultimi quindici anni di vita della magistratura fatta da Palamara in due libri ci sono almeno una trentina di ipotesi di reato che riguardano il vertice di quella categoria ma che ovviamente nessuno, tantomeno Cantone, avrebbe mai e poi mai aperto neppure un fascicolo, come noto cane non mangia cane. La morale è che Cantone- integerrimo e libero magistrato - non indaga sui presunti reati raccontati con dovizia di particolari da Palamara, ma indaga Palamara per una ipotesi di reato sostenuta dal più grande mascalzone ballista già al servizio di procure che lo hanno usato per imbastire processi finiti in farsa. Io non sono l'avvocato di Palamara, ma se tra Palamara e Amara la nuova magistratura sceglie Amara e facendolo salva tutti i colleghi amici e complici, altro che riforma della giustizia. Qui non serve una legge, serve il lanciafiamme.

I legali di Palamara: «Procura di Perugia coinvolta nella fuga di notizie, intervenga il ministro Cartabia». Gli avvocati dell'ex presidente dell'Anm: «È indubbio che la stampa debba fare il proprio mestiere e pubblicare tutte le notizie di cui viene a conoscenza. Sorge pertanto spontanea una domanda: perché sempre gli stessi giornalisti e le stesse testate?» Il Dubbio il 12 luglio 2022.

«Prendiamo atto della attività che sta compiendo la Procura di Perugia in merito alla fuga di notizie (parziali e facilmente contestabili) che ha colpito, come in passato, il dottor Palamara. Tuttavia ribadiamo di aver presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze non che al capo dell’ispettorato del ministero della giustizia e del procuratore generale della cassazione affinché si faccia piena luce su quanto accaduto ritenendo competente la procura di Firenze anche in ragione del fatto che da quasi due anni svolge indagini sugli stessi giornalisti che oggi come nel maggio del 2019 hanno divulgato, interpretandole, notizie segrete». Lo scrivono in una nota i legali di Luca Palamara. 

«In quella occasione la pubblicazione servì a far dimettere i consiglieri di Unicost e Magistratura indipendente consentendo alla corrente di Area di gestire il mercato delle nomine nella attuale consiliatura. Oggi la pubblicazione serve a mettere le stampelle alla traballante indagine sulla loggia Hungaria che ha fatto figli e figliastri. È indubbio che la stampa debba fare il proprio mestiere e pubblicare tutte le notizie (complete e non interpretate) di cui viene a conoscenza. Sorge pertanto spontanea una domanda: perché sempre gli stessi giornalisti e le stesse testate? È stato il cancelliere o chi per lui spontaneamente a consegnare queste carte ai giornalisti o qualcuno gli ha chiesto di farlo? Come mai aveva il loro numero o gli ha fatto recapitare una pennetta?», chiedono i legali dell’ex presidente dell’Anm.

«La Procura di Perugia è sicuramente coinvolta e, pertanto, tutte le attività debbono essere compiute ex art. 11 c.p.p. a Firenze. Il nostro assistito tiene a precisare che andrà fino in fondo alla questione per capire le ragioni di questa fuga di notizie a suo danno e se vi siano complici ovvero mandanti, sicuro di dimostrare in ogni sede la calunnia di quanto stanno scrivendo», conclude la nota.

La Procura di Perugia nel caso. Fuga di notizia su Palamara, Cantone a caccia della talpa di Corriere e Repubblica. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Ormai è evidente: la Procura di Perugia è un ‘colabrodo’. Negli uffici giudiziari del capoluogo umbro, gli atti di indagine coperti dal segreto rimangono tali per non più di ventiquattro ore. L’ultimo caso ha riguardato la richiesta di archiviazione, depositata l’altra settimana, del procedimento sulla Loggia Ungheria ed il contestuale stralcio, con conseguente iscrizione nel registro degli indagati, di alcuni soggetti tirati in ballo da Piero Amara. Fra i malcapitati vi sarebbe anche l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, già da tempo sotto il tiro della Procura del capoluogo umbro. Palamara, secondo le nuove accuse, avrebbe avvicinato un giudice della Cassazione a cui era stato assegnato un procedimento nei confronti di un amico di Amara, l’allora pm di Siracusa Maurizio Musco.

Per tenere sotto controllo lo stato di tale procedimento, Palamara avrebbe interessato, oltre al giudice, anche il presidente della Cassazione. Amara, da parte sua, avrebbe organizzato per Palamara una vacanza in uno chalet di un suo conoscente al Sestriere, mentre l’ex zar delle nomine gli avrebbe chiesto un orologio d’oro del valore di 30mila euro per la moglie. Il nuovo capo di imputazione, basato su dichiarazioni testimoniali non ancora contestate a Palamara, invece di rimanere segreto è finito quasi integralmente sul Corriere e su Repubblica con due articoli fotocopia pubblicati domenica scorsa. Il procuratore Raffaele Cantone, dopo aver letto i due quotidiani, ha fatto sapere di essere molto indignato, essendo la “vicenda di una gravità inaudita”. In pochi, infatti, avevano la disponibilità del fascicolo: Cantone, i suoi due sostituti coassegnatari, i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, e il gip del tribunale di Perugia.

La polizia giudiziaria, ad iniziare dal Gico della guardia di finanza che ha curato le indagini, pur avendo chiesto gli atti, ufficialmente non aveva ricevuto mezzo foglio.

Subito è partita allora la solita girandola di procedimenti per capire di chi sia la ‘manina’ che ha passato gli atti al Corriere e a Repubblica. Visto che coloro che hanno maneggiato questo fascicolo, i magistrati con i rispettivi collaboratori, si contano sulle dita delle mani, il ‘talpone’ dovrebbe avere vita breve e non rimanere sconosciuto come nel caso della prima, clamorosa, fuga sul Palamaragate, avvenuta a maggio del 2019. Anche all’epoca Corriere e Repubblica, in compagnia del Messaggero, pubblicarono ad indagini in corso stralci dei colloqui registrati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. I responsabili non furono mai individuati.

Ma come dimenticare, poi, l’inchiesta sull’esame farsa del calciatore Luis Suàrez per ottenere la cittadinanza italiana? A causa della fuga di notizie, Cantone aveva deciso per lo stop a tempo indeterminato dell’ indagine coordinata dai pubblici ministeri Paolo Abritti e Giampaolo Mocetti, sempre con l’ausilio dell’immancabile guardia di finanza. Si trattò di una decisione più unica che rara per il panorama giudiziario italiano che, secondo il capo della Procura di Perugia, era necessaria proprio a causa delle ripetute violazioni del segreto istruttorio. Cantone anche all’epoca si disse “indignato per quanto successo finora”. Un dato è certo: se l’ex capo dell’Anac non riesce ad arginare queste imbarazzanti fughe di notizie che compromettono in maniera irreparabile le indagini del suo ufficio, sarebbe necessaria allora una riflessione da parte del Csm e del Ministero della giustizia, che ha anche gli strumenti, l’Ispettorato, per verificare la gestione dei vari procedimenti penali nel capoluogo umbro.

La Procura di Perugia, è bene ricordarlo, è un ufficio di piccole dimensioni. Oltre a Cantone ed al suo vice, vi lavorano poco più di dieci sostituti. Alla Procura di Napoli, ufficio da dove proviene Cantone, i magistrati sono 140 ed fatte le dovute proporzioni non si assiste a questo stillicidio di notizie segrete pubblicate sui giornali.

Palamara, comunque, ha presentato una nuova denuncia per quanto accaduto l’altro giorno alla Procura di Firenze, competente sui colleghi perugini. Considerando i precedenti, tutto lascia presagire però che anche questa denuncia per la fuga di notizie finirà in un nulla di fatto. Per scongiurare il bis, l’ex capo dell’Anm ha fatto sapere tramite i propri legali di essere pronto ad incatenarsi sotto il palazzo di giustizia. Paolo Comi

Media e fughe di notizie. Fuga di notizie dalla Procura di Perugia: Cantone non può indagare su se stesso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Se scappano delle carte segrete dall’ufficio di un Procuratore, quel Procuratore ne è responsabile, in quanto custode naturale della riservatezza dell’inchiesta. Raffaele Cantone, capo dell’ufficio di Perugia, che si è rivelato il colabrodo da cui sono “scappati” 15 faldoni zeppi di atti secretati sulla “Loggia Ungheria” e in particolare 167 pagine di richieste al Gip, non può quindi indagare che su se stesso. Ha quindi ragione l’ex magistrato Luca Palamara, il primo danneggiato dalla fuga di notizie, a rivolgersi alla Procura di Firenze, competente per ciò che riguarda le toghe di Perugia, e anche al procuratore generale presso la cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.

Manca all’appello solo il ministro Cartabia, che ha il potere di inviare gli ispettori a mettere il naso in queste gravi violazioni. Potere rafforzato dal giorno in cui il Parlamento e il governo italiano, alla fine dell’anno scorso, hanno recepito in modo definitivo la direttiva dell’Unione Europea sui rapporti tra le Procure e i media.

A coloro che quel giorno brindavano una vocina aveva sussurrato: e le carte passate sottobanco ai cronisti di riferimento? Eccoci qua. Era stato facile profeta chi, leggendo il libro Il sistema, in cui lo stesso Palamara spiegava che a un pm basta avere il “suo” cronista per orientare qualunque inchiesta, aveva denunciato che difficilmente il metodo sarebbe cambiato. E bisognerà vedere se la ministra guardasigilli, che qualcuno in questi giorni sta cercando di mettere in difficoltà per un’inchiesta genovese, avrà la forza di mostrare che quel provvedimento del novembre 2021 non aveva solo la testa per decidere, ma anche le gambe per camminare.

Ma soprattutto occorre avere la consapevolezza del fatto che certi scoop, certe complicità, non si fondano solo su reciproche vanità, quella del pm di vedere il proprio nome sulla stampa e quella del cronista di farsi bello con i suoi capi. Queste sono piccolezze. C’è, c’è stato, e temiamo ci sarà, a volte, una vera volontà politica, studiata scientificamente, di orientare indagini e inchieste. Non si tirino fuori i cronisti giudiziari, attuali o ex. Alcuni hanno brindato per certe informazioni di garanzia, hanno partecipato al banchetto delle carte che “scappavano” dagli uffici, ben sapendo che cosa si stava bevendo, che cosa si stava mangiando. Non è vero che, anche qualora non ci sia stata la complicità iniziale, il cronista non fa nulla di più che il proprio dovere pubblicando ogni carta che gli capiti in mano. Lo hanno dimostrato gli stessi cronisti del Fatto e di Repubblica proprio con i verbali dell’avvocato Amara, quando le carte erano arrivate nelle loro redazioni filtrate dalla segretaria romana di Piercamillo Davigo. In quei giorni pareva che i fascicoli scottassero nelle loro mani, come mai? Ma allora la selezione c’è, vero colleghi?

Veniamo dunque al fattaccio ultimo arrivato. Il combinato-disposto Procura di Perugia-Corriere della sera-Repubblica ha un unico danneggiato, Luca Palamara. E un rafforzamento delle accuse contro di lui. Certo, il procuratore Cantone, che potrebbe essere assolto sul piano delle responsabilità soggettive, ma condannato su quella oggettiva, la stessa del direttore responsabile di una testata giornalistica, dice che il suo ufficio è la vera vittima. Dice anche che i suoi due sostituti che hanno condotto con lui le indagini sulla “Loggia Ungheria” per cui propone l’archiviazione, cioè Gemma Miliani e Mario Formisano, sono sicuramente innocenti. Pare però anche che né la polizia giudiziaria né gli avvocati siano entrati in possesso di questi 15 faldoni. Quindi, dottor Cantone, il fascicolo che lei ha aperto per la violazione del segreto investigativo, dove pensa che andrà a parare? O sta pensando di indagare davvero su se stesso?

Il fatto è molto grave prima di tutto sul piano formale. Perché sembra uno sberleffo al Parlamento e al Governo che hanno impegnato l’Italia, se pur con anni di ritardo, a diventare un Paese che rispetti i cittadini e la presunzione di innocenza. Ma anche sul piano sostanziale, nei confronti del cittadino Luca Palamara. Con un’accusa che, a parti rovesciate, ricorda quella che si rovesciò nel processo Eni, quando i due pm volevano introdurre nel dibattimento dichiarazioni calunniose che indicavano il Presidente del tribunale come persona “avvicinabile” da parte degli avvocati della difesa. L’ex pm che ha denunciato il “Sistema” è indicato dal solito avvocato Amara come uno che “avvicinava” giudici della cassazione per chiedere informazioni su un processo che riguardava un suo collega. La cosa strana è che questo personaggio ormai screditato da inchieste e sentenze, diventi improvvisamente credibile, se serve. E le sue parole vengano passate a testate e cronisti “di riferimento”, come dice lo stesso Palamara.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il processo Palamara a Perugia e quelle strane fughe di notizie affidate ai giornali. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2022. 

La Corte d’appello di Perugia aveva già rigettato nella scorsa udienza l’istanza di ricusazione presentata dai difensori di Luca Palamara, gli avvocati Benedetto Marzocchi Buratti e Roberto Rampioni, nei confronti dei giudici del tribunale del capoluogo umbro che lo stanno giudicando per corruzione. L’udienza per la trattazione dell’istanza si era svolta il 9 maggio scorso e i giudici si erano riservati di decidere. La difesa di Palamara aveva avanzato la richiesta di ricusazione sostenendo che “il tema sulla terzietà del giudice” è stato “creato” dall’Anm “che ha chiesto di costituirsi parte civile in un processo dove due membri del collegio sono iscritti alla medesima associazione“. 

Durante l’udienza precedente la Corte non ha ammesso l’introduzione nel procedimento di una memoria presentata dalla Anm; la quale nell’ambito del procedimento per corruzione, intendeva costituirsi parte civile nei confronti di Palamara, nella quale memoria venne chiesto al collegio di rigettare la dichiarazione di ricusazione.

Luca Palamara in quell’ occasione ha dichiarato “Da uomo libero e da cittadino di questo Paese democratico ribadisco che non mi faccio e non mi farò mai intimidire da alcuno e, tantomeno, dalla attuale dirigenza dell’Anm molto lontana dai fasti gloriosi che l’hanno caratterizzata” E’ “grave e irrituale il tentativo di condizionamento nei confronti dei giudici della Corte d’appello di Perugia chiamati a decidere sulla ricusazione depositando fuori termine una memoria che rischiava di poter diventare una traccia per l’eventuale decisione”.

 La Procura generale di Perugia, guidata da Sergio Sottani, aveva chiesto invece il rigetto della domanda affermando che “non sussistono ragioni per ritenere un interesse dei giudici nel processo, in quanto le condotte addebitate all’imputato, in relazione alle quali l’Anm ha inteso presentare la propria domanda di costituzione di parte civile, sulla base della prospettazione accusatoria, si pongono in assoluto contrasto con i principi che governano l’agire del magistrato e che danneggiano il prestigio e l’indipendenza della magistratura“. 

Palamara ha reso dichiarazioni spontanee nel corso dell’ udienza. Questa la versione integrale: L’ipotesi che una “manina” abbia fatto finire nuovamente sui giornali Luca Palamara sia quella di un semplice funzionario non è credibile per l’ex presidente dell’Anm, che depositerà il suo esposto in procura a Firenze, competente sui magistrati perugini, procura dove Palamara due anni fa si era già presentato, quando guarda caso…. gli stessi giornali oggi in possesso delle notizie sulla nuova indagine che lo riguarda pubblicarono le intercettazioni sullo scandalo dell’Hotel Champagne di Roma.

Tutto questo secondo Palamara fa dunque pensare ad un disegno unico, finalizzato a colpire l’ex consigliere del Csm, depositario, forse, di troppi segreti scottanti sulle toghe italiane, ma sopratutto prendere il controllo delle nomine nel Csm. Vicende in buona parte diventate di dominio pubblico nei due libri, scritti insieme ad Alessandro Sallusti (oggi direttore del quotidiano LIBERO) ma in parte ancora “coperti” ma tanto “pesanti” da poter destabilizzare l’equilibrio già fortemente instabile del sistema di potere della giustizia italiana. Una manina “interna” alla procura di Perugia che ha sempre gli stessi interlocutori, con un modus operandi che ricorda la spedizione delle carte riservata effettuata dalla segretaria al CSM di Piercamillo Davigo (attualmente sotto processo a Brescia), e tutto questo non può essere più un caso. Palamara nel corso delle sue dichiarazioni spontanee ha evidenziato e fortemente contestato che tra le notizie di reato contenute nella richiesta di archiviazione sulla famigerata Loggia Ungheria “ci sono fatti che non mi sono stati contestati”.

Ma la coincidenza … vuole che che solo ciò che lo riguarda, tra gli stralci effettuati dalla procura di Perugia, è finito in mano ai soliti giornalisti di “fiducia”. Un’ennesima circostanza che fa pensare più ad uno strategia studiata a tavolino, che ad una pura coincidenza. Infatti non sarebbe la prima volta, perchè oltre alla fuga di notizie riservate sull’inchiesta a carico di Luca Palamara, anche le recenti vicende interne alla magistratura che hanno registrato la diffusione illecita dei verbali di Piero Amara, ex consulente legale esterno dell’ Eni, che ha svelato l’esistenza inventata, poi smentita dai fatti, di una nuova loggia segreta massonica sulla scia della P2.

Palamara show in aula: «Disegno unico dietro le fughe di notizie». Prima dell'inizio dell'udienza a Perugia, lungo conciliabolo tra l'ex consigliere del Csm, il procuratore capo Raffaele Cantone e il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Simona Musco su Il Dubbio il 15 luglio 2022.

Un lungo conciliabolo tra il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, l’aggiunto romano Paolo Ielo e Luca Palamara. È questo il siparietto che ha preceduto l’udienza di ieri nel processo a carico dell’ex consigliere del Csm, imputato davanti al tribunale del capoluogo umbro in due diversi processi, uno per corruzione, l’altro per rivelazione di segreto d’ufficio. Udienze dove a tenere banco, più che le accuse mosse a Palamara, sono state le fughe di notizie che hanno caratterizzato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla Loggia Ungheria. Fughe mirate, dal momento che a finire sui giornali, proprio come due anni fa, è stato solo il materiale relativo all’ex pm romano. Ed è stato questo, ieri, l’argomento di conversazione tra i tre magistrati.

La procura di Perugia, da un lato, è sicura di aver individuato la propria talpa: un dipendente amministrativo che avrebbe scaricato abusivamente la richiesta di archiviazione, che oggi si trova in mano a diversi giornalisti ma non allo stesso Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni e uomo chiave di quell’inchiesta. E se fino ad oggi nulla si è mosso in merito alla fuga di notizie che ha reso possibile la pubblicazione delle intercettazioni del Palamaragate, questa volta sembra respirarsi un’aria diversa.

Le indagini condotte da Perugia e da Firenze, procura alla quale l’ex presidente dell’Anm si è rivolto per scoprire quale manina consegni sistematicamente gli atti che lo riguardano a Corriere e Repubblica, questa volta potrebbero infatti portare a tracciare una linea tra quanto successo il 29 maggio 2019 – giorno della cena all’Hotel Champagne – e l’ultima discovery. L’idea della procura di Perugia sembra coincidere con quella di Palamara: dietro quel funzionario impiccione potrebbe esserci qualcuno. E le fughe di notizie, dunque, potrebbero non essere una casualità. «Questa fuga di notizie conferma che si è giocata un’altra partita, oltre a quella dell’indagine penale – commenta a fine udienza l’ex zar delle nomine -. È chiaro che se di mezzo ci sono sempre le stesse persone, le stesse situazioni, e se a finire ai giornali sono solo le pagine che mi riguardano vuol dire che qualcuno voleva qualcosa. E per capire come sono andate le cose faremo tutto il possibile, con tutte le forze».

L’idea è che qualcuno abbia utilizzato le vicende dell’Hotel Champagne per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, magari non con lo scopo di arrivare ad un processo, ma per far vedere come “funzionava” il Csm. Una sorta di golpe giudiziario, insomma, per mandare via quelli che erano stati legittimamente eletti e sovvertire il gioco di forze fino a quel momento in atto. Palamara ha espresso il suo punto di vista con chiarezza ieri in aula, quando il magistrato spogliato della sua toga ha preso la parola per fare dichiarazioni spontanee. «Se deve essere un processo deve esserlo nelle aule di giustizia – ha dichiarato -. Sono anni che leggo quello che mi riguarda sui giornali», comprese le intercettazioni fatte il 29 maggio del 2019, servite per «consentire ad un gruppo della magistratura di prendere il posto e governare per quattro anni il Csm. A quello servì la vicenda dell’Hotel Champagne».

L’ex pm è tornato sul trojan a intermittenza, spento alle 16.02 del 9 maggio, dopo aver annunciato ad Adele Attisani – coimputata nel processo per corruzione che avrebbe incontrato a cena l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Michele Prestipino per festeggiare il pensionamento del primo. «Se gli altri fanno errori nella foga di dovermi legare le mani poi non ci si deve lamentare che la gente voglia capire quello che c’è dietro», quindi commentato. Palamara ha parlato di «scandalo» e «veline» passate ai giornalisti con scopi diversi dalla necessità di informare. Ma il racconto che ne è venuto fuori, ha sottolineato, «è una buffonata», «una presa in giro fatta a migliaia di magistrati in Italia», motivo per cui ha deciso di raccontare tutto nei suoi libri. Compreso lo scopo dietro il trojan all’Hotel Champagne: «La mia iscrizione nel registro degli indagati è stata fatta per far saltare la nomina di Viola alla Procura di Roma», ha dichiarato.

Palamara ha anche parlato della sua frequentazione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, che ha patteggiato una condanna a un anno e sei mesi e che secondo la procura avrebbe pagato cene e viaggi all’ex pm per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri. «Il problema delle frequentazioni riguarda non solo il sottoscritto, ma anche Pignatone, gli esponenti del Pd, il mondo della finanza», ha dichiarato. Dopo una cena nel 2016 con il lobbista a Villa Paganini, ristorante nei pressi di corso Trieste a Roma, offerta dallo stesso Pignatone, «il mio procuratore capo mi disse che non poteva più frequentarlo e mi aveva messo in guardia, “evita”, mi disse. La nostra frequentazione, invece, è andata avanti perchè per me era un amico di famiglia: continuai a frequentarlo anche nel 2017». E fino a maggio di quell’anno, data dell’iscrizione del lobbista al registro degli indagati, «io frequento un incensurato, carte alla mano».

I due processi riprenderanno ora dopo l’estate: quello per corruzione tornerà in aula il 19 settembre, quando dovrebbe essere definita la costituzione delle parti civili, quello per violazione di segreto d’ufficio, nel quale è imputato insieme all’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava (quest’ultimo accusato anche di accesso abusivo al sistema informatico e abuso di ufficio) il 26 settembre. In aula, ieri, anche la richiesta, poi rigettata dal Tribunale, dei legali di Palamara di depositare, nell’ambito del processo per corruzione, le due denunce per fuga di notizie presentate alla procura di Firenze, una nel novembre 2020, l’altra l’ 11 luglio scorso. Ad opporsi il procuratore Cantone insieme ai sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani. 

Processo Palamara-Fava : non sono loro le “gole profonde” del Fatto Quotidiano e La Verità. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Novembre 2022

Proseguono le dirette del CORRIERE DEL GIORNO dal Tribunale di Perugia del processo in corso all’ ex presidente dell’ ANM Luca Palamara ed al magistrato Stefano Fava. Oggi vengono ascoltati i giornalisti Giacomo Amadori (La Verità) e Marco Lillo (Il Fatto Quotidiano), noti cronisti giudiziari, dal collegio giudicante presieduto dal giudice dr. Alberto Venoso. L’accusa è sostenuta dai pubblici ministeri Mario Formisano e Gemma Milani della Procura di Perugia guidata dal procuratore capo dr. Raffaele Cantone, già presidente dell’ Autorità Nazionale Anticorruzione

Nuovo colpo di arresto per la procura di Perugia in uno dei filoni processuali a carico dell’ex pm della procura di Roma, Luca Palamara che, insieme al magistrato Stefano Fava, rischia di finire a processo davanti al tribunale di Perugia. Ieri, infatti, in una delle ultime sedute dell’udienza preliminare, la procura di Perugia, coordinata dal procuratore capo Raffaele Cantone, ha escluso sia per Palamara sia per Fava, l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio, contestata a seguito della presunta fuga di notizia in favore di due giornalisti, rispettivamente del Fatto Quotidiano e de “La Verità”, circa un’indagine, con richiesta di misura cautelare, nei confronti dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara.

Non sono quindi Stefano Rocco Fava e Luca Palamara le gole profonde della notizia dell’esposto riportato nei due articoli pubblicati il 29 maggio del 2019 sul Fatto Quotidiano e su La Verità. A dichiararlo sono stati i giornalisti dei due quotidiani Marco Lillo e Giacomo Amadori che questa mattina hanno deposto in aula a Perugia come testi nel processo sulle rivelazioni che vedeva imputati l’ex magistrato Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice civile a Latina. Entrambi i giornalisti hanno negato di aver ricevuto informazioni dai due magistrati e si sono avvalsi del segreto professionale non rivelando le loro fonti.

”Un invito” a rimuovere il segreto professionale ed alla rivelazione delle fonti era arrivato dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani della procura di Perugia ma il giudice Alberto Avenoso dopo una breve camera di consiglio collegiale ha ritenuto che in questo caso non ci fossero gli estremi di legge per procedere, motivando la decisione sul concetto giuridico che “il segreto giornalistico è uno dei principi

cardine del nostro ordinamento” e che “in questo caso non ci sono i margini per la rivelazione delle fonti, anche perché i testi hanno già riferito che né Fava né Palamara sono le loro fonti”.

L’articolo sull’esposto che riguardava l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone ”è nato in modo abbastanza casuale – ha spiegato il vicedirettore della Verità Giacomo Amadori rispondendo alle domande dei pm – non sono un giornalista di giudiziaria ma investigativo, raramente vado in procura. In quel periodo ero interessato alla nomina del nuovo procuratore di Roma, c’era stato un attacco alla possibile nomina di un candidato di Magistratura Indipendente e ho ritenuto interessante intervistare il segretario di Mi Antonello Racanelli così il 24 maggio sono andato in procura ad intervistarlo”.

‘‘Arrivato in procura ho parlato con alcuni colleghi e con dei magistrati ed ho appreso la notizia – ha riferito Amadori – che c’era un esposto che era stato presentato da un magistrato progressista che non conoscevo, Fava, contro i suoi superiori’. Ho impiegato alcuni giorni a scrivere il pezzo. Ha anche detto di aver parlato in quei giorni un paio di volte anche con il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo ma che questo ultimo si irritò alle sue domande “su questo esposto del dottor Fava“.

Amadori ha quindi spiegato di aver conosciuto Fava sempre in quei giorni, di aver bussato alla sua porta ma di non avere avuto molta attenzione da parte sua. “Ho bussato e mi sono presentato – ha spiegato il vice direttore de La Verità – ma non mi ha voluto né confermare né smentire la vicenda dell’esposto. La mia fonte non è Stefano Rocco Fava e non è Luca Palamara io non li conoscevo e non avevo rapporti con loro” ha quindi ribadito il giornalista nella sua testimonianza in aula.

E’ durata pochi minuti la testimonianza del giornalista Marco Lillo del Fatto Quotidiano, che si è avvalso anche lui al segreto professionale riferendo di non aver “avuto la notizia dell’esistenza dell’esposto dal dottor Fava “ e di non aver “avuto rapporti con Palamara in merito a questo articolo”. “Palamara è una persona con la quale ho avuto rarissimi rapporti” ha detto Lillo.

“Le odierne dichiarazioni dei giornalisti mettono una pietra tombale su una accusa che sin dall’inizio non è mai stata in piedi”: è quanto affermato dall’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni, difende l’ex magistrato Luca Palamara, al termine dell’udienza di oggi a Perugia nel procedimento per rivelazioni che vede imputati Palamara e Stefano Rocco Fava. “Si faccia ora chiarezza sino in fondo su questa storia – ha detto Buratti – e soprattutto su chi all’interno del Csm ha veicolato nel maggio del 2019 all’esterno intercettazioni segrete non solo per infangare la vita privata e la storia professionale del dottor Palamara ma soprattutto di tanti magistrati perbene estranei a questa vicenda e che per tali ragioni sono stati sacrificati sotto l’aspetto disciplinare”.

Redazione CdG 1947

Processo a Palamara e Fava, i cronisti: non furono loro due le nostre fonti. Giacomo Amadori de La Verità e Marco Lillo del Fatto Quotidiano hanno dichiarato che i due imputati non hanno rivelato la notizia circa l'esposto presentato nel 2019 contro l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 novembre 2022.

Non sono Luca Palamara e Stefano Rocco Fava le fonti degli articoli di stampa del 29 maggio 2019, per i quali i due sono a processo per rivelazione di segreto. A dichiararlo ieri in aula a Perugia sono stati i giornalisti Giacomo Amadori de La Verità e Marco Lillo de Il Fatto Quotidiano, autori di articoli che riguardavano la notizia dell’esposto di Fava, all’epoca pm a Roma, nei confronti dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone. Sulle fonti entrambi i giornalisti si sono appellati al segreto professionale. «Per scrivere questo articolo – ha spiegato Amadori – ho sentito varie fonti». Il giornalista ha dichiarato di aver conosciuto Fava nei giorni in cui ha scritto l’articolo, per avere conferma dell’informazione che aveva ricevuto. «Quando gli ho fatto la domanda sull’esposto non ha smentito né confermato. Ricordo solo che è stato un colloquio stringato».

L’articolo in questione, ha ricostruito Amadori, «nasce in modo casuale: c’era stato un attacco alla possibile nomina di un candidato di Magistratura Indipendente e ho ritenuto interessante intervistare il segretario di Mi Antonello Racanelli così il 24 maggio sono andato in procura ad intervistarlo. Arrivato in Procura ho parlato con alcuni giornalisti e magistrati e ho appreso la notizia che c’era un esposto che era stato presentato da un magistrato progressista che non conoscevo, Fava, contro i suoi superiori», ha aggiunto Amadori, come riporta l’Agi. Da parte sua, Marco Lillo ha riferito in aula: «Per quell’articolo ho parlato con più di una persona ma non ho avuto la notizia dell’esistenza dell’esposto da Fava, né ho consultato Palamara per quell’articolo».

«Le dichiarazioni dei giornalisti mettono una pietra tombale su una accusa che sin dall’inizio non è mai stata in piedi». A dirlo al termine ieri dell’udienza a Perugia è stato l’avvocato romano Benedetto Buratti che insieme al collega Roberto Rampioni difende Luca Palamara nel procedimento per rivelazione del segreto. «Si faccia ora chiarezza sino in fondo su questa storia – ha poi aggiunto Buratti – e soprattutto su chi all’interno del Csm ha veicolato nel maggio del 2019 all’esterno intercettazioni segrete non solo per infangare la vita privata e la storia professionale di Palamara e di tanti magistrati perbene estranei a questa vicenda e che per tali ragioni sono stati sacrificati sotto l’aspetto disciplinare».

Con Palamara è imputato anche il giudice Stefano Rocco Fava. Secondo l’iniziale accusa, Palamara aveva “istigato” Fava a rivelare ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative ad un procedimento penale aperto nei confronti dell’avvocato Piero Amara. Nei confronti di quest’ultimo Fava, all’epoca pm presso il dipartimento reati contro la Pa di Roma, aveva richiesto la custodia cautelare in carcere, poi non vistata dal procuratore Giuseppe Pignatone. Gli articoli, pubblicati il 29 maggio 2019, avrebbero allora avuto lo scopo di mettere in cattiva luce i vertici della Procura della Capitale segnalando dei possibili conflitti d’interesse. I giornalisti che scrissero i pezzi, pur potendo avvalersi del segreto professionale, interrogati durante le indagini negarono che le loro fonti fossero i due ex pm.

Anzi, uno dei giornalisti affermò di non aver mai conosciuto Fava e di aver visto Palamara la prima volta il giorno che era uscito il pezzo. Ricostruzione confermata anche ieri. I pm umbri ieri hanno chiesto di sapere quali fossero state le fonti dei giornalisti. Il collegio, dopo una breve camera di consiglio, ha respinto l’istanza.

Dietro la talpa uno schema: chi vuole colpire Luca Palamara? La procura di Perugia è convinta che a passare le notizie ai giornali sia un dipendente amministrativo: i destinatari delle missive sono gli stessi del 2020. Simona Musco su Il Dubbio il 14 luglio 2022.

La procura di Perugia è convinta di aver trovato la sua talpa: a inviare ai giornali la richiesta di archiviazione per l’indagine sulla Loggia Ungheria sarebbe stato un dipendente amministrativo dell’ufficio, che secondo le indagini avrebbe effettuato numerosi accessi abusivi sul fascicolo informatico. In meno di 48 ore, dunque, il responsabile sarebbe venuto a galla: gli uomini della polizia postale e i carabinieri hanno infatti scoperto che fra gli atti scaricati illegittimamente ci sarebbe anche la richiesta di archiviazione, motivo per cui la procura ipotizza ora a carico del dipendente il reato di accesso abusivo a sistemi informatici pubblici e quello di rivelazione di segreto d’ufficio.

«Faremo tutto il possibile», aveva promesso il procuratore Raffaele Cantone e così sembra essere stato. Ma l’idea che la manina che ha fatto finire nuovamente sui giornali Luca Palamara sia quella di un semplice funzionario non convince del tutto l’ex presidente dell’Anm. Che anzi oggi depositerà il suo esposto in procura a Firenze, competente sui magistrati perugini, dove Palamara si era presentato già due anni fa, quando gli stessi giornali oggi in possesso delle notizie sulla nuova indagine che lo riguarda pubblicarono le intercettazioni sullo scandalo dell’Hotel Champagne. Tutto fa dunque pensare ad un disegno unico, finalizzato a colpire l’ex consigliere del Csm, depositario, forse, di troppi segreti scottanti sulle toghe italiane. Segreti in parte spiattellati nei suoi due libri, in parte ancora taciuti e forse tanto grandi da poter destabilizzare l’equilibrio già fragile del potere giudiziario.

L’idea è che il silenzio che finora ha avvolto la fuga di notizie del 2020 non possa più essere perpetuato. In primo luogo perché il postino interno alla procura di Perugia ha sempre gli stessi interlocutori – e ciò non può essere più un caso -, in secondo luogo perché tra le notizie di reato contenute nella richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria, fa notare Palamara, «ci sono fatti che non mi sono stati contestati». E solo ciò che lo riguarda, tra gli stralci effettuati dalla procura di Perugia, è stato dato in pasto alla stampa. Tutto farebbe dunque pensare ad uno schema. E non si tratterebbe della prima volta: oltre alla fuga di notizie sul Palamaragate, infatti, la storia recente della magistratura ha registrato anche la diffusione illecita dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni che ha svelato l’esistenza poi smentita – della nuova P2.

Verbali che sono serviti ad un duplice scopo: da un lato destabilizzare nuovamente il Csm, dall’altro mettere in pubblica piazza i nomi altisonanti di presunti affiliati, di fatto inquinando le indagini e adombrando sospetti su uomini dello Stato. Ora, secondo l’ipotesi di Palamara, Amara avrebbe un nuovo “compito”: tenere in piedi i processi – a suo dire traballanti – in corso a Perugia contro di lui. Dove oggi sono attese due diverse udienze: quella sulla rivelazione di segreto d’ufficio che vede l’ex pm imputato assieme a Stefano Rocco Fava, oggi giudice civile a Latina, e quella del processo che lo vede imputato per corruzione.

In aula Palamara e i suoi legali decideranno come comportarsi: una delle possibilità in ballo è che si chieda la remissione del processo per via di una situazione ambientale ormai incompatibile con il sereno svolgimento del processo. Anche perché, come evidenziato dallo stesso Cantone, «la procura di Perugia è parte lesa» nella nuova fuga di notizie. Una situazione che, a parere di Palamara, rischia di condizionare tutto quanto.

La nuova contestazione – relativa al presunto tentativo di salvare l’ex pm siracusano Maurizio Musco – non preoccupa infatti più di tanto l’ex zar delle nomine: «Si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/ 18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno aveva dichiarato -. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema».

Loggia Ungheria, Palamara: «Ci saranno altri colpi di scena». Il Dubbio il 9 luglio 2022.  

Secondo l'ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell'Anm «si stanno aprendo molti procedimenti per calunnia»

«Per poter commentare compiutamente le determinazioni della Procura di Perugia bisognerebbe leggere gli atti». È un Luca Palamara che come al solito non le manda a dire quello che commenta la richiesta di archiviazione della procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria, dopo i recenti sviluppi.

«Contrariamente a quanto emerge dalla lettura di alcuni quotidiani di parte, i cittadini hanno il diritto di essere correttamente informati e al momento posso solo apprezzare il carattere tecnico del comunicato stampa, rilevando come Amara sia stato definito inattendibile – ha detto Palamara – Mi auguro che si prosegua nell’accertamento dei motivi che hanno spinto Amara a rendere tali dichiarazioni».

Secondo l’ex pm questo è «necessario per un dovere di verità e per capire perché, ad esempio, in una mail del 24 aprile 2020 indirizzata dal Procuratore aggiunto Laura Pedio a Storari si parla di un atteggiamento collaborativo rilevante nei contenuti da parte di Piero Amara: il Csm o l’Anm sono interessati a capire cosa accadde o forse è materia di una commissione di inchiesta?».

L’ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell’Anm spiega poi che «l’esistenza di una associazione non ha, solo per questo, rilevanza penale, quello che pare essere stato escluso dalle indagini è la sussistenza del reato previsto dalla legge Anselmi, mentre appare chiaro che non tutta l’inchiesta sia stata destinata all’archiviazione».

Non solo. «Sarebbe poi interessante comprendere se il filone fiorentino dell’inchiesta sia giunto al termine, anche se dal comunicato si evince un coordinamento, anche prossimo, con la Procura di Milano che però sicuramente era coinvolta nella vicenda in questione – continua Palamara – È bene ricordare che a Firenze è stata inoltrata la posizione dell’ex procuratore di Perugia Luigi De Ficchy: certamente le fughe di notizie hanno danneggiato l’indagine ma ciò anche nel senso che quelle persone che, direttamente od indirettamente, sono state chiamate in causa rimarranno comunque con lo stigma senza che le loro posizioni, per scelta della Procura di Perugia, siano sottoposte al vaglio del Gip».

Infine, dà una propria previsione dei fatti. «Per il resto, come ho scritto nel libro “Lobby e logge”, ciò che chiaramente non è mai esistito è che questa Loggia abbia inciso sul meccanismo degli incarichi direttivi e tanto meno sulla nomina del Procuratore di Milano nel 2016 – ragiona Palamara – In quel caso la nomina di Francesco Greco fu il frutto di un accordo tra le correnti e la politica». Di una cosa l’ex pm appare certo. «Il capitolo Ungheria non è affatto finito – conclude . Si stanno aprendo molti procedimenti per calunnia e sicuramente ci saranno altri colpi di scena». 

Richiesta l'archiviazione. Inchiesta su Loggia Ungheria insabbiata, se tramano i magistrati non è reato: Cantone chiede archiviazione. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Luglio 2022. 

Il “condizionamento” dell’organo di autogoverno delle toghe per far nominare “vertici della magistratura” del Paese che fossero di gradimento c’è stato. E c’è stato anche il “condizionamento” per far nominare i “vertici di enti, istituzioni e società pubbliche”. Però, per Raffaele Cantone, si è trattato di risultati “ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati”, piuttosto che la conseguenza dell’attività di una loggia segreta. Il procuratore di Perugia, ex capo dell’Anac voluto da Matteo Renzi quando il Rottamatore viveva una luna di miele con i magistrati al punto da volere Nicola Gratteri ministro della Giustizia, ha messo dunque una pietra tombale sulla loggia Ungheria, chiedendo ieri al gip di archiviare il fascicolo.

L’esistenza di questa associazione para massonica finalizzata a pilotare le nomine dei magistrati, e quindi ad aggiustare i processi, era stata rivelata dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara durante una serie di interrogatori davanti ai pm di Milano verso la fine del 2019. Quello che accadde poi è noto. Il pm Paolo Storari, titolare del fascicolo, vedendo che le indagini non andavano avanti, si era rivolto a Piercamillo Davigo. Quest’ultimo, ricevuti i verbali delle dichiarazioni di Amara, aveva informato a fine primavera del 2020 mezzo Csm, ad iniziare dal vice presidente David Ermini, finendo così indagato per rivelazione del segreto. Il fascicolo sarà trasmesso da Milano a Perugia a gennaio del 2021. Ma già ad ottobre dell’anno precedente, a seguito di un interrogatorio congiunto di Amara, i magistrati avevano stabilito che la competenza fosse di Perugia, essendo coinvolte diverse toghe della Capitale.

Vengono allora iscritti per la violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete tre persone, fra cui Amara. Nessuno dei 90 adepti tirati in ballo dall’avvocato siciliano riceve invece un avviso di garanzia. Il motivo lo spiega lo stesso Cantone, parlando di “elementi labili per l’iscrizione, non una garanzia ma un inutile ed ingiustificato stigma”. Nella primavera del 2021 la fuga di notizie con i verbali che finiscono sui giornali per settimane compromette le indagini che avrebbero avuto bisogno di “massima riservatezza e segretezza”. “Più di un soggetto si è avvalso della legittima facoltà di non rispondere, motivando la scelta con il grave strepitus fori”, ricorda Cantone.

“Il complesso delle investigazioni ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni di Amara. Si tratta di chiamate in correità dirette o de relato”, continua Cantone, sottolineando comunque che non c’è una “inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante”.

Fatta questa premessa, per il procuratore di Perugia “l’esistenza dell’associazione non è adeguatamente riscontrata”, non essendo emersi elementi “neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e di un suo socio (Giuseppe Calafiore, ndr)”. Quest’ultimo, puntualizza Cantone, successivamente si avvarrà della facoltà di non rispondere. Le modalità del reclutamento sembrano essere chiare, in quanto i “soggetti legati con Amara erano stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, poi defunto (il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, ndr)”. Non tutti coloro a cui Tinebra aveva chiesto di aderire avevano poi ritenuto di farlo. Per ognuno degli episodi narrati verranno fatti accertamenti alla ricerca di eventuali risconti per attendibilità di Amara e sintomatici dell’esistenza della loggia segreta. Ed ecco, quindi, il passaggio chiave: “Gli episodi raccontati di Amara, parziale riscontro, non sono indicativi dell’esistenza di un’associazione segreta: interferenze o tentativi di condizionamento di nomine di vertice della magistratura, tentativi compiuti o incompiuti di interferire su nomine di vertici di enti, istituzioni e società pubbliche, che pure possono ritenersi avvenute, sono risultati ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una loggia”.

Amara, peraltro, negli ultimi interrogatori, avrebbe modificato alcune delle sue affermazioni iniziali, “sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova loggia P2, dichiarando che era nata con finalità nobili e che non tutti gli adepti sarebbero stati a conoscenza delle interferenze effettuate dall’associazione su organi pubblici o costituzionali”. Cantone ricorda anche che nel 2015 Amara aveva tentato di creare una organizzazione parallela e gli aveva fornito alcuni elementi documentati, non prodotti negli interrogatori a Milano. In conseguenza di tutto ciò, il procuratore di Perugia, in attesa delle decisioni del gip, ha effettuato stralci per poter effettuare indagini anche ad altre Procure. Alla Procura di Milano verrà trasmessa l’archiviazione per valutare le numerose denunce per calunnia presentate dagli ex adepti che erano stati tirati in ballo da Amara. A tal proposito è stata già fissata una riunione di coordinamento investigativo tra Perugia e Milano. E tale archiviazione, infine, sarà trasmessa al procuratore generale della Corte di cassazione per l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti.

Al momento, però, nulla verrà inviato al Csm. Fine della storia. Paolo Comi

Inchiesta Loggia Ungheria, la procura di Perugia chiede l'archiviazione. Guliano Foschini,  Fabio Tonacci su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

L'indagine partita dalle rivelazioni dell'avvocato Piero Amara sull'esistenza di una presunta associazione segreta in grado di pilotare le nomine della magistratura: "Non ci sono elementi"

La Loggia Ungheria era un'invenzione dell'avvocato Piero Amara. Ne è convinta la procura di Perugia che ha chiesto l'archiviazione per l'ipotesi di associazione segreta. "Si è concluso - spiega il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone - nel senso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata. Sull'esistenza dell'associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l'esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell'esistenza dell'associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato".

Alcuni soggetti legati da stretti rapporti con Amara hanno riferito ai pm di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva loro chiesto di aderire alla Loggia ma loro non avevano ritenuto di farlo. "Si tratta di affermazioni che non consentono in alcun modo di essere considerate un riscontro all’esistenza di un’associazione - spiega la procura di Perugia - che oltre a dover essere segreta deve avere una serie di caratteristiche di cui questi soggetti nulla sono stato in grado di riferire".

Archiviata anche l'ipotesi di un'associazione per delinquere perché, scrive ancora Cantone, "si ritiene che non sia stata comunque provata l'esistenza di un nucleo organizzativo che potesse far configurare" il reato. Tutto quello che resta delle dichiarazioni di Amara è qualche singolo reato trasmesso per competenza a diverse procure. Oltre a possibili profili disciplinari per alcuni magistrati. "Con la Procura di Milano, con cui nel corso dei mesi si è mantenuto un costante e proficuo coordinamento investigativo, si è già fissata una prossima riunione di coordinamento sulle ulteriori indagini connesse da svolgere", conclude Cantone.

Cantone chiede di archiviare l’inchiesta sulla loggia Ungheria. EMILIANO FITTIPALDI E GIULIA MERLO su Il Domani l'08 luglio 2022

Sull'esistenza dell'associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l'esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato». Tradotto: sono mancati adeguati riscontri probatori dell’esistenza della loggia.

Alcune dichiarazioni di Amara sono state stralciate e mandate ad altre procure per ulteriori indagini. Milano indagherà per calunnia ai danni di Severino, Vietti e altri ufficiali e magistrati.

Altre procure indagheranno sulle dichiarazioni in merito ai rapporti con Verdini e Blue Power. Cantone ha anche disposto che il provvedimento venga inviato anche al procuratore generale della Cassazione, per competenza in caso di procedimenti disciplinari a carico di magistrati. 

EMILIANO FITTIPALDI E GIULIA MERLO

Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La loggia Ungheria non esiste ma c’è del vero nelle parole di Amara. GIULIA MERLO su Il Domani l'08 luglio 2022

Cari lettori,

in questo caldo estivo che precede la chiusura dei tribunali, torna ad infiammare il dibattito la loggia Ungheria.

Oggi la procura di Perugia ha fatto istanza di archiviazione del procedimento per associazione segreta, ritenendo che le dichiarazioni dell’ex legale esterno di Eni, Pietro Amara, non siano riscontrabili.

Tuttavia, a due anni da quando la vicenda è diventata pubblica, il caso non è chiuso qui: Perugia ha stralciato per ulteriori indagini alcune dichiarazioni di Amara, su cui si continuerà a lavorare.

La newsletter di oggi è tutta dedicata a questo, con le novità di oggi provenienti da Perugia e anche una ricostruzione cronologica dei fatti per aiutare a rimettere insieme i pezzi di un puzzle molto complicato. Sarà utile tenerla a mente, anche per seguire gli ulteriori sviluppi che sicuramente ci saranno la settimana prossima. L’istanza di archiviazione infatti è molto corposa e il Csm potrebbe chiedere di acquisirla per verificare se contenga notizie riscontrate che possano avere rilevanza disciplinare nei confronti di alcuni magistrati.

ERMINI PARLA AL PROCESSO A DAVIGO

Il vicepresidente del Csm è stato ascoltato come testimone nel processo per rivelazione di segreto d’ufficio a carico dell’ex membro del Csm, Piercamillo Davigo, e ha raccontato la sua versione dei fatti in merito alla consegna dei verbali e al fatto di averli distrutti.

Ermini ha confermato di aver informato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ma non ha divulgato il contenuto della conversazione. Ha anche spiegato di aver distrutto i verbali perchè riteneva che la loro acquisizione da fonte incerta e in via informale non potesse dare adito a nessun procedimento formale. Inoltre, era stato informato da Davigo che il pg di Cassazione, Giovanni Salvi, era stato informato dei fatti e si sarebbe attivato presso la procura di Milano.

La prossima udienza si svolgerà il 13 di ottobre e verranno sentiti altri membri del Csm e la ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto.

La loggia Ungheria? Bufala Cantone vuole chiudere. Luca Fazzo il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Procura di Perugia chiede l'archiviazione: "Riscontri insufficienti sulle parole di Amara"

È colpa della fuga di notizie, con i verbali del «pentito» Piero Amara spediti a casa ai giornalisti e arrivati alla fine nelle mani di Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura, se non sapremo mai se la loggia Ungheria esisteva o non esisteva, se fosse una innocua rete di affari o una insidia per le istituzioni. La Procura di Perugia, che da un anno e mezzo indagava sulla fantomatica loggia, ieri si arrende, e chiede l'archiviazione dell'inchiesta. I nove indagati per associazione segreta - tra cui lo stesso Amara, ma anche l'ex parlamentare Denis Verdini e il faccendiere Luigi Bisignani - vanno verso il proscioglimento. Per il procuratore di Perugia non vuol dire che Ungheria non esistesse, e che Amara si fosse inventato tutto: anzi, si parla di «non poche conferme al suo narrato», e di «alcuni soggetti, tra l'altro pure legati da stretti rapporti con il medesimo Amara, che hanno riferito di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva chiesto loro di aderire, ma non avevano ritenuto di farlo». Ma nei quattordici faldoni dell'inchiesta, dice alla fine Cantone, non è approdato niente che consentisse di chiudere il cerchio, e nemmeno spunti utili per andare ancora avanti a scavare: anche perché dalla primavera del 2021 i verbali di Amara diventano uno dopo l'altro di pubblico dominio: e «quanto avvenuto - scrive Cantone - ha certamente inciso sulle attività investigative in corso che avrebbero al contrario, in relazione alla tipologia di reato da accertare, richiesto riservatezza e segretezza». Alla fine, l'esistenza della loggia secondo Cantone è «non adeguatamente riscontrata».

Politici, magistrati, ufficiali delle forze dell'ordine, imprenditori. Nell'elenco della loggia, così come raccontata da Amara, c'erano almeno novanta nomi: è la lista che Amara dice di avere visto in mano all'avvocato Giuseppe Calafiore. Ma quella lista alla Procura di Perugia, scrive Cantone, non è mai arrivata: «pur richiesta a quest'ultimo più volte, non è mai stata consegnata». Il fascicolo arriva da Perugia a Milano con tre indagati (tra cui Amara e Calafiore), la Procura di Perugia iscrive altri sei nomi: scelti, spiega Cantone, solo tra quelli «la cui audizione veniva ritenuta indispensabile in quanto avevano comunque intrattenuto rapporti con Amara». Per tutti gli altri citati dal «pentito», «l'iscrizione avrebbe rappresentato non una garanzia per l'indagato ma un inutile e ingiustificato stigma».

Sulla reale natura e pericolosità di «Ungheria», ieri si apprende che lo stesso Amara avrebbe fatto negli ultimi interrogatori una delle sue solite giravolte, «sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova loggia P2, dichiarando anzi che essa era nata con finalità nobili». «Ha aggiunto persino che fin dal 2015 egli aveva tentato di creare un'altra organizzazione di cui ha fornito anche alcuni elementi documentali»: e questa fantomatica Ungheria-bis è l'ultima, misteriosa comparsa del gigantesco intrigo che ha lacerato in questi due anni la magistratura italiana.

Sarà ora il giudice per le indagini preliminari di Perugia a decidere se accogliere la richiesta di Cantone mandando tutto in soffitta, o ordinare nuove indagini. Di spunti interessanti ce ne sarebbero; la stessa Procura umbra dice che «alcuni episodi raccontati da Amara hanno ricevuto anche se parziale riscontro», e non sono cose da poco: «interferenze, tentativi di condizionamento di nomine di vertici della giurisdizione, di enti, istituzioni e società pubbliche che pure possono ritenersi avvenuti». Tutti affari che però «non sono risultati affatto indicativi dell'esistenza di una associazione segreta», ma dei traffici di Amara e dei suoi accoliti.

Non tutto è chiuso, anche se la richiesta di Cantone dovesse venire accolta: inchieste su singoli fatti vengono smistate ad altre Procure, il fascicolo principale torna a Milano perché proceda a carico di Amara per calunnia ed autocalunnia. E le 167 pagine vengono trasmesse anche alla Cassazione perché valuti gli illeciti disciplinari che una serie di magistrati che vi compaiono avrebbero commesso. Ungheria o non Ungheria. 

"Nessun riscontro". Chiesta l'archiviazione per il caso Amara. Marco Leardi l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

La procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ha chiesto l'archiviazione sul caso della cosiddetta Loggia Ungheria, sollevato dalle rivelazioni dell'avvocato Amara. "Emerse contraddizioni"

"Propalazioni non riscontrate" in parte o integralmente. Così, la procura di Perugia ha chiesto al gip l'archiviazione per il procedimento sulla cosiddetta Loggia Ungheria, un presunto gruppo segreto formato da politici, magistrati e personaggi pubblici. Il caso, nello specifico, era partito dai verbali dell'ex legale esterno di Eni, Piero Amara, il quale si era detto sicuro dell'attività della suddetta associazione. Secondo i magistrati guidati dal procuratore Raffale Cantone, tuttavia, non è risultata "adeguatamente riscontrata" l'esistenza della presunta loggia.

Stando a quanto denunciato da Amara, la Loggia Ungheria avrebbe agito in violazione della Legge Anselmi, norma che punisce le associazioni segrete impegnate a interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. Nella richiesta di archiviazione si fa specifica menzione per ognuno degli episodi narrati da Amara, degli accertamenti fatti e degli eventuali riscontri. Anche e soprattutto in funzione di verificare sia l'attendibilità dell'avvocato sia se gli episodi raccontati potessero essere essi stessi "elementi sintomatici" dell'esistenza dell'associazione Ungheria. Ebbene, alla luce di quelle verifiche non sarebbero stati ravvisati elementi concreti per proseguire il caso giudiziario.

Alla valutazione di attendibilità di Amara, si legge nel comunicato della Procura di Perugia, è stato in particolare dedicato un intero paragrafo nel quale sono state esaminate "le tante aporie" e le "contraddizioni emerse". "Sull'esistenza dell'associazione non sono emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato", ha inoltre spiegato il procuratore capo di Perugia.

Nella nota della procura viene anche ricostruita la vicenda dei verbali resi dall'avvocato, che in passato aveva patteggiato una condanna per corruzione in atti giudiziari, agli inquirenti milanesi. "In particolare già nel novembre 2020 era emersa la certezza che i verbali di interrogatorio di Amara fossero nella disponibilità di soggetti estranei al processo, tanto da essere trasmessi integralmente a un giornalista, e tale propalazione è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con l’invio di una parte dei verbali di dichiarazioni ad altro giornalista e ad un consigliere Csm che ne aveva fatto anche pubblica menzione in un intervento al Plenum dell’organo di autogoverno", si legge. Il caso dei verbali aveva scosso la procura di Milano e portato a processo il pm Paolo Storari (assolto in abbreviato) e l'ex di Mani Pulite Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto. 

L'associazione eversiva sarebbe un bluff. La Loggia Ungheria non esiste, per Cantone è una invenzione di Amara: la procura chiede l’archiviazione. Fabio Calcagni su Il Riformista l'8 Luglio 2022

La Loggia Ungheria era una invenzione di Piero Amara, l’ex avvocato esterno di Eni? È la tesi della Procura di Perugia, che ha chiesto l’archiviazione del procedimento aperto dopo le rivelazioni fatte da Amara nei suoi verbali.

A chiedere l’archiviazione è stato il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, in un maxi documento di 167 pagine accompagnato dall’intero fascicolo, contenuto in quasi 15 faldoni di documenti.

Nessuna associazione segreta dunque, secondo la Procura umbra, avrebbe agito tra le altre cose per manovrare le nomine in magistratura e violato così la legge Anselmi che punisce le associazioni segrete che “svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali“.

Per Cantone la circostanza “non è adeguatamente riscontrata. Sull’esistenza dell’associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato”, ha spiegato il procuratore capo di Perugia.

Il complesso delle indagini condotte dalla procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria “ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell’avvocato” Piero Amara, di fatto descritto come una sorta di archiviazione come una sorta di millantatore seriale. Che per l’ufficio guidato  Cantone “tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo, come da lui riferito“.

Archiviata anche l’ipotesi di un’associazione delinquere perché, scrive ancora Cantone nel chiedere l’archiviazione del procedimento, “si ritiene che non sia stata comunque provata l’esistenza di un nucleo organizzativo che potesse far configurare” il reato.

Delle dichiarazioni di Amara sulla loggia Ungheria restano alcune indagini connesse da svolgere, singoli reati trasmessi per competenza ad altre procure, oltre a possibili profili disciplinari per alcuni magistrati.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

L'associazione eversiva sarebbe un bluff. La Loggia Ungheria non esiste, per Cantone è una invenzione di Amara: la procura chiede l’archiviazione. Fabio Calcagni su Il Riformista l'8 Luglio 2022

La Loggia Ungheria era una invenzione di Piero Amara, l’ex avvocato esterno di Eni? È la tesi della Procura di Perugia, che ha chiesto l’archiviazione del procedimento aperto dopo le rivelazioni fatte da Amara nei suoi verbali.

A chiedere l’archiviazione è stato il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, in un maxi documento di 167 pagine accompagnato dall’intero fascicolo, contenuto in quasi 15 faldoni di documenti.

Nessuna associazione segreta dunque, secondo la Procura umbra, avrebbe agito tra le altre cose per manovrare le nomine in magistratura e violato così la legge Anselmi che punisce le associazioni segrete che “svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali“.

Per Cantone la circostanza “non è adeguatamente riscontrata. Sull’esistenza dell’associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato”, ha spiegato il procuratore capo di Perugia.

Il complesso delle indagini condotte dalla procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria “ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell’avvocato” Piero Amara, di fatto descritto come una sorta di archiviazione come una sorta di millantatore seriale. Che per l’ufficio guidato  Cantone “tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo, come da lui riferito“.

Archiviata anche l’ipotesi di un’associazione delinquere perché, scrive ancora Cantone nel chiedere l’archiviazione del procedimento, “si ritiene che non sia stata comunque provata l’esistenza di un nucleo organizzativo che potesse far configurare” il reato.

Delle dichiarazioni di Amara sulla loggia Ungheria restano alcune indagini connesse da svolgere, singoli reati trasmessi per competenza ad altre procure, oltre a possibili profili disciplinari per alcuni magistrati.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Ermini su Amara: "Parlai con Mattarella e lui restò in silenzio". Luca Fazzo l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il numero 2 del Csm s'incarta al processo Davigo sui verbali. E sostiene: "Li buttai"

Due scene surreali, una dopo l'altra, vengono evocate ieri nell'aula del processo a Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani Pulite incriminato per avere ricevuto e poi divulgato i verbali supersegreti del caso Eni. A riferire entrambe le scene è David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a testimoniare in aula. Scena 1. Davigo che va a trovare Ermini due volte, la prima gli racconta il contenuto dei verbali, la seconda glieli consegna in copia, Ermini inorridisce e appena Davigo esce li strappa e li butta. Seconda scena: Ermini che va a raccontare tutto al presidente della Repubblica, e Sergio Mattarella non dice né ah né bah. Muto. Nessun commento. Anche se in quei verbali ci sono le dichiarazioni «pentito» Piero Amara sulla terribile loggia Ungheria che infesterebbe politica, forze armate e lo stesso Csm.

Sarà tutto vero, eh. Anche se, nella ricostruzione che fa Ermini, non tutto fila. I verbali «erano irricevibili», dice, «e li distrussi perché mi volevo liberare di una cosa che non sapevo se era piena di calunnie. La mia riflessione fu che se queste cose fossero uscite dalla mia stanza, avrei fatto un danno incalcolabile». Allora perché accetta di riceverli da Davigo, perché non dice al Dottor Sottile «sei matto, riprenditi questa roba?». Mistero. Perché non gli chiede dove li ha presi? Altro mistero. Però, su suggerimento dello stesso Davigo, Ermini corre al Quirinale: «Davigo era molto deciso sul fatto che io dovessi avvisare il Presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati degli appartenenti alle forze di polizia, finanza e carabinieri, alcuni in servizio altri non più». E lì arriva il clou, con la scena muta di Sergio Mattarella.

Più passa il tempo e più il caso dei verbali di Amara diventa un pasticcio politico-istituzionale. Ermini, che come vicepresidente è di fatto il rappresentante di Mattarella nel Csm, diventa il terminale dello scontro furibondo interno alla Procura di Milano proprio sulla gestione dei verbali sulla Loggia. Ieri appare quasi frastornato, incapace di dare un senso logico alle sue mosse di quei giorni. E infatti nel giro di pochi minuti su di lui si abbatte il commento di Matteo Renzi, che lo volle al Csm ma poi se ne è amaramente pentito: «Oggi Ermini conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro Il Mostro. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l'ha capito». Poche settimane fa, presentando il libro, Renzi aveva detto: «Il vicepresidente del Csm che riceve una prova del reato e la distrugge! Ci sono cose che insegnano al primo anno di serie tv: non si distrugge la prova».

Per Davigo, comunque, la testimonianza di Ermini è un colpo basso: perché il vicepresidente del Csm, per spiegare il proprio operato, dice che il comportamento del Dottor Sottile era del tutto irrituale, «procedure informali da noi al Consiglio non si possono fare, tutto quello che arriva dev'essere formalizzato, non esiste nulla di informale». Illegittimo Davigo quando riceve informalmente i verbali dal pm milanese Paolo Storari, illegittimo quando li rifila a Ermini a tu per tu. Davigo ieri se ne rende conto subito, chiede la parola, spiega a lungo al giudice che mandarli al Csm per vie ufficiali proprio non si poteva, neanche al ristrettissimo comitato di presidenza (Mattarella, Ermini e i vertici della Cassazione) perché «il Comitato di presidenza non si fidava della struttura amministrativa del consiglio e che il plico venisse visto solo dai consiglieri». Un bel ritratto di un Csm colabrodo, dove carte segrete finiscono in mano a chiunque. Peccato che poi a mandarle ai giornali sia stata proprio la segretaria di Davigo.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Parlai al presidente della Repubblica. Riferii tutto quello che mi disse Davigo e lui non fece commenti". Lo ha detto in aula a Brescia David Ermini, vicepresidente del Csm sentito come teste al processo nei confronti di Pier Camillo Davigo, ex componente del Csm imputato per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

Ermini ha raccontato di essere andato al Quirinale, per una visita già programmata, nella quale parlò anche del caso Milano e delle dichiarazioni rese ai pm da Amara.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Secondo me fu una confidenza che il consigliere Davigo volle farmi. Mi consegnò quei verbali, li presi per fargli una cortesia ma li cestinai perché erano irricevibili". Lo ha spiegato in aula a Brescia il vicepresidente del Csm David Ermini sentito come teste al processo in cui Pier Camillo Davigo è imputato per il caso Amara.

Ermini ha spiegato che dopo un primo incontro il 4 maggio 2020 in cui Davigo gli chiese "di avvisare il presidente Mattarella, e io concordai", ci fu un secondo colloquio qualche giorno dopo in cui Davigo gli consegnò una cartelletta con dentro copia dei verbali stampati sulla presunta loggia Ungheria, "tutti fogli non firmati, solo alcuni con intestazione Procura della Repubblica", ritenuti "atti informali e inutilizzabili", che quindi non potevano far ingresso al Csm. Ermini ha sostenuto che questo secondo incontro fu in sostanza confidenziale.

(Adnkronos il 7 Luglio 2022) - "Oggi il vicepresidente CSM Ermini,  interrogato come testimone nell`ambito del processo Davigo, conferma  per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro `Il Mostro`. 

Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha  letto `Il Mostro` o non l`ha capito. Ancora poche settimane e il CSM di David Ermini sarà solo un brutto ricordo". Così Matteo Renzi su Fb. 

Benedetta Dalla Rovere per LaPresse il 7 Luglio 2022. 

Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Così il vice presidente del Csm, David Ermini, ha definito i verbali secretati in cui l`avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto” Eni, ha parlato della loggia Ungheria. 

Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

"Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica" perché "della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia - ha chiarito Ermini - specialmente polizia e carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm".  

"Io risposi di sì - ha aggiunto - . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo". E Mattarella "non fece alcun commento". Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari. Il magistrato milanese aveva voluto in questo modo "autotutelarsi" di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

"Ritenni quella di Davigo una confidenza", ha ricordato Amara, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. "In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali", ha spiegato. Non solo. "La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno", ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l`avvocato Amara avesse indicato come affiliati alla loggia coperta i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti.

"In cuor mio pensavo che quelle carte" relative agli interrogatori in cui l`avvocato Piero Amara parlava della loggia Ungheria "dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali", ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm "non avrebbe potuto fare nulla". "Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi", ha precisato Ermini. 

L`ex pm di Mani Pulite aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini "la vicenda era finita". "Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni", dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm "una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare", ha chiarito Ermini. 

"Io che me ne dovevo fare di questi verbali? - ha aggiunto -  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara". Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  "Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura" del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  "Non si trattava di una vicenda isolata e anomala - ha chiarito Davigo -  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare".

"Quando il pm Storari viene da me" per "autotutelarsi" di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini "io ricevo una notizia di reato - ha proseguito -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c'erano i binari della legalità". 

"Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati - ha concluso Davigo - ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla". Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Processo a Davigo, è il giorno di Ermini: «Mi lasciò i verbali e io li cestinai…» Il vicepresidente del Csm al processo contro l’ex pm: «Non mi chiese di formalizzare nulla. Mi disse: un massone è per sempre». Simona Musco su Il Dubbio l'8 luglio 2022.  

«Piercamillo Davigo non mi chiese di acquisire quei verbali. Lui me li lasciò, per non essere scortese li presi, ma li cestinai, perché noi al Consiglio non possiamo avere atti che non arrivino in modi formali. Avendomi detto che se ne sarebbe occupato il procuratore generale della Cassazione io ritenni la sua una confidenza. Le parole “Comitato di presidenza” non furono mai pronunciate». A dirlo, davanti al Tribunale di Brescia, è il vicepresidente del Csm David Ermini, chiamato a testimoniare nel processo a carico di Davigo, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver diffuso i verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

Verbali che gli furono consegnati ad aprile del 2020 dal pm Paolo Storari per «autotutelarsi», temendo che il ritardo nelle iscrizioni dei primi indagati potesse, un giorno, essere imputato a lui. Secondo quanto confermato da Storari in aula nel corso della scorsa udienza, Davigo si sarebbe proposto di fare da tramite col Comitato di presidenza, per far arrivare la questione ai vertici del Csm. Ma ciò, stando al racconto di Ermini, non avvenne. Davigo, infatti, si sarebbe preoccupato principalmente di chiedere al vicepresidente del Csm di avvisare il Presidente della Repubblica, durante un incontro avvenuto nel giorno in cui il Consiglio riprese la sua attività dopo il lockdown, il 4 maggio 2020.

«Venne nella mia stanza e mi chiese di seguirlo in cortile lasciando i telefonini, perché mi doveva dire una cosa molto seria», ha raccontato Ermini. «Era molto deciso sul fatto che io dovessi – ed io concordai – avvisare il presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati appartenenti alle forze di polizia. E poi mi raccontò anche che c’erano due consiglieri in carica», ovvero Sebastiano Ardita (ex amico di Davigo e parte civile nel processo) e Marco Mancinetti. Ermini si recò al Quirinale poco dopo, riferendo tutto ciò che Davigo gli aveva raccontato a riguardo della loggia. «Il Presidente non fece alcun commento, ne prese atto», ha spiegato il numero due del Csm. Che riparlò della questione con Davigo nei giorni successivi. «Si presentò da me senza appuntamento con una cartellina e mi disse che mi aveva fatto stampare queste dichiarazioni. Erano tutti fogli non firmati, alcuni con l’intestazione “Procura della Repubblica”, altri senza. Via via che lui scorreva vedevo alcuni nomi e su qualcuno ebbi qualche dubbio. Ascoltai, ma dentro di me ero perplesso sul fatto che mi fossero mostrati degli atti informali, inutilizzabili di fatto». Dopo aver ricevuto i verbali, Ermini li avrebbe strappati e gettati nel contenitore della carta. «Non li ho letti e non sapevo che fossero atti secretati», ha affermato, replicando al presidente del collegio Roberto Spanò secondo cui, in caso contrario, si sarebbe trattato di soppressione del corpo del reato.

«Che ne facevo? – ha replicato – Io mica potevo diventare il megafono di Amara. Il Csm andava difeso da qualsiasi cosa». Per quanto riguarda la presunta inerzia della procura di Milano, Davigo disse che ne avrebbe discusso con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: «Concordammo che era l’unico che poteva fare qualcosa in tema di giurisdizione. Io mai avrei potuto chiamare Greco (Francesco, ex procuratore di Milano, ndr) per dirgli “vai avanti”: sarebbe stato fuori da ogni regola. E non avrebbe potuto farlo nemmeno il Colle». Davigo, stando al racconto di Ermini, non calcò particolarmente la mano sui nomi di Ardita e Mancinetti. Ma la cosa doveva rimanere segreta: il rischio era, infatti, che i due togati venissero a conoscenza di quei verbali. Proprio per tale motivo, dal punto di vista di Ermini, si trattò di «una confidenza», in assenza di richieste ufficiali. «Non mi chiese di formalizzare», ha spiegato. E se anche avesse fatto tale richiesta, «avrei dovuto dirgli che non avrei potuto, perché erano atti non ufficiali», per giunta «in word» e «senza firma». Ma «Davigo è uno dei magistrati più esperti d’Italia, immaginavo e immagino che conoscesse il rito. Lui lo sapeva benissimo che noi non potevamo fare niente». Anche perché, ha confermato Ermini, non esiste una prassi che autorizzi il singolo consigliere ad acquisire atti senza una procedura formale. «Io ho l’obbligo di difendere il Consiglio – ha aggiunto Ermini -, le istituzioni e anche il Presidente della Repubblica, e in quella situazione aveva in mano una velina non firmata, con dichiarazioni dubbie». Sulla presunta affiliazione di Ardita, Ermini espresse subito dei dubbi: «Dissi che mi sembrava strano. Vedendo il nome di Tinebra (Giovanni, ex pg di Catania, ndr) dissi che forse era roba di quando era giovane – ha spiegato -. E lui mi disse: “guarda che i massoni vanno in sonno ma rimangono sempre massoni”». Una frase «pesantissima – ha commentato Roberto Spanò -. Vuol dire che Davigo riteneva che fosse verosimile».

L’ex pm di Mani Pulite non chiese ad Ermini di mantenere segreta la vicenda: fu lui stesso a decidere di farlo, nella convinzione che solo in tre ne fossero a conoscenza. Ma a svelare tutto al plenum ci pensò il togato Nino Di Matteo, che quei verbali li ricevette per posta – secondo la procura di Roma per mano dell’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto -, ipotizzando un complotto ai danni di Ardita. Ermini convocò così una riunione, durante la quale scoprì che erano in molti, in realtà, a sapere di quei verbali: ad informarli era stato proprio Davigo, che aveva invitato i colleghi a prendere le distanze da Ardita. Che «si sentiva molto colpito da questa cosa: la riteneva un’offesa». Davigo, nel corso dell’udienza, ha voluto prendere la parola per replicare alle dichiarazioni di Ermini. «La cosa più facile per me sarebbe stata fare una nota di servizio e consegnarla, ma quando viene protocollata, viene vista» dall’intera struttura amministrativa del Csm, «che questa presidenza ha ritenuto non molto affidabile», ha spiegato, riferendosi alla fuga di notizie sull’indagine condotta dalla Procura di Perugia sull’ex membro del Csm Luca Palamara.

Processo Davigo: il vicepresidente del Csm Ermini interrogato. Renzi torna all’attacco: “Conferma quello che ho scritto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 luglio 2022.  

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l' avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del "falso complotto Eni", ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici.

Dopo una settimana di silenzio, Matteo Renzi è tornato ad attaccare pesantemente la magistratura. E lo ha fatto attraverso la propria pagina Facebook. “Oggi il vicepresidente del Csm Ermini, interrogato come testimone nell’ambito del processo Davigo, conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro “Il Mostro”. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l’ha capito. Ancora poche settimane e il Csm di David Ermini sarà solo un brutto ricordo”. Parole che si riferiscono, in modo chiaro ed inequivocabile alla presunta “loggia Ungheria” e agli interrogatori dell’avvocato Pietro Amara. 

Renzi nelle pagine del suo libro “Il Mostro”, ha accusato senza mezzi termini Ermini di aver distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano, eliminando il corpo del reato”. Immediata la replica del vicepresidente del Csm, sostenendo che si trattava di una “affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria”. 

Una polemica quella fra Renzi ed Ermini datata metà maggio che torna di stretta attualità oggi, a distanza di quasi due mesi . Un’unica, granitica certezza è che questa sarà la battaglia più importante della carriera politica del leader di Italia Viva. Uno scontro dal quale uscirà o vincitore assoluto o sconfitto, senza prove di appello, destinato all’oblio e ricordato solo come un enfant prodige che non ce l’ha fatta. 

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l’ avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto Eni”, ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori “non firmati, inutilizzabili e inservibili”, il cui contenuto però era dirompente. Una “presunta loggia massonica coperta“, ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

Il vice presidente del Csm David Ermini e l’ex consigliere Davigo

“Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica” perché “della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia – ha spiegato Ermini – specialmente Polizia e Carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm“.  “Io risposi di sì – ha aggiunto Ermini – . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo“. Mattarella “non fece alcun commento“. Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari della procura di Milano . Il magistrato aveva voluto in questo modo “autotutelarsi” di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

“Ritenni quella di Davigo una confidenza”, ha ricordato Ermini, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. “In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali”, ha spiegato. Non solo. “La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno”, ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l’avvocato Amara avesse indicato i magistrati consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti come “affiliati” alla loggia coperta .

Ermini in tribunale a Brescia ascoltato come testimone

“In cuor mio pensavo che quelle carte” relative agli interrogatori in cui Amara parlava della loggia Ungheria “dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali”, ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm “non avrebbe potuto fare nulla”. “Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi”, ha precisato Ermini.

L`ex pm di Mani Pulite ora in pensione, aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini “la vicenda era finita“. “Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni”, dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm “una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare“, ha chiarito Ermini.

Piercamillo Davigo, Pietro Amara e Paolo Storari

“Io che me ne dovevo fare di questi verbali? – ha aggiunto –  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara“. Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  “Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura” del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  “Non si trattava di una vicenda isolata e anomala – ha chiarito Davigo –  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare“.

“Quando il pm Storari viene da me” per “autotutelarsi” di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini io ricevo una notizia di reato – ha proseguito Davigo -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c’erano i binari della legalità“.

Ermini ed il Pg della cassazione Salvi (a giorni pensionato)

“Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati “- ha concluso Davigo che ogni tanto svanisce la memoria come per incanto – “ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla”. Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Loggia Ungheria, Storari testimonia nel processo all'ex pm di Mani Pulite: "Davigo? Non è un mio amico".  Luca De Vito su La Repubblica il 24 maggio 2022.  

Le parole del pm Storari davanti al tribunale di Brescia: "Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare, davanti a me un muro di gomma". Il 7 luglio chiamato a testimoniare il vice presidente del Csm David Ermini.

"Piercamillo Davigo non era un mio amico prima, non lo è oggi. Ho una frequentazione con lui solo perché conosco la sua compagna. Mi sono rivolto a lui perché è l'unica persona che conosco che avesse un ruolo istituzionale. Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare". Così il pm Paolo Storari ha parlato davanti ai giudici di Brescia come testimone al processo che vede l'ex pm di Mani Pulite Piercamillo

I retroscena. Loggia Ungheria, Storari: “Sono stato minacciato dai capi perché volevo indagare”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

“Quello che è accaduto e sta accadendo, lo trovo lunare: mi hanno anche minacciato di farmi un procedimento disciplinare”. A dirlo il pm milanese Paolo Storari ai giudici bresciani. Il magistrato è stato interrogato ieri come testimone assistito connesso nel processo contro Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio. Storari, che per il medesimo reato era stato assolto nelle scorse settimane in abbreviato, ha ricostruito quanto accaduto alla Procura di Milano dopo gli interrogatori di Piero Amara che avevano svelato l’esistenza della loggia Ungheria.

Rispondendo alle domande del presidente del collegio Roberto Spanò, il magistrato ha confermato quanto dichiarato al procuratore di Brescia Francesco Prete a maggio dello scorso anno, quando, per la prima volta, aveva messo in luce l’ostruzionismo dei propri capi nel cercare riscontri alle testimonianza di Amara. L’interrogatorio di Storari era stato pubblicato in esclusiva dal Riformista. Noto alle cronache per essere anche fra i principali accusatori di Luca Palamara nel processo di Perugia e per aver patteggiato, record assoluto, ben cinquanta reati senza subire alcun sequestro, Amara aveva descritto il funzionamento della loggia Ungheria, composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle Forze di polizia. Lo scopo del sodalizio paramassonico sarebbe stato quello di pilotare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi.

Ad interrogare Amara erano stati Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, e Storari. I verbali delle dichiarazioni di Amara erano poi rimasti sulla scrivania dei pm per mesi, senza che ci fosse alcun sviluppo investigativo. Storari, stufo di questa inerzia, aveva allora deciso di informare Davigo, all’epoca consigliere del Csm. Storari ha precisato che a fare da tramite era stata la compagna di Davigo, la pm antimafia Alessandra Dolci. “Io metto i verbali word sulla chiavetta e li porto a casa sua”, ha dichiarato Storari. “Fammi leggere e ci rivediamo”, gli aveva risposto Davigo. “I fatti che riferisce questo qui sono gravissimi, ci penso io ad avvertire il Csm”, aveva poi detto Davigo dopo aver letto gli atti.

Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo aveva così informato il vice presidente del Csm David Ermini, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, alcuni consiglieri del Csm, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s).

Storari, sempre rispondendo alle domande dei colleghi bresciani, ha voluto puntualizzare che, terminata la verbalizzazione di Amara, era intenzionato ad effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati dei soggetti che avrebbero fatto parte dalla loggia e all’acquisizione dei loro tabulati telefonici. Ma nulla di ciò avvenne. Il motivo era perché i suoi capi volevano “salvaguardare” Amara da possibili indagini in quanto utile come teste nel processo Eni-Nigeria in corso all’epoca a Milano. Un processo che la Procura di Milano non poteva perdere e sul quale aveva investito ingenti risorse. L’esito, invece, era stato di assoluzione per tutti gli imputati.

A tal proposito Storari ha raccontato di un colloquio con l’aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del fascicolo Eni-Nigeria il quale gli aveva detto: “Secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni”. “Da queste sue affermazioni – ricorda il pm milanese – ho capito che non si scherzava”. “Ho una interlocuzione con il dottor Greco e gli dico se credesse alle dichiarazioni dell’avvocato siciliano”, continua Storari, ricevendo dal procuratore di Milano questa risposta: “Io credo ad Amara, ma in questo momento non voglio fare niente perchè non voglio inimicarmi il generale Zafarana (Giuseppe, comandante generale della guardia di finanza e, secondo Amara, appartenente alla loggia Ungheria, ndr) in quanto devo sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) al nucleo valutario”. “Sono rimasto basito”, la replica ieri del pm milanese che si è più volte interrotto per la tensione accumulata. Paolo Comi

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 maggio 2022. 

«Non me li chiese il consigliere Csm Piercamillo Davigo: sono io che nell'aprile 2020, per far avvisare il Csm tramite lui e tutelarmi dal muro di gomma dei miei capi, diedi a Davigo su una chiavetta i verbali di Piero Amara su "loggia Ungheria", le trascrizioni e, non ricordo, ma se c'erano anche gli audio registrati dal suo collaboratore Calafiore»; e «dalla bocca di Davigo non uscì mai il nome di Sebastiano Ardita», consigliere Csm ora parte civile contro Davigo da cui si ritiene dossierato, «che a me all'epoca era sconosciuto». 

In quattro ore di deposizione al Tribunale di Brescia del pm Paolo Storari, sono le sole due circostanze rilevanti per il processo a Davigo per rivelazione di segreto, stralcio di quello in cui Storari in abbreviato è stato assolto mesi fa e attende ora l'appello.

Il grosso dell'udienza, dominata dall'interventismo del presidente Roberto Spanò, diventa l'ottavo interrogatorio (ma il primo in pubblico) in cui si assume «la responsabilità» di addebitare agli ex capi della Procura di avergli opposto appunto un «muro di gomma»; di non aver voluto indagare in fretta nei verbali di Amara il vero dal calunnioso; di averli utilizzati «a geometria variabile» per «non disturbare il processo Eni-Nigeria» del vice del procuratore Greco, De Pasquale. 

Riecco così, nel racconto del pm, la collega Pedio che lascia senza risposta le proposte di indagini di Storari, De Pasquale che a fine 2019 gli dice di tenere i verbali di Amara due anni in un cassetto, Greco che gli teorizza di non volere attriti con il comandante della Guardia di Finanza da cui attende la promozione di un ufficiale che gli sta a cuore: tutto, però, nello stesso tempo in cui i capi della Procura usano subito (e solo) due righe di un de-relato di seconda mano di Amara per cercare obliquamente di far fuori dal processo Eni-Nigeria il giudice Tremolada tacciato di sudditanza agli avvocati Eni (e il presidente Spanò annuisce, «mi fossi trovato in quella situazione, certo sarei stato costretto ad astenermi...»).

E quando Storari per tre volte (la prima sull'amicizia in frantumi con Pedio) si blocca sin quasi a sembrare sul punto di piangere («è pesante per me ricordare quello che ho passato»), trova la comprensione del presidente del Tribunale («si chiama "risonanza emotiva", fermiamoci pure un momento...»), rigido invece nel non ammettere decine di domande (ritenute non pertinenti) dell'avvocato Repici parte civile per Ardita.

Spanò si interessa se Storari avesse amici in Procura, «sì, a Luisa Baima sono legato, Alberto Nobili è un vecchio saggio, ma non mi confidai con loro o altri». Solo con Davigo, «perché era il solo che conoscessi con un ruolo istituzionale». Davigo poi parlò dei verbali a molti al Csm e pure all'onorevole Morra, chiede Spanò, «crede fosse in buona fede?». «Assolutamente sì. Seppero queste cose il pg di Cassazione, il vicepresidente Csm...: e nessuno, nè direttamente nè indirettamente, venne mai a dirmi "Paolo hai sbagliato"».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2022.   

Le indagini sulla loggia Ungheria non si sono fatte per due motivi: il procuratore di Milano Francesco Greco doveva raccomandare il colonnello della Guardia di Finanza Vito Giordano, suo stretto collaboratore, e Piero Amara, avvocato esterno dell'Eni originario di Augusta, non poteva essere accusato di calunnia. 

Lo ha dichiarato ieri davanti al tribunale di Brescia il pm milanese Paolo Storari, interrogato come testimone assistito connesso, nel processo contro Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio. Per il medesimo reato Storari nelle scorse settimane era stato assolto in abbreviato.

Il magistrato, rispondendo alle domande del pm Francesco Milanesi e del presidente del collegio Roberto Spanò, ha ricostruito quanto accadde alla Procura di Milano fra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020, una volta terminati gli interrogatori dell'avvocato siciliano il cui nome compare in tutti i più importanti processi in corso in Italia in questi mesi. 

Amara, in particolare, in quell'occasione aveva rivelato l'esistenza di una loggia para-massonica super segreta denominata per l'appunto Ungheria e composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle forze dell'ordine, a iniziare dai comandanti generali dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza, rispettivamente i generali Tullio Del Sette e Giuseppe Zafarana, il cui scopo sarebbe stato quello di condizionare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi per gli adepti.

L'avvocato Amara era stato sentito nell'ambito delle indagini per corruzione nei confronti dei vertici del colosso petrolifero del cane a sei zampe e aveva fatto una quarantina di nomi, raccontando il funzionamento della loggia. 

La deposizione esplosiva era stata raccolta da Laura Pedio, vice del procuratore di Milano Francesco Greco, e dallo stesso Storari. Quest' ultimo, terminata la verbalizzazione, decise di rivolgersi al suo capo per fare il punto. 

«Io credo ad Amara, ma in questo momento non voglio fare niente perché non voglio inimicarmi Zaffarana in quanto devo sistemare il colonnello Giordano al Nucleo valutario», era stata la risposta di Greco, ora nominato assessore alla Legalità del Comune di Roma dal sindaco Roberto Gualtieri (Pd). Una risposta che lasciò «basito» Storari.

Più o meno nello stesso periodo ci fu un altro colloquio sul punto con l'aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del fascicolo Eni-Nigeria, il quale invece gli aveva detto: «Secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni». «Da queste due affermazioni ho capito che non si scherzava», ha proseguito Storari davanti ai colleghi bresciani.

Le dichiarazioni di Amara, continua Storari, «se fossero state sconfessate, avrebbero messo a rischio la credibilità del teste e potenzialmente minato l'impianto accusatorio del processo Eni-Nigeria: se tutto il procedimento è basato sulle calunnie, vuoi dirlo alle difese? A Brescia, dov' è in piedi un processo per calunnia? Vuoi dirlo ai giudici d'appello davanti ai quali si stava celebrando un processo in abbreviato? 

Nulla di tutto questo è stato fatto», ha quindi ricordato Storari. «Il processo Eni Nigeria ha aggiunto- era il più importante che c'era in quel momento. Il terzo dipartimento era il fiore all'occhiello della Procura e faceva i processi di serie A. Perdere in questo processo significava mettere in discussione tutto l'assetto organizzativo della Procura».

Visto che non si volevano fare indagini, Storari decise che bisognava informare dell'accaduto Davigo, all'epoca consigliere del Csm. Il magistrato ha precisato che il tramite fu la fidanzata di Davigo, la pm antimafia Alessandra Dolci. «Io metto i verbali word sulla chiavetta e li porta a casa sua», racconta Storari.

«Fammi leggere e ci rivediamo», rispose Davigo, aggiungendo poi che «i fatti che riferisce questo qui sono gravissimi». Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo avvisò David Ermini, vice presidente del Csm, Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, alcuni consiglieri del Csm, Nicola Morra, presidente ex grillino della Commissione parlamentare antimafia. Un comportamento che gli ha determinato l'accusa di rivelazione del segreto. 

Eni, ora Storari tira in ballo la compagna pm di Davigo. Luca Fazzo il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il caso dei verbali passati all'ex membro del Csm tramite la procuratrice Dolci: lo scambio nell'abitazione dei due.

Era una delle poche figure di spicco della Procura di Milano rimasta fuori dalle secche del «caso Amara», la gestione scomposta dei verbali del grande calunniatore del caso Eni, prima insabbiati in un cassetto, poi passati sottobanco dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura. Alessandra Dolci, procuratore aggiunto e capo del pool antimafia, dagli scontri che hanno avvelenato la Procura milanese era rimasta saggiamente a distanza. Ma ieri Storari viene interrogato a Brescia nel processo a carico di Davigo, accusato di rivelazione di segreto d'ufficio per avere divulgato a sua volta i verbali di Amara. E Storari chiama in causa la Dolci, che all'epoca dei fatti era il suo superiore diretto nel pool antimafia.

Di fronte all'inerzia dei vertici della Procura, ovvero del procuratore Francesco Greco, Storari dice di avere pensato di rivolgersi a Davigo in quanto membro del Csm. E di averlo fatto però proprio attraverso la Dolci: «Io corro il rischio di essere coinvolto in questa inerzia, l'unica persona che conoscevo, non è un mio amico, è Davigo. Sono amico di Alessandra Dolci che è la sua compagna, l'unica persona che mi è venuta in mente e avesse un ruolo istituzionale è Davigo». Ed è a casa della coppia Dolci-Davigo che avviene il passaggio della pendrive con i verbali (in brutta copia) di Amara. «Gli consegno la chiavetta e mi dice fammi leggere i verbali e ci rivediamo. Dopo due giorni, ritorno a casa sua, siamo in pieno lockdown, mi dice i fatti che narra sono gravissimi"». Il problema è che, secondo la Procura di Brescia, con quella consegna si commette un reato. E facendo il nome della Dolci Storari costringe a chiedersi se la dottoressa sapesse quanto accadeva tra il suo compagno e il suo sostituto. Ed è facile immaginarsi l'imbarazzo della Dolci, visto che l'obiettivo dei due era Greco: di cui in quel momento era uno dei bracci destri, a capo di uno dei dipartimenti più delicati.

Storari per avere passato i verbali segreti è stato assolto, ma la Procura ha fatto ricorso, e quindi non è ancora ufficialmente salvo. In aula è apparso commosso, provato da una situazione «lunare», ma deciso a rivendicare la sua buona fede. Sulle circostanze che lo avevano spinto a contattare - attraverso la Dolci - Davigo, il pm è tornato a puntare il dito contro la gestione da parte di Greco del processo Eni. I verbali di Amara andavano tenuti nel cassetto, ha detto, per non compromettere l'esito del processo per corruzione ai manager del colosso di Stato, che proprio sulle frottole di Amara era in parte basato. Per avere sollecitato l'apertura formale di un fascicolo, Storari dice di essere stato addirittura minacciato di procedimento disciplinare. E torna a chiamare in causa il titolare del processo Eni, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale il quale gli avrebbe detto «secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni». «Da queste sue affermazioni - chiosa Storari - ho capito che non si scherzava». Aggiunge, rispondendo alle domande del giudice Roberto Spanò: «Non è stato fatto niente da dicembre 2019 fino a gennaio 2021. Perché non si voleva disturbare il processo Eni-Nigeria», istruito dal dipartimento affari internazionali, guidato da De Pasquale, il «fiore all'occhiello» della Procura e che «faceva processi di serie A». «Era - spiega ancora Storari - il processo più importante a Milano, fatto dal dipartimento più discusso, una sconfitta significava mettere in dubbio l'organizzazione di Greco». La sconfitta, come è noto, è arrivata, con l'assoluzione di tutti gli imputati con formula piena: e la dissoluzione di quella che era stata la Procura di Mani Pulite si spiega proprio con la foga accusatoria riversata in quel processo.

(Intanto il nuovo procuratore, Marcello Viola, aspetta di sapere se De Pasquale e Storari, per i quali è stato chiesto il trasferimento d'ufficio, resteranno a Milano. Ma il Csm sembra avere per il momento altre priorità)

Parla il pm Storari: «Davigo non nominò mai Ardita con me». Entra nel vivo il processo a Brescia che vede imputato l’ex pm Mani Pulite per aver diffuso i verbali Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 25 maggio 2022.

«Davigo non dimostrò alcun particolare interesse» nei confronti di Ardita, «entrambe le volte che ci siamo visti non ha mai fatto il suo nome». È uno dei passaggi più importanti della deposizione del pm di Milano Paolo Storari al processo di Brescia che vede Piercamillo Davigo imputato per aver diffuso i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla loggia Ungheria.

Un lungo esame quello di Storari, che si commuove più volte descrivendo il clima – a suo dire ostile – che ha caratterizzato gli ultimi due anni in procura a Milano, dove per lungo tempo i vertici dell’ufficio non avrebbero voluto approfondire le dichiarazioni sulla loggia. «Ricordare quello che ho passato è pesante», dice, parlando di un vero e proprio «muro di gomma» che avrebbe spinto Storari – assolto in abbreviato (ma la procura ha fatto appello) dalla stessa accusa di Davigo – a rivolgersi a Davigo, per «autotutelarsi», temendo che il ritardo nelle iscrizioni dei primi indagati potesse, un giorno, essere imputato a lui, coassegnatario, assieme all’aggiunta Laura Pedio, del fascicolo originale, quello sul “falso complotto Eni”.

Il magistrato ripercorre tutte le tappe che hanno portato alla diffusione dei verbali, che secondo la tesi dell’accusa sarebbero serviti anche a screditare la figura di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm (inserito da Amara tra gli affiliati alla loggia) ed ex amico di Davigo, con il quale ha fondato la corrente Autonomia&Indipendenza. Verbali pesanti, al punto che Storari conta di fare in fretta le indagini per trovare riscontri o, al limite, iscrivere Amara sul registro degli indagati per calunnia. Così, a dicembre 2019, prepara due deleghe, che invia a Pedio via mail, ma senza ottenere risposta. «Nessuno mi ha detto che non andava fatto – spiega -, ma nessuno ha firmato la delega. Ed io da solo non potevo fare nulla. La cosa non mi sconcertava, però ho iniziato a stupirmi».

Il 27 dicembre 2019, Storari incontra il procuratore Francesco Greco, al quale chiede un parere sulla credibilità di Amara. E la risposta lo lascia basito. «Greco mi disse: “Paolo, io ci credo, ma in questo momento non voglio fare niente, perché tra le persone chiamate da Amara nella loggia Ungheria c’è il generale Zafarana (Giuseppe, ndr), comandante generale della Guardia di Finanza, e non me lo voglio inimicare, perché voglio sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) al nucleo di polizia valutaria”», nomina che poi effettivamente avviene. Come se non bastasse, «parlando con De Pasquale (Fabio, procuratore aggiunto e titolare del processo Eni-Nigeria, ndr), e colloquiando sulla necessità di fare indagini mi dice: secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni».

Interlocuzioni di cui Storari non ha traccia via mail, ma da quel momento, data la stranezza degli eventi, decide prendere appunti su tutto ciò che accade attorno alla vicenda Amara. Le perplessità aumentano quando l’ex avvocato dichiara che «nel processo Eni-Nigeria i difensori di Eni, Nerio Diodà e Paola Severino (ex ministro della Giustizia, ndr), hanno avvicinato Marco Tremolada (presidente del collegio giudicante, ndr) ricevendo in qualche modo rassicurazione che il processo sarebbe andato bene», informazione che avrebbe ottenuto da un altro avvocato. «Queste due righe – spiega Storari – vengono portate da Greco e Pedio a Brescia, per cui un ex ministro della Giustizia e un presidente del collegio vengono immessi nel circuito giudiziario sulla base di nulla. Ed è l’unica parte delle dichiarazioni di Amara che non è stata tenuta nel cassetto».

La valutazione sulla credibilità di Amara, dunque, è «a geometria variabile»: su Ungheria non si muove nulla, ma diventa credibile se le dichiarazioni tornano utili al processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati).«Ho iniziato a farmi parecchie domande. Quindi ho pensato che dovessi informare il Csm – spiega Storari -. Scrissi al procuratore Greco, ma era tutto un “aspettiamo”. Non dissi che l’avrei fatto io, perché entrare in contrapposizione con il procuratore significava essere tirato fuori dal procedimento. E questo non lo potevo consentire, perché significava girare la testa dall’altra parte di fronte ad una situazione ingiusta». E così decide di rivolgersi a Davigo, «che non era mio amico», che chiama a inizio aprile spiegando sommariamente la situazione. «Mi disse che a lui il segreto non era opponibile. Così il giorno dopo misi i verbali word su una chiavetta e andai a casa sua – racconta -. Lui mi disse: lasciami leggere e ci rivediamo. Di lì a due giorni tornai da lui: mi disse che i fatti che Amara racconta sono gravissimi e che ci avrebbe pensato lui ad avvertire il comitato di presidenza del Csm. E mi consigliò, per tutelarmi, di cominciare a mettere tutto per iscritto».

Ma come si concilia, chiede il giudice Roberto Spanò, la modalità irrituale con l’esigenza di autotutelarsi? «Ora conosco la procedura, all’epoca no. La cosa che mi è sembrata più naturale» era consegnarli a Davigo in qualità di componente del Consiglio e «persona specchiatissima. Ho saltato un passaggio – aggiunge Storari -, ma non con una finalità divulgativa» e per questo «trovo lunare quello che sta succedendo». Davigo, spiega, «mi era parso assolutamente in buona fede. E anche oggi, col senno di poi, lo ritengo in buona fede». A fine aprile Storari prepara una scheda per l’iscrizione dei primi otto indagati e la invia a Pedio, che va a lamentarsi con Greco per non essere stata consultata. Così «sono stato minacciato di procedimento disciplinare» da parte degli allora vertici dell’ufficio, spiega il pm. Dopo qualche giorno Davigo comunica a Storari di aver parlato con il procuratore generale Giovanni Salvi e il vicepresidente del Csm David Ermini. «Dal mio punto di vista, a quel punto, ero a posto».

E il 12 maggio, in maniera «estemporanea», Greco decide di sua iniziativa di iscrivere Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore e il loro socio Sandro Ferraro sul registro degli indagati. «Sono rimasto stupito – dice il pm milanese -, favorevolmente, perché si iniziava a far qualcosa. Non capivo. Oggi capisco: Salvi chiamò Greco e gli chiese cosa stesse facendo». Tutto rimane però fermo fino a settembre, quando si decide che la competenza dell’indagine spetta a Perugia, dove il fascicolo viene però inviato fisicamente solo quattro mesi dopo, a gennaio 2021. «In quel fascicolo non troverete nulla da dicembre 2019 a gennaio 2021. Allora la mia domanda è: perché è successo? – si chiede Storari – È una cosa normale? La risposta è no. Qual è la spiegazione? Non si voleva disturbare il processo Eni-Nigeria».

Ma che interesse c’era? «Era il processo più importante in quel momento a Milano, De Pasquale era il responsabile di questo dipartimento che non tutti vedevano di buon occhio e una sconfitta a dibattimento voleva dire sconfessare la scelta organizzativa di Greco. Il Terzo dipartimento faceva i processi di serie A e questo dava fastidio ai colleghi, che erano ammazzati di fascicoli. E si arrabbiavano, giustamente». Proprio per questo la solidarietà manifestata dai colleghi a Storari rappresentava non solo un gesto di vicinanza, ma anche «un attacco al centro organizzativo».

Inchiesta Eni-Congo, De Pasquale: «Storari fece scadere le indagini su Descalzi». Poi la rettifica. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.  

Da una banale causa di diffamazione spunta prima l’interrogatorio in cui il procuratore aggiunto mise a verbale a Brescia la doglianza, e poi la precisazione in cui ha fatto invece marcia indietro.

Aver lasciato scadere il termine delle indagini e averle così messe a rischio: poche accuse come queste, oltretutto con l’allusione che ciò avesse oggettivamente beneficiato un indagato «eccellente» come il numero 1 di Eni Claudio Descalzi nel fascicolo sul suo possibile conflitto di interessi con la moglie nel procedimento Eni-Congo, sarebbero sanguinose per un pm. Ma ora, dall’indiretto oblò di una banale causa di diffamazione, intentata dal pm milanese Paolo Storari al quotidiano che il 18 gennaio 2022 lo aveva appunto tacciato di «non aver chiesto la proroga delle indagini di cui erano scaduti i termini» e così di aver messo «a rischio questa parte dell’inchiesta», affiorano due fatti inediti. Il primo è che in realtà l’origine della notizia errata non è stata un eventuale abbaglio dei giornalisti, ma una esplicita affermazione proprio dell’allora capo di Storari nel pool affari internazionali, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che la aveva messa a verbale in un interrogatorio alla Procura di Brescia l’1 dicembre 2021. Il secondo è però che De Pasquale, due mesi dopo aver accusato Storari davanti ai pm di Brescia, il 10 febbraio 2022 ha innestato la retromarcia, precipitandosi a rettificare il proprio verbale e spiegare di essersi sbagliato.

La prima versione

Storari a inizio 2022 querela il giornale perché in realtà, al momento in cui l’8 aprile 2021 aveva restituito a De Pasquale tutti i fascicoli (e quindi anche quello su Eni-Congo) una volta esplosa la vicenda dei verbali dell’avvocato esterno Eni Piero Amara informalmente consegnati in formato Word proprio da Storari all’allora membro del Csm Piercamillo Davigo, il termine non era affatto scaduto e per le indagini su Descalzi in Eni-Congo c’era tempo ancora due mesi e mezzo sino al 21 giugno 2021. A fine 2021 De Pasquale riceve dalla Procura di Brescia un «avviso di conclusione delle indagini» nel quale gli si addebita di non aver depositato ai giudici e alle difese del processo Eni-Nigeria alcuni atti segnalati da Storari al vertice della Procura come potenzialmente indici dell’inattendibilità dell’imputato-teste d’accusa Vincenzo Armanna, ed è in questo contesto che la prima versione di De Pasquale l’1 dicembre 2021 su Storari in Eni-Congo è: «Io ho messo in mano a Storari l’indagine sul Congo in cui c’era la questione dei possibili illeciti a carico della moglie di Descalzi. Notizia di reato che stranamente… che purtroppo lui ha dimenticato di… si è dimenticato di chiedere la proroga… Lui che chiedeva la proroga su tutto, non ho capito perché… al momento in cui ha restituito il fascicolo per questa notizia di reato non c’è proroga, è monca dal punto di vista delle indagini».

La seconda versione

Il 18 gennaio 2022 esce l’articolo. Il 10 febbraio 2022 ecco però arrivare a Brescia una precisazione di De Pasquale che rettifica e cristallizza una seconda versione: «Nessuna proroga risulta essere stata chiesta dopo il 19 dicembre 2020 e i termini dell’indagine sono definitivamente scaduti ma, dopo aver consultato in modo più approfondito il fascicolo, devo precisare che risulta restituito da Storari a me l’8 aprile 2021 e i termini delle indagini sarebbero scaduti il successivo 21 giugno 2021, cosicché sarebbe stato ancora possibile chiedere la proroga». La retromarcia è a 360 gradi, anche De Pasquale mantiene la doglianza che Storari «non fece alcuna espressa menzione circa la prossima scadenza del termine delle indagini» in un fascicolo «composto da ben 11 faldoni e 2 scatoloni di documenti». Con il cerino in mano, intanto, rischia ora di restare il giornalista, destinatario allo stato di un «avviso di conclusione delle indagini» per ipotesi di diffamazione anche se, nei giorni successivi all’articolo, aveva pubblicato di sua iniziativa una rettifica «a seguito di verifiche che si sono rese possibili solo qualche giorno fa», con annesse «scuse ai lettori e all’interessato». 

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 17 maggio 2022.

Il faccendiere Piero Amara, la gola profonda amata da numerose Procure italiane, è pronto a patteggiare reati anche a Potenza con il consenso dei pm. In questo caso si tratta di corruzione, rivelazione di segreto, calunnia, falso ideologico e materiale.

Cinque contestazioni che vanno ad assommarsi ad altri 42 reati già patteggiati che l'avvocato ha totalizzato in anni di onorata carriera. 

Ma in tutto, per ora, ha concordato una pena complessiva di soli 4 anni e 8 mesi. Più o meno un mese per ciascun reato. A novembre l'avvocato Salvino Mondello ha chiesto di definire il procedimento lucano con l'ennesima istanza di patteggiamento a 3 mesi da applicarsi in continuazione con la sentenza di condanna precedentemente riportata a Messina.

La Procura ha dato il consenso. «La nostra richiesta non è ancora stata accolta.

Stiamo aspettando la fissazione dell'udienza che, probabilmente, si terrà nel mese di giugno» ci spiega l'avvocato Mondello. Amara sta attendendo la decisione in stato semilibertà, che gli è stata concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia. 

Per il noto avvocato siracusano, che ha denunciato l'esistenza della fantomatica loggia Ungheria mettendo a soqquadro gli uffici giudiziari di mezza Italia, nel 2009 ha pattuito a Catania 11 mesi di reclusione per rivelazione di segreti di ufficio e accesso abusivo a sistema informatico.

Nel 2019 dal Tribunale di Roma ha incassato 2 anni, 6 mesi e 10 giorni di prigione per 20 contestazioni (una di corruzione in atti giudiziari e le altre per frode fiscale). A Messina, nel 2020, ha patteggiato 1 anno e 2 mesi (in continuazione con Roma) per altri 19 episodi delittuosi (corruzione in atti giudiziari, associazione per delinquere, falso ideologico, minaccia a pubblico ufficiale, induzione indebita a dare utilità e altro).

Infine la Corte di Assise di Roma il 16 novembre 2020 gli ha inflitto un mese di reclusione per favoreggiamento. Arriva ora la richiesta per i fatti contestati nella conclusione delle indagini del 22 ottobre 2021 a Potenza. Nella richiesta di rinvio a giudizio la posizione di Amara è stata stralciata proprio per la richiesta di patteggiamento. L'avvocato siracusano nell'inchiesta lucana ha tre capi d'accusa. In uno di questi gli sono contestati, in concorso con l'ex procuratore di Trani Carlo Maria Capristo e l'ex poliziotto Filippo Paradiso, il falso

ideologico, il falso materiale e la calunnia.

Secondo l'accusa, Amara sarebbe stato «istigatore e beneficiario» di due decreti di iscrizione sul registro degli esposti anonimi della Procura di Trani «ideologicamente falsi» su un finto complotto ai danni dell'Eni, grazie ai quali si sarebbe accreditato come soggetto in grado di condizionare i procedimenti.

La calunnia, invece, riguarda le accuse contenute negli esposti, dove «veniva prospettata la fantasiosa esistenza di un preteso progetto criminoso che mirava a destabilizzare i vertici» dell'azienda del Cane a sei zampe. 

Infatti Amara, «nella piena consapevolezza, non solo dell'innocenza degli accusati, ma dell'assoluta fantasiosità delle notizie di reato contenute nei due esposti», avrebbe accusato «Roberto De Santis e Gabriele Volpi, funzionari dello Stato nigeriano, Pietro Varone, esponenti di vertice di Saipem e di Telecom, che si avvaleva anche della società siracusana Oikothen Scarl, della nota imprenditrice Emma Marcegaglia e del noto professionista Paola Severino (già ministro della Giustizia) di un traffico di rifiuti. In un ulteriore capo d'imputazione, per rivelazione e utilizzazione dei segreti d'ufficio, la Procura contesta ad Amara di aver ottenuto notizie riservate dal pm Antonio Savasta, che era delegato a trattare le indagini sugli esposti. 

In particolare il legale sotto inchiesta avrebbe saputo in anticipo quando gli investigatori della Guardia di finanza si sarebbero presentati negli uffici dell'Eni per acquisire documentazione. 

Ma nel capo d'imputazione principale Amara, secondo la Procura di Potenza, è indicato come «soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari». Infatti l'ex procuratore Capristo, stando alle accuse, gli avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» in cambio del «costante interessamento per gli sviluppi della sua carriera». 

Nei confronti di Amara sono pendenti ulteriori procedimenti sempre per calunnia anche a Milano. La Procura meneghina lo accusa di averla commessa ai danni dell'avvocato Luca Santa Maria e dei dirigenti Eni Claudio Granata e Claudio Descalzi, «pur sapendoli innocenti».

A ciò si deve aggiungere la recente richiesta di rinvio a giudizio sempre della Procura di Milano per la calunnia ai danni del giudice Marco Mancinetti nell'ambito delle dichiarazioni sulla cosiddetta Loggia Ungheria. 

Nel procedimento lucano, oltre ai verbali già raccontati dalla Verità, sono state depositate altre dichiarazioni rese da Amara il 29 giugno, il 7 luglio e il 18 ottobre 2021. l 7 luglio l'avvocato riprende anche a Potenza il discorso sulla transazione tra la Blue power di Francesco Nettis, ex socio della famiglia D'Alema nel settore vitivinicolo, e l'Eni di cui aveva già parlato a Milano il 24 novembre 2019. Secondo il faccendiere D'Alema nel 2017 avrebbe consigliato all'Eni di assecondare Nettis e di concedergli il 20-30 per cento di quanto chiedeva («intorno ai 130 milioni di euro») «nell'interesse nazionale».

E a chi premeva questa soluzione? Secondo Amara, il suo referente Antonio Vella, all'epoca numero due dell'azienda, successivamente licenziato e accusato dalla Procura di far parte di un'associazione a delinquere finalizzata alla calunnia e al depistaggio, gli avrebbe detto che «la cosa interessava "a quello"», cioè a Descalzi. 

A Potenza Amara cambia un po' le carte in tavola e fa sapere che «comunque non è contro D'Alema questo discorso» visto che l'ex premier, «alla fine opera come privato in questa operazione». Il faccendiere sostiene di andare in brodo di giuggiole quando parla di Baffino: «È una persona che io stimo in modo straordinario». 

Anche in questo verbale racconta che cosa gli avrebbe detto l'ex premier nel presunto incontro romano per gestire la transazione: «A me non me ne frega nulla di questa operazione, nel modo più assoluto, però se chiama l'Eni io metto pace e così via, alla fine della fiera secondo me convinco l'imprenditore a chiudere anche a settanta milioni, però lei deve intervenire su Vella».

La versione di Amara è che l'ex numero due, oggi indagato per associazione per delinquere, sarebbe stato l'unico ostacolo all'accordo, invece, a suo dire, caldeggiato da Descalzi. Il verbale è costruito per far passare come baluardo di legalità l'uomo grazie al quale Amara faceva affari con l'Eni, cioè Vella: «Mi dice: "Io al più posso non chiudere la transazione e discutiamo, ma prima mi deve arrivare l'input di Descalzi». 

La prova di quello che dice sarebbero le registrazioni fatte di nascosto durante alcune conversazioni con Alessandro Casali, pierre e «intermediario» con D'Alema. Amara, il 7 luglio, di fronte al procuratore Francesco Curcio, sostiene di essere pronto a consegnargli quei file, una primizia che non aveva mai dato a nessuno. Peccato che una di queste registrazioni, la più significativa, fosse già stata depositata presso la Procura di Milano e da lì fosse illegalmente fuoriuscita per giungere nell'ufficio di Pier Camillo Davigo al Csm e terminare in un fascicolo giudiziario romano per rivelazione di segreto.

Caso Amara, procuratrice aggiunta di Milano Pedio archiviata a Brescia. Il giudice: “Da lei nessuna inerzia nelle indagini”. Andrea Siravo su La Stampa il 5 settembre 2022.

Dopo l’allora procuratore Francesco Greco, anche la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio incassa l’archiviazione dall’accusa di omissione di atti d’ufficio. Era stata indagata da Brescia da un lato per una presunta «inerzia» investigativa nel caso dei verbali sull’esistenza della fantomatica Loggia Ungheria, di cui aveva parlato l’avvocato Piero Amara, interrogato tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Dall’altro la gestione dell'ex manager della compagnia petrolifera italiana Vincenzo Armanna. In particolare erano state ipotizzate un mancato aggiornamento della sua iscrizione per calunnia e una "omessa valutazione" di una richiesta di misura cautelare proposta in 'bozza' dal pm Storari nei confronti di colui che è stato indicato come 'grande accusatore' nel processo milanese Eni Nigeria. L’inchiesta del procuratore di Brescia Francesco Prete e del pm Donato Greco, nata in seguito alle denunce del pm Paolo Storari, il collega co-assegnatario del fascicolo sul cosiddetto 'falso complotto' Eni, si era chiusa con la richiesta di archiviazione. Istanza accolta nei giorni scorsi dal gip Francesca Grassani che ha scagionato dall’accusa Pedio. Per il giudice le divulgazioni dell’ex legale esterno di Eni sull’associazione segreta non erano tali da configurare una situazione di «urgenza», tale da «giustificare il compimento dell’atto doveroso», ossia l’iscrizione nel registro degli indagati. Inoltre, basandosi su una e-mail inviata da Storari il 24 aprile 2020 ha ritenuto che la «sollecitazione per una rapida iscrizione è stata raccolta» dall’aggiunta Pedio dal momento che è avvenuta il 12 maggio 2020, ovvero «poco più di quindici giorni dopo». Riguardo ad Armanna, il gip bresciano è arrivata ad analoghe conclusioni in quanto le dichiarazioni da cui sarebbe emersa la calunnia risalgono al 2019, mentre la «minuta» della richiesta di arresto proposta da Storari è del marzo 2021. «Come sempre dichiarato e documentato dalla dottoressa Pedio, è stata esclusa qualsivoglia omissione da parte del magistrato ed è stata ritenuta del tutto insussistente qualsiasi ipotesi di reato», hanno commentato in una nota gli avvocati Luca Jacopo Lauri e Alessandro Viglione.

Storari assolto in primo grado? Tutto da rifare. Passò le carte a Davigo, per lui nuovo processo. La procura di Brescia accelera i tempi: il collega ha infranto il segreto d'ufficio. Luca Fazzo il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.

Tempi stretti, perché il bubbone scoppiato all'inizio di quest'anno all'interno della Procura della Repubblica di Milano non può essere lasciato aperto troppo a lungo senza che torti e ragioni siano chiariti. Così la Corte d'appello di Brescia ha fissato con procedura di urgenza il processo d'appello a uno dei protagonisti del caso che ha squassato l'ex tempio di Mani Pulite: il pubblico ministero Paolo Storari, che dopo essere entrato in rotta di collisione con i vertici dell'ufficio - il capo Francesco Greco e il suo vice Fabio De Pasquale - sulla gestione dei verbali del pentito Piero Amara sulla «loggia Ungheria» decise di consegnarne per vie brevi una copia informale a Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura.

In primo grado Storari, dopo avere chiesto di essere giudicato con rito abbreviato, è stato assolto per mancanza dell'elemento psicologico del reato: in sostanza, era convinto di agire all'interno delle norme, essendo Davigo - come componente del Csm - abilitato anche a ricevere atti coperti da segreto. Ma la Procura della Repubblica di Brescia ha fatto ricorso contro l'assoluzione del collega. E la Corte d'appello, benché gravata da numerosi processi, ha stabilito una corsia preferenziale: il processo a Storari è stato fissato per il prossimo 4 ottobre, poche settimane dopo la fine della pausa feriale dell’attività.

Inizialmente era sembrato che la Procura bresciana - che nel corso del primo processo aveva chiesto la condanna di Storari a sei mesi di carcere per rivelazione di segreto d'ufficio - non intendesse impugnare l'assoluzione del pm milanese. Invece, dopo avere letto e riletto le complesse motivazioni della assoluzione firmata dal giudice Federico Brugnara, il pm bresciano Donato Greco (solo con la sua firma, e non con quella del suo capo Francesco Prete) ha deciso di ricorrere. Storari è colpevole, dice il ricorso, lui stesso ha ammesso di avere consegnato i verbali a Davigo e la sua ignoranza delle norme non può essere invocata come scusante: specie trattandosi di un magistrato. Da parte sua il difensore di Storari, Paolo Della Sala, ha depositato una memoria difendendo la sentenza di assoluzione e segnalando che semmai la motivazione poteva essere ancora più ampia, «il fatto non sussiste».

Resta il fatto che Storari torna sotto tiro, e la sua sorte torna ad incrociarsi con quella di Davigo, che invece ha scelto la strada del processo ordinario, con udienze pubbliche che hanno già riservato squarci illuminanti sulla vita interna del Csm: come la testimonianza di David Ermini, che del Csm è vicepresidente, e che ha ammesso di avere ricevuto i verbali a sua volta da Davigo ma di averli distrutti senza leggerli, salvo precipitarsi a raccontare tutto al presidente della Repubblica.

Nel frattempo altri tasselli si sono aggiunti al quadro già sufficientemente complesso. La Procura bresciana ha chiesto il processo anche a carico di Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che Storari ha sempre indicato come il principale responsabile dell'insabbiamento dei verbali di Amara sulla loggia Ungheria. Che nel frattempo sono approdati a Perugia, dove la Procura ha chiesto l'archiviazione di tutta la faccenda: non perché ci sia la certezza che la loggia non esisteva, ma perché le dichiarazioni di Amara non hanno trovato conferme.

Caso Amara, il pm Storari citato in giudizio a Brescia. Il presidente della Corte d’appello di Brescia, prima Sezione penale, ha citato il pm di Milano Paolo Storari in qualità di «imputato» per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Amara. Il Dubbio il 21 agosto 2022.

Il presidente della Corte d’appello di Brescia, prima Sezione penale, ha citato il pm di Milano Paolo Storari in qualità di «imputato» per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Amara. Storari, difeso dall’avvocato Paolo Della Casa, era stato assolto in primo grado perché il fatto «non costituisce reato» dall’accusa mossagli per aver consegnato i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Storari aveva scelto di rivolgersi all’ex pm di Mani Pulite per «autotutelarsi», alla luce della presunta inerzia dei vertici della procura di Milano ad indagare sulla cosiddetta “loggia Ungheria”, svelata da Amara in quei verbali. La cui consegna, aveva chiarito il magistrato, era avvenuta dopo le rassicurazioni di Davigo sul fatto che il segreto d’ufficio non fosse opponibile ai membri del Csm.

Successivamente, l’1 aprile scorso, la Procura di Brescia si era appellata «nel ritenere legittima la procedura di rivelazione del segreto d’ufficio commessa in favore di Davigo». La notifica della citazione di Storari è arrivata alle parti lo scorso 16 agosto. Parte civile, il magistrato del Csm Sebastiano Ardita, assistito dall’avvocato Fabio Repici. L’udienza si svolgerà il 4 ottobre alle 11:30.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 4 agosto 2022.

Non era e non può restare di competenza della Procura di Milano, ma doveva e ora deve essere trasferita alla Procura di Brescia, l'inchiesta che da 5 anni Milano va conducendo sui depistaggi attribuiti a dirigenti Eni e finalizzati (tramite i controversi Piero Amara e Vincenzo Armanna) a inquinare il processo per tangenti Eni-Nigeria. 

Lo ha deciso la Procura Generale della Corte di Cassazione, che ha accolto l'istanza di Amara e dell'ex numero due di Eni Antonio Vella, giovatisi di un «baco» da sempre irrisolto nello schema dei pm.

Le indagini avviate nel 2017 erano infatti state concluse il 2 dicembre 2021 dal procuratore aggiunto Laura Pedio (con i subentrati pm Stefano Civardi e Monia Di Marco) con la prospettiva di una (tuttora attesa) richiesta di archiviare l'ad Eni Claudio Descalzi, e invece di processare 17 indagati tra cui appunto Vella, Amara, Armanna e l'ex capo affari legali Eni Massimo Mantovani: tutti per aver formato una associazione a delinquere finalizzata a molteplici reati tra i quali danneggiare i processi istruiti dal pm Fabio De Pasquale cercando di crearne «cloni» attraverso false denunce di «complotti anti-Descalzi» indirizzate a pm complici di Amara a Trani e Siracusa; 

diffamare e far estromettere i consiglieri indipendenti Eni Luigi Zingales e Karina Litvack; tacciare il primo avvocato di Armanna, Luca Santa Maria, di infedele patrocinio in combutta con De Pasquale.

E qui la Procura di Milano ha sempre ondeggiato: da un lato veicolando in pubblico l'idea di un complotto Eni mirato anche contro De Pasquale (così ad esempio il 24 marzo 2021 un comunicato dell'allora procuratore Francesco Greco dopo l'assoluzione Eni-Nigeria); ma dall'altro lato non traendone allora la conseguenza procedurale di inviare il procedimento a Brescia, Procura competente su fatti dei quali siano parti offese pm milanesi. 

Quando un anno fa l'avvocato Santamaria (in attesa da anni dell'esito della propria querela ad Armanna) chiede alla Procura Generale milanese di togliere il fascicolo alla Procura della Repubblica, per scongiurare l'avocazione l'11 giugno 2021 la pm Pedio stralcia e manda al giudice solo questa micro-richiesta di processare Amara, Armanna e Mantovani per calunnia di Santa Maria, nell'imputazione prima scrivendo e poi invece togliendo l'indicazione esplicita anche del pm De Pasquale quale parte offesa.

Qualifica che peró il giudice De Marchi ravvisa comunque palese nell'imputazione, sicchè il 14 aprile 2022 la trasferisce per competenza a Brescia, che peraltro già il 25 maggio ne chiede l'archiviazione, a cui Santa Maria si opporrà il prossimo 3 novembre. 

Ed è sull'effetto attrattivo di questa connessione che hanno ora fatto leva con successo i difensori Vinicio Nardo e Salvino Mondello, rimarcando al pg di Cassazione Vincenzo Senatore che, per i pm milanesi, Amara e Vella si sarebbero associati a delinquere per compiere, tra tanti reati-fine, anche proprio quella calunnia di Santamaria già giudicata di competenza bresciana in funzione della parte offesa De Pasquale.

Ora i pm milanesi del neoprocuratore Marcello Viola resterebbero competenti solo sulle richieste di archiviazione di quegli indagati (compreso Descalzi) che da dicembre 2021 si erano infine orientati a ritenere estranei al depistaggio Eni e anzi calunniati da Amara e Armanna: scenario già da molto prima propugnato dall'altro pm Paolo Storari ai vertici della Procura in forza di prove invece ignorate a lungo dai colleghi, alcuni dei quali perciò indagati a Brescia per omissione d'atti d'ufficio. 

(ANSA il 19 luglio 2022) - I motivi d'appello presentati dalla Procura di Milano per chiedere di ribaltare l'assoluzione decisa dal tribunale nei confronti di tutti gli imputati al processo sul caso Eni/Shell-Nigeria "sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità". 

Lo ha spiegato davanti alla Corte d'appello milanese il pg Celestina Gravina nel motivare, basandosi sulla giurisprudenza, la sua scelta di rinunciare all'impugnazione proposta dall'aggiunto Fabio De Pasquale. 

Sulla sua scelta ha pesato anche la sentenza assolutoria passata in giudicato di Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, ritenuti dal pm i mediatori della presunta tangente da lui ipotizzata. "Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto - ha proseguito il pg -.Come se non ci fosse un'associazione passata in giudicato. E questa è una violazione delle regole di giudizio".

(ANSA il 19 luglio 2022) - La seconda Corte d'Appello di Milano, presieduta da Enrico Manzi, ha preso atto della rinuncia dei motivi di appello da parta del pg Celestina Gravina che ha chiesto anche "la declaratoria di passaggio in giudicato" della sentenza di assoluzione di primo grado di tutti i 15 imputati al processo sul caso Eni/Shell Nigeria. 

Il procedimento va avanti solo per le questioni civili. Il pg, nel chiudere il suo intervento, ha affermato che "questo processo deve finire perché non ha fondamento" aggiungendo che gli imputati "che per 7 anni sono stati sotto procedimento hanno il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all'economia processuale e alle regole del giusto processo".

Monica Serra per “la Stampa” il 20 luglio 2022.

Non si è limitata a chiedere l'assoluzione degli imputati nel processo Eni-Nigeria, a partire dall'ad Claudio Descalzi. Con una mossa che almeno a Milano non ha precedenti, la sostituta procuratrice generale Celestina Gravina ha rinunciato ai motivi d'appello, rendendo definitive tutte le assoluzioni di primo grado. 

Le dure parole che ha pronunciato sono suonate in aula come un "atto di accusa" nei confronti del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che non ha mai chiamato per nome. E che - proprio per la gestione delle prove in questo processo al centro del duro scontro che si è consumato nella procura di Milano - è imputato a Brescia per omissione di atti d'ufficio.

Gravina ha definito i motivi d'appello promossi dall'aggiunto «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità», che non tengono conto dell'«assoluzione definitiva» dei presunti intermediari della maxi tangente al centro del processo: Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, già giudicati perché avevano scelto il rito abbreviato. 

«E questa - per la sostituta pg - è una violazione delle regole di giudizio». Ha parlato di «vicende buttate lì come un'insinuazione», di «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» usati dalla procura per sostenere l'accusa di corruzione internazionale, di «colonialismo della morale» da parte del pm per rispondere all'accusa di «colonialismo predatorio» che De Pasquale muoveva a Eni e Shell nel ricorso.

«Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento - ha detto Gravina - Non c'è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive». E, dopo aver «patito sette anni», gli imputati «hanno diritto a vedere cessare immediatamente questa situazione contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo».

La sostituta pg ha censurato la richiesta di confisca di 1, 092 miliardo di dollari avanzata da De Pasquale, pari alla presunta maxi tangente che, nella ricostruzione accusatoria, Eni e Shell avrebbero pagato per aggiudicarsi la concessione da parte del governo nigeriano dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Ha aggiunto Gravina che invece Eni e Shell avrebbero fatto «la ricchezza di quel Paese» a partire dagli anni Cinquanta «anche con tributi di sangue».

Per il gruppo è stata così sancita «la fine della immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria penale». La requisitoria della sostituta pg - che il difensore di Descalzi, Paola Severino, ha definito «penetrante, argomentata, anche pacata che però ha frantumato completamente l'accusa» - ha messo una pietra tombale sul processo. 

Che andrà avanti solo per il ricorso della parte civile. L'avvocato Lucio Lucia, che rappresenta la Repubblica nigeriana, ha chiesto alla corte di valutare i danni in separata sede e una provvisionale pari alla somma versata per i diritti di esplorazione del giacimento. Decisione attesa il 30 settembre.

La resa dei magistrati: "Processo Eni-Nigeria senza fondamento". Cristina Bassi il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Procura generale non fa appello contro l'assoluzione dei vertici. E spara sui pm

Il colpo di scena arriva in apertura di udienza. La Procura generale di Milano rinuncia ai motivi di appello nel caso Eni-Nigeria. Nessun processo di secondo grado dunque, diventano definitive le assoluzioni «perché il fatto non sussiste» dei 15 imputati, tra cui le società Eni e Shell, l'attuale ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni decise dal Tribunale nel marzo dello scorso anno. Il processo va avanti solo per gli aspetti civili, dal momento che anche la Nigeria aveva impugnato le assoluzioni come parte civile e chiesto un risarcimento.

Quello del sostituto procuratore Celestina Gravina è un atto clamoroso e con pochi (se non nulli) precedenti. Non si è limitata infatti a chiedere la conferma delle assoluzioni di primo grado, su cui la Corte si sarebbe poi dovuta esprimere come alla fine di ogni dibattimento. Ha invece cassato l'impugnazione presentata dalla Procura, nella persona del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, della prima sentenza e ha evitato la celebrazione stessa del nuovo processo. Qui la Seconda sezione della Corte d'appello, presieduta dal giudice Enrico Manzi, non ha potuto che prendere atto e non è possibile il ricorso in Cassazione. Gravina ha inoltre chiesto ai giudici «la declaratoria di passaggio in giudicato» del verdetto di assoluzione. Nel motivare la propria decisione il sostituto pg sconfessa radicalmente il lavoro dei «colleghi» del quarto piano che in questo procedimento basato su una presunta corruzione internazionale avevano investito enormi energie e risorse. «Non c'è prova di nessun fatto rilevante in questo processo - è la conclusione della requisitoria di ieri - Gli imputati che hanno patito un processo lungo sette anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti». Gravina ha spiegato di ritenere «di dover esercitare la sua funzione di osservanza della legge», quindi di rispettare i dettami della Suprema corte e tener ben presente che esiste una sentenza di assoluzione passata in giudicato sui due presunti intermediari della maxi tangente nigeriana. «Mancano le prove in questo processo e i binari di legalità del processo segnato dalla Cassazione sono corrispondenti al diritto delle persone in questo Paese a non subire processi penali quando non sussistano i presupposti di legge. Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento».

Tutto era nato dall'accusa a Eni di aver pagato una mazzetta da 1,092 miliardi di dollari per aggiudicarsi nel 2011 la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di sfruttamento del giacimento Opl245. Ha argomentato il sostituto pg: i motivi d'appello della Procura «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Pesa l'assoluzione, chiesta e ottenuta dalla stessa Gravina e poi passata in giudicato, dei due presunti mediatori (processati in abbreviato) della corruzione ipotizzata. «Ma il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. E questa è una violazione delle regole di giudizio». Ancora ha parlato di «vicende buttate lì come una insinuazione», di «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» portati dalla Procura e di «colonialismo della morale» del «pm». Non c'è, ha sostenuto, «prova dell'accordo per una corruzione, non c'è prova del pagamento di un'utilità corruttiva». C'è da parte del pm (mai citato per nome) un «atteggiamento fondamentalmente neocolonialista, altro che il colonialismo predatorio di cui sono accusate le due compagnie petrolifere che hanno fatto la ricchezza della Nigeria». Così Paola Severino, avvocato di Descalzi: «Una requisitoria penetrante, argomentata, sintetica, pacata che però ha frantumato completamente l'accusa».

Crolla il processo Eni-Nigeria. Il pg: «Dal pm linea neocolonialista, no ai processi senza presupposti». La dura reprimenda del sostituto procuratore generale contro l'aggiunto De Pasquale dopo la rinuncia all'appello: «Una situazione contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo». Simona Musco su Il Dubbio il 20 luglio 2022.

«Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo». Sono veri e propri macigni le parole pronunciate questa mattina dal sostituto procuratore generale di Milano Celeste Gravina, che ha rinunciato all’appello nei confronti dei 15 imputati, 13 persone e le società Eni e Shell, accusati di corruzione internazionale nel processo sulla presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari per la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Una decisione che arriva dopo l’assoluzione di tutti gli imputati in primo grado pronunciata il 17 marzo 2021 – e ora definitiva -, «perché il fatto non sussiste». Ma la requisitoria di oggi è stata una vera e propria reprimenda nei confronti dell’aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, che dopo l’assoluzione ha presentato appello, nonostante fosse emerso in più occasioni l’assenza di prove e l’inaffidabilità del grande accusatore Vincenzo Armanna, ex vicepresidente di Eni Nigeria. L’intero processo, secondo Gravina, si sarebbe basato solo su «chiacchiere e opinioni generiche», sulla cui base la più grande società italiana è stata tenuta in “ostaggio” e tredici persone sono finite sulla graticola. Ma ogni cittadino, ha ammonito il sostituto procuratore generale, «ha diritto, dopo sette anni e senza che sia stata raggiunta la prova della sua colpevolezza, a veder finire immediatamente il processo».

Fra gli imputati figurano l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi (nella foto), il suo predecessore Paolo Scaroni, l’ex ministro del Petrolio della Nigeria, Dan Etete, oltre a quattro ex manager di Shell, ex dirigenti di Eni e alcuni intermediari. Fra questi anche Roberto Casula, ex capo divisione esplorazioni di Eni, Armanna, Ciro Antonio Pagano, all’epoca dei fatti managing director di Nae, Obi Emeka, avvocato che avrebbe fatto da intermediario nell’operazione, e Luigi Bisignani, anch’egli considerato mediatore. Sulla scelta di Gravina ha inciso anche la sentenza assolutoria in abbreviato – e passata in giudicato – nel processo a carico di Emeka e Gianluca Di Nardo, ritenuti dal pm i mediatori della presunta tangente di cui però non ci sono tracce. Il presidente del collegio della seconda sezione penale della Corte di Appello di Milano, Enrico Manzi, «ha preso atto della rinuncia», mettendo dunque una pietra tombale sulla vicenda. Il processo di secondo grado va dunque avanti solo per i soli fini civili per l’appello proposto dal governo federale della Nigeria, parte civile nel processo, rappresentato in aula dall’avvocato Lucio Lucia.

«Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo – ha affermato Gravina -. Gli imputati hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti» e perciò va messa la parola fine. Anche perché i motivi d’appello presentati da De Pasquale, ha ammonito la pg, «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». L’aggiunto milanese, ignorando l’esito del processo a carico di Emeka e Di Nardo, «continua a sostenere le sue posizioni come se non ci fosse un’assoluzione passata in giudicato» che stabilisce che i due non sono mai stati collettori «di una tangente destinata» ai pubblici ufficiali nigeriani. «Il pm di questo non se ne accorge» e questa è una violazione delle regole di giudizio». Nell’appello proposto dalla procura mancherebbe «qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa» e «per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio», mentre sono presenti profili «incongrui e insufficienti» che restituiscono «diverse ricostruzioni possibili che sono lo specchio dell’assenza di fatti certi posti alla base della accusa e non di un accordo corruttivo che non si indica in alcun modo». Anzi, le vicende sarebbero state «buttate lì come una insinuazione», ha affermato Gravina, arrivando a parlare di «colonialismo della morale» da parte «del pm»: come «le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto», De Pasquale avrebbe «imposto» la propria linea, volendo scegliere «al posto di organi democraticamente eletti». Atteggiamento che la procura ha imputato alle due società, che invece «hanno fatto la ricchezza della Nigeria» anche con «tributi di sangue». Il tutto senza riuscire ad individuare le presunte tangenti versate e riparando «sul fatto che questa operazione non doveva farsi». La procura si sarebbe comportata, dunque, come una sorta di «Tribunale amministrativo della Nigeria». Ma in Italia c’è il «diritto delle persone a non subire processi penali quando non vi sono motivi perché si tengano».

Gravina ha parlato anche delle «bugie ripetute» di Armanna, dei «suoi ripensamenti» e delle «sue speranze frustrate di impunità». Falsità sulle quali De Pasquale era già stato messo in guardia dal pm Paolo Storari (finito nella bufera per il caso verbali) e stigmatizzate nelle motivazioni della sentenza di assoluzione dal Tribunale di Milano, che aveva ammonito l’aggiunto soprattutto in merito alla gestione delle prove, per la quale la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio di De Pasquale e Sergio Spadaro. Tra queste prove, il video mai depositato a processo, girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica – e smentita – “loggia Ungheria”, che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società. Il contenuto del video, per i giudici di primo grado, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. Per Paola Severino, legale di Descalzi, «è stata una requisitoria molto penetrante, che ha frantumato completamente l’accusa. La giustizia può essere magari lenta ad arrivare, ma quando arriva deve essere dichiarata immediatamente».

Eni, in una nota, ha parlato di «immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria penale». «La rinuncia determina che le assoluzioni già pronunciate nel marzo 2021 di Eni e dei suoi manager siano diventate definitive, passando in giudicato. Dopo oltre 8 anni tra indagini e procedimenti giudiziari, cause di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali per la società e il suo management, la Giustizia ha completato il suo corso confermando in via definitiva la piena assoluzione perché il fatto non sussiste», sottolinea Eni. «Eni e le sue persone, finalmente forti del riconoscimento irrevocabile della correttezza e della legalità del proprio operato, potranno continuare a dedicarsi con sempre maggiore efficacia alle sfide epocali che oggi caratterizzano lo scenario internazionale: sicurezza degli approvvigionamenti, accesso all’energia e percorso verso una transizione energetica equa», conclude la società di San Donato Milanese.

Per il sostituto pg "processo non ha fondamento". Processo Eni-Nigeria, il flop dei magistrati di Milano è definitivo: la procura generale rinuncia all’Appello contro Scaroni e Descalzi. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

Il processo Eni-Nigeria si chiude senza passare in Appello. I giudici di Milano questa mattina hanno preso atto della rinuncia da parte della Procura generale dei motivi d’appello nel processo di secondo grado nei confronti dell’ex e dell’attuale management della società petrolifera, in particolare l’AD Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.

A comunicarlo in aula all’apertura dell’udienza è stato il sostituto pg di Milano Celestina Gravina, rendendo così definitiva l’assoluzione con formula piena in primo grado nei confronti dei 15 imputati tra dirigenti di Eni, dirigenti di Shell, mediatori italiani e nigeriani, oltre alle due società petrolifere.

Gli indagati erano accusati di corruzione internazionale per una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari che sarebbe stata versata dalle due società petrolifere per aggiudicarsi la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245.

Una scelta che conferma il flop colossale del processo portato avanti dai magistrati che a vario titolo hanno portato avanti l’inchiesta, in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, ora pm alla Procura europea antifrodi, paradossalmente indagati per “rifiuto d’atto d’ufficio”, ovvero per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo.

Un processo senza prove, quello imbastito dai magistrati milanesi, come sottolinea la stessa sostituto pg Gravina in aula. Proprio la “mancanza di qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa” per poter portare avanti un ricorso che non ha la forza “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio“.

Processo che “deve finire oggi perché non ha fondamento”, ha aggiunto ancora Gravina. Per il rappresentante dell’accusa bisogna rispettare i “binari della legalità” tracciati dalla Cassazione e quindi non bisogna sottoporre le persone ai processi quando “mancano le prove“. Gravina che con parole durissime ha descritto e criticato i motivi di appello presentati dall’aggiunto Fabio De Pasquale: “In questo processo – ha spiegato il sostituto pg- non c’è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive“. Un atteggiamento “neocolonialista“, secondo il pg, lo ha avuto “il pm”, ossia De Pasquale, perché come “le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto” ha “imposto” la propria linea, volendo scegliere “al posto di organi democraticamente eletti“. De Pasquale che ha portato solo “chiacchiere e opinioni generiche che toccano i governanti degli ultimi 10 anni in Nigeria” nel processo.

Gravina poi si toglie ancora qualche ‘sassolino dalla scarpa’ nei confronti di De Pasquale: “Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. Come se non ci fosse un’associazione passata in giudicato. E questa è una violazione delle regole di giudizio”. Gli imputati, che per sette anni sono stati sotto procedimento, hanno invece “il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all’economia processuale e alle regole del giusto processo”.

Eni-Nigeria è diventa così da inchiesta ‘principe’ della Procura di Milano una sorta di Caporetto della giustizia italiana. Basti pensare le ripercussioni per i due titolari dell’inchiesta, De Pasquale e Spadaro, che lo scorso giugno si sono visti chiedere dai colleghi di Brescia il rinvio a giudizio.

I pm bresciani contestano ai due di non aver depositato nel dibattimento sull’ipotizzata (e non provata) corruzione, chat del cellulare dell’ex dirigente Vincenzo Armanna (accusatore Eni) nelle quali si parlava di 50mila dollari che l’ex manager avrebbe chiesto indietro ad Isaak Eke, 007 nigeriano, teste nel dibattimento che avrebbe dovuto confermare le accuse. Armanna consegnò ai giudici solo parte di quei messaggi, mentre il pm di Milano Paolo Storari aveva scovato gli altri nelle sue indagini e le aveva girate ai vertici della Procura, guidata all’epoca da Francesco Greco.

In più, tra le accuse mosse ai pm milanesi anche il non aver introdotto nel processo presunte false chat, ancora una volta scoperte da Storari, che Armanna avrebbe creato per dare conto di suoi colloqui (falsi) con Descalzi e il capo del personale Eni Claudio Granata.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

La pg Gravina rinuncia all'appello. “Processo Eni infondato”, la Procura generale fa a pezzi i pm De Pasquale e Spadaro. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Chissà come si sentiva il pm Fabio De Pasquale ieri mattina mentre la sua collega della procura generale Celestina Gravina annunciava, nell’aula in cui si sarebbe dovuto celebrare il processo di secondo grado nei confronti della dirigenza Eni per un presunto caso di corruzione in Nigeria, che i giudici avrebbero potuto tornare a casa perché il suo ufficio rinunciava all’appello. E motivava la scelta con toni durissimi, soprattutto nei confronti di chi, mai nominato, si era impegnato per sette anni nell’impresa di far condannare Paolo Scaroni e Claudio Descalzi per corruzione internazionale.

Dopo la richiesta della rappresentante della procura generale della “declaratoria di passaggio in giudicato”, accolta dal Presidente della seconda corte d’appello di Milano Enrico Manzi, la sentenza di primo grado, quella che aveva assolto “perché il fatto non sussiste” i quindici imputati, tredici persone fisiche e le due società Eni e Shell, è diventata definitiva. Parole sferzanti, quelle della dottoressa Gravina. E anche umilianti, perché il pm De Pasquale non si era limitato a ricorrere in appello dopo le assoluzioni del 17 marzo 2021, ma si era anche candidato a sostenere il ruolo dell’accusatore anche nel dibattimento di secondo grado. Ma proprio Celestina Gravina gli era stata preferita per quel ruolo, come esperta, ma forse anche perché più distaccata, dalla procuratrice generale Francesca Nanni. Anche perché quel primo processo e quella sentenza si erano intrecciati con gli sconvolgimenti, quasi storie da intrighi e vecchi merletti, che avevano attraversato la Procura di Milano allora guidata da Francesco Greco. Vicende che sono poi finite a Brescia, dove anche lo stesso De Pasquale è indagato insieme al collega Sergio Spadaro con richieste di rinvio a giudizio per ambedue proprio per fatti che attengono al processo Eni.

Ma indipendentemente dagli aspetti giudiziari, è la stessa immagine personale di De Pasquale che ieri è stata messa in discussione, quando la pg Gravina ha accusato i comportamenti del collega di “colonialismo della morale”, paragonandoli a quelli dei vecchi dominatori che cercavano di imporre con la prepotenza le proprie scelte “al posto di organi democraticamente eletti”. Un vero schiaffo, per un uomo che non ha mai nascosto le proprie preferenze politiche nell’ambito della sinistra. E che, proprio in questo processo – ma De Pasquale indagava su Eni fin da quando il Presidente era Gabriele Cagliari, che poi si suicidò in una cella di San Vittore il 20 luglio del 1993 – aveva accusato le due società di aver voluto colonizzare i nigeriani, con quell’accordo per la concessione dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Eni e Shell, dice invece Gravina, “hanno fatto la ricchezza della Nigeria”, anche con “tributi di sangue”. Anche la lezione di diritto non è male. Perché i motivi dell’appello presentati da De Pasquale sono esili e insignificanti, tanto che “questo processo deve finire perché non ha fondamento”. E l’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo è stato ignorato. Tanto che non si è tenuto in nessun conto il fatto che “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio” occorrono argomenti forti e motivati. E non “incongrui e insufficienti” a dimostrare che ci sia stata corruzione solo sulla base di insinuazioni buttate lì come fossero prove.

Del resto, in un certo senso, forse lo stesso De Pasquale sapeva benissimo quanto fossero deboli gli indizi che aveva raccolto nel corso degli ultimi sette anni. Tanto che lui stesso il 21 luglio 2020 dichiarava: “Non chiedeteci una probatio diabolica. Chiedeteci una prova che sia congrua rispetto a quello che dicono le convenzioni internazionali, cioè che bisogna utilizzare anche gli indizi, bisogna utilizzare tutto ciò che si conosce, non bisogna cercare banalmente, come se fosse la serie televisiva, la pistola fumante”. Un bel ragionamento – riportato anche nelle motivazioni della sentenza di assoluzione-, ma come lo possiamo collegare al fatto che nel frattempo due presunti intermediari della famosa corruzione internazionale, che avevano scelto il rito abbreviato, sono stati assolti con sentenza definitiva? Questo argomento ha pesato seriamente sulla decisione della pg di ritirare il ricorso in appello di De Pasquale. Anche perché è difficile non considerare neanche una sentenza passata in giudicato come “pistola fumante”. Ma del resto gli stessi giudici che avevano emesso la sentenza di assoluzione dei quindici imputati, nelle motivazioni della loro decisione avevano ricordato agli inquirenti che per condannare occorrono le prove, e che è inutile arrampicarsi sugli specchi se queste non ci sono. E anche che l’onere della prova spetta al pm, non alla difesa.

Sarà utile al riguardo ricordare che se il pm De Pasquale è indagato a Brescia e potrebbe essere rinviato a giudizio insieme al suo collega Sergio Spadaro, è proprio perché i due magistrati sono accusati di aver cercato di rafforzare un’ipotesi accusatoria che faceva acqua da tutte le parti con l’omissione di documenti e testimonianze che avrebbero potuto essere favorevoli alla difesa. Come ad esempio una videoregistrazione in cui l’ex manager di Eni Armanna preannuncia all’avvocato Amara e altre due persone le calunnie che si apprestava a riversare sui vertici Eni. Il video avrebbe dimostrato l’inattendibilità di testimoni ritenuti preziosi dall’accusa. Tanto che lo stesso De Pasquale, nel suo ricorso di 120 pagine contro le assoluzioni, ne aveva dedicate otto a quel video, a conclusione delle quali aveva definito quelle parole come semplici “spacconate”. Aggiungendo anche che comunque la difesa degli imputati ne ara a conoscenza da tempo, cosa che i legali del vertice Eni hanno sempre escluso.

Ma qualcosa di molto più grave era accaduto nel corso di quel processo, anche se non fa parte del fascicolo aperto a Brescia. Ed è il tentativo, maldestro ma pericoloso, di far uscire di scena il Presidente del tribunale Marco Tremolada, che stava giudicando le accuse di corruzione internazionale.

L’episodio risale al 5 febbraio del 2020 quando, finita la parte istruttoria del processo Eni-Nigeria, i pm De Pasquale e Spadaro avevano tentato di far ammettere dal tribunale una deposizione dell’avvocato Amara su “interferenze Eni su magistrati milanesi”. È la famosa polpetta avvelenata da porgere al Presidente Marco Tremolada, che viene definito dal tandem dei calunniatori come “avvicinabile”. Il tribunale aveva mangiato la foglia, anche perché a quel punto il presidente avrebbe dovuto astenersi dal poter continuare il processo, non accogliendo la richiesta. Ma la cosa sorprendente è che immediatamente il procuratore Francesco Greco e la sua aggiunta Laura Pedio avevano trasmesso gli atti a Brescia perché la Procura verificasse se qualche giudice avesse commesso i reati di traffico di influenze e abuso d’ufficio. Inutile dire che se qualcuno ci aveva contato sarà rimasto deluso dopo l’archiviazione dell’episodio. Ma c’era stato comunque un retroscena.

Perché un altro pm di Milano, quel Paolo Storari che diventerà famoso per i verbali di Amara passati a Camillo Davigo, in una deposizione alle Procure di Brescia e di Roma, aveva raccontato di una riunione milanese in cui Fabio De Pasquale avrebbe detto che il giudice Marco Tremolada era troppo appiattito sulle posizioni delle difese di Eni, quindi bisognava trovare il modo di farlo astenere. Quando? Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 2020, quindi nei giorni precedenti a quel 5 febbraio in cui la polpetta avvelenata era entrata invano nell’aula del processo Eni. Su cui ieri è calato, si spera definitivamente, il sipario. Non è proprio stata una bella pagina. Che va comunque inscritta nella grande delusione, per chi ci aveva creduto, nei confronti degli uomini della mitica procura di Milano. Dove evidentemente, da Mani Pulite in avanti – ormai ce ne sono le prove – il fine ha sempre giustificato i mezzi usati. E che mezzi! 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Eni, un'inchiesta scandalosa: così i magistrati hanno bloccato 70 miliardi. Michele Zaccardi su Libero Quotidiano il 21 luglio 2022

È finita con un buco nell'acqua l'inchiesta per corruzione internazionale intentata nei confronti di Eni e dei suoi manager per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. Le indagini, che si sono trascinate per otto anni, non solo hanno macchiato la reputazione del colosso energetico italiano ma hanno anche prodotto dei danni economici ingenti a tutte le parti in causa. Nel complesso le vicende giudiziarie e il governo nigeriano hanno messo a rischio un progetto dal valore di 70 miliardi di euro. Mentre soltanto di spese legali, comprese quelle per una vicenda analoga in Algeria, Eni ha dovuto sborsare 100 milioni di euro. Ma andiamo con ordine. L'affaire Nigeria nasce dall'Opl 245, sigla che sta per Oil Prospecting License, una concessione esplorativa per il più grande giacimento petrolifero del Paese (due campi con riserve stimate pari a 9 miliardi di barili), situato a 150 chilometri al largo del delta del fiume Niger. Dal 1998 al 2011 la licenza è invischiata in contenziosi giudiziari e arbitrati internazionali tra il governo nigeriano, la compagnia britannica Shell e la società locale Malabu.

I RITARDI

Il 30 ottobre 2010 Eni prova, attraverso la sua controllata Nigerian Agip Exploration (Nae), ad acquistare il 100% delle quote dell’Opl 245, ma l’offerta non viene accettata dal governo. Che, però, preoccupato dai mancati introiti causati dai ritardi nella messa in funzione del giacimento, a novembre apre una trattativa con Shell, Malabu ed Eni. Pochi giorni dopo, si verifica un altro stallo: Mohammed Abach, ilfiglio del presidente nigeriano che nel 1998 aveva assegnato la licenza a Malabu, rivendica il 50% delle azioni di quest’ultima. Visto l’andazzo, l’allora direttore generale di Eni, Claudio Descalzi, blocca il negoziato. La soluzione viene superata grazie all’intervento del ministro della giustizia della Nigeria, che mette al riparo la compagnia italiana da eventuali contenziosi tra Shell e Malabu, liquidando la società nigeriana. Alla fine, il 29aprile 2011 viene firmato un accordo tra le parti. Eni e Shell versano 1,3 miliardi di dollari al governo e diventato comproprietari del progetto. Da allora, però, dal giacimento non è stata estratta una goccia di petrolio. Il motivo? Nonostante la richiesta fatta da Eni nel rispetto dei termini di legge, la Nigeria, con la scusa dei procedimenti giudiziari pendenti, non ha mai trasformato la licenza da esplorativa in estrattiva, rendendo impossibile l'avvio della produzione. Per questo, nel settembre del 2019 la compagnia italiana ha fatto ricorso al Centro Internazionale perla risoluzione delle controversie sugli investimenti. Anche perché i 2,5 miliardi di dollari, tra investimenti e costo della licenza, spesi da Eni e Shell rischiano nel frattempo di essere messi a repentaglio: la concessione è infatti scaduta l'11 maggio 2021. In ogni caso, il punto sarà oggetto dell'arbitrato che dovrà stabilire se il comportamento delle autorità nigeriane sia stato illegittimo. Ma i ritardi del governo di Abuja hanno causato una perdita di ricchezza anche per la popolazione locale. Secondo uno studio condotto dal centro di ricerca OpenEconomics, il progetto Opl può generare un incremento del Pil nigeriano di 41 miliardi di dollari spalmati su 25 anni, ovvero 1,64 miliardi di dollari all'anno, e dare lavoro a 200mila persone con un impatto sui redditi pari a 12 miliardi di dollari. Non solo. Aumenterebbero di 15,1 miliardi di dollari anche le entrate fiscali del governo: 4,8 miliardi da tasse dirette e 10,3 da indirette. A questo, poi, vanno aggiunti i 7,1 miliardi di dollari (il 50% dei quali spesi in Nigeria) di investimenti messi sul piatto da Shell ed Eni. 

Eni, un’assoluzione è sufficiente a creare il ragionevole dubbio. Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 23 luglio 2022.

Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori.

Nel nostro sistema il pubblico ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di accusa di grado superiore, cioè la procura generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello). Nella larghissima maggioranza dei casi la procura generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il procuratore generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il procuratore generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal pubblico ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria.

La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’accusa in appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni. La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la procura generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale.

Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili. Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pubblico ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole.

Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il pubblico ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione.

È l’ideologia del processo accusatorio italiano. Processo Eni, così si è rotto il patto tra Pm: rinuncia all’Appello segna uno spartiacque. Alberto Cisterna su Il Riformista il 27 Luglio 2022. 

La vicenda Eni, la rinuncia eclatante e anche plateale della Procura generale all’atto d’appello depositato dai pubblici ministeri di primo grado, costituisce una sorta di spartiacque e non solo per la giustizia meneghina, come dire, notoriamente sempre coesa, militante, compatta nei casi più urticanti e delicati. Si va sbriciolando l’asse che costituiva uno degli architravi su cui trova fondamento e forza il cosiddetto partito dei pubblici ministeri, la convinzione che, messa in acqua l’ipotesi accusatoria, questa sarebbe stata coltivata, sostenuta, sospinta in avanti da Alisei sempre favorevoli e comprensivi.

In fondo era il presupposto stesso di una sorta di ideologia del processo accusatorio italiano. Non importa che l’imputato sia assolto in primo grado, tanto lo si terrà inchiodato per anni sul banco dei reprobi, o presunti tali, con un appello e un ricorso per cassazione se serve, sino alla consunzione del tempo, sino allo sfregio definitivo dell’ingiuria incancellabile. La Procura generale di Milano ha rotto un patto non scritto tra le toghe dell’accusa: quello per cui non si lascia mai un collega “di partito” a braghe calate, in mezzo al guado, con il cerino in mano. Soprattutto quando il processo è mediaticamente denso, giornalisticamente succoso. Non conoscendo gli atti nulla di preciso si può dire, ma se il procuratore generale lombardo non avesse abiurato quell’intesa, se non si fosse sottratto a quella consegna e se avesse coltivato l’ipotesi di condanna fallita in primo grado, quel processo sarebbe andato avanti ancora alcuni anni con il pieno sostegno dei molti rami che costituiscono l’albero della pubblica accusa.

È indimenticabile il servizio realizzato il giorno prima del verdetto milanese da una delle più autorevoli reti televisive del paese e per mano di uno dei più prestigiosi giornalisti italiani, servizio che riassumeva in modo suggestivo le tesi dell’accusa e dava la corruzione come pienamente dimostrata. Un’azione di oggettivo quanto involontario fiancheggiamento, ma che ha messo a nudo – ad assoluzione arrivata – ancor di più fragilità, trasversalità, convergenze che ammorbano l’informazione giudiziaria italiana. Ecco perché la decisione milanese di cestinare l’appello e chiudere la partita non può essere solo ricondotta nell’alveo di una stantia discussione sul potere d’appello del pubblico ministero in caso di assoluzione; discussione che si trascina da un paio di decenni e che è ha già visto l’ennesima legge ad personam naufragare sotto i colpi della Corte costituzionale.

Ma esige uno scarto di visione politica più lungimirante e, se possibile, profetica. Il pubblico ministero, l’obbligatorietà dell’azione penale, la sua autonomia, i suoi connotati giurisdizionali sono un patrimonio che non si può disperdere. La discussione sulla separazione delle carriere risente di una visione ideologica, quindi poco pragmatica e realistica, dei problemi della magistratura italiana. Il primo nodo da sciogliere è quello di separare gli incapaci dai capaci, gli imbecilli dagli equilibrati, i mascalzoni dagli onesti, i neghittosi dai diligenti e non solo dentro le mura dell’accusa, ma in tutti i gangli delle toghe. La legge Cartabia introduce serrate valutazioni di professionalità, criteri partecipati e stringenti di controllo delle capacità dei magistrati.

Non sarà un’ottima legge – a esempio non circoscrive come avrebbe dovuto fare in modo più incisivo la discrezionalità del Csm – ma è una grande, ultima opportunità per il significativo miglioramento della qualità dell’organizzazione giudiziaria e delle sue sentenze. Qualcuno, improvvidamente, con denominazioni colorite a uso mediatico, ha detto che si tratta di dare le pagelle alle toghe. Non è così ovviamente, anche se qualche tentazione moraleggiante e didascalica affiora qui e là.

La vicenda Eni è la dimostrazione migliore di come quel nuovo sistema possa funzionare in futuro, non lasciando cadere nel nulla il gesto della Procura generale milanese. Non è vero che uno vale uno e una tesi vale un’altra e che, alla fine, non si può stabilire chi ha torto o ragione, affondando le mani nella bacinella pilatesca. Ha ragione chi ha il diritto e il dovere di parlare per ultimo, gli altri devono fare i conti con il torto. Alberto Cisterna

Mali e rimedi per la nostra giustizia. Eni e lo schiaffo ai Pm: riformiamo l’accusa. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 24 Luglio 2022. 

Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal Procuratore Generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori. Nel nostro sistema il Pubblico Ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’Accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di Accusa di grado superiore, cioè la Procura Generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello).

Nella larghissima maggioranza dei casi la Procura Generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla Procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il Procuratore Generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’Accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il Procuratore Generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal Pubblico Ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria. La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’Accusa in Appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di Appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni.

La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la Procura Generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale. Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili.

Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del Pubblico Ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte Costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole. Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’Accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il Pubblico Ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di Procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Toghe, i processi come alibi per non decidere. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

Un anno dopo il caso Amara e l’apertura delle inchieste penali sui vari pm, la magistratura non ha fatto chiarezza al proprio interno e nulla è accaduto

Nella primavera-estate 2021, a partire dai contraccolpi in Procura a Milano della sentenza Eni-Nigeria e dei verbali di Amara, e accanto alle inchieste penali sui vari pm, sembravano voler fare fuoco e fiamme la Procura Generale di Cassazione (per i disciplinari), il Ministero della Giustizia (con l’Ispettorato) e la I commissione Csm (sulle incompatibilità ambientali). Dopo un anno il Ministero nulla ha comunicato; il Csm — dopo audizioni un anno fa a Roma, e un scenografico bis in trasferta a Milano — si è inabissato, in silenzio optando per ritenere le pratiche sovrapponibili ai processi a Brescia e dunque attenderne l’esito; e la «pregiudiziale penale» applica pure il pg di Cassazione a congelamento dei disciplinari avviati (l’ultimo l’altro giorno) solo a ricalco delle imputazioni penali.

È vero, ma non è vero. È vero che lo stop in attesa del penale su uno stesso fatto è imposto da norme. Non è invece vero, e anzi sembra interpretazione estensiva delle accuse penali come alibi per non decidere altrove, che le condotte sanguinosamente rinfacciatesi dai pm rientrino nel perimetro dei rispettivi processi. Il che nuoce tre volte. Lascia irrisolti nodi che non ammetterebbero soluzioni differenti da vero o falso, con la sanzione o di chi abbia calunniato i colleghi o di chi abbia invece davvero compiuto scorrettezze. Posticipa le decisioni a quando fra anni saranno esauriti i vari gradi dei giudizi penali, i cui parametri di reato ben possono magari finire esclusi senza che ciò elida la gravità sotto gli altri profili. E soprattutto — proprio mentre il pm radiato Palamara si candida a quel Parlamento che nulla è stato capace di dire sui due suoi onorevoli compagni di Hotel Champagne (Ferri e Lotti) — contraddice quanto la magistratura giustamente rinfaccia alla politica: non fare autonoma chiarezza al proprio interno con la scusa del dover aspettare le sentenze.

L’avvocato aveva mostrato in anteprima ai cronisti i messaggi. Processo Eni, la delusione di Travaglio: aveva creduto alle chat false di Armanna. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Luglio 2022. 

Non l’hanno presa per nulla bene dalle parti del Fatto Quotidiano la decisione della Procura generale di Milano di rinunciare questa settimana ai motivi d’appello nel processo di secondo grado sul caso Eni/Shell Nigeria nei confronti, tra gli altri, dell’attuale ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi, del suo predecessore Paolo Scaroni e delle due società.

Una decisione che ha determinato la conferma dell’assoluzione di primo grado per tutti i 15 imputati e che in questo modo è diventata definitiva.

Il nervosismo dei segugi del Fatto è comunque comprensibile dal momento che per anni hanno seguito pancia a terra l’inchiesta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale che dava credito a due taroccatori come Piero Amara e Vincenzo Armanna.  Quest’ultimo, in particolare, aveva un rapporto molto privilegiato con i giornalisti del Fatto arrivando a mostrargli in anteprima le chat che sosteneva di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e con il capo del personale Claudio Granata, a riscontro dell’attività corruttiva del colosso petrolifero.

I contatti fra Armanna, ex manager Eni, e giornalisti del Fatto emergono in maniera evidente da una nota depositata dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza del capoluogo lombardo, a firma del colonnello Francesco Lorusso, ed indirizzata alla pm milanese Laura Pedio, che il Riformista ha potuto visionare. Dopo aver sequestrato il telefonino di Armanna, i finanzieri hanno estrapolato una lunga chat con un giornalista del Fatto che inizia a giugno del 2016 e termine a novembre del 2020. Il giornalista, si legge nei messaggi, sollecita Armanna affinché gli inoltri anche gli screenshot compromettenti delle chat con Descalzi e Granata, dopo averle in precedenza inviate sotto forma di file zip.  Armanna esegue ed invia pure un video delle operazioni.

Il giornalista gli fa presente però che il nome utente non è riconducibile ad una numerazione telefonica e che pertanto non sarebbe una prova “genuina”.  Per avere un riscontro migliore, “dovresti farlo mentre mostri contatto e le apri entrambe”. Armanna esegue. Il giornalista risponde allora di aver verificato “con le mie fonti che tali chat non sono state depositate”. Non specificando quali.  Il primo novembre del 2020 il Fatto pubblicherà il primo articolo di una lunga seria di articoli su questa storia dal titolo: “Armanna mostra le chat”. Come è andata poi a finire è noto: le chat erano false e create ad hoc per rafforzare la tesi accusatoria di Armanna. Aveva ragione, quindi, il pm Paolo Storari quando all’inizio del 2021 aveva ipotizzato ai colleghi anche la falsità di queste chat tra i possibili indizi di calunniosità di Armanna (a suo avviso da arrestare con Amara).

Tutti aspetti che invitava i colleghi a depositare per correttezza nei confronti giudici del processo Eni-Nigeria. Una falsità che Storari deduceva a prescindere da complesse perizie dalla semplice verifica che i numeri di telefono, attribuiti a Descalzi e Granata nei messaggi con Armanna, nemmeno fossero attivi nel 2013. Altro che tarocco. De Pasquale, però, non diede mai retta a Storari e questa settimana su questa pagina ingloriosa della Procura di Milano è calato definitivamente il sipario. Con grande dispiacere del Fatto. Paolo Comi

Lo scambio di messaggi con l'ex manager. Processo Eni, anche Sigfrido Ranucci diede peso alle frottole di Armanna. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2022 

Oltre al Fatto Quotidiano, anche la trasmissione Report di Rai Tre, condotta da Sigfrido Ranucci, ha ‘tifato’ in questi anni per la condanna dei vertici dell’Eni, dando quindi credito alle calunnie di Piero Amara e Vincenzo Armanna e sposando i teoremi della Procura di Milano e del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Ieri abbiamo raccontato come i giornalisti del Fatto, ultimamente sotto tono per come si è concluso il processo per corruzione a Milano, chattassero spessissimo con l’ex manager Armanna alla ricerca dei messaggi ‘compromettenti’ che quest’ultimo si sarebbe scambiato con l’ad del colosso petrolifero Claudio Descalzi. Messaggi che dovevano rappresentare la pistola fumante circa l’attività corruttiva posta in essere dai vertici di Eni per aggiudicarsi i giacimenti in Nigeria.

I messaggi incriminati erano però il frutto di un taroccamento di bassissimo profilo, essendo stati ‘autoprodotti’ dallo stesso Armanna che aveva interesse a vendicarsi contro il management del cane a sei zampe che lo aveva licenziato in tronco per una storia opaca di rimborsi spese illecitamente percepiti. Il pm Paolo Storari aveva subito mangiato la foglia, capendo che qualcosa non tornava, ed infatti voleva arrestare sia Amara che Armanna per calunnia. Inoltre, aveva invitato De Pasquale, il capo del dipartimento contro la corruzione internazionale e primo assegnatario del fascicolo nei confronti dei vertici di Eni, a far presente tale situazione ai giudici del dibattimento, senza ottenere riscontro. La conseguenza dell’inerzia della Procura fu quella di non bloccare le torbide manovre dei due mestatori.

I numeri di telefono da cui sarebbero partiti questi fantomatici messaggi, accertò Storari, non erano neppure attivi. Se il Fatto ha pubblicato le chat tarocche, fidandosi delle spiegazioni date da Armanna ai suoi giornalisti, la vicenda che riguarda Report è ancora più imbarazzante trattandosi di una trasmissione del servizio pubblico e quindi pagata con i soldi dei contribuenti. I messaggi che Armanna si scambiava con i giornalisti della Rai, come per il Fatto, sono contenuti nelle informative del nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza depositate in Procura a Milano a seguito del sequestro del cellulare dell’ex manager e dell’estrapolazione del suo contenuto.

Il 6 aprile del 2019, pochi giorni prima della messa in onda della puntata di Report dedicata a questa vicenda, uno dei giornalisti investigativi di punta della scuderia di Ranucci scrive ad Armanna. Ha delle perplessità sulla “genuinità” dell’intervista ad Amara. Sospetta che Amara e Armanna si siano messi d’accordo per “fregare” Granata. I giornalisti di Report, per fare il servizio, avevano intervistato sia Amara e Armanna. E i due dicevano sostanzialmente le stesse cose, mettendo in cattiva luce la figura di Granata. Armanna, in particolare, racconta di una maxi mazzetta pagata da Granata e fatta arrivare direttamente in Nigeria con un aereo dell’Eni.

Scrive il giornalista: “Buongiorno, ma non è che tu e Amara vi siete messi d’accorso per fregare Granata? Le vostre interviste sono fin troppo uguali”. Armanna nega subito. “Scherzi! Non lo vedo ne sento ne ho contatti da più di un anno …. Quello che ti ho detto di Granata l’ho sempre pensato e detto”. Tanto basta per dissipare i dubbi del giornalista. La puntata, dal titolo “Amara verità” e con le interviste ‘fotocopia’, nonostante le iniziali perplessità, andrà regolarmente in onda e in studio Ranucci arriverà anche a raccontare un’altra delle rivelazioni ‘esclusive’ di Amara: la circostanza che l’Eni si sarebbe mossa per stoppare la puntata della trasmissione con la testimonianza di Armanna su Granata. Secondo il racconto farlocco di Amara, per stoppare la trasmissione Rai si sarebbe addirittura attivato il deputato dem Luca Lotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e renziano di strettissima osservanza. Ovviamente era un’altra balla. Paolo Comi

Le carte delle indagini passate ad Amara. Nella Guardia di Finanza c’è una talpa: lo dicono le fiamme gialle che indagano pure…Paolo Comi su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Il Gico della guardia di finanza da circa sei anni sta facendo indagini, al momento senza grande successo, per individuare chi passasse a Piero Amara – l’ex avvocato esterno dell’Eni e gola profonda degli uffici giudiziari di mezza Italia – notizie coperte dal segreto relative ai procedimenti penali di suo interesse. Ad iniziare da quelli aperti nei suoi confronti presso le Procure di Roma e Messina.

Repubblica, quotidiano particolarmente addentro alla materia avendo beneficiato molte volte di fughe di notizie provenienti dalle Procure del Paese, come quella di Perugia a proposito delle indagini che hanno riguardato Luca Palamara (da ultimo pochi giorni fa dove la richiesta di archiviazione per la Loggia Ungheria, circa 200 pagine, ha soffermato l’attenzione dei giornalisti di Largo Fochetti solo sulle poche riguardanti Palamara, ndr), è tornato ieri con grande enfasi sull’argomento.

In un lungo articolo dal titolo “Il carabiniere che sapeva troppi segreti, rubava notizie per darle ad Amara’”, l’attenzione si focalizza su un appuntato della Benemerita, Francesco Loreto Sarcina, già in servizio presso l’Aisi, il servizio segreto ‘interno’.

Sarcina, nativo di Trinitapoli in provincia di Foggia, 59 anni, dietro il compenso di 30 mila euro aveva consegnato su delle chiavette usb il materiale che interessava ad Amara. Sul punto vale la pena ricordare che tale consegna di atti è stata attestata da una sentenza emessa dal Tribunale di Perugia il 12 aprile 2022 nei confronti proprio di Sarcina. Tra questi atti risulta consegnata ad Amara l’informativa del Gico di Roma del 15 settembre 2017 di circa 800 pagine, prima che la stessa venisse depositata alla Procura della Capitale e sulla cui base sono state chieste le misure cautelari nei confronti di Amara e dei suoi sodali Giuseppe Calafiore e Fabrizio Centofanti.

A tal proposito, durante l’udienza del 9 giugno 2022 che si è svolta a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e dell’ex pm di Roma Stefano Fava, accusati di rivelazione del segreto per screditare l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, il maggiore del Gico Fabio Di Bella aveva ammesso che qualche militare suo dipendente – o più di uno o tutti – aveva consegnato ad Amara nel 2017, per il tramite di Sarcina, le informative fatte dallo stesso Gico prima ancora che queste venissero depositate in Procura.

A richiesta dei difensori di Palamara e Fava di riferire l’identità della “talpa” del Gico che aveva consegnato le informative, Di Bella aveva risposto laconicamente “per ora le realtà processuali sono quelle di Sarcina”. Sicché i difensori avevano ribadito “solo Sarcina”, a conferma della risposta data dall’ufficiale. Pur nutrendo, come sempre, la massima fiducia nelle Istituzioni e che quindi si possa individuare, seppur dopo sei anni, colui o coloro che hanno consegnato ad Amara le informative, risulta molto difficile comprendere come su Amara e sulla “talpa” possa continuare ad indagare il Gico e se non fosse, invece, opportuno o doveroso delegare altra polizia giudiziaria come, ad esempio, venne fatto dalla Procura di Roma nel procedimento Consip allorquando è stato estromesso il Noe dei carabinieri. Il Gico sta già facendo accertamenti sulla ormai celebre cena romana non registrata del 9 maggio 2019 tra Pignatone, Palamara e altri magistrati dove, molto probabilmente, si discusse di chi doveva essere il nuovo procuratore della Capitale.

Gli ascolti vennero fatti dal Gico che si trova ora ad “indagare” su se stesso. Per questa ultima circostanza, il mese scorso è stata presentata alla Camera una interrogazione da parte di Edmondo Cirielli (Fd’I) Il deputato meloniano, riflettendo sul fatto che taluni operatori del Gico potrebbero aver “disatteso le direttive impartite per le programmazioni del trojan” ovvero, circostanza ancor più grave, che “il file fosse stato occultato”, ha chiesto alla ministra della Giustizia un approfondimento urgente.

Per Cirielli, in caso contrario, si “delineerebbe una grave situazione che inficerebbe gravemente non solo l’operato degli organi inquirenti e del corpo della guardia di finanza, in funzione di polizia giudiziaria, ma altresì porrebbe ulteriori interrogativi sull’operato e sull’indipendenza del Csm che sulla questione, in sede di audizioni, non avrebbe approfondito le divergenze emerse tra le varie informazioni assunte”.

Non resta che attendere. Paolo Comi

La spy story del carabiniere che sapeva troppi segreti: “Rubava notizie per darle ad Amara”. Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 19 Luglio 2022.

Chi è Franco Sarcina, lo 007 condannato e arrestato che non ha mai rivelato chi gli forniva le carte. Dopo 6 anni la Finanza indaga ancora su uno dei misteri legati all’avvocato siciliano. Tra spie, passaporti falsi e schede clonate.

Dalla nuvola di mistero che tuttora avvolge l’avvocato plurindagato Piero Amara, una sorta di Keiser Soze di casa nostra, appare Loreto Francesco Sarcina, Franco per gli amici. Il maresciallo che sapeva troppo. Prima ancora che la Guardia di Finanza depositasse alle procure le carte delle inchieste più delicate che hanno riguardato Amara, a Messina così come a Perugia, Sarcina le aveva in tasca.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 luglio 2022.

Dalla nuvola di mistero che tuttora avvolge l'avvocato plurindagato Piero Amara, una sorta di Keiser Soze di casa nostra, appare Loreto Francesco Sarcina, Franco per gli amici. Il maresciallo che sapeva troppo. 

Prima ancora che la Guardia di Finanza depositasse alle procure le carte delle inchieste più delicate che hanno riguardato Amara, a Messina così come a Perugia, Sarcina le aveva in tasca. Le consegnava agli indagati affinché potessero studiare le contestazioni a loro carico, fino, eventualmente, ad eluderle. I passaggi di mano avevano un ché di cinematografico, all'interno di un convento con una suora che faceva da portiera, per esempio.

Sempre, comunque, dietro compenso: 30mila euro, dicono, per ogni informazione utile.

Il maresciallo Sarcina, 59 anni, nato a Trinitapoli nel Foggiano, aveva un incarico di basso livello nell'Aisi, il nostro servizio di intelligence interna. Nascondeva venti telefonini e venti schede sim diverse. 

È stato arrestato e già condannato in primo grado. Il punto è che la sentenza non ha risolto l'enigma: come faceva Sarcina ad avere quei documenti? Chi glieli consegnava? E soprattutto perché? Detenuto in carcere per più di un anno e mezzo, il carabiniere non ha fiatato. La Guardia di Finanza non ha mai smesso di indagare su di lui e su quel un segreto imbarazzante che custodisce ormai da sei anni. 

Gli incontri con Amara

I primi a fare il nome di Sarcina ai pubblici ministeri sono proprio l'avvocato siciliano Amara e il suo socio Giuseppe Calafiore negli interrogatori dell'estate del 2018. Confessano di aver ricevuto, nonostante il segreto istruttorio, «tre informative redatte dalla finanza di Roma e Messina» sui loro affari. 

E che a fornirle era stato «tale Franco, dipendente della Presidenza del Consiglio, il quale ci riferiva notizie interne e ci ha consegnato anche una documentazione cartacea: ci disse che ci avrebbe tolto dai guai, sia per l'indagine di Messina sia per quella di Roma».

Agli atti ci sono i racconti delle consegne di alcune chiavette Usb, avvenuti davanti a una suora in un convento sulla riva del Tevere. «Dopo aver letto quello che ci serviva abbiamo buttato tutto nel fiume». 

Gli investigatori, che hanno scritto quelle informative cruciali per l'inchiesta, si mettono subito al lavoro per capire se si tratta di verità o di millanterie. In realtà lo sanno già, perché i resoconti di Amara e Calafiore non fanno altro che confermare quello che già hanno intuito: c'è una talpa che lavora contro di loro per "bruciare" le indagini.

La talpa

Lo capiscono da due circostanze. La prima: quando si sono presentati per perquisire lo studio di Amara, all'alba come sempre accade, gli è stato aperto immediatamente al primo squillo di citofono. Sembrava quasi che l'avvocato li stesse aspettando. Sensazione confermata dalle carte tutte perfettamente in ordine e tutte perfettamente inutili ai fini dell'indagine, dai computer che non contenevano nemmeno un documento interessante, né un appunto né una lista. Lo studio era stato ripulito, creando una scena asettica.

La seconda circostanza: un'intercettazione ambientale in cui si sente Amara parlare al telefono con uno sconosciuto proprio di una delle indagini in corso. «È un'utenza estera» scriverà la Finanza. Intestata a chi? Al carabiniere Sarcina, naturalmente. 

La nuova indagine

Per tutto questo lo 007 viene arrestato. Condannato per un passaporto falsificato, assolto per i documenti classificati della Presidenza del Consiglio che nascondeva a casa (secondo i giudici poteva averli, in ragione del suo incarico all'Aisi). 

Ma l'inchiesta più delicata è, nei fatti, ancora in corso. Sono stati cercati contatti e collegamenti tra Amara e Sarcina: la suora che organizzava i loro incontri, qualche amico in comune, un palazzo nel centro di Roma da cui sembra passare tutto.

Magistrati, spie, Amara chiaramente, e i suoi amici.

Nel processo in corso a Perugia che ipotizza una fuga di notizie a carico dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara e del suo collega pm Stefano Fava, i finanzieri - al contrario di quanto è stato riportato su alcuni giornali - hanno ribadito di aver cercato la talpa ma che le indagini al momento non hanno portato a niente. Può essere una fonte interna alle Fiamme gialle. O magari alla Procura. 

Può essere qualcuno che ha bucato i sistemi informatici, intercettando le comunicazioni interne. Certo è che la violazione del segreto è stata sistematica, ha riguardato più uffici giudiziari e forse non soltanto le inchieste su Amara. Certo è che Sarcina in questa storia è solo il braccio. Bisogna ancora dare un nome alla mente. 

Fabio Amendolara per “La Verità” il 14 luglio 2022.

«Vedi ad affidarsi ad Armanna... Che figura di merda». La Cassandra del Palazzo di giustizia di Milano, il pubblico ministero Paolo Storari, apprende la notizia dell'assoluzione con formula piena dei manager del Cane a sei zampe nel processo Eni-Nigeria, che per la Procura milanese deve essere stato come un potentissimo movimento tellurico, e lo comunica alla collega Laura Pedio. 

Una chat consegnata da Storari ai magistrati di Brescia nel procedimento per omissione di atti d'ufficio a carico dell'ex componente del pool di Mani pulite Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro racconta gli inediti retroscena sulla gestione di Vincenzo Armanna, lo spicciafaccende che per una parte della Procura meneghina era diventato il supertestimone dell'accusa.

Proprio il giorno delle assoluzioni, il 17 marzo 2021, Storari irrompe via chat: «Eni tutti assolti». Pedio è sorpresa: «Davvero?». E Storari spiega: «530 comma 1, il fatto non sussiste (la formula assolutoria per i manager dell'Eni, ndr)». Le parole di Storari sono taglienti: «Ma che vergogna». 

E anche quando Pedio cerca di trovare qualche elemento per salvare le attività dei colleghi, con un «comunque Paolo è una formula un po' strana», Storari è netto: «Laura, per favore... questi adesso grideranno al complotto». E Pedio: «Neanche Armanna che confessa e prende i soldi dalla Nigeria». 

Storari ha un'idea ben precisa di Armanna: «Ma è un delinquente... nessuno può credergli...». Pedio sembra fare l'equilibrista: «Almeno lui lo potevano condannare. Era general contractor». 

Storari va giù durissimo sui colleghi della Procura: «Questi sono dei cani... incapaci... questo fa lavorare la polizia giudiziaria per niente e poi la sfancula». In realtà anche Pedio dovrebbe essersi fatta un'idea di Armanna. 

Solo due mesi prima Storari le aveva inviato (senza peraltro ottenere mai una risposta, come spiegato nell'interrogatorio del 19 maggio 2021 davanti ai magistrati di Brescia) una richiesta d'arresto per calunnia che Pedio da procuratore aggiunto avrebbe dovuto controfirmare. 

L'impostazione dell'accusa era questa: Armanna, Piero Amara, ex avvocato esterno dell'Eni e grande propalatore sulla loggia Ungheria, e Giuseppe Calafiore, che di Amara era il collega di studio, avrebbero accusato Claudio Granata (capo delle risorse umane di Eni) e Claudio Descalzi (amministratore delegato di Eni) «pur sapendoli innocenti». I tre, secondo Storari, «sono stati dichiarati responsabili di aver strumentalizzato l'attività giudiziaria al fine di inquinare i processi milanesi per corruzione internazionale».

E ancora: «Il presente procedimento è stato a sua volta pesantemente inquinato con dichiarazioni calunniose, supportate anche da documentazione falsa e da testimoni strumentalizzati». 

Inoltre, sempre nelle chat, i due si erano scambiati messaggi di questo tenore. Pedio: «Vai a prendere le carte inglesi (quelle sui conti di Armanna, ndr)?». Storari risponde di averlo già fatto e chiede alla collega se si fosse preoccupata. Lei risponde: «Temo che tu possa fuggire». Lui la rassicura: «Ne verremo fuori... io sono molto fiducioso... indagine difficile ma li smascheriamo... vedrai, sarà un successo».

Ma c'è anche un altro documento che prova la profonda frattura che la gestione di Armanna aveva creato all'interno della Procura. Storari a marzo invia all'allora procuratore della Repubblica Francesco Greco una rinuncia all'assegnazione del fascicolo sul complotto Eni, con tanto di motivazioni sulle ragioni per le quali non era possibile credere alle versioni di Armanna. 

La premessa: «Come ho in più occasioni riferito, ritengo necessario informare le difese del processo e il Tribunale di Milano di alcune circostanze che sono emerse». Eccole: «Armanna e Amara hanno in più contesti procedimentali e processuali calunniato Granata e Descalzi, asserendo falsamente che vi sono stati tentativi di comprare il suo silenzio attraverso le promesse di una sua riassunzione in Eni».

Non solo: Armanna avrebbe «pilotato» le dichiarazioni di un testimone nigeriano, Mattew Tonlagha, durante una rogatoria. Avrebbe poi prodotto al Tribunale di Milano chat Whatsapp «contraffatte e dirette a giustificare la mancata comparizione di altri due testimoni (Timi Ayah e Isaac Eke, ndr)». 

E, infine, avrebbe «pilotato» le dichiarazioni di Tonlahga e Brutu Dennis Otuaro in una denuncia presentata ai carabinieri di Roma Torvaianica. «In questa situazione», afferma Storari, «mi sento francamente a disagio». Un disagio dimostrato a più riprese nella chat con Pedio. L'1 novembre 2020, per esempio, scrive alla collega: «Io cambio Procura». Pedio replica: «Sono una massa di dementi. Nota, tutti senza figli...». Storari le dà ragione: «Hanno tempo di pensare a tutte 'ste cazzate... io li mando da Armanna... basta, me ne vado». 

Dalle chat, però, emerge anche uno spaccato che racconta cosa accade dietro le quinte. Pedio, per esempio, a un certo punto chiede una mano al collega: «Ciao Paolo, ho bisogno di un avvocato per un amico di mia figlia che è stato fermato con tasso alcolemico superiore al massimo consentito. Chi mi suggerisci?».

Storari risponde dopo circa un'ora: «To, avvocato To, che ha difeso il figlio di Ilda (probabilmente la Boccassini, ndr)». Tra i due, al netto delle contrapposizioni per il procedimento sulla loggia Ungheria, sembrava esserci una certa confidenza. Al punto che Storari parlando di una collega dice: «La culona poi è insopportabile... voglio il procedimento disciplinare per la culona». E tra una riunione in Procura e richieste su fascicoli a modello 45, prende in giro Pedio: «L'Anm ha preso posizione e abbiamo fatto corteo in toga con gli avvocati fino al consolato turco... in buona compagnia dei curdi che manifestavano lì lo stesso giorno... Pure i turchi. Pochi fascicoli».

Lei: «Sei terribile...». E Storari: «Ma dai cazzo... prima i polacchi, poi i turchi... lavorare mai?». Pedio risponde: «Lavorare stanca». E lui: «Hai ragione, meglio i turchi... stavolta marcia silenziosa sul Bosforo accompagnata dalla lettura delle opere di Pamuk, poi tutti al mare. A spese di Palamara». 

Pedio sta al gioco: «Aggiungerei una settimana in caicco a Bodrum. Mi sembra il minimo». E il 23 gennaio, quando ha già inviato alla collega la richiesta di arresto per Armanna e Amara, Storari scrive alla collega: «Dobbiamo arrestarli. Presto. Continuano a fare danni. Danni a sé stessi. E a noi. Torvaianica (sede dove era stata presentata una delle denuncia di Armanna, ndr) ultima. Ha pagato i testi nigeriani. Cosa vuoi di più?». Ma neppure questo è bastato.

La procura di Milano respinge la richiesta di Amara di trasmettere gli atti a Brescia sul “falso complotto Eni”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Luglio 2022

In precedenza Amara si era giocato con esito positivo la carta dell’incompetenza milanese in un altro procedimento collegato al “falso complotto Eni”. Dopo il rigetto la prossima mossa a disposizione della difesa di Amara , è quella di ricorrere alla procuratore generale della Corte di Cassazione

L’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni” almeno per il momento rimane a Milano. La procura di Milano ha rigettato l’istanza dell’avvocato-faccendiere Piero Amara di trasmissione alla procura di Brescia degli atti dell’inchiesta conclusasi lo scorso dicembre 2021, sul presunto depistaggio che avrebbe messo in atto lo stesso ex legale esterno di Eni, insieme ex manager Vincenzo Armanna, ed altri indagati per condizionare il processo per corruzione internazionale Eni-Shell/Nigeria. Per il procuratore aggiunto Laura Pedio ed i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco non esiste il problema di competenza sollevato da Amara che necessiti l’invio del fascicolo a Brescia. 

Processo come noto si è concluso nel marzo 2021 con l’assoluzione di tutti gli imputati e delle due società. Dopo il rigetto la prossima mossa a disposizione della difesa di Amara , è quella di ricorrere alla procuratore generale della Corte di Cassazione, competente su conflitti di competenza tra diversi distretti di Corte di appello come nel caso di Milano e Brescia.

Amara in precedenza si era giocato con esito positivo la carta dell’incompetenza milanese in un altro procedimento collegato al “falso complotto Eni”. Il filone di indagine sulla ipotizzata calunnia commessa ai danni dell’avvocato Luca Santa Maria era stato trasmesso dal giudice per l’udienza preliminare Carlo Ottone De Marchi alla procura di Brescia , trasmissione resasi necessaria in quanto oltre ad Amara come “parte offesa” della presunta calunnia ci sarebbe anche l’allora titolare del processo Eni-Shell/Nigeria, il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, sul cui operato sono i magistrati di Brescia . Un filone d’indagine su cui i pm bresciani , diretti dal procuratore capo Francesco Prete, hanno chiesto l’archiviazione valutando i fatti in maniera esattamente opposta dai colleghi milanesi che invece chiedevano il processo. 

Da quanto si apprende nel frattempo si avvicina il momento in cui magistrati inquirenti milanesi depositeranno all’ufficio Gip le richieste di archiviazione per l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi ed il capo del personale Claudio Granata le cui posizioni erano state stralciate dall’avviso di chiusura indagini preliminari del “falso complotto”.

Anche a Potenza esistono giudici seri. Salta il patteggiamento di Amara con la Procura. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Giugno 2022.

Il Gip nella sua ordinanza ha posto in evidenza "la personalità negativa dell' Amara, desumibile, anche dalle modalità della condotta, connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza" che "non consente di esprimere un giudizio di congruità della pena, che nella misura concordata, appare con tutta evidenza inidonea a svolgere la funzione sua propria"

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza dr.ssa Teresa Reggio ha respinto oggi dopo una camera di consiglio la richiesta di patteggiamento avanzata dal faccendiere-bancarottiere avv. Pietro Amara, precedente concordata con la Procura di Potenza guidata dal procuratore Francesco Curcio. Infatti secondo il Gip l’omesso deposito degli interrogatori dei verbali degli interrogatori resi dall’ Amara “non permette di apprezzarne la portata nè sotto il profilo del contributo apportato allo sviluppo delle indagini, nè sotto il profilo della migliore comprensione dei fatti già oggetto di vaglio degli investigatori“. 

Non è la prima volta che la Procura di Potenza dimentica (o omette ?) di depositare verbali dei propri interrogatori ad Amara, un pò troppo spesso coperti ed infarciti di “omissis” come accaduto in precedenza nel procedimento nei confronti del prof. Enrico Laghi.

Inoltre è emerso che l’ Amara ha subito un’ulteriore “condanna per plurimi fatti di bancarotta pluriaggravata” commessi nel febbraio 2018 e quindi in data successiva ai fatti oggetto del presente procedimento” e quindi anche se non con sentenza definitiva, secondo il Gip Reggio, offre elementi che consentono di ritenere che “il crimine rappresenti per Amara un valido ed alternativo sistema di vita e contribuisce a rafforzare il giudizio negativo posto a fondamento del diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche“. 

Il giudice nella sua ordinanza ha posto in evidenza “la personalità negativa dell’ Amara, desumibile, anche dalle modalità della condotta, connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza” che “non consente di esprimere un giudizio di congruità della pena, che nella misura concordata (con la procura di Potenza, n.d.r.), appare con tutta evidenza inidonea a svolgere la funzione sua propria” rigettando la richiesta e disponendo la restituzione degli atti all’ufficio del pubblico ministero.

L'organizzazione eversiva che minaccia lo Stato. Loggia Ungheria, la magistratura non indaga sulla magistratura: la lezione del Conte Zio di Manzoni. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Aprile 2022. 

La Loggia Ungheria, probabilmente, esiste. Forse fa parte della massoneria, forse no. Forse è una specie di P2. Forse è meno illegale della P2, ma più potente. Comunque, se esiste, è una organizzazione eversiva che minaccia lo Stato. Se non esiste in quanto Loggia formalizzata, come alcuni testimoni sostengono, esiste comunque come sistema di relazioni extra-istituzionali che regolano – da una vera e propria cabina di regia – il funzionamento del potere giudiziario, delle relazioni tra politica e questo potere, e anche l’avvio e l’esito di inchieste particolarmente importanti.

Tutto questo è emerso con grande chiarezza dagli smozziconi delle varie inchieste che hanno sfiorato il tema, dalle dichiarazioni di un certo numero di magistrati, dalle indagini del Pm Storari, stroncate poi e sepolte dalla Procura di Milano, da varie testimonianze capitate quasi per caso nel corso di vari processi. E’ chiaro che non siamo di fronte alla necessità di una piccola indagine, come possono essere quelle su una truffa, su una tangente, un finanziamento illecito, un furto o qualcosa del genere. Siamo di fronte alla necessità di una indagine clamorosa sull’ipotesi che la magistratura italiana sia stata governata illegalmente, a favore di pochi, a danno di moltissimi, a difesa del privilegio di casta dei magistrati.

Ora le notizie che filtrano dicono che l’inchiesta sulla Loggia Ungheria sta per concludersi con una richiesta di archiviazione. Cioè con la scelta, da parte della magistratura, di non indagare sulla magistratura. Troncare, sopire diceva, mi pare, il Conte Zio. Non è una novità . La magistratura alle volte accetta di mettere sotto accusa alcuni suoi singoli esponenti. Mai, a occhio, accetta di mettere sotto accusa un sistema. Volete qualche esempio? Così, d’acchito: indagini sul depistaggio Scarantino: svariati poliziotti sotto inchiesta, nessun magistrato. Indagini sull’affare “Montante (l’ex presidente di Confindustria Sicilia): svariati condannati, tra i quali Montante, 15 archiviati: i magistrati. Quindici, sì: quindici su quindici.

Caso Shalabayeva: due importantissimi poliziotti condannati a pene pesanti, due importantissimi magistrati (quelli che avevano dato gli ordini ai due poliziotti) neppure indiziati. Poi c’è il caso Palamara. Il quale ha raccontato di un sistema di raccomandazioni (e anche del modo nel quale si aggiustavano i vertici delle procure e dei tribunali, e le indagini e le sentenze) governato dalle correnti e dall’Anm, non ha ricevuto smentite, e però è stato liquidato con un colpo di spugna da una semplice dichiarazione del Procuratore generale della Cassazione (che era tra le persone accusate di avere brigato per fare carriera ai massimissimi livelli) il quale ha affermato che la raccomandazione non è un reato né una colpa, o , più precisamente, non è un reato né una colpa se viene fatta o ricevuta da magistrati. La dichiarazione del Procuratore è stata sufficiente ad evitare che alcune decine di Procure avviassero indagini sulle irregolarità commesse col sistema Palamara. Come avrebbero certamente fatto se la denuncia di Palamara invece di riguardare la magistratura avesse riguardato la politica.

Troncare, sopire, diceva – mi pare – il Conte Zio. Con questi precedenti possiamo ben dire che è molto difficile fidarsi della magistratura. Ha sempre dato ampia prova di non sapere essere inflessibile con se stessa. Non a caso quando il Csm stabilisce la valutazione sul lavoro dei singoli magistrati, stabilisce che il 99,8% di loro ha svolto un lavoro eccellente, sebbene ogni anno entrino in galera, come minimo, mille innocenti. Ma a prescindere dalla valutazione dei precedenti, qui c’è proprio una questione di principio. L’ipotesi dell’esistenza della Loggia Ungheria o di qualcosa di simile mette in discussione la legittimità del funzionamento di tutta la magistratura. Ma se sul banco di accusa c’è la magistratura, come può essere la magistratura ad indagare? Infatti non indaga: archivia.

Troncare, sopire, diceva – mi pare – il Conte Zio. È chiaro anche a un bambino che su una vicenda così inquietante può indagare solo il Parlamento. Che ne ha la possibilità e i mezzi. Si tratta di istituire una commissione Parlamentare di indagine, coi poteri della magistratura, come previsto dalle leggi. Fu istituita questa commissione per la vicenda analoga della P2, eppure non era neanche molto necessaria, perché sulla P2 stavano indagando eccellenti magistrati (se non ricordo male Turone e Colombo) e non c’era alcun motivo per non dare a loro piena fiducia. Perché mai non si dovrebbe fare la stessa cosa sulla Loggia Ungheria, in presenza del legittimissimo sospetto che la magistratura non abbia i mezzi né giuridici né morali per indagare? Possibile che il Parlamento faccia finta di niente? Perché fa finta di niente? Sempre perché è intimidito dalla magistratura e ad essa sottomesso? Sempre perché il suo modello è quello del Conte Zio di Manzoni?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Loggia Ungheria, parlano nuovi testimoni: «Esisteva, così ci hanno chiesto di affiliarci». EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 28 aprile 2022

In nuovi atti inediti le testimoniante del giudice del Tar Trebastoni e dell’ex pm Musco: «Tinebra ci propose di entrare nell’associazione segreta, ma rifiutammo». I due sono considerati dai pm vicini ad Amara

Dopo oltre un anno di investigazioni, Cantone e gli uomini della Guardia di Finanza non hanno però trovato alcun riscontro significativo alle dichiarazioni sull’esistenza della loggia.  Si va verso l’archiviazione

Anche Centofanti dice di avere sentito parlare di Ungheria. «Amara chiamava Tinebra “grande capo”, e Sergio Pasquantonio “il priore”». Il presidente dell’Università telematica San Raffaele nega tutto.

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Davigo testimone nel processo Palamara: «Fava non mi parlò dell’esposto». L'ex magistrato di "Mani Pulite" è stato sentito a Perugia nel corso dell'istruttoria contro i due ex pm della procura di Roma. «Vi spiego perché i rapporti personali si sono interrotti...» Il Dubbio il 18 maggio 2022.

«Ho conosciuto Stefano Fava perché Sebastiano Ardita mi chiese di intervenire a un incontro che riguardava, mi pare, le elezioni dell’Anm locale. Io non ero entusiasta, avevo tante cose da fare ma accettai. Fava in quell’occasione parlò di doglianze sull’allora capo Giuseppe Pignatone ma non mi accennò di un esposto. È abbastanza frequente che i magistrati si lamentino dei loro capi, lui ne parlò in termini generici». A dirlo l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo sentito come testimone nel corso del processo nato dal filone di inchiesta della procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, sulle rivelazioni che vede imputati l’ex magistrato Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice civile a Latina.

«Quello che escludo assolutamente è che mi abbia potuto parlare di un esposto contro Ielo: conosco Paolo Ielo da trent’anni come un pm integerrimo e – ha detto Davigo rispondendo alle domande del pm Mario Formisano – sarei saltato dalla sedia se mi avessero detto una cosa così. Ho lavorato con Ielo e lo ribadisco è un magistrato assolutamente integerrimo». «Io all’inizio avevo un ottimo rapporto con Ardita, siamo stati eletti insieme al Csm, non avevo motivi di astio, ho anche scritto un libro con lui. Poi i rapporti si sono deteriorati. E dopo tutta una serie di vicende sono arrivato anche a ipotizzare che Ardita mi fosse stato mandato dietro da Cosimo Ferri» ha proseguito Piercarmillo Davigo, imputato a Brescia con l’accusa di aver fatto circolare abusivamente i verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, relativamemte alla presunta “Loggia Ungheria”.

«Ci sono stati una serie di episodi ma all’inizio non diedi peso a certi suoi comportamenti – ha raccontato Davigo in aula – Una volta una collega della procura di Roma Nadia Plastina venne al Csm e passò a salutarmi e Ardita, molto agitato, venne a chiedermi come mai lei era lì e aggiunse “lei è alla procura di Roma” e io non capii cosa volesse intendere. Poi ci fu la pubblicazione delle intercettazioni dell’Hotel Champagne e gli chiesi se c’era qualcosa che non sapevo. Ebbi una discussione energica perchè lui si chiuse nel suo ufficio per due o tre giorni con l’allora consigliere Lepre, che poi si dimise, e gli feci notare che era inopportuno dopo quello che era stato pubblicato perchè poteva essere chiamato in correità».

Dopo quello che era emerso con la vicenda dell’Hotel Champagne «per quanto riguarda il candidato alla procura di Roma optai per Michele Prestipino, che aveva lavorato in Sicilia contro la mafia, in Calabria contro la ’ndrangheta e a Roma coordinando la Dda mentre Ardita insisteva perché io votassi per Viola: lui si rifiutò di votare Prestipino in plenum e mi fornì ragioni false – ha spiegato Davigo – dicendo che non lo avrebbe votato perchè Prestipino era un aggiunto e non un procuratore e a quel punto gli feci notare che solo qualche tempo prima lui stesso aveva votato un aggiunto come procuratore per un altro ufficio. Io dissi che la risposta che mi aveva dato non era vera e da lì si chiusero i nostri rapporti personali. Ancora di più alla luce di quanto emergeva sul suo nome in relazione alla vicenda sulla presunta Loggia Ungheria» ha concluso Davigo.

«Non sapevo che Stefano Fava avesse rapporti con Luca Palamara, lo vedevo su posizioni diverse. Questo rapporto lo scoprii sui giornali e mi sorprese», ha dunque affermato Sebastiano Ardita, sentito come testimone nel corso del processo. Nella sua testimonianza in aula, Ardita ha ricostruito che dopo la pubblicazione delle notizie sull’hotel Champagne «Lepre venne da me con gli occhi rossi e lo ascoltai. Cosa avrei dovuto fare? Avere un atteggiamento di disprezzo nei suoi confronti? Aveva già perso la sua battaglia». Sul rapporto con l’ex componente del Csm Piercamillo Davigo, Ardita ha spiegato che «si è interrotto per ragioni molteplici partite dal riposizionamento dopo la vicenda dell’Hotel Champagne. Lui mi ha negato il saluto dopo una riunione in cui ho detto che non potevo votare per Michele Prestipino, che lui aveva deciso invece di appoggiare».

Interpellato sui suoi rapporti con Cosimo Ferri, Ardita ha detto davanti ai giudici di Perugia «con lui ho parlato l’ultima volta nel 2013». Su quanto dichiarato da Davigo nella deposizione di questa mattina e su rapporti con Ferri, il consigliere del Csm ha detto: «Riascolterò la registrazione con le dichiarazioni e nel caso proseguirò nelle sedi opportune. Davigo cerca di difendersi come può, è imputato di un reato infamante per un magistrato». Interpellato sui rapporti con la stampa, ha spiegato di conoscere «molto bene il giornalista Marco Lillo che mi chiamò il giorno prima della pubblicazione della notizia dell’esposto, dicendomi che dalla procura di Roma usciva questa informazione e mi chiese una conferma e io gli risposi che non potevo dire nulla». (adnkronos)

Csm, a Perugia l’ennesima resa dei conti tra magistrati. Al processo Palamara- Fava, altro botta e risposta a distanza tra Davigo e Ardita. L’esposto contro Pignatone a mollo per oltre un mese e bloccato da una nota della procura. Simona Musco su Il Dubbio il 19 maggio 2022.

L’esposto dell’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone fu tenuto a mollo al Csm per oltre un mese. Finendo in un cassetto dopo una nota della Procura di Perugia, che informava Palazzo dei Marescialli di un decreto di perquisizione che conteneva l’ipotesi di un tentativo di condizionamento della nomina del nuovo procuratore di Roma attraverso quello stesso esposto. È uno dei clamorosi elementi venuti fuori ieri a Perugia nel processo sulle rivelazioni, che vede imputati l’ex capo dell’Anm Luca Palamara e Fava, ora giudice civile a Latina.

Un’udienza ricca di colpi di scena, che ha visto tra i protagonisti due ex compagni di banco al Csm, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, entrambi chiamati come testimoni. Ma con una differenza: Davigo, come chiarito nel corso dell’udienza di ieri, risulta ora essere indagato dalla procura di Perugia a seguito dell’esposto presentato da Palamara contro l’ex pm di Mani Pulite e il laico del M5S Fulvio Gigliotti, ai quali l’ex leader dell’Anm contesta la violazione dolosa e preordinata dell’obbligo di astensione nel procedimento a suo carico e l’induzione in errore degli altri componenti della commissione disciplinare del Csm. Davigo, afferma infatti Palamara, era stato messo a conoscenza da Fava dell’esposto contro Pignatone.

Con quel documento Fava segnalava il comportamento tenuto da Pignatone nei procedimenti a carico dell’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara, e dell’imprenditore Ezio Bigotti: il capo della procura aveva infatti negato che sussistessero ragioni per astenersi dalle indagini, nonostante i rapporti professionali di entrambi con il fratello Roberto. L’esposto di Fava, difeso dall’avvocato Luigi Antonio Paolo Panella, arrivò alla prima commissione il 27 marzo, ha spiegato Ardita, ma il comitato di presidenza, a suo dire in modo inusuale, decise di condurre una sorta di istruttoria preliminare, chiedendo informazioni all’allora procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Giovanni Salvi, che a sua volta chiese chiarimenti a Pignatone.

In quella corrispondenza erano contenute tutte le fibrillazioni registrate in procura, comprese quelle durante le due riunioni infuocate di cui poi i giornali diedero notizia. Informazioni, aveva sottolineato Pignatone nel corso di una precedente udienza, che erano in realtà in possesso di molti a Piazzale Clodio. Dopo tali accertamenti, dunque, l’esposto tornò a Palazzo dei Marescialli il 7 maggio 2019, ovvero due giorni prima del pensionamento di Pignatone. Da lì sarebbero dovute partire le prime audizioni, fissate a giugno, ma tutto si interruppe per via della nota della procura di Perugia. E pochi giorni dopo, il Fatto e La Verità raccontarono della guerra in procura, fuga di notizie per la quale ora Fava e Palamara sono a processo.

Davigo, che ha deciso di testimoniare senza l’assistenza di un avvocato, ha affermato che tra le contestazioni mosse a Palamara vi fosse il concorso nell’esposto nei confronti del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Affermazione che ha fatto sobbalzare l’ex presidente dell’Anm: «Mi sembra giusto e doveroso precisare che come risulta dall’atto di incolpazione e dalla sentenza che ha disposto la mia ingiusta rimozione dalla magistratura, contrariamente a quanto dichiarato dal dottor Davigo oggi in aula, io non ho mai avuto nessuna contestazione per concorso nell’esposto nei confronti del dottor Ielo – ha dichiarato prendendo la parola -. Sono sconvolto dal fatto che il mio giudice, cioè Davigo, mi abbia giudicato senza conoscere nemmeno il contenuto dell’incolpazione che mi riguardava. Quello a mio carico davanti al Csm non è stato un processo, ma un’esecuzione – ha affermato -. Sono sconvolto dal fatto che il mio giudice, cioè Davigo, mi abbia giudicato senza conoscere nemmeno il contenuto dell’incolpazione che mi riguardava. Ora faccia chiarezza fino in fondo».

L’udienza è stata però anche l’ennesima occasione per raccontare la rottura tra Davigo e Ardita. «Ho conosciuto Stefano Fava perché Sebastiano Ardita mi chiese di intervenire a un incontro che riguardava, mi pare, le elezioni della sezione Anm locale – ha sottolineato Davigo -. Fava in quell’occasione parlò di doglianze sull’allora procuratore capo, Giuseppe Pignatone, ma non mi accennò di un esposto. Quello che escludo categoricamente è che mi abbia parlato di un esposto contro Paolo Ielo (procuratore aggiunto di Roma, ndr)». Parlando di Ardita, Davigo ha ribadito di essersi allontanato da lui per via delle divergenze sul voto per la procura di Roma, gettando ombre sull’operato dell’ex collega: «Sono arrivato anche a ipotizzare che Ardita mi fosse stato mandato dietro da Cosimo Ferri», ha sottolineato.

Ma se Davigo sostiene che Ardita volesse spingerlo a votare Marcello Viola, finito suo malgrado al centro dei fatti dell’Hotel Champagne, il magistrato catanese sostiene l’esatto contrario: «Cercò di costringermi a votare per il dottor Prestipino, nomina che fu poi dichiarata illegittima, ed io fui costretto a rimetterlo a posto». Ardita ha anche confermato che Fava, durante l’incontro con Ardita e Davigo, «preannunciò un esposto contro Pignatone». E sulle insinuazioni che riguardano Ferri, «con cui ho parlato l’ultima volta nel 2013», il consigliere del Csm ha annunciato di voler valutare eventuali azioni legali: «Mi procurerò il verbale e valuterò il da farsi. Davigo cerca di difendersi come può, è imputato (a Brescia, ndr) di un reato infamante per un magistrato».

Piercamillo Davigo confessa che non fu imparziale: ecco che cos'è la giustizia italiana. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 20 maggio 2022

«Dopo tutta una serie di vicende sono arrivato anche a ipotizzare che Ardita mi fosse stato mandato dietro da Cosimo Ferri». Sono volati gli stracci ieri al tribunale di Perugia fra Piercamillo Davigo ed il magistrato antimafia Sebastiano Ardita. L'ex pm di Mani pulite era stato chiamato come testimone nel processo per rivelazione del segreto che vede sul banco degli imputati Luca Palamara e Stefano Rocco Fava, quest' ultimo già pm a Roma ed ora giudice al tribunale di Latina.

Palamara e Fava sono accusati di aver messo in piedi nella primavera del 2019 una campagna denigratoria per screditare l'allora procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone ed il suo vice Paolo Ielo. Palamara, in particolare, avrebbe "istigato" Fava a presentare un esposto al Csm dove si evidenziavano alcune mancate astensioni di Pignatone e Ielo in diversi procedimenti penali. La campagna avrebbe raggiunto l'apice con degli articoli pubblicati il 29 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano e La Verità. Anche se gli autori dei pezzi avevano negato qualsiasi coinvolgimento di Palamara e Fava, i due magistrati erano stati comunque rinviati a giudizio. Ma torniamo alla testimonianza di Davigo. Prima dei fatti dell'hotel Champagne il suo rapporto con Ardita era solidissimo. Insieme avevano scritto Giustizialisti, così la politica lega le mani alla magistratura, un libro edito da Paperfirst (casa editrice del Fatto).

Come raccontato dall'ex pm, Ardita voleva fare proselitismo a Roma in vista delle elezioni dell'Anm e aveva organizzato a marzo del 2019 un pranzo con Fava. Durante il pranzo, puntualizza però Davigo, «escludo categoricamente che Fava mi disse che voleva presentare un esposto contro Pignatone e Ielo. Semi avesse detto che intendeva presentare un esposto contro Ielo, me ne sarei ricordato, visto che conosco quest' ultimo da anni come un pm integerrimo».

E qui entra in ballo Ferri, ora deputato renziano. Davigo e Ardita sono infatti fra i fondatori di Autonomia&indipendenza, la corrente nata dopo la scissione dal gruppo di Magistratura indipendente a seguito di contrasti con l'allora leadership di Ferri. In questo scenario fratricida, dove nessuno si fida dell'altro, Davigo è stato però il giudice disciplinare che ha composto il collegio che ha radiato Palamara dalla magistratura. 

«Contrariamente a quanto dichiarato da Davigo in aula, io non ho mai avuto nessuna contestazione per concorso nell'esposto nei confronti di Ielo. Sono sconvolto dal fatto che il mio giudice cioè Davigo mi abbia giudicato senza conoscere nemmeno il contenuto dell'iincolpazione che mi riguardava», ha detto allora Palamara, prendendo la parola dopo Davigo. «Questa deposizione rafforza i miei ricorsi fatti alla Corte Europea per essere stato giudicato da un giudice che non è stato terzo e imparziale. Io mi auguro che Davigo possa fare chiarezza su quello che ha raccontato oggi senza trincerarsi dietro a omissioni o non ricordo: non può passare il messaggio che la giustizia sia vendetta», ha quindi aggiunto l'ex magistrato.

Sempre ieri il gup di Roma ha disposto nuove indagine sulla ex segretaria di Davigo, accusata di aver diffuso i verbali degli interrogatori di Piero Amara. Verbali che erano stati consegnati dal pm milanese Paolo Storari all'ex paladino di Mani pulite.

Le intercettazioni. Di cosa si parlava alle cene dalle Loggia Ungheria: processi, pensioni e intrighi. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Aprile 2022. 

Tranne il pm milanese Paolo Storari, nessuno ha mai avuto interesse ad indagare sulla loggia Ungheria. Piercamillo Davigo, che si era fatto consegnare da Storari i verbali delle dichiarazioni di Piero Amara, aveva interesse a screditare il collega Sebastiano Ardita, il cui nome figurava fra gli appartenenti alla loggia, e condizionare così il Csm. Davigo, imputato per rivelazione del segreto, ha sempre dichiarato che “aver appreso il contenuto dei verbali comportava la necessità di indurre i consiglieri del Csm a prendere le distanze da Ardita”.

Come mai, allora, non fece lo stesso, afferma il difensore di Ardita, l’avvocato Fabio Repici, con il presidente aggiunto del Consiglio di Stato Sergio Santoro, un altro appartenente alla loggia secondo la testimonianza di Amara, che invece frequentava anche a cena. Ad una di queste cene, a cui avrebbe partecipato il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, si era discusso del possibile innalzamento dell’età pensionabile dei magistrati a 72 anni. Innalzamento di cui avrebbe potuto beneficiare lo stesso Davigo. Stando così i fatti, risulta illuminante la testimonianza di Storari davanti ai pm di Brescia. Il pm, dopo aver terminato gli interrogatori in cui Amara aveva raccontato l’esistenza della loggia Ungheria, di cui avrebbero fatto parte magistrati ed esponenti delle forze di polizia, era andato dal suo capo, il procuratore Francesco Greco.

«Ho una interlocuzione con il dottor Greco e gli dico: “Francesco ma te a ste robe che dice Amara ci credi?” … “Si Paolo io ci credo però lì dentro si parla di Zafarana (Giuseppe, comandante generale della guardia di finanza, ndr). … e io adesso non lo voglio toccare perché mi deve sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) che deve andare al Nucleo di polizia valutaria di Roma”». Storari ha poi un colloquio con l’aggiunto Fabio De Pasquale che gli dice “di tenere fermo nel cassetto due anni questo fascicolo”. «Queste due interlocuzioni che io ho avuto orali mi assumo la piena responsabilità nel dire queste cose, pienissima, di fronte a un aggiunto e a un procuratore capo che a torto o a ragione mi dicono queste cosa…. mi dica cosa dovevo fare?», prosegue Storari rivolgendosi ai colleghi di Brescia. «L’intenzione è stata questa: questo fascicolo deve rimanere fermo per due anni. Non rompiamo le palle», sottolinea ancora Storari. «E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto?», gli chiede il procuratore di Brescia Francesco Prete.

La risposta: «Non bisogna disturbare il processo Eni-Nigeria. Se avessimo avuto la prova che Amara diceva delle palle le chiamate in correità in quel processo finivano e questo non poteva essere consentito. Ho vent’anni di esperienza ma una roba del genere a me non è mai stata detta in tutta la vita». Storari, poi, affronta il tema delle indagini sulla loggia Ungheria e del trasferimento a Perugia dell’inchiesta. «In un fascicolo così non c’è un atto istruttorio …. lei non vede una delega alla pg … non vede la pg che scrive una roba …. vuoi andare a vedere dove si trovano questi qua? dove fisicamente si trovano? vuoi fare due tabulati visto che abbiamo due anni di tempo», ricorda Storari a Prete. «Questo (Amara) ha iniziato a parlare a dicembre 2019, il fascicolo è andato a Perugia con quattro sit (verbali di sommarie informazioni, ndr) schifosi a gennaio 2021. Le sembra una cosa ammissibile con quelle dichiarazioni? Se si fosse scoperto che Amara era calunniatore voleva dire la morte di quel processo che a Milano la Procura non poteva e doveva perdere», aggiunge Storari. Prete lo incalza: «Mi dice qualche atto d’indagini che le hanno impedito di fare?».

«I tabulati, le deleghe alla pg», risponde secco Storari, spiegando anche il perché non vennero fatte fare da Greco: «I carabinieri no perché c’è implicato il generale Del Sette (Tullio, ndr), comandante generale dell’Arma, la guardia di finanza no perché ci sta Zafarana. La polizia di Stato mi sta sulle palle». Storari decide di optare per la polizia: «Ad un certo punto dico lo Sco (Servizio centrale operativo, ndr), non c’è nessuno dello Sco, diamolo a loro, almeno qualcuno si salva». «Allo stato – continua Storari – all’interno della polizia non vi è alcun appartenente a differenza quanto meno per carabinieri e guardia di finanza». E sui tabulati: «L’unica volta, cazzo, che mi sono permesso di dire facciamo i tabulali questi mi volevano aprire un procedimento disciplinare». «Di fronte a un fascicolo di questa portata, non stiamo parlando di una truffa alle assicurazioni stiamo parlando di robe devastanti per il Paese, facciamo veloce», ricorda ancora Storari a Prete, aggiungendo però che il fascicolo era invece «rimasto un anno e due mesi nel cassetto».

A gennaio del 2021 il fascicolo arriva comunque Perugia per competenza territoriale. «Ha visto chi c’è in questa loggia, il dottor De Ficchy (Luigi, ndr) cosa faceva De Ficchy, il procuratore di Perugia», continua Storari all’indirizzo di Prete. La procura del capoluogo umbro per Storari sarebbe stata incompetente. «Sa qual è il grande stratagemma che viene trovato per mandarla a Perugia? Grande, fantasioso si separa De Ficchy, si manda a Firenze e tutto il resto si manda a Perugia», ricorda Storari che sul punto ha le idee chiare: «E’ una vergogna. Perugia qui non c’entra un cazzo». Storari si assume comunque la responsabilità della scelta: «Io ho condiviso perché almeno facciamo qualcosa». «Lì ci sono i massimi vertici delle forze dell’ordine, ci sono componenti del Csm, questa roba è stata gestita una merda. Questa roba, insisto, in due mesi lavorando giorno e notte dovevi portarla a casa. E se scoprivi che questo (Amara) diceva in parte cazzate, era da arrestare», le ultime parole di Storari. Paolo Comi

Nicola Zingaretti, il verbale nascosto: finanziamenti e lobby, ecco le rivelazioni di Amara "censurate". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Spuntano i verbali di due interrogatori di Piero Amara resi alla procura di Perugia (inediti) diversi da quelli pubblicati selettivamente dal Fatto Quotidiano nel settembre 2021, dopo averli tenuti per quasi un anno in frigorifero: e sono appunto verbali integrali, non selezionati col bisturi né in testo «word» come quelli diffusi dai magistrati Paolo Storari e Piercamillo Davigo. Sono rispettivamente del 26 ottobre 2020 e del 4 febbraio 2021. In essi, tra l'altro, Piero Amara chiama in causa il segretario diessino Luca Zingaretti e dice che fu finanziato dall'imprenditore Fabrizio Centofanti, il quale avrebbe pagato le vacanza ai magistrati Sebastiano Ardita e Alessandro Centonze. Le repliche dei citati saranno ovviamente benvenute, considerando che qualcuno si era già ritenuto danneggiato dai verbali precedenti (quelli del Fatto) e che Ardita, da consigliere del Csm, si è già costituito parte civile nel complicato intreccio di processi che si sono mossi tra Milano, Brescia, Perugia e Roma.

Il primo verbale è del 26 ottobre 2020 nell'ufficio del procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, e sono presenti, tra altri pm, anche i procuratori Laura Pedio e Paolo Storari in trasferta da Milano. Piero Amara, dopo aver citato alcune sue conoscenze con vari magistrati («Cardaci, Ferrara, D'Agata, Ardita, Centonze, Gennaro, Giordano e altri ancora») risponde a una domanda sui suoi rapporti in particolare con Sebastiano Ardita: «All'epoca», risponde Amara, «avevo molta confidenza con lui. In quel periodo lavorava a Catania e poi si trasferì credo a Bologna. Posso dire che, su indicazioni di Tinebra, ho pagato delle vacanze ad Ardita e a Centonze».

«PABLO ESCOBAR»

Gianni Tinebra, morto nel 2017, è stato a capo della procura di Caltanissetta e Amara l'aveva già descritto come una sorta di reggifila della presunta loggia segreta Ungheria. Alessandro Centonze era un sostituto procuratore di Catania. «Si trattava di due abitazioni fittate presso il lido San Lorenzo, in Pachino, località Marzamemi, che è di proprietà del geometra Frontino, che è il padre della compagna di Calafiore». L'avvocato Salvatore Calafiore è un inseparabile e baffuto compare di Piero Amara: nelle loro chat riservate, Amara si faceva chiamare «Peter Pan» e Calafiore «Pablo Escobar».

Prosegue Amara nel verbale, a proposito dei due magistrati: «L'affitto era di 3.500 euro per ciascuna abitazione. La vacanza di cui ho parlato è avvenuta in estate tra il 2007 ed il 2008. Centonze emise un assegno di 1.000 euro per dimostrare di aver pagato. L'assegno mi venne consegnato da Centonze e io lo consegnai a Frontino. Ardita non corrispose nulla. Io pagai il soggiorno in contanti». Poi, nell'interrogatorio, chiedono ad Amara se considera l'imprenditore Fabrizio Centofanti un lobbista.

Centofanti, ricordiamo, è l'ex responsabile delle relazioni istituzionali della società Acqua Marcia che aveva confermato (vedi Libero del 31 marzo) quanto aveva già detto Amara circa un incarico da 400mila euro corrisposto a reg Giuseppe Conte nelle vesti di avvocato amministrativista. Un lobbista, dunque? «Certamente per Acquamarcia. Poi, a mio avviso, l'attività di relazioni istituzionali le ha coltivate tramite la Cosmec».

La Cosmec è una società di Centofanti che organizzava convegni di magistrati e con la quale collaborava anche Giuseppe Conte in «un rapporto di stima e cordialità, tanto che ci affidò l'organizzazione di alcuni convegni», dirà l'imprenditore in un interrogatorio del 30 marzo 2021).

Ma non è finita. «So anche che c'è un rapporto molto stretto tra Nicola Zingaretti e Centofanti», dice ora Amara, «per avermelo detto quest' ultimo. Giuseppe Calafiore mi ha detto che Centofanti avrebbe finanziato la campagna elettorale di Zingaretti... Ricordo che in occasione della prima candidatura di Zingaretti venne organizzata una cena a casa di un avvocato amministrativista che era avvocato di Acquamarcia; il servizio di ristorazione venne organizzato o gestito da Fabrizio Centofanti». Chiedono ad Amara se lui fosse presente: «Ero presente. Ricordo che a questa cena era presente anche il dottor Raffaele Squitieri». Che è l'ex presidente aggiunto della Corte dei Conti, in carica sino al 2016. Chi era l'avvocato amministrativista (di Acqua Marcia) a casa del - - quale Zingaretti presentò la sua candidatura? Amara non lo dice, come visto, ma potrebbe trattarsi di uno tra Guido Alpa e Giuseppe Conte.

Poi c'è il secondo verbale relativo a un secondo interrogatorio di Piero Amara del 4 febbraio 2021, sempre a Perugia, davanti ai pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano. Qui l'indagato parla anzitutto dell'ex pm romano Stefano Rocco Fava, con il quale aveva però il dente avvelenato perché era stato forse il solo magistrato che non gli aveva creduto sin dal principio. e che infatti lo voleva arrestare. «Evidenzio che Fava», dice Amara, «ha riferito a Luca Palamara che Pignatone non mi avrebbe fatto arrestare in virtù dei rapporti che, secondo lui, avevo avuto con il fratello». È una storia intricatissima in cui non ci addentriamo.

Giuseppe Pignatone, ex procuratore Capo a Roma, ha un fratello che si chiama Roberto e che dal 2014 al 2016 era stato consulente di Ezio Bigotti, coinvolto in un'indagine nella Capitale sulla quale, secondo l'accusa, il procuratore Pignatone attardò ad astenersi. Neanche ai magistrati di Perugia pare interessare, tanto che passano alla domanda successiva: «Ci può spiegare come e perché finanziò Luca Lotti?». Qui invece, sul deputato vicino a Matteo Renzi, è Pietro Amara che per ora sorvola: «Preferisco parlarne in un prossimo interrogatorio».

AFFARI CON LA TOGA

I pm insistono e chiedono ad Amara se conosca l'avvocato Alberto Bianchi, già presidente dell'associazione Open di Matteo Renzi: «Preferisco anche in questo caso rinviare l'approfondimento dei miei rapporti con I' avvocato Bianchi a un prossimo interrogatorio».

È come se i pm non volessero cadere nelle trappole di Amara e viceversa, volontà fatta propria anche da chi, come Libero, pubblica ora questi verbali.

«Conosce la dottoressa Battagliese?» chiedono i pm ad Amara. «È un magistrato di Roma che si occupa di civile, credo di averla incontrata in due occasioni casuali con Fabrizio Centofanti. In un'occasione a Gaeta, in una seconda casualmente al ristorante Tullio a Roma». I pm chiedono se sapesse di rapporti comuni tra la Battagliese (Massimiliana, ndr) e Centofanti. 

«Non so nulla di preciso», risponde Amara, «ho desunto, dal modo in cui me l'ha presentata, che fossero amici». Forse i pm puntavano a un'altra faccenda che riguardò l'inchiesta sull'associazione Open di Matteo Renzi: risultò che la citata Cosmec di Centofanti aveva comprato un quadro per 312 mila euro e che un'informativa della Banca d'Italia aveva fatto sapere che 262mila di questi euro erano finiti nelle tasche del giudice Battagliese. Non avendo noi reperito alcun seguito di questa vicenda, sarà eventualmente benvenuta anche la sua smentita.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 28 aprile 2022.  

Come in un legal thriller, nel processo a Piercamillo Davigo spunta un testimone a sorpresa. Anzi due. Giuseppe Severini e Sergio Santoro, alti giudici del Consiglio di Stato da poco in pensione. E, si scopre ora, commensali di Davigo in cene romane con rilevanza giudiziaria. 

«I testimoni 22 e 23 della nostra lista sono particolarmente importanti», ha detto nella prima udienza Fabio Repici, avvocato del consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che si è costituito parte civile.

Si proclama vittima della rivelazione di segreto istruttorio, contestata a Davigo per aver divulgato i verbali sulla fantomatica loggia paramassonica Ungheria nel Csm, dopo averli ricevuti dal pm milanese Storari. In quei verbali l'avvocato Piero Amara indicava Ardita nella quarantina di affiliati alla loggia. 

Davigo ne trasse motivo per interrompere i rapporti con Ardita, suo compagno di corrente e vicino di stanza al Csm, e mettere in guardia altri sette consiglieri, due assistenti e il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra.

L'avvocato di Ardita punta a dimostrare che Davigo utilizzò i verbali non per senso istituzionale, ma «per screditarlo e condizionare il Csm». Per farlo deve smontare la tesi di Davigo, «che ha giustificato il suo comportamento dicendo che aver appreso il contenuto dei verbali comportava la necessità di indurre i consiglieri del Csm a prendere le distanze da Ardita». 

E qui spuntano i due nuovi testimoni. L'ex giudice Severini ha raccontato di aver «incontrato Davigo nel corso di due cene a casa del collega Santoro, con cui credo avesse un rapporto pregresso». 

Cene tra magistrati prossimi alla pensione. Infatti «Santoro organizzò queste cene perché aveva interesse a sondare l'atteggiamento anche di altri colleghi circa la possibilità che venisse modificata l'età pensionabile dei magistrati, riportandola a 72 anni.

Sapeva che io condividevo questa posizione e mi invitò quando ritenne di parlare della questione con un magistrato ordinario importante come Davigo. In una delle due cene era presente anche Federico Cafiero De Raho (allora procuratore nazionale antimafia, oggi in pensione) con cui io e Santoro avevamo in più occasioni parlato del tema, recandoci nel suo ufficio. Mi pare che alle cene sia stata presente anche un'avvocata amica di Davigo».

Severini ricorda che Davigo «non era contrario» all'innalzamento dell'età pensionabile «ma precisò di non essere direttamente interessato» perché convinto di restare in carica al Csm fino a 72 anni. Certezza mal risposta, perché nell'ottobre 2020 il Csm deciderà diversamente. 

Al di là del lobbismo pensionistico le cene rilevano perché Severini le colloca «la prima nell'ottobre 2019, la seconda molti mesi dopo, nel 2020». Al tempo della prima cena, il giudice Santoro era notoriamente indagato dalla Procura di Roma per corruzione giudiziaria, nell'inchiesta sul Consiglio di Stato alimentata dallo stesso Amara.

La sua posizione è stata archiviata successivamente. 

La seconda cena, in assenza di una data precisa, presumibilmente si collocherebbe dopo il lockdown, quando Davigo torna a Roma con i verbali sulla loggia Ungheria, in cui Santoro è citato in modo più diffuso e specifico di Ardita. Prima come «associato e membro alla loggia Ungheria», poi perché sponsorizzato da Lotti e Verdini, «i quali volevano che diventasse presidente della sezione del Consiglio di Stato che si occupava dei ricorsi Consip. E così avvenne».

Il commensale Severini (mai citato, lui, nei verbali di Amara) ricorda «rapporti cordiali tra Davigo e Santoro» e nega accenni alla vicenda Ungheria. Il tribunale ha ammesso le testimonianze per ricostruire le cene e verificare se «Davigo mostrò mai imbarazzo o distacco». Vero o no ciò che dice Amara, la domanda che Davigo si vedrà porre in aula è un'altra: perché gli credeva di giorno, al punto da mettere in allarme mezzo Csm su Ardita, ma non di sera, quando continuava a frequentare la casa di Santoro, pur additato come membro della stessa loggia segreta ed eversiva?

Luigi Ferrarella per corriere.it il 19 aprile 2022.  

Una sfilata dei vertici della magistratura italiana: diventerà questo, se il Tribunale accoglierà le liste di testi presentate dalle parti, il processo che inizia domani a Brescia all’ex consigliere del Csm ed ex pm di Mani pulite, Piercamillo Davigo, per l’ipotesi di «rivelazione di segreto d’ufficio» dopo che il pm milanese Paolo Storari nell’aprile 2020 gli consegnó in copia word i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi ai pm milanesi Pedio e Storari dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara: verbali sui quali Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara, in un attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) nel processo Eni-Nigeria del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e nella inchiesta del pm Pedio sul collegato depistaggio giudiziario Eni.

Tra coloro di cui è stata chiesta la testimonianza (dall’accusa, dalla difesa, e dalla parte civile del consigliere Csm Sebastiano Ardita costituitosi in giudizio contro Davigo) figurano infatti il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm, David Ermini, i consiglieri Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Giuseppe Cascini, Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, più la segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto, e i due giornalisti del Fatto Quotidiano e Repubblica che ricevettero anonimi con le copie dei verbali.

Ma il processo bresciano potrebbe anche diventare un faccia faccia differito tra Davigo e Storari da un lato, e i (pure citati come testi) vertici della Procura milanese all’epoca degli attriti, e cioè Francesco Greco (poi archiviato da Brescia e oggi in pensione), la sua vice Laura Pedio (oggetto di una richiesta di archiviazione), l’altro suo vice Fabio De Pasquale (indagato a Brescia, e come Storari lal vaglio di una procedura del Csm di eventuale incompatibilità ambientale).

Nel frattempo la Procura di Brescia ha fatto ricorso contro l’assoluzione di Storari decisa il 7 marzo in primo grado in abbreviato dalla giudice Federica Brugnara: per l’accusa «non è certamente frequente imbattersi in una sentenza di assoluzione per il riconoscimento di errore di diritto per ignoranza inevitabile della legge extrapenale, specie se ad essere imputato è un magistrato della Repubblica, soggetto che interpreta e applica le norme per professione».

Parte il processo a Davigo. I vertici della magistratura chiamati a testimoniare. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Aprile 2022.

Per la procura di Brescia «non è certamente frequente imbattersi in una sentenza di assoluzione per il riconoscimento di errore di diritto per ignoranza inevitabile della legge extrapenale, specie se ad essere imputato è un magistrato della Repubblica, soggetto che interpreta e applica le norme per professione».

Sarà una vera e propria passerella dei vertici della magistratura se il Tribunale di Brescia accoglierà le liste di testi depositate dalle parti, per il processo all’ex consigliere del Csm ed ex pm di Mani pulite, Piercamillo Davigo, che inizia oggi a Brescia, chiamato a rispondere dell’ipotesi di reato di “rivelazione di segreto d’ufficio” , che si sarebbe configurato secondo la Procura di Brescia (competente sui reati commessi negli uffici giudiziari di Milano) dopo che nell’aprile 2020 il pm milanese Storari gli consegnó una copia in formato word, priva di firme, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi dall’ avv. Piero Amara ex consulente legale esterno Eni ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari. 

Verbali in relazione ai quali il pm Storari contestava lo scarso attivismo giudiziario nelle indagini dell’ex-procuratore capo Francesco Greco e del procuratore aggiunto Laura Pedio, per accertare al più presto possibile le verità e le menzogne verbalizzate da Amara, in un immobilismo motivato dal timore (secondo Storari) dei vertici della Procura che potesse uscire sminuita la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni contro Eni assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna, che erano state invece ritenute attendibili nel processo Eni-Nigeria dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e nella inchiesta sul collegato “depistaggio” giudiziario Eni dell’ aggiunta Pedio. 

Negli elenchi dei testimoni depositati dall’accusa, dalla difesa, e dalla parte civile (il magistrato Sebastiano Ardita consigliere Csm costituitosi in giudizio contro Davigo) compaiono il procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm, David Ermini, i consiglieri Giuseppe Cascini, Stefano Cavanna, Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (ex-M5S), la segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto, ed i due giornalisti Liana Milella del quotidiano La Repubblica  ed Antonio Massari de Il Fatto Quotidiano  destinatari da anonimi mittenti delle copie dei verbali. 

Paradossalmente il processo dinnanzi al Tribunale di Brescia potrebbe anche diventare un confronto all’americana seppure a distanza tra Davigo e Storari da un lato, e i vertici della Procura milanese (citati anche come testi) all’epoca degli scontri fra toghe, e cioè Francesco Greco (oggi in pensione), la sua aggiunta Laura Pedio (oggetto di una richiesta di archiviazione), l’altro suo vice Fabio De Pasquale (indagato a Brescia), nei confronti del quale (come anche per Storari) pende un procedimento disciplinare del Csm, chiamato a decidere su un’ eventuale incompatibilità ambientale. 

La Procura di Brescia ha presentato ricorso a sua volta contro l’ assoluzione di Storari decisa in primo grado (con rito abbreviato) lo scorso 7 marzo dalla giudice Federica Brugnara: per la procura bresciana «non è certamente frequente imbattersi in una sentenza di assoluzione per il riconoscimento di errore di diritto per ignoranza inevitabile della legge extrapenale, specie se ad essere imputato è un magistrato della Repubblica, soggetto che interpreta e applica le norme per professione». 

Che tutto questo sia l’anticamera della fine del fantomatico “rito ambrosiano” del Palazzo di Giustizia di via Freguglia a Milano, che sembra aver sottratto alla procura romana l’appellativo di “Porto delle nebbie“, o un semplice regolamento di conti interno alle correnti della magistratura ?

Redazione CdG 1947

Da ansa.it il 20 aprile 2022.

Con l'ammissione delle tv in aula si è aperto a Brescia il processo in cui l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo è imputato per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria. 

"Noto la presenza di telecamere. Le riprese televisive non sono necessarie" ha detto il pm Francesco Carlo Milanesi che con il collega Donato Greco è titolare del fascicolo.

"Ci rimettiamo alle vostre decisioni, ma non abbiamo problemi alla presenza delle telecamere in aula", hanno affermato i legali di Davigo. 

Quindi come primo atto del dibattimento, il collegio della prima sezione penale presieduto da Roberto Spanó ha autorizzato la presenza delle telecamere.

Davigo risponde di rivelazione del segreto d'ufficio. Parte civile è invece l'attuale componente del Csm Sebastiano Ardita.

"Credo di aver fatto il mio dovere nelle uniche forme in cui andava fatto". E' un passaggio delle dichiarazioni spontanee rese in aula a Brescia dall'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato per la vicenda dei verbali di Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria.

"Ho chiesto la pubblicità dell'udienza perché ritengo che l'opinione pubblica voglia sapere cosa è successo" ha proseguito aggiungendo di voler essere assolto "per quello che emerge dall'udienza e per questo non ho chiesto l'abbreviato". 

Davigo debutta dall'altra parte. "Ora si comporti da imputato". Luca Fazzo il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

Al via a Brescia il processo sui verbali di Amara. E il giudice subito bacchetta l'ex pm. Il 24 parla Storari.

Processo al Sistema: se Roberto Spanò, presidente del tribunale di Brescia, non cambierà idea, il processo contro Piercamillo Davigo, ex membro del Consiglio superiore della magistratura e ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, promette di trasformarsi in una ricostruzione a favore di telecamera dei meccanismi che regolano dietro le quinte la vita della magistratura italiana. Perché non si può capire davvero la storia dei verbali sulla loggia Ungheria, passati di mano in mano come se fossero volantini e non atti coperti da segreto, senza ricostruire gli obiettivi, le alleanze, le rivalità che hanno mosso tutti i protagonisti. Così nell'elenco di testi che ieri il giudice Spanò ammette c'è mezzo Gotha della magistratura italiana: sei membri in carica del Csm, a partire dal vicepresidente David Ermini, i due massimi vertici della Cassazione (il presidente Curzio e il procuratore generale Salvi), l'intero vertice della Procura di Milano, compreso l'ex procuratore Greco e il capo del pool antimafia Alessandra Dolci, compagna di Davigo. Tutti, per il pezzo di loro competenza, chiamati a spiegare come sia stato possibile che dichiarazioni micidiali come quelle messe a verbale dall'ex avvocato di Eni Piero Amara restassero per mesi a sonnecchiare a Milano, salvo venire usate per cercare di affossare un giudice scomodo alla Procura; e venissero poi divulgate, grazie a Davigo, fino ad arrivare al Quirinale.

Se Spanò non sfoltisce la lista, insomma, sarà un processo interessante. Davigo punta a uscirne assolto e anche pubblicamente riabilitato, per questo ieri dà il via libera alle telecamere in aula. Ieri l'ex «Dottor Sottile» del pool Mani Pulite appare carico, forse fin troppo. Prende subito la parola, si dichiara innocente, si infervora al punto che il giudice deve stopparlo: «È difficile svestire la toga quando si è dall'altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell'imputato», dice Spanò senza tanti giri di parole all'ex collega. Davigo non se la aspettava, si blocca un attimo. Forse solo in quel momento capisce che per la prima volta in vita sua, nell'aula di tribunale seduto sul banco dell'accusa non c'è lui. E che lo status di ex magistrato non gli garantirà alcun trattamento di riguardo.

Il primo testimone a venire interrogato sarà, il prossimo 24 maggio, Paolo Storari: il pm milanese che partendo lancia in resta contro i propri capi e l'insabbiamento dei verbali di Amara ha dato il via a questo pasticcio epocale. Storari e Davigo erano imputati insieme di rivelazione di segreti d'ufficio, la loro sorte appariva intrecciata, Davigo poi ha scelto la strada del processo a porte aperte «perché ritengo che l'opinione pubblica voglia sapere cosa è successo», Storari invece ha chiesto il rito abbreviato ed è stato assolto ma la partita per lui non è chiusa. La Procura di Brescia infatti ha impugnato l'assoluzione con un ricorso piuttosto duro, «anche nel caso che il Csm avesse qualche competenza a conoscere le dichiarazioni di Amara certamente non lo era Davigo e men che meno nel salotto di casa sua».

Se confermerà quanto detto durante le indagini preliminari, Storari il 24 maggio spiegherà che fu proprio Davigo a garantirgli che il passaggio dei verbali, anche in quella forma assai sbrigativa, era del tutto legale. A quel punto il focus si sposterà su un punto chiave: perché Davigo prima si fa dare i verbali e poi li divulga? Il sospetto è che li volesse utilizzare per regolare i conti col collega Sebastiano Ardita, ex amico divenuto acerrimo nemico. Niente di troppo nobile, insomma. Ardita ha ottenuto di costituirsi parte civile, ha un avvocato implacabile, e difficilmente accetterà una verità sbrigativa.

Davigo a processo: «Io, innocente». Ma il giudice lo “riprende”: «Si comporti da imputato…» Caso verbali, al via il processo a Brescia: il giudice “bacchetta” l’ex pm. Simona Musco su Il Dubbio il 21 aprile 2022.

«È difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato». L’urgenza di Piercamillo Davigo di raccontare la sua verità è tanta che a un certo punto il presidente del collegio che lo dovrà giudicare, Roberto Spanò, è costretto a fermarlo.

Ma a passare per quello che voleva fare dossieraggio ai danni del suo ex amico Sebastiano Ardita, con il quale ha fondato la corrente Autonomia e Indipendenza, l’ex pm di Mani Pulite non ci sta. Convinto, com’è, di aver fatto il suo «dovere nelle uniche forme in cui era possibile farlo». Così questa mattina, alla prima udienza del processo che lo vede imputato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per la diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara, Davigo ha deciso di prendere la parola. E di ribadire la propria innocenza, sostenendo di non voler sollevare l’eccezione di competenza territoriale di Brescia (che pure implicitamente contesta), perché «non si deve scappare dal giudice quando si è innocenti».

Il magistrato ormai in pensione, dunque, ha fretta di parlare, di spiegare le proprie ragioni. Di dire che se ha scelto il rito ordinario, e non l’abbreviato, è per raccontare come sono andate le cose, anche perché altrimenti «poi mi dicono che lo faccio per denigrare Ardita, ma semmai è Amara che lo denigra. La questione sarebbe stata più chiara rappresentando al tribunale l’intera vicenda, perché è molto più semplice di quello che sembra». Tutto ruota, come noto, attorno ai verbali sulla testimonianza di Amara consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Davigo, all’epoca consigliere del Csm, come forma di «autotutela» per il presunto lassismo della procura di Milano nell’iscrizione dei primi indagati in relazione alla presunta loggia Ungheria, della cui esistenza aveva riferito proprio il consulente dell’Eni, inserendo tra i presunti affiliati anche un consigliere del Csm: Ardita.

Verbali che Davigo prese in consegna promettendo di farsi da tramite con il comitato di presidenza, salvo poi parlarne non solo con il vicepresidente del Csm David Ermini, con il procuratore generale Giovanni Salvi e con il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, ma anche con diversi altri consiglieri, con le sue segretarie e con il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, consigliando loro di prendere le distanze proprio da Ardita, costituitosi parte civile nel procedimento. Il processo, dunque, rappresenta una resa dei conti tra i due, che nelle prossime udienze si confronteranno davanti al collegio giudicante. Perché secondo Ardita, rappresentato dall’avvocato Fabio Repici, Davigo avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare» il suo ruolo istituzionale «di consigliere del Csm» e la sua «immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm».

Il presidente Spanò ha ammesso tutti i testi citati da accusa, parte civile e difesa, circa trenta persone. Si partirà il 24 maggio, con la testimonianza di Storari, assolto in abbreviato dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio perché il fatto non costituisce reato. Assoluzione però impugnata dalla procura, secondo cui anche nel caso in cui si volesse ritenere che il Csm fosse deputato a conoscere quanto stava accadendo in procura a Milano con i verbali di Amara, «certamente non lo era Davigo, men che meno nel salotto di casa sua, e non può credersi che un errore di diritto su tali circostanze possa ritenersi “inevitabile”, specie per un soggetto che interpreta ed applica le norme per funzione e professione».

Dopo Storari, il 28 giugno, sarà la volta del vicepresidente del Csm David Ermini e dei consiglieri Giuseppe Marra, Ilaria Pepe e Giuseppe Cascini. Tra le persone chiamate a testimoniare anche il procuratore generale Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, i pm meneghini Laura Pedio e Fabio De Pasquale (ritenuto però dall’accusa «lontano dai fatti») e il magistrato Alessandra Dolci. Ma ci saranno anche il primo presidente Curzio, l’ex segretaria di Davigo Marcella Contrafatto (sotto inchiesta a Roma per la diffusione dei verbali alla stampa), Morra e i due giornalisti destinatari del plico con i verbali, poi consegnati in procura. L’elenco, ha però chiarito Spanò, potrà essere sfoltito nel corso del processo: «Vedremo di volta in volta la rilevanza. A noi – ha spiegato il giudice – piace che la prova si formi in dibattimento purché non si esca dal processo. Raccomando alle parti di non avere animosità».

Ed è a questo punto che Davigo ha preso la parola, ribadendo di voler chiarire «una vicenda che reputo molto interessante per l’opinione pubblica». «Non contesto che Storari mi abbia consegnato una chiavetta – ha spiegato -, l’ho detto anche io. Ma non è per questo che lo abbiamo citato, ma per altra ragione. Non può essere vero che io abbia istigato Storari e comunque non potevo farlo prima di sapere cosa mi avrebbe detto». Un modo per dire che non ha usato il pm milanese per screditare Ardita, ma anche per evidenziare il problema della competenza territoriale, che spetterebbe a Roma, secondo Davigo, luogo in cui si sarebbe eventualmente consumato il reato con la diffusione dei verbali ai membri del Csm. Ma anche Brescia, per l’ex pm di Mani Pulite, va bene: l’importante è avere un giudice a cui dire «la verità».

Se non fosse che nel rilasciare dichiarazioni spontanee Davigo è andato oltre, chiedendo chiarimenti al pm sul capo d’imputazione: «Ho diritto di sapere perché condotte identiche» vengono valutate diversamente. Ovvero: «Mi viene contestata come rivelazione di segreto d’ufficio l’aver informato il vicepresidente del Csm ma non mi viene contestato di aver detto le stesse cose al primo presidente della Corte di Cassazione: perché è lecito se lo dico a Curzio ed è illecito se lo dico a Ermini? Questo il pubblico ministero avrebbe il dovere di spiegarmelo». Un’affermazione di troppo, che ha spinto Spanò a fermare Davigo, invitandolo a rispettare i ruoli: «Si cali nella parte dell’imputato».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 aprile 2022.  

Occorre resistere alla tentazione di scrivere del processo a Piercamillo Davigo con un tono da «ecco, tocca a te», «ora sai che cosa si prova», eccetera: non sono queste - l'essere interrogato da imputato o da testimone- le cose che non sapeva e che gli auguriamo di non sapere mai, perché sono cose che riguardavano chi al processo spesso neppure ci arrivava, o veniva maltrattato senza un pubblico durante un interrogatorio, o marciva in galera da innocente. Non c'è nessuna nemesi, perciò. Per ora, almeno.

Davigo non ha un Davigo che lo fronteggia: ha il giudice Roberto Spanò, il quale forse fu il più deciso nel respingere le richieste di rinvio a giudizio che dal 1996 al 1999 riguardarono Antonio Di Pietro a Brescia, e più in generale, l'immagine di Mani Pulite. 

Fu roba che passò alla storia della giurisprudenza: alcune particolari udienze preliminari prassi che talvolta duravano pochi minuti, e che al più verificavano i crismi formali per fare un normale processo- durarono settimane o mesi e anticiparono patenti di innocenza o di colpevolezza riservate di regola ai giudici veri e propri, come ora è Spanò.

Furono sentenze che andarono contro ogni linea-guida del legislatore e contro i pronunciamenti, sul tema, della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione anche a sezioni unite. Insomma, sulla ferrea volontà di salvare l'immagine dell'inchiesta e i suoi simboli non vi furono dubbi. Ai tempi era Di Pietro. Oggi è Davigo, e potrebbero essere cambiate tante cose: tra queste, sicuramente, però, non c'è il piglio arrogante di Davigo: è rimasto quello.

Qualche sua frase di ieri: «Ho fatto il mio dovere nell'unica maniera in cui andava fatto, assolvetemi», «ho chiesto la pubblicità dell'udienza perché ritengo che l'opinione pubblica voglia sapere cosa è successo», «Storari mi informa di una situazione che io ritengo legittima, io non contesto che Storari mi abbia consegnato una chiavetta, è vero e l'ho detto», «non bisogna scappare dal giudice quando si è innocenti e per questo non faccio eccezioni di competenza territoriali». 

Insomma, il giudice sembrava ancora lui, seduto in prima fila: ho fatto la cosa giusta nel modo migliore, sono io che ho chiesto le porte aperte alle udienze, e comunque ho già detto tutto, sono innocente, e sono qui solo perché non ho fatto eccezioni di competenza territoriale.

Un'ostentazione di controllo inversa rispetto alla vertigine di chi rimane impigliato nell'ingranaggio giudiziario, ed entra in dinamiche che non può controllare. Però ieri, Davigo, a un certo punto è parso eccessivo persino per il giudice Roberto Spanò: «Ho diritto di sapere perché condotte identiche mi vengono contestate come rivelazione di segreti d'ufficio e altre no» ha detto a un certo punto Davigo (come se la stessa domanda non avesse mai riguardato la sua attività da pm) prima di chiedersi anche «perché è lecito se lo dico al presidente Curzio ed è illecito se lo dico al pm Ermini?».

Qui Spanò ha preso la parola e gli ha fatto un richiamo, perché era davvero era troppo: «So che è difficile sfilarsi la toga, ma la invito a calarsi nella parte dell'imputato». Ah già, la toga: aveva dimenticato di toglierla. Come disse Oscar Luigi Scalfaro: la toga è sull'anima.

«La vicenda è molto più semplice di quel che sembra... Storari mi rappresenta una situazione che lui ritiene illegittima e io che condivido essere illegittima», ha detto ancora Davigo, ex consigliere del Csm che ieri ha reso parziali dichiarazioni spontanee nel processo in cui è imputato.

Poi, fuori dall'aula, coi giornalisti, si è soltanto ripetuto: «Vorrei sapere perché comportamenti identici a volte vengono considerati reati e altri no». Capito.

Dunque facciamo ordine. 

Ieri c'è stata la prima udienza del processo con imputato Davigo per l'accusa di rivelazione di segreto per aver diffuso, in qualità di componente del Consiglio superiore della magistratura, in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale», alcuni verbali segreti, «violando i doveri» legati alle sue funzioni e «abusando delle sue qualità». Il giudice Spanò ha ammesso le telecamere a cui si erano opposti solo i pm, Donato Greco e Francesco Milanesi.

I verbali in questione sono quelli che l'ex consulente dell'Eni Piero Amara, tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020, aveva reso ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari

 In seguito, Storari ha ritenuto che Laura Pedio e l'allora procuratore capo di Milano Francesco Greco avrebbero rallentato le indagini, ragione per cui lo stesso Storari nell'aprile 2020 consegnò al consigliere del Csm Davigo una copia (trascritta in word) di questi verbali.

Davigo ha sempre detto di aver avuto quelle carte in modo legittimo in quanto membro del Csm, a cui il segreto non sarebbe opponibile. Per il pm Laura Pedio, la procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione. L'ex capo Francesco Greco, oggi in pensione come Davigo, è già stato prosciolto. 

Se ne riparlerà il 24 maggio, quando verrà ascoltato il pm Paolo Storari (dapprima archiviato anche lui, ma la procura si è appellata) e poi il 28 giugno quando invece la parola passerà al vicepresidente del Csm David Ermini più alcuni consiglieri come Ilaria Pepe, Giuseppe Marra e Giuseppe Cascini.

Tra i testimoni teoricamente ammessi - in realtà verranno vagliati di volta in volta - ci potrebbero essere il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, e poi Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, oltre al presidente della commissione antimafia Nicola Morra e all'ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto. Perché diventi interessante, al processo servirà un po' di tempo.

A favore delle telecamere. Processo a Davigo, a Brescia inizia lo scontro finale tra toghe. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Voleva il processo pubblico e le telecamere fin dal primo interrogatorio, e finalmente ha avuto l’uno e le altre, Piercamillo Davigo, imputato a Brescia per rivelazione di atti d’ufficio per aver diffuso gli atti giudiziari sulla Loggia Ungheria, coperti dal segreto. Così ieri mattina l’ex procuratore milanese è comparso davanti ai suoi giudici e ha cercato subito quella visibilità che non gli è mai mancata, fin dai tempi di “Mani Pulite”, quando lui e gli altri capitani coraggiosi incedevano nel corridoio del quarto piano della procura di Milano, attorniati da cronisti adoranti e telecamere sempre sull’attenti per loro.

Ma qui siamo a Brescia nel 2022, davanti alla prima sezione del tribunale presieduta da Roberto Spanò, e Piercamillo Davigo siede dall’altra parte della barricata. Da quella “giusta” c’è una toga che è solo “ex” collega, che gli dà del lei e che, pur avendo concesso l’ingresso in aula delle agognate telecamere, annusa l’aria e mette le mani avanti: “Raccomando alle parti di non avere animosità”. Poi stoppa l’ex pm, già pronto a un’esibizione-fiume per guadagnarsi la centralità della scena, oppure a vestire il ruolo della vittima qualora non gli fosse stata concessa la parola. Il giudice Spanò sceglie la via di mezzo, e gli consente solo le dichiarazioni spontanee, purché brevi. Davigo è costretto ad abbozzare e Spanò lo consola: “E’ difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato”. Bonario, ma intransigente, il presidente della prima sezione del tribunale di Brescia. Così accetta, o finge di accettare i trenta testimoni chiamati a deporre dal pm, dallo stesso Davigo, ma anche da Sebastiano Ardita, il consigliere del Csm che si è sentito danneggiato dall’ex collega e che nel processo si è costituito parte civile contro di lui. Si vedrà in corso d’opera se saranno tutti indispensabili.

Ma sarà tutta una battaglia tra toghe, quella che si svilupperà in quest’aula. A partire, più che dalla prossima udienza del 24 maggio, quando sarà sentito Paolo Storari, dalla successiva del 28 giugno quando arriverà a giurare di dire tutta la verità il vicepresidente del Csm David Ermini. Sarà quello il primo momento delle scintille, delle versioni contrapposte. Le certezze storiche di Davigo, da una parte. Più o meno tutti gli altri, dall’altra, con l’eccezione del pm milanese Storari, suo complice nell’illegalità secondo la procura di Brescia, ma già prosciolto dal gup, con un provvedimento contro cui ovviamente pende già un ricorso. Proprio nei giorni in cui la magistratura militante minaccia un’incomprensibile astensione dall’attività giurisdizionale per protestare in particolare contro una pagella ritenuta una schedatura, un’ ex toga che ha fatto la storia della Repubblica Giudiziaria è a giudizio in sede penale proprio per quel tipo di comportamenti che nel fascicolo del magistrato sarebbero sottolineati con la matita blu. Non era più pubblico ministero, Piercamillo Davigo, ma componente del Csm, in quei giorni tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, in cui accoglieva a casa propria a Milano il sostituto procuratore Paolo Storari che lamentava il disinteresse del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio nei confronti della deposizione dell’avvocato esterno di Eni Piero Amara e della presunta Loggia Ungheria.

Aveva ritenuto normale, l’ex pm di Mani Pulite, ricevere dalle mani del giovane ex collega quelle carte, in realtà una chiavetta, con la trascrizione di quegli interrogatori coperti da segreto. E poi andava a Roma e, sempre ritenendosi nel giusto, iniziava a diffonderli in modo “informale e senza alcuna ragione ufficiale”, violando i suoi doveri e abusando del suo ruolo. Così dicono i pm di Brescia. Perché quei verbali sono finiti nelle mani un po’ di tutti, o quasi, i membri del Csm, oltre che al vicepresidente Ermini, e poi al primo presidente della corte d’appello Pietro Canzio e al procuratore generale Giovanni Salvi. Ne è stato informato anche lo stesso presidente Mattarella. Ci sarà una bella sfilata di toghe qui a Brescia, nelle prossime sedute. E anche di ex amici di Davigo che ora vogliono solo vederlo finire allo spiedo. Francesco Greco prima di tutto, che da questa inchiesta è già uscito nella veste di indagato, ma che ha il dente avvelenato perché è stato costretto ad andare in pensione con l’immagine appannata dopo che la procura di Milano, anche a causa della vicenda Davigo-Storari (il vero vincitore, salvato dal Csm e prosciolto a Brescia), gli è esplosa tra le mani e lui se ne va con la reputazione dell’insabbiatore.

E oltre a tutto lo attende al varco anche un sospetto di abuso d’ufficio nell’inchiesta sul Monte Paschi di Siena. E poi David Ermini, la cui versione dei fatti è effettivamente un po’ barcollante, ma in netto contrasto con quella di Davigo. Dice infatti il vice presidente del Csm di aver ricevuto dalle mani del consigliere una cartellina arancione contenente la famosa deposizione di Amara, ma di averla buttata nel cestino. Giustamente l’ altro gli contesta il fatto che, se quelle carte fossero state così scottanti, non in pattumiera ma nel trita-documenti avrebbero dovuto essere collocate. Allora sei mio complice, gli rinfaccia Davigo. Scintille, scintille. Ma l’incendio si svilupperà all’arrivo dell’unica vera vittima di tutta quanta la faccenda, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, l’ex amicone e collega di corrente di Davigo.

Perché tutti parevano tramare alle sulle spalle, nei giorni in cui il famoso fascicolo passava di mano in mano, dopo aver letto nella deposizione di Amara il suo nome come uno dei componenti della Loggia Ungheria, che sarebbe, se esistesse, una sorta di nuova P2. Oltre a tutto scoperta negli stessi corridoi in cui qualche decennio prima Gherardo Colombo e Giuliano Turone avevano disvelato l’attività del Gran Maestro Licio Gelli. Ne sentiremo delle belle, in quell’aula. Anche da questo processo, dall’immagine che se ne proietterà all’esterno, passa la reputazione della magistratura e la tenuta o meno della Repubblica Giudiziaria.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il Sistema sì è guardato nello specchio del diritto e si è assolto. Luca Palamara è di certo colpevole ma almeno ha pagato con la radiazione. I suoi tanti correi invece hanno evitato qualunque sanzione. Rosario Russo, già Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, su Il Dubbio l'11 aprile 2022.

La forza di legge è impressa dal Parlamento, i cui membri sono eletti democraticamente dal Popolo sovrano, con l’intermediazione dei partiti. I parlamentari non sono mandatari degli elettori, ai quali rispondono soltanto al momento dell’elezioni (c.d. responsabilità politica). L’applicazione della legge spetta all’ordine giudiziario, governato dal C.S.M. per assicurare l’indipendenza dei magistrati ordinari da ogni altro potere. Essi sono servi soltanto della legge, (per dirla con Cordero) sono ‘condannanti’ ad interpretare la legge, quale dettata dal Parlamento, per applicarla al caso concreto.

Il principio della separazione dei poteri fa sì che nell’esercizio della giurisdizione non possano – e non debbano influire altre istituzioni, corpo elettorale, governo e partiti compresi. Pertanto l’amministrazione della carriera e la funzione disciplinare sui magistrati sono riservati al C.S.M., i cui membri sono nominati infatti dai magistrati stessi (per due terzi), in modo da rispecchiare le loro specifiche funzioni (giudici di merito, requirenti e giudici di legittimità), ma anche dal Parlamento (per un terzo). Ne fanno parte di diritto il Primo presidente e il Procuratore generale della Suprema Corte, a tali incarichi nominati dallo stesso C.S.M., che è presieduto dal Capo dello Stato.

Dovendo assicurare l’indipendenza dei magistrati ordinari, il C.S.M. non può che essere altrettanto indipendente da ogni altra istituzione, istanza o pressione. La sua funzione è istituzionalmente difensiva e protettiva: non ha altro scopo se non quello di assicurare che i magistrati siano servi soltanto della legge e rispettino – facendo rispettare perciò esclusivamente la volontà del Popolo sovrano, inverata e oggettivata nella Legge. La magistratura, in conclusione, non può essere indipendente e autonoma se non lo sia in primo luogo – e soprattutto – il C.S.M. La dialettica partitica-politica – dopo avere partorito la legge – resta ugualmente estranea tanto all’attività decisoria dei giudici quanto alle funzioni svolte dal Consiglio Superiore della Magistratura.

La politica ha ragioni e metodi, compreso il «sistema spartitorio» studiato da G. Amato, che la giurisdizione non può. e non deve – condividere. Soltanto a queste condizioni «la magistratura può costituire un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art, 104 Cost.).

L’ANTI «SISTEMA PALAMARA»

Parodiando Pasolini, tutti …sappiamo e …abbiamo perfino le prove inconfutabili dell’anti «Sistema Palamara»! Colto in flagranza di reati (art. 323) e di violazioni disciplinari (gravissimi, reiterati, sistematici e continuati) il dott. Luca Palamara, anziché contestare gli addebiti, ha osato esaltare e magnificare la propria funzione di pontiere e mediatore, in quanto membro togato del C.S.M., tra le correnti dell’A.N.M., i membri laici del Consiglio stesso e gli apparati politici, in spregio alla legge ed in danno dei tanti magistrati privi di appoggi correntizi.

Davvero difficile immaginare in astratto una condotta così patentemente eversiva della Costituzione, un esercizio di tracotanza così devastante! L’interprete deve prendere atto del suo enorme successo editoriale, mediatico e popolare, nonostante la sua radiazione dall’Ordine e dall’A.N.M., ma non può fare a meno di studiarne le cause. Per comprenderle è essenziale fare il punto sulla situazione scaturita dall’anti «Sistema Palamara». Dopo tre anni risultano sanzionati soltanto i magistrati in servizio che parteciparono alla cospirazione svoltasi nella «notte della Magistratura» e tra di essi soltanto Palamara è stato radiato dall’ordine. Invece né Palamara né taluno dei tanti magistrati protagonisti delle ‘raccomandazioni’ immortalate dalle famose chat sequestrate è stato mai punito.

Ben vero, dopo il loro sequestro la Procura perugina le ha trasmesse al P.G. presso la Suprema Corte, al C.S.M. e perfino all’A.N.M., senza indagare se esse costituissero prova del delitto (tentato o consumato) di abuso d’ufficio (artt. 110 e 323 c.p. nell’interpretazione datane da Cass. Pen. sent. n. 442 del 2021, pag. 5.). E così, mentre con analoga imputazione al Tribunale di Catania sono in fase dibattimentale due processi penali per le ‘raccomandazioni’ con cui i docenti universitari si scambiavano favori per le nomine accademiche, il documentatissimo e omologo sistema spartitorio all’interno del C.S.M., cioè per l’appunto l’anti «Sistema Palamara», è rimasto impunito, sebbene aborrito dalla Costituzione. Non basta: radiato solo Palamara (a diverso titolo), niente è rimasto intentato per impedire che gli altri magistrati implicati fossero a qualunque titolo puniti.

Ricevute le chat, il P.G. presso la Suprema Corte emana un editto con cui assume che le autopromozioni, cioè le raccomandazioni dirette dal magistrato a Palamara, non costituiscono violazione dell’obbligo disciplinare di correttezza. Non può farlo perché chi per legge è tenuto, come il P.G., ad esperire l’azione disciplinare, non è legittimato a perimetrare autonomamente il proprio obbligo. Non solo, ma perfino il C.S.M. e le Sezioni Unite hanno (ovviamente) respinto la tesi del P.G. Il quale, intanto con un altro editto, decide di avere anche il potere di segretare l’archiviazione perfino rispetto al C.S.M.

Il risultato: nessuno può sapere quante e quali autopromozioni ed etero promozioni (raccomandato raccomandante raccomandatario siano state archiviate: top secret. Anche il Consiglio Superiore della Magistratura si attiva), ma in modo decisamente improprio. Niente è più doloso di una raccomandazione. Tuttavia le famose chat vengono esaminate dal C.S.M. nell’ambito vistosamente improprio del procedimento amministrativo per incompatibilità ambientale e funzionale; e siccome esso presuppone una condotta incolpevole, è inevitabile l’archiviazione.

Infine i Probiviri dell’A.N.M., faticosamente ottenute le chat, cominciano a vagliarle. Ma l’associazione consente agli indagati di dimettersi per eludere la sanzione endoassociativa, in palese contrasto con le clausole dello statuto. Per gli indagati che non si dimettono, archiviazioni dei Probiviri e condanne del C.D.C. sono dichiarate inaccessibili perfino ai soci. Infine, nonostante le autorevoli raccomandazioni del Presidente della Repubblica, il Legislatore ha abbozzato riforme inidonee a neutralizzare l’anti «Sistema Palamara».

Esploso il caso Palamara, la stessa magistratura associata aveva doverosamente riconosciuto che il sistema spartitorio attuato da Palamara è causato dalla «cinghia di trasmissione» che unisce i vertici dell’A.N.M. ai membri togati del C.S.M., sicché è necessario tagliare alla radice tale cordone ombelicale. Ebbene, i conditores hanno deciso d’ignorare, in sede di riforma, che precise disposizioni del codice etico (art. 7 bis) e dello statuto (art. 25 bis) dell’A.N.M sono ora finalizzate ad interrompere il perverso predominio delle correnti associative sul C.S.M., che alimenta il sistema spartitorio-correntizio. La tanto attesa riforma legislativa non ha inteso assecondare neppure la tardiva – ma benefica ‘riconversione’ all’indipendenza dei magistrati associati.

L’INCONFESSABILE SUCCESSO DI PALAMARA

Tutti coloro che ne avevano il dovere hanno esaminato e vagliato; nessuno risulta avere sanzionato o apprestato rimedi. Il magistrato illegittimamente raccomandato o raccomandante (in pregiudizio dell’ignaro dott. Nessuno) non è il «soldato Ryan» ma è salvo. Non lo è l’Ordine giudiziario. E l’Utente finale della Giustizia lo sa a tal punto che, costretto a scegliere, opta (con malcelata sofferenza) per Palamara. Si, certamente egli è colpevole per avere introdotto nella Giurisdizione il metodo spartitorio-correntizio, ma … ‘almeno’ – così commenta il cittadino – ha ‘pagato’ in prima persona con la radiazione dall’ordine. I suoi tanti correi invece hanno evitato qualunque sanzione e sono rimasti nei loro ambiti uffici.

Soprattutto l’ordinamento – in tutte le proprie sfaccettature (repressive e riformatrici) – si è guardato nello specchio del diritto e – con compiacimento – si è assolto (o graziato), dimostrando così per tabulas che quello intestato a Palamara non è l’anti «Sistema Palamara», ma il vero, unico, incontrastato e vittorioso «Sistema». Palamara non viene acclamato per le sue gesta, ma soltanto perché – a suo confronto – ben peggiori si sono rivelati il sistema giuridico e i tanti suoi correi. E così che paradossalmente l’artefice del sistema spartitorio prevale (non solo mediaticamente) non per virtù propria, ma per i più gravi demeriti dei suoi correi e dell’intero sistema che ha denunciati. Nessuno sembra accorgersi che i suoi successi editoriali testimoniano il «grido di dolore» dell’Utente finale della Giustizia, quale soltanto Much ha saputo riprodurre sulla tela.

Palamara: «In Italia la legge non è uguale per tutti». L'ex pm di Roma: «È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po' la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia». Il Dubbio il 5 aprile 2022.

«In magistratura il manuale Cencelli, in Italia la legge non è uguale per tutti». Lo ha detto Luca Palamara al Congresso di Grande Nord a Milano. «Un auspicio di cambiamento è quello che mi ha caratterizzato nella mia esperienza professionale. Come tutte le vicende umane e che hanno a che fare con la politica, riproducono su se stesse le vicende della politica. È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po’ la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia», sottolinea.

«In magistratura – continua Palamara – c’è una parte più ideologizzata, quella che noi chiamiamo della sinistra giudiziaria, c’è poi una parte più attenta ai problemi del sindacato, e una parte che è moderata dall’interno» e «a torto o a ragione l’orientamento culturale della magistratura parte dalla sinistra giudiziaria, che crea un cortocircuito anche nel rapporto tra magistratura e politica».

«Qualcosa bisogna fare: ad esempio – spiega – stabilendo come si vuole organizzare internamente la magistratura. L’autonomia e l’indipendenza viene organizzata oggi attraverso questi gruppi associativi, queste correnti, e le correnti determinano la vita della magistratura. Stabiliscono chi diventa procuratore della Repubblica, chi diventa Presidente del Tribunale e chi diventa consigliere superiore della magistratura».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 7 aprile 2022.

I fatti raccontati nel libro «Il Sistema» scritto dal direttore di Libero Alessandro Sallusti e dall'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara non sono diffamatori. 

Lo afferma il giudice del tribunale di Padova archiviando la querela presentata dal magistrato Piergiorgio Morosini. 

Il «contesto narrativo», incentrato sulla «polemica e denuncia del malcostume giudiziario», non consente di rappresentare «il grado minimo di offensività» previsto dal reato di diffamazione, puntualizza il giudice padovano nel suo provvedimento di archiviazione della scorsa settimana. 

Le frasi utilizzate nel libro, poi, non contengono alcuna «espressione gratuitamente lesiva» della reputazione dei personaggi citati. Soddisfatto Palamara: «La sentenza dimostra la correttezza del mio racconto». 

Una assoluzione piena, a cui Morosini si era opposto, e che mette la parola fine alle critiche rivolte in questi mesi agli autori, accusati di aver lavorato di fantasia e di aver travisato i fatti. 

Il capitolo finito nel mirino di Morosini era quello relativo ai rapporti fra politica e giustizia, il più scottante. In particolare fra il Pd e le toghe di sinistra di Magistratura democratica. 

Un binomio che parte da lontano, da prima della caduta del Muro di Berlino, e che ha condizionato la vita politica degli ultimi 30 anni.

«La stagione della contrapposizione fra toghe e Silvio Berlusconi avrebbe dovuto insegnare qualcosa a Renzi», ricorda Palamara. «Mi sta dicendo che l'azione penale contro un presidente del Consiglio dipende dalla sua politica sui temi della giustizia?», domanda Sallusti. 

Palamara cita i casi degli ex premier piddini Enrico Letta e Paolo Gentiloni, mai sfiorati da alcuna indagine. 

«Perché erano immacolati? Può essere, ma è una risposta semplicistica», si interroga l'ex pm romano secondo cui il motivo principale è che «non hanno sfidato i magistrati». 

«Renzi invece commette l'errore - prosegue di pensare che, essendo il segretario del Pd, la magistratura, a maggioranza di sinistra, sarebbe stata al suo fianco a prescindere, non capendo che i suoi riferimenti non erano il Giglio magico di Luca Lotti e Maria Elena Boschi ma il vecchio apparato comunista e postcomunista che stava rottamando». 

«Parliamo di gente che al Partito comunista prima e al Pd poi la linea la dettava, non la subiva», puntualizza Palamara, evidenziando come molti colleghi erano rimasti «inorriditi di fronte al patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi». 

«La sinistra giudiziaria, o più correttamente il massimalismo giustizialista, stava perdendo i suoi riferimenti politici e reagì in soccorso di quel mondo politico e culturale che li aveva generati», aggiunge Palamara, avvalorando così la vulgata secondo cui il Pd, attraverso le "toghe rosse" di Magistratura democratica, "controllerebbe" almeno due terzi delle Procure italiane, mettendo al riparto da eventuali procedimenti penali i propri amministratori.

Per avvalorare la tesi del rapporto organico Md-Pd, Palamara cita una intervista al Foglio di Piergiorgio Morosini, «autorevole magistrato di sinistra, membro del Csm, già segretario di Magistratura democratica, nonché gip nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia». 

L'intervista si svolge alla vigilia del referendum del 2016, che per volontà di Renzi è anche un referendum sulla sua persona. Morosini usa parole durissime: «Bisogna guardarsi bene da una deriva autoritaria di mestieranti assetati di potere e per questo bisogna votare no». Una dichiarazione di guerra contro il premier.

Le frasi di Morosini fanno scattare l'intervento dell'allora ministro della Giustizia Andrea Orlando che chiede spiegazioni al vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, all'epoca vicino a Renzi, il quale convoca il plenum per «processare» Morosini e chiedergli di fare un passo indietro. 

La sera prima del plenum che dovrebbe sancire la cacciata di Morosini, Palamara lo incontra in un bar nel centro di Roma «Lo vedo provato, si aspetta di essere buttato fuori. Io e Morosini ci conosciamo dai tempi del mio ingresso in magistratura. Parlammo molto delle inchieste sulla mafia, dei processi politici e di tanto altro. E il giorno dopo decisi che non dovevamo forzare la mano su di lui. 

Anche gli altri miei colleghi furono d'accordo e Morosini si salvò», racconta Palamara.

Renzi, invece, dopo aver perso il referendum sarà costretto alle dimissioni per finire poi alla sbarra a Firenze insieme ad esponenti del Giglio magico, accusati di aver commesso gravi reati, fra cui il finanziamento illecito e la corruzione. 

Il fatto che a condurre l'inchiesta sia una magistrato di Magistratura democratica è sicuramente una coincidenza.

(AGI il 31 marzo 2022) - "Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31/03/2021 a questo ufficio pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale. Siccome non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si e' ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l'atto sia giunto legittimente alla stampa".

Lo rende noto la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone. Il verbale di dichiarazioni riguarda l'inchiesta sull'Acqua Marcia, di cui Fabrizio Centofanti era all'epoca responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 31 marzo 2022.  

Invece che chiedere a Mario Draghi di rinnegare gli impegni con la Nato, Giuseppe Conte potrebbe chiedere ai magistrati di negare gli impegni (suoi) con la Loggia Ungheria, visto che nessun altro si decide a farlo al posto suo: tantomeno l’imprenditore Fabrizio Centofanti, di cui sono spuntati i verbali dell’interrogatorio del 30 marzo 2021 a Perugia nei quali ha confermato di aver dato un incarico da 400mila euro proprio a lui, Giuseppe Conte, per garantire alla società Acqua Marcia l’omologa del concordato da parte del Tribunale fallimentare di Roma.

Centofanti all’epoca era responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali di Acqua Marcia, e l’incarico, secondo il faccendiere Piero Amara - che per primo rivelò l’esistenza della presunta Loggia Ungheria - doveva assicurare il buon esito della pratica: ma questo rimane da dimostrare.

Nell’attesa, Centofanti ha dato le sue conferme: «Al professor Conte dovevo dare un incarico per la valutazione del rischio del contenzioso, non ricordo esattamente quali incarichi fui io a firmare, in quanto, dopo poco tempo, lasciai il gruppo. Certamente, ho dato al professore un primo incarico per la controllata Acquamare. Ricordo che il piano complessivo era dare a Conte l’incarico di valutare tutto il rischio del contenzioso del gruppo». Ma perché fece questo?

«Piero Amara mi chiese di dare un incarico al professor Conte», ha aggiunto Centofanti, «perché amico non ricordo esattamente di chi. In realtà, già in precedenza rispetto al colloquio con Piero Amara, il professore Guido Alpa mi aveva proposto il nome del professore Conte».

Guido Alpa che a sua volta ricevette altri incarichi da Centofanti. «Effettivamente, l'avvocato Piero Amara venne a parlarmi della nomina di Giuseppe Conte che io avevo già individuato in via autonoma». 

Tutte le strade, insomma, portavano a Conte, con il quale «nacque un rapporto di stima e cordialità, tanto che ci affidò l'organizzazione di alcuni convegni». Tutti contenti.

Acqua Marcia era controllata da Francesco Bellavista Caltagirone, e le dichiarazioni di Centofanti coincidono con quelle di Piero Amara, secondo il quale «l'importo che fu corrisposto da Acqua Marcia a Conte era di 400mila euro… l'ho saputo da Centofanti che si arrabbiò molto perché il lavoro era sostanzialmente inutile trattandosi della rivisitazione del contenzioso della società, attività che fu svolta da due ragazze in poche ore, e l'importo corrisposto fu particolarmente elevato», aveva aggiunto. 

La parte dell’arrabbiatura Centofanti non l’ha confermata, l’incarico sì. «Quel compenso era il minimo», si è difeso Conte, e «tutte quelle parcelle hanno passato il vaglio del tribunale e dei commissari giudiziali nominati dai giudici fallimentari».

Resta che la Guardia di Finanza, i primi dell’anno, è andata a casa di Conte per dare un’occhiata a fatture e documenti delle consulenze: non è nota la data precisa (il quotidiano Domani ne diede notizia il 2 febbraio scorso) ma il mandato è stato della Procura di Roma appunto per «circa 3-400mila euro» di consulenze svolte per società di Francesco.

Bellavista Caltagirone. Eguali perquisizioni avrebbero riguardato gli avvocati Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, che lavorarono con Alpa e Conte al concordato di Acqua Marcia: e anche questo conferma il verbale di Centofanti pubblicato da Libero: «Ho dato gli incarichi per la predisposizione del concordato», ha detto l’imprenditore ai magistrati, «all’avvocato Guido Alpa, all’avvocato Giuseppina Ivone e all’avvocato Enrico Caratozzolo; mentre per il professor Conte dovevo dargli un incarico per la valutazione del rischio del contenzioso».

Conte aveva poi fatto sapere che comunque i suoi guadagni «erano stati incassati solo in parte». Il fascicolo in ogni caso sarebbe a modello 44, cioè senza indagati, come hanno confermato alcune fonti vicine ai Cinque Stelle. 

Va ricordato, in ultimo, che ai ritardi con cui giungono o giungeranno tutti i chiarimenti del caso – da parte di Giuseppe Conte e della magistratura – forse non è estranea la gestione dei verbali di Piero Amara fatta a suo tempo dal quotidiano diretto da Marco Travaglio. 

Per oltre un anno, per «non compromettere le indagini» (novità assoluta, da quelle parti) il Fatto ha imboscato le dichiarazioni dell’avvocato Amara sulla loggia Ungheria: una scelta che ha soltanto tutelato Giuseppe Conte all’epoca in cui era presidente del Consiglio. Il magistrato Michele Vietti «mi chiese di far guadagnare denaro ad avvocati e professionisti a lui vicini», ha detto Amara, «e avvenne in quel periodo con l’avvocato Conte, oggi premier, a cui facemmo conferire un incarico dalla società Acqua Marcia spa di Roma, incarico che fu conferito a lui e al professor Alpa grazie al mio intervento su Fabrizio Centofanti».

Ma questo il Fatto lo pubblicò soltanto il 17 settembre 2021. Inoltre, sulle pagine del quotidiano, i vari nomi citati nei verbali erano evidenziati in grassetto tranne che nel caso dell’allora presidente del Consiglio. C’erano tutti i nomi dei presunti aderenti alla Loggia Ungheria: magistrati, avvocati, politici e militari. Tutti in grassetto. Conte no. Che fosse personaggio di poco peso era già opinione diffusa.

 Filippo Facci per “Libero quotidiano”  l'1 aprile 2022.

La notizia è notevole e inaspettata - non per voi lettori, a cui non importa giustamente nulla, ma per noi addetti ai lavori - ed è tutta nelle parole di Raffaele Cantone, il capo della Procura di Perugia: «Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31 marzo 2021 a questo ufficio, pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale.

Siccome non risulta», ha aggiunto Cantone, «che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si è ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l'atto sia giunto legittimamente alla stampa». Lo rende noto la Procura di Perugia, come detto. Le notizie notevoli, a pensarci bene, sono più d'una.

La prima è che una procura italiana abbia aperto un fascicolo per violazione del segreto istruttorio, inosservanza sulla quale, paradossalmente, Libero potrebbe anche essere d'accordo: la pubblicazione di verbali d'indagine è un reato che viene compiuto continuamente a partire più o meno dalla primavera del 1992, e che ha avuto luogo talvolta quando l'atto non era a conoscenza delle parti, per dirla in gergo: è stato depositato direttamente in edicola. 

Meglio tardi che mai, e pazienza se è accaduto a margine di una pubblicazione da parte di un quotidiano che al tempo, quando nacque la prassi, non era ancora stato fondato.

La seconda notizia è nelle apparenti contraddizioni del comunicato di Raffaele Cantone, capo della procura di Perugia e già presidente dell'autorità nazionale anticorruzione: scrivere infatti che «non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno» e di seguito che «si è ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti» significherebbe ammettere che la Procura di Perugia abbia dei ladri in casa.

È come dire: non ho mai dato a nessuno la focaccia che ho nella credenza, ma poi ho visto che della gente la mangiava in strada: significa che qualcuno ha accesso alla mia credenza senza che io lo sappia, ergo ci sarebbe da indagare sul personale giudiziario che possa aver avuto accesso all'ufficio laddove le focacce, pardon i verbali, erano custoditi. 

La terza contraddizione è nell'aver scritto, Cantone o chi per lui, che si è voluto «iscrivere un fascicolo contro ignoti per accertare se l'atto sia giunto legittimamente alla stampa»; dicasi, sempre in gergo, inversione dell'onore della prova: in genere si ipotizzano gli estremi di un reato e poi, nel caso, si apre un fascicolo e lo si iscrive nel registro vero, non si finge di averlo fatto iscrivendo un finto fascicolo a modello 44 o 45 e poi esaurendo in un comunicato tutta l'azione penale che si ha intenzione di svolgere, tanto per far vedere di aver reagito in qualche modo. Sia detto simpaticamente.

Ciò detto, più che ignoti, resteranno ignari (del verbale) tutti i lettori dei giornali che hanno ritenuto di non farne alcuna menzione: evidentemente non conteneva grandi notizie, tanto che, per auto-consolazione, ne riproponiamo il contenuto con la scusa di riportare il comunicato della Procura di Perugia. 

Il verbale risale al 30 marzo 2021 e riguarda l'interrogatorio di Fabrizio Centofanti. La questione fa riferimento a quando l'imprenditore era responsabile delle relazioni della spa Acqua Marcia, ex storica impresa che nel 2013 fu ammessa alle cosiddette procedure concordatarie che dovevano servire a evitarne il fallimento.

L'interrogatorio fu una conseguenza di quello dell'avvocato Piero Amara, che per primo parlò della «Loggia Ungheria» e che pure, per primo, in alcuni verbali serbati nel segreto istruttorio dal Fatto Quotidiano, aveva detto che Centofanti aveva dato un incarico da 400mila euro a Giuseppe Conte, ai tempi presidente del Consiglio: a suo dire doveva garantire alla società l'omologazione del concordato da parte del Tribunale fallimentare di Roma. 

Quest' ultima «garanzia» non è stata dimostrata, l'incarico sì, per esempio nel verbale pubblicato ieri da Libero. Centofanti, da responsabile delle relazioni di Acquamarcia, ha confermato che «al professor Conte dovevo dare un incarico per la valutazione del rischio del contenzioso... Certamente gli ho dato un primo incarico per la controllata Acquamare. Ricordo che il piano complessivo era dare a Conte l'incarico di valutare tutto il rischio del contenzioso del gruppo».

 Questo perché «Piero Amara me lo chiese», ha aggiunto Centofanti, «perché Conte era amico non ricordo esattamente di chi... Effettivamente, l'avvocato Piero Amara venne a parlarmi della nomina di Giuseppe Conte che io avevo già individuato in via autonoma». Insomma, Giuseppe Conte sembrava proprio predestinato a quell'incarico da 400mila euro, al quale non potè sottrarsi: «Nacque un rapporto di stima e cordialità, tanto che ci affidò l'organizzazione di alcuni convegni». Dare per avere. Giusto. Intanto a Perugia indagano.

A Bari hanno lo stesso Codice Penale di Perugia?. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Aprile 2022. 

Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi ?

Ieri pomeriggio alle 16:33:32 l’ AGI, Agenzia Italia ha diffuso una notizia dal titolo: “Pubblicazione verbale, procura Perugia apre fascicolo” , scrivendo” “Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31/03/2021 a questo ufficio pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale. Siccome non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si e’ ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l’atto sia giunto legittimamente alla stampa“. L’articolo in questione riportava la firma di Filippo Facci.

Lo ha reso noto la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone. Il verbale di dichiarazioni riguarda l’inchiesta sull’Acqua Marcia, di cui Fabrizio Centofanti era all’epoca responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali. 

Resta da chiedersi come mai in altre procure, fra cui il primato quella di Bari, città in cui negli ultimi tempi esce di tutto e di più… dagli uffici giudiziari per la gioia dei cronisti giudiziari locali diventati ormai portavoce-ventriloqui dei magistrati “amici” titolari dei vari fascicoli d’indagine, non si proceda come a Perugia . Sarà forse perchè il procuratore Roberto Rossi è troppo occupato ad intervenire in qualche forum giornalistico “amico” o ad apparire in interviste video, rifiutandosi di parlare con il nostro giornale “reo” di aver rivelato un suo vecchio procedimento dinnanzi alla sezione disciplinare del Csm ?

Basti pensare che in una vicenda processuale dinnanzi al Tribunale Penale di Bari, ancor prima che Rossi diventasse procuratore capo, nella quale era coinvolto il quotidiano La Repubblica, proprio per violazione del segreto istruttorio, un giudice barese si appropriò della competenza territoriale sostenendo che a suo dire l’edizione pugliese era stampata a Bari si appropriò di una competenza che era del foro di Bari. Infatti, piccolo particolare, il quotidiano romano è registrato a Roma e viene stampato a Roma. E non a Bari! 

Per non parlare poi delle fughe di notizie avvenute durante l’asta giudiziaria per La Gazzetta del Mezzogiorno, in cui i curatori della società editrice Edisud fallita con una massa di oltre 40milioni di euro di debiti, l’ avvocato Castellano ed il commercialista Zito erano (persino dichiarandolo al Tribunale ) sul libro paga del gruppo CISA spa di Massafra, attuale socio-co-editore al 50% del quotidiano barese, senza che questa società abbia mai partecipato all’ asta pur versando oltre un milione di euro dal proprio conto corrente societario, e quindi illegalmente. Inquietante fu la presenza del procuratore Rossi all’udienza di convalida dell’assegnazione dinnanzi al Tribunale Fallimentare di Bari in cui depositò una relazione preliminare delle Fiamme Gialle che documentava la provenienza dei 4 assegni circolari per un milione di euro totale dal conto bancario della società massafrese. Dopodichè il silenzio più assoluto. Ed ancora più imbarazzante l’operato in aula del giudice che convalidò l’asta, il quale è l’ ex-marito della cognata dell’attuale amministratore delegato (socio al 50%) della Gazzetta. Conflitti d’interesse ? Coincidenze ? Vallo a capire!

Che fine hanno fatto le inchieste sulle fughe di notizie pubblicate sulla Gazzetta del Mezzogiorno dai cronisti Massimo Scagliarini e Nicola Pepe indagati e perquisiti nel 2019 ( cioè tre anni fa !) per la fuga di notizie che permise al governatore della Regione Puglia Michele Emiliano di sapere in anticipo di una indagine a suo carico

Tutto regolare ? Chissà… ! Nel frattempo la Procura Generale di Bari dorme sonni indifferenti…Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi?

Redazione CdG 1947

Le rivelazioni nel nuovo libro di Palamara e Sallusti. Omicidio di Paolo Borsellino, un complotto lungo trenta anni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

Il più grande complotto di Stato mai avvenuto nella storia d’Italia e che si è svolto nell’arco di trent’anni porta il nome glorioso di Paolo Borsellino, e insieme quello del “pentito” costruito in vitro di Enzo Scarantino. Quanti magistrati, pubblici ministeri, giudici togati e popolari, membri del Csm e procuratori generali, e poi questori, prefetti e poliziotti sono i colpevoli per aver preso parte al complotto? E quanti di loro –a parte tre agenti che rischiano di finire allo spiedo come unici capri espiatori- risponderanno, oltre che per la violazione della memoria di un grande magistrato, per aver truccato le carte, nascosto carte, nastri registrati e testimonianze, mandato in galera gli innocenti?

Dobbiamo ancora una volta dire grazie a Luca Palamara, ben sollecitato da Sandro Sallusti nella seconda puntata sulla vera e unica Casta, quella delle toghe, per averci dato sul fattaccio qualche illuminazione in più, pure a noi che su questo scandalo di Stato credevamo di sapere tutto. Ci fa anche sentire un po’ come quelli che hanno continuato a guardare il dito senza vedere la luna, questa parte del libro, diciamo la verità. Perché, partendo dai primi passi con cui il picciotto Enzino fu preso per mano e accompagnato a suon di botte, sputi, vermi e vetro nella minestra, ricatti, suggerimenti e promesse a dire il falso per depistare dalle ragioni vere per cui Borsellino fu assassinato, si arriva fino al coinvolgimento del Csm e del procuratore generale Fuzio, invano coinvolto dalle figlie del magistrato ucciso. Dal 1994 al 2018, e poi 2019, l’anno del pensionamento del vertice della magistratura. Ecco il trentennio del complotto, se prendiamo come punto di riferimento il 1992 come anno della strage di via D’Amelio e il 2022 con le ultime rivelazioni del magistrato Luca Palamara, che non è innocente in questa storia, come lui stesso racconta.

Sono numerosi i passaggi attraverso i quali il bluff Scarantino avrebbe potuto essere disvelato. Si sarebbe potuto fare giustizia. Non solo individuando gli autori del delitto, ma anche il movente. Si è voluto perdere tempo e sviare l’attenzione. Il che significa depistare. Facciamo finta per un attimo di essere noi i pubblici ministeri e mettiamo insieme i capi d’accusa. Primo: le torture nel carcere di Pianosa (e Asinara), che non hanno riguardato solo Scarantino, ma una serie di detenuti trasferiti d’improvviso di notte da tutte le prigioni del sud. Segnale forte di governi deboli nella lotta alla mafia, con i boss che ordinavano le stragi dalla latitanza. Le denunce di quel che avveniva in quelle prigioni speciali riaperte per l’occasione erano state oggetto di interrogazioni parlamentari, di proteste degli avvocati e dei parenti dei detenuti, diventati il bersaglio di una vendetta dello Stato che non riusciva a trovare e punire i colpevoli. La moglie di Scarantino aveva reso pubblica una lettera con accuse precise nei confronti del questore di Palermo Arnaldo La Barbera, denunciando la costruzione del “pentitificio” attraverso le torture. E il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli si era presentato in conferenza stampa, con al fianco il procuratore generale e il questore, per scagionare La Barbera e confermare l’attendibilità di Scarantino.

Punto secondo: fin dal 1994 era agli atti una relazione dei pubblici ministeri Ilda Boccassini e Roberto Saieva al procuratore capo di Caltanissetta Tinebra in cui documentavano l’inattendibilità del collaboratore di giustizia. Lo avevano messo alle strette sulle sue deposizioni e avevano capito che, nel riferire di fatti e persone, straparlava di soggetti che neanche conosceva. Boccassini, che era stata applicata da Milano nella città nissena nel 1992 in seguito all’uccisione di Giovanni Falcone e nel 1994 era in partenza per tornare nella sua città, ma si era detta disponibile a rinunciare alle ferie per poter continuare a interrogare Scarantino. Niente da fare. Così, con il collega, aveva lasciato la sua relazione. Che però è sparita. E ovviamente non è stata mai messa a disposizione dei giudici degli undici processi che si sono occupati della morte di Paolo Borsellino. La sua testimonianza verrà utilizzata solo una quindicina di anni dopo, al Borsellino-quater, quando l’imbroglio verrà svelato. Ma l’anno scorso quando è stata chiamata anche al processo contro i tre agenti accusati del depistaggio, non solo ha raccontato che il procuratore Tinebra si chiudeva per ore in una stanza con Scarantino prima di ogni sua deposizione, ma si è riscontrata violentemente con il pm di udienza che non voleva fosse lasciata parlare.

A proposito di atti spariti, arriviamo al punto terzo, sulla base del quale il castello delle dichiarazioni di Enzino sarebbe crollato, se qualcuno avesse voluto indagare secondo le regole. Il 13 gennaio del 1995 c’era stato il confronto tra il finto pentito e tre collaboratori doc, Gioacchino La Barbera, Totò Cancemi e Santino Di Matteo. Le deposizioni erano state registrate in 19 bobine. Un confronto importante, nella fase precedente al primo processo Borsellino, la cui sentenza è datata a un anno dopo, nel gennaio del 1996. Da quei verbali, come già dalla relazione dei pm Boccassini e Saieva, emergeva il fatto che, messo davanti a tre boss di un certo rilievo, Scarantino era in seria difficoltà, perché neppure lo conoscevano. Era caduto continuamente in contraddizione, non sapeva neppure dove fosse quella via D’Amelio in cui diceva di aver portato l’auto imbottita di tritolo. Bene, anche quei verbali erano spariti, e all’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difendeva alcuni imputati accusati ingiustamente, che ne chiedeva copia, i procuratori di Palermo e Caltanissetta rispondevano con un assurdo ping-pong rimbalzandone la custodia e la responsabilità l’un l’altro. Solo al Borsellino-ter le carte sono ricomparse, quando forse era tardi.

Quindi: le torture che hanno creato il “pentito”, la relazione sparita dei pm come Boccassini e Saieva che avevano denunciato l’imbroglio, il confronto con tre boss che l’avevano smascherato. Tutto questo dimostra che fin dal 1994-95 le indagini avrebbero potuto prendere un’altra strada. E avremmo potuto mettere insieme già un bel numero di nomi di magistrati, Tinebra, Lo Forte, Petralia, Palma, Di Matteo, Caselli, quelli che hanno voluto credere al fatto che per uccidere Borsellino fosse sufficiente assoldare un piccolo spacciatore del quartiere della Guadagna di Palermo. E che questa testimonianza, ottenuta con le torture, bastasse a costruire processi, a mostrare all’opinione pubblica la verità sulla strage di via D’Amelio. Del resto hanno avuto ragione. E ai loro nomi occorre aggiungere tutti quelli di pm e pg e giudici togati e popolari che hanno seguito lo stesso percorso. Fino al Borsellino-quater e la deposizione di Gaspare Spatuzza.

Possiamo tralasciare il fatto che lo stesso Scarantino, da un certo momento in avanti, cominciò a ritrattare e a raccontare chi gli dava i suggerimenti alla vigilia di ogni interrogatorio. Perché nel frattempo dei pm che gestirono le deposizioni di Scarantino e che sono stati indagati per i depistaggi, Petralia e Palma hanno avuto la soddisfazione di veder archiviata la propria posizione, mentre Di Matteo è rimasto sempre solo testimone. Era giovane, si sa. Ma l’assassinio di mio padre era così poco importante da esser affidato a un pm ragazzino, si è domandata Fiammetta, l’indomita figlia del magistrato assassinato. È grazie alle iniziative sue e di sua sorella Lucia, che apprendiamo l’ultimo passaggio del Complotto di Stato, che coinvolge quello che fu un vertice della magistratura, il procuratore generale Riccardo Fuzio, poi costretto alle dimissioni in seguito alla vicenda Palamara e la riunione all’hotel Champagne.

Nel 2018 le due sorelle avevano inviato all’alto magistrato tutta la documentazione (quel che abbiamo finora raccontato e magari molto altro), nella speranza che esercitasse il suo potere di iniziativa disciplinare. Che cosa ha fatto l’impavido magistrato? Prima il nulla, per un intero anno, e poi il peggio, con una lettera ipocrita, mentre aveva già un piede fuori dal palazzo. Avrei voluto (ma ahimé ora non posso più) parlarne all’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive. E loro gli rispondono no grazie, non di celebrazioni ha bisogno la memoria di nostro padre, ma di assunzioni di responsabilità.

E del resto, che cosa ha fatto il Csm nel 2017, quando lo imponeva la vergogna di quel che era emerso nel processo Borsellino-quater con la sua verità? Ammuina, racconta con un po’ di vergogna Luca Palamara nel libro. Perché? Perché aleggiava il nome di Di Matteo. Che era ed è molto potente. Ecco come vanno le cose, da trent’anni a questa parte. Ecco perché, tutto sommato, temiamo che non cambierà mai niente anche se, oltre al dito, ora noi, ma anche l’attuale Csm o il Pg in carica, abbiamo guardato anche la luna. Cioè il Complotto di Stato.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Francesco Boezi per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.

«Sparatoria» è la parola che Luca Palamara, nell'ultimo libro scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, usa per definire la rappresaglia contro Matteo Renzi. 

L'anno focale è il 2017. L'arco temporale individuato arriva ai nostri tempi. 

In «Lobby&Logge», edito da Rizzoli, c'è un passaggio in cui l'ex presidente dell'Anm risponde ad una domanda di Sallusti sull'incontro all'autogrill di Fiano Romano, ossia sul faccia a faccia tra l'ex premier e l'ex 007 Marco Mancini. 

Palamara non crede alla narrativa di Report: la versione per cui l'appuntamento sarebbe stato filmato «per caso» non è ritenuta plausibile. 

Anzi, per l'ex Anm si può dire «che una parte del mondo istituzionale legato ai servizi voleva far fuori Matteo Renzi». Il che può riguardare non solo il taglio dato da certi media ma il narrato conflitto nella sua totalità. 

Il motivo dell'offensiva contro il renzismo è considerato politico: «...la sopravvivenza dell'ultima cellula del comunismo europeo, che Renzi voleva, e in parte era riuscito, a rottamare».

La «ditta» contro la novità: è questa la chiave di lettura. Ne viene fuori un capitolo in cui, mediante il classico botta e risposta, vengono ripercorse le tappe di una battaglia sui livelli apicali dello Stato. 

Renzi avrebbe preferito Michele Adinolfi come vertice della Guardia di Finanza ma il generale viene «bruciato» a ridosso del possibile incarico. Come?

Per via di «un'operazione perfetta coordinata tra magistrati e giornalisti amici», dice Palamara. Il Fatto Quotidiano pubblica una telefonata Renzi-Adinolfi. 

Sono chiacchiere - quelle tra i due ma riguardano anche Enrico Letta, che era il premier. E tanto basta. Il contenuto emerge annota l'ex Anm - perché «i collaboratori di Woodcock Gianpaolo Scafarto e Sergio De Caprio (cioè Capitano Ultimo, ndr)... aggiunsero a pagina 470 del fascicolo la telefonata tra Adinolfi e Renzi». 

L'inchiesta è la Cpl-Concordia. La stessa con cui, per chi ha scritto il libro, la telefonata Renzi-Adinolfi nulla avrebbe a che fare. 

Non è finita: arriva la «sparatoria» per cui tre renziani vengono «azzoppati» dalla «procura di Napoli» e dal «duo Scafarto-De Caprio».

Si legge di Luca Lotti, del comandante generale dei Carabinieri Del Sette e di quello della Toscana Saltalamacchia. 

Poi l'ex magistrato immortala un «colpo di grazia» al renzismo: «...una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe dei Carabinieri al cuore dei servizi segreti». Trattasi, fa presente Palamara, di «nemici di Renzi». L'ex capo dell'Anm prosegue sostenendo che, «secondo i renziani», esiste pure un «regista»: Palamara fa il nome dell'ex ministro dell'Interno Marco Minniti.

Infine si passa ai giorni nostri, con l'apertura del «fronte fiorentino». Due filoni: quello sui genitori di Renzi e l'inchiesta Open. Quella per cui, ieri, è stato chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, dell'ex premier, della Boschi e di Carrai.

Il J'accuse dell'ex magistrato. L’accusa di Palamara: “La caccia a Renzi iniziò quando diventò premier”. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

La caccia a Matteo Renzi ed al Giglio magico inizia quando il Rottamatore nel 2014 diventa presidente del Consiglio. Da quell’anno inizieranno ad addensarsi le nubi sulla testa dell’ex segretario dei dem. A dirlo è Luca Palamara nel libro intervista Lobby e Logge scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. Una caccia giudiziaria che si svolge sull’asse Firenze-Roma. A Firenze «c’è un procuratore, Luca Turco, che indaga la famiglia Renzi affiancato da un ufficiale della guardia di Finanza, Adriano D’Elia, comandante provinciale del nucleo di polizia tributaria, che per tre anni, dal 2014 al 2017, fa della caccia ai Renzi la sua ragione di vita», esordisce Palamara che racconta cosa avvenne durante una cena a tre nella Capitale.

«Eravamo presenti io, Lotti (Luca) e il comandante generale della finanza Giorgio Toschi. Discutiamo di tante cose, a un certo punto la discussione cade sull’accanimento di D’Elia nei confronti della famiglia Renzi. I toni si alterano, capisco che è meglio, vista la mia posizione di magistrato, defilarmi con una scusa. Però faccio in tempo a sentire Toschi dire a Lotti: “Non l’ho messo io, l’ha fatto Capolupo (Saverio, predecessore di Toschi al comando delle fiamme gialle, ndr)”. Come dire, non è colpa mia». Sallusti, allora, domanda: «Be’, un generale potrebbe anche spostare un colonnello». «In teoria – risponde Palamara -, le strade lungo le quali corre il potere non sono sempre le più semplici. Soprattutto in quegli anni nei quali a farla da padrone non sono state certo la trasparenza, la lealtà e, in alcuni casi, neppure la legge». Se la partita fiorentina è ancora tutta da giocare, quella romana, al Csm, si è al momento chiusa con la vittoria di Renzi.

«Prendiamo il caso di Banca Etruria. Come risulta dalle chat, lei prese le difese del pm di Arezzo, Roberto Rossi, quello che ha indagato sulla vicenda nonostante fosse sospettato di essere compromesso con la famiglia Boschi – il padre della ministra Maria Elena era il vicepresidente di quella banca – e quindi con Renzi per via di una consulenza avuta con il governo», chiede Sallusti. «Quella consulenza esisteva, ma era antecedente a Renzi, gli era stata conferita dal premier Letta. Non solo. La consulenza, gratuita, cessò nel 2015 mentre il fallimento della banca è del febbraio 2016, e il padre della ministra verrà regolarmente iscritto nel registro degli indagati», puntualizza Palamara che in quegli anni era componente del Consiglio superiore della magistratura. «Resta il fatto che lei, intercettato, parlando con il suo collega Paolo Auriemma (procuratore di Viterbo, ndr) dice: “Se non fosse per Rossi sarei ottimista, crea solo casini, con quella audizione indebolisce Renzi”, commentando l’intervento di Rossi alla commissione parlamentare su Banca Etruria presieduta da Pier Ferdinando Casini».

«È vero. Rossi non è un politico e più volte è caduto nei trabocchetti della guerra che in quell’anno era in corso contro Renzi. Si mirava a Rossi, ma in realtà si puntava a Renzi e Boschi. In prima battuta Rossi, nonostante un duro ostracismo di alcuni componenti della prima commissione (competente sulle incompatibilità delle toghe, ndr) presieduta da Renato Balduzzi (già ministro della Salute nel governo Monti, che non è mai riuscito ad arginare lo stillicidio di notizie sulla vicenda), si salva e nel luglio del 2016 il Csm archivia la pratica per incompatibilità istituita contro di lui. La vendetta si consuma però tre anni dopo, quando il Csm non lo riconferma procuratore di Arezzo», ricorda Palamara, sottolineando che contro Rossi «si scatena la furia giustizialista, e molto ideologica, di Davigo e della corrente grillina (Autonomia&indipendenza, ndr), in quel momento molto forte al Csm e in politica, e che aveva il ministro Bonafede come sponda politica».

Che cosa era successo? Secondo Davigo, Rossi aveva compromesso «il requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti», almeno «sotto il profilo dell’immagine», avendo mantenuto un incarico di consulenza presso Palazzo Chigi, sotto i governi Letta e Renzi, anche dopo aver aperto l’indagine su Banca Etruria del cui consiglio di amministrazione faceva parte il padre dell’allora ministro Maria Elena Boschi. A nulla erano valse le spiegazioni di Rossi che, in una memoria mai tenuta in considerazione, aveva definito «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti» ciò che gli veniva contestato, ricordando di aver terminato l’incarico a Palazzo Chigi il 31 dicembre 2015, prima dunque del fallimento della banca che è datato 11 febbraio 2016.

Non c’era stata alcuna “contemporaneità”. Alla contestazione di essersi “auto assegnato” il fascicolo, Rossi aveva risposto che il primo fascicolo, quello sull’ostacolo alla vigilanza e che non riguardava Boschi padre, gli era pervenuto in base ad un meccanismo di routine, come magistrato dell’area economica. E il non aver chiesto inizialmente l’insolvenza di Banca Etruria, altra accusa, fu perché la Banca d’Italia all’epoca stava ancora tentando il salvataggio dell’istituto di credito dal fallimento con l’amministrazione straordinaria. Nonostante le prove, Rossi non venne creduto, venendo rimosso dall’incarico dalla sera alla mattina. Per ristabilire la verità dovrà intervenire il Consiglio di Stato al quale Rossi aveva presentato ricorso contro la defenestrazione. Nel frattempo Davigo sarà già andato in pensione. Paolo Comi

Palamara: “così il sistema colpì il generale Adinolfi per far fuori Matteo Renzi”. Redazione CdG 1947 l'11 Febbraio 2022

L’operazione per far fuori il generale Adinolfi nasce nella Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock ed i Carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, ora in pensione, meglio noto come capitano "Ultimo", stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia

Nel libro intervista “Lobby e Logge” scritto da Alessandro Sallusti e Luca Palamara, si legge che Matteo Renzi arrivato a Roma dalla sua Firenze, inizialmente come segretario nazionale del Pd ed in seguito come Presidente del Consiglio dei Ministri,  “la prima cosa che capisce è che per governare, in generale ma in questo Paese in particolare, devi controllare o quantomeno avere persone di fiducia nei gangli del Sistema, per pararti dai colpi bassi. Così funziona”. “Gli obiettivi sono carabinieri, guardia di finanza, servizi e magistratura”, continua Palamara. Per l’ Arma dei Carabinieri Renzi ha le idee chiare e sistema subito la questione piazzando due fedelissimi: per comandante generale sceglie Tullio Del Sette ed in Toscana, “si blinda” con la nomina del generale Emanuele Saltalamacchia, “una sua vecchia conoscenza di quando era sindaco di Firenze”. 

Per la Guardia di finanza una organizzazione strategica “perché rispetto alle altre forze di polizia è diventata protagonista di importanti e delicate indagini, soprattutto con alcuni suoi reparti speciali, ad esempio il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata, meglio conosciuto come Gico” il discorso è più delicato e complicato. In quel momento storico il comandante generale è il generale Saverio Capolupo, ritenuto “uomo potente e di grandi relazioni”. Il suo incarico scade nel 2016 e potrebbe essere prorogato da Renzi che però commette “un errore fatale” piazzando al vertice delle fiamme gialle il generale Giorgio Toschi, una vecchia conoscenza grazie ai suoi trascorsi al comando della Finanza in Toscana, preferendolo al generale  Luciano Carta che verrà parcheggiato ai servizi segreti in “uno stato d’animo, diciamo così, non proprio riconoscente nei confronti del premier”. 

L’operazione per far fuori il generale Adinolfi nasce nella Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock ed i Carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, ora in pensione, meglio noto come capitano “Ultimo”, stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Gli imputati, tra cui il sindaco dell’ isola Giosi Ferrandino che resterà in carcere a Poggioreale per tre settimane infernali, giusto per rinfrescare la memoria al lettore, verranno poi tutti assolti. Fra gli intercettati in questa maxi inchiesta finita in un buco nell’ acqua compare anche il generale Adinolfi che chiama Renzi il giorno del suo quarantesimo compleanno. La conversazione è amichevole e i due si lasciano andare a giudizi molto pesanti sull’allora premier Enrico Letta, definito senza tanti giri di parole un “incapace”.

Un racconto che trova conferma nell’esposto-bomba che l’ex Comandante in seconda della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, il 4 luglio 2017 fece pervenire alla Prima commissione del Csm. La stessa commissione dinnanzi alla quale nel successivo mese di settembre il procuratore capo di Modena Lucia Musti ha riferito che il colonnello “Ultimo”, ed il maggiore Scafarto gli avrebbero parlato della prospettiva di “arrivare a Renzi” proprio attraverso l’inchiesta sulla Cpl. 

Una telefonata deflagrante per i rapporti certamente non idilliaci fra Matteo Renzi ed Enrico Letta, che nonostante non abbia alcuna attinenza minimamente con le indagini in corso, viene trascritta sul brogliaccio dai Carabinieri del Noe, per poi restare in un cassetto per un anno. Nel 2015 guarda caso il giornale delle procure, cioè il Fatto Quotidiano provvede a pubblicarla integralmente ed il generale Adinolfi di fatto eliminato dai giochi del potere. “Era il segnale: il vecchio Sistema aveva dichiarato guerra a Renzi”, spiega Palamara.

Due anni dopo nel 2017 parte un vero e proprio regolamento di conti all’interno dell’ Arma dei Carabinieri, “sempre per mano della procura di Napoli e del duo Scafarto-De Caprio”, e questa volta ad essere “bruciati” sono proprio i generali Del Sette e Saltamacchia, accusati di rivelazione atti d’ufficio nell’ambito di uno dei filoni dell’indagine Consip. Il generale Del Sette verrà persino condannato dal Tribunale di Roma. Dal 1814, anno di fondazione dell’Arma dei Carabinieri, non era mai accaduto, che il numero uno subisse tale onta. 

 “Ma nel 2017 Renzi non è più premier”, ricorda Alessandro Sallusti. E Palamara spiega “Già lascia nel dicembre del 2016, ma è ancora potente perché ha il controllo dei gruppi parlamentari del Pd. È vero, ha sbagliato e ha perso il referendum da lui indetto sulla riforma costituzionale, però lo ha perso raccogliendo una montagna di voti. Insomma, fa ancora paura alla vecchia nomenclatura Pd che non vede l’ora, come disse Bersani, di riprendere in mano la ditta”.

Palamara aggiunge che per sferrare il “colpo di grazia” a Renzi, “una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe al cuore dei servizi segreti, all’Aise, l’agenzia degli 007 impegnata sugli affari esteri”. Un trasferimento improvviso che suscita grandi perplessità nel cerchio magico renziano che non riesce a comprendere le ragioni di questi spostamenti.

“Secondo i renziani è Marco Minniti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, uomo che arriva dalla linea Pci-Pds-Pd, cioè legato alla vecchia nomenclatura. Minniti è nel governo Renzi ma legato a quella parte della sinistra a lui ostile” continua Palamara che ricorda che “I renziani mi dicevano: Minniti si era impegnato a rafforzare l’Aisi (il servizio segreto interno n.d.r.) , per catturare Matteo Messina Denaro, proponendo il nome di De Caprio, ma anziché mandarlo a dare la caccia a uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo lo dirotta all’ Aise per farci fuori”.

L’operazione contro il generale. La rivelazione di Palamara: così il sistema colpì Adinolfi per far fuori Matteo Renzi. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Arrivato a Roma, inizialmente come segretario del Pd e poi come premier, Matteo Renzi “la prima cosa che capisce è che per governare, in generale ma in questo Paese in particolare, devi controllare o quantomeno avere persone di fiducia nei gangli del Sistema, per pararti dai colpi bassi. Così funziona”. Lo racconta Luca Palamara nel libro intervista Lobby e Logge scritto con Alessandro Sallusti.

Se per un verso il Sistema scatena subito la caccia nei suoi confronti (come raccontato nella puntata di ieri), dall’altro il Rottamatore non rimane inerte e cerca di prendere le giuste contromisure. “Gli obiettivi sono carabinieri, guardia di finanza, servizi e magistratura”, prosegue Palamara. Per i carabinieri Renzi ha le idee chiare e chiude subito la pratica con due fedelissimi: per comandante generale sceglie Tullio Del Sette e per casa sua, in Toscana, “si blinda” con la nomina del generale Emanuele Saltalamacchia, “una sua vecchia conoscenza di quando era sindaco di Firenze”.

Discorso più complesso per la guardia di finanza, una organizzazione strategica “perché rispetto alle altre forze di polizia è diventata protagonista di importanti e delicate indagini, soprattutto con alcuni suoi reparti speciali, ad esempio il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata, meglio conosciuto come Gico”.

In quel momento il numero uno delle fiamme gialle è il generale Saverio Capolupo, “uomo potente e di grandi relazioni”. Il suo incarico scade nel 2016 e potrebbe essere prorogato da Renzi. Il Rottamatore, però, commette “un errore fatale” e insedia al vertice delle fiamme gialle Giorgio Toschi, preferendolo a Luciano Carta che verrà parcheggiato ai servizi in “uno stato d’animo, diciamo così, non proprio riconoscente nei confronti del premier”. Renzi, prosegue Palamara, “avrebbe voluto come comandante della finanza un suo caro amico, il generale Michele Adinolfi, ma il vecchio sistema si mette di traverso e brucia il generale con una operazione perfetta coordinata tra magistrati e giornalisti”.

L’operazione per far fuori Adinolfi nasce dalla Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock e i carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Gli imputati, tra cui il sindaco Giosi Ferrandino che trascorrerà oltre venti giorni a Poggioreale, per la cronaca, saranno poi tutti assolti. Fra gli intercettati in questa maxi inchiesta finita in un flop c’è anche Adinolfi. Il generale chiama Renzi il giorno del suo quarantesimo compleanno. La conversazione è amichevole e i due si lasciano andare a giudizi molto pesanti sull’allora premier Enrico Letta, definito senza mezzi termini “incapace”.

La telefonata è esplosiva per i rapporti già non idilliaci fra Renzi e Letta e, anche se non attiene minimamente le indagini, viene trascritta dai Cc del Noe per poi essere lasciata in un cassetto per un anno. Nel 2015 il Fatto Quotidiano si incaricherà di pubblicarla integralmente e Adinolfi verrà bruciato. “Era il segnale: il vecchio sistema aveva dichiarato guerra a Renzi”, precisa Palamara. Nel 2017 parte un regolamento di conti all’interno dell’Arma, “sempre per mano della procura di Napoli e del duo Scafarto-De Caprio”, e ad essere azzoppati sono proprio Del Sette e Saltamacchia, accusati di rivelazione atti d’ufficio nell’ambito di uno dei filoni dell’indagine Consip. Del Sette, in particolare, verrà pure condannato dal tribunale di Roma. Mai era accaduto, dal 1814, anno di fondazione dell’Arma, che il numero uno dell’Arma subisse tale onta.

“Ma nel 2017 Renzi non è più premier”, afferma Sallusti. “Già – risponde – lascia nel dicembre del 2016, ma è ancora potente perché ha il controllo dei gruppi parlamentari del Pd. È vero, ha sbagliato e ha perso il referendum da lui indetto sulla riforma costituzionale, però lo ha perso raccogliendo una montagna di voti. Insomma, fa ancora paura alla vecchia nomenclatura Pd che non vede l’ora, come disse Bersani, di riprendere in mano la ditta”. Per dare il “colpo di grazia” a Renzi, aggiunge Palamara “una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe al cuore dei servizi segreti, all’Aise, l’agenzia degli 007 impegnata sugli affari esteri”. Questo improvviso trasferimento suscita grandi perplessità nell’entourage renziano che non riesce a comprendere perché stiano avvenendo tali spostamenti.

“Secondo i renziani – prosegue Palamara – è Marco Minniti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, uomo che arriva dalla linea Pci-Pds-Pd, cioè legato alla vecchia nomenclatura. Minniti è nel governo Renzi ma legato a quella parte della sinistra a lui ostile”. “I renziani – ricorda Palamara – mi dicevano: Minniti si era impegnato a rafforzare l’Aisi per catturare Matteo Messina Denaro, proponendo il nome di De Caprio, ma anziché mandarlo a dare la caccia a uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo lo dirotta all’Aise per farci fuori”. Meglio di House of Card. Paolo Comi

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.

Cena tra magistrati, qualche anno fa. Clima conviviale. Un commensale si rivolge a Giuseppe Creazzo, da non molto nominato procuratore di Firenze. «Allora, Peppe, come si sta a Firenze?». «Dopo tanti anni in Calabria, è stato come passare da Beirut a New York». E invece. Nemmeno tanti anni dopo, la placida Procura fiorentina è un bunker libanese. «Siamo isolati, infamati come persone e delegittimati come ufficio - ha detto ieri Creazzo ai colleghi - .Protagonisti nostro malgrado per attacchi che si commentano da soli». «I miei accusatori non sono credibili», proclama Renzi. 

Creazzo additato in tv come «molestatore sessuale» con tanto di dettagli («Tanto non siamo in fascia protetta») su «palpeggiamenti». Turco, memoria storica della Procura di Firenze, svillaneggiato in quanto «toga rossa, protagonista di inchieste finite nel nulla, specializzato in Renzologia e sul cui operato pongono seri dubbi numerosi servitori dello Stato che lavorano con lui».

Nastasi, ultimo arrivato nel bunker, gettato nel fango senese per il sospetto «di aver inquinato la scena del delitto nel caso David Rossi». Non si può dire che i tre pm siano star mediatiche. «Zero tituli» negli archivi di giornali e tv. «Al lavoro in silenzio, senza cadere in provocazioni né rispondere. Ora è il tempo della sobrietà e dell'umiltà», sospira Creazzo ai suoi pm. 

Ma questa botta s'è sentita più di ogni altra, appena lenita dal comunicato dell'Anm e delle manifestazioni di solidarietà, perfino della Casa del Popolo di mantignano. Il Csm ha registrato la polemica, senza iniziative. Firenze è una capitale magnificente e autocompiaciuta, dove gli ultimi due procuratori sono finiti, all'indomani del pensionamento, a collaborare con il sindaco. Creazzo è un calabrese minuto, ostinato ed ermetico. A Reggio era leader della corrente centrista Unicost.

In Procura era uditore del giovane Palamara, fresco vincitore di concorso, con cui poi milita nell'Anm negli anni del berlusconismo. Creazzo arriva a Firenze nel giugno 2014, a renzismo imperante. Benché non fosse il candidato preferito, non dispiaceva. «È un moderato», dicevano nel Pd. Ma negli anni successivi, quando le inchieste si incuneano nel Giglio Magico, il clima cambia. 

«Togliercelo dai coglioni» diventa l'imperativo categorico. Espresso impudicamente, a Firenze, persino al cospetto di alti funzionari pubblici. E in privato, all'hotel Champagne, quando è Luigi Spina, allora consigliere del Csm (anch' egli calabrese e di Unicost) a rassicurare Lotti: «Te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile». Era di maggio, 2019. Creazzo si era messo in testa di diventare procuratore di Roma. Ma aveva fatto male i conti.

Nemmeno la sua corrente lo appoggiava. Nel frattempo, dopo i petali imprenditoriali, le inchieste avevano toccato quelli familiari e politici del Giglio. Fino ai clamorosi e improvvidi arresti domiciliari dei genitori di Renzi («Due settantenni incensurati!») per bancarotta fraudolenta di cooperative. Arresti trasformati nella più blanda interdizione dal tribunale dei Riesame. «Annullati perché forzati e sproporzionati», esulta Renzi, glissando sulla conferma dei gravi indizi di colpevolezza. 

Per «liberare Firenze - dice Palamara all'hotel Champagne parlando di Creazzo - bisogna mettergli paura con quell'altra storia». La storia è un esposto firmato da un altro pm fiorentino, Paolo Barlucchi, e mandato per competenza a Genova. Il dossier adombra conflitti di interesse e corruzione di Creazzo e Turco in un'inchiesta sulla sanità. Lo stesso Renzi se ne interessa. Creazzo viene intercettato anche se non indagato.

L'inchiesta sarà archiviata un anno dopo. Mentre Barlucchi, a sua volta, è finito sotto processo disciplinare con l'accusa, tra le altre, di aver «ricattato» Creazzo. Ma dalle chat di Palamara spunta un'altra, e scabrosa, vecchia storia. Quando la Procura generale della Cassazione le chiede perché in una chat chiamava Creazzo «il porco di Firenze», la pm palermitana Alessia Sinatra racconta di essere stata molestata diversi anni prima, nel corridoio di un hotel romano in zona Prati dove si svolgeva un convegno. 

Entrambi finiscono sotto processo disciplinare (quello penale è impossibile, per assenza della denuncia). Le accuse a Creazzo sono condensate nel foglio che Renzi ha sventolato a "Porta a Porta", una foto dell'atto di incolpazione depositato al Csm. La pm Sinatra è ancora sotto processo disciplinare. Dalla mediatizzazione della sua vicenda prende le distanze, manifestando «la più completa estraneità ai commenti su procedimenti in corso».

A metà dicembre Creazzo è stato condannato dalla sezione disciplinare, seguirà ricorso in Cassazione. La sanzione, due mesi di perdita di anzianità, è obiettivamente irrisoria. Ma sufficiente a sopire ogni ambizione di carriera. Sfumata Roma, sfumata Catanzaro, sfumata la Procura nazionale antimafia sia pure come sostituto semplice, Creazzo chiuderà la carriera da soldato semplice in Calabria.

Il caso Open. L’Anm avverte Renzi: vietato toccare un Pm! Redazione su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Qual è il punto di forza dei magistrati? Che se uno di loro viene criticato, scatta a sua difesa il partito dei Pm. Il principio è chiarissimo: i magistrati possono fare quello che pare a loro e non possono essere criticati. tantomeno denunciati, come ha fatto Matteo Renzi nei confronti dei Pm di Firenze che avevano commesso alcuni abusi nelle indagini sulla fondazione Open. Capito? Se qualche Pm ti mette in mezzo e ti muove accuse fantasiose e chiede che tu sia rinviato a giudizio, tu te ne devi stare zitto e buono fino, eventualmente, all’assoluzione (circa l’80 per cento degli indiziati viene poi assolto). Una specie di legge sulla presunzione di colpa.

Così ieri la giunta dell’Anm (cioè il comitato centrale del partito dei Pm) ha diffuso un comunicato di condanna nei confronti di Matteo Renzi. Intitolato “l’ingiusto attacco del senatore Renzi ai pubblici ministeri fiorentini della vicenda Open”. C’è scritto nel comunicato: “Le parole del senatore della Repubblica Matteo Renzi, pronunciate non appena ha appreso della richiesta di rinvio a giudizio per la vicenda Open, travalicano i confini della legittima critica e mirano a delegittimare agli occhi della pubblica opinione i magistrati che si occupano del procedimento a suo carico. “I pubblici ministeri che hanno chiesto il processo nei suoi confronti sono stati tacciati di non aver la necessaria credibilità personale in ragione di vicende, peraltro oggetto di accertamenti non definitivi o ancora tutte da verificare, che nulla hanno a che fare con il merito dei fatti che gli sono contestati.

Hanno adempiuto il loro dovere, hanno formulato una ipotesi di accusa che dovrà essere vagliata, nel rispetto delle garanzie della difesa, entro il processo, e non è tollerabile che siano screditati sul piano personale soltanto per aver esercitato il loro ruolo. “Questi inaccettabili comportamenti, specie quando tenuti da chi riveste importanti incarichi istituzionali, offendono i singoli magistrati e la funzione giudiziaria nel suo complesso, concorrendo ad appannarne ingiustamente l’immagine di assoluta imparzialità, indispensabile alla vita democratica del Paese. 

Renzi erede di Berlusconi: ora la magistratura ha il suo nuovo nemico. Filippo Ceccarelli su La Repubblica l'11 febbraio 2022.

Con il suo attacco ai giudici il leader di Italia viva ha preso il posto del presidente di Forza Italia. Il passaggio delle consegne è compiuto e nella vita pubblica italiana lo scontro tra giustizia e politica è destinato a durare attraverso il più naturale avvicendamento. 

Dai meandri degli ormai sterminati archivi visivi diversi anni orsono uscì fuori un filmato in cui un giovanissimo Renzi, sul palcoscenico del teatrino dell'oratorio di Rignano, faceva l'imitazione di Berlusconi. Quando in uno studio televisivo glielo fecero rivedere, il Cavaliere commentò: "Bello e divertente", aggiungendo, sia pure in modo tortuoso, che molto quel ragazzo aveva imparato da lui.

"Così il lodo Alfano venne cancellato dalla lobby in toga e dalla Consulta". Alessandro Sallusti il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Sono passati tanti anni, dodici per l'esattezza, ma il 7 ottobre 2009 è una data spartiacque nei rapporti tra la magistratura e la politica.

Sono passati tanti anni, dodici per l'esattezza, ma il 7 ottobre 2009 è una data spartiacque nei rapporti tra la magistratura e la politica. Lei, dottor Palamara, in quel momento era a capo dell'Associazione nazionale magistrati e fu uno dei protagonisti di quella vicenda, la bocciatura del cosiddetto Lodo Alfano, una legge che voleva dare l'immunità alle quattro più alte cariche dello Stato, tra le quali il presidente del Consiglio.

«Che in quel momento era Silvio Berlusconi, reduce dal trionfo elettorale dell'anno precedente ma braccato dalla magistratura. Tre erano i processi che lo vedevano imputato: quello per la corruzione dell'avvocato Mills, quello per diffamazione aggravata dall'uso del mezzo televisivo sulle relazioni tra le cooperative rosse e la camorra, quello per la compravendita dei diritti televisivi».

Potevate voi sospendere le ostilità contro Berlusconi per i successivi cinque anni, cioè fino a che quel governo sarebbe rimasto in carica?

«Era da escludere. Le ricordo lo abbiamo raccontato e documentato nel libro precedente che quando Berlusconi vince a mani basse le elezioni del 2008 l'Associazione nazionale magistrati scende in campo come forza di opposizione, stante la debolezza in quel momento della sinistra politica».

Già, Berlusconi questo lo sa bene, del resto proprio lei glielo aveva in qualche modo anticipato nell'unico vostro incontro privato faccia a faccia, avvenuto sul finire del 2007 quando lei da poco era stato nominato segretario generale dell'Anm.

«Esatto, per cui lui, una volta tornato a Palazzo Chigi nell'aprile del 2008, per prima cosa prova a blindarsi. Il 26 giugno il governo vara il Lodo Alfano dal nome del ministro della Giustizia proponente che a tempo di record diventa legge: la Camera lo approva il 10 luglio, il Senato il 22 e il giorno dopo il presidente Napolitano, suo malgrado, controfirma».

Per Berlusconi è fatta. Cosa avete pensato in quel momento?

«Che lui certamente aveva i numeri parlamentari per fare ciò che voleva, ma non aveva il controllo del Sistema. E il Sistema, come vedremo, è più forte del Parlamento. Era soltanto una questione di tempo, quell'immunità andava levata con ogni mezzo. E la lobby dei magistrati si mette in moto. Il 26 settembre Fabio De Pasquale, in quel momento pubblica accusa in due processi che riguardano Berlusconi, non ne vuole sapere di sbaraccare e solleva un dubbio di costituzionalità sul Lodo Alfano. Dubbio accolto dai giudici, che chiedono lumi alla Corte Costituzionale. È il varco in cui tutti ci infiliamo».

Fabio De Pasquale, quello che ai tempi di Mani pulite fece intendere al presidente dell'Eni Gabriele Cagliari la scarcerazione in cambio di una confessione, e che non mantenne la parola? Poi Cagliari si suicidò in cella. Quello che nel 1992 mise sotto accusa per truffa Giorgio Strehler, portando il grande regista a dire «è una vergogna, mi dimetto da italiano»? Per avere giustizia totale assoluzione Strehler dovette stare tre anni sulla graticola. Quel De Pasquale oggi sotto indagine, sospettato di non aver tenuto un comportamento limpido nel processo Eni concluso a Milano con la sconfessione delle sue tesi accusatorie?

«Sì, quel De Pasquale. Ma in quei giorni partono anche i manifesti a difesa della Costituzione firmati da molti intellettuali, e Antonio Di Pietro, in quel momento leader politico di Italia dei Valori, lancia la raccolta di firme per un referendum abrogativo di quella legge. Una mobilitazione simile a quella dei girotondi lanciati dal regista Nanni Moretti anni prima, nel 2002, sempre regnante Berlusconi, in concomitanza con un precedente tentativo di concedere l'immunità alle alte cariche dello Stato».

Parliamo del cosiddetto Lodo Schifani, legge approvata nel 2003 e abrogata l'anno successivo dalla Corte Costituzionale.

«Esatto, quindi in quel momento è urgente rimettere in moto lo stesso meccanismo per arrivare allo stesso risultato. Però, prima di raccontare cosa avvenne dietro le quinte, è meglio che chi ci legge abbia chiaro quali sono i meccanismi che sovraintendono alla Corte Costituzionale»...

...«Tutti i presidenti della Repubblica che si sono succeduti dal 1999 venivano da partiti di sinistra o culture di sinistra, come si può dire senza dubbi anche di Carlo Azeglio Ciampi, il quale tuttavia al momento dell'elezione non aveva tessere di partito. Il che significa che i cinque membri in carica alla Corte costituzionale di nomina quirinalizia non potevano che riflettere quell'indirizzo. Difficile poi pensare che i cinque membri nominati dalla magistratura fossero tutti, diciamo così per semplificare, di destra o addirittura filoberlusconiani, stante che il gioco delle correnti guidate dalla sinistra giudiziaria mette ovviamente becco anche lì. Dei restanti cinque, di nomina parlamentare, almeno un paio sono eletti dalla sinistra. Risultato: oltre i due terzi dei giudici costituzionali, cioè un'ampia maggioranza, hanno un orientamento a sinistra e questo non può non avere un peso, diciamo così, di cultura giuridica, nelle loro decisioni, come del resto è normale e logico che sia».

Però sempre giudici sono.

«Certo, ci mancherebbe. Sto solo dicendo che, numeri alla mano, all'interno della Corte costituzionale che dovrebbe dirimere con imparzialità i conflitti tra poteri dello Stato l'orientamento della magistratura, su ogni tema, prevale su quello della politica, soprattutto sulla politica di centrodestra... Ma lo sbilanciamento a sinistra è dovuto anche a un altro fatto ai più sconosciuto».

Rendiamolo noto.

«Lei conosce quel detto: «I ministri passano, i dirigenti restano», che sta a indicare come in un ministero chi comanda davvero sono i capi di gabinetto guarda caso quasi tutti magistrati distaccati e gli alti funzionari, in altre parole la burocrazia? Ecco, alla Corte costituzionale i giudici sono come i ministri, interessati soprattutto a mantenere la poltrona adeguandosi all'orientamento prevalente per non essere emarginati, e magari sperare di essere eletti presidente. A mandare avanti la macchina ci pensano gli equivalenti dei dirigenti al ministero, cioè gli assistenti di studio».

E questi da dove sbucano?

«Ogni giudice ne può avere fino a tre. Possono essere scelti tra docenti universitari, magistrati amministrativi o contabili. La maggior parte, oltre i due terzi, arriva dalla magistratura ordinaria, quindi anche loro occupano quel posto solo dopo aver superato l'esame delle correnti. Il meccanismo è lo stesso usato per lottizzare qualsiasi altro incarico direttivo, tipo procuratore della Repubblica o presidente di tribunale».

E perché questi «assistenti di studio» sarebbero così importanti?

«Perché sono loro a studiare le carte e preparare le sentenze da sottoporre al loro giudice di riferimento. Il quale il più delle volte prende atto e firma. L'attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nasce così, assistente di studio di Antonio Baldassarre, che nei primi anni Novanta fu anche presidente della Corte e che poi nel 2007 finì nei guai perché coinvolto in quel pasticcio che fu la vendita a privati di un pezzo di Alitalia: condanna a tre anni per aggiotaggio. Poi il presidente Napolitano la nomina giudice. Da giudice è collega di Sergio Mattarella, che diventato presidente della Repubblica vede di buon occhio la sua nomina prima, nel 2019, a presidente della Corte stessa, poi a ministro della Giustizia nell'esecutivo di Mario Draghi».

Interessante, ma non divaghiamo troppo. Torniamo a quel 2009 e alla necessità di non concedere l'immunità a Silvio Berlusconi.

«Certo, ma guardi che non ho divagato. Per capire le singole vicende bisogna sapere come funzionano i meccanismi. Spero di aver chiarito perché la Corte Costituzionale è sì un organismo terzo, ma non «troppo terzo» rispetto al potere esercitato dalla magistratura al di fuori delle aule di giustizia. Tanto è vero che io in quei mesi, da presidente dell'Anm, frequento spesso, non solo in occasioni formali, il Palazzo della Consulta, sede della Corte che sta proprio di fronte al Quirinale allora abitato da Giorgio Napolitano, con il quale sono in costante contatto».

In che senso «non solo in occasioni formali»?

«La posizione della magistratura associata era chiara e io stesso mi ero confrontato con il presidente Napolitano: per noi il Lodo Alfano doveva essere abolito e Berlusconi processato. Ovvio che per trovare il modo di arrivare all'obiettivo tenevo rapporti stretti con i miei referenti alla Corte, quei magistrati distaccati che ben conoscevo e di cui parlavo prima. Sono state tante le colazioni dentro quel palazzo così algido, così distante anche nella sua architettura dal popolo. Una sorta di reggia esclusiva».

Un lavoro di lobby per affossare una legge democraticamente approvata dal Parlamento. Non è il massimo della trasparenza.

«Era quello che aveva deciso il Sistema in quel momento. Non dimentichiamoci che Berlusconi e il suo governo erano i nemici del Sistema, non si poteva in alcun modo permettere che si rafforzassero con l'immunità. Quindi ognuno doveva fare il suo: i procuratori che stavano indagando su Berlusconi avanzare eccezione di costituzionalità, il Csm proteggere loro le spalle, l'Anm suonare la grancassa del rischio colpo di Stato e affini, i partiti di sinistra e i sindacati mobilitare le piazze, i giornali di area dare grande rilevanza a tutto questo. Da ultimo, non in ordine di importanza, il presidente della Repubblica a cui era toccato, per dovere d'ufficio, controfirmare quella legge. Insomma, bisognava preparare il terreno perché la Corte costituzionale alla fine facesse il suo, sentendosi ben supportata».

Una partita impari.

«Berlusconi mette in campo un parere favorevole al Lodo Alfano dell'Avvocatura di Stato, ufficio che dipende dalla presidenza del Consiglio, quindi da lui. E avvicina gli unici due giudici della Corte di nomina del centrodestra, Luigi Mazzella, già suo ministro in un precedente governo, e Paolo Maria Napolitano. La cena avviene a casa Mazzella nel giugno di quel 2009, vi partecipano anche Gianni Letta e Carlo Vizzini, oltre che lo stesso Alfano. L'incontro non costituisce reato i giudici costituzionali non sono soggetti alle stesse restrizioni di quelli ordinari ma la notizia della cena, guarda caso, viene fuori, e gettata in pasto all'opinione pubblica diventa un boomerang per il Cavaliere».

Finale scontato.

«Il 7 ottobre 2009 la Corte, con nove voti contro sei, dichiara l'incostituzionalità del Lodo Alfano, con la motivazione che per introdurre l'immunità alle alte cariche dello Stato non basta una legge ordinaria ma ne serve una costituzionale, dato che la materia va a toccare il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge».

Poteva andare diversamente?

«In punta di diritto sì. Quella sentenza smentisce la sentenza con cui la stessa Corte, due anni prima, aveva bocciato il Lodo Schifani, antesignano di quello Alfano... Il dato politico è che la magistratura nel 2009 ha vinto, che Silvio Berlusconi poteva rimanere, come è stato, sotto inchiesta e sotto processo, e questo è dovuto al fatto che la Corte costituzionale, grazie al meccanismo che regola la nomina dei suoi giudici e dei suoi assistenti di studio in funzione delle logiche delle correnti, ha fatto Sistema».

Per lei sarà stato come appiccicarsi al petto una medaglia.

«Non lo nego, fu una stagione esaltante, celebrata anche da Roberto Vecchioni nella canzone Chiamami ancora amore, con la quale, altro schiaffo al berlusconismo, due anni dopo vinse il Festival di Sanremo... Ma siamo nel 2011, e grazie anche alla bocciatura del Lodo Alfano Berlusconi è accerchiato: anche gli artisti, con il lasciapassare della Rai, si uniscono al Sistema. La battaglia sta per essere vinta, alla fine di quell'anno il governo cadrà. Ma altre cose bollono in pentola».

Alessandro Sallusti dal 2010 al 2021 è stato direttore responsabile de ilGiornale, dove aveva cominciato insieme a Indro Montanelli nel 1987. Ha lavorato per Il Messaggero, Avvenire, il Corriere della Sera, e L'Ordine, fino ad approdare a Libero, con Vittorio Feltri. 

Severino interpreta la legge: quelle chance negate al Cav. Stefano Zurlo il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex ministro rivela 10 anni dopo: Berlusconi avrebbe potuto evitare al Senato la decadenza col voto segreto.

Una sorta di interpretazione autentica della norma che prende il suo nome. Paola Severino ora spiega che la legge Severino non può portare alla decadenza automatica del parlamentare condannato, ma anzi lascia un certo margine di manovra al Parlamento. Ma come? Ci avevano spiegato che il destino di Berlusconi era segnato e il Senato avrebbe dovuto solo mettere il timbro, come un passacarte, sul verdetto della Cassazione. Ma non è così, e dopo dieci lunghi anni carichi di silenzio, l'ex ministro della Giustizia svela quel che accadde in Consiglio dei ministri nel 2012 a proposito del decreto legislativo 235, quello appunto utilizzato per esibire il cartellino rosso in faccia al Cavaliere.

«Fu grazie alla straordinaria capacità di Antonio Catricalà - svela l'avvocato celebrando alla Luiss proprio il grande giurista scomparso lo scorso anno - che il decreto legislativo» fu modificato in extremis, così da evitare un «eccessivo automatismo».

Parole pesanti e sorprendenti perché Forza Italia e il centrodestra sollevarono il tema dopo la condanna del Cavaliere, ma l'asse Cinque stelle-Pd fu irremovibile: il Senato non poteva far altro che dare corso a quel provvedimento.

A quanto pare la questione era più sottile e Catricalà l'aveva colta in pieno, ventilando il cambio in corsa di una parola nel corso di quel Consiglio dei ministri: «Il suggerimento che subito accolsi riconosceva al Parlamento il pieno potere di decidere sulla decadenza o meno di un suo membro. Risultato che ottenemmo attraverso la modifica dell'espressione dichiarazione in deliberazione. Fu proprio in virtù di questo cambiamento che la norma è riuscita a superare in tante occasioni il vaglio della Corte costituzionale e quello della Corte europea dei diritti dell'uomo».

Severino non aveva mai chiarito questo punto esplosivo e nemmeno era mai emersa quella staffetta di vocaboli nel testo. E però questo modifica la prospettiva di quel voto e di quella norma: se così stanno le cose non si capisce perché l'anno dopo, nel 2013, con la bagarre sul Cavaliere, non si sia ricorso al voto segreto. «Io posi la questione in aula - racconta il senatore di Forza Italia Giacomo Caliendo, ex magistrato - insistendo per il voto palese sulla decadenza, ma la sinistra e i grillini ripetevano che non c'era margine di interpretazione e dunque si doveva votare a carte scoperte. Il presidente Grasso invece di decidere passò il cerino alla giunta per il regolamento che a maggioranza optò per il voto palese, chiarendo che i senatori erano chiamati a un atto dovuto e nulla più. Così, forzando la prassi, l'aula decise la cacciata di Berlusconi a scrutinio palese, infischiandosene di tutte le questioni che avevo sollevato: dalla retroattività del decreto alla richiesta di chiarimenti alla Corte europea».

Come mai l'ex ministro parla oggi? Chissà, anche se all'orizzonte c'è un referendum proprio su quella legge. «La norma - aggiunge lei - ha dato al Parlamento un pieno potere di valutazione» di cui però fino ad oggi il Parlamento non aveva consapevolezza. E questo «ha consentito - è la conclusione - di escludere la decadenza del senatore Minzolini», oggi direttore del Giornale, «diversamente da quanto era accaduto con Berlusconi». Qui, di nuovo, qualcosa non quadra perché l'espulsione di Minzolini, a voto ancora una volta palese, fu bocciata per la rivolta dei garantisti del Pd. La lettura corretta della Severino arriva solo ora. Stefano Zurlo

Quel duello tra Cav e supremi giudici durato trent'anni. Luca Fazzo il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.  

«Un organo politico». «Ci sono undici membri di sinistra». «Se una legge non piace alla sinistra viene impugnata da un pm di sinistra e portata avanti alla Corte Costituzionale che inderogabilmente la abroga». Una cosa è certa: se Silvio Berlusconi leggerà i passaggi che il nuovo libro della coppia Palamara-Sallusti dedica alla vicenda del lodo Alfano, cancellato dalla Consulta nel 2009, non resterà stupito. Anzi: potrà dire «io l'avevo detto». Perché sono quasi trent'anni che il duello tra il Cavaliere e i giudici di piazza del Quirinale si popola di scontri frontali, che si risolvono quasi sempre nella sconfitta del primo. Il quale ha da tempo maturato la convinzione che lì, tra gli stucchi e gli ermellini, si nascondano alla fine i più potenti dei suoi avversari.

Eppure non era cominciata male: un giovane Berlusconi nel 1988 plaudeva («viva soddisfazione») alla sentenza che, tra mille cautele, aveva sdoganato le tv locali, aprendo la strada alla nascita del suo impero. Ma erano altri tempi, e soprattutto non era ancora iniziata l'epoca del Berlusconi politico. Nel '94 cambia tutto. E il Cav deve rendersi conto in fretta che nessuna maggioranza parlamentare, neanche la più ampia, gli risparmierà di fare i conti con la Consulta. Da lì iniziano i guai. Perché a sbattere contro il muro della Corte vanno una dopo l'altra non solo le leggi che girotondi e magistrati democratici catalogano come «leggi ad personam» ma anche norme che fanno parte del percorso ordinario di un governo. Sotto la tagliola finiscono uno dopo l'altro i provvedimenti del «pacchetto sicurezza» con cui il terzo governo Berlusconi aveva risposto all'emergenza criminalità. Nel 2005, caso più unico che raro, la Consulta cassa la legge finanziaria di Tremonti, colpevole di tagliare i fondi alle Regioni.

Ma a guastare i rapporti in modo irrimediabile è il trattamento riservato alle riforme che puntano a depotenziare i pm: nel 2004 viene cancellato il lodo Schifani, che proteggeva le alte cariche istituzionali dagli attacchi delle Procure. Nel 2009 stessa sorte al lodo Alfano. Nel pieno del caso Ruby, la Consulta dà torto persino alla Camera dei deputati che rivendicava per il processo la competenza del tribunale dei ministri.

Dietro ogni botta, in questi anni Berlusconi ha intravisto la lunga ombra del complotto che - dalle Procure fino alla presidenza della Repubblica - userebbe la Consulta per fare dell'Italia un paese a democrazia limitata. Fu così anche nell'occasione più macroscopica, l'azzeramento nel 2007 della «legge Pecorella», la norma che impediva alle Procure di impugnare le sentenze di assoluzione. Era una conquista di civiltà, che oggi viene invocata dall'intero mondo dei penalisti, e che persino la commissione nominata dalla ministra Cartabia (ex giudice costituzionale, peraltro) aveva inserito nel suo piano di riforme prima di essere stoppata dal «partito dei pm». Ma allora l'innovazione venne liquidata come una sorta di ignobile scudo offerto dal Parlamento al premier-imputato. Per Berlusconi il top fu venire a sapere che l'autore della sentenza era il giudice Giovanni Maria Flick: che era ed è un grande giurista, ma era stato ministro della Giustizia nel governo di Romano Prodi, ed era stato il primo giudice costituzionale nominato da Carlo Azeglio Ciampi, che era approdato al Quirinale dopo essere stato anche lui ministro nei governi di Prodi e di Massimo D'Alema. Per il Cavaliere, il messaggio diceva che il cerchio si era chiuso. 

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

De Pasquale, il magistrato testa d'ariete che lanciò l'assalto al premier forzista. Luca Fazzo il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Fu lui a far ricorso alla Consulta e far partire l'attacco concentrico. Colleghi, giornali, intellettuali: tutti contro lo "scudo" parlamentare.

Ora che la sua carriera rischia di naufragare tra procedimenti disciplinari e rinvii a giudizio, almeno due pregi vanno riconosciuti - a mo' di onore delle armi - al dottor Fabio De Pasquale. Il primo è di essere dotato di una onestà personale al di sopra di ogni sospetto: tale che anche l'insinuazione che alcuni figuri del «caso Eni» gli riservano in una intercettazione è stata universalmente liquidata come fango. Il secondo è di essere mosso da una buona fede altrettanto granitica. Ogni qualvolta De Pasquale è partito all'attacco, a spingerlo c'era - insieme all'ambizione professionale, al furore agonistico, forse a una umanissima vanità - anche una cristallina convinzione di essere dalla parte del giusto. I potenti che finivano nel suo mirino, da Gabriele Cagliari a Silvio Berlusconi ai top manager dell'Eni, hanno di volta in volta incarnato per lui una sorta di male assoluto.

Poi però c'è il resto, che di questa tetragona convinzione di essere nel giusto, della totale (e un po' inquietante) assenza di dubbi è a suo modo figlia. L'episodio su cui si concentra il passaggio dedicato in Lobby&logge al baffuto pm messinese è un buon esempio di questo approccio muscolare al processo penale. Quando De Pasquale si rende conto che il «lodo Alfano» rischia di essere l'iceberg contro cui va a sbattere il processo per frode fiscale al Cavaliere, impugna l'arma del ricorso alla Corte Costituzionale. Certo, lo fa perché è intimamente convinto della illegittimità della norma. Ma anche perché è consapevole che ad affossare il lodo è pronta a intervenire una moltitudine di soggetti diversi, dai giornali liberal ai giuristi democratici, e che nella Consulta ci sono orecchie pronte ad ascoltare le ragioni degli indignati. «Depa», come lo chiamano in Procura, sa che la battaglia è vinta in partenza. E che la Consulta gli aprirà la strada per portare fino in fondo il processo all'odiato Cav. Risultato raggiunto: il 25 ottobre 2012, in un'aula stipata all'inverosimile, arriva la condanna di Berlusconi a quattro anni di carcere.

Da lì in poi, tutto cambia. De Pasquale diventa per un pezzo d'Italia, anche più di quanto lui stesso lo desideri, un simbolo della lotta al Cav. L'autostima che già era solida, e ai tempi di Mani Pulite lo portò a rifiutare l'arruolamento come ragazzo di bottega del pool, dalla vittoria del processo a Berlusconi si rafforza ulteriormente. Si apre la caccia a un obiettivo più alto. Ma cosa c'è di più alto di un premier? Risposta ovvia: l'Eni, il colosso fondato da Mattei, uno Stato nello Stato che in giro nel mondo conta più della Farnesina e di Palazzo Chigi. E che però, nelle carte di De Pasquale, rastrella petrolio corrompendo a destra e manca: Algeria, Congo, Nigeria, Kazakistan. Per «Depa» è la battaglia finale, quella che dalle storielle colorite di film strapagati del processo al Cav, lo catapulta nel mondo della finanza internazionale, dei ministri, delle multinazionali. Riesce a farsi creare un dipartimento su misura.

E a quel punto, dicono ora le accuse della Procura di Brescia, perde il senso di ciò che si può e non si può fare.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Emilio Sirianni, le rivelazioni di Palamara: "Gratteri fascista, Minniti parac***". Gli insulti della toga che difendeva Mimmo Lucano. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano l'8 febbraio 2022

Pubblichiamo di seguito il capitolo "Un magistrato per amico - Mimmo Lucano e il giudice indagato perché ostacolava i colleghi" del nuovo libro intervista di Alessandro Sallusti all'ex magistrato Luca Palamara. Il volume Lobby & logge, edito da Rizzoli, è da oggi in libreria.

Proviamo a fare un punto. Abbiamo visto fin qui che le accuse contro i magistrati coinvolti nella lobby siciliana di Antonello Montante sono state archiviate sia nel procedimento penale che in quello disciplinare del Csm, che quelle a proposito della gestione del falso pentito Scarantino sulla strage di via D'Amelio sono state archiviate sul piano penale e neppure portate di fronte dal Csm, che i magistrati chiamati in causa dal faccendiere Amara per la loggia Ungheria, che si sappia, a ora non sono neppure indagati. È come se esistessero due giustizie, due codici penali, due metri di giudizio: uno vale per tutti meno che per i magistrati, l'altro solo per i magistrati. Andreotti disse: «Quando ho dovuto affrontare il mio processo ho capito perché la stupenda scritta "La legge è uguale per tutti" è alle spalle e non davanti agli occhi del giudice».

«Non mi trascini su questo terreno, sono pur sempre un magistrato - ufficialmente ex ma non per me - e oggi pure imputato. Però se vuole possiamo affrontare da dietro le quinte un'altra storia ricca di anomalie del magico mondo che ho frequentato e per anni diretto».

Siamo qui per questo.

«Ha presente il caso di Mimmo Lucano?»

Domenico Lucano detto Mimmo, perito chimico, tre volte sindaco - la prima nel 2004 - di Riace, piccolo comune della costa ionica calabrese, 1.500 abitanti più 450 tra rifugiati e immigrati che lì si sono stabiliti grazie al suo innovativo modello di accoglienza che lo ha reso un eroe della sinistra e famoso nel mondo. Modello che però non ha convinto i magistrati calabresi: nell'ottobre del 2017 è indagato per truffa nella gestione dei fondi europei, concussione e abuso d'ufficio; un anno dopo viene arrestato, ai domiciliari, per favoreggiamento dell'immigrazione attraverso anche matrimoni combinati e rilascio di carte d'identità a immigrati privi di permesso di soggiorno; nell'aprile del 2019 viene rinviato a giudizio e il 30 settembre 2021 il tribunale di Locri lo condanna a tredici anni di carcere - il doppio della pena chiesta dal pm - per associazione a delinquere, peculato, truffa, falso e abuso d'ufficio.

«Perfetto. Ma questa è storia nota, poi ne parleremo. Quella su cui voglio ragionare ora è un'altra, semisconosciuta in generale e sconosciuta in alcuni importanti dettagli che i mezzi di informazione hanno snobbato - probabilmente non a caso -, al massimo diluito dentro il clamore della sentenza shock. Parlo della storia del giudice Emilio Sirianni. Emilio Sirianni, giudice della Corte di Appello di Catanzaro. Proprio lui, è uno dei duri e puri di Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura. Di più, è un falco che sulle chat interne guida la rivolta contro Giuseppe Cascini, membro del Csm e già leader di Magistratura democratica che con me ha condiviso per anni il sistema delle correnti».

Dalle chat estratte del suo telefonino anche gli accrediti gratuiti - per il figlio - della tribuna vip della Roma all'Olimpico e la raccomandazione per il fratello minore, Francesco, anche lui magistrato.

«A Sirianni tutto questo non va giù e inizia a martellare: Cascini, ma tu facevi le stesse cose di Palamara? Ma tu eri sodale di Palamara? E via dicendo, un vero processo pubblico. Alla fine Cascini sbotta: «Tu sei come Porro e Amadori (Nicola Porro, conduttore di "Quarta Repubblica" su Rete 4, e Giacomo Amadori, cronista giudiziario della "Verità", N.d.R.) che mettono insieme il contenuto delle chat di Palamara in modo strumentale. Ma alla fine si dimette da Md lanciando un avvertimento: vorrà dire che mi dovrò astenere dal valutare il procedimento aperto al Csm su Sirianni».

Un disciplinare? Per quali fatti?

«Sirianni aveva un grosso problema, la sua amicizia con Lucano. Più che una amicizia, durante tutta l'inchiesta era diventato il suo consulente legale e politico».

Mi faccia capire. Nel tribunale di Locri c'erano dei magistrati che indagavano su Lucano e a Catanzaro un magistrato che lo difendeva?

«Non lo dico io, è tutto agli atti dell'inchiesta aperta su di lui dalla procura di Locri. A Lucano Sirianni ha redatto controdeduzioni e note difensive, suggerito il tenore delle dichiarazioni da rendere alla stampa. In una occasione gli ha scritto la replica da dare a una dichiarazione del procuratore di Locri, poi gli raccomanda di cancellare subito la mail. Ma fa ancora di più. Lo mette in guardia dal parlare al telefono, un avvertimento indiretto che lo stanno intercettando, e coinvolge in questa linea di difensore occulto anche Roberto Lucisano, suo compagno di corrente e presidente della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria, uno che in teoria potrebbe essere un futuro giudice di Lucano. O almeno così gli fa credere in alcune telefonate intercettate: "Ho parlato con Lucisano, il quale mi dice che la procura di Locri sta indagando ma che su questo Magistratura democratica farà una crociata"».

A occhio ce ne è abbastanza per rimuoverlo dal suo incarico.

«Qui dobbiamo stare molto attenti a misurare le parole, o meglio a trattenerle. Per cui rimaniamo ai fatti. E i fatti dicono che la procura di Locri ha archiviato la pratica su Sirianni pur mettendo nero su bianco che "il comportamento mantenuto è stato poco consono a una persona appartenente all'ordine giudiziario, peraltro consapevole di parlare con una persona indagata"».

Non ci credo. E se devo crederci allora questo doveva valere anche per lei che parlava con l'indagato Centofanti.

«C'e una differenza abissale. Sirianni è un leader di Magistratura democratica, paladino della sinistra giudiziaria, amico e consulente dell'icona dell'accoglienza che tanto piace alla gente che piace».

Vabbè, però sul piano disciplinare il Csm avrà fatto il suo dovere.

«Assolutamente sì, lo ha prosciolto. La commissione disciplinare, il 10 luglio 2020, sentenzia che - la faccio breve - i fatti a lui imputati sono avvenuti nel privato e non in pubblico, quindi non c'e discredito per la magistratura».

Sarà, però in questa storia, e nella sentenza del Csm, mancano due tasselli.

«Questa volta il curioso sono io».

Le leggo delle intercettazioni tra Sirianni e Lucano allegate agli atti dell'inchiesta ma mai pubblicati. La prima è all'indomani di una puntata di DiMartedì in cui Giovanni Floris pone a Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, dubbi sulla fondatezza dell'inchiesta su Lucano e lui risponde laconico: «Sarei cauto, bisogna leggere bene le carte». Al telefono, Lucano sembra preoccupato delle parole di Gratteri, ma Sirianni lo rassicura: «Lascialo stare, è un fascista di merda ma soprattutto un mediocre, un mediocre e ignorante». Ce ne è anche per l'allora ministro degli Interni Marco Minniti, che in Calabria è una autorità assoluta. Per la sua politica rigida sull'immigrazione viene definito da Sirianni «uno pseudo comunista burocrate che ha leccato il c**o a D'Alema per tutta la vita».

«Strano che l'integrale di queste intercettazioni non sia mai uscito sui giornali, e ancora più strano che non siano mai arrivate al Csm, e non penso che sia stato un disguido delle poste. Penso che quelle frasi gravemente scorrette nei confronti di importanti magistrati e politici avrebbero creato dei grattacapi non solo a lui ma a tutta la sinistra giudiziaria. Oltre che ai tanti fan di sinistra di Lucano, quindi meglio era, ed è, lasciare quei verbali nel cassetto delle procure e dei giornali».

Ma esiste un'altra intercettazione, il secondo tassello di cui parlavo, che è caduta nell'oblio. È quella in cui il magistrato Sirianni ammette che chi è convintamente magistrato di Magistratura democratica non deve applicare la legge, ma interpretarla. Eccola integrale. Dice Sirianni a Lucano: «Io parto da un altro presupposto, io non credo che siamo tutti in malafede, i magistrati. La realtà è un'altra: purtroppo questi giovani magistrati sono dei ragazzi che sono cresciuti con la televisione di Berlusconi, non hanno una conoscenza della realtà sociale, non hanno una empatia politica con quello che gli succede attorno. Specialmente quelli che vengono in Calabria non sanno un cazzo della Calabria, quindi spesso e volentieri la maggior parte rimane così. Quelli che cominciano a capire quello che gli succede intorno ci mettono tempo. Questo è il sistema purtroppo. Queste sono persone che hanno studiato e che hanno vinto un concorso. Su cento di loro, uno forse ha la sensibilità sociale e politica. Tutti gli altri sono ragazzi di famiglie benestanti che hanno studiato. C'è una scarsa [...] modello di magistrato, cioè esattamente quello su cui è nata Magistratura democratica. Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte, siamo dalla parte, siamo dalla parte del più debole, perché questo è scritto nella Costituzione, non perché questa è una rivoluzione».

«In questa intercettazione - che utilizza un linguaggio che, posso immaginare, un insigne giurista come Zagrebelsky avrebbe definito lingua sporca -, c'è tutto quello che ho vissuto nei miei undici anni alla guida del Sistema che ha governato la politica giudiziaria. L'egemonia culturale di sinistra che sovrastala Costituzione, la partigianeria che interpreta la legge. Per me Sirianni non è una eccezione, ma rappresenta il comune sentire di una parte molto importante della magistratura. È la norma. È il motivo per cui quando il procuratore di Viterbo, un collega sardo - come abbiamo raccontato nel Sistema -, mi interpella molto scettico sulla posizione particolarmente dura dell'Associazione nazionale magistrati e del Csm nei confronti di Salvini che da ministro degli Interni stava bloccando i nostri porti alle navi cariche di immigrati, io gli rispondo: "Hai ragione, ma bisogna fare così". Io non volevo dare un giudizio, nel mio ruolo di leader per stare in piedi dovevo assecondare la pancia della magistratura che era, e ancora e, quella esplicitata da Sirianni nella intercettazione che mi ha letto».

Vabbè, ma allora vale tutto.

«Non siamo di fronte a dei pazzi, a delle mele marce. No, sull'immigrazione, e non solo su quello, ma certo sull'immigrazione c'è un indirizzo politico giudiziario che ha ben espresso Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica: "È semplice, gli scafisti" disse in una intervista del 5 agosto 2017 al Manifesto, "sono l'unico vettore al quale possono affidarsi in mancanza di canali legali di ingresso. Ma non sono gli scafisti che li trascinano in mare, sono loro che fuggono da immani tragedie"».

Per la verità Riccardo De Vito è più famoso per altre storie. È il magistrato che nel 2020, interpretando in maniera estensiva una circolare del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sull'emergenza Covid, ordinò la scarcerazione del boss Pasquale Zagaria, suscitando un vespaio di polemiche, e che nel 2021 fu trasferito dal Csm con procedura d'urgenza dalla sua sede a Nuoro, per incompatibilità ambientale, dopo l'intercettazione di una sua telefonata con una avvocata locale che era sotto inchiesta con tanto di trojan nel telefonino - intercettazione di cui, essendoci in mezzo un magistrato, non è mai stato reso noto il contenuto.

«Tutto vero, però torniamo al punto, quello di Lucano, che non riguarda solo i magistrati ma anche il suo mondo. Glielo dico chiaro. Io mi auguro che Mimmo Lucano riesca a chiarire nei successivi gradi di giudizio la sua posizione processuale, e pur stimando quei giudici di Locri credo che infliggere una condanna a tredici anni sia eccessivo, una enormità. Anche io credo che tredici anni a Lucano siano tanti. O meglio, pur nel pieno rispetto delle motivazioni dei giudici di Locri, depositate il 17 dicembre del 2021, non mi spiego una pena così alta viste le imputazioni contestate e il contesto nel quale le condotte dello stesso Lucano si sono verificate».

E quindi chi gliel'ha tirata così dura a Lucano? Può essere che una condanna così pesante sia la conseguenza di un braccio di ferro tra correnti della magistratura?

«Mi rifaccio alla mia esperienza: il tema dell'immigrazione implica inevitabilmente delle opzioni politiche da parte di chi e chiamato a giudicare, ma certo l'interferenza di Sirianni può essere stato l'innesco».

In ogni caso, per lei è una sentenza inquinata.

«Per rimanere dalle sue parti, Sallusti, lo ha sostenuto anche Vittorio Feltri, uno intellettualmente onesto. Io non dico che è una sentenza inquinata ma una sentenza che ha fatto molto discutere per l'enormità della pena. Ma è una enormità non inferiore ai 750 milioni circa di risarcimento a De Benedetti che il giudice Mesiano del tribunale di Milano ha inflitto a Silvio Berlusconi nella causa del lodo Mondadori. Come già le ho detto nella conversazione all'origine del libro precedente, quella sentenza venne emessa quando ero presidente dell'Anm e di quella enormità si discusse vivacemente all'interno della magistratura. Sia sotto il profilo del calcolo del danno - tanto è vero che quella cifra venne poi ridotta nel giudizio di appello -, che sotto quello della mancata revocazione della sentenza della corte d'appello di Roma del 24 gennaio 1991, che annullava il lodo in questione. Decisione rispetto alla quale, peraltro, gli altri due giudici della corte d'appello componenti il collegio avevano confermato di non aver subito alcuna interferenza. Solo che Berlusconi, a parte lei e pochi altri, è stato lasciato solo, anzi c'e stata un'esultanza generale, mentre dopo la condanna a Lucano sono scesi in campo intellettuali e giornalisti solitamente posizionati senza se e senza ma al fianco della magistratura. Anche l'enormità, l'anomalia di una sentenza dipende da chi è la vittima».

Il 2 ottobre 2021, dopo la sentenza che condanna a tredici anni Mimmo Lucano, Eugenio Mazzarella, filosofo e poeta nonché deputato del Pd, lancia un appello - e una raccolta di fondi - in difesa dell'ex sindaco di Riace e contro la sentenza. Appello sottoscritto da decine di intellettuali, scrittori e giornalisti di sinistra.

«Tutta gente che conosco bene, erano i miei migliori alleati quando si trattava di impedire la riforma della giustizia e appoggiare i processi sommari alle abitudini private di Berlusconi. Io so come vengono organizzate queste cose, ho fatto parte di quel mondo ed ero anche riverito, e non importa se oggi moltissimi hanno preso ipocritamente le distanze. Li ho usati, mi hanno usato, fanno i rivoluzionari ma sono parte fondamentale del Sistema che abbiamo portato allo scoperto. Un sistema in cui ognuno gioca la sua parte. Anche persone che, come racconteremo adesso, non ti aspetteresti mai di incontrare lì».

Anteprima: un estratto del libro “Lobby&Logge” il seguito de”Il Sistema” di Palamara e Sallusti. Il Corriere del Giorno l'8 Febbraio 2022.  

Pubblichiamo in anteprima un estratto del libro «Lobby & logge – Le cupole occulte che controllano “Il Sistema” e divorano l’Italia», di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, edito da Rizzoli e da oggi nelle librerie. Il volume è il seguito de «Il Sistema», degli stessi autori, che uscì nel gennaio 2021 e squarciò il velo su alcuni dei mali della giustizia italiana.

Nel nuovo libro di Sallusti e Palamara, “Lobby e logge”, la ricostruzione del caso Morisi, collaboratore di Matteo Salvini. Una vicenda “insignificante” per il magistrato ma che piombò in piena campagna elettorale

Lunedì 27 settembre 2021, manca meno di una settimana alla tornata elettorale per le amministrative di Milano, Roma, Napoli, Torino, Bologna e di altre decine di comuni. Quel giorno arriva la notizia che un signore di mezza età è indagato per una vicenda poco chiara, un festino a base di droga. Una notizia come tante, se non fosse che quel signore è Luca Morisi, quarantotto anni, da Mantova, braccio destro di Matteo Salvini, che in quella campagna elettorale si sta giocando molto. Di più, Luca Morisi è considerato il vero artefice dell’ascesa del leader del Carroccio, di quel balzo dal 4 al 30 per cento in pochi anni. È lui che ha ideato per l’amico Matteo il soprannome “Il Capitano“, soprattutto è lui ad aver messo in piedi quello che poi diventerà “la Bestia”, la più grande ed efficiente macchina social al servizio di un politico – quasi cinque milioni di utenti fissi – a cui si deve in gran parte la fortuna di Salvini.

Pochi giorni prima che la notizia diventasse pubblica, Morisi a sorpresa si era dimesso da ogni incarico adducendo vaghi «motivi personali». Sapeva invece di essere indagato dalla procura di Verona per una «cessione di stupefacenti», fatto probabilmente avvenuto la vigilia di Ferragosto nella sua abitazione di Belfiore, alle porte di Verona, dove aveva convocato via web un paio di giovani escort uomini, dopo averli agganciati su un sito di incontri. Fatti personali, insomma, che la procuratrice di Verona Angela Barbaglio da subito definisce «assolutamente banali», al punto che il 30 novembre, pur senza aver mai chiarito in che modo Morisi sia stato incastrato in questa vicenda, chiederà l’archiviazione «per la particolare tenuità del fatto». 

Ma né banale né tenue è il clamore mediatico che irrompe e inquina le ultime ore di campagna elettorale, provocando un grave danno alla Lega che in quei giorni di settembre rievoca a gran voce un concetto assai noto, quello della giustizia a orologeria per fini politici. La stessa procuratrice Barbaglio, a caldo, si sente in dovere di affidare al “Corriere della Sera” la sua difesa: “In questa procura non c’è stata alcuna fuga di notizie, ne sono più che certa”.

Dottor Palamara, a suo avviso quella della dottoressa Barbaglio è una dichiarazione sincera o potrebbe rientrare nella fattispecie «excusatio non petita, accusati o manifesta»?

Per esperienza personale posso dirle che in quel momento c’era bisogno di un giornale al di sopra di ogni sospetto che rassicurasse l’opinione pubblica sul fatto che l’operato della magistratura nella vicenda Morisi fosse stato corretto, senza alcun pregiudizio nei confronti di Salvini. E da questo punto di vista l’operazione mi sembra sia perfettamente riuscita, anche perché finire sul «Corriere» o sulla «Repubblica» certamente non dispiace a nessun magistrato, nemmeno a chi non ama l’esposizione mediatica come la Barbaglio (che nominammo procuratore a Verona grazie a un accordo blindato tra la mia corrente e quella della sinistra giudiziaria, escludendo quella di destra). Detto questo, penso però che il problema sia un altro: un procuratore della Repubblica, come qualsiasi altro magistrato, ben dovrebbe sapere quello che avviene fuori dalla torre eburnea dei palazzi di giustizia, e cioè che le fughe di notizie, come a volte le lobby che agiscono dentro il Sistema, servono non solo a pregiudicare le indagini, ma spesso a incastrare con successo qualcuno. In questo senso il caso Morisi andrebbe ben studiato, perché potrebbe fare scuola.

Perché dice questo?

C’è un vizio all’origine della vicenda, ovvero su come i Carabinieri arrivano nella villetta di Belfiore. Si è detto che qualcuno dei partecipanti alla festa li abbia chiamati, ma prima si era parlato di un controllo casuale sull’auto dei due giovani, che a cose fatte stavano rientrando a casa. Insomma, bisogna capire bene ed escludere, per esempio, che le forze dell’ordine siano andate lì a colpo sicuro su una soffiata di qualche informatore, qualcuno che essendo venuto a conoscenza del «vizietto» di Morisi da tempo monitorava le sue mosse. Ma la prego, non mi faccia fare l’investigatore, oggi non è piu il mio mestiere.

D’accordo, quindi?

Quindi bisogna fare una premessa e un salto indietro. La premessa è questa: forse non tutti sanno che le indagini le coordina sì il procuratore, ma sul campo le svolgono gli uomini della sua polizia giudiziaria, cioè carabinieri, finanzieri o poliziotti. I quali possono autonomamente acquisire una notizia di reato, salvo poi riferire senza ritardo al pubblico ministero sull’attività svolta. 

Questa la premessa. Veniamo al salto indietro.

Siamo nell’agosto del 2015. Matteo Renzi, andato al governo l’anno precedente, propone una riforma della giustizia apparentemente marginale ma rivoluzionaria nella sostanza, una delle tante iniziative che non gli attirerà le simpatie della magistratura. Fino ad allora gli uomini delle forze dell’ordine al servizio dei procuratori erano tenuti al segreto assoluto rispetto alle indagini del loro ufficio; con Renzi vengono autorizzati a parlare con la loro scala gerarchica, sia pure per sommi capi.

E questo cosa comporta?

Che il magistrato non è più l’unico depositario della notizia sull’esistenza di una certa indagine, del suo contenuto e del suo sviluppo. Perché il carabiniere che sta facendo le indagini per conto del procuratore può parlarne al suo colonnello, il colonnello informerà il suo generale e cosi su su per tutta la scala gerarchica fino ad arrivare al comandante generale. I vertici delle tre forze – Carabinieri, Finanza, Polizia – sono quindi in grado di sapere che cosa si sta muovendo nelle procure, e fin qui nulla di male. E allora dove è l’inghippo, detto che nel 2018 la Corte Costituzionale ha in parte rivisto quella legge togliendo l’obbligatorietà di questo meccanismo? Formalmente non c’è inghippo. Ma le ricordo che, come esiste un problema di nomine all’interno della magistratura, esiste un problema di nomine anche in riferimento ai vertici delle forze di polizia, che inevitabilmente finiscono per avere i propri referenti politici – i ministri della Difesa, dell’Interno e dell’Economia – e sono nominati dal governo di turno. Voglio dire che tra i vertici militari e la politica c’è un legame che va oltre quello istituzionale, fatto anche di riconoscenza e quindi di una certa, diciamo così, unità di intenti e visioni, sia pure ufficialmente dentro un’autonomia e distinzione di ruoli. E poi c’è un altro problema. Quando una notizia risale la scala gerarchica, a ogni tappa c’è un rischio di fuga di notizie casuale o voluto, perché a ogni tappa sono in agguato i servizi segreti, le lobby politiche ed economiche, ognuna delle quali ha i propri giornalisti di riferimento. Quindi, per tornare all’esempio da cui siamo partiti, può essere che la procuratrice di Verona abbia ragione quando dice di essere certa che sul caso Morisi dal suo ufficio nulla sia trapelato, ma il problema come le dicevo è che la talpa può essere altrove.

Altrove dove?

Provo a essere più chiaro. Qualcuno, lungo quella trafila che abbiamo raccontato, si è accorto che Luca Morisi, personaggio non noto per il suo nome, era quel Luca Morisi, e che quindi colpire lui significava indebolire Salvini. Così un «fatto assolutamente banale» diventa un affare di Stato, costruito e veicolato sopra la testa del magistrato che stava indagando e che già di fatto aveva deciso – e forse proprio questo era il problema – che si stava parlando del nulla, e che quindi nel nulla sarebbe restato. Per il sistema giustizia-politica, che certo non ama Salvini, era invece un boccone troppo ghiotto, e sarebbe stato da stupidi lasciarlo nelle mani di un procuratore estraneo a questi giochi di potere e che riteneva la vicenda sepolta, cosa che normalmente avviene nel caso dei fascicoli routinari, come vengono considerati quelli al confine tra uso personale di sostanza stupefacente di modica quantità e illecito. In altre parole, se fosse stata considerata una questione seria e rilevante, quella notizia si sarebbe diffusa nella immediatezza dei fatti. Per qualcuno, però, bisognava aspettare il momento giusto. 

In effetti i fatti accadono ad agosto e la fuga di notizie avviene solo due mesi dopo, a ridosso delle elezioni. Ma anche questa può essere una coincidenza, il suo è solo un teorema.

Un teorema? Mi viene in mente la vicenda del generale Adinolfi, amico di Renzi, candidato nel 2015 a diventare comandante della Guardia di Finanza e poi bruciato da una fuga di notizie pubblicata ancora dal «Fatto Quotidiano» su una sua amichevole telefonata con Renzi – intercettata sulla base di un’ipotesi di reato di corruzione risultata poi infondata, c’era stato uno scambio di persona – nella quale non c’era nulla di penalmente rilevante. E sul fatto che, nel 2011, avrebbe avvertito Luigi Bisignani di una inchiesta che lo riguardava sulla loggia P4, cosa sostenuta da Marco Milanese, ex ufficiale della Guardia di Finanza poi diventato braccio destro dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti e a sua volta indagato per corruzione. Un groviglio pazzesco da cui Adinolfi, tanto per cambiare, è uscito assolto. Ma tutto questo ha cambiato la sua storia personale e gli equilibri dentro la Guardia di Finanza.

Generali, politici, faccendieri, inchieste più o meno campate in aria, quotidiani che si prestano al gioco della fuga di notizie. Di che cosa stiamo parlando?

Del buco nero della democrazia. Il meccanismo è sempre lo stesso, fare terra bruciata attorno all’obiettivo. Colpi[1]re Morisi per fare male a Salvini, colpire Adinolfi per andare addosso a Matteo Renzi, un premier non amato dalla magistratura e dai servizi segreti, su cui lui avrebbe voluto mettere le mani a modo suo, cioè rottamando l’esistente. 

E perché nessuno finisce sotto accusa? Non dovrebbe essere poi così difficile individuare i colpevoli di una fuga di notizie. Immagino abbia letto cosa scriveva a proposito il pm Nicola Gratteri, già ministro della Giustizia in pectore del governo Renzi, uno dei magistrati più esperti d’Italia, sulla rivista «MicroMega» nel luglio 2014: «Per quanto riguarda le altre questioni su cui generalmente ci si divide, come la fuga di notizie e la pubblicazione delle intercettazioni, bisogna parlarne con cognizione di causa. Cosa è oggi una intercettazione? Non è altro che una canzone, un file audio in tutto simile a quelli che scarichiamo da internet. C’è un software, su un determinato computer, che intercetta quaranta, cinquanta telefonate che diventano appunto file audio. Se questo file viene copiato e salvato su una chiavetta usb per farne uso improprio, tipo consegnarlo a un giornalista o a chi per lui, se cioè c’è una fuga di notizie in fase di indagine, la cosa è tracciabilissima e assolutamente controllabile. Quando scarico una canzone e poi la salvo da qualche parte, un tecnico può facilmente ricostruire giorno, ora, minuto e secondo in cui ciò è accaduto». Non serve cambiare le leggi, basterebbe vedere quale responsabile era di turno in quel momento nella sala dove avvengono le registrazioni o le trascrizioni.

È fuor di dubbio, ha ragione Gratteri. Ma sono poche le volte in cui la sua ricetta viene applicata, e di solito accade non quando il “Sistema” va addosso a qualcuno, ma viceversa, quando qualcuno pensa di poter attaccare il Sistema. Di recente, per esempio, è accaduto all’ex maggiore dei Carabinieri Giampaolo Scafarto, in servizio alla procura di Napoli agli ordini del pm Woodcock, accusato di aver svelato al vicedirettore del «Fatto Quotidiano» Marco Lillo atti coperti dal segreto istruttorio del caso Consip, compresa l’iscrizione sul registro degli indagati del comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. Ma nella pratica è molto difficile che i magistrati si indaghino tra loro, o indaghino sui rispettivi uomini, per ovvi motivi di appartenenza alla stessa casta e perché se così accadesse ne rimarrebbero in piedi ben pochi. Lei a tal proposito dovrebbe ben saperlo: a distanza di quasi trent’anni, era il 1994, non ci ha ancora detto chi della procura di Milano ha passato al «Corriere della Sera», dove lei lavorava, la notizia, anzi di più, addirittura la fotocopia dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi – primo a un premier in carica – impegnato in quei giorni a presiedere un vertice internazionale a Napoli insieme ai grandi della Terra. Fu una operazione chirurgica, fatta in quel modo e in quel giorno solo per fare il più male possibile a un nemico politico del Sistema. 

Se Goffredo Buccini,il collega che gestì materialmente quello scoop, ha ritenuto di non svelare il segreto neppure nel libro che ha appena dato alle stampe (Il tempo delle mani pulite: 1992-1994), dove ricostruisce anche quei giorni, non posso essere certo io a farlo. Lo vede?

Lo vede? Lei in quel momento, magari a sua insaputa, faceva parte del Sistema, e ancora oggi lo protegge trincerandosi dietro al segreto professionale. Funziona così, inutile girarci tanto attorno. E guardi che io so anche un’altra cosa su quella fuga di notizie.

Sentiamo.

Che la mattina in cui uscì l’articolo lei venne avvertito in modo discreto che di lì a poco avrebbero perquisito casa sua in cerca della fotocopia e di alcuni nastri di registrazione, da cui sarebbe stato forse possibile, ammesso di averne la volontà, risalire al procuratore o al carabiniere infedele. Avvertimento che le permise di disfarsi di quel materiale, che uscì di casa nella borsetta di sua moglie e finì poi bruciato nel cesso del di lei parrucchiere.

Non confermo e non smentisco, ma su questo so per certo che di quell’avviso di garanzia fu informato anche l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il quale non fece nulla per fermarlo, o almeno ritardarlo visto che in quelle ore Berlusconi era su un palcoscenico internazionale.

Tutto da manuale. Quando il Sistema – magistratura, politica e informazione – decide una cosa non c’è niente da fare, marcia all’unisono e i vari attori si coprono a vicenda pur facendo magari finta di indignarsi gli uni con gli altri. Se può consolarla, le dico che è una recita a cui per anni ho partecipato anche io, e pure con un certo successo.

Amara e Montante, le rivelazioni di Palamara: «Così il Sistema ha colpito ancora». L'ex capo dell'Anm Luca Palamara, nel suo nuovo libro scritto con Alessandro Sallusti, racconta le trame che si celano dietro a nomine e procedimenti disciplinari, dove nulla è quello che sembra. Simona Musco su Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

Procure che usano i pentiti e pentiti che usano le procure. Giustizia fai da te, ritorsioni e manie di persecuzione. C’è tutto questo nel nuovo libro di Luca Palamara, “Lobby & Logge”, libro attraversato da un lungo filo rosso che dal 1992 porta ad oggi. Da quando, ovvero, si consumarono gli attentati ai danni di Falcone e Borsellino, oggi osannati e ieri osteggiati proprio nelle stanze di quello che dovrebbe rappresentare il palazzo più alto della magistratura. Quel Csm che, a detta di Palamara, prima regista e poi vittima delle manovre del Sistema, agirebbe seguendo logiche che poco o nulla hanno a che fare con la giustizia.

Da quel Sistema l’ex capo dell’Anm sarebbe stato espulso per aver osato pensare di spostare «l’asse della politica giudiziaria da sinistra a destra». E per farlo fuori, dice, è stato usato un trojan, una microspia inserita nel suo cellulare attraverso quello che definisce uno stratagemma: un’accusa di corruzione formulata tempo prima – nel 2018 – da Giancarlo Longo, l’ex pm finito al centro del “Sistema Siracusa”, che al procuratore di Messina racconta di aver sentito dire «che io, Luca Palamara, avrei preso 40.000 euro per nominarlo procuratore di Gela».

La nomina non avvenne mai, anzi, Longo non fu mai in gara per quel posto. In quel verbale, racconta Palamara, «Longo parlerà anche di Pignatone, ma questa parte verrà omissata e a Perugia – cioè alla procura che deve indagare sui magistrati di Roma – verrà trasmessa solo la parte a me relativa, che riemergerà alla vigilia dell’elezione del nuovo procuratore di Roma». Siamo, dunque, nel 2019, quando Palamara, l’ex ministro Luca Lotti, il deputato Cosimo Ferri e altri cinque consiglieri del Csm si riuniscono all’Hotel Champagne per parlare di chi prenderà il posto di Giuseppe Pignatone a Roma.

L’accusa di corruzione viene allora riesumata, perché essersi fatto pagare viaggi e cene dall’imprenditore Fabrizio Centofanti non basta per installare un trojan sul cellulare di un indagato. La spiegazione, secondo Palamara, starebbe nella sua scelta di voler chiudere per sempre con l’era dell’ex procuratore. «È una nomina in cui io, ancora a capo del Sistema, non seguo per la prima volta i desiderata di Pignatone. Lui come successore vorrebbe il palermitano Franco Lo Voi oppure il suo braccio destro Michele Prestipino, io un papa straniero, il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il cui nome verrà bruciato durante la famosa cena dell’Hotel Champagne dell’ 8 maggio 2019».

Quella notte trascina Palamara verso il fondo, mentre il Sistema continua a lavorare. E l’ennesimo meccanismo sarebbe rappresentato da Piero Amara, legale esterno dell’Eni, che con le sue dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria ottiene due risultati: spacca la procura di Milano e il Csm, facendo venire alla luce ancora una volta il ruolo dei giornali nel gioco di potere di nomine e carriere, dalla loro nascita alla loro morte. «È certo che Amara usa le procure, che a loro volta in alcuni casi lo utilizzano, tipo alcuni pentiti di mafia che all’occorrenza si ricordano di aver incontrato questo o quel politico e in cambio ottengono qualche agevolazione, o quantomeno un’attenzione nuova».

Amara spunta fuori un po’ ovunque. Parte da Roma, dove a voler indagare su di lui è Stefano Fava, che viene però fermato. Il pm presenta un esposto al Csm contro Pignatone denunciando i rapporti del fratello con il legale, esposto che finirà nel nulla, mentre Fava, invece, finisce a Latina a fare il giudice civile, con la carriera azzoppata per sempre. È a Perugia, nel processo contro Palamara. E prima passa da Milano, dove fa i nomi dei presunti componenti di una loggia capace di gestire le nomine nei luoghi strategici delle istituzioni. Nomi che, per lungo tempo, rimangono un mistero. Ma non tutti vengono trattati allo stesso modo: le dichiarazioni con le quali Amara paventava presunti rapporti tra il presidente del collegio del processo Eni-Nigeria (finito con l’assoluzione di tutti gli imputati), Marco Tremolada, vengono inviate a Brescia, ma nessuno finisce per essere indagato, nemmeno lo stesso ex legale.

Quello di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm ed ex amico di Piercamillo Davigo, finisce invece sulla bocca di tutti a Palazzo dei Marescialli, quando quei verbali passano dal pm Paolo Storari a Davigo – come forma di autotutela per la presunta inerzia dei vertici della procura – che informa diversi componenti del Consiglio. «Perché metterlo lì (il nome di Ardita, ndr), in cima alla lista? Una casualità? Può essere, ma c’è un’altra possibilità. Infangare e screditare il nome di Ardita, e Davigo una volta venuto in possesso di quei verbali coglie l’occasione di farlo sapere a tutti». Quei verbali, alla fine, vengono spediti – secondo la procura di Roma dalla segretaria di Davigo – alla stampa, che però tiene la pistola caricata a salve. Un altro pezzo del Sistema, dice Palamara. Secondo cui il caso Amara non è diverso da quello di Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia.

«Il Csm, dove io stavo all’epoca dei fatti, non ha avuto il coraggio e in ogni caso non è stato messo nelle condizioni di potere approfondire i rapporti tra Montante e alcuni magistrati», dice Palamara. Amara e Montante hanno in comune la provenienza e i rapporti con Eni. Quest’ultimo frequenta politici, ministri, alti prelati, magistrati e giornalisti «e in breve diventa il paladino dell’antimafia». Crea dossier su tutti. E a casa sua viene trovata un pen drive con dei «file che ricostruiscono minuziosamente rapporti non proprio limpidi con dieci magistrati di Caltanissetta». «In altre parole uno sputtanamento per il gotha dell’antimafia siciliana», scrive l’ex pm nel suo libro.

Le indagini penali non portarono a nulla, ma il fascicolo finisce al Csm. E dopo mesi di silenzi il Corriere della Sera ne dà notizia. Anche questa sarebbe una mossa ad orologeria, spiega Palamara, per poter uscire dall’imbarazzo e insabbiare tutto. «Facciamo, come è ovvio che sia, le audizioni dei due procuratori, quello di Catania Carmelo Zuccaro e quello di Caltanissetta Amedeo Bertone. Tra imbarazzi e frasi di circostanza non si cava un ragno dal buco, ma anche perché nessuno in realtà vuole cavarlo. Anzi, si prende atto che secondo entrambi i procuratori la fuga di notizie pubblicata dal “Corriere della Sera” ha gravemente compromesso la possibilità di compiere ulteriori accertamenti e nuove indagini. Una scusa che tutti facciamo finta di prendere per buona. E la cosa finirà lì, nessun provvedimento verrà preso nei confronti di Scarpinato, Lari e di tutti gli altri magistrati coinvolti».

Le cupole occulte che controllano il "Sistema". Ecco come il Csm graziò Piero Grasso, la rivelazione in Lobby e logge il nuovo libro di Palamara e Sallusti. Redazione su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Per gentile concessione degli autori e dell’editore, anticipiamo qui di seguito uno stralcio del nuovo libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, intitolato “Lobby e logge”, che uscirà oggi in tutte le librerie fisiche e digitali per i tipi di Rizzoli. «Ho deciso di scrivere questo libro – spiega l’ex leader dell’Anm al Riformista – dopo la divulgazione dei verbali sulla Loggia Ungheria. Ci si è concentrati, dopo i fatti dell’hotel Champagne, solo ed esclusivamente sulla Procura di Roma. Io credo sia il caso di approfondire anche altri aspetti, ad iniziare proprio dalla Loggia Ungheria. Come sono state fatte le indagini su Ungheria ? Penso sia il caso di fare una riflessione al riguardo». Ideale sequel de “Il sistema”, il nuovo saggio scritto dal direttore di “Libero” e dall’ex magistrato contiene tra gli altri un capitolo significativamente intitolato “Chi ha impupato i pupi? La tratta dei pentiti e i magistrati graziati”. Qui di seguito la prima parte dell’intervista.

«I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile» diceva Paolo Borsellino. E Giovanni Falcone la pensava allo stesso modo, convinto che solo una legislazione premiale per coloro che intendessero collaborare con la giustizia poteva aiutare lo Stato a combattere le mafie. Eppure, dottor Palamara, le cose non sono sempre andate per il verso giusto.

Falcone e Borsellino avevano aperto una nuova strada, quella dell’utilizzo dei pentiti. Tommaso Buscetta, il mafioso considerato il primo vero collaboratore di giustizia italiano, fu avvicinato nel 1984 in un carcere brasiliano da Falcone, che lo convinse ad aiutarlo a disegnare la mappa della mafia siciliana. Fu una svolta, e lo si deve al rigore con cui Falcone verificò il suo racconto. Su quella strada si avventurarono poi tanti magistrati, non sempre con il rigore e la trasparenza necessarie.

In che senso?

Nel senso che si aprì una caccia al pentito, e a molti mafiosi arrestati non parve vero di utilizzare la scorciatoia del pentimento per altri fini, cioè parlare per vendicarsi o per compiacere le tesi di chi li stava gestendo, magistrati, ufficiali di polizia o uomini dei servizi che fossero. Ma soprattutto, cosa non nota, dentro la magistratura si aprì uno scontro sotterraneo per il loro controllo tra la Direzione nazionale antimafia, la superprocura immaginata da Falcone, e le procure territoriali gelose della loro autonomia. Gli effetti di questo braccio di ferro a volte sono stati devastanti e hanno inciso anche sulla vita politica del Paese e sugli equilibri interni alla magistratura.

Parliamone, da dove si incomincia?

Difficile trovare un inizio, ma il caso di Gianfranco Donadio potrebbe fare scuola.

Gianfranco Donadio, ex procuratore nazionale antimafia, oggi, dopo le disavventure in cui è incappato, procuratore a Lagonegro, in Basilicata.

Proprio lui. È stato accusato di svolgere inchieste parallele a quelle della magistratura ordinaria per provare a dimostrare che dietro agli attentati di mafia dei primi anni Novanta, in particolare quello a Falcone, c’era stato lo zampino dei servizi segreti legati al mondo della destra eversiva. Intorno al 2016 Donadio va nelle carceri, all’insaputa delle procure competenti, in particolare quelle di Catania e Caltanissetta, e interroga, compilando rapporti investigativi segreti, centodiciannove mafiosi, il più delle volte da solo, per cercare un mandante a quelle stragi. Secondo l’accusa si tratta di inchieste che consentono a un solo magistrato di fare ciò che vuole senza controlli, di accumulare conoscenze non condivise e – come successivamente accertato – a volte contraddittorie con gli atti ufficiali. È lecito acquisire informazioni in questo modo? È corretto che alcuni magistrati, e la Direzione nazionale antimafia, abbiano notizie sensibili prima degli altri e in esclusiva, che le procure locali siano tagliate fuori da questo flusso di informazioni? Quando il caso Donadio venne a galla il Csm dovette prendere posizione. Ma apparve subito chiaro che avevamo un problema.

Quale problema?

Donadio agiva, o almeno era logico supporlo, per conto di Pietro Grasso, all’epoca dei fatti suo capo alla Direzione nazionale antimafia e in quel momento già presidente del Senato. Si creò quindi un conflitto tra i procuratori ordinari, che accusavano Donadio di invasione di campo non autorizzata, e la seconda carica dello Stato, con il Csm in mezzo a dover dirimere la questione oggettivamente anomala.

E per di più con di mezzo un uomo che, oltre a essere potente, ha sempre saputo ben destreggiarsi. Su Pietro Grasso fa scuola quanto raccontato da Marcello Dell’Utri, che in gioventù giocò nella squadra di calcio giovanile Bacigalupo di Palermo, insieme a Grasso e al figlio del boss mafioso Tanino Cinà, e nella quale il boss Vittorio Mangano, poi noto come «lo stalliere di Arcore», svolgeva il ruolo di dirigente: «Grasso, quando era giovane, giocava a calcio nella mia squadra» – sono le parole di Dell’Utri – «ed era famoso perché a fine partita usciva sempre pulito dal campo: anche quando c’era il fango, lui riusciva sempre a non schizzarsi…».

Ecco, appunto. Grasso non ama gli schizzi e per noi al Csm era una pratica molto delicata, perché Donadio sosteneva che quello che aveva fatto era condiviso da Grasso. Un fatto grave, sul quale anche la procura generale della Cassazione, pressata dai procuratori imbufaliti, aprì un’inchiesta.

Come finisce questa storia?

La storia finisce che al Csm il fascicolo rimane immobile fino a quando diventa inevitabile convocare Pietro Grasso. Qualcuno lo vuole incastrare al fatto che lui non si fidasse dell’operato dei magistrati di Catania e Caltanissetta e per questo avesse sguinzagliato i suoi uomini per le carceri italiane a cercare verità più vere; altri sostengono che non si può danneggiare il presidente del Senato, soprattutto se amico del presidente della Repubblica. Tanto per essere chiari: condannare Donadio avrebbe significato condannare Grasso.

Scommetto, Donadio sarà assolto.

Scommessa vinta. Grasso davanti alla commissione disciplinare spiega che non si era trattato di una inchiesta parallela per chissà quali fini, ma di prerogative della Direzione nazionale antimafia che in qualche modo consentivano queste cose, e pure di utilizzare persone legate ai servizi segreti. Noi non obiettiamo e Donadio sarà salvato, finirà procuratore a Lagonegro.

Non mi sembra un premio.

Non lo è, ma per come era messo è il massimo che si poteva fare. Andò peggio ad Alberto Cisterna, ex numero due della Direzione nazionale antimafia, rovinato per la gestione di un pentito mentre era a Reggio Calabria in conflitto con il procuratore Giuseppe Pignatone, e a Filippo Spiezia, delegato nel 2014 della Dna a occuparsi della pro-cura di Milano, che in una relazione ufficiale osò contestare alla pm Ilda Boccassini una serie di violazioni degli obblighi di collaborazione sulla gestione delle indagini di mafia con i colleghi e con i suoi stessi sostituti. Un caso Donadio all’incontrario, cioè una procura locale, la potente e intoccabile procura di Milano, che nega informazioni sensibili alla Direzione nazionale. Spiezia non aveva santi in paradiso e nel giro di pochi giorni fu trasferito dal Csm ad altri incarichi – salvo poi essere successivamente gratificato con una importante nomina a Eurojust.

«Il Csm salvò il pm Donadio per non condannare Grasso». Nel nuovo libro di Palamara la vicenda del magistrato antimafia. Ecco perché le procure lo hanno denunciato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

«È doveroso premettere che il medesimo (pentito Vito Lo Forte, ndr), prima di tale interrogatorio, era stato più volte sottoposto a colloqui investigativi sul medesimo tema, sempre da parte di un magistrato della Dna, così come va rimarcato che egli, nei verbali illustrativi e negli interrogatori precedentemente resi alle varie Ag, non aveva mai fatto cenno, seppur genericamente, alle circostanze di cui adesso parlava in modo così dettagliato». È uno dei tanti passaggi della richiesta di archiviazione da parte della procura di Catania, in merito alla vicenda di Giovanni Aiello, etichettato come “Faccia da mostro”. In sostanza, così come denunciato anche dall’ennesima richiesta di archiviazione da parte della procura di Caltanissetta, i pentiti hanno cominciato a ricordare dettagli, solo dopo esser stati sentiti dall’allora magistrato della Dna. Un’invasione di campo, a detta dei magistrati delle due procure, che ha creato grossi problemi. Il caso era arrivato al Csm. Il magistrato è Gianfranco Donadio, l’anno scorso intervistato in prima serata dal programma Atlantide su La Sette a discettare delle stragi ( veniva pubblicizzato il libro di Lirio Abbate) dando molto credito a Nino Lo Giudice, altro pentito che veniva ascoltato da lui stesso, mentre era però sotto il vaglio delle procure.

Il nuovo libro “Lobby e Logge”, di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, dà una notizia fino ad oggi sconosciuta. Non solo il Csm ha assolto il magistrato Donadio dai fatti denunciati dalle procure, ovvero che andava nelle carceri interrogando taluni pentiti mentre però erano al vaglio di Catania e Caltanissetta, ma spiega anche il motivo. Palamara precisa che Donadio agiva, o almeno era logico supporlo, per conto di Pietro Grasso, all’epoca dei fatti suo capo alla Direzione nazionale antimafia e in quel momento già presidente del Senato. «Si creò – svela Palamara quindi un conflitto tra i procuratori ordinari, che accusavano Donadio di invasione di campo non autorizzata, e la seconda carica dello Stato, con il Csm in mezzo a dover dirimere la questione oggettivamente anomala».

Sempre Palamara, sottolinea: «Grasso non ama gli schizzi e per noi al Csm era una pratica molto delicata, perché Donadio sosteneva che quello che aveva fatto era condiviso da Grasso. Un fatto grave, sul quale anche la procura generale della Cassazione, pressata dai procuratori imbufaliti, aprì un’inchiesta». Come finì? Palamara rivela che il Csm ha convocato Grasso, il quale avrebbe spiegato che non si era trattato di una inchiesta parallela per chissà quali fini, ma di prerogative della Direzione nazionale antimafia che in qualche modo consentivano queste cose, e pure di utilizzare persone legate ai servizi segreti. Il Csm non ha obiettato e Donadio fu salvato. Il massimo che è stato fatto è stato mandare il magistrato a svolgere il suo servizio a Lagonegro. A detta di Palamara, condannare Donadio avrebbe significato condannare Grasso. Sarebbe stato questo il motivo per cui decisero di archiviare la pratica. La vicenda che era stata presa in esame, poi finita nel nulla, rivela che la magistratura ha grossi problemi interni. E a rimetterci sono i magistrati seri. La denuncia è chiara e si legge nelle richieste di archiviazione sulla vicenda di “Faccia da mostro”, plurindagato ma mai inquisito perché non è mai stato trovato nulla. Un uomo che è morto da qualche anno, ma nell’immaginario collettivo – grazie anche ai mass media – rimane come il Killer al servizio della mafia e servizi segreti deviati che avrebbe partecipato a diversi omicidi e perfino alle stragi. I pentiti che lo hanno accusato, risultano però – grazie al vaglio certosino delle procure di allora – privi di attendibilità. Scrive nero su bianco il procuratore di Catania nella richiesta di archiviazione: «Simili dettagliate dichiarazioni, del tutto inedite, ingenerano fortissimi dubbi quanto alla genuinità ed all’attendibilità, soprattutto perché risultano precedute da più di un colloquio investigativo». E parliamo del colloquio intrapreso da Donadio per conto della Dna di allora.

Parliamo del periodo che va dal 2013 al 2015 e nella richiesta di archiviazione, la procura di Catania ha inserito una tabella per far comprendere la dimensione del problema. «Come si può notare – scrive la procura -, nonostante fossero state già avviate le indagini dalle Ag competenti, venivano svolti colloqui investigativi con i medesimi collaboratori che poi avrebbero dovuto essere escussi ( o che lo erano già stati) nell’ambito dei procedimenti iscritti in merito agli stessi fatti». Cosa ha generato tutto ciò? Nero su bianco, la procura scrive: «Non può non rivelarsi in proposito come le valutazioni in ordine all’attendibilità intrinseca dei collaboratori di giustizia e dei dichiaranti sopra indicati, escussi nel corso delle indagini nel procedimento iscritto contro Giovanni Aiello (“faccia da mostro”, ndr), risultino gravemente compromessi alla luce della quasi contemporanea effettuazione dei colloqui investigativi sopra indicati».

Ora, grazie alla rivelazione di Palamara, sappiamo che per il Csm è stato tutto lecito. Il magistrato Donadio poteva farlo e i suoi colloqui investigativi rientravano nelle prerogative dalla Dna. Non solo. La commissione parlamentare antimafia lo ha premiato prendendolo come consulente per le inchieste sul fenomeno di mafia. Il Sistema, nel nostro Paese, funziona così: la stessa corporazione che non ha dato seguito agli elementi ( utili per aprire un’istruttoria) forniti da Fiammetta e Lucia Borsellino, le figlie del giudice ucciso in Via D’Amelio.

"Lobby e logge", l'anticipazione del libro. Così Csm e Cassazione affossarono l’inchiesta su Borsellino, la rivelazione nel libro di Palamara. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

Per gentile concessione degli autori e dell’editore, anticipiamo qui di seguito uno stralcio del nuovo libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, intitolato “Lobby e logge”, che è uscito ieri in tutte le librerie fisiche e digitali per i tipi di Rizzoli. «Ho deciso di scrivere questo libro – spiega l’ex leader dell’Anm al Riformista – dopo la divulgazione dei verbali sulla Loggia Ungheria. Ci si è concentrati, dopo i fatti dell’hotel Champagne, solo ed esclusivamente sulla Procura di Roma. Io credo sia il caso di approfondire anche altri aspetti, ad iniziare proprio dalla Loggia Ungheria. Come sono state fatte le indagini su Ungheria? Penso sia il caso di fare una riflessione al riguardo». 

Possiamo parlare di lobby di magistrati che gestiscono i pentiti?

Certamente sono dei mondi chiusi e ben difesi da chi li abita. Un pentito vale oro, purtroppo anche quando mente come nel caso di Vincenzo Scarantino.

Vincenzo Scarantino, classe 1965, mafioso di basso livello, viene arrestato per spaccio di droga il 29 settembre 1992. Due mesi dopo si dichiara pentito e inizia a collaborare sostenendo che il suo clan riforniva di droga Silvio Berlusconi, un’accusa incredibile subito scartata. Nel giugno del 1994 il colpo di scena: si autoaccusa della strage in cui morì il giudice Borsellino e fa i nomi dei complici. Al processo, iniziato nel 1999, il tribunale di Caltanissetta emetterà nove sentenze di ergastolo e una a diciotto anni per Scarantino. Ma c’è un problema: non era vero nulla, ma proprio nulla. Lo si scopre nel 2008 quando un altro pentito, Gaspare Spatuzza, sbugiarda Scarantino e racconta tutt’altra storia. Di fronte all’evidenza lo stesso Scarantino ammetterà di essersi inventato tutto.

È sicuramente una delle pagine più buie e vergognose della giustizia italiana. Che Scarantino non fosse attendibile se ne era accorta all’epoca dei fatti Ilda Boccassini, che per questo lasciò la procura di Caltanissetta dove era approdata dopo gli attentati a Falcone e Borsellino proprio per partecipare alla caccia ai colpevoli. «Fregnacce pericolose», aveva bollato le parole di Scarantino, ma nonostante questo la macchina infernale della giustizia impazzita continuò la sua corsa, guidata dai procuratori Giovanni Tinebra – quello che di recente, in un altro contesto, il faccendiere Amara indicherà come il capo della loggia Ungheria –, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, coadiuvati da un giovane pm, quel Nino Di Matteo che diventerà poi una star della magistratura e che ora siede al Csm.

Anni dopo, nel 2017, la procura generale di Catania, annunciando la revisione delle ingiuste condanne dirà: «Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo di dover chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne inflitte nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio». Lei si è fatto un’idea di che diavolo è accaduto: mania di protagonismo, imperizia, depistaggio?

Scarantino sostiene di essere stato indotto a dire quello che ha detto dai poliziotti che lo tenevano in custodia. A proposito, c’è una sua frase terribile: «Ero un ragazzo. E se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dai magistrati in aula e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare». Io in questa storia mi sono imbattuto sia da presidente dell’Associazione nazionale magistrati sia da membro del Csm. Volevo capire, ma come adesso le racconterò non era facile.

In che modo se ne occupò?

Per questo scandalo finiscono nei guai le persone che avevano gestito il pentimento di Scarantino. L’allora questore di Palermo, Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, che farà poi una carriera fulminante: questore di Napoli, di Roma, capo del dipartimento antiterrorismo della Polizia, caduto in disgrazia sui fatti della scuola Diaz al G8 di Genova. Poi ci sono i suoi tre poliziotti – Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei – che gestirono materialmente Scarantino. Oltre ovviamente ai quattro magistrati, Tinebra, Petralia, Palma e Di Matteo, quest’ultimo coinvolto solo come testimone. Ci sono due fronti, uno penale e uno disciplinare al Csm.

Partiamo dal penale.

La Barbera e Tinebra, come detto, sono nel frattempo morti. Il 2 febbraio 2021, cioè quasi trent’anni dopo i fatti e dodici dopo la scoperta della messa in scena, il tribunale di Messina ha archiviato l’inchiesta nei confronti dei magistrati Petralia e Palma perché non è stato possibile accertare «le evidenti anomalie» del caso Scarantino. I tre poliziotti sono tuttora sotto processo a Caltanissetta. Dimenticavo: Scarantino è tornato in libertà per decadenza dei termini di custodia. E aggiungo anche che Petralia, oggi in pensione, il 29 settembre 2021 è stato condannato dai colleghi di Messina a un anno per aver omesso di indagare su un amico imprenditore.

Chiunque direbbe: non è possibile.

C’è stato un clamoroso depistaggio dentro lo Stato sull’omicidio del magistrato simbolo della lotta alla mafia, ci sono otto persone che hanno fatto da innocenti anni in galera, ma questa è una delle verità, a proposito di logge che sovraintendono al potere, che non si possono accertare. E bisogna credere alla favola che tre poliziotti infedeli si siano inventati da soli, tanto per giocare, un simile complotto senza che nessuno se ne accorgesse.

Be’, al Csm sarà andata meglio, ovviamente, perché dalla casa della giustizia italiana le logge restano fuori.

Mi vergogno, perché io c’ero e non faccio parte di nessuna loggia, ma devo deluderla. A noi la questione arriva nel 2017 dopo la sentenza del processo Borsellino quater, il processo che di fatto certifica l’imbroglio del caso Scarantino. È anche l’anno del venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Borsellino e la figlia del giudice, Fiammetta, scrive una lettera nella quale ci chiede di fare chiarezza anche all’interno della magistratura. In altre parole ci chiede di prendere l’iniziativa.

Ricordo bene, un grido di aiuto e una denuncia al tempo stesso: «Fino a ora il nostro silenzio è stato dettato dal rigore e da una necessità di sopravvivenza. Noi denunciamo anomalie che hanno caratterizzato la condotta di politici e magistrati dei processi Borsellino. Anomalie condotte da uomini delle istituzioni. Parlo di verbalizzazioni, interrogatori e sopralluoghi non corretti. Le mie denunce non sono un mero dibattito tra me e il procuratore Di Matteo, questa è una semplificazione che fa molto comodo a chi sta nascosto nell’ombra. È una semplificazione che toglie l’attenzione dal nostro fine che è quello di addivenire alla verità. Il nostro è un urlo di dolore. È vero che si può tornare ad aprire un processo, ma la procura di Caltanissetta ha uomini e mezzi per farlo? Mio padre si meritava questo dopo venticinque anni? Quasi tutto è compromesso».

Il messaggio era chiaro: a noi non ce ne frega niente che voi commemoriate mio padre, noi abbiamo bisogno di fatti e risposte.

Voi che strada prendete?

Acquisiamo gli atti del Borsellino quater e apriamo una discussione in prima commissione, quella che si occupa dei procedimenti disciplinari. Fu una discussione molto accesa, ma detto in onestà non ci fu mai l’intenzione di andare fino in fondo. Primo perché era passato troppo tempo per poter accertare una verità oggettiva, secondo perché sulla vicenda aleggiava il nome di Nino Di Matteo, in quel momento tra i più potenti e protetti magistrati italiani.

Insomma non avete fatto nulla.

Abbiamo fatto ammuina, come si dice a Napoli. Non abbiamo neppure convocato, almeno per dare un segnale alla famiglia Borsellino e al Paese, i magistrati che gestirono quel depistaggio. Tantomeno Di Matteo che, ascoltato come testimone al processo di Caltanissetta contro i tre poliziotti coinvolti, confermò che in un primo tempo aveva creduto alle dichiarazioni di Scarantino e che solo dopo gli vennero dei dubbi. Versione che non spiega come mai il processo non venne fermato.

Si disse: all’epoca Di Matteo era un giovane magistrato.

Non è mai facile gestire un pentito, o presunto tale, a maggior ragione per un giovane magistrato e anche per questo sono da comprendere le parole di Fiammetta Borsellino: «C’è da indignarsi se per mio padre la giustizia è stata affidata a un ragazzino alle prime armi». Ma c’è una cosa che nessuno ha mai saputo.

Prego.

Nel 2018 sia Fiammetta sia la sorella Lucia Borsellino si recano nell’ufficio del procuratore generale Riccardo Fuzio, in quel momento la massima autorità giudiziaria italiana, fornendo elementi che a loro dire avrebbero potuto dare avvio a un’istruttoria, a un’azione di accertamento delle responsabilità sul piano disciplinare dei magistrati coinvolti. Vengono sentite, raccontano fatti, vicende e situazioni circostanziate.

E cosa accade?

La magistratura in quel momento è concentrata su altri problemi che sono nell’aria: di lì a poco verrà travolta – anche lo stesso Fuzio – dal caso Palamara. Così l’anno dopo, siamo nel luglio 2019, l’ultimo atto che Fuzio compie prima di andare a dimettersi è scrivere una lettera alle sorelle Borsellino, lettera che qui leggiamo per la prima volta: «Gentilissima signora Fiammetta Borsellino e Lucia, le scrivo per rappresentarle che ho continuato ad acquisire e a leggere atti, compresa la sua memoria dell’aprile scorso, perché volevo perseguire quella ricerca della verità che giustamente rivendica come diritto alla verità da parte dello Stato italiano. Al di là della valutazione su quanto sin qui emerso in corso in varie sedi, compresa quella penale, era mia intenzione affrontare il vostro grido di verità in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario o in altra manifestazione pubblica con una forte richiesta nella mia qualità di compiere un ulteriore sforzo di questo faticoso percorso. Nella stessa occasione avrei voluto rivolgere le scuse del Paese, mai sinora rivolte alla vostra famiglia. Purtroppo, gli ultimi eventi – quelli dell’Hotel Champagne – me lo impediscono. Su questi eventi non voglio nemmeno dirle una parola. Li richiamo solo per dirle che sono rammaricato, perché avrei voluto continuare ad assecondare la ricerca di verità della vostra famiglia sempre nel mio stile. Anche quest’anno non sarei venuto a pavoneggiarmi a Palermo. Esprimo a lei e a tutta la famiglia la mia sincera vicinanza per questo ennesimo 19 luglio ancora senza chiarezza. La seguirò da semplice cittadino».

È un atto di resa delle istituzioni. Se non può fare nulla il primo magistrato d’Italia…

Le promesse di giustizia, o almeno di chiarezza, non sono state mantenute. E le assicuro, perché io come le ho detto ero lì, non per dimenticanza ma per mancanza di volontà. Un’inchiesta nata nella palude dell’intreccio tra mafia, pentiti e servizi segreti muore nella palude del Csm e della Corte di Cassazione. La risposta, anche questa inedita, che le sorelle Borsellino fanno avere a Fuzio è una coltellata al cuore. Da quest’anno in poi andrebbe letta pubblicamente a ogni ricorrenza delle stragi di quel 1992. Leggiamola.

«Gentile dottor Fuzio, non riesco a comprendere la sua lettera per una totale assenza di concretezza. Un anno fa io e mia sorella siamo venute presso gli uffici della procura generale della Corte di Cassazione con elementi importanti sul piano disciplinare. Non mi risulta che a oggi codesta procura abbia prodotto atti concreti conseguenziali a quell’incontro. Per me e per la nostra famiglia parole come “ricerca della verità” e “avrei voluto ma non ho potuto” a distanza di un anno da quella verbalizzazione non hanno alcun significato se non quello di avanzare false scuse di fronte a quello che per noi costituisce una inadempienza. Mi sorprende che dopo un anno e l’evidenza di comportamenti gravissimi Lei parli ancora di leggere memorie e acquisire atti. L’unica cosa evidente è che nessun atto è stato prodotto né si è addivenuti a una evoluzione dell’istruttoria. Non abbiamo bisogno di proclami in occasione di inaugurazioni di anni giudiziari o celebrazione di anniversari. Cordiali saluti».

Raccomandazioni lecite? Quegli strani rapporti tra Scarpinato e il dottor Montante. Leonardo Berneri su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

È storia nota che tra gli appunti di Antonello Montante, l’ex presidente della Confindustria siciliana condannato per associazione mafiosa e per aver organizzato un’attività di dossieraggio, sono emersi rapporti non proprio limpidi con dieci magistrati in quegli anni stavano a Caltanissetta. Tra di loro campeggia il nome di Roberto Scarpinato, fino a poco tempo fa capo della procura generale di Palermo.

Nel nuovo libro intervista “Lobby e Logge”, Palamara rivela il perché scattò l’operazione “salviamo il soldato Scarpinato” e, a detta sua, per logica conseguenza, tutti gli altri. Dagli appunti emerge che Montante ebbe rapporti molto intensi con Scarpinato e compaiono diverse richieste di raccomandazione da parte di quest’ultimo. Ma, fra gli appunti di Montante, salta all’occhio quello datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna». E c’è pure la stampa del documento con la composizione del Csm con appunti manoscritti, in cui per ciascun componente è indicata la corrente di appartenenza, e per quelli eletti dal Parlamento il partito di appartenenza, e sul margine sinistro del foglio annotata la seguente scritta: «Due alternative, o Lari procuratore generale a Caltanissetta e non fa concorrenza».

Alla domanda di Alessandro Sallusti sul fatto che tale richiesta di Scarpinato sa tanto di richiesta di raccomandazione a una persona esterna alla magistratura – che poi si scoprirà essere a capo di una lobby mafiosa – ritenuta in grado di interferire con le decisioni del Csm, Palamara rivela come si è attivato il meccanismo di protezione nei confronti del magistrato ritenuto membro del Gotha dell’antimafia siciliana. La procura di Catania è quella deputata ad indagare i magistrati di Caltanissetta. Ma archivia tutto. La parte più interessante che rivela Palamara nel libro, è il finale delle motivazioni: « (…) In conclusione resta accertato che in ambito di rapporti più o meno istituzionali del presidente di Confindustria di Caltanissetta con molti magistrati del distretto nisseno, questi ultimi hanno chiesto l’interessamento dell’imprenditore per una possibile sistemazione lavorativa di parenti e amici, o l’interessamento per la propria carriera, e ciò sia in considerazione delle amicizie altolocate di Montante, numerose sono le annotazioni di incontri con ministri o altri soggetti politici di vertice, sia in relazione al suo ruolo di imprenditore e presidente degli imprenditori, ma tale condotta, in assenza di altri elementi di difficile accertamento, per quanto discutibile, non può certo ritenersi illecita».

In sintesi, emerge chiaramente che solo se ci sono di mezzo alcuni magistrati, i fatti sono difficili da accertare. «E nessuno fiata», aggiunge Palamara. Ma non solo. A differenza dei politici o cittadini normali, a distanza di un anno dallo scoppio del caso Montante, della vicenda dei magistrati l’opinione pubblica non sapeva nulla. «Quando c’è da mantenere un segreto in Sicilia sanno bene come fare», chiosa Palamara. Poi accade che la pratica arriva al Csm e prontamente, in un articolo del 22 dicembre del 2016 a firma di Giovanni Bianconi, esce la notizia dei magistrati coinvolti nel fascicolo. Cosa accade? Entra in gioco la “ragion di Stato”. Palamara rivela che scoppia il panico, perché «se un collega importante come Scarpinato o uno come Lari, tanto per essere chiari, dovesse apparire vicino a un imprenditore legato ad ambienti mafiosi, travolgerebbe tutto, e lo Stato non se lo può permettere». A detta di Palamara, a facilitargli il lavoro di archiviazione sarebbero stati gli allora capi della procura di Catania e Caltanissetta stessi. «Facciamo – rivela sempre Palamara -, come è ovvio che sia, le audizioni dei due procuratori, quello di Catania Carmelo Zuccaro e quello di Caltanissetta Amedeo Bertone. Tra imbarazzi e frasi di circostanza non si cava un ragno dal buco, ma anche perché nessuno in realtà vuole cavarlo».

Ma non è tutto. Palamara mette in campo una ipotesi sconvolgente. Lui stesso è testimone del fatto che, su forte pressione della corrente di sinistra, le nomine dei nuovi procuratori di Catania e Caltanissetta sarebbero state funzionali alla gestione del «problema dei colleghi coinvolti nel caso Montante, che evidentemente loro sapevano sarebbe scoppiato ben prima che diventasse noto non solo all’opinione pubblica, ma anche al Csm». E sempre nel libro, emerge che è la stessa “ragion di Stato” per cui Palamara – da direttore dell’ufficio studi del Csm – decise di non rendere pubblici i verbali del Csm del 1992, dove si riportano le audizioni fatte nei confronti dei magistrati della procura di Palermo subito dopo la strage di Via D’Amelio. «Questo avrebbe potuto riaccendere vecchie e mai sopite polemiche, e io in quella fase ero fermamente convinto che si dovesse evitare. Quel verbale non verrà mai inserito nella pubblicazione fatta in memoria di Paolo Borsellino», rivela Palamara.

Quei verbali non sono mai stati secretati, ma mai resi pubblici appositamente. Solo dopo quasi 30 anni, sono stati tolti dai cassetti grazie alla richiesta dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, nel processo d’appello sulla trattativa, e depositati dall’avvocato Simona Giannetti nel processo per diffamazione avviato su querela di Lo Forte e Scarpinato per una serie di articoli pubblicati sul Dubbio sulla vicenda dell’archiviazione dell’indagine mafia e appalti dopo la morte di Borsellino. Anche nel libro intervista si fa cenno alla vicenda del dossier archiviato. A detta di Palamara, si tratta di una vicenda devastante che ci portiamo dietro ancora oggi. Leonardo Berneri

Le rivelazioni dell'ex magistrato. Palamara replica a Scarpinato: “Ti piazzai io a Palermo…” Paolo Comi su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

«Voglio tranquillizzare tutti i lettori: le vicende raccontate nei miei libri sono realmente accadute, non sono il frutto della mia fantasia». Luca Palamara, contattato dal Riformista, respinge al mittente l’accusa formulata da Roberto Scarpinato di essere un “dinamitardo della giustizia che mescola falsità e insinuazioni malevole prive di fondamento”. Un modus operandi di cui lo stesso sarebbe stato vittima. Scarpinato, ex pg di Palermo e dal mese scorso in pensione, in un lunghissimo articolo ieri sul Fatto Quotidiano aveva raccontato che è in atto da tempo una manovra che vorrebbe distruggere l’indipendenza della magistratura.

Ed i libri di Palamara sarebbero funzionali a tale manovra, anzi, addirittura propedeutici ai referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale. «Io non ho mai messo in discussione l’attività dei magistrati, in particolare quelli antimafia, portata avanti da veri eroi che sono da esempio per tutti. Però non credo che possa esistere il reato di lesa maestà se si raccontano fatti che ho vissuto in prima persona», prosegue Palamara. Per Scarpinato, Palamara era un problema per la magistratura e per questo motivo è stato giustamente stato cacciato via.

«La colpa – risponde Palamara – sarebbe allora solo mia? A me risulta difficile pensare di essere stato l’unico esponente di un sistema collaudato. A tal proposito voglio ricordare come venne nominato Scarpinato pg di Palermo. Nel 2012, per la Procura generale del capoluogo siciliano, oltre Scarpinato, magistrato molto quotato, era in corsa Guido Lo Forte, uno dei procuratori storici di Palermo, vicino a Gian Carlo Caselli. Io e Pignatone, un sabato di metà dicembre, andiamo a casa di Riccardo Fuzio che all’epoca era membro del Csm e poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Con lui decidiamo la strategia: io avrei dovuto convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio di un’assicurazione, garantita anche dalla corrente di sinistra, Magistratura democratica: avrebbe preso il posto di Francesco Messineo a capo della Procura della Repubblica appena quel posto si fosse liberato. Le correnti di sinistra volevano Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata. Quindi era necessario che la corrente moderata di Unicost, la mia, convergesse nella votazione su di lui, e che la corrente di sinistra ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione. Da casa di Fuzio io chiamo Lo Forte e gli assicuro la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l’altro era suo amico. E, dopo averci parlato, gli passo nell’ordine prima Pignatone e poi il padrone di casa. Niente, in punta di logica e pure di diritto. Ma il potere non ha confini, e Pignatone in quel momento era un pezzo forte del ‘Sistema’, anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sta di fatto che Lo Forte revocherà quella domanda e Scarpinato andrà alla Procura generale di Palermo».

Nei suoi libri Palamara aveva poi ricordato i rapporti di Scarpinato con Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e paladino dell’antimafia, condannato a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Scarpinato, a tal proposito, ha replicato sottolineando che non c’era nulla di male ad aver rapporti con Montante, all’epoca non inquisito, e che comunque è una condanna in primo grado per un reato non di concorso esterno in associazione mafiosa, ma di associazione a delinquere. «Mi sarei aspettato da Scarpinato un accenno all’elenco di generali, esponenti di spicco del Ministero dell’Interno, prefetti della Direzione investigativa antimafia e direttori del servizio segreto che si recavano da Montante per chiedergli favori», ribatte Palamara: «Quando vennero trovati gli elenchi di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi esplose lo scandalo della P2».

Montante, da parte sua, ha annunciato di voler querelare Palamara. «Nell’ambito del mio dovere di verità di raccontare fatti e vicende avvenute all’interno del Csm, mi sono riferito a tutte quelle vicende che hanno interessato i magistrati che a lui si sono relazionati. Tutto quanto da me raccontato è facilmente verificabile consultando i verbali di seduta della prima commissione del 2017. Non ho alcuna difficoltà a chiarire pubblicamente con chiunque i fatti e le vicende da me narrati», la replica di Palamara. Paolo Comi

Le rivelazioni dello zar delle nomine all'Antimafia. Palamara svela le trame con Pignatone: “Così piazzammo Scarpinato e Lo Voi”. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Luglio 2021 

Il processo Trattativa Stato-mafia condizionò la nomina dei capi degli uffici giudiziari palermitani. A fare la clamorosa rivelazione è stato ieri l’ex zar delle nomine Luca Palamara davanti alla Commissione antimafia presieduta da Nicola Morra.

Tutto ha inizio nel 2012. La poltrona del procuratore di Palermo è occupata da Francesco Messineo. Il magistrato è in difficoltà per alcune vicende che riguardano il fratello. Al Csm aspettano solo un passo falso per sostituirlo. La Procura generale, invece, è vacante. Per quel posto hanno fatto domanda Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, da sempre vicino a Gian Carlo Caselli. Palamara e Giuseppe Pignatone, allora procuratore di Reggio Calabria, decidono di contattare Riccardo Fuzio, membro del Csm che poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Con lui si decide la strategia: Palamara dovrà convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio dell’assicurazione, garantita da Magistratura democratica, che avrebbe preso il posto di Messineo. Md voleva Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata: era necessario che Unicost, la corrente di Palamara, convergesse nella votazione su di lui, e che Md ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione.

Da casa di Fuzio Palamara chiamò allora Lo Forte assicurandogli la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l’altro era suo amico. Pignatone, adesso presidente del tribunale supremo pontificio, in quel momento era in ottimi rapporti con Giorgio Napolitano. Lo Forte revocherà la domanda e Scarpinato andrà alla Procura generale di Palermo. L’anno successivo, il 2013, Messineo va in pensione. In prossimità del Plenum che doveva, come da accordi, varare “l’operazione Lo Forte”, arriva però al Csm una lettera di Napolitano che invita a rispettare nelle nomine l’ordine cronologico, che non vede Palermo al primo posto. La nomina di Lo Forte slitta, e siccome il Csm è in scadenza tutto viene rinviato. Lo Forte era considerato un magistrato sostenitore dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che in quei giorni aveva lambito proprio il Quirinale.

Sul tema della trattativa, racconta Palamara, c’è stata sempre una accesa discussione interna alla magistratura.

Arriva il 2014 e nel nuovo Csm nessuno è a conoscenza dell’impegno formale di Palamara, Pignatone e Fuzio con Lo Forte per la Procura di Palermo. Lo Forte è sicuro che Palamara starà ai patti, ma la nomina diventa subito motivo di scontro perché arrivano anche le candidature di Francesco Lo Voi e Sergio Lari. Lari era il procuratore di Caltanissetta, molto attivo sul fronte delle indagini della trattativa Stato-mafia. Lo Voi era a capo di Eurojust a Bruxelles. La domanda che tutti, ricorda Palamara, si pongono è su cosa farà il nuovo procuratore nei confronti dell’inchiesta Stato-mafia sulla quale erano molto attivi due sostituti, Vittorio Teresi e Nino Di Matteo. Il sasso nello stagno lo getta proprio Teresi. «Non vorrei – dichiara – che la scelta del nuovo procuratore dipendesse dalla sua posizione sulla trattativa». In altre parole, dice: attenzione che qui non siamo disposti a insabbiare.

È il segnale che la situazione sta sfuggendo di mano, anche a Md. Palamara decide di parlarne con il loro referente in Sicilia, Piergiorgio Morosini, che era stato il gip del processo Stato-mafia. «Devi tenere a bada i tuoi, gli accordi su Lo Forte vanno mantenuti», gli dice Palamara. Pignatone nonostante sia molto amico di Lo Forte convoca Palamara e gli dice: «Si va su Lo Voi». Su decisioni di questa portata il Quirinale è sempre in partita, ricorda Palamara. Per sostenere Lo Voi si costruisce una rete che coinvolge il vice presidente del Csm Giovanni Legnini e la consigliera laica in quota Sel Paola Balducci. Palamara e Unicost sono decisivi: se non si accordano con la sinistra giudiziaria per la nomina di Lari, Lo Voi risulterà il candidato vincente. La trattativa è drammatica, Palamara la ricorda come uno dei momenti più difficili della sua carriera. Farà credere a Lo Forte che – come da promessa – non lo mollerà, inventandosi un trucco concordato con le altre correnti: far andare a vuoto la prima votazione, in modo che alla seconda, per meccanismi interni, Lo Voi sia sicuro di passare.

Durante il Plenum le parole più vere furono pronunciate da un magistrato autentico e genuino, il consigliere eletto come indipendente nella liste della sinistra giudiziaria Nicola Clivio, finito al Csm quasi per caso: «Signori, sono venuto a Roma per vedere come funziona il potere. Non avrei mai detto che Lo Voi, che ha molti meno titoli degli altri, potesse vincere la sfida per Palermo. Oggi l’ho capito come funziona il potere e sono rimasto sconvolto». Clivio, le cui parole rimasero scolpite nella testa di Palamara, si riprenderà a fatica da quel giorno. Ma la questione Palermo non si chiuse quel giorno. Lo Forte impugna la delibera di nomina del Csm e il Tar accoglie il suo ricorso. Si riapre la corsa per Palermo. A Lo Voi non resta che fare appello al Consiglio di Stato e sperare in un ribaltamento della sentenza del Tar. Pignatone rivelerà a Palamara di avvertire strani movimenti intorno a questa vicenda e di temere che anche il Consiglio di Stato possa dare ragione a Lo Forte.

La pratica finisce alla Quarta sezione presieduta da Riccardo Virgilio, che nei racconti di Pignatone era a lui legato da rapporti di antica amicizia. I due, prosegue Palamara, si incontreranno una mattina presso la sua abitazione. Passano poche settimane e arriva la sentenza di Virgilio, favorevole a Lo Voi, che potrà così insediarsi alla Procura di Palermo. Virgilio, invece, qualche tempo dopo verrà arrestato in un procedimento per corruzione in atti giudiziari. Paolo Comi

Dagospia il 9 febbraio 2022. Estratto dal capitolo “Gli uomini giusti al posto giusto - Come il Sistema previene gli scandali”, dal libro “Lobby & Logge”, di Alessandro Sallusti e Luca Palamara (ed. Rizzoli), pubblicato da “il Messaggero”. 

Usiamo una metafora, quella dei pacchi bomba, non al tritolo ma con dossier comunque devastanti per la democrazia, confezionati in Sicilia da Piero Amara e da Antonello Montante. 

Pacchi che risalgono l'Italia facendo tappa prima alla procura di Trani, poi a Roma nel quartier generale della magistratura, il Csm, dove alcuni vengono disinnescati come abbiamo visto nella vicenda dei magistrati coinvolti nel caso Montante , altri innescati con cariche ancora più pesanti, altri ancora rimandati al mittente perché gli esplodano nelle mani, tipo cartone animato Willy il Coyote e Beep Beep.

Alcuni, i più pesanti, arrivano fino a Milano dove hanno il potere è cronaca recente di fare saltare in aria il fortino della procura più blindata del Paese. 

Il tutto dentro una guerra tra guardie e ladri che ha però una caratteristica: entrambi i contendenti vestono la stessa casacca, quella dei magistrati e dei servitori dello Stato, Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza e uomini dei servizi segreti.

Qualche esempio. A Siracusa il pm Giancarlo Longo viene arrestato per associazione a delinquere, corruzione e falso dopo essere stato immortalato mentre si issa sulla propria scrivania a caccia di telecamere e microspie, in effetti piazzate nel suo ufficio dai colleghi che lo braccavano. 

Con lui sono finite in galera altre quattordici persone tra consulenti giudiziari, imprenditori e un giornalista, e l'ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, accusato di corruzione in atti giudiziari.

Stessa fine per uno 007, Francesco Sarcina, corrotto con 30.000 euro. A Trani va ancora peggio, tanto che quella procura vince il titolo della «più fuori controllo e inquinata d'Italia». 

Già, perché in questa città, che nel XIII secolo era la capitale giuridica del Regno delle Sicilie e chiamata l'Atene delle Puglie, viene prima architettato da Amara e magistrati compiacenti e muove poi i primi passi il complotto contro l'Eni, mamma di tutti gli intrighi più recenti.

Qui il pm Antonio Savasta è stato arrestato insieme al gip Michele Nardi per tangenti. E il 20 maggio 2020 finisce ai domiciliari per corruzione un pezzo grosso, Carlo Maria Capristo, già capo della procura di Trani e poi di Taranto, e con lui un ispettore di Polizia. Il pm che prese il suo posto, Antonino Di Maio, se la caverà con un semplice abuso d'ufficio.

Finiamola qui, l'elenco completo di guardie passate nelle file dei ladri e dei faccendieri come Amara o tipo Amara in cambio di favori e soldi sarebbe assai più lungo.

Sono notizie che l'opinione pubblica per lo più non conosce, annegate come sono nel bailamme quotidiano, anche perché nella maggior parte dei casi riguardano persone sconosciute al grande pubblico. 

Dottor Palamara, lei per anni è stato al centro di questo grande bordello. Alcuni di questi signori erano anche amici suoi, come immaginava di uscirne senza uno schizzo? 

Esistono due livelli di potere. Uno è quello del Sistema, che abbiamo raccontato nel precedente libro, fondato sulla spartizione correntizia delle nomine e all'interno del quale la magistratura si muove in accordo con il mondo politico e con l'informazione. È vero che parliamo di un Sistema che agisce dietro le quinte, ma su binari di legalità formale e quasi sempre sostanziale.

Questo mondo, che era il mio mondo, è parallelo a quello che stiamo raccontando oggi. Il sistema delle correnti non avrebbe alcun tipo di vantaggio a mettersi allo stesso tavolo con le logge, anzi perderebbe solo potere e autonomia. 

Vero è invece il contrario: le lobby hanno tutto l'interesse a infiltrarsi nel sistema per raggiungere i propri obiettivi economici o politici senza troppi problemi.

Che lei sappia è mai successo?

Se la domanda ne sottintende un'altra, del tipo: «a lei è mai capitato di partecipare a questo gioco?», la mia risposta è no, e sono sicuro che riuscirò a dimostrarlo nel processo che mi riguarda. Che invece in generale sia accaduto, non sono io a dirlo, ma i fatti di cronaca, quelli che lei ha citato ma anche tanti altri. 

Le faccio un esempio, il caso Capristo, il procuratore di Trani e Taranto che secondo le accuse che gli vengono mosse sarebbe finito nella gestione del caso Ilva al servizio di Amara. 

All'interno della magistratura a me è stato introdotto e presentato come un uomo di Unicost, peraltro in rapporto di parentela con Francesco Mannino, storico esponente catanese della mia corrente. 

Tanto che, come erano soliti fare tanti di questi colleghi, anche io andai da Capristo durante la mia campagna elettorale per essere eletto al Csm. 

Potevo immaginare che facesse il doppio gioco dentro e fuori tra legalità e illegalità? Proprio no, nessuno ne aveva sentore.

Se è per questo il prestigioso e potente procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, frequentava come me Centofanti, poi rivelatosi socio di Amara, lo stesso Montante e addirittura sentiva spesso (una volta Pignatone scherzando mi disse che se fossero uscite le loro intercettazioni sarebbe andato nei guai per il solo fatto che ci parlava) Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, condannata in primo grado a otto anni e sei mesi di carcere per essere al centro di un ramificato sistema corruttivo.

Ecco, guardi, il problema non è chi conosce chi i magistrati, a un certo livello, si conoscono più o meno tutti tra di loro ma chi usa chi e con quale scopo. 

Ma, fatti penali a parte, le correnti che governano la magistratura, di cui lei è stato uno dei capi, assistono inermi allo spettacolo delle logge che provano a spadroneggiare?

Sa, un conto è gestire la politica giudiziaria, altro sono le inchieste, che per loro natura fino a un certo momento sono segrete. Parliamo di due mestieri, due funzioni diverse che però possono entrare in contatto perché nei fatti le inchieste, anche quelle che riguardano colleghi, sono sì segrete ma non proprio per tutti.

E allora dentro il Sistema scattano degli alert, si drizzano le antenne e inizia il riposizionamento dei colleghi per mettersi al riparo dalla tempesta in arrivo. Guardi il mio caso: tanti hanno partecipato al «Sistema Palamara», ben sapendo che cosa si stava facendo, ma quando è cambiata l'aria, quando da Perugia sono trapelate voci sull'inchiesta che mi riguardava, è stato un fuggi fuggi al motto di «Palamara chi».

Anzi, le aggiungo che dopo aver scritto Il Sistema un mio amico magistrato mi ha mostrato un messaggio del seguente tenore: «Luca l'ha fatta grossa, non doveva raccontare queste cose, si è scavato la fossa da solo». 

Ebbene, questo messaggio da cuor di leone è stato scritto da un collega appartenente alla corrente dei duri e puri esattamente il giorno dopo aver ottenuto quello per cui mi tampinava quando io ero al Csm, allorquando pur di ottenere l'incarico a cui aspirava era arrivato perfino a offrirmi le dimissioni della moglie con la quale era in una situazione di incompatibilità in quello stesso ufficio.

Diciamola così: chi è al vertice del Sistema deve sapere ciò che avviene nelle segrete stanze delle procure, e in qualche modo ciò accade.

Mi dissocio dalla formulazione, ma apprezzo la sua chiarezza. Io dico che per conoscere cosa accade sul campo devi avere seminato bene, cioè piazzato nei punti strategici del sistema giudiziario persone amiche e fidate, in modo da creare una rete informale di comunicazione e avere così tutto sotto controllo: più sai più conti, più conti più hai potere. 

 E uno che aveva tanto potere all'interno del Sistema era il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. 

Questo nome torna in continuazione.

Non lo faccio a caso: io ero a capo del Sistema, e lui per me è stato un riferimento, o almeno io lo consideravo tale, e anche sulle vicende di cui stiamo parlando non si limitò a fare da spettatore (...)

CASO PM MILANO: PAOLO STORARI ASSOLTO A BRESCIA.

(ANSA il 7 marzo 2022) - Il pm di Milano Paolo Storari è stato assolto a Brescia al termine del processo in abbreviato con al centro il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Lo ha deciso il gup Federica Brugnara.

Il pm di Milano Paolo Storari è stato assolto a Brescia con la formula il fatto non costituisce reato. Storari era stato accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

"È stata una battaglia veramente difficile e l'assoluzione è la decisione più corretta". Così l'avvocato Paolo Della Sala ha commentato la sentenza con cui il gup di Brescia Federica Brugnara ha mandato assolto il pm di Milano Storari, processato in abbreviato per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. 

"La buona fede era stata riconosciuta dalla stessa procura - ha aggiunto -. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista". Storari, dopo la lettura del dispositivo era visibilmente commosso.

Quella di oggi è "una decisione che ci ha soddisfatto - ha proseguito il legale - perché ridà equità a un ambito che è stato anche forse un po' strumentalizzato da una certa stampa". Inoltre "gli argomenti tecnici per poter arrivare a questa assoluzione erano solidissimi, noi siamo sempre stati molto fiduciosi". 

Il difensore ha ricordato come anche il Csm, la scorsa estate, aveva rigettato la richiesta di un provvedimento disciplinare di tipo cautelare nei confronti di Storari. A chi ha chiesto se sia la fine di un calvario e se sia stata riconosciuta la buona fede, il legale ha replicato: "Qualcosa di più. Qui c'è stata una assoluzione piena, nemmeno con un richiamo alla contraddittorietà della prova, il che vuol dire che sostanzialmente è priva di dubbi interpretativi"

Luigi Ferrarella per corriere.it il 7 marzo 2022.  

Dalla cacciata disciplinare — via dalla Procura di Milano e mai più in alcuna altra Procura italiana — il pm milanese Paolo Storari si era salvato nell’agosto 2021, quando il Csm aveva respinto la richiesta cautelare di trasferimento d’urgenza proposta dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. 

E ora Storari esce indenne anche dall’ancora più periglioso fronte penale: la giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, Federica Brugnara, disattendendo la richiesta di condanna a 6 mesi formulata dalla Procura, lo ha infatti assolto nel processo di primo grado con rito abbreviato.

E ha cioè escluso che sia stato reato di «rivelazione di segreto d’ufficio» l’aver Storari consegnato nell’aprile 2020 a Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e allora membro del Consiglio Superiore della Magistratura, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi ai pm milanesi Pedio e Storari dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara: verbali sui quali Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara, in un attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) nel processo Eni-Nigeria del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e nella inchiesta del pm Pedio sul collegato depistaggio giudiziario Eni.

«Assoluzione piena»

«La formula dell’assoluzione — commenta il difensore di Storari, Paolo Della Sala — è assoluzione piena e del resto la buona fede di Storari era stata riconosciuta anche dalla stessa Procura di Brescia. 

Spero che questa sentenza ponga fine al calvario al quale è andato incontro per avere fatto quella che, dal suo punto di vista e nella ragionevole prospettiva che aveva all’epoca, era la cosa giusta. È un verdetto che ridà equità a una vicenda che certa stampa ha voluto strumentalizzare in modo inutilmente aggressivo nei suoi confronti». 

Davigo a processo

L’assoluzione di Storari risalta ancor di più visto che Davigo, il quale aveva scelto il rito ordinario, lo scorso 17 febbraio era stato invece rinviato a giudizio per aver poi nel 2020 mostrato o raccontato i verbali di Amara (datigli da Storari) al vicepresidente del Csm David Ermini, che ricevette da Davigo anche copia dei verbali e che ha dichiarato di essersi affrettato poi a distruggerli ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel Movimento 5 Stelle) Nicola Morra, in un colloquio privato e fuori (per i pm) da qualunque regola, finalizzato solo a motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita; mentre non hanno mai fatto parte delle contestazioni penali a Davigo le informazioni date al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, e in misura minore al presidente della Cassazione, Pietro Curzio.

Gli altri pm ancora indagati

Su Storari la giudice Brugnara non ha dunque accolto la tesi giuridica — prospettata dal procuratore bresciano Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi — che la consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara non potesse essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini.

L’assoluzione di Storari, difeso dall’avvocato Paolo Della Sala, chiude il versante penale ma al pm resta ancora da affrontare il procedimento disciplinare ordinario, al momento pendente in Procura Generale di Cassazione, e anche la differente procedura aperta da mesi al Csm per decidere se Storari, come pure De Pasquale, debba o non debba essere trasferito per «incompatibilità ambientale» con la sede giudiziaria milanese. 

Il bilancio attuale dell’intreccio di procedimenti innescato da Amara è che l’assoluzione odierna di Storari arriva dopo il rinvio a giudizio di Davigo e dopo l’archiviazione a Brescia dell’indagine sull’allora procuratore milanese Francesco Greco per l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio nel trattare il fascicolo sulla loggia Ungheria, trasmesso infine un anno fa per competenza territoriale da Milano alla Procura di Perugia. 

E arriva prima che sempre la Procura di Brescia decida la sorte del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per «rifiuto d’atti d’ufficio» nell’ipotesi abbiano tenuto il Tribunale milanese del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura di Vincenzo Armanna.

Cioè dell’ex dirigente Eni coimputato ma anche accusatore di Eni, valorizzato sia nel processo Eni-Nigeria da De Pasquale, sia nell’inchiesta sui presunti depistaggi giudiziari Eni da Pedio: altra vice di Greco a sua volta pure indagata a Brescia nell’estate 2021 per omissione d’atti d’ufficio nell’ipotesi non avesse indagato tempestivamente su Armanna per calunnia dei vertici Eni in base agli spunti fornitele invano da Storari, ma avviata a prospettiva di archiviazione dall’inversione a 360 gradi operata a dicembre 2021 quando (dopo quasi 4 anni) Pedio ha contestato ad Amara e Armanna quella calunnia che Storari quantomeno da gennaio 2021 ravvisava negli atti.

La versione di Storari

«Intorno ai primi 15 giorni di aprile del 2020 — ha deposto il pm nel rito abbreviato a Brescia — io chiamo il dottor Davigo e gli dico di avere un problema di carattere lavorativo, gli dico che c’era un dichiarante, non credo di avergli fatto il nome, il quale riferiva di una Loggia massonica e coinvolgeva soggetti delle istituzioni, anche del Csm, e gli chiedo anche se posso parlargli di queste vicende». 

Perché Davigo? «Io non avevo rapporti con il dottor Davigo, cioè non sono suo amico, la mia conoscenza con lui deriva dal fatto che sono invece amico con la sua compagna avendo lavorato lungo tempo in Direzione distrettuale antimafia» (dove Alessandra Dolci é procuratore aggiunto).

«Non vado da lui come amico, vado da lui come componente del Consiglio Superiore della Magistratura, già presidente di sezione alla Corte di Cassazione, componente delle Sezioni Unite della Cassazione, Presidente della Associazione nazionale magistrati, Presidente della Commissione che si occupava dell’interpretazione dei regolamenti del Csm, cioè dal mio punto di vista in Italia non esisteva soggetto più qualificato, almeno questa è la mia percezione a quel momento. 

E lui mi dice: “Sì, guarda Paolo, capisco che sono atti segreti di un procedimento penale, ma ai consiglieri del Csm non è opponibile il segreto, soprattutto quando sono indagini eventualmente riguardanti magistrati componenti del Csm. 

Allora io, in quella situazione in cui mi trovavo, di lì a due giorni vado direttamente a casa sua e gli porto i miei file word di lavoro dei verbali, perché tutti gli atti in originale li custodiva la dottoressa Laura Pedio, l’alternativa era star lì un’ora a ricopiarmi i nomi e le circostanze che riguardavano queste persone, per cui prendo una chiavetta e gliela do».

Ma a quale scopo? «Io mi sento tranquillizzato, sgravato di un problema che io avevo obiettivamente, avendo vissuto momenti veramente di totale solitudine, in cui io a un certo punto mi sono accorto di essere stato preso in giro più volte da quelli che per me erano...il procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti con cui lavoravo» (Pedio e Fabio De Pasquale). 

Due pesi e due misure

Storari motiva questa affermazione con il contrasto, a suo avviso, tra il trattamento iper prudente sulle dichiarazioni di Amara su loggia Ungheria e invece le ben diverse velocità e incisività applicate nello stesso periodo dai vertici della Procura ad altre dichiarazioni di Amara, quelle che andavano a supportare le accuse contro Eni del coindagato Vincenzo Armanna nel processo Eni-Nigeria.

Nel caso del fascicolo su loggia Ungheria, nel quale per Storari era urgente fare accertamenti per separare il vero dal calunnioso, «questo fascicolo è rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021 e in un anno non c’è una delega alla polizia giudiziaria se non quella che ho fatto io per identificare dei soggetti... un anno a lasciare galleggiare... Uno si trova solo, solo, non può parlare con nessuno e loro ti rimbalzano, ti rimbalzano, quando proponi qualcosa ti traccheggiano duecento volte, hanno il muro di gomma...».

«Loro» sarebbe la «gestione condivisa» del procuratore Greco con i vice Pedio (contitolare del fascicolo con Storari) e De Pasquale (pm del processo Eni-Nigeria), «nulla di male, mangiavano tutti i giorni insieme, si trovavano fuori anche dall’ufficio, io una sera la trasmissione Report su Armanna sono andato a casa della Pedio a guardarla e c’erano Greco e De Pasquale. 

Ripeto, nulla di male, nulla di male, però quello che voglio fare capire é che De Pasquale non era titolare del fascicolo Ungheria ma le cose le sapeva, anche da me, da Laura Pedio, da Greco... 

De Pasquale a un certo punto mi ha detto: “Questo fascicolo secondo me deve stare nel cassetto per due anni”, e formalmente non aveva nessun titolo per fare questa affermazione, però loro tre, scusi l’espressione, sono una cosa sola».

Il «trabocchetto» al giudice Tremolada

Differente, ad avviso di Storari, l’utilizzo di Amara laddove parlasse di Eni: «Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, le si usa nel processo; quando non fanno più comodo, zitti e muti». Storari lamenta ad esempio la scelta di Greco e De Pasquale di portare a Brescia brandelli di “de relato” di terza mano di Amara circa la pretesa avvicinabilità del giudice Tremolada, presidente del processo Eni-Nigeria, da parte dei legali Eni Paola Severino e Nerio Diodà (poi liquidata come del tutto infondata dai pm di Brescia): «Io della trasmissione degli atti a Brescia non lo sapevo perché a me non è stato detto nulla, infatti c’è in atti un mio documento che poi dice a Greco e Pedio che io non sono mai stato d’accordo con questa iniziativa, ma questa cosa significa ai miei occhi che un minimo di credibilità la stavano dando ad Amara, che non era (visto come, ndr) un pazzo». 

Il secondo episodio è quando, sempre nel gennaio-febbraio 2020, De Pasquale vuole depositare quelle frasi di Amara su Tremolada proprio nel processo Eni-Nigeria presieduto da Tremolada (che a quel punto rischierebbe di doversi astenere), proposta alla quale Storari si oppone in una riunione con i colleghi: «”Ma scusate, voi praticamente davanti al mondo lo infangate”, e loro mi rispondono: “Tu, Paolo, sei un corporativo, noi vogliamo farlo perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese”, e io rispondo: “Guardate, dovete passare sul mio corpo, io se succede faccio casino, perché queste cose non si fanno. Volete farle voi? Allora chiamate voi Amara nel vostro procedimento, lo sentite come attività integrativa di indagine e poi fate quello che volete, ma non usate il verbale che ho fatto io per mascariare un collega su nulla». 

L’esito della riunione è allora che non si useranno queste frasi nella richiesta di De Pasquale al Tribunale di ascoltare in extremis su altri temi il teste Amara: «Ma poi da un articolo di giornale mi accorgo che De Pasquale invece aveva usato in udienza queste dichiarazioni, facendo al Tribunale quella richiesta brutta, a trabocchetto, che Amara dovesse venire a riferire, oltre che su una serie di altre circostanze a cui avevamo dato tranquillamente il via libera, anche su interferenze nei confronti dei giudici del processo».

Corto circuito che non esploderà soltanto perché l’ignaro Tribunale non ammetterà per ragioni procedurali l’esame fuori tempo massimo di Amara. L’attrito con i colleghi si acuirà quando tra fine 2020 e inizio 2021 Storari segnalerà invano ai vertici della Procura la necessità di depositare al processo Eni-Nigeria «le scoperte che grazie alle attività investigative avevo fatto io, e cioè che sia Amara che Armanna fossero due calunniatori: ma non lo faccio per distruggere il processo, lo faccio perché erano elementi oggettivi», e del resto «quello che dicevo io è stato confermato, ma a un anno di distanza, dalla conclusione dell’indagine», nella quale Pedio, affiancata dai due nuovi colleghi Civardi e Di Marco, a dicembre 2021 ha tra l’altro contestato per la prima volta ad Amara e Armanna anche la calunnia ai danni dell’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e del capo del personale Claudio Granata. 

Loggia Ungheria, le indagini fatte oppure no

Nel clima della primavera 2020 Storari afferma dunque di essersi confidato con Davigo per tre ragioni sulle dichiarazioni rese da Amara da dicembre 2019 su loggia Ungheria: «Primo, avvertire il Csm del contenuto delle dichiarazioni di Amara su magistrati; secondo, il procuratore della Repubblica e il procuratore aggiunto omettono iscrizioni, il che è un dato disciplinarmente rilevante; terzo, io non voglio partecipare a questo. 

Il mio problema era informare un organo istituzionale di quello che stava avvenendo e io avevo individuato in Piercamillo Davigo l’istituzione che poteva assolvere questo compito. Davigo mi risponde: “Vado io a parlare con il Comitato di Presidenza del Csm”, e in seguito mi dà una sorta di ritorno e mi dice di aver parlato con il vicepresidente Csm Ermini e il pg della Cassazione Salvi», il quale avrá poi con Greco una interlocuzione che cronologicamente si sovrapporrá alla decisione dei vertici della Procura milanese di procedere il 12 maggio 2020 alle prime iscrizioni in base ai verbali di Amara.

In una relazione ufficiale del 6 maggio 2021 Greco e Pedio hanno invece rivendicato un lungo elenco di indagini svolte su Ungheria, elenco valorizzato anche dal giudice bresciano Andrea Gaboardi per archiviare un mese fa l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio contestata a Greco. Ma Storari, in una memoria in cui contesta punto per punto l’elenco, ribatte che «si è voluto gabellare per atti istruttori sulla loggia Ungheria robe che con Ungheria non c’entrano niente», disposte nell’altro fascicolo e non per Ungheria: «Se fosse veramente come dice la dottoressa Pedio, questi sarebbero stati illeciti disciplinari, ma non è andata così. 

La prova definitiva che queste perquisizioni e intercettazioni non c’entrano nulla con Ungheria ce la fornisce proprio la dottoressa Pedio quando, interrogata il 15 settembre 2021, spiega di non avere firmato una delega alla GdF che le avevo proposto già a gennaio 2020 perché, ha ricordato, “noi il Nucleo GdF lo avevamo escluso dalle indagini”, per cui questo vuol dire che il Nucleo GdF non poteva occuparsi di Ungheria, lo dice Pedio, giusto? Bene, volete sapere a chi erano stati delegati quegli atti istruttori ora inseriti nell’elenco» di indagini che Pedio colloca nel fascicolo Ungheria? «Al Nucleo Gdf. E stanno a dirci che questo riguarda Ungheria?».

«Non volevo dargliela vinta»

Al giudice che gli domanda perché non si sia limitato a farsi da parte se non era d’accordo sulla gestione del fascicolo, Storari risponde: «Sarebbe stato per me semplicissimo andare via, anche la Procura generale di Cassazione nell’interrogatorio disciplinare mi ha domandato “ma chi te l’ha fatto fare?”. 

Ma questa soluzione la trovo francamente un po’ ipocrita, perché io so chi me l’ha fatto fare: io non volevo dargliela vinta, io non sono pagato per scansare i problemi. Credo che sia un compito del pubblico ministero, per come l’ho sempre fatto nella mia vita, non “avere le carte a posto”, non scansare il pericolo e dire “ah qui c’è un problema é allora io mi faccio di lato”. No, io non ho mai fatto questo, cercando con prudenza di fare le cose, ma nella mia vita questo non l’ho mai fatto anche se per me sarebbe stata la cosa più facile al mondo. Se io avessi fatto così, sarei qua oggi? Sarei da un anno esposto mediaticamente?».

La domanda vera su Amara

Alla fine di tutto, e qualunque sia il mix di responsabilità che si vogliono ripartire Storari-Greco-Pedio-De Pasquale, il risultato é che si é sprecata una occasione, e Storari stesso ammette di esserne consapevole: «Chi manda Amara? Fa tutto da solo o c’è un mandante dietro? Che è la vera domanda, a cui però io non ho potuto dare risposta». 

Nelle prossime settimane l’unica che potrà ancora provare in parte a darla é la Procura di Perugia nelle pieghe della prevedibile futura archiviazione di gran parte del fascicolo Ungheria, scaturito dalle dichiarazioni di dicembre 2019-gennaio 2020 di Amara a Milano e trasmesso da Milano a Perugia per competenza a fine dicembre 2021.

L'inchiesta Monte Paschi di Siena. Procura di Milano senza pace, Greco di nuovo indagato: abuso d’ufficio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

Non c’è pace per la Procura di Milano, dopo la notizia che Francesco Greco è indagato di nuovo a Brescia, dopo la vicenda Amara-Loggia Ungheria (in cui è stato archiviato) e l’accusa di “pigrizia” tornata alla ribalta con l’assoluzione da parte del gup di Brescia del suo accusatore Paolo Storari. La nuova imputazione, emersa da una richiesta di proroga indagini della Procura di Brescia, è di abuso d’ufficio, reato di per sé non grave, ma molto serio in questo caso perché adombra il sospetto che con la sua inerzia (ancora) e le ripetute richieste di archiviazione e assoluzione, la Procura presieduta da Greco abbia inteso agevolare gli ex dirigenti del Monte Paschi di Siena, il presidente Alessandro Profumo e l’ad Fabrizio Viola.

La vicenda è particolarmente spinosa perché segnala, oltre alla parte strettamente processuale, uno scontro senza esclusione di colpi ancora una volta con la Procura Generale, ma anche con diversi giudici per le indagini preliminari, in particolare con Guido Salvini. E coinvolge anche, oltre ai tre pm che condussero le indagini, Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici, l’ex assessore al bilancio del Comune di Milano, il professor Roberto Tasca, per una perizia ritenuta falsa. Un bel guazzabuglio, e anche un problema, alla vigilia della nomina del successore di Francesco Greco che vede tra i candidati anche il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, che darebbe continuità a una Procura e a quel metodo univoco fin dai tempi di Saverio Borrelli e il pool Mani Pulite che oggi è da più parti messo in discussione. Quello di cui stiamo parlando oggi riguarda il filone milanese della complessa inchiesta su Mps, che vede al centro i conti dell’istituto di credito nei bilanci dal 2012 al 2015 relativamente ai derivati Alexandria e Santorini, che erano stati sottoscritti dal Monte con Deutsche Bank e Nomura.

Derivati sottoscritti per coprire la perdita di due miliardi di euro derivante dall’operazione di acquisti di Antonveneta. Che i derivati non abbiano portato fortuna ai dirigenti di Mps lo dimostra il fatto che il 15 ottobre del 2020 la seconda sezione del tribunale di Milano, presieduta dal giudice Flores Tanga, ha condannato Alessandro Profumo (nel frattempo transitato a Leonardo) e Fabrizio Viola a sei anni di reclusione e a una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno, per aggiotaggio e false comunicazioni sociali in relazione alla semestrale del 2015 della banca senese. I due ex dirigenti sono stati condannati anche a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e due di interdizione dagli uffici pubblici d’impresa. Tre anni e sei mesi per false comunicazioni sociali anche all’ex presidente del collegio sindacale Paolo Salvadori, mentre la stessa banca, sulla base della legge 231 del 2001 sulle responsabilità degli Enti, ha subito una sanzione di 800.000 euro. Fino a qui, a leggere le cronache di quel giorno, la notizia vera non era tanto quella delle condanne –era pur sempre solo un primo grado di giudizio- quanto lo schiaffo morale subito dalla Procura, che aveva chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati. Ma il fatto più significativo, quello per cui oggi sono indagati Greco e i tre sostituti, è quel che avvenne prima del processo e che appare alquanto sconcertante. Soprattutto se ci aiuta, nella lettura politica della vicenda, tutto quel che è accaduto in seguito, dal processo Eni con gli scontri tra pm ma anche con la Procura generale, fino al capitolo Amara-Loggia Ungheria.

Che cosa viene infatti contestato all’ex procuratore milanese e ai suoi sostituti? Prima di tutto il fatto di aver omesso una serie di atti d’indagine e di avere di conseguenza favorito Profumo e Viola. È un sospetto molto grave, che non riguarda solo una sorta di pigrizia mentale, una sbadataggine superficiale nell’espletamento del proprio dovere, ma addirittura un comportamento attivo e voluto, finalizzato –sospettano il procuratore capo di Brescia, Francesco Prete e la pm Erica Battaglia- a coprire le tante smagliature e i reati commessi dalla dirigenza di Mps. Ma c’è di più. Perché gli uomini della Procura avrebbero fatto orecchi da mercante rispetto alle ripetute richieste di chiarimento avanzate dalla Procura generale. La quale si era attivata in quanto la legge sulle persone giuridiche, quali le banche, prevede che se la pubblica accusa decide di archiviare un’inchiesta, debba farlo con decreto motivato e poi sia obbligata a darne comunicazione alla procura generale. Che cosa avevano fatto invece in quel caso i pm di Milano? Avevano scritto il decreto e poi, rispetto alle tante richieste di chiarimento della pg Gemma Gualdi, avevano fatto finta di non sentire. È stato allora che la dottoressa aveva richiesto la perizia al professor Tasca.

Ma era anche accaduto in seguito, che altri sospetti siano stati avanzati dal giudice delle indagini preliminari Guido Salvini. Il quale, non convinto della conformità di quella perizia, si sarebbe a sua volta rivolto a un altro tecnico del settore, Gian Gaetano Bellavia. Il quale ha ribaltato completamente la perizia del collega, che è oggi indagato per falso, proprio per quell’ esame ritenuto “non conforme”. E ha anche smentito la procura di Milano, che aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta.

Gian Gaetano Bellavia, commercialista ed esperto di diritto penale dell’economia, è stato sentito come persona informata sui fatti nei giorni scorsi a Brescia. In seguito alla sua deposizione è stato aperto un nuovo filone di inchiesta sulla corretta contabilizzazione dei crediti deteriorati di Mps e sono state iscritte sul registro degli indagati altre sette persone. Ma questa è ancora la parte strettamente processuale. Il racconto sulla parte politica –si, dobbiamo chiamarla così- non è ancora finito. Perché nel frattempo sono spariti dalla scena milanese (ma non da quella bresciana deve dovranno difendersi nelle indagini per abuso d’ufficio) i primi pm che indagavano su Mps. Francesco Greco, andato in pensione e poi promosso consulente alla legalità dal nuovo sindaco di Roma Roberto Gualtieri.

Ma anche i pm Civardi, Clerici e Baggio, i quali hanno deciso di gettare la spugna dopo esser stati denunciati a Brescia dal grande accusatore di Mps Giuseppe Bivona, fondatore di Bluebell Partners. Ma non finisce qui. Perché anche la stessa sostituta pg Gemma Gualdi, colei che aveva invano e costantemente chiesto ai colleghi milanesi chiarimenti su quel decreto di archiviazione delle indagini sulla banca (cui del resto era seguita anche la proposta di assoluzione degli imputati nel processo), alla fine si era arresa e aveva segnalato il fatto a Brescia, competente per eventuali reati imputabili a magistrati milanesi. Cosa che ha particolarmente irritato il difensore di Francesco Greco, Massimo Dinoia, avvocato molto noto a Milano fin dai tempi di Mani Pulite. Il legale si dice sicuro del fatto che anche questa inchiesta, come già quella sul caso della Loggia Ungheria, finirà con l’archiviazione della posizione del suo assistito. Il che è probabile -dal momento che la responsabilità penale è personale- se l’ex procuratore non ha svolto un ruolo attivo nel comportamento, davvero singolare, dei suoi sostituti.

Ma il legale mette anche il dito nella piaga dei rapporti tra la procura della repubblica e quella generale e lancia una luce di sospetto sul fatto che “qualcuno si sia rivolto alla procura di Brescia” mentre i processi sono ancora in corso. Oltre alle nuove indagini infatti, si sta svolgendo l’appello del primo processo, in cui la pg Gualdi ha già chiesto la conferma delle condanne, con qualche riduzione per sopraggiunte prescrizioni. Ma, escludendo che l’avvocato Dinoia nella sua nota si sia preso la briga di dare attenzione a Giuseppe Bivona (de minimis non curat praetor), pare che parli proprio della dottoressa Gualdi, quando avverte del fatto che essersi rivolti alla procura di Brescia “appare improprio e pericoloso per la giurisdizione e per la doverosa tutela dell’autonomia e indipendenza dei magistrati della Procura di Milano, soprattutto in un momento delicato come questo, in cui il Csm deve nominare il nuovo procuratore”. Benvenuti nell’agone del Palazzo di giustizia di Milano.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.

Quando una Procura ritenga di proporre al gip l'archiviazione di una denuncia o di chiedere al Tribunale l'assoluzione degli imputati, i pm titolari, e il loro procuratore, possono - oltre a essere poi magari disattesi dai giudici secondo le ordinarie regole di controllo - essere anche ritenuti responsabili del reato di «abuso d'ufficio»? 

Il tema si pone ora per il procuratore milanese uscente Francesco Greco nel gorgo di inchieste sul Monte dei Paschi di Siena, annoso intreccio animato dalle denunce del consulente di fondi «attivisti» Giuseppe Bivona, e più di recente dalla Procura generale di Milano per l'inattivo silenzio con il quale la Procura della Repubblica avrebbe accolto nel 2021 le critiche della pg Gemma Gualdi alla perizia del consulente Roberto Tasca sui controversi criteri di contabilizzazione nell'era post-Mussari dei derivati «Alexandria» e «Santorini» e poi di 5 miliardi di euro di crediti deteriorati (Npl).

La notifica di una proroga, infatti, avvisa Greco (neoconsulente per la legalità del sindaco di Roma Gualtieri) che almeno da 6 mesi è indagato dal procuratore di Brescia, Francesco Prete, e dalla pm Erika Battaglia, con un consulente e tre pm. Il consulente è Tasca, dal 2016 al 2021 assessore al Bilancio del Comune di Milano nella prima giunta del sindaco Beppe Sala, indiziato di «falso» per una consulenza tecnica alla pg Gualdi (al momento del via libera dato dalla Procura generale alla scelta dei pm di archiviare la persona giuridica Mps), poi contraddetta da quella affidata dal gip Guido Salvini all'altro perito Gian Gaetano Bellavia. Gualdi e Bellavia sono stati ascoltati dai pm di Brescia.

I pm sono invece (come già era noto) i tre iniziali pm di Mps: Giordano Baggio (oggi alla Procura europea antifrode), Stefano Civardi (oggi pm delle inchieste sui depistaggi Eni-Nigeria), e Mauro Clerici, indagati come Greco (ma senza sinora aver ricevuto avvisi) per abuso d'ufficio in due loro richieste respinte dai giudici: il 31 agosto 2016 di prosciogliere in udienza preliminare i vertici 2013-2016 di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, e il 16 giugno 2020 di assolverli alla fine del processo in Tribunale, dove invece i giudici Tanga-Saba-Crepaldi condannarono i due imputati a 6 anni per aggiotaggio e false comunicazioni. 

L'avvocato Massimo Dinoia - che a Brescia difende Greco perché Francesco Mucciarelli (suo legale nella recente archiviazione dell'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio sulla loggia Ungheria) non può farlo essendo nei processi Mps il difensore di Viola e Profumo (oggi n.1 di Leonardo-ex Finmeccanica) - dichiara a La Stampa di non comprendere l'«astratta responsabilità per pensiero altrui», cioè a suo avviso dei tre pm per quanto «pensato quando chiesero archiviazione e assoluzione», benché «il codice proclami l'assoluta indipendenza dei pm dalla gerarchia».

E in una nota alle agenzie la difesa di Greco, lambendo richiami alla giustizia a orologeria evocati in passato da tanti indagati «eccellenti», arriva ad adombrare il «momento delicato in cui il Consiglio superiore della magistratura deve nominare il nuovo procuratore» al posto di Greco, che Dinoia riferisce essere «orgoglioso di aver servito lo Stato per 45 anni» nel «proteggere la legalità economica di questo Paese».

Intanto già da metà 2021 i tre pm denunciati da Bivona - cioè da colui al quale Dinoia accenna quando aggiunge che «Greco non ha mai fatto parte di banche di affari che hanno venduto prodotti di finanza strutturata a Mps, e non ha mai fatto da consulente per fondi di investimento lussemburghesi» - si erano sfilati dal terzo filone Mps sui crediti deteriorati, ereditato da altri due pm, Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri. I quali, ripartiti quindi da zero, pochi giorni fa hanno compendiato, in una richiesta di proroga al gip Salvini, tutta una serie di indagini svolte a carico - si è così appreso - di 9 indagati tra i quali Profumo, Viola, l'ex ad Marco Morelli, gli ex presidenti Massimo Tononi, Alessandro Falciai e Stefania Bariatti. Tra esse anche una nuova perizia affidata a Stefania Chiaruttini con un metodo di stime che i nuovi pm hanno commissionato diverso da quelli utilizzati sia da Tasca sia da Bellavia. 

Inchiesta sul Monte Paschi di Siena, la “Stampa”: «Indagato l’ex procuratore Francesco Greco».

La rivelazione arriva dalla "Stampa" di Torino che parla di un'indagine avviata dalla procura di Brescia che coinvolgerebbe anche altre persone. Il Dubbio l'11 marzo 2022.

Secondo quanto scrive la “Stampa” di Torino, Francesco Greco, ex procuratore capo di Milano, in pensione da novembre, è indagato per abuso d’ufficio in relazione alla vicenda dell’inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena. 

Il giornale diretto da Massimo Giannini afferma che i pm di Brescia ipotizzano che Greco abbia omesso alcuni accertamenti favorendo di fatto i dirigenti Profumo e Viola. Con lui sarebbero indagati i pm Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici, oltre all’ex assessore al Bilancio della giunta del sindaco Giuseppe Sala, per via di una consulenza tecnica sui bilanci di Mps al tempo in cui Alessandro Profumo e Fabrizio Viola erano rispettivamente presidente a ad della banca.

«I nomi di Greco e Tasca emergono in una proroga delle indagini notificata pochi giorni fa – scrive il quotidiano – Secondo quanto ipotizzano il procuratore Francesco Prete e il pm Enrica Battaglia, i magistrati avrebbero omesso di svolgere alcuni alcune attività di indagine favorendo così Profumo e Viola. Ma avrebbero anche omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla Procura generale di Milano, che era stata avvisata dell’archiviazione delle indagini». Proprio per questo motivo la Procura generale avrebbe a quel punto chiesto una perizia a Tasca, risultata poi «non conforme» e smentita da una seconda perizia. Gli indagati, tuttavia, si ritengono innocenti fino a sentenza irrevocabile di condanna.

Monica Serra per “La Stampa” l'11 marzo 2022.

È un nuovo terremoto che si abbatte sulla procura di Milano, già messa a dura prova dal caso Piero Amara e loggia Ungheria. Il procuratore in pensione da novembre, Francesco Greco, e i pm Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici sono indagati a Brescia per abuso in atti d’ufficio in relazione alla gestione delle indagini sulla banca Monte dei Paschi di Siena. 

Sotto inchiesta è finito anche, per falsa perizia, l’ex assessore al bilancio della giunta del sindaco Giuseppe Sala, Roberto Tasca, per via di una consulenza tecnica, depositata il 2 novembre del 2018 alla procura generale, sui bilanci dell’era di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente presidente e ad della banca senese, tra il 2013 e il 2016. 

I nomi di Greco (che nel frattempo ha incassato l’archiviazione per la loggia Ungheria) e Tasca emergono in una proroga delle indagini notificata pochi giorni fa. Secondo quanto ipotizzano il procuratore Francesco Prete e il pm Erica Battaglia, i magistrati avrebbero omesso di svolgere alcune attività di indagine favorendo così Profumo e Viola. 

Ma avrebbero anche omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla procura generale di Milano, che era stata avvisata dell’archiviazione delle indagini su Mps, in quanto persona giuridica. Prevede, infatti, la legge sulla responsabilità degli enti, che l’eventuale archiviazione delle indagini venga decisa dal pm che procede, con decreto motivato, dandone comunicazione alla procura generale. 

Che però, davanti a quel decreto, ha deciso di fare ulteriori accertamenti: una consulenza affidata proprio al professore Tasca e che, stando a quanto emerso, sarebbe stata «non conforme», e poi smentita da quella del collega Gian Gaetano Bellavia.

A sostegno delle ipotesi investigative dei pm bresciani ci sarebbe la richiesta di assoluzione di Profumo e Viola avanzata dalla procura di Milano nel processo sulle operazioni Alexandria e Santorini. Entrambi gli imputati sono stati poi condannati in primo grado a sei anni e a una multa di due milioni e mezzo di euro ciascuno, per aggiotaggio e false comunicazioni sociali. Ora il processo è in appello e la sostituta pg Gemma Gualdi ha già chiesto la conferma delle condanne con qualche aggiustamento in seguito alla prescrizione di alcune accuse. 

Ma a sostegno delle ipotesi accusatorie ci sarebbe anche la richiesta di archiviazione avanzata dagli stessi pm per il terzo filone di indagine sulla banca senese, quello relativo alla contabilizzazione dei crediti deteriorati. Richiesta di archiviazione che era stata poi respinta dal gip Guido Salvini che aveva ordinato la nuova perizia, che ha ribaltato la precedente.

«È una strana incolpazione che rappresenta anche una estemporanea interpretazione della norma costituzionale – sostiene il difensore di Greco, l’avvocato Massimo Dinoia – perché c’è una ipotesi di una asserita astratta responsabilità per pensiero altrui». Cioè per quello che i sostituti di Greco avrebbero «pensato quando hanno avanzato richiesta di assoluzione e di archiviazione». Anche perché, aggiunge il legale, «il codice penale proclama l’assoluta indipendenza dei sostituti nei confronti della gerarchia».

Querelati a Brescia da Giuseppe Bivona, fondatore di Bluebell Partners, i pm Civardi, Clerici e Baggio hanno deciso di rinunciare alle indagini. L’inchiesta, ancora in corso, è ora condotta dai pm Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri, che hanno iscritto nel registro degli indagati altri sette nomi e stanno verificando, in concreto, la coincidenza o l’eventuale scostamento tra le valutazioni fatte dalla Bce sulla scorta delle ispezioni effettuate nel 2014 e 2016 e il risultato dell’applicazione dei principi contabili. 

Ma non è stato solo Bivona a denunciare i magistrati milanesi. A dare un forte impulso alle indagini alla fine dello scorso anni, si scopre solo ora, è stata una segnalazione della sostituta pg di Milano, Gemma Gualdi. Che per mesi avrebbe provato a chiedere spiegazioni e informazioni alla procura, senza ricevere alcuna risposta.

Procura di Milano ancora senza pace: Greco indagato per l’affaire Mps. Sandro De Riccardis,  Luca De Vito su La Repubblica l'11 marzo 2022.

L’ex procuratore accusato dai pm di Brescia di abuso d’ufficio. Il suo legale: “Ha servito lo Stato, sarà archiviato” L’ennesimo colpo nel Palazzo diviso da mesi e che aspetta la nomina del nuovo capo da parte del Csm. In un ufficio già dilaniato dalle divisioni tra magistrati, un altro duro colpo per la procura di Milano è arrivato dai colleghi di Brescia che hanno iscritto l'ex procuratore capo Francesco Greco nel registro degli indagati per abuso d'ufficio nell'inchiesta Mps. Senza pace da mesi per le spaccature interne provocate dalla gestione dei fascicoli Eni Nigeria e "loggia Ungheria", che hanno messo uno contro l'altro pezzi dell'ufficio inquirente, al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si aspetta la nomina del nuovo capo da parte del Consiglio superiore della magistratura: tutti sperano che il plenum del Csm faccia presto a scegliere tra la soluzione interna (il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, ora responsabile dei... 

Mps, indagato l'ex procuratore Francesco Greco per abuso d'ufficio con tre pm e l'ex assessore di Milano Tasca.  

Per la procura di Brescia il procuratore e i tre pm titolari del fascicolo non avrebbe indagato a fondo sulle vicende dei derivati e della contabilizzazione dei crediti deteriorati della banca senese. L'accusa è di abuso d'ufficio.

L'ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per abuso in atti d'ufficio in relazione alla gestione dei fascicoli sulla banca Monte dei Paschi di Siena, per i quali erano già indagati, sempre a Brescia, i pm di Milano Stefano Civardi, Giordano Baggio e Maurizio Clerici. Oltre ai magistrati sarebbe indagato per falso anche Roberto Tasca, ex assessore al Bilancio della giunta del sindaco di Milano Giuseppe Sala, per una consulenza tecnica sui bilanci del 2018.

L'iscrizione di Greco, anticipata oggi da La Stampa, emerge dalla proroga indagini notificata pochi giorni fa agli indagati. L'ipotesi della procura di Brescia, con il procuratore Francesco Prete e il pm Erica Battaglia, è che non sarebbero stati svolti tutti gli accertamenti necessari nell'ichiesta sui dirigenti della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente e ex ad dell'istituto. In più avrebbero omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla procura generale di Milano, nel momento in cui era stata informata della decisione di chiedere l'archiviazione del fascicolo. Da qui la richiesta di consulenza a Tasca, considerata dalla procura generale "non conferme" sulla base di una seconda perizia.

I pm di Brescia basano la loro ipotesi accusatoria nei confronti di Greco - attualmente consulente alla legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri - partendo dalla richiesta di assoluzione di Profumo e Viola nel processo di primo grado da parte dei pm milanesi sulla gestione dei derivati Alexandria e Santorini. Richiesta non accolta dal tribunale che aveva condannato a sei anni e due milioni di multa i due indagati per aggiotaggio e false comunicazioni sociali. Una condanna di cui chiede la conferma la procura generale nel processo di appello ora in corso.

La procura di Milano aveva poi chiesto l'assoluzione anche in un altro filone del procedimento, quello sulla contabilizzazione dei crediti deteriorati, che invece era stata respinta dal gip Guido Salvini. Anche qui una nuova perizia aveva ribaltato la valutazione degli indagati. L'inchiesta ora è portata avanti da altri due pm della procura, i magistrati Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri, che hanno iscritto nel fascicolo altri sette indagati.

"Sotto un profilo strettamente personale, il dottor Greco, non avendo mai fatto parte di banche di affari che hanno venduto prodotti di finanza strutturata sia alla Parmalat che a Mps e non avendo mai fatto da consulente per fondi di investimento lussemburghesi, è felice di aver servito lo Stato per 45 anni e di essersi dedicato a proteggere la legalità economica di questo Paese". Lo scrive l'avvocato Massimo Dinoia, legale dell'ex procuratore di Milano Francesco Greco, in una nota. "Come al solito - scrive Dinoia - il procedimento si concluderà con l'ennesima archiviazione sia perché i fatti non sussistono sia perché la tesi della responsabilità del procuratore (per fatto o pensiero altrui) è singolare e giuridicamente infondata". Il difensore nella nota chiarisce anche che è "preoccupante" che, mentre i procedimenti su Mps sono ancora in corso, "qualcuno si sia rivolto alla Procura di Brescia". Ciò "appare improprio e pericoloso per la giurisdizione e per la doverosa tutela dell'autonomia e indipendenza dei magistrati della Procura di Milano, soprattutto in un momento delicato come questo, in cui il Csm deve nominare il nuovo Procuratore".

Amara arrestato, indagato e processato in tutt’ Italia. Gli crede (e lo usa) solo la Procura di Potenza. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 marzo 2022.  

Soltanto a Potenza la procura ha dato incredibilmente piena credibilità alle dichiarazioni di Amara dopo averlo arrestato in relazione all'inchiesta che ha falcidiato la Procura di Taranto mettendo fine alla carriera del procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente sotto processo dinnanzi al Tribunale di Potenza, e su cui pende un altro procedimento che lo vede indagato insieme al prof. Ernesto Laghi.

L’avvocato-faccendiere siciliano Piero Amara dopo otto mesi di detenzione, ha ottenuto la semilibertà, che gli consentirà di trascorrere le giornate fuori dal carcere di Spoleto, lavorando come cuoco nella mensa per i poveri della Caritas. La Procura di Milano non gli dato neanche il tempo a mettere piede fuori dal carcere che ha aperto una nuova inchiesta a suo carico sui contraddittori verbali che aveva firmato davanti ai pm Laura Pedio e Paolo Storari sulla famigerata “loggia Ungheria” . Verbali che hanno causato ad entrambi i magistrati non pochi problemi, venendo accusati di averli divulgati. Nei confronti della Pedio la Procura di Brescia ha appena chiesto l’archiviazione. Nei confronti del pm Storari l’accusa è già finita archiviata.

Adesso però il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco vogliono giustamente e dovutamente accertare e ricostruire come alcune fotografie di quei documenti siano uscite finendo nelle mani di Vincenzo Armanna. il quale insieme ad Amara, oltre a essere stati i testimoni del processo contro i vertici dell’Eni (conclusosi con l’assoluzione), sono entrambi collegati anche da un’altro procedimento, quello sul finto complotto Eni, per il quale, sempre a Milano, la Procura ha depositato una richiesta di rinvio giudizio.

Nel nuovo fascicolo d’indagine aperto dalla Procura di Milano è stato accertato che Vincenzo Armanna ha tirato fuori uno di quei fogli durante un interrogatorio svoltosi il 17 febbraio 2020 proprio davanti ai magistrati Pedio e Storari che indagavano sulla fantomatica “loggia Ungheria”. Il pm Storari ha davanti ai colleghi di Brescia ha dichiarato : “Armanna mi sventola in faccia una pagina dell’interrogatorio dell’11 gennaio 2020 di Amara dove si parla di Ungheria. Interrogatorio secretato ovviamente… e me la sventola la fotografia dove ci sono le firme…“

Alla domanda dei magistrati sulla provenienza di quel documento secretato, come al solito arivano come di consueto balle…spacciate per spiegazioni. Prima parla di un ragazzino con la moto… poi fa il nome del dipendente della Polizia di Stato Filippo Paradiso arrestato con Amara a Potenza…. A quel punto il pm Storari avrebbe anche cercato di capirci qualcosa e spiega: “Perquisiamo Paradiso, lo sentiamo… e scopriamo che è una balla” e Storari si fa qualche idea: “Quello che verosimilmente è successo… a fine dicembre 2019 Amara chiede di rileggere gli interrogatori… Io non sono presente a questa rilettura…”. Storari non ricorda se in quel momento c’era anche la collega Pedio. Ma ipotizza che poteva esserci un ufficiale di pg che però sfortunatamente nel frattempo è deceduto.

Circostanze che chiaramente complicano le verifiche. I magistrati della Procura di Milano hanno in mano la versione di Armanna, il quale sostiene di aver ricevuto il documento da un emissario di Amara. A quel punto Amara, che in precedenza ha già negato, viene riconvocato per un nuovo interrogatorio. Nel frattempo però arriva la Procura generale di Perugia che ha contestato il provvedimento con il quale è stata concessa la semilibertà all’avvocato sostenendo che “questi abbia manifestato la volontà di ripudio della condotta in precedenza tenuta, mediante l’attività di collaborazione che sarebbe dimostrata da dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, rese presso diverse autorità giudiziarie”. 

Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani ha così spiegato le ragioni che hanno spinto il suo ufficio a impugnare quella decisione: “Non è dimostrato che la collaborazione sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti di particolare gravità” aggiungendo che si sarebbe “in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta a destabilizzare le istituzioni”. Più di una Procura, infatti, in passato si è fatta portare per mano dall’avvocato. Il nuovo appuntamento con le sue dichiarazioni da collaborante in semilibertà smentito dalla Procura generale perugina è tornato in Procura a Milano.

Soltanto a Potenza la procura ha dato incredibilmente piena credibilità alle dichiarazioni di Amara dopo averlo arrestato in relazione all’inchiesta che ha falcidiato la Procura di Taranto mettendo fine alla carriera del procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente sotto processo dinnanzi al Tribunale di Potenza, e su cui pende un altro procedimento che lo vede indagato insieme al prof. Ernesto Laghi. Procedimenti che di udienza in udienza stanno vedendo svanire nel nulla le accuse della Procura di Potenza, smentite dai presunti testimoni, dimostrando l’allegra gestione “mediatica” e l’insussistenza probatoria dei capi d’accusa. 

Il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio ha più volte cercato di alzare il livello delle sue inchieste, cercando di coinvolgere il “cerchio magico” di Matteo Renzi collegandolo alle vicende dello stabilimento siderurgico ex-Ilva di Taranto, acquisendo documenti dalle procure di mezz’ Italia, ma i legali del prof. Laghi hanno smontato le accuse facendole diventare un castello di aria di fantasiosi capi d’accusa.

Dietro le quinte delle vicende lucano-pugliesi si nasconde il tentativo della corrente sinistrorsa di Area di vedere accrescere le adesioni dei magistrati, gestendo non poche procure (Bari, Lecce, Taranto e Potenza) al cui vertice guarda caso sono stati nominati tutti magistrati di quella corrente, grazie anche al lavoro sotterraneo (ma anche pubblico) del capo delegazione di Area al Csm, Giuseppe Cascini, il quale ha cercato ripetutamente di sanzionare l’ex magistrato Capristo ora in pensione. E per capire la follia “sinistrorsa” basta ascoltare l’ultima udienza dinnanzi alla sezione disciplinare di piazza dei marescialli, dove persino il sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione ha evidenziato la banalità delle accuse di Cascini a Capristo.

Resta da chiedersi a questo punto come Giuseppe Cascini dopo quanto emerso dalle sue chat con Luca Palamara possa rimanere al Consiglio superiore della magistratura? E i vertici del Csm, ad iniziare dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, come mai non dicono una parola a tal riguardo? A porsi questi interrogativi è stato dalle colonne del Fatto Quotidiano, giornale certamente non ostile nei confronti dei pm, l’ex presidente di sezione della Corte di Cassazione Antonio Esposito. 

L’alto magistrato, da tempo editorialista sul giornale diretto da Marco Travaglio, è noto al grande pubblico per aver condannato nel processo sui diritti Mediaset. Condanna che determinò la cacciata dell’ex premier dal Parlamento e per ciò solo “al di sopra di ogni sospetto”. Inoltre Esposito ha anche querelato Palamara dopo la pubblicazione del libro “Il Sistema” e quindi non può essere considerato certamente come un suo “sodale”. Riprendendo quanto scritto dal Riformista qualche giorno addietro, Esposito aveva raccontato i rapporti intrattenuti fra Palamara e Cascini, uno dei “capi” storici di Magistratura democratica (confluito in Area) . Giuseppe Cascini, componente della sezione disciplinare del Csm, era stato ricusato prima dello scorso Natale da Cosimo Ferri, sotto procedimento per aver partecipato alla cena dell’hotel Champagne a maggio del 2019 quando si discusse della nomina del nuovo procuratore di Roma. 

Ferri, prima di entrare in Parlamento era il leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, aveva motivato la ricusazione facendo riferimento a una mail inviata da Cascini il 28 febbraio 2015 alla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e all’allora segretario di Mi. In questa mail si stigmatizzava il comportamento di Ferri che, a giudizio di Cascini, era entrato in quel periodo nella compagine governativa quale sottosegretario per interesse personale. Oltre a questa mail, Ferri aveva poi prodotto una dichiarazione rilasciata da Palamara al gup di Perugia Piercarlo Frabotta relativa a un incontro avuto con Cascini nel corso del quale quest’ultimo gli avrebbe perentoriamente detto: ”Non frequentare Ferri, non te lo dico più!”. Cascini, interrogato dal collegio che doveva decidere sulla sua ricusazione, si era difeso sostenendo che fosse stato Palamara a chiedergli un incontro per parlare dell’elezione del vice presidente del Csm.

Le chat presenti sul telefono di Luca Palamara acquisite dalla Procura di Perugia hanno però smentito la ricostruzione di Cascini, essendo stato lui a chiedergli l’incontro, peraltro avvenuto dopo l’elezione di David Ermini a vice presidente a settembre 2018. “C’è discordanza fra quanto detto da Cascini e le chat”, aveva replicato Ferri, presente all’interrogatorio. “È un fatto grave perché ha detto cose diverse“, aveva poi aggiunto Ferri prima che gli venisse bloccato il microfono. Sulla testimonianza non corrispondente a verità di Cascini, entra quindi in gioco il procuratore generale della Cassazione Salvi, anch’egli storico esponente di Magistratura Democratica (quello che guarda caso ha smarrito il suo telefono…) .

Salvi nel suo ruolo è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti di tutti i magistrati italiani. Azione disciplinare esercitata in regime di monopolio in quanto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, a cui la Costituzione assegna tale potestà, vi ha rinunciato per evitare “sovrapposizioni” con la Procura generale. In una conferenza stampa nell’aula magna della Cassazione a giugno 2020, indetta per annunciare le iniziative disciplinari conseguenti lo scoppio del “Palamaragate”, Salvi aveva tranquillizzato i presenti rassicurandoli che non stava di certo, testualmente, “ciurlando nel manico”.

Come racconta il collega Paolo Comi sulle colonne del quotidiano Il Riformista, “Proprio a questo fine la Procura generale ha elaborato dei criteri di valutazione del materiale (chat, ndr) che ci è stato sottoposto. Questi criteri sono stati elaborati dal gruppo di lavoro che è composto dai magistrati che mi sono a fianco, cioè il procuratore aggiunto Luigi Salvato che è il responsabile del settore disciplinare e dall’avvocato generale  Piero Gaeta che è responsabile del settore pre-disciplinare, nel settore dove viene fatta una valutazione del materiale informativo che arriva per cui decidere se aprire la fase disciplinare o archiviare la procedura“.

E tutto ciò pur essendo Salvi, Salvato e Gaeta coinvolti nelle chat di Palamara per avergli richiesto, direttamente o indirettamente di essere nominati ad incarichi direttivi. Il sospetto, legittimo, è che Salvi non apra un fascicolo su Cascini perché, a parte la comune appartenenza correntizia sarebbe costretto ad aprilo anche su se stesso. L’anno scorso, per questo aspetto, un gruppo di magistrati appartenenti ad Articolo 101, il gruppo “anti correnti” aveva chiesto ai diretti interessati di chiarire i rapporti con Palamara emersi dalle chat e riportati nel suo libro scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti.

Si tratta di fatti che, ove fossero veri, sostiene Il Riformista (e noi concordiamo con i colleghi) gettano un’ombra inquietante sia sui loro asseriti protagonisti che sulla sorprendente circolare dello stesso Procuratore generale che “assolve per principio chi raccomanda se stesso per incarichi pubblici e chi quella raccomandazione accetta”, ricordavano le toghe. “Appare evidente – proseguiva l’appello dei magistrati non “lottizzati” e schierati politicamente – che la gravità delle accuse rivolte pubblicamente e ora note a tutti e la rilevanza dei ruoli ricoperti nell’assetto costituzionale da Salvi e Cascini impongono loro di smentire in maniera convincente i fatti o dimettersi dalle cariche ricoperte. “Confidiamo che Salvi e Cascini sapranno scegliere una delle due alternative. Lo devono alla Repubblica italiana alla quale hanno prestato, come noi, giuramento di fedeltà”.

Risultato ? Silenzio assoluto. Come se nulla fosse accaduto, tutti attaccati alle proprie poltrone, salvandosi a vicenda. E poi certe persone parlano di “giustizia” e di indipendenza della Magistratura….La realtà è che neanche “mastro” Geppetto, l’inventore di Pinocchio avrebbe saputo e potuto fare di meglio! Redazione CdG 1947

Fabio Amendolara per “La Verità” il 19 marzo 2022.

Dopo otto mesi di detenzione, l'avvocato-faccendiere Piero Amara ha ottenuto la semilibertà, che gli consentirà di trascorrere le giornate fuori dal carcere di Spoleto, lavorando come cuoco nella mensa per i poveri della Caritas. Ma non ha neppure fatto in tempo a mettere piede fuori dall'istituto di pena che la Procura di Milano ha aperto una nuova inchiesta. Ancora una volta al centro ci sono i controversi verbali sulla presunta loggia Ungheria che aveva firmato davanti ai pm Laura Pedio e Paolo Storari.

E che hanno causato non pochi problemi a entrambi, accusati di averli divulgati. Per la prima la Procura di Brescia ha appena chiesto l'archiviazione. Per Storari il caso è già finito in archivio. E ora il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco vorrebbero ricostruire come siano uscite alcune fotografie di quei documenti, che sarebbero finite nelle mani di Vincenzo Armanna. Amara e Armanna, oltre a essere stati i testimoni del processo contro i vertici dell'Eni (finito con l'assoluzione), sono legati anche da un'altra vicenda: il finto complotto Eni, per il quale, sempre a Milano, c'è una richiesta di rinvio giudizio.

Nel nuovo fascicolo milanese è stato ricostruito che Armanna il 17 febbraio 2020 ha tirato fuori uno di quei fogli durante un interrogatorio proprio davanti ai magistrati che indagavano su Ungheria: Pedio e Storari. Tanto che Storari ne ha parlato con i colleghi di Brescia: «Armanna mi sventola in faccia una pagina dell'interrogatorio dell'11 gennaio 2020 di Amara dove si parla di Ungheria. Interrogatorio secretato ovviamente... e me la sventola la fotografia dove ci sono le firme...

Richiesto poi di dire chi te l'ha dato e chi non te l'ha dato, inventa balle... parla di un ragazzino con la moto... fa il nome di Filippo Paradiso (il funzionario della polizia di Stato arrestato con Amara a Potenza, ndr)...». Storari avrebbe anche tentato di capirci qualcosa: «Perquisiamo Paradiso, lo sentiamo... e scopriamo che è una balla». Un'idea però Storari se l'è fatta: «Quello che verosimilmente è successo... a fine dicembre 2019 Amara chiede di rileggere gli interrogatori... Io non sono presente a questa rilettura...». Storari non ricorda se c'era Pedio in quel momento. Ma ipotizza che poteva esserci un ufficiale di pg che nel frattempo è deceduto. 

Il che ovviamente complica le cose. I pm milanesi hanno in mano la versione di Armanna, che sostiene di aver ricevuto il documento da un emissario di Amara. E Amara, che ha già negato, verrà riconvocato per un nuovo interrogatorio. Nel frattempo la Procura generale di Perugia ha contestato il provvedimento che ha concesso la semilibertà all'avvocato ritenendo che «questi abbia manifestato la volontà di ripudio della condotta in precedenza tenuta, mediante l'attività di collaborazione che sarebbe dimostrata da dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, rese presso diverse autorità giudiziarie».

Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, però, ha spiegato le ragioni che hanno spinto il suo ufficio a impugnare quella decisione: «Non è dimostrato che la collaborazione sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti di particolare gravità». Non solo: si sarebbe «in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta a destabilizzare le istituzioni». Più di una Procura, infatti, in passato si è fatta portare per mano dall'avvocato. Il nuovo appuntamento con le sue propalazioni da collaborante in semilibertà smentito dalla Procura generale perugina è a Milano.

(ANSA il 18 marzo 2022) - Per la Procura generale di Perugia "non è dimostrato che l'attività collaborativa" dell'avvocato Piero Amara "sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti criminosi di particolare gravità". Lo sottolinea lo stesso Ufficio. 

"Nel procedimento in esame - scrive la Procura - non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti a carico di Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione". Amara è tra l'altro al centro dell'indagine della procura di Perugia sulla presunta loggia Ungheria per la quale non è stato raggiunto da alcun provvedimento restrittivo.

Le valutazioni sulla collaborazione di Amara sono collegate alla decisione della Procura generale di Perugia di impugnare la concessione della semilibertà. 

"In primo luogo, nel procedimento in esame - si legge nella nota diffusa dal procuratore generale Sottani - non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti penali a carico del Sig. Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione. Per di più, l'emissione in questi stessi procedimenti di atti contenenti l'avviso della conclusone delle indagini ipotizzano reati di particolare gravità che smentiscono la tesi del tribunale". 

"Inoltre - sostiene ancora la Procura generale -, non è dimostrato che vi sia stata una coerente dichiarazione autoaccusatoria, perché in alcuni casi il Sig. Amara è stato sottoposto ad indagini a seguito di dichiarazioni rilasciate da altri soggetti. 

In definitiva, questa Procura generale ritiene che dalle condotte tenute dal Sig. Amara nei procedimenti penali, nei quali è attualmente sottoposto ad indagini, non emerga la volontà di collaborazione, ma al contrario si sia in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario".

Caso Verbali, Amara indagato per la fuga di notizie. E Perugia smentisce la sua attendibilità. L'ex legale esterno di Eni è indagato a Milano. Secondo il pg Sottani non emerge «la volontà di collaborazione», ma al contrario si sarebbe in presenza «di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario». Simona Musco su Il Dubbio il 18 marzo 2022.

Nuovo colpo di scena a Milano sulla fuga di notizie legata ai verbali di Piero Amara: la procura di Milano ha chiuso una nuova inchiesta, iscrivendo sul registro degli indagati proprio l’ex avvocato esterno dell’Eni, con l’accusa di aver fatto circolare i verbali ancora prima che il pm Paolo Storari li consegnasse all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ora a processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. Una notizia, questa, che potrebbe dunque cambiare le sorti del processo a carico dell’ex pm di Mani Pulite, accusato di aver fatto leggere le dichiarazioni di Amara sulla presunta Loggia Ungheria per screditare il consigliere del Csm Sebastiano Ardita. A coordinare le indagini sono il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. Nel febbraio del 2020, l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati), mostrò alcune pagine di quei verbali secretati all’aggiunto Laura Pedio e al pm Storari, circa 90 pagine che, secondo le sue dichiarazioni, gli sarebbero state consegnate proprio da Amara. L’ex avvocato ha sempre respinto le accuse e la prossima settimana verrà sentito dai magistrati milanesi in merito alle accuse. Nel frattempo, però, sono circa 20 i fascicoli aperti a suo carico con l’ipotesi di calunnia in merito alle dichiarazioni sulla presunta loggia, uno per ciascuna delle persone indicate come associate.

Che la credibilità di Amara, specie in relazione alle dichiarazioni sulla presunta loggia, fosse traballante era già stato evidenziato da Storari, che indagando nell’ambito del “Falso complotto Eni” – fascicolo nel quale erano maturate le dichiarazioni su Ungheria – era giunto alla conclusione di trovarsi di fronte ad un «calunniatore». Ma ora è anche la procura generale di Perugia – dove è in corso il processo a carico di Luca Palamara, nel quale l’affaire Amara gioca un ruolo determinante per la tenuta dell’accusa – a mettere in discussione la sua leale collaborazione. Secondo il pg Sergio Sottani, infatti, «non è dimostrato che l’attività collaborativa» dell’ex legale esterno di Eni «sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti criminosi di particolare gravità». Il parere arriva a seguito della concessione della semilibertà ad Amara per la sua «attività di collaborazione» riconosciuta dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, competente in quanto il legale è detenuto a Terni, decisione impugnata da Sottani. «Nel procedimento in esame – scrive la Procura – non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti a carico di Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione». «In primo luogo, nel procedimento in esame – si legge nella nota di Sottani – non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti penali a carico del Sig. Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione. Per di più, l’emissione in questi stessi procedimenti di atti contenenti l’avviso della conclusone delle indagini ipotizzano reati di particolare gravità che smentiscono la tesi del tribunale». «Inoltre – sostiene ancora  -, non è dimostrato che vi sia stata una coerente dichiarazione autoaccusatoria, perché in alcuni casi il Sig. Amara è stato sottoposto ad indagini a seguito di dichiarazioni rilasciate da altri soggetti. In definitiva, questa Procura generale ritiene che dalle condotte tenute dal Sig. Amara nei procedimenti penali, nei quali è attualmente sottoposto ad indagini, non emerga la volontà di collaborazione, ma al contrario si sia in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario».

E a Brescia si sta per chiudere il cerchio anche attorno alla posizione di Pedio, per la quale la procura ha chiesto l’archiviazione per l’accusa di omissione d’atti d’ufficio, così come fatto per l’ex procuratore Francesco Greco. La vicenda verbali, dunque, vedrà sul banco degli imputati solo Davigo, dopo l’assoluzione di Storari perché il fatto non costituisce reato. Ma la nuova inchiesta su Amara potrebbe cambiare le carte in tavola, specie in relazione alla consegna di quei verbali alla stampa. Intanto va avanti l’inchiesta nei confronti dell’aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per rifiuto d’atti d’ufficio in merito al mancato deposito di prove utili alla difesa nel processo Eni-Nigeria. Gli inquirenti bresciani hanno disposto accertamenti tecnici sul telefono di Armanna all’esito dei quali decideranno sulle posizioni dei due magistrati.

Per la procura di Milano Amara si è inventato tutto: aperti 20 procedimenti per calunnia. I fascicoli riguardano, in modo singolo, tutte le persone menzionate dall'avvocato siciliano quali presunti appartenenti alla Loggia massonica "Ungheria". Intanto la procura di Brescia chiede l'archiviazione per Laura Pedio. Il Dubbio il 18 marzo 2022.

Sono circa venti i fascicoli aperti sui tavoli della procura di Milano con l’ipotesi di calunnia a carico dell’avvocato Piero Amara. Uno, da quanto appreso, per ciascuna delle persone che l’avvocato siciliano avrebbe detto con le sue dichiarazioni di appartenere alla presunta loggia massonica Ungheria. E in questo scenario che i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, coordinati dall’aggiunto Maurizio Romanelli, insieme alla sezione di polizia giudiziaria della GdF stanno compiendo accertamenti e verifiche per capire se ci siano gli estremi per contestare ad Amara nuove accuse di calunnia per ogni singola posizione al vaglio.

Nel frattempo, sempre al legale, al centro di numerose inchieste che hanno scosso gli uffici giudiziari di diverse città italiane, in primis Milano, i pm Civardi e Di Marco hanno notificato nelle scorse settimane un nuovo avviso di chiusura delle indagini preliminari. Nell’atto, Amara è accusato della rivelazione del segreto del procedimento penale in relazione perchè avrebbe diffuso parte dei verbali resi al pm Paolo Storari e Laura Pedio a verbale sull’esistenza della presunta associazione segreta. Una circolazione parallela e antecedente a quella dell’aprile del 2020 quando il pm Storari consegnò i documenti all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Infine, la procura di Brescia ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale nei confronti di Laura Pedio.

“Loggia Ungheria”, Piero Amara accusato di aver fatto circolare i suoi verbali. Nuovo filone investigativo della procura di Milano sulle dichiarazioni dell'ex legale dell'Eni, al quale i magistrati contestano il reato di rivelazione del segreto istruttorio. Il Dubbio il 17 marzo 2022.

La Procura di Milano ha chiuso una nuova inchiesta sui verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara nei quali l’ex legale esterno di Eni parlò della presunta Loggia Ungheria capace di condizionare le nomine in magistratura. Ad anticipare la notizia è stato il TgLa7. A coordinare le indagini sul nuovo filone sono il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. L’ipotesi della procura è che quei verbali, coperti da segreto, circolassero in parte già prima della consegna ad aprile 2020 da parte del pubblico ministero Paolo Storari all’allora consigliere sterno del Csm Piercamillo Davigo di una versione in Word delle carte.

Responsabile, per i pm milanesi, sarebbe proprio l’avvocato Amara, che per questo risulta indagato. L’ipotesi è di rivelazione di segreto in un procedimento penale. Nel febbraio del 2020, infatti, l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni Nigeria, mostrò alcune pagine di quei verbali secretati all’aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari, che lo stavano interrogando. Armanna ha riferito di aver ricevuto quelle carte, in tutto una novantina di pagina, dall’avvocato Amara, che tuttavia ha sempre negato ogni coinvolgimento. La prossima settimana l’avvocato Amara verrà sentito in Procura a Milano e potrà chiarire la sua posizione.

I nodi da sciogliere. Loggia Ungheria, tutte le contraddizioni sulla cupola segreta svelata da Amara. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Marzo 2022. 

Adesso la domanda è: qualcuno avrà il coraggio di aprire quell’inchiesta sulla “Loggia Ungheria”? Non ci sono molte alternative, dopo che il giudice di Brescia ha assolto il pm milanese Paolo Storari, dicendo che aveva ragione lui e non i suoi superiori, il procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, che quel fascicolo proprio non lo volevano aprire. Né per indagare per calunnia chi aveva nominato la loggia, né per verificare se esistesse quella sorta di cupola, composta di giudici, alti ufficiali e politici che avrebbero governato la magistratura italiana, di cui aveva parlato, in diverse deposizioni tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, l’avvocato Piero Amara, legale esterno di Eni e coinvolto in diverse indagini, dalla Sicilia fino a Milano.

Ma soprattutto, e questo era un problema, il grande accusatore del processo Eni. Il giovane pm Storari, con la caparbietà tipica dell’allievo di Ilda Boccassini con cui aveva lavorato all’antimafia, riteneva che su quelle dichiarazioni comunque un fascicolo andasse aperto, o per inviare qualche informazione di garanzia alle persone i cui nomi erano stati fatti da Amara, oppure per incriminare l’avvocato esterno di Eni per calunnia. Esclusa comunque l’inerzia che rendeva immobili i due dirigenti dell’ufficio. Da un lato il procuratore Greco, che a suo parere non voleva correre il rischio che fosse in qualche modo intaccata l’attendibilità del testimone d’accusa del processo per corruzione in cui erano imputati i massimi vertici di Eni. Che saranno poi comunque assolti. Ma anche Laura Pedio, che era sua superiore ma anche colei che insieme a lui aveva raccolto quell’importante testimonianza. Anche lei pareva immobile, pietrificata. Da un calcolo di politica giudiziaria di Greco, cui era molto legata, o da una sua diversa valutazione rispetto alla rilevanza del contenuto di quei verbali? In ogni caso, perché tenerli nel cassetto?

Passa qualche mese, siamo all’aprile del 2020, e lo scalpitante Storari si confida con Alessandra Dolci, colei che ha assunto il ruolo di Ilda Boccassini dopo il suo pensionamento al vertice della Dda. Dolci, non è un segreto, è la compagna di Piercamillo Davigo e a lui lo indirizza, in quanto membro del Csm, per un consiglio. Gli incontri, nell’abitazione del ex membro del pool Mani Pulite, sono diversi, secondo il racconto dello stesso Storari ai magistrati di Brescia che lo avevano indagato per rivelazione di atti d’ufficio dopo che, alla fine degli incontri, aveva consegnato a Davigo una pendrive con i famosi verbali. Colui che all’epoca era ancora un membro del Csm, prima del contestato avvio verso la pensione, aveva rassicurato il giovane collega, garantendogli che non avrebbe commesso nessun reato, consegnandogli atti d’indagine segreti, perché è consentito ai componenti del Csm poterli ricevere. Pare che a nessuno dei due sia venuto il dubbio che questi comportamenti informali e disinvolti siano cosa diversa dalla procedura prevista dallo stesso Csm, che prevede di sottoporre il caso con plico riservato al comitato di presidenza. E non brevi manu a un singolo consigliere. Fatto sta che Storari –e la sua, chiamiamola ingenuità, è davvero sorprendente- si comporta come un qualunque studentello davanti al maestro e fa la sua consegna. E che dire del comportamento di colui che fu chiamato “dottor sottile”?

L’assoluzione di Paolo Storari da parte della stessa giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Brescia Federica Brugnara che ha rinviato a giudizio per lo stesso reato Piercamillo Davigo, dopo che lui aveva divulgato i verbali a una serie di personaggi, interni ed esterni al Csm, indica già il percorso mentale che porterà, tra due settimane, alla motivazione della sentenza. Ma sarà un tribunale a giudicare Davigo, il prossimo 20 aprile, e sappiamo che l’ex pm non manca di dialettica e di argomenti persuasivi. Del resto non è casuale il fatto che, mentre il suo “allievo” ha scelto, e con successo, il rito abbreviato, il “maestro” ha voluto un processo pubblico. Ma dovrà difendersi, a questo punto, non solo per aver diffuso, in una sorta di catena di Sant’Antonio che porterà quei verbali, forse tramite una segretaria, fino alle mani dell’unico, il consigliere Csm Nino Di Matteo che, al grido di “il re è nudo” farà esplodere lo scandalo. Il tribunale potrà anche contestargli, sotto forma di aggravante, il fatto di aver indotto Storari a ritenere che la consegna di atti segreti a un solo consigliere e per via informale equivalesse all’osservanza delle procedure previste dalle circolari del Csm. Proprio perché è probabile (lo sapremo con certezza dopo aver letto le motivazioni della sentenza) che Paolo Storari sia stato assolto a causa della sua non conoscenza delle regole interne al Csm e per essersi fidato di un collega di grande storia e competenza.

Ma è palese a questo punto una contraddizione non da poco, perché si apra davvero quel famoso fascicolo d’indagine sulla Loggia Ungheria. Perché, da un lato c’è il pm Storari che voleva iniziare l’indagine, e che ha avuto ragione sui suoi superiori che restavano inerti alle sue sollecitazioni. Ma è altrettanto pacifico che, sempre a Brescia, un giudice ha archiviato la posizione del procuratore Francesco Greco (oggi in pensione), ritenendo che non ci sia mai stata una sua volontà insabbiatrice della vicenda. E quindi che Storari avesse avuto torto. Se anche la posizione dell’aggiunta Laura Pedio, ancora aperta, dovesse concludersi con l’archiviazione, la contraddizione sarebbe clamorosa. Oltre a tutto sul futuro del pm, che, una volta assolto, può occupare a pieno titolo ancora il suo ufficio e continuare a svolgere il suo ruolo, pende ancora una procedura del Csm per trasferimento per incompatibilità ambientale. Anche se era stata già bocciata la proposta del procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi di allontanamento in via cautelare. E se la quasi totalità dei sostituti milanesi era insorta in suo favore e contro il procuratore Greco.

Qualcuno dovrà ben scioglierla, la contraddizione. Almeno per due motivi. Il primo è che l’intero Paese ha il diritto di sapere se in Italia, oltre al Sistema così ben descritto da Sallusti e Palamara, c’era anche una cupola segreta che orientava i processi e tutta quanta la politica (giudiziaria, ma non solo) italiana. L’altro motivo, apparentemente più circoscritto ma non meno importante, ha a che fare con il processo Eni. Che intanto non è finito perché, con quella procedura che nel nostro ordinamento consente al pm di ricorrere in giudizio contro gli imputati già assolti in primo grado, ci sarà un appello. Che oltre a tutto si aprirà già avendo alle spalle un bel fardello di polemiche, dopo che la procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha nominato come pg d’aula Celestina Gravina invece del pm del primo grado Fabio De Pasquale, che lo aveva richiesto. E già risuonano le campane del Fatto quotidiano che con sarcasmo nei giorni scorsi titolava con un certo anticipo sui tempi: “Appello Eni-Nigeria: a Milano si accettano scommesse sul finale”.

La rilevanza del processo Eni è dovuta al fatto che ruota ancora intorno ai due testi d’accusa, Amara e Armanna. Il sospetto è che –Storari lo ha detto esplicitamente nelle sue deposizioni a Brescia- non solo i due pm d’aula De Pasquale e Spadaro, oggi indagati per rifiuto di atti d’ufficio, ma anche lo stesso Francesco Greco, avessero impegnato una grossa scommessa sulla fine di quel processo con le condanne. E di conseguenza non gradissero interferenze di nessun genere sulla genuinità delle deposizioni e sull’integrità dei personaggi. Non disturbate il manovratore, insomma. E non si deve mai dimenticare il fatto che, quando si tentò di dare credibilità a vociferazioni del solito Amara sulla possibilità che il presidente del tribunale che stava celebrando il processo, Marco Tremolada, fosse “avvicinabile” dagli avvocati Diodà e Severino che difendevano i vertici Eni, era stato lo stesso Greco a precipitarsi a inviare gli atti a Brescia. In quel caso l’avvocato Amara era stato ritenuto credibile? E sulla cupola segreta che condizionava tutti i processi?

Tiziana Maiolo.Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 24 marzo 2022.  

Stai a vedere che nell'indagine sulla loggia Ungheria, la P2 del terzo millennio, a pagare sarà solo Marcella Contrafatto, l'ex segretaria di Piercamillo Davigo quando era al Consiglio superiore della magistratura? Visti i precedenti, non ci sarebbe da stupirsi granché. 

I magistrati che hanno maneggiato i verbali esplosivi delle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara, che aveva rivelato l'esistenza di questa nuova massoneria, nelle scorse settimane sono stati infatti archiviati o sono in via di archiviazione. Il primo ad essere archiviato era stato il procuratore di Milano Francesco Greco. Subito dopo la stessa sorte era toccata al pm Paolo Storari.

E a breve, la Procura ha già dato parere positivo, sarà il turno di Laura Pedio, la vice di Greco. Resta "sub judice" Davigo, il cui processo per rivelazione del segreto proprio per la diffusione di questi verbali inizierà il mese prossimo, ma pare già destinato a finire in una bolla di sapone per via di una interpretazione di una circolare sui poteri del Csm. 

A rischiare il carcere è, dunque, solo la sua segretaria, che ha ricevuto la richiesta di rinvio a giudizio. La storia della loggia Ungheria inizia alla fine del 2019, quando Storari finisce di interrogare Amara. Quest' ultimo, sentito nell'ambito delle indagini milanesi sull'Eni, aveva svelato i nomi degli appartenenti a tale loggia segreta, composta da magistrati, professionisti, imprenditori, alti esponenti delle forze dell'ordine, e che aveva lo scopo di pilotare i processi e condizionare le nomine dei magistrati e dei vertici dello Stato.

Storari, verosimilmente scosso, aveva voluto fare accertamenti, procedendo con le iscrizioni sul registro degli indagati per violazione della legge Anselmi sulle associazione segrete, al fine di verificare la fondatezza di quanto dichiarato da Amara. I suoi capi, Greco e Pedio, erano stati invece di diverso avviso. Amara aveva fatto circa una quarantina di nomi di appartenenti alla Loggia, fra cui quelli di due consiglieri del Csm, Marco Mancinetti e Sebastiano Ardita.

Vista l'inerzia dei vertici della Procura di Milano ad indagarli, Storari aveva allora deciso qualche mese dopo di consegnare i verbali di Amara a Davigo, all'epoca componente del Csm, affinché fosse a conoscenza di quello che stava accadendo. Davigo, ricevuti i verbali, rivelò il loro contenuto a diversi colleghi ed anche al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra (M5s).

I verbali di Amara finirono pure nelle mani di due giornalisti del Fatto e di Repubblica che non vollero però pubblicarli per "non compromettere" l'indagine sulla loggia. Anzi, denunciarono quanto accaduto. La "postina", come si accertò, era stata proprio Marcella Contraffatto, la segretaria di Davigo che, secondo l'accusa, aveva effettuato l'inoltro dei verbali qualche giorno dopo che l'ex pm di Mani pulite era andato in pensione, lasciando le carte nella scrivania dell'ufficio al Csm.

Contraffatto è anche indagata per calunnia visto che, nell'inviare iverbali all'ex pm antimafia Nino Di Matteo, aveva scritto «verbale ben tenuto nascosto dal procuratore Greco», accusandolo quindi di condotte omissive nelle indagini su Ungheria, di fatto inesistenti vista l'archiviazione del procedimento a suo carico.

Il Csm, appreso dell'indagine nei confronti della segretaria di Davigo, l'aveva sospesa dal servizio, avviando le procedure per il suo licenziamento. L'ex segretaria di Davigo, si era poi scoperto, aveva fatto assumere al Csm anche la figlia Ludovica, poi assegnata alla segreteria del giudice Giuseppe Marra, appartenente al gruppo di Autonomia&Indipendenza, la corrente fondata da Davigo. Anche il marito della Contraffatto è un magistrato: Fabio Massimo Gallo, ex presidente di Sezione lavoro della Corte d'Appello di Roma, altro esponente di punta di A&I.

Le indagini sono state condotte dalla pm romana Rosalia Affinito, moglie del colonnello dei carabinieri Maurizio Graziano, finito anch' egli nelle chat di Luca Palamara. Sarà interessante adesso capire che cosa abbia spinto una segretaria del Csm ad inviare in giro per l'Italia i verbali di Amara sulla loggia Ungheria. E se abbia fatto tutto da sola.

Della Loggia Ungheria rimane solo l’ennesima guerra tra magistrati. Il fascicolo è rimasto a mollo per due anni e Amara è stato usato come una clava. Storari lo ha capito e per questo ha rischiato tutto. Simona Musco su Il Dubbio il 9 marzo 2022.

Che fine ha fatto la Loggia Ungheria? A distanza di oltre due anni dalle prime dichiarazioni del controverso “pentito” Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, nulla è dato sapere. Il fascicolo, da qualche mese, è in mano alla procura di Perugia, dove è arrivato da Milano senza che venisse svolto alcun atto di indagine. Una certezza ribadita da Paolo Storari, pm milanese assolto lunedì dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, che ha contestato ogni tentativo dei suoi superiori di affermare che le indagini sulla presunta associazione segreta non sono state insabbiate.

Perché se da un lato i vertici della procura, nel corso degli interrogatori davanti ai pm di Brescia, hanno elencato una serie di atti che rientrerebbero nel fascicolo “Ungheria”, Storari ha smontato pezzo per pezzo ogni affermazione, riconducendo quei singoli approfondimenti ad un altro fascicolo: quello sul falso complotto Eni. È questa, infatti, l’indagine da cui tutto nasce: a partire dal 6 dicembre 2019 e fino all’ 11 gennaio 2020, Amara mette a verbale una serie di nomi di presunti affiliati, tra magistrati, politici e uomini delle forze dell’ordine, tutti capaci di pilotare le nomine ai massimi livelli istituzionali. Ma il fascicolo, rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021, non contiene alcuna delega alla Polizia giudiziaria, se non quelle fatte da Storari per identificare i soggetti.

Un’indagine rimasta a «galleggiare» per un anno, nonostante una pesante fuga di notizie. E ciò che viene definito a posteriori atto di indagine, spiega Storari ai pm, sarebbe ben altro: gli incontri con i colleghi di Perugia, dove peraltro «non si è parlato di Ungheria», le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto”, i cui decreti erano finalizzati «a totalmente altro», la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. E senza voler accusare nessuno, dice Storari, «ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente».

Come ci sia finito sotto processo è ormai noto: Storari, stanco del presunto lassismo della procura, ad aprile 2020 consegna a Davigo (ora sotto processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio) dei documenti contenenti le dichiarazioni di Amara sulla presunta loggia, convinto che prima o poi a pagare quel ritardo – ai suoi occhi inspiegabile – sarà proprio lui. Storari, infatti, tenta più di trovare riscontro a quelle dichiarazioni, scontrandosi, però, «contro un muro di gomma».

Insomma, la procura di Milano avrebbe opposto resistenza, sebbene Greco sia stato archiviato dall’accusa di omissione di atti d’ufficio. Rimane ancora in bilico l’aggiunta Laura Pedio, anche lei sotto inchiesta a Brescia, che però, contrariamente a Storari, è rimasta titolare del fascicolo sul falso complotto (nel cui ambito ha chiesto il processo per Amara per calunnia). Le stranezze sono tante: le dichiarazioni di Amara vengono prese in considerazione solo quando tornano utili. «Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, buttiamola al processo (…), quando si deve indagare su Ungheria che potrebbe portare al calunnione gravissimo, no», spiega lo scorso 3 febbraio alla giudice Federica Brugnara. Il riferimento è al processo sulla presunta maxi tangente pagata da Eni, processo che ha visto tutti gli imputati assolti. Amara, nelle sue dichiarazioni, disse di aver saputo che le difese del processo erano state in grado di «avvicinare» il presidente del collegio, Marco Tremolada.

Così i vertici della procura, a fine gennaio 2020, decidono di spedire le dichiarazioni di Amara – contenute in «due o tre righe» – a Brescia (che poi archivierà senza iscrivere nessuno), competente per i reati commessi dai o a danno dei magistrati milanesi. Di ciò Storari viene tenuto all’oscuro, tant’è che protesta con Greco e Pedio per iscritto. E Fabio De Pasquale, l’aggiunto che ha rappresentato l’accusa al processo Eni-Nigeria, decide di usarle, nonostante la contrarietà di Storari, al processo, «perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese», dice il pm ripetendo quanto riferitogli dal collega. Insomma, Amara, per un certo periodo di tempo, risulta credibile.

Una credibilità che è la stessa Pedio a mettere nero su bianco ad aprile 2020, fornendo alla difesa dell’ex legale un certificato di fattiva collaborazione per sostenere la domanda di affidamento ai servizi sociali. Storari, dunque, non si capacita: se è credibile, perché non indagare? Perché non iscrivere nessuno? La risposta, alla fine, se la dà da solo: Amara, dice, non è credibile. E della loggia Ungheria, servita intanto a scatenare l’ennesima guerra interna alla magistratura, non sapremo mai davvero nulla.

Lo schiaffo all'establishment della magistratura. La loggia Ungheria esiste, la conferma con l’assoluzione di Storari. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Il Pm Storari è stato assolto. Era stato già scagionato dal Csm ora anche dalla Procura di Brescia. È uno schiaffo all’establishment della magistratura, in particolare all’establishment potentissimo della Procura di Milano. Storari era accusato di avere consegnato a Piercamillo Davigo, violando le regole, i verbali dell’interrogatorio nel quale l’avvocato Amara rivelava l’esistenza della Loggia Ungheria che – a suo dire – sarebbe la cupola che governa la magistratura italiana. Davigo ne avrebbe parlato poi con il vicepresidente del Csm, con il capo della commissione antimafia e con il consigliere speciale di Mattarella. Con scarsi risultati. Muro di gomma.

Il tribunale di Brescia ha esaminato la posizione di Storari e lo ha assolto. Dunque gli ha dato ragione. Dunque, seppure indirettamente, ha avallato la sua tesi che era molto semplice: la procura di Milano ostacolava le indagini sulla Loggia Ungheria. Capite bene che è una sentenza clamorosa. Se Storari aveva ragione, allora la Loggia esiste. E il vicepresidente del Csm, e la Presidenza della repubblica e la Commissione antimafia hanno messo tutto a tacere.

È uno scandalo di dimensioni colossali. Esiste la fondata possibilità che la magistratura italiana sia sottoposta al potere di una Loggia, massonica o no, composta da magistrati, avvocati, uomini e donne dell’esercito e della politica, e dunque che la sua indipendenza sia pura favola.

L’ipotesi è che anziché rispondere alla legge risponda alla loggia. Con gigantesche coperture, consapevoli o inconsapevoli, dirette o solo concesse per quieto vivere. Non cambia molto.

La sostanza è che la magistratura italiana è fuorilegge. Che chissà quante indagini sono state aperte non per amor di giustizia ma per amor di Loggia. Che chissà quante sentenze sono infondate. Il sistema denunciato da Palamara? Oltre: siamo molto oltre! Ministra Cartabia: ora o mai più.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.

Dalla cacciata disciplinare - via dalla procura di Milano e mai più in alcuna altra procura italiana - il pm milanese Paolo Storari già si era salvato nell'agosto 2021, quando il Csm aveva respinto la richiesta cautelare di trasferimento d'urgenza proposta dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. 

Ma ieri Storari è uscito indenne anche dall'ancora più delicato fronte penale: la giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Brescia, Federica Brugnara, invece di condannarlo a 6 mesi come chiesto dai pm Prete-Greco-Milanesi, lo ha infatti assolto nel processo abbreviato di primo grado.

E ha cioè escluso che nell'aprile 2020 sia stato reato di «rivelazione di segreto d'ufficio» l'aver Storari consegnato a Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e allora membro del Consiglio superiore della magistratura, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 ai pm milanesi Laura Pedio e Storari dall'ex avvocato esterno Eni Piero Amara.

Su essi Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco (archiviato lo scorso 1 febbraio) e della vice Pedio nell'indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara: attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) da Pedio nella inchiesta sul collegato depistaggio giudiziario Eni, e dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale nel processo sulle tangenti Eni-Nigeria.

Al punto da fondare, nello stesso gennaio-febbraio 2020, pesanti iniziative nei confronti dell'ignaro presidente del processo, Marco Tremolada: come la trasmissione a Brescia di un «de relato» di terza mano di Amara circa la pretesa avvicinabilità del giudice da parte dei legali Eni Paola Severino e Nerio Diodà (poi liquidata come del tutto infondata dai pm di Brescia), e come la richiesta di De Pasquale al Tribunale di fare testimoniare in extremis Amara su «interferenze delle difese Eni su magistrati milanesi in relazione al processo» poi concluso il 17 marzo 2021 con tutte assoluzioni.

L'assoluzione di Storari - che (in attesa delle motivazioni tra 15 giorni) il difensore Paolo Della Sala confida «sia la fine di un calvario» e, rimarca, «piena» e motivata dalla formula «perché il fatto non costituisce reato» - risalta ancor di più a fronte invece del rinvio a giudizio 20 giorni fa del coindagato Davigo: cioè di colui sulla cui interpretazione delle circolari Csm Storari fece affidamento, venendone rassicurato sulla liceità della consegna dei verbali e sulla non opponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm.

Dal 20 aprile Davigo sarà imputato per le successive rivelazioni di segreto non al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio (interlocuzioni non contestate dai pm bresciani), ma al vicepresidente Csm David Ermini, che da Davigo ne ricevette anche copia e che ha dichiarato di essersi affrettato poi a distruggerli ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; a cinque consiglieri Csm; al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore allora M5S Nicola Morra; e a due segretarie di Davigo al Csm, a una delle quali la procura di Roma imputa la spedizione dei verbali anonimi al consigliere Csm Nino Di Matteo nel febbraio 2021, successiva a quelle al Fatto Quotidiano nell'ottobre 2020 e a Repubblica nel 2021.

 Assoluzione piena per il pm milanese. Perché Paolo Storari è stato assolto, fine del calvario per il Pm milanese. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Marzo 2022.  

Assolto perché il fatto non costituisce reato. Si è chiuso ieri, dunque, con una assoluzione con formula piena, il processo per rivelazione del segreto d’ufficio nei confronti del pm milanese Paolo Storari. Il gup di Brescia Federica Brugnara non ha ravvisato nessun profilo illecito nella condotta del magistrato. “È stata una battaglia veramente difficile e l’assoluzione è la decisione più corretta”, ha detto l’avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, al termine dell’udienza. “La buona fede – ha aggiunto il difensore – era stata riconosciuta dalla stessa Procura. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista”. Il pm, dopo la lettura del dispositivo visibilmente commosso, era stato accusato di aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali delle dichiarazioni di Piero Amara sulla loggia Ungheria.

Ad aprile del 2020, trascorsi alcuni mesi dall’interrogatorio di Amara e vedendo che i propri capi, il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, non erano intenzionati ad effettuare alcuna indagine per verificare se i nomi fatti da Amara appartenessero o meno alla P2 del terzo millennio, Storari aveva cercato una sponda in Davigo, allora componente del Csm. Davigo, anch’egli imputato per rivelazione del segreto ed il cui processo con rito ordinario inizierà il prossimo 20 aprile, aveva rassicurato Storari, dicendogli che avrebbe parlato della vicenda con i vertici di Palazzo dei Marescialli. Storari non si capacitava delle gestione di Amara: quando parlava delle mazzette che avrebbero preso i vertici dell’Eni era portato in palmo di mano, quando parlava di Ungheria non succedeva invece nulla. Eppure Pedio aveva scritto di Amara che “l’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti”.

“Quindi cosa capisco io? Ma se tutto questo è vero … possibile che noi non facciamo un atto istruttorio? Quando serve ce lo portiamo avanti … quando non serve, spostiamo, spostiamo, spostiamo….”, la replica di Storari, secondo cui quella di Amara era una “attendibilità a geometria variabile”. “A un certo punto mi sono accorto … di essere stato preso in giro più volte” dal “procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti, con cui lavoravo”, aveva poi aggiunto Storari alla giudice bresciana.

A oltre cinque mesi dalle prime dichiarazioni di Amara sulla Loggia, non c’era infatti traccia di atti investigativi o indagati, “neanche coloro che si autoaccusavano di queste cose”. Amara aveva fatto nomi pesantissimi di appartenenti alla loggia para massonica, accusati a vario titolo di aggiustare i processi e pilotare le nomine dei vertici degli uffici giudiziari. Storari, alla luce delle dichiarazioni di Amara, avrebbe voluto subito procedere, a differenza dei suoi capi, con i tabulati telefonici dell’ex presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, dell’ex vice presidente del Csm Michele Vietti, del numero uno di Autostrade Giancarlo Elia Valori, iscrivendoli per violazione della legge sulle società segrete.

Greco e Pedio si erano difesi dall’accusa di inerzia elencando una serie di attività che rientrerebbero nell’indagine sulla loggia. Ma Storari aveva smentito tutto, indicando data per data come erano andati i fatti. In particolare, il fascicolo, dal dicembre 2019 al gennaio 2021, prima di essere trasmesso per competenza a Roma e Perugia, non conteneva alcuna delega alla polizia giudiziaria, se non quelle da lui fatte per identificare i vari soggetti. In compenso erano indicati come atti di indagine gli incontri con i pm di Perugia, dove peraltro “non si è parlato di Ungheria”, le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto Eni”, i cui decreti erano finalizzati “a totalmente altro”, la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. Senza voler accusare nessuno, aveva concluso Storari, “ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente”. In attesa delle motivazioni del gup, è anche calato il sipario sulla loggia Ungheria, che andrà a far parte dei tanti misteri della Repubblica. Paolo Comi

Verbali Amara, il gup: «Lo scopo di Storari era solo segnalare al Csm fatti gravi». Ecco perché il pm milanese è stato assolto dal gup del tribunale di Brescia: «Piercamillo Davigo gli disse che poteva rivolgersi a lui». Simona Musco su Il Dubbio il 22 marzo 2022.

«Lo scopo perseguito da Storari nel rivolgersi a Davigo» era quello di «segnalare ciò che costituiva, secondo la sua versione dei fatti, una inerzia investigativa pericolosa posta in essere dal procuratore capo Greco e dalla dottoressa Pedio, in quanto relativa a fatti gravi, di rilievo sia penale che disciplinare, a carico o a danno ( anche) di componenti del Csm, al fine di valutare la necessità di “veicolare” tali informazioni al Csm tramite un interlocutore ritenuto istituzionalmente qualificato a riceverle, il quale si era impegnato a fare da “tramite” con il Comitato di Presidenza».

È quanto scrive il gup di Brescia, Federica Brugnara, nelle motivazioni con le quali ha assolto il sostituto procuratore di Milano Paolo Storari (difeso dall’avvocato Paolo Dalla Sala) dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, per aver consegnato i verbali segreti dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Un’assoluzione che elimina ogni sospetto su eventuali altri scopi perseguiti da Storari nel percorrere una strada ritenuta «irrituale», ma non del tutto illegittima, alla luce delle famose circolari del 1994 e del 1995 più volte tirate in ballo da Davigo.

Il pm milanese non avrebbe avuto dunque l’intenzione – invece contestata a Davigo, per il quale il processo a Brescia inizierà ad aprile – di screditare Sebastiano Ardita, consigliere del Csm tirato in ballo da Amara nei suoi verbali come presunto appartenente alla loggia, ipotesi ritenuta «congetturale. Fu Davigo, infatti, ad informare altri membri del Csm, le sue segretarie e il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra della sua presunta appartenenza ad una loggia, consigliando dunque di «prendere le distanze» da lui.

Secondo la giudice, Storari sarebbe incorso «in errore» su una norma extrapenale, ovvero in relazione ai poteri di inchiesta e di acquisizione delle informazioni coperte dal segreto da parte del Csm, che ha determinato «un errore sul fatto», essendo convinto «di rivelare informazioni segrete a soggetto deputato a conoscerle e pertanto di non commettere alcuna rivelazione illegittima, ma “autorizzata” e/ o addirittura dovuta».

Un errore «scusabile» in primo luogo per il ruolo di Davigo, componente del Csm ed ex presidente dell’Anm nonché giudice di Cassazione, che aveva «rassicurato l’imputato della insussistenza del segreto istruttorio». Cosa che, afferma la giudice, è «in astratto compatibile con quanto affermato nelle circolari, seppur in modo non del tutto chiaro e lineare» e si evince anche dalla decisione presa dal Csm in sede cautelare, che ha escluso, nel valutare la posizione di Storari, «una grave inosservanza delle norme regolamentari», alla luce «delle problematiche interpretative delle Circolari del 1994 e del 1995 e della ‘ interpretazione normativa di non piana soluzione”».

Storari, nel rivolgersi a Davigo, non ha fatto riferimento ad alcun magistrato il cui nome fosse contenuto nei verbali di Amara. E il fatto che poi Davigo abbia allertato diversi consiglieri del Csm «in ordine alla presunta appartenenza dei dottori Ardita (che sarà parte civile al processo, ndr) e Mancinetti alla c. d. Loggia Ungheria», non può valere, «in via retroattiva, quale interpretazione “autentica” delle finalità perseguite da Storari all’atto della consegna dei verbali. Né quest’ultimo può rispondere della condotta eventualmente posta in essere da altro soggetto in un momento successivo, in quanto non prevedibile e non sottoposta al suo dominio».

Qualunque fosse l’obiettivo di Davigo, Storari avrebbe agito nella convinzione di muoversi nell’alveo della legge, col fine di segnalare «una gestione delle indagini non del tutto appropriata» da parte di Greco e Pedio «e di comunicare al Csm il possibile coinvolgimento di magistrati ( anche appartenenti alla medesima istituzione) in fatti gravissimi, per le valutazioni di competenza». L’ex pm di Mani Pulite, dal canto suo, ha assicurato «che avrebbe fatto da suo tramite con il Comitato di presidenza».

Il fatto che poi abbia ritenuto di rivolgersi al procuratore generale della Cassazione per sollecitare le indagini, cosa non richiesta da Storari, «non può ripercuotersi sugli obiettivi, di diverso tipo (…), perseguiti dall’imputato». E anche se il pm milanese ha deciso di non seguire la via del plico riservato da inviare al Comitato di Presidenza del Csm, anche quanto riferito dal vice presidente David Ermini in ordine alla irricevibilità degli atti, «lumeggia certamente l’irritualità della strada seguita, non già l’insussistenza di competenza del Csm in ordine a quanto appreso. D’altronde lo stesso, proprio alla luce della gravità delle notizie, si determinava a riferirne il contenuto al Presidente della Repubblica».

Una versione, quella di Ermini, parzialmente contestata da Davigo, «ma sarà la sede dibattimentale, in relazione al reato per cui si procede separatamente, a colmare le lacune e le contraddizioni emerse, anche sulle finalità perseguite da Davigo nella consegna dei verbali allo stesso ed agli altri consiglieri».

DOPO L’ASSOLUZIONE DI STORARI. La maledizione dei verbali di Amara: tutti i filoni che agitano la procura di Milano. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 marzo 2022

Dopo l’assoluzione di Storari, rimane in piedi il processo a Davigo con la stessa imputazione. Anche il Csm ha in corso diverse pratiche: un disciplinare contro Storari e una per incompatibilità ambientale

Il tribunale di Brescia ha assolto il pm milanese Paolo Storari dall’accusa di rivelazione d’ufficio, per aver consegnato all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali sull’esistenza della presunta loggia Ungheria. Il magistrato ha scelto il rito abbreviato, la procura aveva chiesto per lui una condanna a sei mesi. La motivazione sarà depositata in 15 giorni.

Sotto processo con la stessa imputazione rimane invece Davigo, che ha scelto il rito ordinario, e la prima udienza si svolgerà il 20 aprile.

La sentenza di assoluzione contro Storari solleva una sorta di conflitto interno anche a Brescia: il 10 gennaio era stata archiviata l’indagine sul procuratore capo di Milano, Francesco Greco, per l’ipotesi di omissione di atti d’ufficio proprio per la mancata iscrizione denunciata da Storari. 

Tuttavia, intorno ai vertici della procura di Milano continuano ad essere in corso una serie di procedimenti, penali ma anche di incompatibilità ambientale presso il Csm.

Sullo sfondo rimane la nomina, attesa entro fine mese, del nuovo procuratore capo, dopo il pensionamento di Francesco Greco nel novembre scorso.

LA VERSIONE DI STORARI E DAVIGO

Il processo che vedeva coindagati Davigo e Storari riguarda la condotta dei due nella gestione dei verbali sulla loggia Ungheria. Questi verbali erano stati resi dal legale esterno di Eni, Piero Amara, nell’ambito del processo Eni/Nigeria.

Storari, secondo quanto da lui stesso spiegato nell’interrogatorio al quale si è sottoposto durante l’udienza preliminare, ha spiegato di aver consegnato – nell’aprile 2020 – i verbali in formato word a Davigo per “autotutelarsi” in seguito a quella che lui riteneva una inerzia della procura di Milano nell’iscrivere la notizia di reato, anche dopo suoi solleciti.

Nelle tre ore di interrogatorio, Storari aveva sostenuto che la consegna dei verbali era lecita, perchè era stato rassicurato da Davigo sul fatto che «il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm». 

Invece, secondo la procura di Brescia, Storari avrebbe agito «al di fuori di ogni procedura formale», e «in assenza di una ragione d'ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull'attività degli uffici giudiziari».

Questa decisione, pur alleggerendo parzialmente la posizione di Davigo, non lo mette automaticamente al riparo da una possibile condanna.

Davigo, infatti, è imputato per aver «violato i doveri» legati alle sue funzioni e «abusato delle sue qualità» di consigliere, divulgando il contenuto dei verbali ad altri componenti del Csm, al consigliere giuridico di Sergio Mattarella per tramite del vicepresidente David Ermini e al presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, “in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale». Non a caso nella sua difesa Storari aveva parlato di affidamento incolpevole nei confronti di Davigo.

In entrambi i processi è costituito parte civile il consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, che si ritiene danneggiato dalla divulgazione illecita dei verbali, in cui è presente anche il suo nome.

I verbali, inoltre, dopo il pensionamento di Davigo sono stati trafugati dallo studio e inviati alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica e poi al consigliere Nino Di Matteo, che li ha resi pubblici durante un plenum del Csm.

LA VERSIONE DI GRECO E PEDIO

A Brescia, però, emerge un contrasto forte. Accanto al processo a Davigo e Storari, infatti, si sono svolte due indagini specchio a carico dell’allora procuratore capo, Francesco Greco e della sua aggiunta, Laura Pedio.

Pedio era titolare con Storari del procedimento nel quale sono stati resi i verbali sulla loggia Ungheria ed è con lei e con Greco che Storari ha detto di aver avuto contrasti e mancate risposte sulla necessità di iscrivere la notizia di reato. Proprio per questi contrasti lui avrebbe consegnato a Davigo i verbali.

L’ex procuratore capo di Milano è stato indagato indagato per omissione e rifiuto d’atto d’ufficio in relazione alla mancata apertura di un fascicolo sulla presunta loggia Ungheria, ma il gip di Brescia ha deciso per l’archiviazione.

Secondo il Gip, infatti, Storari avrebbe agito per “frustrazione” perchè non poteva indagare sulla loggia e ha definito “manifestamente infondate” le accuse a carico di Greco.

Per il gip non c’è stato alcun ritardo nelle indagini sulla presunta loggia perché dalle rivelazioni di Amara era emerso un quadro troppo «fluido» per procedere con l’apertura di un fascicolo con una lista di indagati.

Inoltre, aveva sottolineato che non erano ancora chiare “le reali finalità, quantomeno improvvide” della consegna dei verbali da Storari a Davigo. Una valutazione che non è stata condivisa dal gup, che ha assolto Storari.

Ancora non si è chiuso, invece, il procedimento a carico di Laura Pedio, tutt’ora indagata per omissione di atti di ufficio per la vicenda della mancata iscrizione.

L’interrogativo, dunque, è se esista una condotta penalmente rilevante nei fatti che hanno riguardato i verbali di Amara e la Loggia Ungheria. L’assoluzione di Storari. infatti, rende lecito il passaggio di mano dei verbali, giustificato dal magistrato milanese con l’inerzia del suo ufficio. La precedente archiviazione di Greco, invece, sancisce la correttezza nell’agire della procura sull’iscrizione della notizia di reato.

LE RAGIONI DELLO SCONTRO: L’INCHIESTA ENI

All’origine dello scontro interno alla procura, però, c’è la gestione dell’indagine per il processo Eni/Nigeria nel suo filone principale. Anche queste condotte sono al vaglio dei magistrati di Brescia, che hanno aperto una ulteriore indagine nei confronti dei magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio.

Secondo gli inquirenti, che hanno chiesto una proroga delle indagini, i due magistrati avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del Tribunale alcune prove sulla falsità delle accuse portate avanti dall’ex manager di Eni, Vincenzo Armanna, testimone chiave dell’accusa nel processo Eni/Nigeria. Inoltre, non sarebbe stato depositato anche un video tra Armanna e Amara in cui si parla di come calunniare i vertici Eni.

Proprio questo filone principale sarebbe collegato anche alle vicende che hanno visto contrapposti Storari e Davigo a Greco e Pedio. Secondo Storari, infatti, la ragione dietro la contrarietà di Pedio e Greco ad aprire tempestivamente un’inchiesta sulla presunta loggia Ungheria sarebbe stata di tutelare il processo principale Eni/Nigeria.

L’ipotesi, sempre negata dai vertici di Milano che hanno ribadito in tutte le sedi la correttezza del loro operato procedurale, sarebbe la seguente: dopo le dichiarazioni di Amara sulla loggia Ungheria le strade erano due. Se non lo si riteneva attendibile, si poteva indagarlo per calunnia, altrimenti si sarebbe dovuto aprire un fascicolo di indagine a carico dei presunti membri della loggia. Per circa sei mesi, però, la procura non ha aperto fascicoli.

Questo, secondo Storari, sarebbe servito a preservare integra l’attendibilità di Amara nel processo principale a Eni, che comunque si è concluso con l’assoluzione in primo grado dei vertici dell’azienda.

Secondo Greco, invece, l’iscrizione nel registro delle notizie di reato è avvenuto appena si è ritenuto che ci fossero sufficienti elementi per farlo, senza che altre inchieste influissero sulla decisione.

IL CSM

Tutt’ora in corso a Milano è anche un procedimento per incompatibilità ambientale, aperto dalla prima commissione dell Csm a carico di Storari e del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. 

Il Csm deve valutare se i magistrati possano rimanere a lavorare in quell’ufficio oppure se la vicenda della gestione del processo Eni possa turbare la serenità della procura e dunque debbano essere trasferiti. La decisione del Csm è attesa a settimane.

Storari, inoltre, è anche sotto procedimento disciplinare al Csm: le contestazioni solo di divulgazione dei verbali e di «comportamento gravemente scorretto» nei confronti di Greco e Pedio da lui accusati di immobilismo «omettendo, però, di comunicare a questi il proprio dissenso per la mancata iscrizione» di Amara, e di formalizzare con una lettera agli organi competenti il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini».

Storari si è difeso presentando memorie e non è stata accolta la richiesta del pg di cassazione – che sostiene l’accusa nei procedimenti disciplinari – di trasferimento cautelare da Milano e cambio di funzioni. Tuttavia, il procedimento disciplinare è ancora in corso. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La sentenza. Caso Loggia Ungheria, assolto il pm Paolo Storari: sui verbali di Amara “il fatto non costituisce reato”. Redazione su Il Riformista il 7 Marzo 2022. 

Assoluzione. È il verdetto arrivato questa mattina per il pm di Milano Paolo Storari, come deciso dal gup di Brescia Federica Brugnara. Storari, accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali secretati di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, è stato assolto al termine del processo celebrato con rito abbreviato con la formula “il fatto non costituire reato”. 

Al centro del processo c’erano i verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, che Storari consegnò nell’aprile 2020 al consigliere del Csm Piercamillo Davigo (ora in pensione, per lui il processo inizia il 20 aprile prossimo, ndr) per “autotutelarsi” dalla presunta inerzia dei vertici della procura di Milano guidata ai tempi da Francesco Greco ad indagare sulla cosiddetta loggia Ungheria.

Erano cinque i verbali coperti da segreto che Storari ha consegnato a Davigo, interrogatori resi da Amara tra il 6 dicembre 2019 e il 11 gennaio 2020, in cui l’ex avvocato esterno di Eni svelava proprio al pm milanese l’esistenza della presunta loggia Ungheria facendo nomi noti, tra cui quelli di alcuni magistrati.

Il giudice ha dunque respinto la richiesta della pubblica accusa, rappresentata dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, che avevano chiesto la condanna a sei mesi di reclusione. Secondo l’accusa Storari aveva agito “al di fuori di ogni procedura formale”, “in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari”, si leggeva nell’avviso di conclusioni delle indagini. Le motivazioni saranno rese tra quindici giorni.

Per Paolo Della Sala, avvocato di Storari, visibilmente commosso dopo la lettura del dispositivo, si è trattato di una “battaglia veramente difficile e l’assoluzione è la decisione più corretta”.

“La buona fede era stata riconosciuta dalla stessa procura – ha aggiunto il legale del pm di Milano -. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista“.

Una decisione, quella odierna, che “ridà equità a un ambito che è stato anche forse un po’ strumentalizzato da una certa stampa”, ha rivendicato Della Sala. Il difensore ha ricordato, riferisce l’Ansa, come anche il Csm la scorsa estate aveva rigettato la richiesta di un provvedimento disciplinare di tipo cautelare nei confronti di Storari. A chi ha chiesto se sia la fine di un calvario e se sia stata riconosciuta la buona fede, il legale ha replicato: “Qualcosa di più. Qui c’è stata una assoluzione piena, nemmeno con un richiamo alla contraddittorietà della prova, il che vuol dire che sostanzialmente è priva di dubbi interpretativi“.

Con l’assoluzione di Storari, l’unico sotto processo per la vicenda della loggia Ungheria resta Piercamillo Davigo.

Il commento del direttore Sansonetti. Scontro Davigo, Ardita e Di Matteo, la guerra in magistratura: “Finiranno per arrestarsi tra loro”. Redazione su Il Riformista il 21 Febbraio 2022.  

Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, commenta in merito allo scontro furioso tra Davigo, Ardita e Di Matteo sulla Loggia Ungheria.

Massimo Bordin, direttore di radio Radicale, una volta fede una battuta divertente: ‘Finiranno per arrestarsi tra di loro’. E si riferiva ai pm che arrestavano tutti. Mica si sbagliava tanto. Avete visto questa rissa furiosa che c’è adesso con Piercamillo Davigo? Davigo da una parte e Sebastiano Ardita dall’altra, Nino Di Matteo dall’altra ancora. David Ermini, il vicepresidente del Csm, soprattutto, è in scontro furioso con Davigo.

Sono uscite le indiscrezioni sull’udienza che c’è stata a Brescia in cui si è deciso il rinvio a giudizio di Davigo per aver diffuso questo materiale segreto, che erano poi le dichiarazioni dell’avvocato Amara che rivelano l’esistenza di quella che si chiamerebbe la ‘Loggia Ungheria’ e che sarebbe al vertice della magistratura italiana. Noi naturalmente non sappiamo se sia vero o no, siamo preoccupati perché se è vero significa che tutta la giustizia in Italia è clandestina e illegale. Ma anche se non è vero è la prova in ogni caso di questo scontro furibondo.

Davigo sostiene che la Loggia c’è e che dentro siano tutti suoi nemici. Attacca Ermini che peraltro era suo amico, andavano in vacanza insieme. Poi ci ha litigato perché Ermini non lo ha difeso dalla decisione del Csm di mandarlo in pensione. Ora Davigo lo accusa di cose gravissime. Dice che lui ha preso il materiale e non l’ha denunciato. Non solo, ma è andato da Sergio Mattarella a parlarne, quindi tira in ballo anche il capo dello Stato.

Si può anche ridere di questi magistrati che sembravano grandi autorità, ma fino a un certo punto. Perché vi rendete conto a chi è ancora in mano la magistratura? Sospetto che Luca Palamara abbia detto solo il 10% di quello che andava detto. Ogni giorno che passa e ogni volta che una notizia diventa ufficiale, capiamo che la magistratura è un luogo esclusivamente di potere, talvolta semplicemente di gioco di potere, che non ha nulla a che fare con la giustizia ma con le nostre vite. Questi hanno in mano le nostre vite e se le giocano a domino.

Traffico di influenze, l’ex avvocato Amara rinviato a giudizio a Roma. Il Dubbio il 24 febbraio 2022.  

L’ex legale esterno di Eni (lo stesso dei verbali sulla presunta "Loggia Ungheria") sarà anche sentito a Milano nell’ambito del “Falso complotto”.

L’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma per l’accusa di influenze illecite, assieme all’ex poliziotto Filippo Paradiso. Per i due il processo inizierà il 3 maggio 2023. I fatti risalgono al periodo compreso tra il 2015 e il 2018. Secondo l’accusa, Paradiso, «sfruttando e vantando relazioni con pubblici ufficiali in sevizio presso ambienti istituzionali si faceva indebitamente promettere e consegnare denaro o altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione».

Utilità consistite in somme di denaro per un valore non inferiore a 2mila euro e nella messa a disposizione di carte di credito per viaggi aerei, e di un appartamento a Trastevere, nel cuore della Capitale, per oltre un anno, di cui Amara aveva avuto la disponibilità. Reato aggravato, secondo i pm, per Paradiso nella sua qualità di pubblico ufficiale. Nell’udienza preliminare di ieri mattina, gli avvocati Salvino Mondello e Gianluca Tognozzi, difensori di Amara e Paradiso, avevano chiesto, oltre all’insussistenza del reato così come contestato, anche la trasmissione degli atti per competenza a Potenza ravvisando una connessione con l’inchiesta lì in corso. Il gup ha invece deciso per il rinvio a giudizio nella Capitale.

Amara, nelle prossime settimane, sarà anche interrogato dalla procura di Milano, che sentirà anche il suo collaboratore Giuseppe Calafiore, tra gli indagati nell’inchiesta sul cosiddetto “Falso complotto Eni”, chiusa lo scorso dicembre, dopo circa cinque anni di indagini. In quell’occasione è stata stralciata la posizione dell’ad della compagnia petrolifera Caludio Descalzi e del capo del personale Claudio Granata, ora parti offese per le calunnie contestate allo stesso Amara e all’ex manager del gruppo Vincenzo Armanna, grande accusatore dei vertici della compagnia nel processo sulla presunta tangente nigeriana, conclusosi con con 15 assoluzioni. I pm hanno convocato Calafiore il prossimo 28 febbraio e Amara l’11 marzo. Nell’ambito di questa vicenda è maturata la consegna dei verbali di Amara, al centro dello scontro tra toghe che ha fatto deflagrare la procura meneghina, caso sul quale la procura di Brescia sta ancora indagando e per il quale l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo è finito a processo.

Versioni opposte sui verbali di Amara. Loggia Ungheria, duro scontro tra Davigo ed Ermini: chi dei due mente? Paolo Comi su Il Riformista il 22 Febbraio 2022. 

Nel procedimento incardinato al tribunale di Brescia per la rivelazione del segreto circa la diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria, uno fra Piercamillo Davigo ed il vice presidente del Csm David Ermini non dice la verità. Al momento questa è l’unica certezza in una vicenda che non ha molti precedenti nella storia Repubblica. I fatti sono noti.

Agli inizi del mese di aprile del 2020, il pm milanese Paolo Storari, dopo aver ultimato gli interrogatori di Amara insieme alla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio, percepisce che le indagini per verificare l’esistenza o meno della loggia Ungheria stanno battendo il passo. “Non bisognava toccare Amara”, racconterà poi Storari. Essendo in quel momento l’avvocato siciliano uno dei testimoni principali nel processo contro i vertici dell’Eni, accusati di corruzione internazionale, una sua eventuale incriminazione per calunnia, in caso si accertasse che la loggia non fosse mai esistita, avrebbe messo in grande difficoltà la Procura di Milano. Come il soldato Ryan, era allora fondamentale “preservarlo” da qualsiasi inciampo giudiziario.

Storari, già allievo prediletto di Ilda Boccassini, preso atto che il clima per fare indagini a Milano non era dei migliori, decide di consegnare i verbali delle dichiarazioni di Amara a Davigo, all’epoca potente consigliere del Csm. Lo scambio dei verbali avviene a Milano, fatto che radicherà la competenza a Brescia. Davigo, in particolare, avrebbe tranquillizzato Storari dicendogli di non preoccuparsi per la possibile violazione del segreto d’ufficio in considerazione della pendenza delle indagini. Il segreto, secondo Davigo, non valeva per i componenti del Csm. Una volta ricevuti i verbali, invece di informare il Comitato di presidenza, come prevede la circolare in caso di esistenza di contrasti negli uffici giudiziari, Davigo inizia un’opera di loro diffusione a tappeto a Palazzo dei Marescialli. Uno dei primi ad essere edotto del contenuto di questi verbali, con l’incarico di “custodirli”, è il giudice Giuseppe Marra, un suo fedelissimo ed esponente di Autonomia&indipendenza, entrato al Csm a seguito delle dimissioni dei consiglieri che avevano partecipato all’incontro dell’ hotel Champagne.

Poi viene il turno di Ilaria Pepe, altra davighiana – anche lei entrata al Csm come Marra – di Giuseppe Cascini, numero uno della sinistra giudiziaria, di David Ermini, e quindi di Fulvio Gigliotti, laico in quota M5s e relatore della sentenza con cui si decise la cacciata di Luca Palamara dalla magistratura. Davigo parla anche con Stefano Cavanna, laico della Lega, informandolo però solo dell’esistenza di una indagine sulla loggia dove era coinvolto il pm antimafia Sebastiano Ardita, suo ex amico e collega. Del contenuto dei verbali Davigo informerà in seguito il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s) e, per non farsi mancare nulla, le funzionarie amministrative del Csm Giulia Befera e Marcella Contraffatto. Quest’ultima successivamente accusata di averli spediti alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica. Le testimonianze di Davigo e di Ermini sono quelle maggiormente divergenti.

“Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi perché la provenienza politica era la stessa di Lotti”, racconta Davigo al giudice dell’udienza preliminare la scorsa settimana. “Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promana da Mi e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in una intercettazione Lotti diceva ‘Ermini è morto’ facendogli fare un figurone”, prosegue Davigo, riferendosi alle modalità che avevano portato ad ottobre del 2018 all’elezione dell’ex responsabile giustizia del Pd a vice di Sergio Mattarella. Ermini, sempre secondo Davigo, a maggio del 2020 si era fatto fare una sintesi dell’indagine milanese per poter informare il capo dello Stato. In un secondo momento il vice presidente del Csm avrebbe chiesto i verbali a Davigo. Ermini sarebbe rimasto “impressionato dai nomi” degli appartenenti alla loggia contenuti nei verbali e, “dopo averli presi li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio”.

A distanza di due mesi da questo scambio, Ermini e Davigo andranno insieme alle terme di Merano. “Non era particolarmente turbato”, ricorda l’ex pm di Mani pulite, affermando anche che Mattarella gli avrebbe detto di ringraziarlo “per quanto fatto”, essendo le notizie avute sulla loggia “sufficienti”. Nulla di tutto ciò si sarebbe verificato per Ermini. Il vice presidente, ricevuti i verbali da Davigo, li aveva “immediatamente distrutti”. E sempre per Ermini, il presidente della Repubblica, ascoltando le notizie su Ungheria, sarebbe rimasto mummificato, “come una statua”, senza proferire verbo alcuno. Ermini, per la cronaca, fu determinante per la decadenza di Davigo il 20 ottobre 2020, giorno del settantesimo compleanno del magistrato, età massima per il trattenimento in servizio.

Fino a dieci giorni prima del voto del Plenum per il pensionamento di Davigo, i rapporti erano ottimi. Oltre ai bagni turchi alle terme di Merano, Ermini e Davigo infatti si frequentavano anche fuori dalla sala del Plenum. Durante una cena, Ermini avrebbe detto: “Oggi Piercamillo ha fatto il suo capolavoro: ha collocato a riposo il segretario generale (del Csm, ndr) e lui rimasto”. Dopo il voto del 20 ottobre “Ermini era molto dispiaciuto”, aggiunge comunque Davigo, prima di andare a ruota libera, svelando particolari inediti: “Io non volevo andare al Csm mi veniva il mal di stomaco alle 11 di mattina per le cose che vedevo”. Per sapere chi ha detto la verità fra Ermini e Davigo sarà necessario attendere il prossimo 20 aprile, giorno in cui si aprirà il dibattimento a Brescia. Paolo Comi

Luca Fazzo per “il Giornale” il 20 febbraio 2022.

Fu la Procura di Milano a permettere a Piero Amara, il grande calunniatore del caso Eni, di evitare il carcere e ottenere l'affidamento ai servizi sociali: per i pm milanesi Amara era sincero. E questa benedizione gli venne concessa perché salvare Amara serviva a ottenere la condanna dei vertici dell’Eni. 

Che questo fosse lo scenario lo si era ipotizzato. A dirlo esplicitamente, e quasi con crudezza, è nei suoi verbali il pm Paolo Storari, che Amara invece voleva incriminarlo insieme al suo complice di manovre Vincenzo Armanna.

Il 21 maggio 2021 Storari viene interrogato dalla Procura di Brescia che lo accusa di avere rivelato i verbali segreti di Amara a Piecamillo Davigo. E spiega così il suo stato d'animo, quando chiedeva invano ai suoi capi di scavare sulla loggia Ungheria di cui gli aveva parlato Amara: «Io non vengo manco considerato, un muro di gomma sui sbatto e ho sbattuto fino all'altro giorno».

A essere inaccettabile per Storari è che intanto i verbali di Amara vengano usati contro il giudice del processo Eni: «Perchè quando si tratta di andare a verificare la bontà o la falsità delle dichiarazioni di Amara su Ungheria si sta fermi immobili e poi invece quando si tratta di utilizzare quelle medesime dichiarazioni provenienti dal medesimo soggetto lo si fa in serenità?».

Per smuovere le acque «prendo la decisione di parlare con un consigliere del Csm, non con un amico, io Davigo lo conosco ma lo conosco diciamo in via per Alessandra Dolci (capo del pool antimafia di Milano, ndr) con cui ho lavorato. Prima gli chiedo telefonicamente "senti qua c'è uno che sta parlando di una loggia che è una cosa grave, Piercamillo (... ) poi sono andato due volte a casa sua. Gli chiedo: ma io Piercamillo di queste cose posso parlare con te? E lui mi dice "sì Paolo io sono un consigliere del Csm a me questo segreto non è opponibile (...) allora vado a casa prendo la chiavetta con sopra i verbali e gli spiego (...) io ho fatto quello che dovevo fare in coscienza». 

Su suggerimento di Davigo, Storari inizia a mettere le sue richieste per iscritto e un po' alla volta le cose si muovono. Ma intanto l'avvocato di Amara scrive alla procura di Milano segnalando che il 5 maggio il torbido ex legale di Eni doveva affrontare davanti al tribunale di sorveglianza di Roma un'udienza decisiva per evitare il carcere, e chiede che la Procura di Milano attesti «la effettività della condotta collaborativa dell'Amara rispetto alle indagini che lo vedono coinvolto», la «utilità e la rilevanza del contributo fornito».

È un contributo, come è noto, farcito di falsità, Storari ha già scritto ai suoi capi che «Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori». Ma il 24 aprile la Procura dà il via libera, «Amara viene messo per iscritto - è un soggetto che ha rescisso ogni legame con ambienti criminali». 

Grazie a quel riconoscimento l'avvocato siciliano ottiene l'affidamento ai servizi sociali. Nel suo interrogatorio, Storari sostiene di avere chiesto ripetutamente conto ai suoi capi della «attendibilità a geometria variabile», per cui sulle rivelazioni di Amara su Ungheria non si indagava ma le si usava nel processo Eni. «Secondo me, allora ce la diciamo proprio tutta? Me ne assumo le mie responsabilità, ok? Dicembre 2019, Amara sta parlando di Ungheria, ho una interlocuzione col dottor De Pasquale che mi dice: "questo fascicolo per due anni dobbiamo tenerlo nel cassetto"».

D'altronde «io sempre avuto non un buon rapporto con il dottor De Pasquale ci litigavo spesso, e a un certo punto mi sono fatto un file sul mio computer in cui mi segnavo le porcherie che faceva». E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto? 

«Non bisognava disturbare il processo Eni-Nigeria. Se noi avessimo avuto la prova che Amara e Armanna dicevano delle palle le chiamate in correità di quel processo Eni-Nigeria finivano e questo non poteva essere consentito. Adesso forse può capire la condizione in cui mi sono trovato, una roba del genere a me non è stata detta mai in tutta la vita (...) questa è una vergogna (..) se si fosse scoperto che Armanna e Amara erano due calunniatori questo voleva dire la morte di quel processo che la Procura di Milano non poteva e doveva perdere».

Più che un interrogatorio quello di Storari diventa uno sfogo «non volevo dargliela vinta, mi sono battuto fino alla fine, in pieno Covid andavo in giro come un coglione da solo per l'Italia cercando riscontri e smentite» perché «siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il paese, ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, i componenti del Csm». Morale: «Io sono veramente convinto che questa roba è stata gestita una merda».

Storari svela il metodo Milano. Quelle trame sul processo Eni. Redazione il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'interrogatorio del pm a Brescia: "De Pasquale mi disse di tenere fermo il fascicolo sulla loggia Ungheria...".

Fu la Procura di Milano a permettere a Piero Amara, il grande calunniatore del caso Eni, di evitare il carcere e ottenere l'affidamento ai servizi sociali: per i pm milanesi Amara era sincero. E questa benedizione gli venne concessa perché salvare Amara serviva a ottenere la condanna dei vertici dell'Eni. Che questo fosse lo scenario lo si era ipotizzato. A dirlo esplicitamente, e quasi con crudezza, è nei suoi verbali il pm Paolo Storari, che Amara invece voleva incriminarlo insieme al suo complice di manovre Vincenzo Armanna.

Il 21 maggio 2021 Storari viene interrogato dalla Procura di Brescia che lo accusa di avere rivelato i verbali segreti di Amara a Piecamillo Davigo. E spiega così il suo stato d'animo, quando chiedeva invano ai suoi capi di scavare sulla loggia Ungheria di cui gli aveva parlato Amara: «Io non vengo manco considerato, un muro di gomma sui sbatto e ho sbattuto fino all'altro giorno». A essere inaccettabile per Storari è che intanto i verbali di Amara vengano usati contro il giudice del processo Eni: «Perchè quando si tratta di andare a verificare la bontà o la falsità delle dichiarazioni di Amara su Ungheria si sta fermi immobili e poi invece quando si tratta di utilizzare quelle medesime dichiarazioni provenienti dal medesimo soggetto lo si fa in serenità?».

Per smuovere le acque «prendo la decisione di parlare con un consigliere del Csm, non con un amico, io Davigo lo conosco ma lo conosco diciamo in via per Alessandra Dolci (capo del pool antimafia di Milano, ndr) con cui ho lavorato. Prima gli chiedo telefonicamente senti qua c'è uno che sta parlando di una loggia che è una cosa grave, Piercamillo (... ) poi sono andato due volte a casa sua. Gli chiedo: ma io Piercamillo di queste cose posso parlare con te? E lui mi dice sì Paolo io sono un consigliere del Csm a me questo segreto non è opponibile (...) allora vado a casa prendo la chiavetta con sopra i verbali e gli spiego (...) io ho fatto quello che dovevo fare in coscienza».

Su suggerimento di Davigo, Storari inizia a mettere le sue richieste per iscritto e un po' alla volta le cose si muovono. Ma intanto l'avvocato di Amara scrive alla procura di Milano segnalando che il 5 maggio il torbido ex legale di Eni doveva affrontare davanti al tribunale di sorveglianza di Roma un'udienza decisiva per evitare il carcere, e chiede che la Procura di Milano attesti «la effettività della condotta collaborativa dell'Amara rispetto alle indagini che lo vedono coinvolto», la «utilità e la rilevanza del contributo fornito». È un contributo, come è noto, farcito di falsità, Storari ha già scritto ai suoi capi che «Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori». Ma il 24 aprile la Procura dà il via libera, «Amara - viene messo per iscritto - è un soggetto che ha rescisso ogni legame con ambienti criminali». Grazie a quel riconoscimento l'avvocato siciliano ottiene l'affidamento ai servizi sociali.

Nel suo interrogatorio, Storari sostiene di avere chiesto ripetutamente conto ai suoi capi della «attendibilità a geometria variabile», per cui sulle rivelazioni di Amara su Ungheria non si indagava ma le si usava nel processo Eni. «Secondo me, allora ce la diciamo proprio tutta? Me ne assumo le mie responsabilità, ok? Dicembre 2019, Amara sta parlando di Ungheria, ho una interlocuzione col dottor De Pasquale che mi dice: questo fascicolo per due anni dobbiamo tenerlo nel cassetto». D'altronde «io sempre avuto non un buon rapporto con il dottor De Pasquale ci litigavo spesso, e a un certo punto mi sono fatto un file sul mio computer in cui mi segnavo le porcherie che faceva». E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto? «Non bisognava disturbare il processo Eni-Nigeria. Se noi avessimo avuto la prova che Amara e Armanna dicevano delle palle le chiamate in correità di quel processo Eni-Nigeria finivano e questo non poteva essere consentito. Adesso forse può capire la condizione in cui mi sono trovato, una roba del genere a me non è stata detta mai in tutta la vita (...) questa è una vergogna (..) se si fosse scoperto che Armanna e Amara erano due calunniatori questo voleva dire la morte di quel processo che la Procura di Milano non poteva e doveva perdere».

Più che un interrogatorio quello di Storari diventa uno sfogo «non volevo dargliela vinta, mi sono battuto fino alla fine, in pieno Covid andavo in giro come un coglione da solo per l'Italia cercando riscontri e smentite» perchè «siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il paese, ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, i componenti del Csm». Morale: «Io sono veramente convinto che questa roba è stata gestita una merda».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 9 febbraio 2022.

Le incontenibili dichiarazioni, che appaiono sempre meno credibili, del faccendiere Piero Amara hanno mandato in tilt il gotha della magistratura italiana. L'avvocato siracusano per un mesetto, tra dicembre 2019 e gennaio 2020, ha riempito con le sue confessioni sulla fantomatica loggia Ungheria sei verbali della Procura di Milano. I suoi resoconti hanno prima creato un cortocircuito tra i magistrati meneghini, tanto che il pm Paolo Storari a causa della presunta «inerzia investigativa» attuata dai suoi superiori, decise di consegnare sottobanco i verbali di Amara all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Quest' ultimo con quelle carte in mano ha iniziato a rendere partecipi molti colleghi del contenuto di quei verbali riservati e a spingere per un'accelerazione delle indagini. Il telefono senza fili è arrivato, attraverso il vicepresidente del Csm David Ermini su su sino al Quirinale. 

E mentre Davigo diffondeva il verbo di Amara, molte toghe venivano inzaccherate da quelle propalazioni tanto da rendere necessaria una riunione informale del Csm con uno degli «accusati», il consigliere Sebastiano Ardita, sottoposto a una specie di surreale processo basato sul nulla. 

Ma dopo che gli inquirenti milanesi avevano dato credito ad Amara e avevano sottoposto le sue chiacchiere all'attenzione della Procura di Brescia nel tentativo di disarcionare il presidente della Corte che stava giudicando i vertici dell'Eni, quell'arma non convenzionale si è rivoltata contro chi l'aveva maneggiata forse con troppa disinvoltura. E così sono andati a processo per rivelazione di segreto Davigo e Storari, mentre chi aveva cercato di usare Amara contro l'Eni è finito sotto accusa per rifiuto di atti d'ufficio, come il procuratore aggiunto Fabio de Pasquale.

Nel frattempo Amara e altri suoi sodali sono stati iscritti per calunnia. È di queste ore l'avviso di chiusura delle indagini per le accuse rivolte all'ex consigliere del Csm Marco Mancinetti, uno dei colleghi di cui Davigo sembrava particolarmente ansioso di conoscere le magagne. 

 Ma il vero duello da mezzogiorno di fuoco è stato quello tra l'ex procuratore di Milano Francesco Greco, prosciolto dalle accuse di omissione di atti d'ufficio, e un altro pezzo da 90 della magistratura, il compagno di corrente (sono entrambi di Magistratura democratica) Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, una delle toghe che fanno parte del ristrettissimo comitato di presidenza del Csm. Gli occhi, le orecchie e la voce del Quirinale a Palazzo dei marescialli. Salvi ha assicurato ai pm di aver contribuito, sollecitando Greco, alle iscrizioni di Amara & C. nel procedimento milanese per la violazione della legge sulle associazioni segrete.

L'ex procuratore meneghino ha negato tutto. Il Pg ha raccontato quello che fece dopo aver parlato con Davigo: «Chiamai al telefono il procuratore Greco per avere da lui chiarimenti su quello che stava accadendo. 

Greco, sia al telefono sia in un incontro successivo avvenuto presso il mio ufficio il 16 giugno 2020, mi spiegò che in realtà non vi era stata da parte loro alcuna inerzia e che anzi le indagini erano proseguite, sia pure rallentate dal lockdown».

A questo punto i magistrati di Brescia chiedono se la prima telefonata a Greco si collochi temporalmente tra l'incontro con Davigo del 4 maggio e le iscrizioni di Amara & C. del 12 maggio. Salvi risponde che «è verosimile», lasciando intendere di aver favorito quell'atto investigativo. 

Quando gli inquirenti hanno insistito e gli hanno domandato se avesse stimolato le iscrizioni, il Pg ha replicato: «A me interessava in particolare che il procedimento seguisse alacremente il suo corso e ricordo di avere più che altro sollecitato che le indagini venissero condotte con un certo ritmo. Abbiamo parlato delle iscrizioni e Greco mi ha risposto nei termini sopra riportati; io mi sono tranquillizzato nel momento in cui mi ha detto che le indagini comunque non erano ferme».

 La versione di Greco è del tutto diversa e nella sua memoria c'è un capitolo dedicato proprio alla «questione Salvi». Dove si legge: «Sia nella eventuale telefonata [] sia nell'incontro del 16 giugno Salvi non mi ha mai parlato di Davigo e di Storari né tantomeno di contrasti o indagini». 

Al contrario il Pg aveva affermato: «È possibile che abbia fatto riferimento a Davigo come fonte delle mie informazioni, ma non ne sono sicuro».Secondo Greco, il collega era interessato più che a dare un'accelerata all'inchiesta, «ad avere ulteriori documenti su Mancinetti» e per questo aveva affermato «genericamente che circolava voce di una indagine delicata che stavamo conducendo a Milano su diversi magistrati».

Lo stesso Greco si sarebbe impegnato «a mandare quello che avevano» sul consigliere. Alla fine della memoria l'ex procuratore di Milano si sfoga: «Purtroppo, siamo stati vittime di uno sconcertante episodio di inquinamento probatorio che ha sicuramente danneggiato ben due delicatissime indagini».A Brescia, di fronte al collega Prete, vedendo tra le fonti di prova contro di lui proprio le dichiarazioni del Pg, Greco ha rincarato la dose: «Ho letto questa cosa sul capo d'imputazione, ma e totalmente infondata e ripeto se Salvi ha detto il contrario... se ha detto che mi ha chiesto di accelerare l'indagine, di fare le iscrizioni, che Davigo compulsava o Storari si lamentava se ne assumerà la responsabilità».

Il procuratore Prete, durante le indagini, ha convocato come testimoni coloro i quali erano stati informati dell'esistenza dei verbali sulla loggia o, addirittura, li avevano visionati. Il consigliere Giuseppe Cascini ha ricordato come ne fu informato: «La prima volta che me ne parlo, mi chiese quale fosse la mia opinione su Amara, avendolo io indagato quando ero alla Procura di Roma. 

In pratica, voleva la mia opinione sull'attendibilità del dichiarante». Era come se Davigo stesse effettuando delle indagini parallele. Per Cascini le accuse del faccendiere erano più o meno carta straccia, anche se in passato aveva ritenuto che «difficilmente diceva cose non vere o non verificabili»: «Quando poi ho letto i verbali, mi sono stupito perché ho ritrovato dichiarazioni che non rispecchiavano la persona che io ricordavo nelle mie indagini.

Avevo infatti tratto l'impressione che fornisse elementi generici e un po' enfatizzati che non corrispondevano a questa mia valutazione sul personaggio». E Davigo riteneva fondate le accuse di Amara? «Devo dire di aver tratto l'impressione che egli credesse a quelle dichiarazioni». Cascini ha anche ammesso di aver sùbito compreso, vedendo le copie dei verbali, che «si trattava di materiale riservato». 

E ha aggiunto: «Poiché Davigo mi aveva chiesto un'opinione sul da farsi, ricordo di avergli detto che, trattandosi di materiale informale, ricevuto per vie non ufficiali, noi non avremmo potuto farci nulla». Come detto, Davigo era particolarmente interessato alla posizione di possibile affiliato della loggia dell'allora compagno di corrente Ardita. Peccato che, a giudicare dalle parole del consigliere Nino Di Matteo, fosse in conflitto di interessi.

L'ex pm palermitano ha, infatti, riferito a Brescia quanto accaduto appena un mese e mezzo prima della diffusione dei verbali, in occasione dell'elezione del procuratore di Roma Michele Prestipino. Di Matteo e Ardita erano contrari a quella candidatura. Il primo però non era organico alla corrente di Autonomia e indipendenza, il secondo sì. 

Appartenenza che espose Ardita alla furia di Davigo: «Nel corso della riunione, quando io e Ardita confermammo che non avremmo votato per Prestipino, Davigo alzo la voce in maniera molto decisa contro Ardita [] si scaglio violentemente contro [] ebbe una reazione furibonda e con un tono di voce alterato disse chiaramente ad Ardita, ripetendolo più volte, che se avesse votato per Creazzo "sarebbe stato automaticamente fuori dal gruppo"». Secondo Di Matteo gridò anche: «Tu mi nascondi qualcosa».

Un'accusa che, accompagnata ai «toni rabbiosi», ha portato il sostituto procuratore della Trattativa Stato-mafia a sospettare che, già a fine febbraio del 2020, Davigo «potesse essere stato messo a conoscenza di quanto dichiarato dall'avvocato Amara». 

Piercamillo a Brescia ha raccontato di aver avvicinato, con i suoi verbali sotto braccio, anche il vicepresidente del Csm: «lo ho pensato a lungo se potevo fidarmi di Ermini, ma ho concluso di poterlo fare». Il motivo? In un'intercettazione di Palamara & C. era stato indicato come «"morto" per essersi rifiutato di assecondare una qualche richiesta che gli era stata formulata». 

Ecco così che Davigo ha portato all'ex parlamentare Pd una copia degli atti milanesi e l'avvocato toscano li avrebbe schivati, come in una partita di palla avvelenata: «Ero molto in difficoltà e non avevo alcuna voglia di leggere quelle carte perché consegnate in modo irricevibile e totalmente inutilizzabile []. Appena uscito Davigo, presi la cartellina che mi aveva lasciato sul tavolo e, per i motivi sopra indicati [] la cestinai. Voglio sottolineare che io quei verbali non li ho mai voluti leggere e li buttai nel cestino senza aver preso conoscenza del loro contenuto».

Anche al consigliere Giuseppe Marra era stata affidata una copia delle dichiarazioni: «Davigo mi disse: "Ti ho lasciato i verbali sulla scrivania", senza aggiungere altro. Quando tornai in ufficio, trovai una cartellina contenente i verbali di Amara. [] Dopo qualche settimana li ho strappati». 

Pure la collega Ilaria Pepe si era tirata indietro: «Perché non ho voluto leggere i verbali? Mi sentivo coinvolta in qualcosa di più grande di me». Qualcosa di cui al Csm si parlava in modo carbonaro.Come ha specificato Marra e non solo lui: «Preciso che al telefono con Davigo non si poteva parlare di questa vicenda». E anche quando i due andarono a pranzo in un chioschetto a pochi metri dal Csm ebbero «l'accortezza di lasciare i cellulari in ufficio di modo da avere un dialogo piu libero». Pure Cascini ha spiegato di essere stato invitato «a parlarne in cortile e senza telefoni». 

Ermini ha raccontato lo stesso film e cioè che Piercamillo gli aveva chiesto di conferire «riservatamente», «lasciando i telefoni in stanza proprio perché la questione era molto delicata». 

Davigo ha confermato di averlo fatto perché temeva «intercettazioni illegali». Non è chiaro da parte di chi. Greco alla fine della sua memoria ha scritto: «Non ho contezza di denunzie nel rispetto dell'articolo 331 del codice di procedura penale (quello che obbliga il pubblico ufficiale a denunciare le notizie di reato, ndr) da parte di coloro che hanno visto i verbali». Come dire: nessuno ha riferito all'autorità giudiziaria di aver visto Davigo mettere in piazza documenti coperti da segreto. 

Gran parte dei consiglieri si è difesa dall'accusa sostenendo che Storari fosse autorizzato da una vecchia circolare a riferire ai consiglieri del Csm notizie di indagini su magistrati anche in fase istruttoria. 

Ma il procuratore di Brescia Prete ha dovuto spiegare a più d'uno il contenuto della norma come si fa con gli studenti del primo anno di Legge, anche se quelli di fronte a lui erano la crème de la crème della magistratura, e cioè che la circolare prevede che il pm possa comunicare con il Csm solo a iscrizioni avvenute. Il consigliere Stefano Cavanna ha ammesso: «Certamente il fine (di Davigo, ndr) non era istituzionale o comunque collegato alle sue funzioni di consigliere».

Ma l'ex pm del Pool di Mani pulite avrebbe tranquillizzato alcuni colleghi titubanti dicendo di «averne parlato prima con Ermini e poi con Salvi aggiungendo che Ermini aveva riferito la vicenda al Quirinale» 

Cascini, sentendo puzza di bruciato, si è giustificato davanti al procuratore Prete sostenendo che quando Davigo gli aveva parlato delle dichiarazioni di Amara non si sentiva un pubblico ufficiale: «Era chiaro a tutti e due che non ricevevo quelle informazioni nell'esercizio delle mie funzioni. La ritenni infatti una confidenza tra colleghi». 

Deve averla pensata allo stesso anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Infatti a Brescia Ermini ha spiegato: «Mi recai al Quirinale, saltando il consigliere giuridico. Parlai personalmente al Presidente di varie questioni e lo informai anche di quanto Davigo mi aveva raccontato. Il Presidente mi ascolto senza fare commenti». Tutti zitti e buoni per dirla con i Maneskin.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.

Si danno del tu, si scambiano tonnellate di whatsapp, si indignano quando le cose non vanno per il verso giusto, concordano le interviste, si creano alibi. Uno è Vincenzo Armanna, ex avvocato dell'Eni, già teste d'accusa nel processo ai vertici del gruppo, ora imputato di calunnia e indagato per complotto. 

 L'altro è il giornalista di Report che lo intervista per la trasmissione di Sigfrido Ranucci che il 15 aprile 2019 manda in onda una superinchiesta contro le malefatte dei vertici Eni. L'intervista ad Armanna è il piatto forte della puntata. Allora l'avvocato siciliano non è ancora finito nei guai, e le sue rivelazioni sugli affari oscuri del cane a sei zampe fanno un botto di share.

Ma ora la Procura di Milano ha depositato, nello sterminato materiale dell'indagine sul complotto contro Eni, anche i messaggi che Armanna e il giornalista si scambiano tra il 7 febbraio 2018 e l'8 dicembre 2019. Centinaia di messaggi che raccontano bene il backstage non solo dell'intervista ad Armanna ma dell'intero «sistema Report»: e che vengono alla luce proprio quando la trasmissione di Ranucci è accusata da membri della commissione di vigilanza Rai di metodi non ortodossi. 

Armanna ne emerge non come un intervistato ma come una sorta di consulente del programma. È lui, il mestatore del caso Eni, a indicare al giornalista le domande da porre, a indicargli le piste da seguire, persino a fornire i numeri di telefono. Tutto all'interno di un suo piano ben noto al giornalista: «Credo di averti detto quale fosse il mio interesse», gli scrive Armanna il 23 luglio, «non ti ho preso in giro».

L'analisi delle chat è contenuta nel rapporto che il 14 gennaio 2021 la Guardia di finanza invia ai pm milanesi dopo avere analizzato l'iPhone sequestrato ad Armanna. Nelle chat a ridosso della puntata di Report «si evince chiaramente che il giornalista sospetti un accordo tra Amara e lo stesso Armanna per fregare Granata (Claudio Granata, potente capo del personale Eni, ndr). 

"Buongiorno, ma non è che tu e Amara vi siete messi d'accordo per fregare Granata? Le vostre interviste sono fin troppo uguali". A tale affermazione Armanna risponde negando qualsiasi coinvolgimento con Amara (...) Come è noto, nonostante la perplessità del giornalista, il servizio va in onda il giorno 15.4.2019».

In più di un passaggio, reporter e «gola profonda» appaiono schierati dalla stessa parte: quella che punta alla condanna dei vertici Eni. Il 30 ottobre l'inviato di Report si infuria per una decisione del presidente del tribunale: «Ma scusa hanno bocciato la richiesta di sentire il vero Victor (presunto 007 nigeriano, ndr)? Ma siamo matti?». Gli risponde sullo stesso tono Armanna: «Comunque il presidente è venduto proprio, riusciremmo a farlo sentire lo stesso ma è proprio a favore di Eni il presidente... Pazzesco». 

Armanna tiene al corrente il giornalista di tutte le sue mosse giudiziarie, gli preannuncia le convocazioni in Procura, «sto andando dalla Pedio», gli dà le chiavi di lettura: «Posso dire che Granata è il braccio destro di Descalzi?» «Sì certo, è l'unico di cui si fida». Il top viene raggiunto la notte del 23 luglio. Armanna è stato appena colto in castagna a mentire ai giudici su un dettaglio chiave, la data della sua conoscenza con Amara. 

E chiede aiuto al giornalista per crearsi una spiegazione credibile: «A me basterebbe dire che tu mi facesti domande su quel documento e che ti confermai incontro e che sapevo fosse luglio (...) posso dirlo?». «Valuta tu. È vero che te ne ho parlato e chiesto di quel documento» «Posso dire che me lo girasti»? «Non è il massimo». «Solo se mi costringono a farlo dirò che ne ero a conoscenza perché mi chiedesti spiegazioni». «Ok». «È fondamentale per la mia credibilità».

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'11 febbraio 2022.

Prima dell'inizio nel marzo 2021 del processo abbreviato d'Appello ai coimputati del processo Eni-Nigeria Emeka Obi e Gianluca di Nardo (assolti in giugno su richiesta stessa del sostituto pg Celestina Gravina molto critica con i pm del primo grado), il procuratore di Milano, Francesco Greco, prospettò al procuratore generale Francesca Nanni l'inopportunità a suo avviso che a rappresentare l'accusa fosse Gravina, ritenuta non in sintonia con la linea del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale titolare del primo grado concluso con la condanna a 4 anni e 100 milioni di confisca.

Lo ha riferito Nanni al Csm, aggiungendo che mai le fu avanzata formale richiesta di applicazione in Appello di De Pasquale, mentre conserva invece copia di una segnalazione (mostratale da Greco) in cui De Pasquale lamentava la designazione di Gravina benché non facesse parte del gruppo «pubblica amministrazione» previsto da criteri interni.

Nanni dice che confermò Gravina (indicata dalla precedente dirigente Nunzia Gatto) dopo aver verificato corrispondesse alla prassi, se non a precisi criteri, affidare processi in comune ai pg dei due gruppi «affari economici» e «pubblica amministrazione».

Processo Eni, le intercettazioni in onda da Giletti: «Una valanga di m...» A «Non è l’Arena» su La7 un filmato in cui si pianifica la bufera sui vertici Eni. CorriereTv il 13 Febbraio 2022.

Un video risalente al 18 dicembre 2014, registrato nello studio dell’imprenditore Ezio Bigotti, mostrato domenica sera da Massimo Giletti a «Non è l’Arena» su La7. Nel filmato (qui l’articolo apparso sul Corriere a giugno) si sentono l’avvocato Piero Amara e Vincenzo Armanna parlare della bufera in arrivo sui vertici Eni, come se la stessero pianificando: «Arriverà una valanga di m...».

La domanda che si pone Giletti è: «Come mai questi documenti che avrebbero scagionato i vertici Eni sono stati tenuti segreti dai magistrati?»

Caso Eni, Giletti mostra i video nascosti alle difese. Per questa vicenda i pm De Pasquale e Spadaro sono indagati a Brescia. Il Dubbio il 13 febbraio 2022.

Nella puntata di questa sera alle 21.15 di Non è l’Arena, Massimo Giletti mostra i video girati in maniera clandestina da Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza di una fantomatica loggia denominata “Ungheria”, che testimonia un fatto clamoroso: la volontà di Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo per le presunte tangenti nell’affare Opl245, di ricattare i vertici Eni, per gettare su di loro «valanghe di merda» e avviare una devastante campagna mediatica.

Di questa notizia vi avevamo già parlato qui . Per questo motivo, i pm che hanno rappresentato l’accusa al processo, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, sono indagati con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio. Si tratta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del sostituto Sergio Spadaro, ora in forza alla procura europea.

R.C. per il "Corriere della Sera" il 14 febbraio 2022.

Un filmato registrato in modo clandestino nel luglio del 2014. Protagonisti l'avvocato Piero Amara e il dirigente Vincenzo Armanna, fra i principali testimoni d'accusa nel processo Eni-Nigeria per corruzione internazionale. Dalla videoregistrazione, effettuata nello studio dell'imprenditore Ezio Bigotti e mandata in onda ieri da Massimo Giletti a «Non è l'Arena» su La7, sembra emergere un piano per ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l'intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di m... che tu non ne hai idea» ad alcuni dirigenti apicali della compagnia.

Si sentono Armanna e Amara, più volte indagato e condannato e al centro a Milano di aspre diversità di vedute tra il pm sulla sua attendibilità, parlare della bufera in arrivo ai vertici dell'Eni. Questo video, come sostennero durante il processo le difese nel 2020 una volta che lo avevano trovato per caso in un altro procedimento, avrebbe costituito una prova rilevante a discarico degli imputati poi del processo. Ma la Procura di Milano, che ne era in possesso, lo avrebbe celato al Tribunale.

La vicenda era stata rimarcata dai giudici del processo Eni-Nigeria, che nelle motivazioni della sentenza di assoluzione avevano censurato i pm del processo: «Risulta incomprensibile la scelta del pm di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l'uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell'auspicata conseguente attivazione dell'autorità inquirente, ha straordinari elementi in favore degli imputati - scrissero i giudici-. Una simile decisione processuale avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza».

Secondo il Tribunale, dalla videoregistrazione si capisce che Armanna «aveva interesse a "cambiare i capi della Nigeria" (in Eni) per sostituirli con uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari petroliferi che aveva in tandem con Amara». La domanda di Giletti è una sola: «Come mai questi documenti sono stati tenuti segreti dai magistrati?».

Fabio Amendolara per "la Verità" il 14 febbraio 2022.

Le prassi mai codificate del rito ambrosiano, in vigore nella Procura più a sinistra d'Italia, ovvero quella di Milano, procedure che in altre zone d'Italia manderebbero sulle barricate gli avvocati, sono state riassunte per la prima volta in un verbale d'interrogatorio firmato lo scorso 19 maggio dal pm Paolo Storari, indagato per rivelazione del segreto d'ufficio dopo aver maneggiato il fascicolo sulla loggia Ungheria. La storia che Storari prospetta al procuratore di Brescia Francesco Prete parte dalle indagini sul complotto Eni e dalle ritrattazioni di Vincenzo Armanna.

E passa per le verità dell'avvocato Piero Amara, arrivato in Procura a Milano per confermare la ritrattazione di Armanna e finito a svelare l'esistenza della loggia Ungheria. Sono i primi giorni del mese di dicembre del 2019, quando, dopo l'ennesimo verbale riempito da Amara, Storari segnala alla collega, procuratore aggiunto, Laura Pedio, la necessità di affidare alcune deleghe per identificare le persone che l'avvocato siracusano indicava come appartenenti alla loggia. La comunicazione alla collega, però, stando al racconto di Storari, sarebbe caduta nel nulla: «Mai risposto».

«Ma questo», annuncia, «è un cinquantesimo di quanto ho vissuto». Storari parte da un assunto: c'erano delle dichiarazioni da approfondire. E mostra un articolo della Verità sulle chat di Luca Palamara, dalle quali era emerso che l'ex consigliere del Csm Marco Mancinetti avrebbe brigato per ottenere le tracce del test di Medicina per suo figlio. «Noi», spiega Storari, «avevamo dichiarazioni di Amara che diceva esattamente questo». Il pm sembra ragionare tra sé: «Come per dire... guarda che forse qualche riscontro fesso fesso iniziamo ad averlo... dobbiamo fare qualcosa».

Ma anche in questo caso, lamenta la toga, «non ho mai ricevuto risposta [...] io non vengo manco considerato... un muro di gomma...». Non è finita. Arriva febbraio 2020. Storari interroga Giuseppe Calafiore, l'uomo un tempo più vicino ad Amara. «Gli viene fatta una domanda», spiega Storari, «esiste Ungheria? «Sì esiste ungheria», questa è la risposta [...] abbiamo già due soggetti che si autoaccusano e a tre mesi circa dalle dichiarazioni non si iscrive nessuno... non si fa nulla».

Ma Storari comincia a tremare quando Armanna si presenta in Procura con una foto del primo verbale di Amara sulla loggia: «Iniziano le fughe di notizie...», dice. E spiega come avrebbe agito se avesse potuto farlo a modo suo: «Il tempo non gioca a nostro favore...queste robe son da fare in un mese... giorno e notte». E siccome «questi», argomenta Storari riferendosi ai suoi capi, «si sono infrattati il fascicolo per cinque mesi», aggiungendo, «mi perdoni dottor Prete, non c'è un atto istruttorio per un anno e mezzo», comincia a preoccuparsi non poco.

«Questo (riferito ad Amara, ndr) ha cominciato a parlare a dicembre 2019, il fascicolo è andato a Perugia, con quattro sit schifose, a gennaio 2021. Le sembra una cosa ammissibile con quelle dichiarazioni?». A quel punto si è chiesto: «Ma scusate, non è che dopo ci vado di mezzo io alle mancate iscrizioni?». E ha deciso di parlare con Piercamillo Davigo, all'epoca consigliere del Csm. Il procuratore Prete gli spiega che «di fronte a una situazione del genere aveva delle strade possibili da percorrere... la prima: rinuncio alla coassegnazione... la seconda: riferisco al procuratore generale perché eserciti i poteri di vigilanza... la terza... investo il Csm ufficialmente... perché lei sceglie una quarta informale, irrituale... forze illegittima... Perché?».

Storari risponde: «Io a Greco (il capo della Procura di Milano, prosciolto dalle accuse, ndr) l'ho detto e la risposta che ho avuto [...] «ti faccio il procedimento disciplinare»... seconda cosa, non lo dico a Greco perché è la stessa persona che mi ha detto "teniamo questo fermo"». Inoltre, «il procuratore generale in quel momento non c'era». E spiega anche perché non ha scelto di rinunciare al fascicolo: «Non volevo dargliela vinta e lasciarli da soli. Io ho sempre cercato di portare avanti questo fascicolo... In pieno Covid andavo in giro come un coglione, da solo, per l'Italia... cercando riscontri e smentite».

Poi si sfoga: «E l'unica volta, cazzo, in cui mi sono permesso di dire facciamo i tabulati, questi mi volevano aprire un disciplinare... di fronte a un fascicolo di questa portata. Non stiamo parlando di una truffa alle assicurazioni... stiamo parlando di robe devastanti per il Paese... e gliel'ho detto 200 volte... facciamo veloce che ci esplode tra le mani... e così è successo. Ma non per colpa mia. Perché è rimasto un anno e due mesi nel cassetto». 

Quando Prete gli chiede lumi sulla competenza territoriale, Storari scatta: «Ma ha visto chi c'è in questa loggia? Asseritamente chi ne fa parte? Il dottor Luigi De Ficchy. Cosa faceva? Il procuratore di Perugia. Allora... Perugia poteva essere competente? Dottor Prete lo chiedo a lei?». Prete all'improvviso, per un attimo, deve essersi trovato in una situazione scomoda, a ruoli invertiti. E bofonchia: «Ma io...». Storari lo toglie dall'imbarazzo: «Mi perdoni... la mia domanda è retorica ovviamente».

Ma rilancia: «E allora di che cosa stiamo parlando? Roma non è competente perché ci sono due aggiunti... ma nemmeno Perugia perché c'è De Ficchy. Perché se vogliamo proprio fare i precisini sulla competenza li facciamo... neanche Perugia è competente e sa qual è il grande stratagemma trovato per mandarla a Perugia? Grande, fantasioso... si separa De Ficchy, si manda a Firenze... e tutto il resto si manda a Perugia».

Con questo principio avrebbero dovuto spacchettare e inviare fascicoli per mezza Italia con le posizioni di tutte le toghe citate da Amara. «A fine agosto», ricorda Storari, «si decide: va a Perugia, punto. Con quel mastruzzo di De Ficchy [...] da settembre altri quattro mesi questo fascicolo rimane fermo». A gennaio 2021 cominciano le riunioni a Perugia. Ma Storari le vede così: «Scusate... che qui si sta vendendo fumo... sì, facciamo le riunioni... vediamo gente... questo ha iniziato a parlare a dicembre 2019... e siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il Paese. Lì dentro ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, componenti del Csm... prelati... questa roba è stata gestita una merda...».

Storari non le risparmia anche alla Pedio, per un documento inviato al Tribunale di Sorveglianza di Roma: «E poi quella scrive... «ha fornito ampia collaborazione (riferendosi ad Amara, ndr)»... e poi non fa un cazzo... è questo che mi dà fastidio». A Brescia però a un certo punto devono avere avuto l'impressione che qualche indagine, invece, era stata compiuta. 

Ma Storari precisa: «Ho l'impressione, ma posso sbagliarmi, che vi hanno venduto delle attività di un altro procedimento (indicando intercettazioni che riguardavano personaggi citati da Amara, ma provenienti da un altro fascicolo, ndr). Voi dovreste essere in grado di vedere se quello che loro dicono di aver fatto si riferisce o meno a Ungheria, perché se non si riferisce a quello è l'ennesima truffa che vi stan facendo».

Amara, pentito a orologeria: «Credibile solo se faceva comodo nel processo contro Eni». Nelle dichiarazioni di Storari al gup di Brescia il caso delle accuse dell'ex legale di Eni al giudice Tremolada: «Mi dissero: è troppo aderente alle difese». Simona Musco su Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Piero Amara, ex legale esterno di Eni, è un pentito che si usa solo quando fa comodo. Quando, ovvero, potrebbe tornare utile nel processo più grosso degli ultimi anni, quello contro il colosso energetico. E che si tiene fermo, invece, quando c’è da verificare fatti gravissimi, così come quelli da lui descritti svelando l’esistenza della presunta Loggia Ungheria.

Si potrebbe riassumere così quanto sostenuto dal pm milanese Paolo Storari davanti al gup di Brescia, dov’è a processo per rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Parole, le sue, che danno conto del «muro di gomma» in cui si sarebbe imbattuto allorquando avrebbe tentato di approfondire le dichiarazioni di Amara, senza successo.

«Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, buttiamola al processo (…), quando si deve indagare su Ungheria che potrebbe portare al calunnione gravissimo, no», spiega lo scorso 3 febbraio alla giudice Federica Brugnara, davanti alla quale descrive in lungo e in largo la frustrazione provata nell’ultimo anno e mezzo. Uno stato d’animo causato dal presunto ostruzionismo dei vertici dell’ufficio, su tutti l’ex procuratore Francesco Greco (la cui posizione è stata archiviata) e l’aggiunta Laura Pedio (indagata per omissione di atti d’ufficio), coassegnataria del fascicolo sul “Falso complotto Eni”, indagine parallela a quella principale sulla presunta corruzione nigeriana, nel quale sono maturate le dichiarazioni di Amara. E proprio il «ritardo» nelle iscrizioni dei primi indagati, più volte richieste da Storari, ha spinto il pm a rivolgersi a Davigo, al quale consegnò i documenti contenenti le dichiarazioni di Amara innescando, involontariamente, l’iter che portò alla fuga di notizie.

Il caso Tremolada

Storari, davanti alla giudice, sottolinea di essersi sentito «solo», «rimbalzato» da un punto all’altro. E per far comprendere il suo punto di vista sulla gestione di Amara fa l’esempio più lampante, ovvero quello relativo alle dichiarazioni su Marco Tremolada, presidente del collegio nel processo Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Su di lui Amara riferì di aver saputo che le difese del processo erano state in grado di «avvicinarlo».

Così i vertici della procura, a fine gennaio 2020, decidono di spedire le dichiarazioni di Amara – contenute in «due o tre righe» – a Brescia (che poi archivierà senza iscrivere nessuno), competente per i reati commessi dai o a danno dei magistrati milanesi. Di ciò Storari viene tenuto all’oscuro, tant’è che protesta con Greco e Pedio per iscritto. Ma l’episodio, afferma il pm., certifica una cosa: Amara viene preso sul serio dai vertici della procura. Tant’è che Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che ha rappresentato l’accusa nel caso Eni-Nigeria, propone ai colleghi di usare quelle sue dichiarazioni al processo, soluzione che ancora una volta non trova d’accordo Storari. Che attacca: «Ma scusate, voi praticamente davanti al mondo infangate il magistrato, il presidente del Tribunale (…) e loro mi rispondono: “Tu, Paolo, sei un corporativo, noi vogliamo farlo perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese”, io rispondo: “Guarda, dovete passare sul mio corpo (…) faccio casini perché queste cose non si fanno”. Ho detto: “Volete farle voi? Sapete cosa c’è? Vi chiamate voi Amara nel vostro verbale (…) ma non usate il verbale che ho fatto io per mascariare un collega su nulla”».

La cosa si chiude rassicurando Storari che quel verbale non verrà utilizzato. Durante il processo, però, De Pasquale chiede di poter sentire Amara come teste, per riferire anche sulle presunte interferenze nei confronti dei giudici del processo. Una cosa «estremamente scorretta nei miei confronti», sostiene il pm, secondo cui «l’obiettivo» sarebbe stato ottenere l’astensione del giudice. La cosa non va in porto, perché la testimonianza di Amara non viene ammessa. Ma la richiesta, secondo Storari, vuol dire ancora una volta consegnare all’ex avvocato esterno di Eni una patente di credibilità, la seconda.

La terza arriva direttamente da Pedio, che fornisce alla difesa dell’ex legale un certificato di fattiva collaborazione per sostenere la domanda di affidamento ai servizi sociali. «L’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto dall’indagato e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni – si legge nel documento – consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti». Amara, dunque, non è un pazzo, sembra dire tutta la procura. Ciononostante, le iscrizioni tardano ad arrivare. E Storari si rivolge a Davigo, presidente della Commissione deputata all’interpretazione dei regolamenti del Csm e, dunque, la persona dal suo punto di vista più qualificata, evidenziando il problema dell’omessa iscrizione, date le sue conseguenze disciplinari, dalle quali vuole smarcarsi.

Anche perché, spiega il magistrato, «a un certo punto mi sono accorto (…) di essere stato preso in giro più volte» dal «procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti, con cui lavoravo». A oltre cinque mesi dalle prime dichiarazioni di Amara sulla Loggia e sei interrogatori, infatti, non c’è traccia di atti investigativi o indagati, «neanche coloro che si autoaccusavano di queste cose». E sebbene sia vero che spesso si attende anche di più per un’iscrizione, «qui si coinvolgevano le istituzioni».

Le indagini

Ma nello scambio di mail tra Storari, Greco e Pedio emerge un fatto, evidenziato dal giudice che ha archiviato la posizione dell’ex procuratore: è proprio quest’ultimo, e non Storari, a proporre l’iscrizione di Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro. La loro iscrizione, spiega però Storari, era scontata. Serviva, invece, recuperare i tabulati degli altri soggetti coinvolti, per certificare i loro rapporti, cosa mai avvenuta. «L’iscrizione di Amara, Calafiore e Ferraro era ovvia, di questi tre io non volevo fare i tabulati perché sapevo che erano estremamente prudenti con i cellulari – spiega -, usavano sistemi criptati, era assolutamente inutile fare i tabulati di questi qua».

Mentre Storari sostiene che nulla sia stato fatto per verificare le parole di Amara, Greco e Pedio elencano una serie di attività che rientrerebbero nell’indagine sulla presunta Loggia. Ma il pm smentisce tutto, indicando data per data come starebbero i fatti. Il fascicolo, rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021, non contiene alcuna delega alla Polizia giudiziaria, se non quelle fatte da Storari per identificare i soggetti.

Insomma, il fascicolo sarebbe rimasto a «galleggiare» per un anno, nonostante la fuga di notizie del 17 febbraio. E ciò che viene definito atto di indagine sarebbe ben altro: gli incontri con i colleghi di Perugia, dove peraltro «non si è parlato di Ungheria», le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto”, i cui decreti erano finalizzati «a totalmente altro», la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. E senza voler accusare nessuno, conclude Storari, «ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente».

Le prove di Eni-Nigeria

Storari racconta anche del tentativo di avvisare i pm del processo Eni-Nigeria delle presunte falsità raccontate da Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore della società petrolifera. «Cerco di riscontrare le dichiarazioni di Amara e Armanna nel mio procedimento e vengo a scoprire grazie alle attività investigative che ho fatto io che sia Amara che Armanna sono due calunniatori», spiega Amara, che invia una mail a De Pasquale (ora indagato assieme al collega Sergio Spadaro) per avvisarlo, chiedendo di convocare una riunione. Ma «non vengo neanche considerato».

Storari invia ulteriori elementi, dal presunto pagamento di un teste alle chat false, elementi da sottoporre dalla difesa, ma non avviene nulla. «Ma lei consideri come si trova a vivere una persona, cerchi di fare il tuo lavoro, tu cerchi di fare il tuo lavoro perché portare elementi al collega, ma non lo faccio per distruggerlo il processo, ma che sono elementi obiettivi», conclude. Anche perché poi il tutto viene «confermato a un anno di distanza».

Da Mani Pulite all’inchiesta di Brescia, Davigo: «Non cambio idea: ho fiducia nella giustizia italiana».  

L'ex pm di "Tangentopoli" parla del suo presente: «Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Mani Pulite iniziò il 17 febbraio del 1992. Trent’anni dopo si tirano le somme. Quale è la lezione di Tangentopoli? «Nel tempo ho compreso che le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto». A rispondere all’Adnkronos è Piercamillo Davigo, all’epoca uno dei pm dell’inchiesta del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli che nel 1992 sconvolse l’Italia, il suo sistema politico ed economico.

«All’inizio delle indagini sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici, neppure tutti, e alle imprese che avevano rapporti esclusivi o prevalenti con la pubblica amministrazione. In seguito tuttavia ci siamo resi conto che il malaffare era dilagato ben oltre questi limiti: le falsità contabili erano diffuse. Oggi l’evasione fiscale riguarda, secondo alcune stime, 12 milioni di persone, cioè un quinto della popolazione italiana».

«Il merito cede il passo a clientele, raccomandazioni e servilismo, sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Nella cittadinanza non sembra esservi riprovazione e neppure la consapevolezza che tali comportamenti, oltre a essere illegali, sono dannosi».

Lei sta dicendo che non c’è più etica? «Nessun popolo, cioè l’insieme dei cittadini, può vivere se non vi è un’etica condivisa e in Italia non sembra più esserci. Fra i valori predicati e i comportamenti praticati vi è una differenza abissale».  «E anche nel caso in cui si conviene su alcuni principi, come per esempio “non rubare”, scattano poi i distinguo nella sfera pubblica e interviene lo spirito di fazione, così radicato in nel nostro Paese. Si ricorre a un cavilloso richiamo a norme costituzionali anche quando si va in campi diversi da quelli regolamentati dalla Costituzione».

A cosa si riferisce? «Quando a carico di qualcuno emergono indizi di reato, è frequente che costui (e i suoi sostenitori) invochino la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 della Costituzione), anche al di fuori del processo penale, quando non si discute di diritti dell’imputato, ma di valutazioni di opportunità o di prudenza nella vita sociale». «I cattivi non vincono sempre – sostiene Davigo – La consolazione, per quanto magra, è che neppure loro sono (per ora) riusciti a vincere. Le leggi per farla franca hanno attirato l’attenzione di organismi internazionali e i loro rilievi sono stati un deterrente a continuare su quella strada».

«Numerose leggi sono cadute sotto le pronunzie della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità. I tribunali e le corti italiane hanno adottato interpretazioni volte a salvaguardare il sistema legale. Le elezioni hanno messo in evidenza una minore presa dei poteri locali e nazionali sull’elettorato, molto più volatile che in passato, consentendo anche un’alternanza di schieramenti al governo del Paese che è un’esperienza relativamente nuova in Italia».

Rimangono i poteri criminali e le loro collusioni con la politica e l’economia, i più difficili da affrontare. «La magistratura italiana ha fronteggiato varie emergenze come la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione pervasiva e il degrado ambientale, senza riuscire a eliminarle del tutto. Ma anche senza farsene travolgere.

Dopo la vicenda Palamara che accade? «Il discredito gettato sull’ordine giudiziario dalle intercettazioni operate nei confronti di Luca Palamara, e ancor più la sua linea difensiva di tentare di accreditare l’idea che i suoi comportamenti fossero condivisi e perpetrati da larga parte della magistratura -cosa non vera- richiederà molto tempo per essere superato». «Il bilancio complessivo rischia di assomigliare a uno stallo, in cui nessuno dei vari soggetti e dei loro valori riesce a prevalere sugli altri, e ciò è fonte di scoramento».

Lei stesso sta attraversando una vicenda giudiziaria complessa, non ancora chiarita: quella collegata alle dichiarazioni di Pietro Amara sull’esistenza della loggia massonica segreta “Ungheria” e alla sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. A che punto è? «Attualmente sono in udienza preliminare che dovrebbe concludersi proprio il 17 febbraio con il rinvio a giudizio o con il proscioglimento. Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento» (di Rossella Guadagnini/Adnkronos)

Roma, l’ex pm di Manipulite Francesco Greco consulente alla legalità del sindaco Gualtieri. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

L’ex pm del pool Manipulite ed ex capo della Procura di Milano (fino al novembre 2021) Francesco Greco sarà il consulente alla legalità del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. La decisione verrà formalizzata in una conferenza stampa annunciata dal primo cittadino della capitale per le 14 di giovedì 17 febbraio. Greco, 70 anni , napoletano trapiantato da sempre nel capoluogo lombardo, fino a pochi mesi fa alla guida della Procura meneghina, diventò famoso nei primi anni Novanta per le inchieste di Tangentopoli, che sancirono il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Il primo arresto di autorevoli esponenti della politica risale a metà degli anni Ottanta, quando condusse l’inchiesta contro il segretario del Psdi Pietro Longo, accusato di aver intascato una bustarella. Specializzato in reati finanziari, Greco di recente si è battuto affinché i colossi della Rete paghino le tasse. E ora arriva l’impegno romano, fronte molto impegnativo per le infiltrazioni del crimine organizzato dal Sud Italia e per gli illeciti nella pubblica amministrazione.

Prima di Greco in Campidoglio un altro magistrato, Alfonso Sabella, siciliano, noto come «cacciatore di mafiosi» per le sue indagini anti-mafia, aveva lavorato al fianco di un sindaco, in quel caso Ignazio Marino. L’annuncio della collaborazione tra l’ex procuratore di Milano e l’attuale primo cittadino di Roma, che sarà a titolo gratuito, arriva dopo numerosi rumors sulla nomina di un alto magistrato come consulente nella lotta alla legalità. Tra i profili ipotizzati c’erano quello di Piero Grasso, ex capo della Direzione nazionale antimafia, e dell’ex assessore ai Trasporti nella giunta Rutelli, Walter Tocci, immaginato come di supporto alla realizzazione delle infrastrutture su ferro per il Giubileo ed Expo. Indiscrezioni fuorvianti, il vero nome era un altro: quello dell’ex pm in squadra 30 anni fa con Saverio Borrelli, Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 16 febbraio 2022.

Le randellate in punto di fatto e di diritto tra gli ex di Mani Pulite sono volate sul ring della Procura di Brescia. Quando Francesco Greco viene convocato dal procuratore di Brescia Francesco Prete come persona indagata (verrà poi prosciolto dal gip) ha ancora la toga sulle spalle. 

È il 27 luglio 2021 e il suo ufficio è appena stato fatto a pezzi dallo scontro innescato dalle dichiarazioni, anche contro di lui, di un suo sostituto, Paolo Storari, che a sua volta è finito in un cortocircuito scatenato dalle propalazioni dell'ex avvocato dell'Eni Piero Amara sull'esistenza della presunta loggia Ungheria. Cinque pubblici ministeri meneghini, per quelle vicende, finiscono sul registro degli indagati della Procura di Brescia.

E l'ex ragazzo dell'ultrasinistra che in quel momento era il penultimo ancora in toga di quel pool di cacciatori di presunti mazzettari degli anni Novanta (in servizio c'è ancora il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo), colpisce duro contro il suo ex collega più anziano che la stampa all'epoca aveva soprannominato il «dottor sottile», perché considerato la mente giuridica del metodo del gruppo guidato da Francesco Saverio Borrelli. 

«Questo signor Davigo (accusato insieme a Storari di rivelazione di segreti d'ufficio per aver fatto circolare i verbali di Amara, ndr) è andato in giro per tutto il Consiglio superiore della magistratura, dal procuratore generale dicendo che io insabbio le indagini, contrariamente a 45 anni di onorata carriera, no?...

È andato in giro... e poi adesso se ne esce fuori che era una procedura di auto tutela? Tu mi devi avvisare... mi devi permettere il contraddittorio prima di sputtanarmi, scusate il termine, davanti a tutta questa gente qui ma stiamo scherzando? E non dimentichiamoci che hanno avuto sette mesi di tempo per costruirsi la loro versione questi ragazzi». 

Greco deve aver preso un colpo quando ha scoperto che Storari si era lamentato con Piercamillo Davigo, in quel momento consigliere del Csm, perché i suoi capi, a suo dire, traccheggiavano con le iscrizioni sul registro degli indagati. Storari, che consegnò a Davigo i verbali di Amara (poi spediti in modo anonimo dalla segretaria ai giornalisti), spiegò di aver parlato con il componente del Csm agendo in «autotutela».

Un ragionamento che Greco sembra proprio non riuscire a ingoiare: «No, ma io vorrei capire una cosa ... il punto è questo... la cosiddetta autotutela, che si fa in un altro modo, sicuramente esclude la consegna di contenuti di verbali». E argomenta la sua visione di quella procedura, senza risparmiare qualche altra stoccata all'ex collega del pool: «Cioè se io mi lamento perché il procuratore non mi ha voluto mettere il visto su una misura cautelare o cose di questo genere, io mi lamento dell'atto ma non è che devo necessariamente produrre la misura cautelare, a meno che non mi venga chiesto.

A maggior ragione nei confronti del Csm che, come voi sapete, non può chiedere, checché ne dica Davigo, atti di un processo se non chiedendo il permesso di poterli avere. Va bene? Allora il punto qual è? Che non è necessario in autotutela consegnare[...]». Greco sembra avere un sospetto. E durante l'interrogatorio mette la classica pulce nell'orecchio ai colleghi bresciani: «Allora, francamente, questa consegna dei verbali, a mio avviso, ha un'altra motivazione. Quale non lo so, ma non è quella che viene propagandata sui giornali».

Subito dopo l'ex procuratore di Milano alza i toni: «Mi hanno tirato in ballo senza che io mi potessi difendere da queste accuse e su questo io non avrò alcuna... sarò molto fermo, perché non e possibile che un magistrato venga messo alla berlina davanti a tutti i Consiglieri del Csm, davanti al presidente della commissione Antimafia, davanti al presidente della Cassazione, davanti al procuratore generale della Cassazione in questo modo, per interessi di parte». 

Il procuratore Prete 20 giorni prima aveva ascoltato l'altra campana, quella di Davigo, convocato pure lui da indagato. E anche in questo verbale sono volate bordate: «Io», afferma Davigo, «Greco lo conosco da una vita... qualcuno mi ha anche detto: "Ma non potevi telefonare a Greco?''. Non mi ricordo chi... ho detto: "Ma scusate... ma è il festival dell'amicizia o stiamo parlando di istituzioni?"... per come lo conosco io Greco non è un delinquente... forse un po' superficiale perché se no non si sarebbe cacciato in questo pasticcio».

Fatto sta che Davigo sembra essersi convinto che le iscrizioni sul registro degli indagati furono formalizzate dopo aver informato il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. «Allora... io sono convinto che il procuratore generale ha fatto quello che io ho auspicato che lui facesse, cioè che lo abbia chiamato... lui ha detto di avere avuto un incontro con Greco... sta di fatto che poi l'iscrizione avviene dopo il colloquio tra il procuratore generale della Cassazione e il procuratore della Repubblica. Che poi abbiano fatto le indagini non credo... cioè qualcosa han fatto che ha dimostrato... da quel che leggo sui giornali».

Ma Greco non è della stessa idea. E rimanda la palla nel campo avversario: «L'hanno distrutta questa indagine. Andate a chiedere a Cantone (Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, dove il fascicolo è stato trasmesso per competenza, dopo aver stralciato la posizione dell'ex capo della Procura Luigi De Ficchy, ndr) cosa ne pensa da questo punto di vista. L'hanno distrutta e hanno permesso che circolasse in tutta Italia il contenuto di verbali piuttosto delicati». 

Anche sulla competenza a Perugia le posizioni sono opposte. Ecco cosa ne pensa Davigo: «Io sono tuttora sconcertato dal fatto che si sia potuto tenere ferma quella roba lì per cinque mesi prima di iscrivere e per altri sei mesi dopo l'iscrizione... prima di mandarla alla Procura di Perugia che tra l'altro, per quanto ne capisco io, non è competente perché... siccome era indicato tra gli affiliati anche l'ex procuratore della Repubblica (De Ficchy, ndr)... io non ho mai visto che si può fare per un reato associativo togli quello e tieni gli altri [...]».

D'altra parte, con questo principio, avrebbero dovuto stralciare le posizioni di tutti i magistrati citati da Amara e inviare il fascicolo alle Procure di mezza Italia. La conclusione alla quale giunge Davigo è questa: «Certamente Milano non se lo poteva tenere (il fascicolo, ndr)... sono indicati magistrati di Milano come affiliati... ma non potevano neanche tenerselo senza iscrivere... questo è il punto». Ipse dixit.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 17 febbraio 2022.

Violento atto d'accusa del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo a Perugia contro il collega Stefano Fava. Il magistrato capitolino è parte civile nel processo contro lo stesso Fava e Luca Palamara, accusati di rivelazione di segreto relativamente a un esposto che riguardava un presunto conflitto di interessi del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. 

Ma la segnalazione, quanto meno negli allegati, chiamava in causa anche Ielo per i rapporti di lavoro del fratello Domenico con Eni. Ieri il magistrato, davanti ai giudici umbri, si è concesso un lungo sfogo: «Sono tre anni che ricevo fango in faccia. Io penso che la cifra di un magistrato debba essere la sobrietà. Un magistrato deve difendersi nei tribunali e non sui giornali. Sono anni che covo e sto zitto». 

Poi ha continuato, descrivendo l'ex collega come un fanatico delle manette: «Io mi fidavo di Fava, cercavo di difenderlo anche da sé stesso. Con lui si andava d'accordo fino a quando c'erano da fare richieste di misure cautelari, fino a quando si andava a testa bassa, ma le buone indagini non sono quelle in cui si manda in carcere qualcuno, sono quelle in cui si prendono i cattivi, ma sono anche quelle in cui si tira fuori dai guai chi non ha fatto niente, un innocente».

Quindi il discorso è passato sul faccendiere Piero Amara, suo vecchio «cliente»: «Io dissi che le dichiarazioni di Amara si potevano utilizzare se riscontrate, altrimenti ora mi ritroverei sulla vicenda Mediolanum a dibattimento contro Berlusconi in base ad accuse non riscontrate». Silvio Berlusconi venne prosciolto e Fava non firmò la richiesta di archiviazione.

«Mio fratello non ha mai avuto rapporti di lavoro con Amara» ha sottolineato Ielo. Anche se nessuno ha mai scritto il contrario. I due legali erano semplicemente consulenti della stessa azienda. L'aggiunto romano ha poi spiegato di avere «sempre pensato che i magistrati si possono dividere, possono discutere ma stanno sempre dalla stessa parte [] E invece ho scoperto poi che c'era qualcuno nell'ufficio contro di me».

Ielo ha accusato Fava di avergli «teso una trappola»: «Disattese la richiesta di fare uno stralcio sulla vicenda Eni-Napag sapendo che su quella vicenda mi sarei astenuto. Lui mi disse che c'era una tale interconnessione da non poterlo fare: questa cosa qui puoi dirla a uno che non fa il mestiere non a uno che fa questo lavoro». 

Ielo ha, infine, offerto una sua rilettura della guerra per la nomina del procuratore di Roma del 2019, dandogli una chiave originale: «L'hotel Champagne non è stato un fatto di correnti. Bisognava nominare un procuratore della Repubblica di Perugia che fosse disponibile a fare indagini nei miei confronti, probabilmente perché io non vado a cene, non faccio incontri».

Questo autoritratto cozza un po' con i suoi stretti rapporti di lavoro con la stampa, con i suoi appuntamenti (magari non cene, ma certamente pranzi) con diversi giornalisti. Categoria che non di rado ne canta le gesta. Inoltre è il punto di riferimento di molti inquirenti, anche di altre città, che lo stimano e amano confrontarsi con lui. È considerato dai suoi capi un fuoriclasse nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, anche se sempre più spesso il suo ufficio, nei procedimenti che sfiorano la politica, contesta il traffico di influenze illecite, una ipotesi fumosa, una corruzione che non ce l'ha fatta. 

E non mancano, nelle sue inchieste, gli alti e i bassi come confermano le accuse a Virginia Raggi e Tiziano Renzi. Il problema di Ielo è che a congetturare suoi fantomatici conflitti d'interesse (ipotesi che il Csm cestinato) non era solo Fava, bensì una banda di faccendieri su cui stava indagando.

Come l'avvocato Vincenzo Armanna, ex manager di Eni e grande accusatore della compagnia petrolifera. Un professionista oggi sotto procedimento per diversi episodi di calunnia. In una chat depositata agli atti del procedimento sul finto complotto ai danni dei vertici dell'Eni, Armanna spiega al giornalista di Report Luca Chianca quale sia il segreto della banda per provare a ridurre al minimo i danni delle inchieste giudiziarie. 

La conversazione risale al 29 maggio 2019 quando sulla Verità e sul Fatto quotidiano erano stati pubblicati due articoli su un esposto del pm Stefano Fava al Csm in cui si faceva riferimento anche al presunto conflitto di interessi del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, a causa dei rapporti professionali del fratello Domenico con l'Eni. Ricordiamo che nella Capitale c'era un'inchiesta che riguardava Amara e gli affari illeciti della Napag, società a lui riconducibile, con alcuni manager infedeli della compagnia petrolifera.

Armanna suggerisce al cronista alcune domande, tra cui queste due: «L'Eni che controlla tutti i conflitti di interessi come fa ad affidare un contratto al fratello di Ielo? Amara come ha fatto a prendere tutti quei contratti senza che nessuno se ne accorgesse?». Chianca ribatte: «Però il fratello di Ielo lavora lì da una vita». 

Ma Armanna spiega il meccanismo che con quelle consulenze la banda farebbe scattare: «In ogni caso lo rende "in conflitto di interessi" e anche se non facesse nulla così riescono ad "escluderlo" dalle indagini... non penso a corruzione penso a strategia per escludere i pm più aggressivi». Una tattica per far astenere i magistrati più «pericolosi». 

Quindi fa un commento sibillino su quanto accaduto nell'inchiesta Napag, di cui Ielo era titolare: «E in ogni caso l'indagine su Amara finisce troppo presto, con un patteggiamento (del faccendiere e del suo coindagato Giuseppe Calafiore, ndr) tagliando fuori Napag, 80 milioni». Ovviamente potrebbe trattarsi di millanterie, tipiche del personaggio. L'avvocato Ielo ha sempre negato di avere rapporti con Amara, nonostante fossero entrambi consulenti dell'Eni.

Il professionista è consulente da circa 20 anni (periodo in cui ha cambiato tre diversi studi) dell'Eni, con cui lavora tuttora e da cui è considerato «un ottimo professionista». Da parte sua Amara, due anni dopo, ha descritto una strategia non molto diversa da quella evocata da Armanna, la stessa che utilizzava per sterilizzare i pm quando doveva difendere gli interessi dei propri clienti: «Cercavo di nominare persone (avvocati, ndr) che erano vicine perché erano testimoni di nozze, matrimoni, che a qualche magistrato». Come aveva fatto lui stesso con il suo difensore Salvino Mondello, ex compare di nozze di Ielo. 

Davigo: «Nessuno si è sognato di dirmi che non potevo farlo». L’ex pm di Mani Pulite racconta la sua versione dei fatti sulla consegna dei verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria. «Se mi avessero chiesto una relazione l’avrei fatta». Simona Musco su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

«Io non credo di aver sbagliato perché nessuno si è sognato di dirmi: “Guarda che non potevi fare quello che dovevi fare”, ma fosse anche che mi fossi sbagliato sono scriminato dall’adempimento di un dovere perché avevo il dovere di denunciare la notizia di reato al Procuratore generale e avevo il dovere di informare il Consiglio superiore della magistratura».

Nessuno, tra i componenti del Comitato di presidenza del Csm, avrebbe invitato Piercamillo Davigo a formalizzare la vicenda relativa ai verbali di Piero Amara, consegnatigli dal pm milanesi Paolo Storari. Verbali nei quali veniva svelata l’esistenza di una presunta Loggia, denominata “Ungheria” e della quale, a dire di Amara, avrebbero fatto parte anche due componenti del Csm attuale, i togati Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti, poi dimessosi a settembre del 2020.

Quei documenti, ad aprile dello stesso anno, erano stati affidati a Davigo da Storari, che lamentava l’inerzia dei vertici della procura (il procuratore Francesco Greco, la cui posizione è stata archiviata, e l’aggiunta Laura Pedio, che è ancora indagata per omissione d’atti d’ufficio) nel procedere con le iscrizioni. E da lì tutto ha iniziato a precipitare, con la pubblicazione dei verbali sui giornali, le indagini che hanno coinvolto diversi magistrati e una nuova crisi interna a Palazzo dei Marescialli. Il tutto mentre sulla credibilità di Amara non è stata fatta ancora chiarezza.

Davigo aspettava dunque «indicazioni», anche perché fare una relazione di servizio, ha spiegato al gup di Brescia, dov’è indagato assieme a Storari per rivelazione di segreto d’ufficio, avrebbe significato far conoscere a tutti la situazione, comprese le persone indicate da Amara nel verbale. «Però se mi dicevano fai una relazione di servizio, come ho fatto tante volte nella vita (…) l’avrei formalizzata». Fu l’ex pm di Mani Pulite a convincere Storari che la consegna di quel materiale era legittima. Tant’è, ha sostenuto l’ex magistrato, che «non mi capacito (…) come Storari sia qui. Storari si è fidato di un componente del Consiglio superiore della magistratura, ma che cosa deve fare un magistrato di fronte a un comportamento che reputa illegale dei suoi superiori se non parlare con l’Organo di autogoverno?». Davigo, «impressionato dalla mancata iscrizione» disse a Storari «che se non fosse avvenuta» bisognava «necessariamente informare dell’accaduto il comitato di presidenza», col quale si propose, «se lui riteneva» di «fare da tramite».

Così il pm consegnò i verbali e Davigo li portò con sé, il 4 maggio 2020, a Palazzo dei Marescialli, nella convinzione di dover agire in maniera urgente. «Amara dice che il precedente Consiglio era… quello di Palamara e Forciniti per intenderci, era sostanzialmente sotto il controllo di questa loggia», ha spiegato. E a fronte delle «circa mille nomine» fatte dallo stesso «poteva sorgere la necessità (…) di eventuale annullamento in via di autotutela di qualcuna». Il tempo a disposizione era però poco: «La legge impone un termine di un anno e mezzo, che stava per giungere alla fine».

La prima persona con la quale Davigo parlò della situazione fu David Ermini, vicepresidente del Consiglio, che poi «chiamò il Presidente della Repubblica». Ma la consegna dei verbali sarebbe avvenuta solo in un secondo momento e non subito, come sostenuto da Ermini, in quanto «continuava a chiedermi i nomi». Ermini dichiarò di averli buttati nel cestino, senza leggerli. Una cosa «stravagante», in quanto sarebbe stato più appropriato usare il «tritacarta». E secondo Davigo, nel «momento in cui Ermini distrugge la prova del mio reato lo dovete incriminare per favoreggiamento. Non mi consta che sia avvenuto, l’hanno sentito a sommarie informazioni testimoniali. Sarebbe un illecito disciplinare, ma comunque…». Dopo qualche giorno Davigo ne parlò anche con il pg della Cassazione Giovanni Salvi.

«Io mi sono illuso (…) che informando il procuratore generale», che è anche «titolare dell’azione disciplinare insieme al ministro della Giustizia, la situazione si sarebbe sbloccata, cioè le iscrizioni sarebbe finalmente avvenute, cosa che è puntualmente avvenuta, anche se negano di aver parlato di questo e hanno perso i telefoni (Salvi e Greco, ndr) ».

Davigo è convinto dunque di aver agito secondo la legge, dal momento che «il Consiglio è organo di garanzia dell’ordine giudiziario e siccome per poter garantire il funzionamento dell’ordine giudiziario ha bisogno di conoscere, a esso Consiglio e ai suoi singoli componenti non è opponibile il segretario d’ufficio». Ma perché, dunque, dirlo anche al senatore Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare Antimafia? Nessuna notizia di dettaglio, ha specificato Davigo, secondo cui le dichiarazioni di Morra sarebbero in gran parte «frutto di fantasia».

L’ex pm, infatti, informò il senatore quando questi si presentò al Csm chiedendo se fosse possibile una pacificazione con Ardita. «Io gli dissi: “Guarda, senti, abbi pazienza, ci sono delle cose che tu non sai, io non posso in questo momento riprendere i rapporti con Ardita, che tra le altre cose sarebbe tacciato di appartenere a una struttura massonica”». E ciò senza mostrare i verbali, che invece, secondo la versione di Morra, gli sarebbero stati fatti vedere nel sottoscala di Palazzo dei Marescialli. «Se ha visto i verbali dovrebbe dire che cosa c’è scritto sopra», ha affermato, dato che «c’è scritto a caratteri grossi» sia quale fosse la procura sia il nome del dichiarante. «Lui ha detto che non sapeva né qual era la Procura né qual era il dichiarante, come fa ad averli visti?», si è chiesto Davigo.

Giuseppe Salvaggiulo e Monica Serra per “La Stampa” il 20 febbraio 2022.

Lo show di Piercamillo Davigo non ha tradito le attese ma non gli ha impedito il rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d'ufficio sui verbali sulla loggia Ungheria, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari e veicolati irritualmente nel Csm nella prima metà del 2020 per «screditare il ruolo istituzionale e l'immagine personale e professionale del collega Sebastiano Ardita». 

Vanificando i tentativi della giudice Federica Brugnara di frenarne la facondia («Non capisco la pertinenza, aspetti un attimo, risponda alla mia domanda...»), il 7 febbraio l'imputato Davigo tiene banco per tre ore nel tribunale di Brescia.

In una ricostruzione non priva di lacune e contraddizioni, per difendersi alza il tiro sui vertici del Csm. In primis il vicepresidente David Ermini. «Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi di lui, perché la sua provenienza politica era la stessa di Lotti. Però avevo un buon rapporto. 

Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promanava da Magistratura Indipendente e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato. E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in un'intercettazione Lotti diceva "Ermini è morto", facendogli fare un figurone».

Ermini viene informato dei dirompenti verbali milanesi all'inizio di maggio 2020, di ritorno a Roma dopo il lockdown. «Gli dissi per telefono: ti devo parlare di una cosa urgente e importante. Contrariamente a quanto dice lui, non gli consegnai in prima battuta i verbali. Gli feci una sintesi della vicenda dicendo "ci sono nomi da paura, data la delicatezza è indispensabile informare il presidente della Repubblica”. Cosa che Ermini fece immediatamente. Chiamò il presidente, lo raggiunse e tornò».

I nomi

Ermini, sentito dai pm come testimone, fornisce una ricostruzione diversa e dice di aver cestinato i verbali senza leggerli. «Ma non è vero - obietta Davigo - perché me li ha chiesti lui. I verbali vengono in un secondo momento. Siccome era impressionato dai nomi, continuava a chiedermi "Ma c'è anche quello?" e io non me li ricordavo perché sono tanti. A un certo punto ho detto "Senti David, se vuoi te li do questi file stampati così non mi chiedi più i nomi”.

Poteva rispondermi: "Non li voglio". Invece li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio e non ne abbiamo più parlato. Due mesi dopo siamo andati in vacanza insieme all'hotel Terme di Merano, quindi non era poi così turbato evidentemente… Comunque se li ha distrutti, essendo la prova del mio reato, dovete incriminarlo per favoreggiamento. Non mi consta che sia avvenuto. Sarebbe un illecito disciplinare (dei pm di Brescia, ndr), ma comunque».

Il racconto di Davigo prosegue. «Non voglio dire cosa mi disse Ermini di ritorno dal Quirinale perché non è opportuno coinvolgere la presidenza della Repubblica in questa vicenda già brutta di suo. Ma se mi viene fatta la domanda diretta, rispondo che Ermini mi disse che il presidente gli aveva detto di ringraziarmi per le notizie fornite e che per il momento quelle notizie gli erano sufficienti, che mi avrebbe fatto sapere se fosse servito altro. 

Del resto mi sembra francamente inverosimile quanto dice Ermini, cioè che il presidente della Repubblica rimane lì come una statua. Se uno gli dice una cosa così, insomma…».

Il pm chiede di «altre interlocuzioni con la presidenza della Repubblica». Risposta: «Sì, ma non sono direttamente attinenti, tranne per una cosa di cui preferisco non parlare perché non voglio coinvolgere persone estranee. Da parte del presidente non ci sono state altre richieste di informazioni; dalla presidenza come istituzione non richieste di chiarimenti, ma notizie che mi sono state date in via informale da persona che non intendo nominare e che comunque è inutile dire perché non hanno rilevanza in questa vicenda».

Davigo riferisce poi dell'interlocuzione con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, due giorni dopo quella con Ermini. «Gli dissi "Guarda, c'è una situazione assolutamente fuori controllo alla Procura di Milano, vedi di fare qualcosa". Ebbi la sensazione che avesse già un'idea, perché non manifestò sorpresa. Mi diede una risposta che mi gelò: "Ma, sai, lì c'è anche gente perbene". Pensai di fare una relazione di servizio, poi non la feci».

La decadenza A ottobre 2020, Ermini e Salvi furono decisivi nel voto per la decadenza di Davigo dal Csm. «Fino a dieci giorni prima del mio compleanno si dava per pacifico che io sarei rimasto, tanto che durante una cena Ermini disse a tutti: "Oggi Piercamillo ha fatto il suo capolavoro: ha collocato a riposo il segretario generale e lui rimane”.

Dopo il voto, Ermini era molto dispiaciuto. Se mi fosse stato ipotizzato che c'era un problema, mi sarei dimesso. Già non ci volevo andare al Csm, mi veniva il mal di stomaco alle 11 di mattina per le cose che vedevo».

In realtà poi Davigo ha fatto (e perso) due ricorsi contro la destituzione. «Ho cambiato idea sulla loro buona fede», spiega al giudice. Il pirotecnico interrogatorio è condito di aneddoti e frecciate velenose. 

Su Cosimo Ferri, «che ho visto crescere perché il padre, il ministro dei 110 all'ora, era mio amico e dormì su una brandina a casa mia, prima di interrompere i rapporti perché mi invitò a una cena con il piduista Elia Valori».

Sull'avvocato generale di Milano Nunzia Gatto, «incapace di ragionamenti complessi». Sulla Procura di Milano «dove ormai accadono cose fuori dal mondo». Su un altro giudice di Brescia, che ha archiviato «perché ha fatto confusione» la posizione dell'ex procuratore di Milano Francesco Greco. 

È solo l'antipasto del processo che comincerà il 20 aprile dopo la sentenza sul coimputato Storari, per cui la Procura ha chiesto una condanna a sei mesi di reclusione. 

(ANSA il 17 febbraio 2022) - Piercamillo Davigo, l'ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta 'Loggia Ungheria', è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. La decisione arriva nel giorno in cui cade il trentennale dell'inizio dell'inchiesta Mani Pulite di cui Davigo è stato uno dei pm in prima linea.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - Il pm di Milano Paolo Storari nel consegnare i verbali di Piero Amara all'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo con lo scopo di essere tutelato lamentando l'inerzia dei vertici del suo ufficio, ha tenuto una "condotta legittima".

Lo ha spiegato l'avvocato Paolo Della Sala, legale di Storari, riassumendo a grandi linee la sua arringa difensiva con cui ha chiesto al gup di Brescia Federica Brugnara di assolvere il pubblico ministero imputato per rivelazione del segreto d'ufficio nel processo in abbreviato. 

Il difensore ha aggiunto che Storari ha agito dopo aver ricevuto da "importanti esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura " la conferma della correttezza del suo gesto, per altro "compatibile" con il compendio normativo, ossia con le circolari dello stesso Csm. Gesto che "poi ha trovato il suo avallo nei comportamenti di altre persone" che siedono a Palazzo dei Marescialli e delle quali "nessuna ha sollevato obiezioni formali" al modo in cui è stata chiesta tutela.

(AGI il 17 febbraio 2022) -L'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, che e` stato rinviato a giudizio per rivelazione di segreto di ufficio per il caso della diffusione dei verbali secretati sulla presunta esistenza della `loggia Ungheria`, comparira` il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l`inizio del processo con rito ordinario

(ANSA il 17 febbraio 2022) - I pm di Bresca Donato Greco e Francesco Milanese hanno chiesto una condanna a sei mesi, il minimo della pena prevista nei confronti del loro collega milanese Paolo Storari, accusato di rivelazione del segreto d`ufficio in concorso con l`ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria.  La richiesta è stata fatta al gup bresciano Federica Brugnara nel corso del processo in abbreviato. 

Luca Fazzo per “il Giornale” il 17 febbraio 2022.

Se nei giorni a ridosso del trentennale di Tangentopoli tra i tanti amarcord è mancato quello di Piercamillo Davigo c'è anche un motivo semplice: l'anniversario dell'arresto di Mario Chiesa potrebbe coincidere con il rinvio a giudizio di colui che fu il Dottor Sottile del pool milanese, protagonista delle indagini scaturite dall'arresto del presidente della «Baggina». 

Per oggi è infatti fissata a Brescia la conclusione dell'udienza preliminare che dovrà decidere la sorte di Davigo, nei cui confronti la Procura locale ha avanzato la richiesta di rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d'ufficio. Per il grande accusatore divenuto accusato potrebbe essere dunque un «compleanno» piuttosto amaro.

Insieme a quella di Davigo il gip dovrà decidere la sorte di Paolo Storari, il pm milanese imputato insieme all'illustre collega per la diffusione, quando erano ancora coperti dal segreto istruttorio, dei verbali in cui l'avvocato Piero Amara parlava della presunta «loggia Ungheria». Storari ha ammesso di avere passato i verbali a Davigo e ha scelto di limitare i danni, anche mediatici, optando per il giudizio abbreviato (a porte chiuse e con sconto di pena).

E a ridosso dell'anniversario, ieri compare in un'aula di tribunale il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, che del pool di Mani Pulite fu uno dei componenti più giovani. Ielo viene interrogato a Perugia nel processo contro l'ex pm Stefano Fava e contro Luca Palamara. Anche Fava, come Storari, sostiene di essere stato ostacolato nelle sue indagini sulle rivelazioni di Amara. 

In aula, lo sfogo di Ielo è amaro: «Sono tre anni che prendo fango in faccia, ma un magistrato deve difendersi nei tribunali e non sui giornali. Sono anni che covo e sto zitto». Parlando di Fava, Ielo ha detto: «Io mi fidavo e mi fido dei colleghi. Io mi fidavo di Fava, cercavo di proteggerlo anche da se stesso».

Con Fava «si andava d'accordo fino a quando c'erano richieste di misure cautelari, fino a quando si andava a testa bassa (...) io dissi che le dichiarazioni di Amara si potevano utilizzare solo se riscontrate». «Fava arrivò a scrivermi una mail mentre ero in montagna in cui mi diceva che si doveva denunciare il procuratore Pignatone a Perugia e alla procura generale. Se fossi stato su una seggiovia avrei rischiato di cadere».

Piercamillo Davigo a processo, il terrore della gattabuia: "Tanto ho 70 anni...", quella frase dopo il rinvio a giudizio. Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

La prima udienza è fissata il 20 aprile a Brescia. Sarà il momento in cui si entrerà nel vivo del dibattimento nei confronti di Piercamillo Davigio, l'ex simbolo di Mani Pulite rinviato a giudizio ieri per «rivelazione del segreto d'ufficio» per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta "Loggia Ungheria". Lo ha deciso ieri il gup Federica Brugnara: ora saranno i giudici a stabilire se Davigo abbia davvero rassicurato il pm milanese Paolo Storari, che chiedeva di essere tutelato rispetto alla inerzia dei suoi capi. 

Gli atti vennero consegnati dal pubblico ministero a Davigo nell'aprile 2020 e poi - così sostiene l'accusa dei pm Donato Greco e Francesco Milanese - «violando i doveri» legati alle sue funzioni e «abusando delle sue qualità» Davigo li avrebbe diffusi ad altri componenti di Palazzo dei Marescialli in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale». Sebastiano Ardita, allora consigliere del Csm, si ritiene danneggiato da quella diffusione e si è costituito parte civile nel procedimento: ora è pronto a chiedere i dani. «Davigo si difenderà in dibattimento essendo certo della propria innocenza» dice l'avvocato di Davigo, Francesco Borasi. 

Per Storari invece, il coimputato che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stata chiesta una condanna a 6 mesi, il minimo della pena prevista dal codice. In questo caso la sentenza è prevista per il 7 marzo, con la difesa di Storari che - attraverso l'avvocato paolo Della Sala- ha ribadito la legittimità della condotta compatibile «con il compendio normativo» e «avallata nei comportamenti di altre persone del Consiglio superiore della magistratura». 

Nessuno avrebbe «sollevato obiezioni formali» e nessuno ha invitato a formalizzare la pratica Storari. In attesa del processo, ieri Davigo ha parlato di Tangentopoli a una tavola rotonda a Pisa: «Emerse non perché arrivarono i magistrati ma perché quel sistema politico fondato sulla corruzione non resse dal punto di vista economico» ha detto. «Nel nostro ordinamento non esiste un efficace deterrente alla corruzione. Io stesso sono sotto processo, ma a parte che sono innocente, non ho alcuna preoccupazione, perché ho compiuto 70 anni e quindi resterei a casa».

Caro Davigo, nelle nostre carceri ci sono quasi mille ultrasettantenni. La detenzione domiciliare non è automatica e sono tanti gli anziani reclusi per reati minori. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.

«Avendo compiuto 70 anni, non posso neanche andare in carcere e starei comunque a casa mia», ironizza l’ex magistrato Piercamillo Davigo a proposito di una sua eventuale condanna. Augurandoci la sua completa assoluzione, in realtà dipende dai giudici. Non c’è alcun automatismo. Infatti esistono quasi 1000 detenuti (993 nel 2021, secondo dati Dap) che sono reclusi nelle patrie galere nonostante siano ultrasettantenni. Molti di loro, non hanno commesso gravissimi reati.

L’ipotesi di detenzione domiciliare non vale per tutti

Il riferimento di Davigo, è l’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario, la parte in cui prevede che la pena – se il reato non rientra tra alcune eccezioni – “può” essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando il condannato abbia compiuto i settant’anni d’età. Ma si tratta di una possibilità e non sempre i giudici la concedono. E infatti non mancano casi di persone che varcano la soglia del carcere, nonostante non si siano macchiati di reati feroci. L’ ipotesi di detenzione domiciliare per gli anziani ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Però non vale per tutti.

Nel 2019 Mattarella concesse la grazia a 3 ultraottantenni

Ci sono gli anziani senza fissa dimora e senza alcuna struttura pronto ad accoglierli, ci sono coloro che i giudici li considerano recidivi, oppure pericolosi socialmente. Ci sono anche casi particolari, come i tre detenuti anziani che nel 2019 hanno ricevuto la grazia dal presidente Mattarella. Pensiamo all’88enne Graziano Vergelli, che era stato condannato a 7 anni e 8 mesi per aver ucciso la moglie malata di Alzheimer. La strangolò con una sciarpa e rimase accanto al cadavere circa un’ora, poi andò a costituirsi dalla polizia dicendo agli agenti “Non ce la faccio più” e spiegando di non reggere a un repentino aggravamento della malattia della moglie. Storia analoga quella di Vitangelo Bini, 89 anni, che doveva scontare una condanna a 6 anni e 6 mesi per l’omicidio della moglie, che era malata di Alzheimer: l’uomo la uccise per non vederla più soffrire. Persone quasi novantenni che sono stati reclusi in carcere. Ma poi c’è il caso come quello della sarda Stefanina Malu, 83 anni, morta dopo una carcerazione per aver custodito droga per conto di qualche banda.

Nel 2020, secondo la garante Gabriella Stramaccioni, c’erano almeno 60  ultrasettantenni

Parliamo di anziani che decidono si superare le ristrettezze economiche attraverso la detenzione di stupefacenti. E questo perché, per via dell’età, è un reato più accessibile, non richiedendo un’elevata prestanza fisica. In Italia, è sempre più facile che un ultrasettantenne finisca in carcere e spesso il giudice di sorveglianza non conceda la detenzione domiciliare. Solo fra il carcere romano di Rebibbia penale e Nuovo Complesso, almeno secondo quanto denunciato nel 2020 dalla garante Gabriella Stramaccioni, ci sono almeno 60 uomini ultrasettantenni. Si tratta di persone sole che non hanno più legami familiari, molte provenienti dalla strada. Vista l’età e la malattia, potrebbero accedere alle misure alternative, il problema è che non ci sono posti. E il carcere, che rimane l’unica accoglienza possibile, si trasforma inevitabilmente un deposito.

Davigo al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale

Ma com’è detto, diventa un contenitore di tutti gli anziani che usati dalle organizzazioni criminali, quelle che approfittano del loro disagio economico – pensione sociale che non basta nemmeno per la sopravvivenza – per nascondere la droga. Senza parlare dei reati ostativi, che non riguardano solo quelli mafiosi, dove gli anziani non hanno la possibilità di fare richiesta per la misura alternativa. Ovviamente Davigo, in caso di condanna, può dormire sogni tranquilli. Anche perché la pena massima sulla rivelazione di segreto d’ufficio è di due anni. Al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale come è accaduto con Berlusconi. Ma l’età non c’entra. Come abbiamo visto, i detenuti ultrasettantenni – anche bisognosi di badanti per via della fragilità fisica – non mancano.

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 21 Febbraio 2022.  

«No comment. Nel processo di Brescia sarò testimone, lì dirò la verità», risponde David Ermini, a proposito dell'interrogatorio di Davigo, imputato per l'illecita divulgazione degli atti sulla loggia Ungheria. Ma la verità del vicepresidente del Csm emerge dal verbale reso durante le indagini. I fatti risalgono al maggio 2020 quando i loro rapporti erano ottimi, tanto che per due volte Davigo invitò Ermini e consorte per un weekend a Merano («Pagato alla romana»). Si interromperanno a ottobre, dopo il voto di Ermini per la decadenza di Davigo dal Csm.

All'inizio le versioni cristallizzate nei verbali coincidono: «Il 4 maggio 2020 Davigo mi chiese un colloquio riservato tanto che mi invitò ad andare giù in cortile, lasciando i telefoni in stanza perché la questione era molto delicata». Anche altri consiglieri riferiscono di cautele anti intercettazioni di Davigo in quel periodo. In cortile Davigo rivelò l'indagine «che però andava a rilento», suggerendo di informare il presidente della Repubblica. Cosa che Ermini fece la sera stessa. 

«Parlai personalmente al presidente di varie questioni e lo informai anche di questa. Mi ascoltò senza fare commenti». Davigo ed Ermini si rividero qualche giorno dopo. Da qui in poi le versioni divergono. Davigo sostiene che gli consegnò i verbali per soddisfarne la curiosità sui nomi citati. Ermini obietta che «i nomi me li fece lui nel primo colloquio, anche perché altrimenti non avrebbe avuto senso riferire genericamente al Quirinale».

Quanto alla consegna, dice ai pm: «Il giorno dopo o qualche giorno dopo la segretaria mi avvisò che era arrivato Davigo per parlarmi. Lo feci entrare, aveva una cartellina arancione con dentro fogli di carta. Mi disse: "Ti ho portato le carte perché vorrei che leggessi le dichiarazioni di Amara". Io ero in difficoltà e non avevo voglia di leggere carte consegnate in modo irricevibile e inutilizzabile».

Ermini racconta il disagio «per il problema di cosa farne e per l'insistenza di Davigo perché le leggessi. Sfogliava i verbali davanti a me e ripeteva quanto detto in cortile». Nome dopo nome, si arrivò a quello di Sebastiano Ardita, membro del Csm con cui Davigo aveva burrascosamente rotto i rapporti. «Mi ribadì che, secondo le dichiarazioni dell'avvocato Amara, apparteneva a questa loggia a cui si era affiliato già ai tempi di Tinebra (magistrato morto nel 2017, ndr), quando era in Sicilia».

Ermini ricorda che alla sua obiezione («Non ci credo»), Davigo replicò: «Guarda che esistono anche i massoni in sonno». Anche altri consiglieri hanno riferito ai pm che Davigo sembrava attribuire un primo vaglio di credibilità alle rivelazioni sulla loggia Ungheria, a dispetto di obiezioni anche specifiche come quella del procuratore generale Giovanni Salvi, che mette a verbale: «Gli risposi che mi sembrava molto improbabile, ben conoscendo le frizioni che si erano determinate tra Tinebra e Ardita».

Al contrario, Davigo era scettico sull'attendibilità delle dichiarazioni di Amara a proposito dell'allora premier, almeno stando a un dettaglio ricostruito da Ermini successivamente alla sua testimonianza ai pm. «Quando sfogliando i verbali arrivò al nome di Conte, io gli dissi "C'è anche lui?". E Davigo rispose: "No, lui l'hanno messo dentro, ma non c'entra niente". Rimasi perplesso». La tesi della Procura è che Davigo violò il segreto istruttorio con sette consiglieri del Csm, due segretarie e il deputato Morra per isolare Ardita, parte civile nel processo perché danneggiato «dalla massiva e infamante divulgazione».

Verbali Amara, chiesta la condanna a sei mesi per il pm Storari. La procura di Brescia ha invocato una condanna a sei mesi di carcere per il pm di Milano Paolo Storari accusato di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio. Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Condannare a sei mesi il pm di Milano Paolo Storari, imputato per rivelazione del segreto d’ufficio per aver consegnato nell’aprile 2020 dei verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. E la richiesta pronunciata dai pm di Brescia Donato Greco e Francesco Milanesi nell’udienza con rito abbreviato che si celebra a porte chiuse.

Per i rappresentanti della pubblica accusa il sostituto procuratore milanese, che con la sua condotta potrebbe aver leso l’immagine della magistratura, non avrebbe rispettato il vincolo di riservatezza e «violando i doveri inerenti alle funzioni rivestite rivelava notizie di ufficio che dovevano rimanere segrete, rivelava il contenuto di atti coperti dal segreto istruttorio», consegnando a Davigo, copia in formato word dei verbali di cinque interrogatori (tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020) resi dall’avvocato Piero Amara, persona sottoposta a indagine, nel procedimento su una presunta loggia segreta di cui avrebbero fatto parte magistrati e varie personalità. Ora la parola passa alla difesa.

Il giudice che condannò il Cav attacca i giudici che processano Davigo.  Il Dubbio il 20 febbraio 2022.  

L'affondo di Esposito: «Morale della favola: Davigo va a giudizio e viene crocifisso; Ermini e Cascini, che non hanno subìto alcuna iniziativa, rimangono rispettivamente, il primo vicepresidente e il secondo componente della sezione disciplinare del Csm»

L’ex giudice della Cassazione Antonio Esposito, uno degli editorialisti del “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio, difende a spada tratta l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio giovedì scorso dal gup di Brescia per il reato di rivelazione del segreto istruttorio nell’ambito dell’inchiesta sulla circolazione abusiva dei verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, che aveva riferito alla procura di Milano, fatti riguardanti la presunta “Loggia Ungheria”.

Esposito, il giudice che condannò anni fa Silvio Berlusconi, se la prende con il tribunale di Brescia che non ha capito come sono andati i fatti. Secondo l’ex membro della Suprema Corte di Cassazione, Davigo andava prosciolto da ogni accusa. Che sia da ritenere innocente, il Dubbio lo ha scritto a chiare lettere, in un corsivo a firma di Rocco Vazzana. Vale per Davigo, vale per tutti. Ma Esposito è andato oltre, puntando il dito contro due esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura: il vicepresidente David Ermini e il consigliere togato Giuseppe Cascini.

«Un magistrato galantuomo, a cui l’Italia degli onesti deve molto, Piercamillo Davigo, è stato rinviato a giudizio da un Gup di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali resi in istruttoria dal faccendiere Amara – che denunziava l’esistenza di una loggia segreta di cui facevano parte anche magistrati componenti del Csm – consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari. Contro di lui si è immediatamente scatenata la gogna mediatica da parte di diffamatori seriali, da anni strenuamente impegnati a difendere corrotti, corruttori, bancarottieri, evasori fiscali, ecc., e si è definito infamante il reato ascritto a Davigo» scrive Esposito sul “Fatto” di Travaglio.

«Ora, quale che sia la valutazione di opportunità o meno, non vi è alcun dubbio che Davigo si sia mosso nella convinzione di agire in “adempimento di un dovere” (art. 51 Codice penale) che gli incombeva dall’essere un componente del Csm che riceveva gravi dichiarazioni da un pm che gli segnalava ritardi, ostacoli o condizionamenti nelle indagini da parte del procuratore capo Greco (successivamente archiviato). La prova provata che Davigo ritenesse di agire in adempimento di un dovere, sta nella circostanza che egli immediatamente portò a conoscenza quanto affermato dallo Storari sia del vicepresidente del Csm, David Ermini, (nonché di altri componenti del Csm, tra cui Giuseppe Cascini, membro della disciplinare), sia del Pg della Cassazione Giovanni Salvi (titolare dell’azione disciplinare) il quale, proprio a seguito dell’iniziativa di Davigo, contattò il procuratore Francesco Greco, sì che furono effettuate le formalità per l’iscrizione nel registro degli indagati» spiega Esposito.

E conclude così: «Morale della favola: Davigo va a giudizio e viene crocifisso; Ermini e Cascini, che non hanno subìto alcuna iniziativa, rimangono rispettivamente, il primo vicepresidente e il secondo componente della sezione disciplinare del Csm. Quando decideranno di andarsene a casa?» riferendosi ad Ermini, che disse di non aver mai letto quei verbali e di aver informato subito il Capo dello Stato, e a Cascini, il quale spiegò ai pm di Brescia, che lo interrogarono, che «poiché Davigo mi aveva chiesto un’opinione sul da farsi, ricordo di avergli detto che, trattandosi di materiale informale, ricevuto per vie non ufficiali, noi non avremmo potuto farci nulla». «Dimentica, il Cascini che, quale componente del Csm, è pur sempre un pubblico ufficiale e le confidenze non trovano ingresso». (a. a.)

Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio. Andrea Amata su Il Tempo il 19 febbraio 2022.

Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.

Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.

L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.

Innocente fino a prova contraria. Anche lui…Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l'arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l'ex pm di Mani Pulite, incarna un'idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.

Chi stamattina ha sfogliato il Dubbio solo per cercare una nota di compiacimento e soddisfazione per la notizia del rinvio a giudizio di Piercamillo Davigo sarà rimasto deluso. Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l’arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l’ex pm di Mani Pulite, incarna un’idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra.

Per noi Davigo, rinviato a giudizio a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali nei quali Piero Amara parlava della Loggia Ungheria, resta innocente fino a prova contraria. E ci auguriamo che sia in grado di chiarire la sua posizione a processo. Saranno altri giudici a stabilire – e solo dopo tre gradi di giudizio se le sue condotte furono legittime o no. Perché non importa sapere a quanti consiglieri del Csm e segretarie Davigo ha mostrato i verbali ricevuti dal pm Paolo Storari, né scoprire se è vero o meno che persino il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, fu reso edotto del contenuto di quei documenti secretati in un sottoscala.

Un Tribunale deve solo stabilire se c’è reato o no. Giudicare l’opportunità “politica” di un comportamento non compete alla giustizia. La moralizzazione di un Paese non può passare dalle mani di un potere dello Stato, la pubblica accusa, autoproclamatosi ontologicamente superiore a tutti gli altri poteri concorrenti sulla base di una presunzione. Non basta gettare fango davanti al ventilatore per chiudere un processo. Servono le prove. Solo quelle è tenuto a cercare un pm. Persino quelle a discolpa dell’imputato.

«Non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca», diceva Davigo fino a poco tempo fa. Speriamo abbia cambiato idea nel frattempo. E speriamo abbia cambiato idea pure sull’ «orda inutile degli avvocati», ora che anche lui avrà bisogno di una difesa in un’aula di Tribunale, non per “ingolfare” la giustizia ma per esercitare un diritto costituzionale.

Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.

Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.

A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.

L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.

Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.

“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.

“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.

Caso Amara, Piercamillo Davigo rinviato a giudizio. L'ex pm di Mani Pulite a processo nell'anniversario di Tangentopoli. Il Tempo il 17 febbraio 2022

Guai giudiziari in vista per l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm simbolo di Mani Pulite. A 30 anni dall'inizio di Mani pulite con l'arresto dell'ex presidente del Pio Albergo Trivulzio, il socialista Mario Chiesa, che diede il via alla stagione di Tangentopoli, Davigo è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia, Francesca Brugnara, per rivelazione di segreto d'ufficio. Il processo a carico dell'ex magistrato del pool milanese prenderà il via il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del tribunale di Brescia. Al centro del procedimento ci sono i verbali secretati nei quali l'avvocato Piero Amara parlava della Loggia Ungheria. Materiale che, nell'aprile 2020, il pm milanese Paolo Storari, che insieme all'aggiunto Laura Pedio aveva raccolto quelle dichiarazioni, aveva consegnato a Davigo. Una iniziativa che Storari aveva preso per "tutelarsi" a suo dire dalla presunta "inerzia" dei vertici della procura milanese nell'avviare indagini sulle rivelazioni di Amara.

"Il dottor Davigo, anche per mio tramite, si difenderà fortemente", ha ribadito l'avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, al termine dell'udienza. Il legale in aula aveva sottolineato le "contraddizioni" che a suo avviso sono emerse dal capo d'imputazione stilato dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, precisando come "faccia sorridere l'ipotesi di commettere il reato di rivelazione di segreto d'ufficio" confrontandosi su un'inchiesta con il vicepresidente del Csm David Ermini, al quale Davigo aveva mostrato i verbali di Amara, sollecitando un impulso nelle indagini.

L'avvocato ha anche chiarito che "Davigo ha agito secondo la legge" e ha chiesto il proscioglimento per l'ex magistrato che non era in aula perché impegnato in un convegno per i 30 anni di Tangentopoli a Pisa.

Bisognerà attendere fino al prossimo 7 marzo, invece, per una decisione sulla posizione del pm Storari. Il gup, infatti, ha rinviato il processo a suo carico, celebrato con rito abbreviato, per dare spazio ad eventuali repliche. Poi si ritirerà in camera di consiglio per emettere la sentenza.

Era stato proprio Storari ad interrogare l'avvocato Amara insieme all'aggiunto Laura Pedio nell'ambito dell'inchiesta sul 'falso complotto Eni', mentre a Milano era in corso il processo Eni Nigeria. In quelle audizioni, l'avvocato siciliano aveva parlato della loggia coperta, che avrebbe riunito alti magistrati, avvocati e altri personaggi di spicco e sarebbe stata in grado di condizionare nomine e appalti. Convinto della necessità di aprire immediatamente un fascicolo autonomo su Ungheria, ad aprile 2020, a suo dire per "autotutelarsi" dalla presunta inerzia dei vertici della procura, Storari "fuori da ogni procedura formale" ha consegnato i verbali a Davigo, il quale, come si legge nel capo d'imputazione, "lo ha rassicurato di essere autorizzato a ricevere copia degli atti" in quanto "il segreto investigativo su di essi non era a lui apponibile perché membro del Csm".

Tra i componenti della loggia coperta - che secondo Amara sarebbe stata guidata dall'ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, ormai deceduto - ci sarebbe stato anche il consigliere del Csm Sebastiano Ardita.

Rappresentato dall'avvocato Fabio Repici, Ardita si è costituito parte civile. Ritenendo di essere stato "danneggiato" da Davigo, che avrebbe portato i verbali a Roma e li avrebbe mostrati al vicepresidente del Csm David Ermini e ad altri magistrati per "screditarlo" agli occhi dei colleghi. Sempre Davigo aveva esortato Ermini a parlare della vicenda al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Copie dei verbali, infine, erano state recapitate a due quotidiani e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Operazione per la quale l'ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto è indagata dalla procura di Roma per calunnia. La donna, per i pm romani, infatti, avrebbe inviato le carte alla stampa e a Di Matteo, accompagnandole con alcuni biglietti nei quali veniva indicato l'ex procuratore di Milano, Francesco Greco, come il responsabile dei ritardi nelle indagini lamentati da Storari.

Caso Amara: Davigo mandato a processo il giorno del Trentennale anniversario di Mani pulite. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Febbraio 2022.  

Fissata per il 20 aprile la prima udienza. L'ex consigliere del Csm è accusato di rivelazione di segreti d'ufficio sulla vicenda della presunta "loggia Ungheria" resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, che vennero consegnati a Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari il quale lamentava lo scarso tempismo del procuratore Francesco Greco e dell'aggiunto Laura Pedio nell’indagare per accertare in fretta e distinguere tra verità e calunnie di Amara

L’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, 71 anni, magistrato in pensione, è stato mandato a processo dal Gup di Brescia, Federica Brugnara, imputato per rivelazione di segreto di ufficio per la vicenda della diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia “Ungheria”. Il rinvio a giudizio nei confronti del magistrato in pensione e noto per essere stato il ‘Dottor Sottile‘ del pool milanese ‘Mani Pulite‘ coincide casualmente con il giorno del trentennale dell’arresto di Mario Chiesa a quell’epoca presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano , da cui scaturì l’inchiesta Tangentopoli. 

La giudice per le udienze preliminari dr.ssa Brugnara ha quindi accolto la tesi accusatoria sostenuta dal procuratore di Brescia Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi e cioè che la consegna dal pm Storari all’ex consigliere del Csm Davigo nell’aprile 2020 delle copie in formato di testo (word) dei verbali privi di firma, resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara, non potesse venire giustificata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né tantomeno dal movente del pm Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini.

Tra le successive varie rivelazioni di segreto a suo carico, Davigo verrà processato  non per quelle al procuratore generale Giovanni Salvi e al primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, che non gli sono mai state contestate dall’accusa, ma bensì per quella al vicepresidente del Csm David Ermini, il quale compone il Comitato di Presidenza del Csm insieme a Salvi e Curzio .  Ermini ricevette da Davigo anche la copia dei verbali, che si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili, pur parlando della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche il presidente del Csm. 

Come rivelazioni di segreto sono state contestate le rivelazioni di Davigo ai consiglieri togati del Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, ed ai laici Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Giulia Befera e Marcella Contraffatto , al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore Nicola Morra (in quel momento esponente del Movimento 5 Stelle), in un colloquio privato, secondo i magistrati della procura di Brescia al di fuori da qualsiasi regola, con l’intento di motivare i contrasti insanabili con il consigliere Csm Sebastiano Ardita che si è costituito assistito dall’avvocato Fabio Repici, quale parte civile nel procedimento contro Piercamillo Davigo, lamentando che la disponibilità dei verbali segreti di Amara sia stata strumentalizzata da Davigo per screditare al Csm la figura dell’ex collega di Csm ed ex compagno di corrente Ardita, con il quale aveva anche scritto il libro “Giustizialisti” ma successivamente si erano scontrati insanabilmente. 

“È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha spiegato nei giorni scorsi al Corriere della Sera l’avv. Repici difensore di Sebastiano Ardita, – Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate. E il fatto che Amara avesse indicato Ardita quale componente della presunta loggia Ungheria sarebbe diventato di pubblica conoscibilità solo al momento in cui i magistrati avessero attestato l’infondatezza di quelle dichiarazioni e avessero proceduto per calunnia a carico di Amara“.

Davigo comparirà il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l’inizio del processo con rito ordinario per aver fatto circolare nella primavera 2020 all’interno ed all’esterno del Consiglio Superiore della Magistratura di cui è stato componente sino all’ottobre 2020, i verbali sulla fantomatica presunta associazione segreta “loggia Ungheria” resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, che vennero consegnati a Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari il quale lamentava lo scarso tempismo del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio nell’indagare per accertare in fretta e distinguere tra verità e calunnie di Amara. 

“Ho semplicemente ribadito le contraddizioni del capo di imputazione“, ha spiegato l’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, sintetizzando ai cronisti il suo intervento durato un’ora e culminato con la sua richiesta di ‘non luogo a procedere‘ per l’ex consigliere del Csm, sostenendo che  “Davigo ha agito secondo la legge“. 

Il pm milanese Paolo Storari durante l’udienza preliminare bresciana a differenza di Davigo ha scelto di non aspettare l’esito di un dibattimento ordinario e di giocarsi invece subito il tutto per tutto in un rito abbreviato dunque con una sentenza penale di primo grado, conoscerà il verdetto nella prossima udienza, rinviata al prossimo 7 marzo, dopo che ieri il suo legale Paolo Della Sala ha replicato con la sua arringa alla richiesta della Procura di condannarlo al minimo della pena, cioè a 6 mesi. Redazione CdG 1947

Piercamillo Davigo rinviato a giudizio per il caso Loggia Ungheria con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2022.  

Caso Amara, l’inchiesta sui verbali fatti circolare nella primavera 2020 e consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari. Il processo inizierà il 20 aprile. Il verdetto su Storari aggiornato al 7 marzo. Il rinvio a giudizio di Davigo nel giorno del trentennale di Mani Pulite 

Piercamillo Davigo, 71 anni

«Cento di questi anni» proprio no, visto che già il giorno del trentesimo convenzionale «compleanno» di Mani pulite (arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio 1992) finisce «festeggiato» dall’allora pm Piercamillo Davigo con un testacoda inimmaginabile persino nei più sfrenati sogni dei suoi indagati dell’epoca: rinviato a giudizio proprio lui, mandato a processo dalla giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia Federica Brugnara per l’ipotesi di reato di «rivelazione di segreto d’ufficio». Cioè per aver fatto circolare nella primavera 2020 (dentro e fuori al Consiglio Superiore della Magistratura di cui fu membro sino all’ottobre 2020) i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, e consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari che lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara. Storari, che a differenza di Davigo durante l’udienza preliminare bresciana ha scelto di non aspettare l’esito di un dibattimento ordinario e di giocarsi invece subito il tutto per tutto in un rito abbreviato dunque con gia sentenza penale di primo grado, avrà il verdetto nella prossima udienza, dopo che ieri il difensore Paolo Della Sala ha replicato in arringa alla richiesta della Procura di condannarlo seppure al minimo della pena, 6 mesi.

La decisione della giudice

La giudice ha dunque accolto la tesi giuridica —prospettata dal procuratore bresciano Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi — che la consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara non potesse essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini. Tra le successive rivelazioni di segreto imputategli, Davigo va dunque a giudizio non per quelle al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio, che non gli sono mai state contestate dall’accusa, ma quella al vicepresidente del Csm David Ermini, che al pari di Salvi e Curzio compone il Comitato di Presidenza del Csm: Ermini ricevette da Davigo anche copia dei verbali, che si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Le rivelazioni di segreto

Sempre come rivelazioni di segreto sono poi contestate a Davigo quelle ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel Movimento 5 Stelle) Nicola Morra, in un colloquio privato, fuori (per i pm) da qualunque regola, e solo per motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita. Il quale si è costituito (con l’avvocato Fabio Repici) parte civile nel procedimento contro Davigo, appunto lamentando che la disponibilità dei verbali segreti di Amara sia stata utilizzata da Davigo per screditare al Csm la figura dell’ex collega di Csm ed ex compagno di corrente, con il quale aveva anche scritto un libro («Giustizialisti») ma era poi entrato in urto.

La linea difensiva

Al processo Davigo riproporrà la propria linea difensiva, già esposta negli interrogatori a Brescia: a suo avviso le circolari Csm sono state rispettate dal suo modo di informare i vertici di quanto stava (non) accadendo alla procura di Milano; e comunque, «se io ho commesso il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, allora loro (cioè i vertici del Csm e della Procura generale di Cassazione, ndr) avrebbero dovuto denunciarmi», visto che «l’omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato», e dunque «dovrebbero essere incriminati per omissione d’atti d’ufficio», ma «a nessuno di loro venne in mente di doverlo fare perché nessuno di loro pensò che il mio fosse un reato». E a proposito della distruzione dei verbali raccontata dal vicepresidente Csm Ermini: «Bravo... complimenti... Ermini evidentemente non è precisamente un cuor di leone: se io avessi commesso un reato, quella era la prova del reato, dovevi trasmetterla all’autorità giudiziaria, se no è favoreggiamento personale».

L’archiviazione di Greco

La decisione odierna arriva dopo l’archiviazione dell’indagine sull’allora procuratore milanese Francesco Greco per l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio nel trattare il fascicolo sulla loggia Ungheria (trasmesso un anno fa per competenza territoriale a Perugia; e prima che sempre la Procura di Brescia decida la sorte del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per «rifiuto d’atti d’ufficio» nell’ipotesi abbiano tenuto il Tribunale del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura di Vincenzo Armanna. Cioè dell’ex dirigente Eni coimputato ma anche accusatore di Eni valorizzato nel processo Eni-Nigeria da De Pasquale, e nell’inchiesta sui presunti depistaggi giudiziari Eni da Pedio, pure indagata per omissione d’atti d’ufficio nell’ipotesi non abbia indagato tempestivamente su Armanna per calunnia dei vertici Eni.

Caso Loggia Ungheria/Amara, l'ex consigliere Csm Davigo rinviato a giudizio nel giorno dell'anniversario di Mani Pulite.  Luca De Vito su La Repubblica il 17 Febbraio 2022.  

La procura di Brescia: "Condannare pm Storari a 6 mesi". Processi paralleli per l'ex consigliere del Csm e per il pm milanese per la vicenda della rivelazione di segreto d'ufficio per i verbali di Amara 

L'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione di segreto di ufficio, è stato rinviato a giudizio dalla gup di Brescia, Federica Brugnara, per la vicenda della diffusione dei verbali di Amara sulla Loggia Ungheria. Una richiesta, quella nei confronti dell ex pm del pool di Mani Pulite, che arriva casualmente in una giornata simbolica, quella del trentennale dell'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, da cui scaturì l'inchiesta Tangentopoli. Davigo comparirà in aula il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l'inizio del processo con rito ordinario. 

A metà mattina si è anche celebrata l'udienza del processo in abbreviato per il pm milanese Paolo Storari,  accusato dello stesso reato: fu lui a consegnare nell'aprile del 2020 a Davigo quei verbali di Amara. Un gesto che Storari ha sempre definito di "autotutela" nei confronti di una presunta inerzia nelle indagini da parte dei vertici della procura milanese: i pm hanno chiesto per lui una condanna a sei mesi, il minimo della pena prevista. Per Storari la decisione è rinviata al 7 marzo.

L'avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, ha spiegato che il pm ha agito dopo aver ricevuto da un "importante esponente del Consiglio Superiore della Magistratura" la conferma della correttezza del suo gesto, per altro "compatibile" con il compendio normativo, ossia con le circolari dello stesso Csm. Gesto che "poi ha trovato il suo avallo nei comportamenti di altre persone" che siedono a Palazzo dei Marescialli e delle quali "nessuna ha sollevato obiezioni formali" al modo in cui è stata chiesta tutela.

Davigo a processo per le rivelazioni sul caso Amara nell'anniversario di Tangentopoli. Luca Fazzo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana.

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana. L'imputato si chiama Piercamillo Davigo, ex Dottor Sottile della Procura di Milano, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, ex giudice di Cassazione: che ieri, proprio nel trentesimo anniversario dell'indagine Mani Pulite, viene rinviato a giudizio per rivelazione di segreti d'ufficio. E i testimoni sono quelli che Davigo - deciso a «difendersi fortemente» secondo il suo legale Francesco Borasi - si prepara a citare in aula per dimostrare di non avere commesso alcun reato nel ricevere e divulgare i verbali del «pentito» Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

E qui la cosa si fa interessante, perché la linea difensiva di Davigo rischia di chiamare in causa una lunga serie di personaggi eccellenti: dai magistrati di Milano, a partire dal suo collega ed ex amico Francesco Greco, fino ai vertici della Cassazione e del Csm che potrebbero spiegare quanto e come sapessero delle rivelazioni di Amara già prima che il pm milanese Paolo Storari, logorato dai timori di insabbiamento, passasse a Davigo i verbali sulla «loggia Ungheria».

«Non staremo qui a girare la minestrina», è la linea della difesa di Davigo: modo un po' bersaniano per dire che l'ex pm intende combattere fino alla fine, costi quel che costi. Nella impostazione dell'accusa il «Dottor Sottile» è colpevole di un doppio ruolo, di una doppia violazione della legge: prima convince Storari a violare il segreto, garantendogli che la consegna è legittima; poi provvede personalmente a divulgare le carte a Roma, o comunque a renderne noto il contenuto. A queste accuse la tesi difensiva di fondo è che essendo all'epoca ancora membro del Csm, Davigo aveva il diritto di ricevere i verbali dell'inchiesta milanese che tiravano in ballo, come presunti membri della loggia, altri appartenenti al Consiglio superiore. E che il metodo assai informale scelto da Davigo e Storari, il passaggio brevi manu della brutta copia dei verbali, si giustificasse proprio con la delicatezza della situazione.

La sostanza, insomma, doveva prevalere sulla forma. Peccato che questo faccia a pugni con l'applicazione rigorosa e letterale del Codice penale di cui Davigo è stato per decenni protagonista, e che ora rischia di ritorcersi contro di lui. Allo stesso modo in cui la famosa battuta «non esistono innocenti ma colpevoli che l'hanno fatto franca» riecheggia ora che ad essere imputato è il suo autore: che ieri, colto a margine di un convegno dalla notizia del rinvio a giudizio, dice proprio così: «Sono sotto processo ma sono innocente».

Davigo sa di non avere, in questo frangente difficile, molti alleati. I suoi ex compagni di corrente lo hanno abbandonato da tempo, con gli amici del pool non si parla più, persino Gherardo Colombo - che all'epoca di Tangentopoli faceva con lui quasi coppia fissa - ieri, braccato dai cronisti al dibattito sul trentennale di Mani Pulite, non sgancia mezza parola di sostegno. Davigo è solo. Anche il pm Storari, imputato insieme a lui, ha separato il suo destino processuale, chiedendo il rito abbreviato un po' per limitare i danni, un po' per non essere trascinato nell'aula del processo mediatico che Davigo vuole mettere in scena. Già nel corso dell'udienza preliminare aveva chiesto che venissero ammesse in aula le telecamere, il giudice aveva detto di no. Ma il 20 aprile, quando inizierà il processo vero e proprio, sarà ben difficile lasciare i media fuori dall'aula.

Davigo non ha molto da perdere. La sua carriera è finita, il reato che gli viene contestato è punito blandamente, da sei mesi a tre anni. E comunque, come tiene lui stesso a sottolineare ieri, in caso di condanna non andrà in carcere: «non ho alcuna preoccupazione perché ho compiuto 70 anni e quindi resterei a casa». Ma a essere evidente è che Davigo non ha intenzione di incassare senza combattere una condanna che segnerebbe comunque la fine ingloriosa di una carriera grondante successi. E se per combattere dovrà trascinare sotto i riflettori il sistema di cui lui stesso ha fatto parte per quarant'anni, amen.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Ricorrenza amara per il 'Dottor Sottile'. Davigo a processo per loggia Ungheria, rinviato a giudizio nel trentennale di Tangentopoli. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Febbraio 2022 

Una tempistica che rovina le ‘celebrazioni’ del trentennale di Tangentopoli, o meglio dell’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, da cui scaturì l’inchiesta che fece crollare la Prima Repubblica. Piercamillo Davigo, l’ex consigliere del Csm ed ex membro del pool di Mani Pulite, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di segreto di ufficio in relazione alla diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia Ungheria.

A consegnarglieli i verbali era stato, ad aprile 2020, il pubblico ministero milanese Paolo Storari: nelle dichiarazioni rilasciate a lui e al procuratore aggiunto Laura Pedio, Amara faceva riferimento a una presunta associazione massonica, la loggia Ungheria, in grado di condizionare l’operato della magistratura e di altri burocrati della Stato. Storari, al contrario di Davigo, ha scelto il rito abbreviato: il verdetto ci sarà nella prossima udienza fissata il 7 marzo.

Come ormai noto Storari lamentava lo scorso ‘attivismo’ dell’allora procuratore capo di Milano Francesco Greco e della sua vice Pedio nell’indagare sulle dichiarazioni rese da Amara.

La richiesta di mandare a processo il ‘dottor Sottile’ era arrivata in aula dai pm bresciani ed è stata accolta dal giudice Federica Brugnara. Davigo comparirà il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l’inizio del processo con rito ordinario. Al processo sarà presente come parte civile anche il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, assistito dall’avvocato Fabio Repici.

Davigo oggi non era presente in aula perché impegnato in un convegno a Pisa sui trent’anni di Mani Pulite.

L’ex magistrato “si difenderà fortemente”, ha commentato all’Adnkronos Francesco Borasi, difensore di Davigo. “L’avvocato Borasi aveva chiesto la pubblicità dell’udienza preliminare perché tutto si svolga nella massima chiarezza e trasparenza e quando sarà il caso il dottor Davigo si difenderà in dibattimento, essendo certo della propria innocenza“, ha spiegato l’avvocato Marco Agosti, che in udienza ha sostituito l’avvocato Francesco Borasi, legale dell’ex consigliere del Csm.

“Non poteva quasi che finire in questa maniera“, ha aggiunto il legale precisando che in dibattimento Davigo avrà modo di chiarire meglio la sua posizione. “La cosa che lascia perplessi – ha concluso l’avvocato Borsai – è come Davigo abbia potuto compiere il reato di rivelazione di segreto d’ufficio mostrando i verbali secretati dell’avvocato Piero Amara al vicepresidente del Csm David Ermini“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 18 febbraio 2022.  

Per una sorta di perfido contrappasso, nel trentesimo anniversario dell'arresto di Mario Chiesa e dell'inizio di Tangentopoli, uno dei campioni del pool di Mani pulite, Piercamillo Davigo, è stato mandato alla sbarra. Le sue ultime parole famose con le quali si era assolto durante il suo interrogatorio da indagato a Brescia, erano state queste: «Ritenevo e ritengo che l'unica cosa indiscutibile [] è che al Csm non è opponibile il segreto investigativo. È stato ripetuto da un'infinita di circolari».

Ieri il giudice dell'udienza preliminare Federica Brugnara, accogliendo la richiesta della Procura guidata da Francesco Prete, l'ha rinviato a giudizio con l'accusa di rivelazione del segreto d'ufficio per aver «volantinato» nella primavera del 2020 i verbali del faccendiere Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. 

Quelle carte sensibili gli furono consegnate da chi indagava, ovvero il pm milanese Paolo Storari, preoccupato di restare col cerino in mano, visto che, a suo dire, il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio traccheggiavano con le iscrizioni sul registro degli indagati. E mentre Davigo dovrà presentarsi in Tribunale il 20 aprile per la prima udienza del suo processo, Storari, che ha optato per il rito abbreviato, tornerà davanti al gup il 7 marzo. 

La Procura ha chiesto di condannarlo a sei mesi di reclusione. Davigo, invece, «si difenderà in dibattimento, essendo certo della propria innocenza», hanno precisato i suoi difensori, gli avvocati Francesco Borasi e Marco Agosti. L'ipotesi della Procura bresciana è che Davigo abbia convinto Storari a consegnargli i verbali per poi diffonderli all'interno del Csm. 

Nelle scorse settimane Piercavillo aveva sostanzialmente fatto una chiamata di correo per chi aveva avuto da lui la notizia delle clamorose dichiarazioni di Amara: «L'omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato... a nessuno di loro e venuto in mente di doverlo fare perché nessuno di loro ha pensato che fosse un reato», aveva detto in Procura, schermandosi dietro a tutti quelli con cui aveva parlato.Ovvero il vicepresidente del Csm David Ermini, ma anche altri cinque consiglieri.

Davigo probabilmente era davvero convinto di poter far filtrare quei documenti, tanto che in udienza ha anche affermato che Storari gli aveva fatto «una richiesta preventiva sulla legittimità del suo comportamento». Il pm milanese temeva che quella bomba gli potesse scoppiare tra le mani. 

E in uno dei suoi tre lunghi verbali resi a Brescia aveva raccontato, come anticipato dalla Verità, che, quando aveva provato a chiedere di acquisire i tabulati telefonici, il procuratore Francesco Greco (indagato e poi prosciolto, oltre che, è notizia di ieri, nuovo consigliere alla legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri) gli aveva risposto che sarebbe partito contro di lui «un procedimento disciplinare».

Tra i colleghi, qualcuno gli avrebbe persino consigliato di lasciare a bagnomaria quell'inchiesta: «Mi ricordo benissimo quello che Fabio De Pasquale (l'aggiunto del processo Eni-Nigeria, terminato con tutte assoluzioni, ndr) mi ha detto... quello me lo ricordo... di tenere nel cassetto due anni questo fascicolo...». Al pm viene in mente persino una data, il 27 dicembre 2019: «"Meglio insabbiare il fascicolo Ungheria" e questo me lo dice De Pasquale». 

Storari, a Brescia, ha ricostruito i presunti escamotage di Greco per procrastinare le indagini: «Allora, lui diceva: "Fai la cosa e predisponi un cronoprogramma.".. e io faccio il cronoprogramma... "Fammi la memoria sulla competenza"... "Mi sono perso la memoria sulla competenza"... "Rimandami la memoria sulla competenza.".. tutto così». E quando Storari ha predisposto delle schede di iscrizione l'aggiunto Pedio avrebbe fatto «la matta» dicendo: «Ma come ti permetti, Paolo è un fatto gravissimo». Cosa che gli avrebbe ribadito pure Greco. E, così, il pubblico ministero sotto inchiesta avrebbe cominciato a sentirsi fuori luogo: «Io ero un corpo estraneo lì dentro... loro se la cantavano, De Pasquale, Pedio e Greco. Loro si facevano le riunioni per i fatti loro...».

 Ma il clima peggiora quando iniziano «a uscire le chat di Palamara sulla Verità», ha spiegato Storari, in cui sembrava che «Greco sostanzialmente si fosse sistemato i suoi alla Procura di Milano», cioè De Pasquale, Pedio e Eugenio Fusco. In una conversazione telefonica, l'ex presidente dell'Anm specifica che «la Pedio è sua», di Greco. Storari si insospettisce e chiede l'acquisizione delle chat e degli atti perugini, ma i colleghi «manco quello» volevano fare, forse perché «andare a sfruculiarci dentro» avrebbe comportato «una situazione brutta, antipatica», ovvero avrebbe significato rischiare di dover «indagare su se stessi».

A questo punto il pm avrebbe chiesto di sentire l'ex stratega delle nomine per verificare se confermasse quanto scritto nei suoi messaggi: «Se Palamara, che vabbé... sarà un pazzo, però dice io questo manco lo conosco... eh insomma... iniziamo a discutere di qualcosa...». Ma i colleghi avrebbero bocciato la sua idea: «Ecco, loro non hanno mai voluto... mai... mai... io due o tre volte l'ho chiesto, poi... la motivazione era... diamo un palcoscenico a uno così... questo mi è stato detto...».

Storari avrebbe replicato: «Vabbé, non è che dobbiamo mettere i cartelli quando sentiamo Palamara... possiamo farlo in maniera...». Ma gli altri, continua il verbale, non hanno «mai voluto», forse perché si trattava di «andare a sfruculiare una vicenda in cui anche loro erano coinvolti...». E qui il magistrato indagato lascia intendere che lo stesso Greco avrebbe ammesso di aver piazzato i suoi pupilli, Pedio in testa: «Perché, e qui dico una cosa che fa parte del notorio e del bagaglio di esperienza e di conoscenza fatto alla Procura di Milano, perché Greco ha un difetto, parla troppo. A me Greco ha detto... ma non solo a me... che lui in effetti si era prodigato... con chiarezza... perché doveva mettere questi tre suoi». 

Con la Pedio, definita «amica da trent' anni» ed ex compagna di università, Storari è impietoso. Sottolinea che, mentre indagava insieme con lei, i pochi atti e le uniche sommarie informazioni sono stati acquisiti su propria iniziativa e quando il procuratore Prete ricorda che la collega lo seguì in Sicilia per un'attività investigativa, Storari è impietoso: «Sì, perché il marito doveva fare una gara di nuoto a Catania».

Il pm ne ha anche per Amara, uno dei presunti grembiulini di Ungheria. Vederlo nella trasmissione Piazzapulita gli ha fatto ribollire il sangue: «In televisione va a dire: "La Pedio... la dottoressa più intelligente che abbia mai conosciuto"». Quindi sbotta: «Ieri sera ho visto quel faccia di merda che continuava: "Storari... Storari... Storari..."».Che adesso, insieme con Davigo, rischia una condanna.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 18 febbraio 2022.

Mi chiama un amico per mettermi a parte del rinvio a giudizio di Piercamillo Davigo. Non mi importa, rispondo. Insiste: sai quanti ne abbiamo oggi? 

Sì, dico, è il 17 febbraio, sono trent' anni esatti dall'arresto di Mario Chiesa, ma non mi importa, da molti anni ritengo Mani pulite un grande abbaglio, l'alibi per tutti noi di considerarci dei poveri sgobboni taglieggiati dalla casta, l'occasione per la magistratura di assumere l'osceno ruolo di moralizzatrice del paese, per i giornalisti di sferruzzare i loro articoli da tricoteuse, una gara invereconda a chi era più onesto, praticamente un paese di 59 milioni e 950 mila onesti messi nel sacco da 50 mila disonesti, per i quali abbiamo invocato e ottenuto il patibolo preventivo.

Eravamo già grillini, prima di Grillo, altroché. Gli dico, vatti a risentire il discorso di Craxi passato meschinamente alla storia come quello del così fan tutti, in cui in realtà diceva che la magistratura doveva indagare i reati, cercare i colpevoli, eventualmente condannarli, ma la politica doveva fare la politica, e riversare tutto sul capro espiatorio socialista significava ripartire dalla menzogna e prepararsi un futuro di menzogne: ecco, il ladro aveva ragione e gli onesti avevano torto.

Ma non mi importa più. Non voglio più rovinare a nessuno la sua storia di Zorro, auguro a Davigo una pronta assoluzione e passo oltre. Ma io, dice l'amico, volevo solo leggerti una frase di Edmund Burke: «Qui finiscono tutti gli ingannevoli sogni e visioni di eguaglianza e di diritti dell'uomo. Nella palude Serbonia di questa vile oligarchia tutti saranno assorbiti, soffocati e perduti per sempre».

Davigo il “furbetto” rimasto senza toga e poltrona e i verbali della “loggia Ungheria”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2022

Il caso aveva sollevato una vera e propria bufera tra le fila della magistratura mentre lui manifesta serenità come ha dichiarato è stato proprio lui, consapevole anche il fatto di aver raggiunto il compimento di 70 anni di età. Un requisito che, in molti casi, scongiura la galera di fronte a un'eventuale condanna. Di fatto una sorte di impunità.

Il destino delle volte è atroce, ma talvolta è tempestivo come nel caso del rinvio a giudizio per l’ex magistrato (ora in pensione) Piercamillo Davigo, arrivato a 30 anni da Mani pulite è arrivato il rinvio a giudizio con l’ipotesi di reato di rivelazione di segreto di ufficio. La decisione è è stata adottata dal Gup di Brescia, Federica Brugnara, e quindi l’ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura dovrà essere processato per la vicenda della diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della fantomatica “loggia Ungheria“. 

Il caso aveva sollevato una vera e propria bufera tra le fila della magistratura mentre lui manifesta serenità come ha dichiarato è stato proprio lui, consapevole anche il fatto di aver raggiunto il compimento di 70 anni di età. Un requisito che, in molti casi, scongiura la galera di fronte a un’eventuale condanna. Di fatto una sorte di impunità.

Come ricorda il Corriere della Sera, l’ex consigliere del Csm lo ha detto senza giri di parole. Si è espresso in maniera chiarissima e si è mostrato piuttosto spensierato, anche perché ha ribadito la totale convinzione di essere innocente: “Io sono sotto processo penale e non ho la minima preoccupazione. A parte il fatto che sono innocente, ma so che comunque non mi accadrebbe niente perché – avendo compiuto 70 anni – non posso neanche andare in carcere e starei comunque a casa mia“. Davigo lo ha dichiarato in occasione di un intervento all’Università di Pisa, per una tavola rotonda sul convegno Tangentopoli 30 anni dopo.

“La vicenda del rinvio a giudizio del dr. Davigo ha ad oggetto fatti gravi che è giusto che siano valutati davanti a un Tribunale, nella parità tra accusa e difesa. Indipendentemente dalla contestazione all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e della sua eventuale responsabilità, tutta da dimostrare, trovo da ex pubblico ministero davvero inaudito che verbali coperti da segreto investigativo, tra l’altro in un’indagine delicatissima come quella della cd. Loggia Ungheria, siano circolati tra persone che non avevano alcun titolo giuridico ad entrarne in possesso». Così Luigi de Magistris all’ agenzia Adnkronos “Poi -aggiunge l’ex magistrato già sindaco di Napoli – sono anche finiti sui giornali e l’indagine, forse anche tenuta troppo tempo negli armadi, è andata completamente “bruciata”. Redazione CdG 1947

Piercamillo Davigo a processo tira in ballo Sergio Mattarella: "Mi fece ringraziare sulla Loggia Ungheria". Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022

L'accusa è di rivelazione si segreto d'ufficio. E Piercamillo Davigo le tenta tutte e affonda gli artigli su ex amici ed ex colleghi. L'ex magistrato, rinviato a giudizio proprio nel trentennale di Mani Pulite, ha chiamato in causa Sergio Mattarella, l'ex capo Francesco Saverio Borrelli e David Ermini. Di fronte al biasimo di aver fatto pervenire i verbali segreti della Procura di Milano a membri del Consiglio superiore della magistratura, Davigo si difende: "Al Consiglio superiore non è opponibile il segreto investigativo (...) il precedente specifico cui faccio riferimento riguarda il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli che quando venne iscritto nel registro delle notizie di reato Silvio Berlusconi informò per le vie brevi il presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm", è stata la replica riportata dal Giornale.

Ma non è tutto, perché venuto a sapere che della Loggia Ungheria facevano parte anche due membri del Csm, Davigo si apprestò a farlo sapere al Quirinale. Il motivo? "Ritenni necessario informare immediatamente il vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr) e per suo tramite il Presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm. Ermini ha condiviso questa mia valutazione che tacere questa notizia al presidente della Repubblica avrebbe potuto essere interpretato come sospetto nei suoi confronti e quindi intollerabile (...) lui andò direttamente al Quirinale, al ritorno mi disse che il presidente della Repubblica mi ringraziava delle informazioni fornite e che riteneva per il momento sufficienti quelle informazioni". Peccato però che il capo dello Stato abbia sempre negato di aver appreso secondo quelle modalità la notizia.

Dalle accuse non viene risparmiato neppure Ermini che, a detta dell'ex toga, mentirebbe. A suo dire il vicepresidente del Csm non può aver distrutto subito i verbali milanesi, visto che "quei file glieli ho dati dopo". In ogni caso la tesi di Davigo rimane sempre la stessa, ossia "se una loggia massonica decide le nomine di centinaia d magistrati italiani sarà bene un problema del Consiglio o no che deve essere segnalata?". A deciderlo il Tribunale di Brescia, chiamato a fare luce sulla vicenda il 20 aprile.

La difesa spericolata dell'imputato Davigo: tira in ballo Mattarella. "Mi fece ringraziare sulla loggia Ungheria". Luca Fazzo il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Chiama in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per difendersi dalle accuse, evoca persino Francesco Saverio Borrelli, suo capo all'epoca del pool Mani Pulite.

Chiama in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per difendersi dalle accuse, evoca persino Francesco Saverio Borrelli, suo capo all'epoca del pool Mani Pulite. Per capire meglio la linea difensiva con cui Piercamillo Davigo - dopo il rinvio a giudizio disposto l'altro ieri - si prepara ad affrontare il 20 aprile il processo per rivelazione di segreto d'ufficio, la lettura più interessante è il verbale di interrogatorio reso il 7 luglio davanti alla Procura di Brescia. Ventisei pagine in cui Davigo si difende attaccando a destra e manca: ex amici, ex colleghi. Dando del bugiardo al vicepresidente del Csm David Ermini. E rivendicando di avere agito solo a fin di bene.

LO FECE ANCHE BORRELLI

All'accusa di avere fatto pervenire i verbali segreti della Procura di Milano a membri del Csm, Davigo ribatte: «Al Consiglio superiore non è opponibile il segreto investigativo (...) il precedente specifico cui faccio riferimento riguarda il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli che quando venne iscritto nel registro delle notizie di reato Silvio Berlusconi informò per le vie brevi il presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm».

IL GRAZIE DI MATTARELLA

Dopo avere letto che della loggia Ungheria facevano parte anche due membri del Csm, Davigo racconta di avere avvisato il Quirinale. «Ritenni necessario informare immediatamente il vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr) e per suo tramite il Presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm. Ermini ha condiviso questa mia valutazione che tacere questa notizia al presisente della Repubblica avrebbe potuto essere interpretato come sospetto nei suoi confronti e quindi intollerabile (...) lui andò direttamente al Quirinale, al ritorno mi disse che il presidente della Repubblica mi ringraziava delle informazioni fornite e che riteneva per il momento sufficienti quelle informazioni». Mattarella ha sempre negato di avere appreso notizie sull'indagine milanese.

ERMINI MENTE

David Ermini ha dichiarato a verbale di avere distrutto immediatamente i verbali milanesi. «Io solo nei giorni successivi - ribatte Davigo - diedi quei file ad Ermini, forse perchè mi chiese circostanze che io non ricordavo e io gli ho detto: senti non me li posso ricordare tutti questi nomi quindi faccio prima se ti do copia del file. Quindi non può avere distrutto immediatamente un bel niente perché glieli ho dati dopo».

CASCINI E AMARA

Davigo spiega di avere parlato della loggia Ungheria con Giuseppe Cascini, membro del Csm in quota sinistra. «Gliel'ho detto perchè si è occupato a lungo di Amara (...) mi disse: Amara non dice tutto ma è troppo intelligente per farsi prendere a dire cose non vere. Quindi probabilmente tutto quello che ha detto è vero". Il che aumentò la mia ansia per quello che emergeva da quelle dichiarazioni»

CONTRO LA PROCURA DI MILANO

Davigo si giustifica per avere portato i verbali al Csm parlando dell'inerzia dei suoi ex colleghi: «La Procura di Milano non ha fatto niente (...) dà una figura di pubblico ministero che è lontana mille miglia da quella che io ho sempre pensato essere, il pm è al servizio della legge, non deve portare a casa dei risultati, non deve portare a casa delle condanne e comunque non può sottrarre prove al giudice e neanche alla difesa». Secondo Storari, come è noto, i verbali di Amara venivano insabbiati per non compromettere l'esito del processo Eni. «Lui mi ha detto che è stato detto in sua presenza: no, questa roba la teniamo qui due anni e poi si vede". Ma come ti viene?»

IL CSM DOVEVA SAPERE

É il tema chiave dell'autodifesa di Davigo. «Se una loggia massonica decide le nomine di centinaia d magistrati italiani sarà bene un problema del Consiglio o no che deve essere segnalata?»

«NON ERANO VERBALI»

All'accusa di avere passato i verbali a alcuni membri del Csm Davigo replica: «Quelli non erano verbali in senso formale.. nulla aggiungevano e nulla toglievano a ciò che io dicevo a voce, erano una guida alla memoria (...) se tutti ritenevano che questo fosse illecito, sono pubblici ufficiali, nessuno si è sognato di fare una segnalazione a mio carico. Ma di che cosa parliamo?»

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

"Da pm disse che gli innocenti non esistono. Se lo ricordi adesso che è un imputato". Luca Fazzo il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'avvocato: "Se ha rivelato i verbali a politici estranei al Csm è una violazione del segreto d'ufficio. Ma sappiamo che certi procedimenti vengono usati come arma".

Come avvocato e come parlamentare, Gaetano Pecorella ha consacrato una carriera al garantismo. E non cambia registro neanche ora davanti al processo che attende Piercamillo Davigo, con cui - in entrambe le proprie vesti - si è scontrato più volte nel corso degli anni. «Il rispetto della presunzione di innocenza - dice Pecorella - non è un vestito che si possa dismettere a seconda delle occasioni».

Quindi anche Davigo è un presunto innocente?

«Assolutamente sì, anche se è inevitabile ricordargli che secondo lui non esistevano imputati innocenti ma solo magistrati che non avevano saputo fare bene il loro lavoro».

Però qui c'è un dato di fatto inoppugnabile: Davigo riceve i verbali segreti dal pm Storari, e poi li divulga a destra e manca.

«Davigo all'epoca faceva parte del Consiglio superiore della magistratura e dubito che consegnare o mostrare questi verbali a un componente del Csm possa venire considerata una violazione del segreto d'ufficio. È vero che non ha seguito le vie delle regole ufficiali, non li ha messi a disposizione secondo le procedure di legge. Ma comunque fino a quel momento i verbali sono rimasti all'interno di un organo istituzionale che ha tra i suoi doveri disciplinari quello di vigilare su quanto avviene nelle Procure».

Davigo è accusato anche di avere istigato Storari a commettere a sua volta un reato, consegnandogli i verbali.

«Vale in buona parte lo stesso discorso. Il fatto che un pubblico ministero consegni a un componente del Csm la prova che un'indagine in corso subiva dei rallentamenti è assai discutibile che possa costituire una rivelazione di segreto d'ufficio. I verbali vengono consegnati a un magistrato da un altro magistrato che vuole dimostrare la propria estraneità a una data vicenda. Se per Storari era un atto difesa legittima portare il contenuto dei verbali a conoscenza di Davigo, senza farli uscire all'esterno dell'istituzione, la conclusione è ovvia: se non era reato per Storari, non lo era neanche per Davigo».

Sta dicendo che Davigo potrebbe essere assolto?

«Il vero problema per lui è costituito dalla decisione di mostrare i verbali a un politico, a un personaggio esterno alla magistratura e al Csm come il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. Per quello non vedo giustificazione. Se il contenuto dei verbali è stato rivelato a politici che nulla avevano a che fare con il Csm siamo sicuramente di fronte a una rivelazione di segreto d'ufficio».

Lei ha conosciuto bene Davigo.

«La prima volta ero ancora un giovane avvocato, mancavano anni a Mani Pulite. Mise sotto processo un avvocato svizzero. È una vicenda che ricorderò per tutta la vita perché l'avvocato fu fatto oggetto di un'imputazione del tutto infondata, tanto che venne assolto in primo grado. Fu un'esperienza traumatica per me e soprattutto per il collega che essendo svizzero probabilmente non era abituato a certe forme di giustizia all'italiana».

Era già il Davigo che conosciamo.

«Quel tipo di rigore evidentemente fa parte della sua personalità. Mi auguro che quella frase sugli innocenti che non esistono gli torni in mente adesso che si trova a sua volta accusato da un magistrato».

Come si spiega che un uomo di palese intelligenza si sia andato a infilare in un pasticcio del genere?

«Nel caso specifico mi sembra ipotizzabile che sia stato spinto per motivi di corrente o di tutela dei suoi amici a tenere certi comportamenti, pensando che fossero leciti. Ma aspetterei a giudicare. Quando un magistrato finisce sotto processo, a parte situazioni evidenti di corruzione o di atti di libidine, va sempre valutata con molta prudenza l'accusa che gli viene mossa. Sappiamo benissimo come i procedimenti disciplinari e penali siano anche strumenti per scontri di potere, come vengano usati da una parte contro un'altra».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Robespierre e Beccaria. Augusto Minzolini il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A volte la Storia è complice di strane coincidenze che sorprendono anche l'animo più cinico. A volte la Storia è complice di strane coincidenze che sorprendono anche l'animo più cinico. Chi avrebbe mai immaginato che il giorno del trentesimo anniversario di Tangentopoli, Piercamillo Davigo, l'ex pm del pool di Milano, sarebbe stato rinviato a giudizio e sottoposto a processo? Pochi. Sicuramente Bettino Craxi e Francesco Cossiga, che davanti ai meccanismi perversi di Tangentopoli profetizzarono che un giorno «i giudici si sarebbero arrestati tra loro».

Di quei meccanismi Davigo è stato il vero teorico, l'artefice di una visione messianica della giustizia, che non ammetteva dubbi e si rapportava con fastidio ad ogni garanzia, secondo una filosofia che affida al magistrato, solo a lui, una missione salvifica della società, anche in contrapposizione alla politica, cioè alla rappresentanza del popolo, considerata una sorta di letamaio secondo lo schema che «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state trovate le prove». Insomma, la cultura del sospetto, dell'indizio che si trasforma in prova, dell'imputato che è colpevole, appunto, solo perché fa parte della categoria dei politici o giù di lì. Davigo è stato una sorta di Maximilien Robespierre redivivo, che dopo poco più di due secoli dall'originale, ha indossato la toga per dare vita ad una nuova Rivoluzione, falsa o vera poco importa, che però non aveva nulla a che vedere, questo è il punto, con la giustizia, con il diritto e, a ben vedere, neppure con la democrazia.

E la ragione è semplice: quando mischi la giustizia con la rivoluzione, finisci ai tribunali del popolo, ai regimi totalitari. Motivo per cui alla fine l'epilogo del novello Robespierre era scritto, perché anche una democrazia malata, pavida e minata da trent'anni di populismi di ogni colore ha i suoi anticorpi per sopravvivere. E il primo è il giudizio di un'opinione pubblica che per qualche anno, magari anche qualche decennio, può essere incantata dalla retorica di Tangentopoli, complice anche una certa stampa sempre pronta ad inginocchiarsi di fronte ad ogni nuovo regime, ma poi si guarda intorno e si accorge che non è cambiato granché. O peggio, scopre che neppure più dei giudici si può fidare. Così ciò che avvenne al vecchio Robespierre è capitato anche al nuovo: Davigo, più precisamente, il giustizialismo in toga, ha perso il consenso popolare (il sì della Consulta ai referendum sulla giustizia è un'altra coincidenza da non sottovalutare) e rischia di essere crocifisso per un reato, sembra la legge del contrappasso, che non è mai stato perseguito (è il primo giudice che vi incappa) ma che è stato lo strumento usato per imbastire quei processi mediatici, di piazza, che sono stati l'essenza di Tangentopoli.

Il Re è nudo e la nemesi storica si consuma. Solo che nelle democrazie, quelle vere, non esistono né ghigliottine, né plotoni d'esecuzione e neppure si getta la chiave della cella per far confessare un imputato. Ci si ispira per impostare un processo giusto, per garantire i diritti di ogni imputato a Cesare Beccaria, al Dei delitti e delle pene, che fu pubblicato esattamente trent'anni prima che il povero Maximilien salisse sul patibolo. Ecco perché mai come ora bisogna essere «garantisti» innazitutto, e soprattutto, con l'ex magistrato Piercamillo Davigo nel ruolo di imputato. Augusto Minzolini

La stoccata di De Magistris: «Davigo a processo? Fatti gravi, inevitabile». L'ex sindaco di Napoli intanto pensa al suo futuro politico. Sarà il leader di "Manifesta". Ecco di cosa si tratta. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.

«La vicenda del rinvio a giudizio del dr. Davigo ha ad oggetto fatti gravi che è giusto che siano valutati davanti a un Tribunale, nella parità tra accusa e difesa. Indipendentemente dalla contestazione all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e della sua eventuale responsabilità, tutta da dimostrare, trovo da ex pubblico ministero davvero inaudito che verbali coperti da segreto investigativo, tra l’altro in un’indagine delicatissima come quella della cd. Loggia Ungheria, siano circolati tra persone che non avevano alcun titolo giuridico ad entrarne in possesso». Così all’Adnkronos Luigi de Magistris. «Poi -aggiunge l’ex magistrato già sindaco di Napoli – sono anche finiti sui giornali e l’indagine, forse anche tenuta troppo tempo negli armadi, è andata completamente “bruciata”».

De Magistris e la politica: nasce “Manifesta”

Il già sindaco di Napoli e già candidato alla guida della Regione Calabria, Luigi De Magistris, è pronto all’ennesima battaglia. Questa volta ancora più tosta, e ancora più difficile, visto che si candida a guidare un’ala all’estrema sinistra che definisce «antisistema». L’ex pm ha detto che «sicuramente» si candiderà alle Politiche del 2023 e che «stiamo provando a mettere insieme i non allineati, quelli che non si riconoscono nel modo di praticare la politica nazionale degli ultimi anni». Tradotto: sarà lui il leader di “Manifesta”, la nuova sigla presentata mercoledì alla Camera della quale fanno parte quattro deputate ex Movimento 5 Stelle e alla quale si è unito anche Matteo Mantero, già potere al popolo.

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Le quattro deputate sono Simona Suriano, Doriana Sarli, Yana Ehm e Silvia Benedetti e la nuova componente si è formata sotto le insegne di Rifondazione comunista e, appunto, Potere al popolo. Una formazione dunque in piena opposizione al governo Draghi e agli schemi politici conosciuti finora, e proprio per questo De Magistris sarebbe la persona giusta per guidarla.

A palazzo San Giacomo l’ex magistrato ha governato infatti in piena opposizione sia al centrodestra che al centrosinistra, ispirandosi a quel popolo viola che tanti consensi raccoglie tra gli anti sistema orientati a sinistra della sinistra. Ed è quindi proprio da quel bacino di elettori che la nuova formazione punta a raccogliere consenso in vista delle prossime Politiche.

Ma vista la provenienza delle quattro deputate, Manifesta guarda anche dagli elettori delusi del Movimento 5 Stelle, sotto un nome che richiama apertamente il Manifesto del partito comunista di Karl Marx. Quanti sono gli elettori già grillini che ora non si riconoscono più nel governo Draghi, nell’appoggio al Tap, nella volontà di rompere la regola del doppio mandato? Difficile dirlo, ma certamente non pochi.

Il Movimento è dato ormai stabilmente sotto al quindici per cento, e le invettive contenute nel libro di Enrica Sabatini, compagna di Davide Casaleggio e storica attivista del M5S, contro Luigi Di Maio e pubblicate ieri non aiutano certo ad abbassare la tensione. Tanto che è proprio nei duri e puri che si guarda per portare nomi di peso in Manifesta. E chi se non Alessandro Di Battista può essere la persona giusta per dare una svolta radicale e antisistema in vista della campagna elettorale? Più volte l’ex fedelissimo di Beppe Grillo ha reso pubblico il suo disagio nei confronti di un Movimento che non è più quello degli inizi, ormai da tempo, e che con il sostegno al governo Draghi ha definitivamente perso la sua verginità. Manifesta, ha detto De Magistris, «è un gruppo nato con un’iniziativa molto opportuna, perché manca uno spazio di alternativa alla maggioranza del “tutti insieme” e con una situazione gravissima che c’è nel Paese». Più chiaro di così.

Dal banco del pm alla sbarra dell'imputato. Perché Davigo va a processo, cosa c’è dietro le accuse al dottor Sottile. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Nel pieno delle celebrazioni in pompa magna per il trentennale di Mani pulite, ecco arrivare dal tribunale di Brescia il rinvio a giudizio per Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione di segreto di ufficio per la vicenda della diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria. Lo ha deciso ieri la gup Federica Brugnara. Il dibattimento inizierà il prossimo 20 aprile.

E sempre ieri si è celebrata l’udienza del processo nei confronti del pm milanese Paolo Storari, accusato dello stesso reato, che aveva invece scelto il rito abbreviato. La Procura ha chiesto il minimo delle pena: sei mesi di prigione. La sentenza il prossimo 7 marzo. Finisce così, alla sbarra, la parabola del magistrato simbolo di Tangentopoli che solo l’altro giorno aveva rilasciato l’ennesima intervista fiume al Fatto Quotidiano in cui ripercorreva quel periodo eroico.

La vicenda nasce a marzo del 2020, una volta terminati in Procura a Milano gli interrogatori di Amara, noto alle cronache per essere anche fra i principali accusatori di Luca Palamara nel processo di Perugia.

Amara aveva rivelato ai magistrati, che lo interrogavano sui suoi rapporti con l’Eni, l’esistenza di una loggia massonica super segreta denominata “Ungheria” e composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle Forze di polizia, il cui scopo sarebbe stato quello di pilotare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi. Ad interrogare Amara erano stati Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, e Storari. Visto che verbali, dove Amara aveva fatto i nomi di decine di appartenenti alla loggia, erano rimasti sulla scrivania dei magistrati senza che ci fosse alcun sviluppo investigativo, Storari decise di giocare il jolly, informando dell’accaduto Davigo, all’epoca consigliere del Csm e con il quale era in grande confidenza.

Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo cominciò a fare il giro delle sette chiese al Csm, portandoli a conoscenza del vice presidente del Csm David Ermini, del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, di alcuni consiglieri, e addirittura del presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s) in un colloquio sulle scale di Palazzo dei Marescialli per paura di essere intercettati da qualche trojan. Andato in pensione Davigo per raggiunti limiti di età ad ottobre del 2020, i verbali di Amara, che erano conservati fino a quel momento nel suo ufficio al Csm, arrivarono alle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano che, però, decisero di non pubblicarli. La postina sarebbe stata la segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto. Storari, per giustificare la sua azione irrituale aveva affermato che, terminata la verbalizzazione di Amara, era intenzionato ad effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati dei soggetti che avrebbero fatto parte dalla loggia e all’acquisizione dei loro tabulati telefonici.

Ma i suoi capi, intenzionati a “salvaguardare” Amara da possibili indagini in quanto utile come teste nel processo Eni-Nigeria in corso all’epoca a Milano, avevano stoppato sul nascere le sue voglie investigative. Davigo, invece, si era giustificato dicendo che «se c’è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo». Tutto finto per la Procura di Brescia: lo scopo di Davigo non sarebbe stato far luce su quanto accadeva in Procura a Milano ma solo trovare una scusa per motivare al Csm la rottura dei rapporti con il pm Sebastiano Ardita il cui nome compariva nell’elenco di Amara. Una rottura drammatica dal momento che i due avevano scritto insieme un libro, edito dalla casa editrice del Fatto Quotidiano, e avevano condividendo le medesime scelte correntizie.

«Senza le condotte illecite compiute da Davigo e Storari, Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate», hanno sostenuto i legali di Ardita che si è costituito parte civile. La consegna dei verbali, e la successiva diffusione sulla stampa, avrebbero determinato “evidenti danni” ad Ardita vista l’infondatezza delle dichiarazioni di Amara. Le indagini su Ungheria, però, non le ha fatte ancora nessuno. Paolo Comi

DiMartedì, Sallusti contro Davigo: "Diffamato? Lei è stato condannato a risarcirmi". Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Lo scontro tra Alessandro Sallusti e Piercamillo Davigo si accende in diretta da Giovanni Floris a DiMartedì, su La7, nella puntata di ieri sera 15 febbraio. "Luca Palamara racconta come il sistema della giustizia sia a sua volta inquinato da logge, servizi segreti, pentiti. Insomma è inquinato", spiega il direttore di Libero. "Io ho sporto una querela per il primo libro di Sallusti". 

E ancora, contrattacca l'ex pm di Mani pulite: "Lei mi ha diffamato un sacco di volte ed è stato condannato. Poi il presidente della Repubblica ha cambiato la pena detentiva in pecuniaria. Quindi non dica che lei non mi diffama". A quel punto Alessandro Sallusti lo inchioda: "Vorrei aggiungere che la Corte dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano, e quindi lei che rappresenta lo Stato, a risarcirmi per ingiusta detenzione. Le ricordo questo dottor Davigo". 

Lo scontro prosegue. "Luca Palamara documenta come tutti i magistrati coinvolti in scandali sono stati archiviati dal Csm", continua il direttore di Libero. "Perché non inquisite mai i magistrati che si trovano in quelle situazioni? I magistrati che chiedevano piaceri... Questo le sto chiedendo". Ma Davigo non risponde alla domanda. Tergiversa sul Csm.

MAlf. per "il Giornale" l'8 febbraio 2022.  

Ancora una assoluzione per Vittorio Sgarbi contro Piercamillo Davigo che lo aveva querelato per un articolo pubblicato su «Il Giorno». (Quattro in tutto le querele presentate dal magistrato relative ad altrettante versioni on line e cartacee dello stesso articolo). E dunque dopo Bologna, Milano. 

E così, come per il primo match per cui l'articolo scritto da Sgarbi il 10 marzo 2017 sul sito web «Quotidiano.net» non conteneva niente di male, tanto da assolverlo dal reato di diffamazione, perché il fatto non sussiste, così l'ordinanza del Gip del Tribunale di Milano ha disposto l'archiviazione del procedimento.

L'ex magistrato non aveva gradito l'articolo scritto da Sgarbi dal titolo «Davigo e i detenuti dimenticati». L'ex pm si è sentito attaccato, colpito personalmente da quelle righe. Trattasi invece secondo il Gip di diritto di critica politica.

Piercamillo Davigo a processo in tribunale a Brescia. Il Corriere del Giorno il 7 Febbraio 2022.  

Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm”, pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale di impedire l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara”. Si tornerà in aula il prossimo 17 febbraio

di Redazione Politica

Si celebra questa mattina dinnanzi al Tribunale penale a Brescia l’udienza preliminare nei confronti dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm“, pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale di impedire l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara“. Anche perché l’ex pm Davigo non si limitò a ricevere i verbali ma ne “rivelava il contenuto a terzi, consegnandoli senza alcuna ragione ufficiale al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita“, che in realtà è precedente alla vicenda Amara. 

Dall’inchiesta dalla quale scaturisce il procedimento in scorso, è uscito l’ex capo della Procura milanese Francesco Greco, accusato dal pm della procura di Milano Storari di aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati, con la contestazione di una presunta omissione d’atti d’ ufficio. Accusa per la quale è stata poi richiesta l’archiviazione dai pm bresciani accolta dal gup Andrea Gaboardi. Il pm Storari oltre al processo penale , rischia un complicato procedimento disciplinare: il Csm entro la metà del mese deciderà se trasferirlo via da Milano. 

Con l’interrogatorio di Piercamillo Davigo, l’ex consigliere del Csm, imputato a Brescia con il pm di Milano Paolo Storari per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria, è ripresa stamane l’udienza preliminare. Il pm di Milano Paolo Storari, imputato a Brescia con l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per il caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara, ha chiesto di essere processato con rito abbreviato. La richiesta è stata presentata stamane al giudice per le indagini preliminari, Federica Brugnara che ha stralciato la posizione del pubblico ministero che risponde di rivelazione del segreto d’ufficio, reato contestato anche a Davigo nei cui confronti proseguirà l’udienza preliminare.

“Questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte” aveva dichiarato Davigo dall’alto…della sua proverbiale spocchia ai giornalisti. Davigo è assistito dall’avvocato Francesco Orasi. Ma il Gup di Brescia Federica Brugnara con rigore ha respinto la richiesta di celebrare l’udienza preliminare a porte aperte avanzata da Piercamillo Davigo e disposto la lo svolgimento dell’udienza in camera di consiglio quindi a porte chiuse, accogliendo anche la richiesta di costituzione di parte civile presentata dal consigliere del Csm Sebastiano Ardita. La sua presenza nel processo si giustifica col fatto che il nome di Ardita fosse presente nei verbali di Amara e che proprio a causa di questo la notizia è diventata pubblica. 

Davigo ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe, per “suggerirle “di prendere le distanze” da Ardita, invitandola a leggerli”; con il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto “un giudizio sull’attendibilità di Amara”, mentre ai consiglieri laici del Csm Fulvio Gigliotti (M5S) e Stefano Cavanna (Lega) avrebbe riferito di una “indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita””. Davigo non contento consegnò quei verbali anche al vicepresidente del Csm David Ermini, il quale correttamente “ritenendo irricevibili quegli atti immediatamente distruggeva la «documentazione”, informando dell’accaduto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche presidente di diritto del Consiglio Superiore della Magistratura , e consegnandoli al magistrato antimafia Nino Di Matteo consigliere del Csm , il quale ne diede pubblica informazione durante un plenum del Csm, citando le informazioni considerate diffamatorie contenute nei confronti di Ardita. 

La mancata riservatezza di Davigo non si limitò a tutto ciò informando anche un componente esterno al Csm, il sen. Nicola Morra (ex M5S) presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei “contrasti insorti tra lui e Ardita”, e le segretarie di Davigo, Giulia Befera e Marcella Contrafatto quest’ultima secondo gli accertamenti della procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo ed ai giornalisti. Venerdì scorso il pm Paolo Storari ha risposto per quasi tre ore alle domande delle parti, respingendo le accuse e ribadendo la correttezza del proprio operato. Oggi invece sarà a Davigo a dover ripercorrere tutte le tappe di un caso che ha provocato una una frattura tra i magistrati della procura di Milano, ma sopratutto portato alla luce ancora di più i “veleni” interni alla magistratura. 

Nel 2017 Davigo dichiarava in televisione a “Piazza pulita”, il programma condotto su La7 da Corrado Formigli che quando un innocente viene condannato non è colpa dei magistrati: “Il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere. E’ stato ingannato”. La vera vittima dell’errore giudiziario è quindi il magistrato, fuorviato e ingannato dai testimoni. In seguito sempre Davigo, ospite di Bruno Vespa a “Porta a porta” su RAIUNO per commentare dei 42 milioni di euro pagati dallo Stato italiano per risarcimenti giudiziari nel 2016 (648 milioni dal ’92), aveva allargato il campo della sua visione alle ingiuste detenzioni: come gli errori giudiziari non sono errori, così le ingiuste detenzioni non sono ingiuste (in pratica a suo parere l’unico errore sembra quello di pagare le vittime). 

Secondo Davigo tutti questi risarcimenti a persone incarcerate e poi assolte avvengono perché nel nostro sistema “le prove assunte nelle indagini preliminari di regola non vale nel processo”. C’è questo problema del dibattimento e di dover ripetere le testimonianze rilasciate agli inquirenti davanti a un giudice. Quindi succede che una persona viene arrestata sulla base di prove schiaccianti, come le accuse di tre testi, “dopodiché questi testi magari minacciati dicono che si sono sbagliati. Le loro indicazioni non possono essere più utilizzate. È un innocente messo in carcere – si chiede retoricamente Davigo – o è un colpevole che l’ha fatta franca?”. Ovviamente per lui vale la seconda ipotesi, da cui si capisce che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni. Le ingiuste detenzioni sono quindi quelle in cui una persona ha subìto un provvedimento di custodia cautelare e poi è stato assolto, “il che – dice Davigo – non significa che siano tutti innocenti, anzi”. e quindi, per l’ex-pm “lumbard” prevale una presunzione di colpevolezza che va anche oltre l’assoluzione definitiva. Cosa dirà adesso che sotto processo c’è lui?

Verbali Amara, Piercamillo Davigo si difende: «Ho rispettato solo la legge». “Ungheria gate”, l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo ieri davanti al gup. Il magistrato della procura di Milano, Storari sceglie il rito abbreviato. Simona Musco su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

«Tutto quello che ha fatto, lo ha fatto nel rispetto della legge». Dopo tre ore davanti al giudice per l’udienza preliminare di Brescia, Federica Brugnera, l’avvocato Francesco Borasi riassume così le dichiarazioni dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato insieme al pm milanese Paolo Storari per rivelazione del segreto di ufficio per aver fatto circolare i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. «Il dottor Davigo, in una situazione pericolosissima per le istituzioni – ha spiegato Borasi al Dubbio -, ha rispettato quanto le leggi impongono e certamente non ha violato la normativa».

L’ex pm di Mani Pulite, davanti ai pm di Brescia, si era infatti difeso richiamandosi a due circolari di Palazzo dei Marescialli, «che prevedono che il segreto d’ufficio, segnatamente il segreto investigativo, non è opponibile al Csm». Ieri, dunque, ha negato di aver indebitamente diffuso i verbali sulla presunta Loggia sostenendo che Storari avrebbe agito in modo legittimo, consegnando i verbali ad una persona titolata a riceverli e che aveva l’intento di informare il Comitato di presidenza del Csm. Dal Comitato, però, non sarebbe arrivato alcun invito a formalizzare, né sarebbero stati manifestati dubbi sulla procedura seguita.

Secondo la procura, le due circolari non possono però essere applicate al caso specifico, in quanto non fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Una scelta discutibile anche secondo il vicepresidente del Csm David Ermini, che giudicò quegli atti irricevibili, non essendo arrivati al Consiglio seguendo le vie formali. Il pm milanese, difeso dall’avvocato Paolo Dalla Sala, ha chiesto e ottenuto di poter essere giudicato con rito abbreviato, mentre Davigo ha scelto il rito ordinario, perseverando dunque nella scelta di rendere pubblico il processo che lo riguarda. Volontà che aveva manifestato anche in relazione alla fase dell’udienza preliminare, nella convinzione che «la pubblicità è di per sé una garanzia: questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte». Il gup, lo scorso 3 febbraio, ha deciso però di respingere la richiesta.

La posizione dei due imputati, dunque, viene ora separata, in attesa della decisione del giudice. La prossima udienza è fissata il 17 febbraio. Il processo, intanto, conta già una certezza: la presenza del magistrato Sebastiano Ardita, consigliere del Csm, ammesso come parte civile al processo. Sarà quella, dunque, la sede forse finale dello scontro tra lui e Davigo, precedentemente suo grande amico e cofondatore, assieme a lui, della corrente Autonomia & Indipendenza. Un rapporto che si è interrotto prima della consegna dei verbali di Amara, verbali che secondo l’avvocato Fabio Repici Davigo avrebbe usato per delegittimare il magistrato all’interno del Csm. Secondo il legale, l’ex pm di Mani Pulite avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm» di Ardita «e la sua immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito – ha aggiunto -, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm».

Secondo quanto emerso dagli interrogatori dei vari consiglieri del Csm, auditi a Brescia per chiarire i contorni della vicenda, la posizione di Ardita sarebbe finita anche al centro di una riunione informale convocata dal vicepresidente Ermini a Palazzo dei Marescialli, nel maggio 2021. Davigo, all’epoca, aveva già riferito della presunta affiliazione di Ardita alla Loggia a diversi consiglieri, invitando alcuni di loro a prendere le distanze dal pm catanese. «Arrivo al giorno in cui Di Matteo prese la parola in plenum – raccontò Ermini ai pm di Brescia -. Dopo tale intervento, si ripropose il problema di tutelare il buon nome del Consiglio e per far ciò ritenni di convocare, seppur informalmente, tutti i consiglieri al fine di cercare un confronto sincero su quello che stava emergendo. Nel corso di tale incontro, Ardita prese la parola e con una evidente partecipazione emotiva rifiutò l’idea di aver avuto comportamenti opachi e si lamentò del fatto che qualcuno potesse aver creduto a delle dichiarazioni calunniose addirittura togliendogli il saluto. Era molto alterato di ciò e molti consiglieri gli ribadirono la loro stima e fiducia. Emerse anche che qualcuno aveva già ricevuto da Davigo delle informazioni sulla cosiddetta loggia Ungheria».

LA RIVELAZIONE DEI VERBALI DI AMARA. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 febbraio 2022.

Il 17 febbraio si deciderà se ci sarà un rinvio a giudizio per il caso dei famosi “verbali”. Piercamillo Davigo conferma di volere un processo ordinario, mentre il magistrato Paolo Storari ha scelto il rito abbreviato e un processo a porte chiuse

L’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, è stato interrogato durante l’udienza preliminare al tribunale di Brescia e ha raccontato la sua verità sui passaggi di mano dei verbali di interrogatorio dell’ex legale Piero Amara, in cui parlava della presunta loggia Ungheria.

Davigo è indagato insieme al pm milanese Paolo Storari per rivelazione di segreto d’ufficio per aver portato fuori dal tribunale di Milano e poi diffuso i verbali degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara, nei quali si dava conto dell’esistenza della presunta loggia e di chi ne faceva parte.

La gup, Federica Brugnara, dovrà decidere sul rinvio a giudizio di entrambi e ha già accolto la richiesta di costituzione di parte civile del consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, citato nei verbali.

Intanto, però, le posizioni processuali dei due indagati si sono separate. Storari, infatti, ha scelto il rito abbreviato: nel caso in cui venga rinviato a giudizio, il processo si svolgerà a porte chiuse e sarà basato solo sugli atti d’indagine fin qui raccolti, inoltre in caso di condanna beneficerà di uno sconto di pena di un terzo. Anche lui si è sottoposto all’interrogatorio e ha confermato di aver consegnato i verbali a Davigo come forma di «autotutela», visto l’«immobilismo» dei vertici della procura di Milano nel procedere all’iscrizione della notizia di reato.

LA SCELTA DI DAVIGO

Opposta, invece, è la strategia processuale scelta da Davigo. L’ex pm di Mani Pulite, infatti, aveva fatto richiesta che l’udienza preliminare si svolgesse in forma pubblica ma gli è stato negato. Oggi ha sostenuto l’interrogatorio di circa tre ore in cui ha ribadito la sua versione dei fatti: «Tutto quello che ha fatto lo ha fatto per conto della legge», è stato il riassunto del suo legale. Davigo, infatti, sostiene che la consegna dei verbali sia stata legittima perché a un consigliere del Csm non è opponibile il segreto d’ufficio.

Inoltre, non ha fatto richiesta di riti alternativi, dunque in caso di rinvio a giudizio il processo si svolgerà con rito ordinario e in forma pubblica, con giornalisti ammessi in aula.

Evidente la volontà dell’ex magistrato: convinto della correttezza del suo operato, ritiene di voler dare la massima divulgazione al processo, nel caso in cui si svolga.

Tutto, ora, è rinviato all’udienza del 17 febbraio, in cui la gup deciderà sulla richiesta di rinvio a giudizio di Davigo confermata dai pm bresciani e si svolgerà la prima udienza in rito abbreviato per Storari. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La verità di Palamara su Berlusconi, Morisi e Loggia Ungheria. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 febbraio 2022.

Dalle anticipazioni del suo libro in uscita dal titolo “Lobby e Logge”, l’ex magistrato romano Luca Palamara racconta fatti legati all’ex legale Pietro Amara ma anche a casi più recenti di cronaca giudiziaria

Il nuovo libro dell’ex magistrato di Roma, Luca Palamara, al centro dello scandalo sulle nomine pilotate al Csm, punta a provocare lo stesso scalpore del volume precedente, “Il Sistema”.

Scritto di nuovo in forma di intervista con Alessandro Sallusti, il titolo è “Lobby e Logge” e affronta i temi delicati che nell’ultimo anno hanno terremotato la magistratura.

Dalle anticipazioni è possibile ricostruire alcuni dei punti che nei prossimi giorni saranno al centro della polemica. 

LA LOGGIA UNGHERIA

A proposito della presunta Loggia Ungheria, Palamara dice che «Davanti a una vicenda simile i casi sono solo due: o iscrivi Amara per calunnia o iscrivi tutti i nomi da lui fatti per appartenenza alla loggia. Dopo quanto? Il tempo di preliminari accertamenti, diciamo da uno a un massimo di sei mesi, Covid o non Covid. Le faccio un esempio così capiamo meglio come funziona: dalla sera in cui alla questura di Milano è scoppiato il caso Ruby al giorno in cui Ilda Boccassini ha chiesto non un avviso di garanzia ma il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi sono passati solo sei mesi».

Secondo Palamara è tutto molto strano: «istituzioni e giornali alleati nel non fare uscire la notizia di una possibile loggia segreta specializzata in depistaggi. Strano soprattutto se pensiamo alla potenza di fuoco messa in campo dall'asse tra procure e giornalisti su altre inchieste, quelle per esempio del passato su Berlusconi e oggi quelle su Renzi». Mentre sul ruolo di Amara dice che «a volte usa le procure e a volte è usato in un gioco degli specchi nel quale ci si perde. Ma la domanda importante è un'altra. Quando usa per conto di chi lo fa, chi è il suo mandante? E quando è usato chi è il burattinaio che muove i suoi fili?». 

IL CASO MONTANTE

«Sul caso Montante il CSM, dove io stavo all'epoca dei fatti, non ha avuto il coraggio e in ogni caso non è stato messo nelle condizioni di potere approfondire i rapporti tra Montante e alcuni magistrati», dice Palamara, che descrive Montante come uno che frequenterebbe politici, ministri, alti prelati, ovviamente magistrati e giornalisti «e in breve diventa il paladino dell'antimafia seducendo anche un osso duro come don Ciotti, nonostante nel 2009 alcuni pentiti lo avessero chiamato in causa per questioni di mafia».

«Nessuno però sa che Montante registra e conserva con precisione maniacale ogni incontro, ogni colloquio, ogni confidenza in un gigantesco archivio che poi userà per ricattare, blandire, ottenere favori per se è per i propri adepti irretiti, consapevoli o meno non importa, in una delle più grandi reti di potere occulto e parallelo a quello ufficiale mai allestite da un uomo solo».

Nel libro si cita anche l’inchiesta di Attilio Bolzoni del 2015, in cui annuncia che «Montante è indagato per mafia dalla Procura di Caltanissetta». Quello è descritto come «un terremoto che travolge i suoi complici: politici, ufficiali dei carabinieri, della Polizia, uomini dei servizi segreti e della Direzione distrettuale antimafia».

IL CASO MORISI

Nel libro si tocca anche il caso recente di Luca Morisi, lo spin doctor di Matteo Salvini indagato per droga e poi archiviato, ma con grande clamore d’indagine sui giornali. Palamara propone il caso come esempioi per spiegare il meccanismo che regge «il sistema».

«I vertici delle tre forze dell’ordine sono in grado di sapere che cosa si sta muovendo nelle procure» e «inevitabilmente finiscono per avere i propri referenti politici» ovvero i ministri nominati dal governo. «Quando una notizia risale la scala gerarchica, a ogni tappa c'è un rischio di fuga di notizie casuale o voluto perché a ogni tappa ci sono in agguato i servizi segreti, le lobby politiche ed economiche, ognuna delle quali ha i propri giornalisti di riferimento». Secondo Palamara, quindi, qualcuno che conosceva i fatti si sarebbe accorto del ruolo di Morisi e del fatto che «colpire lui significava indebolire Salvini». 

L’AVVISO DI GARANZIA A BERLUSCONI

Curioso è lo scambio tra Sallusti, che nel 1994 lavorava al Corriere della Sera, per la pubblicazione della fotocopia dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi. Palamara dice a Sallusti di sapere che lui era stato «avvertito in modo discreto che di lì a poco avrebbero perquisito casa sua in cerca della fotocopia e di alcuni nastri di registrazione, da cui sarebbe stato possibile, ammesso di averne la volontà, risalire al procuratore o al carabiniere infedele. Avvertimento che le permise di disfarsi di quel materiale, che uscì di casa nella borsetta di sua moglie e finì poi bruciato nel cesso del di lei parrucchiere». Sallusti risponde «Non confermo e non smentisco», «so per certo che di quell'avviso di garanzia fu informato anche l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro».

Questo, per Palamara, è la dimostrazione dell’esistenza del sistema di cui lui parla. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Palamara, atto secondo: «Così il Csm provò a usarmi per silurare Greco». Le nuove rivelazioni dell'ex capo dell'Anm nel sequel del libro il “Sistema”, dal titolo “Lobby & Logge”. Simona Musco su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

«Sono convinto che il Csm avrebbe voluto cacciare, o quantomeno punire, Francesco Greco per la malagestione del caso Ungheria, o magari anche per altro, prima del suo pensionamento. Ho avuto la sensazione che abbiano provato a usarmi per raggiungere l’obiettivo». Una delle ultime bombe di Luca Palamara sul “Sistema” giustizia arriva a pagina 37 del suo nuovo libro, dal titolo “Lobby & Logge – Le cupole occulte che controllano “il Sistema” e divorano l’Italia” (Rizzoli), scritto a quattro mani con il giornalista Alessandro Sallusti, da oggi in libreria.

Bomba che racconta l’ennesimo retroscena dell’intricata e oscura vicenda dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, “pentito” utilizzato dalle procure di mezza Italia, considerato credibile a momenti alterni, che ha provocato un terremoto all’interno della procura di Milano, spaccando – per l’ennesima volta – il Csm. Il procuratore Greco, da novembre scorso in pensione, è uscito pulito dalla vicenda relativa alla gestione del caso della presunta “Loggia Ungheria” con un’archiviazione rimediata in virtù della «infondatezza», secondo il gup di Brescia, delle accuse mosse dal pm Paolo Storari, colui che raccolse le dichiarazioni di Amara lamentando l’inerzia dei vertici del Palazzo di Giustizia. Presunta inerzia che lo spinse a consegnare quei verbali all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

L’opinione di Palamara, però, è diversa. E forse lo era anche quella del Csm, stando al suo racconto, al punto da ipotizzare una “trappola” nella quale qualcuno avrebbe voluto coinvolgerlo. Il fatto, inedito, riguarda la sua convocazione proprio a Palazzo dei Marescialli, che ad ottobre del 2020 aveva decretato la sua espulsione dall’ordine giudiziario per i fatti dell’Hotel Champagne e il mercato delle nomine. «Siamo nel marzo del 2021, il libro Il Sistema è in giro da due mesi e sta minando l’ipocrita equilibrio di chi prova a salvarsi dal caso Palamara. Per di più, come abbiamo visto, sotto la cenere cova la brace della loggia Ungheria sfuggita dalle mani al procuratore di Milano Francesco Greco. Con mia grande sorpresa mi convoca, dall’oggi al domani, la prima commissione del Csm, quella che si occupa delle incompatibilità dei magistrati – racconta -. Mi presento, la presidente è Elisabetta Chinaglia (della corrente Area, la stessa di Greco, ndr), entrata al Csm grazie alle dimissioni di consiglieri coinvolti nel mio caso. Pronti via, la prima domanda che mi fa è contro Francesco Greco. Resto incredulo, la guardo negli occhi e vorrei dirle: ma lei signora, mi prende per un cretino?».

La sensazione di Palamara è chiara: qualcuno vuole usarlo. Anzi, ne è convinto. E chiarificatrice, per lui, è la domanda che gli viene posta, che nulla ha a che fare con la vicenda Ungheria e arriva a tempo quasi scaduto rispetto alla carriera di Greco, ma anche a notevole distanza dai fatti dell’Hotel Champagne, per i quali i procedimenti disciplinari sono ormai avviati da un pezzo. La domanda di Chinaglia è precisa: «Mi chiede: quando lei era al Csm Francesco Greco le ha mai dato indicazione, o lei si è mai accordato con Francesco Greco, per la nomina dei procuratori aggiunti di Milano?». Palamara è consapevole che per affossare Greco basterebbe una sillaba, che distruggerebbe anzitempo la sua carriera, ormai agli sgoccioli. «Un mio sì e Greco sarebbe morto all’istante. Penso: è della stessa corrente di Greco, è arrivata dove è arrivata all’interno della spartizione tra le correnti – lo so, c’ero e l’ho fatto – con cui si nominano i procuratori e i loro vice, e viene a fare a me questa domanda. Mi sembrava di essere su Scherzi a parte. Controllo lo sdegno e la rabbia e rispondo “ovviamente no”. Delusione generale, ma ancora oggi mi chiedo: chi in quel momento voleva fare fuori Greco – ovviamente Chinaglia stava solo eseguendo degli ordini – a pochi mesi dalla pensione? Anche perché dalle domande successive era palese che qualcuno voleva mettere in difficoltà Greco per il suo rapporto con Laura Pedio, la pm che aveva interrogato Amara sulla loggia Ungheria insieme a Storari, ma che a differenza di Storari non dava di matto per accelerare l’inchiesta».

L’obiettivo, dunque, non è solo Greco, ma forse anche Pedio. La cui posizione a Brescia è ancora aperta e che, nonostante questo, continua ad avere in mano il fascicolo sul “Falso complotto Eni”. Della nomina di Pedio, avvenuta nel 2017, Palamara ammette di averne parlato con Greco, al quale la magistrata era vicina: «Per me era fisiologico farlo, faceva parte del mio ruolo di regista del Sistema». L’interrogatorio di Palamara finisce nel buco nero del segreto, che Chinaglia raccomanda vivamente all’ex pm di mantenere. Un’ipocrisia che l’ex zar delle nomine non manca di evidenziare, ricordando come tutto, a tempo debito, sia uscito fuori dalle stanze di Palazzo dei Marescialli, compresa l’audizione del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, sulle intercettazioni mancanti nel caso Palamara, in particolare quella riguardante il suo incontro con l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Insomma, un clima surreale, quasi si tentasse di nascondere la polvere, per l’ennesima volta, sotto il tappeto, in una situazione che gli appare ridicola anche per un altro fatto: la vera domanda, afferma, avrebbe dovuto riguardare proprio la nomina di Greco.

«Invece di chiedermi dei vice di Greco avrebbe dovuto chiedermi: scusi, ma lei nel 2016 ha per caso trattato o partecipato a trattative per la nomina del procuratore Greco? E io avrei risposto: certo che sì, con lui direttamente, con molti di voi che oggi sedete qui a fare i miei giudici». E snocciola anche altri nomi: di quella nomina, afferma, parlò anche «con l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, allora membro laico del Csm in quota Forza Italia, e poi con l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia e mio referente informale per le politiche giudiziarie nel Pd. E ultimo, non in ordine di importanza, anche con l’attuale presidente del tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, allora procuratore di Roma». Una nomina in continuità con l’uscente Bruti Liberati e contro chi, invece, «cercava un papa straniero per provare a intaccare quella fortezza autonoma che era la procura di Milano». Alla fine vinse Greco, candidato di sinistra, al termine di «un lavoro certosino», frutto di incontri a tutti i livelli, con il placet anche dei laici del centrodestra, che «convogliarono su Greco, evidentemente ritenuto il minore dei mali».

Il caso verbali

La procura di Milano, all’epoca di questa audizione, è già lacerata dalla vicenda Amara. Una vicenda che, secondo Palamara, non sarebbe stata gestita in maniera chiara. Da un lato, a distanza di due anni, sulla presunta Loggia nulla è ancora stato chiarito a livello giudiziario, dall’altro la stampa ha silenziato la vicenda sino ad aprile scorso, quando il quotidiano Domani ha rotto il silenzio tirando in ballo le consulenze dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Solo allora iniziarono a parlarne anche Repubblica e Fatto Quotidiano, che quei verbali li avevano ricevuti mesi prima, spediti in forma anonima – secondo la procura di Roma – dall’ex segretaria di Davigo. Plichi che però i giornalisti consegnarono subito in procura, temendo una polpetta avvelenata. Una scelta incomprensibile per Palamara, secondo cui per verificare molte delle notizie contenute in quegli atti segreti sarebbero bastati pochi attimi. «Mi domando: ma se in quelle carte ci fossero stati nomi altisonanti della politica italiana, attuali leader, i giornali avrebbero fatto la stessa melina? E soprattutto: la procura di Milano prima e il Csm poi si sarebbero comportati allo stesso modo, cioè avrebbero tenuto tutto fermo tutto per due anni? Oppure i leader politici sarebbero stati iscritti nel registro degli indagati un secondo dopo?».

La risposta, sembra dire tra le righe Palamara, è no. Le strade possibili erano due: iscrivere Amara per calunnia o indagare su tutti coloro indicati come appartenenti alla loggia, in un lasso di tempo che va da uno a un massimo di sei mesi. «Le faccio un esempio, così capiamo meglio come funziona: dalla sera in cui alla questura di Milano è scoppiato il caso Ruby al giorno in cui Ilda Boccassini ha chiesto non un avviso di garanzia bensì il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi sono passati solo sei mesi. E invece noi oggi dopo due anni non sappiamo nulla, o peggio ci si è mossi con avvisi di garanzia per appartenenza a una loggia segreta solo nei confronti di alcune delle persone citate da Amara, i soliti Verdini e Bisignani, come se esistessero cittadini di serie A e altri di serie C. Ma gli italiani hanno diritto di saperne di più. Conte c’entra, sì o no? E la Severino, e Lotti? Se la risposta è “no” ci vuole un pezzo di carta che lo dica».

La vicenda, intanto, ha fatto cadere il prestigio e la credibilità di quelli che Palamara definisce «due mostri sacri del Sistema: la procura di Milano da una parte, Davigo e il suo mondo dall’altra. Più che un crollo è un terremoto, anche per i giornali che lì avevano i loro terminali. Conosco per esperienza diretta le triangolazioni tra magistrati e giornali. Dover mettere in discussione la rettitudine di Davigo per “il Fatto Quotidiano”, giornale su cui Davigo scrive, è un colpo al cuore. E lo stesso vale per il “Corriere della Sera” nei confronti di Greco». E forse è anche per questo che i giornali, in questa vicenda, si sono mossi in maniera strana, dopo aver pubblicato per anni qualunque cosa in barba a qualsiasi segreto istruttorio: «Ricorda la regola del tre raccontata nel Sistema? – spiega Palamara – Per gestire il potere ci vogliono tre elementi: una procura, un uomo della polizia giudiziaria o dei servizi segreti e un giornalista. E questa che stiamo raccontando è una storia in cui l’informazione ha agito o non agito a orologeria».

Il ragionevole dubbio. Appello Eni, la procura generale sbarra la strada al pm De Pasquale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Febbraio 2022. 

Non ci sarà il pubblico ministero Fabio De Pasquale sullo scranno dell’accusa al processo d’appello che si terrà nel prossimo autunno nei confronti dei dirigenti Eni, assolti in primo grado il 17 marzo 2021. La procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha deciso diversamente, affidando il ruolo dell’accusa a Celestina Gravina, magistrato di esperienza non seconda a quella di De Pasquale e che, almeno quanto lui, conosce la materia. Un doppio schiaffo morale per il pm che vanta nel suo curriculum la soddisfazione di esser stato l’unico ad aver portato alla condanna definitiva di Silvio Berlusconi fino alla sua espulsione dal Senato.

Il primo schiaffo deriva dal fatto che De Pasquale nel processo Eni-Nigeria aveva messo l’anima, la sua parte più pura e anche quella più discutibile, che lo vede oggi indagato a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, e anche oggetto di attenzione da parte della prima commissione del Csm che lo ha ascoltato a lungo nella giornata di lunedì, prima di decidere una sua eventuale incompatibilità con la sua permanenza in procura. Situazione non facile, per un pm che a Milano ha costruito tutta la sua carriera e la sua reputazione di uomo di sinistra inflessibile e senza paura di nessuno. Neanche del “dominus” Di Pietro, ai tempi di Mani Pulite, tanto da mettersi con lui in competizione per la gestione di un certo indagato e non aver timore di prenderlo a urlate nel corridoio.

Ma la ferita che oggi brucia di più è dovuta al fatto che De Pasquale teneva così tanto a questo processo da non aver avuto la forza di mettersi da parte dopo la sconfitta processuale subita nel primo grado. Tanto da non limitarsi a fare il ricorso in appello, cosa che in un paese da Stato di diritto non dovrebbe neanche essere consentita al pubblico ministero, se gli imputati sono stati assolti. Se il “ragionevole dubbio” avesse un senso. Ma il pm De Pasquale ha voluto strafare, chiedendo alla procura generale di essere proprio lui, personalmente, a rappresentare di nuovo l’accusa, anche nel secondo grado. La legge non lo vieta, purtroppo, e la contraddizione con il principio del “ragionevole dubbio”, che sta alla base della decisione del giudice, è palese. Come evitare, soprattutto nei processi di grande impatto mediatico, che l’opinione pubblica non veda da parte degli uffici dell’accusa una sorta di accanimento, se lo stesso pm, cioè la stessa persona in carne e ossa che è uscita sconfitta dal processo di primo grado, dà la sensazione di cercare di “rifarsi” nel secondo?

Una vittima di questo meccanismo è stato per esempio il povero Angelo Burzi, l’ex consigliere e assessore di Forza Italia in Regione Piemonte, morto suicida nello scorso dicembre, il cui testamento politico aveva rappresentato un atto d’accusa sull’amministrazione della giustizia. Burzi era finito, insieme a tanti, nella tenaglia dei processi chiamati “Rimborsopoli”. Era stato assolto in primo grado da un tribunale la cui presidente Silvia Begano Bersey, in seguito deceduta, era stata da lui apprezzata nelle sue lettere d’addio come “magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Era poi accaduto l’imprevisto, l’imprevedibile. Il procuratore Giancarlo Avenati Bassi, che aveva sostenuto l’accusa nel primo processo, aveva chiesto e ottenuto di sedere sullo stesso scranno una seconda volta, fino a che aveva potuto portare a casa la soddisfazione del vedere condannati gli imputati.

E i dubbi ragionevoli? Pareva non averne avuti neppure il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, il quale, piccato per la grande evidenza data dai giornali sul suicidio di Burzi e dalla diffusione delle sue lettere, aveva inondato le redazioni con un comunicato di due pagine che parevano una requisitoria. In cui aveva ignorato persino il fatto che una sua ex prestigiosa collega, stimata da tutti e compianta da numerosi messaggi su la Stampa quando era deceduta, aveva scritto parole molto precise e inoppugnabili sulla non colpevolezza degli ex assessori e consiglieri regionali piemontesi.

Possiamo dire, in senso lato, che Claudio De Scalzi, Paolo Scaroni e gli altri imputati dell’Eni che, se pur assolti “oltre ogni ragionevole dubbio” il 17 marzo 2021, torneranno di nuovo alla sbarra il prossimo autunno, sono stati più “fortunati” di Angelo Burzi. Perché la procuratrice generale di Milano Francesca Manni ha spezzato il meccanismo della coazione a ripetere che avrebbe potuto portare di nuovo Fabio De Pasquale sulla poltrona dell’accusatore nell’appello Eni-Nigeria. Lui aveva motivato la richiesta con l’esperienza e la conoscenza delle carte. Forse sottovalutando tutto quel che quel processo, con accuse e contro-accuse tra toghe, ha pesato per Milano e la sua procura. Tanto da aver comportato l’apertura di inchieste giudiziarie da parte della procura della repubblica di Brescia, competente nelle cause che riguardano i magistrati milanesi.

De Pasquale dovrà, insieme all’ex collega Fabio Storaro, dare tante le spiegazioni. Si dovrà accertare se i due pm d’aula del processo Eni hanno tenuto nascoste prove importanti a discarico degli imputati, e se hanno “protetto” le testimonianze di due personaggi discutibili come Pietro Amara e Vincenzo Armanna anche quando erano palesi le loro intenzioni calunniatorie. Che continuano a emergere, anche in questi giorni. Certo non migliorerà il suo umore sapere che quel ruolo di pg nel processo d’appello Eni sarà assunto dalla collega Celestina Gravina. Proprio lei che, nell’aprile dell’anno scorso, a ridosso della sentenza che aveva assolto Scaroni e De Scalzi, aveva svolto il ruolo dell’accusa nell’appello di un filone dello stesso processo, quello nei confronti di Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, considerati intermediari della tangente Eni, che erano stati giudicati a parte perché avevano scelto il rito abbreviato. Il primo grado erano stati condannati. Ma nel secondo grado la procuratrice Gravina aveva completamente rovesciato l’ipotesi dell’accusa.

Intanto partendo all’attacco della Procura della repubblica per “l’enorme dispiego e spreco di risorse” che l’ufficio allora retto da Francesco Greco aveva dedicato alla vicenda Eni. E poi per la testimonianza di Vincenzo Armanna, quello che per i pm De Pasquale e Storari era un collaboratore preziosissimo. E che la pg invece considerava “un avvelenatore di pozzi bugiardo”, uno “che mescola verità e bugie”, “totalmente inaffidabile”. Poi, dopo aver spiegato a pm a giudici gli errori commessi anche nella qualificazione dei reati, la stoccata finale. “Sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchiericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale”.

Era stata inseguita “un’impostazione ideologica”, era stata la conclusione. Una bella lezione. L’assoluzione dei due imputati era stata richiesta e ottenuta. Queste sono le premesse di quel che sarà il processo d’autunno. Che forse si sarebbe potuto evitare, evitando anche l’ulteriore dispendio di denaro. Comunque andrà quel dibattimento, aver spezzato quella tentazione da parte del pm che perde il processo ad andare a rifarsi in appello, è stato un bel gesto da parte della procuratrice generale di Milano. Grazie, dottoressa Francesca Nanni. Chissà che non abbia aperto una strada che eviti, un domani, altre tragedie come quella di Angelo Burzi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Caso Amara, Di Matteo e i verbali su Davigo: "Aggredì verbalmente Ardita e..." Da Affari Italiani il 5 febbraio 2022.

Le verità dell'ex pm di Palermo sulla vicenda della procura di Roma nei verbali pubblicati da Il Fatto Quotidiano

Verbali di Amara, Di Matteo: "Davigo disse ad Ardita che o votava Prestipino o stava con Ferri & co"

Novità sui verbali di Amara, con la posizione di Nino Di Matteo che emerge nelle sue deposizioni, riportate in maniera dettagliata da il Fatto Quotidiano. In particolare quelle che riguardano Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm ed ex pm, indagato a Brescia per rivelazione di segreto in merito alla vicenda dei verbali di Amara consegnati dal pm di Milano, Paolo Storari.

Il Fatto riporta il racconto di Di Matteo, che riprendiamo qui in modo parziale, sul processo di scelta prima del voto per la procura di Roma. “Davigo iniziò chiedendoci che posizione intendevamo assumere in vista della votazione del 4 marzo e, quando sia io che Ardita (...) manifestammo un orientamento in favore di un candidato diverso da Prestipino, la riunione assunse toni particolarmente accesi”. Di Matteo la definisce “una vera e propria aggressione verbale” nei confronti di Ardita. “Alzò la voce in maniera molto decisa contro Ardita, orientato semmai a votare Creazzo. Non criticò il mio orientamento, avendo io una posizione di indipendente all’interno del gruppo (...). Ebbe una reazione furibonda e con un tono di voce alterato disse chiaramente ad Ardita, ripetendolo più volte, che se avesse votato per Creazzo ‘sarebbe stato automaticamente fuori dal gruppo’ (...). Gli disse: ‘Se non voti per Prestipino vuol dire che stai con quelli dell’hotel Champagne’. 

Prosegue Di Matteo, come riportato da il Fatto: “Contestai a Davigo la sua pretesa di condizionare opinioni e voti degli altri appartenenti al gruppo”. Sempre il Fatto ricorda come "il giorno della votazione Pepe e Marra si schierarono con Davigo votando Prestipino. Io e Ardita facemmo una scelta diversa”. E il Fatto conclude: "Di Matteo ritiene importante questo episodio: pensa che forse Davigo conoscesse il contenuto dei verbali di Amara già a febbraio e quindi prima di qualsiasi inerzia nelle iscrizioni dei vertici della procura".

Amara accusato di calunnia per il “falso complotto Eni”. E Genchi difende Armanna. Piero Amara e Vincenzo Armanna, difeso da Gioacchino Genchi, sono accusati di aver calunniato l'avvocato Luca Santa Maria, ex legale di uno degli imputati. Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

È stata aggiornata al 4 aprile l’udienza preliminare, davanti al gup di Milano Carlo Ottone De Marchi, a carico di Piero Amara, Vincenzo Armanna, rispettivamente ex legale esterno ed ex manager di Eni, e altre persone accusate di calunnia nei confronti dell’allora avvocato dello stesso Armanna, il legale Luca Santa Maria, in una tranche dell’inchiesta sul cosiddetto «falso complotto Eni». Ieri la parte offesa della presunta calunnia, l’avvocato Santa Maria, ha chiesto la citazione come responsabile civile di Eni e il gup l’ha disposta. La società nella prossima udienza potrà chiedere l’esclusione dal procedimento.

Nel frattempo, il nuovo legale di Armanna, Gioacchino Genchi, ex consulente di tanti pm ed esperto nell’analisi delle intercettazioni, ha sollevato una questione preliminare relativa al telefono sequestrato ad Armanna, già oggetto di una consulenza tecnica dei pm. E da cui erano emerse chat finite anche al centro dello scontro tra il pm Paolo Storari, un tempo titolare con l’aggiunto Pedio del fascicolo ‘falso complottò, e l’aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, ora alla Procura europea, che hanno coordinato le indagini che hanno portato al processo Eni-Shell/Nigeria, finito con 15 assoluzioni.

La Procura ha chiesto il processo per Amara, Armanna, per l’ex direttore degli affari legali della compagnia petrolifera Massimo Mantovani e altre tre persone, che rispondono anche a vario titolo di intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e false informazioni a pm.

Secondo l’accusa, sarebbe stata depositata «nelle mani del Procuratore della Repubblica di Milano una e-mail dal contenuto calunnioso» con la quale Amara e Armanna avrebbero incolpato, «consapevoli della sua innocenza», l’avvocato Santa Maria «di infedele patrocinio nei confronti di Armanna» di cui era il difensore. Il 10 dicembre scorso, poi, l’aggiunto Pedio e i pm Civardi e Di Marco hanno anche chiuso il filone principale (tra gli indagati sempre Amara e Armanna) delle indagini sul cosiddetto “falso complotto Eni”.

Il poliziotto dei misteri e l'avvocato dei misteri: Armanna nomina Genchi suo nuovo difensore. Luca Fazzo il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex consulente di De Magistris ha ricevuto l'incarico di rappresentare l'imputato ora alla sbarra: dopodomani l'udienza davanti al giudice.

Adesso, anche se un po' in ritardo, arriva il momento del redde rationem: quello in cui la stagione di veleni che ha attraversato la magistratura italiana esce dai corridoi delle Procure e dalle trame di corrente per uscire alla luce del sole, in processi pubblici. Sperando che almeno qualche pezzo di verità venga a galla. Qualche anticipazione si era avuta l'altro ieri, con l'udienza preliminare a Brescia a carico dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo e del pm Paolo Storari, imputati entrambi di rivelazione di segreto d'ufficio per avere divulgato i verbali del «pentito» Piero Amara sulla loggia Ungheria. Ma il piatto forte arriva dopodomani, quando davanti al giudice milanese Ottone De Marchi inizierà un'altra udienza preliminare: quella a carico proprio dell'avvocato Amara e del suo collega Vincenzo Armanna. Sono i due protagonisti del complotto che ha intorbidito il processo Eni, e i cui veleni si sono poi estesi a macchia d'olio nella Procura di Milano. Per anni la Procura ha trattato con i guanti i due avvocati siciliani, poi si è rassegnata a chiedere il loro rinvio a giudizio per calunnia. Amara è in carcere, Armanna è a piede libero e difficilmente si presenterà in udienza. Dalla linea difensiva dei due, già protagonisti di doppi e tripli giochi, dipende in parte la possibilità di capirci qualcosa.

A ridosso dell'udienza contro la strana coppia arriva una novità tutta da interpretare. Vincenzo Armanna ha fatto pervenire al giudice la nomina di un nuovo difensore, e non è un avvocato qualunque. Si chiama Gioacchino Genchi, faceva il funzionario di polizia e divenne famoso come consulente del pm Luigi De Magistris nelle gigantesche inchieste Poseidone e Why Not, e della procura di Palermo sulle stragi. In quella veste, Genchi ha attraversato molti misteri d'Italia. Anche perché il software da lui utilizzato gli permetteva di mettere in collegamento protagonisti e comprimari di indagini diversissime, disegnando reti quasi sterminate di complicità. Il Garante per la privacy calcolò che Genchi aveva accumulato l'incredibile totale di 351 incarichi dalle Procure, e lo accusò di avere conservato illecitamente i dati in una sorta di data base parallelo, multandolo per 192mila euro: multa annullata dal tribunale di Palermo con una sentenza confermata pochi giorni fa dalla Cassazione. Ma di Genchi è rimasta la descrizione che ne fece Ilda Boccassini testimoniando al processo Stato-Mafia: «Non mi piaceva, diffidavo di lui. Era una persona pericolosa per le istituzioni, aveva conservato un archivio con i tabulati raccolti, vedeva complotti e depistaggi ovunque».

Adesso il poliziotto dei misteri difende l'avvocato dei misteri. Cosa ne salterà fuori?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Caso Eni, duello fra le Procure di Milano e Brescia sul telefono di Vincenzo Armanna. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 2022.  

Milano lo consegna dopo che Brescia minaccia sequestri. L’udienza su Storari e Davigo 

Le Procure della Repubblica di Brescia e Milano a un passo dal replicare lo scontro Salerno-Catanzaro, quando nel 2008 l’una sequestrò all’altra atti di cui le era stata rifiutata la consegna: e alla fine di un teso carteggio attorno al cellulare dell’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, la situazione si sblocca dopo che Brescia ventila l’alternativa di venirselo a prendere non con le buone, dopo che il reggente della Procura milanese Riccardo Targetti esercita «moral suasion» sui colleghi, e dopo che il procuratore generale Francesca Nanni lascia intendere di essere pronta a esercitare i propri poteri in caso di contrasti tra uffici. Milano consegna allora il cellulare a Brescia, che lo chiedeva peraltro nell’interesse del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale, indagato nell’ipotesi che non avesse voluto depositare al processo Eni-Nigeria alcune chat del telefono di Armanna dalle quali il pm Paolo Storari traeva indici di calunniosità di Armanna ai danni di Eni.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 4 febbraio 2022.

Le Procure della Repubblica di Brescia e Milano a un passo dal replicare lo scontro Salerno-Catanzaro, quando nel 2008 l'una sequestrò all'altra atti di cui le era stata rifiutata la consegna: e alla fine di un teso carteggio attorno al cellulare dell'ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, la situazione si sblocca dopo che Brescia ventila l'alternativa di venirselo a prendere non con le buone, dopo che il reggente della Procura milanese Riccardo Targetti esercita «moral suasion» sui colleghi, e dopo che il procuratore generale Francesca Nanni lascia intendere di essere pronta a esercitare i propri poteri in caso di contrasti tra uffici.

Milano consegna allora il cellulare a Brescia, che lo chiedeva peraltro nell'interesse del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale, indagato nell'ipotesi che non avesse voluto depositare al processo Eni-Nigeria alcune chat del telefono di Armanna dalle quali il pm Paolo Storari traeva indici di calunniosità di Armanna ai danni di Eni. 

A Brescia De Pasquale si era difeso sia contestando il significato annesso da Storari a quelle chat, sia affermando che comunque non sarebbe stato tecnicamente possibile estrarre dal cellulare e depositare in tribunale solo quelle chat. Perciò il procuratore bresciano Francesco Prete aveva deciso una perizia sul telefono, chiedendone a Milano una copia integrale.

Ma Milano non la consegna: perché trova generica la richiesta, adduce la privacy dell'indagato nei recenti orientamenti di Cassazione sui sequestri di telefoni, e valorizza che la gip milanese Anna Magelli già abbia rigettato analoga richiesta di Eni. Ma Brescia obietta di non poter essere assimilata a un privato come Eni, e torna a chiedere collaborazione, lasciando trasparire altrimenti il sequestro.

Targetti, che guida i pm di Milano dopo la pensione di Greco, li esorta a evitare uno scontro così violento e l'onta di un sequestro, oltretutto per una richiesta nell'interesse della difesa di De Pasquale. 

La pg Nanni a sua volta fa presente i propri poteri di coordinamento e chiede di essere aggiornata per valutare se esercitarli. A questo punto il telefono viene consegnato a Brescia dalla firma dei pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, non anche del procuratore aggiunto Laura Pedio.

Che a Milano è titolare dell'indagine contenente il telefono di Armanna chiesto da Brescia, e nel contempo a Brescia è indagata (per ipotesi di tardiva indagine su Armanna per calunnia) in un fascicolo in cui peserà l'esito della perizia sul telefono. 

A Brescia ieri è intanto iniziata l'udienza preliminare nella quale la gup Federica Brugnara deve decidere se rinviare a giudizio per rivelazione di segreto Storari e l'ex consigliere Csm Piercamillo Davigo, al quale Storari nell'aprile 2020 consegnò i verbali resi da un sodale di Armanna, l'avvocato Piero Amara, sull'asserita associazione segreta «loggia Ungheria».

Respinta l'istanza di Davigo di svolgere l'udienza in pubblico anziché in camera di consiglio, la giudice ha invece accolto la costituzione di parte civile del consigliere Csm Sebastiano Ardita: motivata, spiega il legale Fabio Repici, dal fatto che le condotte di Storari (consegna) e Davigo (divulgazione a molti consiglieri Csm e all'onorevole Morra) sarebbero state le premesse di «una operazione mirata di discredito ai danni di Ardita, cercando perfino di condizionarne il ruolo e l'intero Csm». Davigo ha chiesto di essere interrogato lunedì, Storari si è fatto interrogare ieri ripetendo le ragioni per le quali si indusse a consegnargli i verbali di Amara: la decisione della giudice potrebbe arrivare il 17 febbraio.

Loggia Ungheria, il legale di Ardita: «Davigo agì per screditarlo». Oggi l’udienza preliminare del processo contro l’ex consigliere del Csm e il pm Storari. Il magistrato catanese ammesso come parte civile. Simona Musco su Il Dubbio il 4 febbraio 2022.

Una resa dei conti interna al Csm. E l’occasione per chiarire cosa sia avvenuto nel Palazzo di Giustizia di Milano, diventato nel giro dell’ultimo anno teatro di uno scontro senza esclusioni di colpi, che ha visto schierarsi l’uno contro l’altro colleghi della stessa procura e perfino il procuratore. Può essere interpretato così il processo aperto ieri a Brescia, dove si è tenuta la prima udienza preliminare sulla diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, “pentito” le cui dichiarazioni un giudice dello stesso tribunale ha già definito «fluide e generiche», non nascondendo dubbi sulla sua credibilità. A comparire davanti al gup Federica Brugnara sono stati l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (difeso dall’avvocato Francesco Borasi) e il pm milanese Paolo Storari (assistito da Paolo Dalla Sala), accusati di rivelazione di segreto d’ufficio per aver diffuso i verbali di Amara sull’esistenza della presunta loggia Ungheria. Un processo delicatissimo, che rappresenta anche il confronto (forse) finale tra due ex amici – Davigo e il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, fondatore assieme a lui della corrente “Autonomia e Indipendenza” -, data la decisione del gup di ammettere il magistrato catanese come parte civile.

L’accusa

L’udienza preliminare arriva dopo l’archiviazione della posizione dell’ex procuratore Francesco Greco, accusato da Storari di aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati, accusa infondata, secondo il gup Andrea Gaboardi. Proprio per tale inerzia, Storari, che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, decise di consegnare, ad aprile 2020, quegli atti segreti, senza firma e senza timbro, all’allora consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte di Greco e dell’aggiunta Laura Pedio nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara. Anche perché l’ex pm di Mani Pulite non si limitò a ricevere i verbali ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», che in realtà è precedente alla vicenda Amara.

Ma non solo: l’ex pm ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe, per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli; con il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione», pur riferendo il fatto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad essere informati furono anche un componente esterno al Csm, Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita, e le due segretarie di Davigo, Marcella Contrafatto – che secondo la procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo e alla stampa – e Giulia Befera.

La scelta di Ardita

Il consigliere del Csm, assistito dall’avvocato Fabio Repici, ha dunque scelto di prendere parte al processo, per via degli «evidenti danni» derivati da quella fuga di notizie. «Risulta in atti – si legge nell’atto di costituzione di parte civile – che entrambi gli imputati fossero consapevoli che le dichiarazioni di Amara, tanto più quelle sul dottor Ardita, potessero essere false e, anzi, calunniose». Secondo quanto dichiarato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, nonché da Cascini e Marra, alla procura di Brescia, Davigo avrebbe raccolto «altri elementi che deponevano per la falsità delle dichiarazioni» su Ardita. «È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha aggiunto Repici -. Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati il dottor Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate». Secondo il legale, dunque, Davigo avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm» di Ardita «e la sua immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito – ha aggiunto -, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm». E sul punto ha citato quanto riferito da Ilaria Pepe, «che ha affermato di essere rimasta “condizionata” dalle informazioni illecite rivelate dal dottor Davigo sul dottor Ardita e che in conseguenza di ciò troncò i rapporti» con lui. Dunque, «è circostanza incontrovertibilmente accertata la commissione di quelle condotte da parte degli imputati (che al riguardo sono rei confessi)», ha aggiunto Repici, che ha chiesto «l’affermazione della responsabilità penale degli imputati» e il risarcimento di tutti i danni subiti.

Interrogato Storari

Ieri, in aula, è stato il giorno di Storari, che è stato sentito per diverse ore dal gup. «Sono lieto come cittadino dell’archiviazione di Francesco Greco ma questo non interferisce in modo inevitabile con la posizione del mio assistito», ha affermato Dalla Sala al termine dell’udienza, senza però aggiungere nulla sulle dichiarazioni del pm, data la scelta del gup di respingere la richiesta di Davigo di svolgere il processo a porte aperte. L’ex pm si era richiamato alla Corte di Strasburgo, secondo cui «la pubblicità è di per sé una garanzia: questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte». Ma il giudice ha respinto la richiesta, proseguendo in camera di consiglio. La prossima udienza è prevista il 7 febbraio, giorno in cui sarà proprio Davigo a raccontare la sua verità.

Le dichiarazioni di Amara «fluide e generiche»: ecco perché Greco è stato archiviato. Nel decreto d'archiviazione sul caso Greco, il gup di Brescia palesa forti dubbi sulle affermazioni di Piero Amara in merito all'esistenza della presunta Loggia Ungheria. Simona Musco su Il Dubbio il 2 febbraio 2022.

Le dichiarazioni di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni e “autore” delle dichiarazioni sull’esistenza di una presunta loggia segreta denominata “Ungheria”, sarebbero fluide e generiche e praticamente prive di riscontri concreti. È quanto emerge dal decreto di firmato dal gup di Brescia Andrea Gaboardi, che ha disposto l’archiviazione dell’ex procuratore di Milano, Francesco Greco, indagato per aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati dei presunti appartenenti alla loggia. Accusa che era stata mossa dal pm Paolo Storari – indagato assieme all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio -, che lamentava l’inerzia dei vertici della procura di fronte alle gravi affermazioni dell’ex legale, ritenuto dal giudice, di fatto, poco credibile.

Nelle 27 pagine del decreto sono molti gli aspetti che emergono e che aggiungono un tassello ad una vicenda contorta, che ha provocato un vero e proprio terremoto nella procura meneghina. Il giudice, nello spiegare per quale motivo ritenga «infondata» la notizia di reato, ricostruisce gli scambi tra il pm e i suoi colleghi, ovvero l’aggiunta Laura Pedio, all’epoca co-titolare del fascicolo sul “Falso complotto Eni” ( anche lei indagata), e il procuratore Greco. Scambi che evidenzierebbero un clima disteso e tranquillo e nessun lassismo in merito all’iscrizione dei primi indagati, tra i quali lo stesso Amara, smentendo dunque, secondo il gup, l’ipotesi che si volesse tutelare uno degli accusatori di Eni mentre era in corso il processo (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati) sulla presunta maxi tangente pagata in Nigeria.

Gaboardi non nasconde i dubbi su Amara, evidenziando il «contenuto assai “fluido’ e generico» delle sue dichiarazioni, limitandosi «perlopiù ad elencare ( con asserti il più delle volte confusi e de relato) le occasioni e le vicende in cui si sarebbe dispiegato il potere di influenza dell’evocata associazione». Il tutto «senza fornire elementi circostanziali di particolare pregnanza e ( soprattutto) immediatamente verificabili, i quali fossero dotati di specifica valenza indiziante circa l’esistenza stessa dell’associazione».

Ad autoaccusarsi di far parte della loggia anche l’ex socio di Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore, che ascoltato dalla procura il 4 e il 14 febbraio 2020 riferiva di possedere una lista degli affiliati alla loggia e consegnava tre file audio che contenevano dialoghi ritenuti utili alle indagini. Altro presunto affiliato Alessandro Ferraro, stretto collaboratore di Amara, che convocato dalla procura per consegnare l’elenco dei presunti affiliati non si è però mai presentato, lasciando quella lista avvolta dal mistero. Secondo Storari, il ritardo nelle indagini avrebbe impedito di «assumere iniziative istruttorie tempestive e adeguate alla gravità e alla complessità dei fatti riferiti da Amara».

Agli atti della procura di Brescia – che ha chiesto l’archiviazione di Greco – vi sono diversi scambi di email e messaggi whatsapp che dimostrerebbero, però, un clima tutt’altro che negativo. Scambi che partono dal dicembre 2019 e si protraggono oltre l’iscrizione dei primi indagati – Amara, Calafiore e Ferraro -, avvenuta a maggio 2020, molti dei quali, sostiene Storari, non avrebbero «mai ottenuto risposta, neppure oralmente». Motivo per cui, ad aprile del 2020, Storari si rivolse all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, a cui consegnò i verbali di Amara. Quei verbali, come noto, finirono a diversi giornalisti, che però si rivolsero alla procura, senza pubblicare il contenuto delle dichiarazioni di Amara.

Nei suoi messaggi, Storari evidenziava l’urgenza di avviare l’indagine con l’iscrizione dei primi indagati, lamentando un pericoloso ritardo, date anche le pesanti affermazioni di Amara, secondo cui la loggia sarebbe stata in grado di condizionare nomine ai più alti livelli, dal Csm ai vertici delle Forze di Polizia. Il tutto «sempre tenendo la mente aperta alla possibile calunnia» da parte di Amara. Pedio, che aveva manifestato perplessità sulla competenza territoriale, evidenziando la necessità di «definire il procedimento Eni con priorità assoluta», sottolineò l’esigenza di informare Greco. Da lì una serie di ulteriori scambi, tra i quali quello del 27 aprile, con il quale Storari proponeva una prima lista di soggetti sui quali indagare, tra i quali non compariva, però, lo stesso Amara.

Dopo due rinvii, il primo incontro di coordinamento fu convocato l’ 8 maggio 2020, all’esito del quale sarebbero avvenute le prime iscrizioni sul registro degli indagati, formalizzate il 12 maggio. Da qui il coordinamento con la procura di Perugia, alla quale poi è stato trasmesso il fascicolo per competenza territoriale, a dicembre del 2020. Per il gup, da un lato non ci sarebbe stato un espresso rifiuto da parte di Greco né ostracismo. Sarebbe toccato, anzi, a Storari e Pedio procedere.

A ciò si aggiunge il fatto che per formalizzare l’iscrizione sarebbe servito un preventivo approfondimento, «contrariamente a quanto sostenuto, in via solitaria e con sbrigativa sicurezza, dal consigliere Davigo nel corso del suo interrogatorio in data 7.7.2021», dato che le dichiarazioni «piuttosto anodine» di Amara si sostanziavano «in meri elementi di sospetto, da valutare peraltro con un approccio ispirato alla massima prudenza». All’epoca dei fatti, dunque, «l’obbligo di iscrizione non era ancora sorto in costanza dell’attività di valutazione e riscontro degli elementi di sospetto introdotti da Amara, attività funzionale a verificare l’idoneità degli stessi a fungere da indizi e, in quanto tali, a dar corpo ad una notizia di reato».

Secondo il gup, infatti, non appare «sostenibile né che dalle dichiarazioni rese da Amara nei citati interrogatori (di per sé sole considerate) fossero ricavabili specifici elementi indizianti di condotte partecipative (a vario titolo) ad un’associazione segreta – si legge – né che i suddetti magistrati, prima di iscrivere la notizia di reato in data 12.5.2020, siano stati colpevolmente inerti». E la necessaria attività di preliminare verifica «doveva, peraltro, nel caso di specie essere condotta con estrema prudenza e cautela, considerata la scarsa affidabilità soggettiva del dichiarante, coinvolto in altre gravi vicende penali (a Roma e a Messina) da forme di indebita interferenza su processi in corso ( e poi rivelatosi, sulla base degli accertamenti effettuati proprio da Storari nel prosieguo delle indagini, totalmente inattendibile)». 

Emerge dall’ordinanza di archiviazione. Storari voleva indagare Vietti e Patroni Griffi, per Amara erano membri della Loggia Ungheria. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Il pm milanese Paolo Storari era convinto che Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni, non fosse un millantatore quando raccontava l’esistenza di una super loggia massonica coperta denominata “Ungheria”. Lo si è appreso leggendo il decreto di archiviazione nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, accusato di omissione di atti d’ufficio proprio per aver ritardato le iscrizioni nel registro degli indagati dei nomi fatti da Amara.

Quest’ultimo, infatti, a dicembre del 2019, interrogato da Storari nell’ambito del procedimento sul falso complotto ai danni del colosso petrolifero di San Donato, aveva elencato decine di alti magistrati, professionisti, ufficiali delle forze di polizia, che avrebbero fatto parte di questa loggia che aveva lo scopo di pilotare le nomine ai vertici dello Stato ed aggiustare i processi. Amara, già ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio finalizzato a condizionare le sentenze al Consiglio di Stato, è la gola profonda delle Procure di mezza Italia: a Perugia è fra i principali testi d’accusa nel processo contro Luca Palamara, a Milano in quello contro i vertici dell’Eni. Interrogato, come detto, da Storari alla fine del 2019, aveva svelato i retroscena della loggia.

Il fondatore di Ungheria sarebbe stato Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta e poi capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), morto qualche anno fa. Ungheria, come raccontò Amara a Storari, doveva battersi per uno “Stato liberale, ispirato da principi garantisti, contro la deriva giustizialista”. Per contrastare i giustizialisti, Tinebra aveva fatto, sempre secondo Amara, opera di proselitismo dietro il paravento di Opco (Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata), una associazione che riceveva finanziamenti dalla Regione siciliana. Un racconto suggestivo. «Io facevo quello che chiedeva Tinebra e non conoscevo le gerarchie interne alla loggia», precisò l’ex avvocato dell’Eni, illustrandola formula per il riconoscimento fra gli appartenenti ad Ungheria: «Stringersi la mano premendo con il dito indice tre volte sul polso dell’altro e pronunciando la frase “sei mai stato in Ungheria?». Alla frase, in caso di riconoscimento, non doveva seguire alcuna risposta. «La domanda “sei mai stato in Ungheria?” non doveva essere ripetuta dopo la prima presentazione, mentre rimaneva sempre il gesto con la mano».

Ma torniamo agli appartenenti alla loggia secondo Amara. «Michele Vietti (deputato dell’Udc e vice presidente del Csm dal 2010 al 2014), Enrico Caratozzolo (avvocato di Messina) e Giancarlo Elia Valori (presidente di Autostrade)». «Tinebra, Vietti, Caratozzolo ed Elia Valori erano anche massoni», puntualizzò Amara. «Quali erano le regole di affiliazione?», domandarono i pm. «La persona che poteva essere utile per gli scopi dell’associazione era ‘avvicinata’, come nel caso di Lucia Lotti (presidente sezione Tribunale di Roma)». Altri esponenti di Ungheria, secondo Amara, il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, il presidente della Corte dei Conti Pasquale Squitieri ed il suo vice Luigi Caruso. Poi i generali dei carabinieri Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, e della guardia di finanza Giorgio Toschi. E Pasquale Dell’Aversana, dirigente agenzia delle entrate.

Anche Giovanni Legnini, ex vice presidente del Csm e ora commissario straordinario per la ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo avrebbe fatto parte di Ungheria. «Vi sono prelati in Ungheria?», chiese Storari ad Amara.

«Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano”, rispose Amara. Molti di questi nomi, come Patroni Griffi, Vietti, Elia Valori, sarebbero allora dovuti finire nel registro degli indagati secondo Storari per violazione della legge sulle società segrete. Il fascicolo, però, verrà assegnato ad altri pm e mandato per competenza ad altre Procure, come quella di Perugia, e tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Paolo Comi

Giuseppe Salvaggiulo e Monica Serra per "la Stampa" il 2 febbraio 2022.

Se fosse una partita di tennis e non uno scandalo giudiziario, l'ex procuratore di Milano Francesco Greco sarebbe in vantaggio due set a zero sul pm Paolo Storari. 

Il campo di gioco è il tribunale di Brescia: mentre Storari comparirà domani per difendersi con l'ex membro del Csm Piercamillo Davigo dall'imputazione di rivelazione di segreto d'indagine, Greco incassa l'archiviazione dell'accusa, avanzata dallo stesso Storari e corroborata da Davigo, di omissione di atti d'ufficio per «immobilismo investigativo» sulla presunta loggia Ungheria.

Il gip, anziché limitarsi ad affermare la «radicale infondatezza» dell'accusa a Greco, ipotizza che l'iniziativa di Storari - su cui però deciderà un altro giudice - «sia stata indotta da una suggestione e dalla frustrazione di non poter svolgere più penetranti investigazioni» causa lockdown.

Le due vicende originano dagli interrogatori, resi a Storari tra 2019 e 2020, in cui l'ineffabile avvocato Piero Amara rivelava l'esistenza di una loggia segreta paramassonica denominata Ungheria con decine di magistrati, politici, grand commis, militari. Una specie di P2 del nuovo millennio, tanto che Storari (scrive il gip) andò a rileggersi la relazione parlamentare dell'epoca di Tina Anselmi, per farsi un'idea.

Da quei verbali nacque nella Procura di Milano un contrasto poi deflagrato e su cui ora il Csm sta cercando di mettere ordine. Nell'aprile 2020 Storari, ritenendo Greco colpevolmente (se non dolosamente) inerte, consegnò i verbali a Davigo. Un'iniziativa che il gip definisce «improvvida e con finalità resa ancor più opaca dalle vicende successive».

A maggio Davigo, tacciato dal gip di «sbrigativa sicurezza», portò i verbali al Csm, da dove uscirono sei mesi dopo, con scandalo e danno alle indagini. La Procura di Brescia, diretta da Francesco Prete e competente sui magistrati milanesi, dopo aver ricostruito i fatti con testimonianze, documenti, mail e chat, aveva concluso con la richiesta di archiviazione per Greco. Il gip, accogliendola, va ben oltre. 

Dice che, contrariamente a quanto sostenuto da Storari, Greco non fu inerte ma solo «giustamente prudente», esercitando il necessario «vaglio critico su dichiarazioni anodine, fluide, confuse e generiche di un soggetto inattendibile» come Amara senza ostacolare «le attività preliminari di riscontro», sia pure nell'ambito di un altro fascicolo: riunioni con i pm di Perugia, intercettazioni telefoniche, interrogatori di altri presunti affiliati a Ungheria.

Ciò a gennaio 2020, e le attività - scrive il gip - sarebbero proseguite senza lockdown. Storari accusa Greco di non aver dato seguito alle iscrizioni nel registro degli indagati, «precludendo investigazioni efficaci con rischio di compromissione irrimediabile delle indagini» tanto da indurlo a rivolgersi a Davigo per chiedergli aiuto. 

Ma per il gip, Greco «non rientrava tra i soggetti titolari dell'obbligo di iscrizione» e in ogni caso non ha mai «opposto alcun espresso rifiuto alla stessa iscrizione né concretamente impedito o indebitamente ritardato in qualunque forma» l'azione dei pm, con cui aveva «continue e opportune interlocuzioni in un clima di piena e fattiva collaborazione in un clima sereno».

Smontata dal gip anche l'accusa, rivolta da Storari a Greco, di essersi deciso ad aprire un fascicolo sulla loggia Ungheria solo su input del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, informato a Roma da Davigo. Scrive il giudice: «Pur non conoscendosi il contenuto degli sms tra Greco e Salvi in quanto entrambi non dispongono più dei cellulari che avevano all'epoca e nessuno dei due ha uno specifico ricordo, appare implausibile che un'eventuale comunicazione riservata sul procedimento Ungheria possa essere stata affidata a semplici messaggi nell'arco di pochissimi secondi». 

Il decreto del gip sarà acquisito dal Csm, che valuta l'ipotesi di incompatibilità ambientale per Storari e il procuratore aggiunto De Pasquale, fedelissimo di Greco.

Loggia Ungheria, archiviazione per Greco. Storari e De Pasquale rischiano il trasferimento. Ieri la Prima Commissione del Csm in missione a Milano per audire il pm Storari e l’aggiunto De Pasquale: rischiano un trasferimento per incompatibilità ambientale. Simona Musco su Il Dubbio l'1 febbraio 2022.

Il gip di Brescia ha archiviato l’indagine sull’ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d’ufficio per il caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Il giudice Andrea Gaboardi ha depositato ieri mattina il suo provvedimento di 27 pagine, con cui ha accolto la richiesta avanzata dal procuratore Francesco Prete e dal pm Donato Greco, che nei mesi scorsi hanno invece chiesto il rinvio a giudizio dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e del pm Paolo Storari, accusati di rivelazione del segreto d’ufficio per aver fatto circolare, nella primavera del 2020, quei verbali. Il decreto di archiviazione verrà prodotto all’udienza preliminare fissata il 3 febbraio davanti al gup Federica Brugnara.

LEGGI ANCHE: Davigo denuncia Greco per l’intervista al Corriere della Sera

L’iscrizione di Greco era stata presentata come un atto dovuto a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, che aveva lamentato l’inerzia dei vertici della procura nell’apertura del fascicolo sulla presunta associazione segreta. Una scelta, secondo il pm, dettata dalla necessità della procura di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto però dal Tribunale di Milano, che ha assolto tutti gli imputati del processo Eni- Nigeria, un inquinatore di pozzi. Storari, a febbraio 2021 secondo quanto emerso dalle precedenti audizioni davanti al Csm – avrebbe preparato una bozza di richiesta di misura cautelare per calunnia a carico di Amara, Armanna e Giuseppe Calafiore. Richiesta mai controfirmata da Greco e dall’aggiunta Laura Pedio (anche lei indagata) e, pertanto, rimasta in un cassetto. Storari, dunque, consegnò i verbali a Davigo con l’intento di «autotutelarsi», convinto di poter così smuovere le acque al Csm.

Quei verbali, però, furono spediti a due quotidiani, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che denunciò pubblicamente la circostanza, ipotizzando un’operazione di dossieraggio ai danni del consigliere togato Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra i membri della loggia, circostanza smentita da Ardita e confutata anche dalle incongruenze delle dichiarazioni dell’ex avvocato.

Il Csm interroga Storari e De Pasquale

Nel frattempo ieri la prima commissione del Csm si è recata a Milano per sentire il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e Storari, nei confronti dei quali è stata aperta dal Csm una procedura per incompatibilità ambientale e funzionale, dopo i contrasti sorti tra i magistrati milanesi per la gestione del procedimento Eni.

Anche De Pasquale, assieme al collega Sergio Spadaro (ora passato alla procura europea), è indagato per la gestione delle prove del caso Eni, con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio. La Prima Commissione ha sentito a lungo i due magistrati, con l’intento di capire cosa abbia generato le frizioni all’interno della Procura e se la serenità del luogo di lavoro possa essere stata compromessa. Motivo per cui ha ascoltato anche l’aggiunta Alessandra Dolci, capo della Dda, il dipartimento di Storari, e il procuratore facente funzione Riccardo Targetti.

L’anno scorso, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi aveva già chiesto il trasferimento cautelare di Storari sulla base di tre presupposti: il mancato rispetto delle procedure, la scorrettezza nei confronti dei vertici dell’ufficio e la mancata astensione nell’indagine sulla fuga di notizie. E a ciò aveva aggiunto «la risonanza mediatica» delle condotte di Storari, esigenza cautelare non prevista dal codice di procedura penale. La Prima Commissione, in quell’occasione, respinse la richiesta, evidenziando come non ci fosse alcuna incompatibilità ambientale, anche sulla scorta della lettera con la quale una sessantina di pm si erano schierati dalla sua parte.

Dal fascicolo Eni alla Loggia Ungheria. Il Csm indaga a Milano due anni dopo gli scandali, sentiti Storari e De Pasquale. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso – finalmente – che è giunto il momento di verificare quale sia il clima al Palazzo di giustizia di Milano. A distanza di quasi due anni da quando esplosero i primi scontri fra i pm, il Csm ha inviato ieri a Milano una nutrita delegazione con il compito di procedere alle loro audizioni. Una trasferta “a scoppio ritardato” dal momento che il procuratore Francesco Greco, che ha gestito in prima persona quella fase conflittuale, è andato in pensione da oltre due mesi, ed il facente funzioni Riccardo Targetti farà lo stesso fra poche settimane.

Diversi i fronti che saranno toccati della delegazione composta dai laici Alberto Maria Benedetti (M5s) e Michele Cerabona (FI), e dai togati Paola Maria Braggion, Nino Di Matteo, Elisabetta Chinaglia e Carmelo Celentano. Ad esempio, la posizione del pm Paolo Storari, l’erede di Ilda Boccassini. Il magistrato aveva accusato i colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro di aver frenato le indagini sulle dichiarazioni rilasciate da Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni. Amara aveva descritto con dovizia di particolari l’esistenza di una associazione paramassonica, la loggia Ungheria, che avrebbe avuto lo scopo di pilotare le nomine dei magistrati al Csm e di aggiustare i processi. «Questo fascicolo dobbiamo tenerlo chiuso nel cassetto per due anni», sarebbero state le parole di De Pasquale, capo del dipartimento che si occupa di corruzione internazionale, a Storari.

Amara era stato interrogato molte volte alla fine del mese di dicembre del 2019 da Storari e dalla vice di Greco, Laura Pedio. L’avvocato esterno del colosso petrolifero aveva elencato oltre quaranta nomi fra alti magistrati, generali, professionisti, avvocati, che avrebbero fatto parte di questa loggia super segreta. Storari, riletti i verbali, aveva quindi chiesto ai suoi capi di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e l’acquisizione dei tabulati telefonici. Alle richieste investigative di Storari sarebbe seguito un rifiuto perché, sempre secondo il diretto interessato, all’epoca vi era una precisa linea da parte dei vertici della Procura di Milano che prevedeva di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, dal momento che costui poteva tornare utile come teste in altri processi.

Tutte le prove raccolte sull’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, tra cui chat falsificate e molto altro, finite nel fascicolo sul cosiddetto “falso complotto Eni”, inoltre, non vennero prese in considerazione da Greco, De Pasquale, Pedio e Spadaro, e di conseguenza non furono depositate nel processo per corruzione a carico dell’ad Claudio Descalzi, poi assolto con formula piena. Anche in questo caso perché Armanna, “grande accusatore” dei vertici del cane a sei zampe, non poteva correre il rischio di essere “screditato”. De Pasquale e Spadaro a seguito di ciò sono stati iscritti nel registro degli indagati per omissione di atti d’ufficio a Brescia. I due si sono difesi dicendo che non era tecnicamente possibile il deposito di tali chat: la copia forense del cellulare di Armanna non avrebbe permesso stralci delle sue conversazioni senza disvelarne tutto il contenuto in un momento in cui le investigazioni erano in corso.

Il procuratore di Brescia Francesco Prete ed il pm Donato Greco, titolari del fascicolo, preso atto delle loro dichiarazioni, hanno ottenuto dal giudice sei mesi di tempo in più per «per verificare l’attendibilità di Storari» e decidere se De Pasquale e Spadaro dovranno essere processati o meno. In questa vicenda sono stati indagati anche l’ex procuratore Greco, per il quale il gip di Brescia ieri ha disposto l’archiviazione, e anche l’aggiunto Pedio, titolare del fascicolo “falso complotto”, a cui viene contestata, tra l’altro, la gestione di Vincenzo Armanna, grande accusatore dei vertici Eni.

Terminate le audizioni, verosimilmente già questa mattina, la delegazione di Palazzo dei Marescialli farà ritorno a Roma. E solo allora si saprà se qualche pm sarà costretto a lasciare Milano per incompatibilità ambientale o, invece, tutto sarà stato risolto. La nomina del nuovo procuratore di Milano, invece, è attesa a breve. Quando andrà in pensione Targetti, vista l’anzianità di servizio, a succedergli come facente funzioni dovrebbe essere proprio De Pasquale. Un incarico che scatenerebbe polemiche a non finire alla luce delle accuse che gli pendono sulla testa. Paolo Comi

 Craxi aveva ragione: si arrestano fra loro. Luca Fazzo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non è solo una coincidenza se in questi stessi, tumultuosi mesi da due versanti della vita giudiziaria del Paese arrivano cronache che sembrano dare corpo, a oltre vent'anni di distanza, alla cupa profezia di Bettino Craxi.

Non è solo una coincidenza se in questi stessi, tumultuosi mesi da due versanti della vita giudiziaria del Paese arrivano cronache che sembrano dare corpo, a oltre vent'anni di distanza, alla cupa profezia di Bettino Craxi: «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Il film catastrofico che ha per set la Procura di Milano, l'implosione di quello che fu il tempio del pool Mani Pulite, non per caso arriva pochi mesi dopo che su Roma si è abbattuto il «ciclone Palamara», il cui eroe eponimo - trasformatosi in un lampo da accusato a accusatore - ha rivelato a un'incredula opinione pubblica il marcio che regnava nel Consiglio superiore della magistratura. I due psicodrammi sono intimamente legati, ognuno illumina l'altro e aiuta a comprenderlo. E non solo perché vi ricorrono nomi e volti, a partire da quelli dei grandi mestatori, gli avvocati Amara e Armanna: che nonostante le apparenze sono personaggi minori nell'economia generale, maschere da commedia di cui l'Italia pullula, pronte a svolgere due o tre o quattro parti in contemporanea. No, a unire i due film nella stessa trama - e non si capisce bene quale sia il prequel e quale il sequel - sono i meccanismi che hanno reso possibile tutto quanto, la trasformazione della Procura di Milano in una palestra di agonismo giudiziario e del Csm in un covo di traffici e accordi: ovvero il trionfo all'interno della magistratura italiana del correntismo e della autoreferenzialità, il ripudio organizzato e santificato di qualunque forma di controllo democratico sull'esercizio del potere giudiziario. Solo l'autocrazia del sistema in toga - a partire dal suo braccio secolare, l'Associazione nazionale magistrati, talmente potente da ridurre a volte in posizione subalterna il Csm - ha permesso che le posizioni dominanti venissero occupate sistematicamente dagli uomini delle correnti. Solo l'impermeabilità a qualunque refolo di rinnovamento ha consentito che a Milano lo stesso gruppo di magistrati gestisse senza soluzione di continuità per trent'anni la Procura della Repubblica. Il Consiglio superiore ha benedetto questa occupazione un po' per pavidità, e un po' perché funzionale al sistema di valori che nel Csm lottizzato aveva la sua consacrazione. Ora crolla tutto, e c'è poco da gioirne. C'è semmai da restare stupiti di quanto le correnti organizzate dei giudici non si rendano conto che la loro epoca è finita. Chissà se dopo l'esito sorprendente del referendum indetto dall'Anm domenica scorsa, con il 41 per cento che vota a favore del sorteggio del Csm, qualcuno inizierà a farsi delle domande.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'irriducibile De Pasquale ossessionato dal processo Eni. Luca Fazzo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il pm senza freni: dopo il flop in primo grado, voleva sostenere l'accusa bis in Appello. Fermato dalla Pg. Arrivati a questo punto, forse solo uno studioso di dinamiche mentali può capire il percorso che ha portato la Procura di Milano, e in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, a trasformare le indagini sull'Eni in una questione di vita o di morte; a fare della condanna per corruzione internazionale un obiettivo che rendeva lecito omettere le prove, premere sui giudici, assoldare come testimoni d'accusa personaggi inaffidabili. Ieri, mentre il Consiglio superiore della magistratura si prepara a tirare le fila della sua indagine sui veleni milanesi, emerge un documento significativo. É firmato dal procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, e segna una nuova sconfitta per De Pasquale: ma è un colpo che il procuratore aggiunto si sarebbe risparmiato, se avesse preso atto più serenamente dell'assoluzione dei vertici dell'Eni.

Contro la sentenza che il 17 marzo scorso riconobbe l'innocenza dell'ad di Eni, Claudio Descalzi, e del suo predecessore Paolo Scaroni, De Pasquale aveva proposto, come prevedibile, il ricorso in appello. Ma aveva aggiunto una richiesta: di essere lui a rappresentare anche in appello la pubblica accusa. Solo io, diceva in sostanza De Pasquale, conosco per intero lo sterminato fascicolo, solo io posso dimostrare la colpevolezza di Eni.

Ebbene, il procuratore generale gli risponde che non è affatto così. Le carte di Eni le conosce altrettanto bene un altro magistrato, il sostituto pg Celestina Gravina, che ha gestito il processo d'appello «nei confronti di due imputati per lo stesso fatto, affrontando lo studio del copioso materiale probatorio raccolto». Il problema è che in quel processo la Gravina «ha presentato conclusioni contrastanti con le richieste contenute nell'atto d'appello del dottor De Pasquale»: ovvero ha chiesto e ottenuto l'assoluzione dei due imputati perché «il fatto non sussiste». Quindi nell'aula del processo d'appello a Descalzi e Scaroni, previsto per il prossimo autunno, ci andrà lei, la Gravina. E De Pasquale dovrà rassegnarsi a vederla chiedere la conferma delle assoluzioni che per lui costituiscono - nella migliore delle ipotesi - un colossale errore giudiziario.

Ammesso e non concesso che per quella data De Pasquale sia ancora al suo posto di procuratore aggiunto. Sulla sua testa pesa la proposta della prima commissione del Csm di dichiararlo «incompatibile» con la Procura milanese, come pure il collega che si è scontrato più frontalmente con lui, il pm Paolo Storari. Gli interrogatori dell'altro ieri, in un palazzo di giustizia blindato, hanno convinto il Csm che invece De Pasquale e Storari possono continuare a convivere serenamente nella stessa Procura? Sulla decisione finale del Consiglio superiore peserà, insieme alle colpe dei singoli, l'intero quadro - per alcuni aspetti disarmante - delle lacerazioni cui la Procura milanese è andata incontro nella gestione dei fascicoli sull'Eni e sulla fantomatica «loggia Ungheria» descritta da Piero Amara, ex avvocato di Eni.

Sono i verbali che Storari consegnò a Piercamillo Davigo - finendo per questo anche lui sotto inchiesta - accusando il suo capo Francesco Greco di non permettergli di indagare né su Amara né sulla loggia. Anche Greco era finito per questo sotto indagine, lunedì la sua posizione è stata archiviata: nel provvedimento il gip di Brescia scrive che risultano «smentite o comunque grandemente ridimensionate le propalazioni accusatorie di Storari in ordine a presunti ritardi o inerzie degli organi di vertice della procura di Milano». Nel provvedimento si scopre che oltre che iscrivere nel registro degli indagati Amara e il suo collega Vincenzo Armanna, Storari intendeva indagare per associazione segreta anche alcuni dei personaggi indicati da Amara come appartenenti alla loggia, tra cui l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti e l'allora presidente del Consiglio di Stato Giuseppe Patroni Griffi. Ma per il gip fece bene Greco a andarci piano, trattandosi di «meri elementi di sospetto, da valutare con un approccio ispirato da massima prudenza».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il Csm fa il processo ai pm. E la Procura diventa un bunker. Luca Fazzo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Trasferta della I Commissione per interrogare Storari e De Pasquale. Rischiano il trasferimento punitivo.

Neanche quando venne interrogato Berlusconi la Procura di Milano era così blindata. Il momento topico del disastro che ha investito la giustizia ambrosiana, con i pm-indagati Fabio De Pasquale e Paolo Storari interrogati dal Consiglio superiore della magistratura in trasferta al nord, deve avvenire lontano da sguardi indiscreti. Corridoi e scale chiuse, carabinieri a bloccare i varchi. Come se evitando la pubblicità si alleggerisse di un'oncia la gravità di quanto è accaduto.

Sul tavolo c'è da decidere la sorte di De Pasquale, procuratore aggiunto, uno degli uomini più potenti della Procura; e del soldato semplice Paolo Storari, che contro De Pasquale e la sua gestione dei processi all'Eni è partito con furia donchisciottesca. Sono finiti tutti e due nei guai: De Pasquale con l'accusa di avere nascosto prove che scagionavano Eni, Storari per avere passato illegalmente a Piercamillo Davigo le carte che facevano capire come i testimoni usati da De Pasquale fossero dei conclamati ciarlatani. I guai di De Pasquale e Storari viaggiano su tre binari: c'è l'inchiesta penale a Brescia, c'è il procedimento disciplinare. E poi c'è la terza strada, più blanda ma anche più insidiosa, imboccata dal Csm per cercare di disinnescare il caso Milano: la procedura di trasferimento per incompatibilità. Nelle settimane scorse è stata notificata a entrambi l'avvio di una procedura per la rimozione dall'incarico.

È quest'ultima procedura che ieri porta una intera commissione del Consiglio - la prima, presieduta dal pm palermitano Nino Di Matteo - in missione a Milano. I due vengono sentiti a lungo, assistititi da loro legali. Una serie di interrogatori erano già stati fatti prima dell'estate. Ma poi, a quanto si capisce, il Csm si è spaccato. Le correnti di centro e di destra, Unicost e Magistratura Indipendente, erano convinti della necessità di mandare un segnale forte, cacciando De Pasquale dalla carica di procuratore aggiunto; ma Area, ovvero la sinistra, si è opposta risolutamente. D'altronde il baffuto pm per un pezzo di magistratura è l'eroe dei processi a Berlusconi, l'unico che ha ottenuto la condanna del Cav. Farlo fuori non è facile. Ma quanto emerso in queste settimane sulla sua gestione dei processi ai vertici Eni è difficile da insabbiare.

Con la missione di ieri a Milano, il Csm sembra preparare una doppia botta, bilanciando il provvedimento contro De Pasquale con quello contro Storari: di fronte al gigantesco pasticcio, si colpiscono i due più esposti dei fronti in lotta. Certo, per dichiarare Storari incompatibile con la Procura milanese ci sarà da superare l'ostacolo della raccolta di firme con cui quasi all'unanimità i suoi colleghi sono intervenuti in sua difesa. Ma la Procura di Milano è ormai da mesi senza capo, il 15 febbraio il Csm affronterà la delicata nomina del successore di Francesco Greco. Presentare al nuovo capo una Procura epurata dai reprobi potrebbe essere l'unico modo per svelenire il clima e guardare con fiducia al futuro.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'anomalia: Milano indagava su se stessa. Luca Fazzo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

I veleni di Armanna contro i pm di Eni non vennero trasmessi a Brescia

È possibile che una Procura indaghi su se stessa? Che a scavare su episodi di gravità inaudite siano i colleghi dei magistrati che ne sono rimasti vittime, o che ne sono responsabili? Ovviamente no. Eppure questo è quanto accaduto per anni a Milano, in quel gigantesco contenitore che era diventata l'indagine sul complotto che i vertici dell'Eni avrebbero organizzato per affossare le inchieste sulle tangenti distribuite in Africa. Complotto che ora si scopre non essere mai esistito se non nei piani di Piero Amara e Vincenzo Armanna (nel tondo a destra), avvocati-calunniatori, e dei loro sodali nel sottobosco del colosso del cane a sei zampe.

Almeno due, ed eclatanti, sono i passaggi in cui l'inchiesta della Procura milanese avrebbe dovuto essere interrotta e immediatamente trasmessa a Brescia, alla Procura competente per i reati commessi o subiti dai magistrati milanesi. La prima è quando in una intercettazione un sodale dei due mestatori accusa il pm Fabio De Pasquale (nel tondo a sinistra) di avere ricevuto dei soldi. La seconda è quando compare una strana mail, a firma dello stesso De Pasquale. Sulla prima, la Procura di Milano non fa nulla. Sulla seconda, avvia una serie di accertamenti per verificare se De Pasquale sia effettivamente il titolare della mail da cui è partito il messaggio.

La calunnia a carico di De Pasquale spunta nell'intercettazione che il 27 marzo 2017 la Finanza realizza all'aeroporto di Linate. A parlare sono Massimo Gaboardi, l'improbabile personaggio (tipo: sessantamila euro di debiti in sala corse) arruolato dall'avvocato Amara per le sue trame. Gaboardi incontra Gaetano Drago, un altro dell'entourage di Amara. Parlano delle indagini e degli articoli che stanno iniziando a uscire. «Da due anni De Pasquale - dice Gaboardi - sta usando Armanna per accusare quei due lì», ovvero l'amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. E poi: «Bisogna dare i soldi al pm di sotto, che oltretutto si è beccato...». Ribatte Drago: «Anche De Pasquale si è preso i soldi». Gaboardi: «Sicuramente prima». Perché i due chiamano in causa il procuratore aggiunto di Milano? Sanno di essere ascoltati e vogliono far transitare il loro fango nelle trascrizioni? L'intercettazione dovrebbe essere subito mandata a Brescia, perché incrimini i due. Invece non succede niente, e il dialogo rimane sepolto per anni nel gigantesco faldone del procedimento sul presunto complotto.

Ancora più surreale è quanto avviene quando sul cellulare di Vincenzo Armanna, l'altro ex avvocato di Eni oggi imputato per calunnia, spunta lo screenshot di una mail che sembra provenire da De Pasquale, e che denoterebbe una confidenza eccessiva tra magistrato e indagato. È lo stesso telefono che custodisce molti dei segreti di Armanna, compresa la falsa chat con Descalzi. Il pubblico ministero milanese Paolo Storari, che ha fatto sequestrare lo smartphone dell'avvocato, inizia una serie di accertamenti sulla casella di posta fabio.depasquale@gmail.com, da cui pare provenire il messaggio per Armanna. Partono le rogatorie in direzione di Google, per capire se l'intestatario sia effettivamente il pm milanese. Emergono una serie di omonimi, tra cui un pilota residente a Doha, ma che non ha mai avuto contatti con Armanna in vita sua. Il 10 febbraio dell'anno scorso, la Guardia di finanza scrive alla Procura di Milano che l'accertamento «non ha rilevato alcun collegamento tra il citato Fabio De Pasquale e gli eventi relativi al procedimento penale in oggetto né tantomeno ha individuato alcuna evidenza su eventuali contatti intercorsi tra lo stesso e l'indagato Armanna. Pertanto non si può escludere che lo screenshot della mail inviata dall'account fabio.depasqualeatgmail.com non sia riferibile ad una reale comunicazione pervenuta all'indagato quanto piuttosto ad una mera indagine artefatta».

Armanna, insomma, avrebbe realizzato al computer una finta mail, in modo tale che sembrasse inviata dal pm che in quel momento indagava su Eni. È un episodio inquietante, di cui evidentemente De Pasquale è vittima. E tutto doveva venire trasmesso immediatamente a Brescia. Ma il processo Eni, basato anche sulle rivelazioni di Armanna a De Pasquale, sarebbe stato compromesso. Così la finta mail rimase lì, nei cassetti della Procura milanese. E i miasmi di quel veleno contribuirono ad appestare il clima.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 18 gennaio 2022.

«Il cittadino non è più in grado di comprendere se il proprio magistrato inquirente o il proprio giudice esercitino legittimamente la propria funzione». A dirlo sono gli avvocati dell'Unione delle camere penali, commentando questa settimana le ultime disavventure dei magistrati italiani. 

Come esempio di questo stato di confusione, i penalisti hanno ricordato quanto accaduto recentemente a Francesco Greco, l'ex capo della Procura di Milano, in pensione dallo scorso mese di novembre, e a Giovanni Salvi, attuale procuratore generale della Cassazione e titolare dell'azione disciplinare, «i vertici della Magistratura inquirente del Paese», entrambi di Magistratura democratica, la sinistra giudiziaria.

«Si tratta di una vicenda semplicemente incredibile e che nessuno ha smentito», affermano i penalisti. Per capire, allora, cosa è successo è necessario fare un passo indietro di qualche mese ed andare a Brescia. Nella città Leonessa d'Italia i pm stavano indagando sul modo in cui i colleghi milanesi avevano svolto le indagini sulle dichiarazioni dell'avvocato esterno dell'Eni Piero Amara circa l'esistenza della loggia Ungheria, l'associazione paramassonica finalizzata ad aggiustare i processi e pilotare le nomine dei magistrati.

IL RIFIUTO

 Il pm Paolo Storari, allievo prediletto di Ilda Boccassini all'antimafia, era il titolare del fascicolo. Secondo la sua ricostruzione davanti ai pm bresciani, dopo aver concluso gli interrogatori di Amara, alla fine di dicembre del 2019, aveva chiesto ai suoi capi, e quindi a Greco, di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e di svolgere delle indagini a riscontro delle parole dell'avvocato. 

La risposta sarebbe stata un secco rifiuto. Il motivo, sempre secondo Storari, sarebbe stato quello di "salvaguardare" Amara da possibili indagini per calunnia, perché poteva tornare utile più avanti come teste nel processo sulla maxi tangente nel processo Eni-Nigeria. Processo poi finito in un flop clamoroso per la Procura di Milano con l'assoluzione di tutti gli imputati.

Storari, vista l'inerzia dei propri superiori, aveva deciso allora, nella primavera del 2020, di consegnare i verbali delle dichiarazioni di Amara a Piercamillo Davigo, in quel periodo potente consigliere del Csm e con il quale aveva da anni un consolidato rapporto di amicizia e stima reciproca. Davigo, ricevuti i verbali, aveva a sua volta informato il vice presidente del Csm David Ermini, alcuni colleghi magistrati a Palazzo dei Marescialli, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s), il procuratore generale della Cassazione Salvi.

I pm bresciani, sulla base del racconto di Storari, avevano ritenuto necessario iscrivere nel registro degli indagati Greco per omissione di atti d'ufficio, disponendo l'acquisizione dei tabulati del suo telefono. Dalla loro lettura erano emersi nel periodo citato da Storari numerosi contatti, sia telefonate che messaggi, con Salvi. 

Dal momento che il tabulato riportava solo il giorno e l'ora delle telefonate e dei messaggi inviati e ricevuti ma non il contenuto, il procuratore di Brescia Francesco Prete aveva deciso di interrogare sia Salvi che Greco. Il primo aveva detto di aver «sollecitato» Greco, sia di persona che telefonicamente, affinché le indagini su quanto riferito da Amara venissero condotte con un certo ritmo.

LO SMARRIMENTO

 Il secondo aveva smentito tale ricostruzione, affermando invece che il pg della Cassazione era solo interessato ad avere notizie su procedimenti a carico Marco Mancinetti, un giudice del tribunale di Roma diventato consigliere del Csm e vicino a Luca Palamara, e se fossero state aperte a Milano indagini sensibili su altri magistrati. Nulla sui contrasti all'interno della Procura di Milano sulla gestione del caso Amara.

Per capire chi stava mentendo, Prete chiese ai due alti magistrati di esibire il cellulare. Purtroppo per Prete, sia Salvi che Greco proprio in quei giorni l'avevano perso. Si tratta di «una coincidenza statisticamente prossima all'impossibile», puntualizzano i penalisti. Il miglior commento su queste "perdite sincroniche" è sicuramente del giudice veronese Andrea Mirenda. 

«I gemelli demokratiki sono distratti e perdono tutto: porelli!», scrive Mirenda in un post. «Se fossero stati di altra parrocchia, stile Champagne (hotel da dove è nato lo scandalo Palamara sulle nomine, ndr), ti immagini che fine avrebbero fatto, con tutta la fanfara di Repubblica a spezzare le reni al nemiko di turno delle visioni culturali giudiziarie?»

Loggia Ungheria, vertice tra i magistrati milanesi e il procuratore Cantone. Lungo faccia a faccia tra gli inquirenti perugini e quelli milanesi, che hanno appena concluso le indagini sul “falso complotto Eni”. Il Dubbio il 14 gennaio 2022.

Lungo vertice ieri in Procura a Milano tra gli inquirenti milanesi e quelli perugini che indagano sulla presunta “Loggia Ungheria” svelata dall’ex legale esterno di Eni Piero Amara ai magistrati meneghini titolari dell’inchiesta sul cosiddetto “falso complotto Eni” tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Verbali poi trasmessi a Perugia per competenza territoriale.

Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone si è confrontato per ore con gli aggiunti milanesi Maurizio Romanelli e Laura Pedio, assieme anche ai pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. Questi ultimi tre magistrati hanno chiuso nelle scorse settimane le indagini sul “falso complotto”, un fascicolo aperto nel 2017 e finito anche al centro del noto scontro tra pm milanesi che ha portato la Procura di Brescia ad aprire più filoni di indagine. Si sarebbe trattato di un incontro interlocutorio di coordinamento investigativo, anche perché gli inquirenti milanesi si trovano a dover gestire diversi fascicoli con l’ipotesi di calunnia a carico di Amara proprio per le sue parole sulla presunta “loggia Ungheria”. Amara, infatti, indagato per associazione segreta assieme al suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e al suo ex socio Giuseppe Calafiore, aveva tirato in ballo con le sue dichiarazioni, tra gli altri, alti esponenti delle forze dell’ordine e delle istituzioni, i quali nel frattempo lo hanno denunciato. Intanto è prevista per il prossimo 7 febbraio l’udienza preliminare a carico di Amara, Vincenzo Armanna – ex manager di Eni – e le altre persone accusate di calunnia nei confronti dell’allora avvocato dello stesso Armanna, il legale Luca Santa Maria, in una tranche dell’inchiesta della procura di Milano sul cosiddetto “falso complotto”.

Udienza che si terrà davanti al gup milanese Carlo Ottone De Marchi. Nelle scorse settimane la procura ha chiesto il processo per Amara, Armanna, per l’ex direttore degli affari legali della compagnia petrolifera Massimo Mantovani e altre tre persone, che rispondono anche a vario titolo di intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e false informazioni a pm.

Le indagini. Loggia Ungheria: Salvi, Greco e la maledizione dei cellulari spariti…Paolo Comi su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.  

Non sapremo mai cosa si sono detti, e soprattutto cosa si sono scritti nella primavera del 2020, Francesco Greco, l’ex capo della Procura di Milano, in pensione dallo scorso mese di novembre, e Giovanni Salvi, attuale pg della Cassazione e titolare dell’azione disciplinare. Perché? I due alti magistrati oggi non hanno più il cellulare che usavano all’epoca e, verosimilmente, non hanno mai fatto un backup perdendo così tutti i dati. La circostanza, alquanto sorprendente, è stata riportata da La Verità.

La Procura di Brescia, indagando sull’eventuale inerzia da parte della Procura di Milano nello svolgere le indagini sulle dichiarazioni dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sull’esistenza della Loggia Ungheria, aveva acquisito i tabulati telefonici di Greco. Il pm Paolo Storari, titolare del fascicolo su Amara, sentito dai pm bresciani aveva raccontato che dopo aver concluso gli interrogatori di Amara chiese ai suoi capi di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e l’acquisizione dei tabulati telefonici a riscontro delle parole dell’avvocato siciliano. La risposta sarebbe stata un secco rifiuto. Il motivo, secondo Storari, sarebbe stato quello di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, perchè poteva tornare utile più avanti come teste nel processo sulla maxi tangente nel processo Eni-Nigeria. Storari, allora, aveva consegnato i verbali di Amara a Piercamillo Davigo, in quel periodo consigliere del Csm e con il quale era in rapporto di amicizia risalente nel tempo.

Davigo, a sua volta, ricevuti i verbali, aveva deciso di informare il vice presidente del Csm David Ermini, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, alcuni consiglieri togati di Palazzo di Marescialli, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. Ermini, in questa catena comunicativa senza fine, pare che avesse poi avvisato il capo dello Stato Sergio Mattarella. Ma torniamo ai tabulati del cellulare di Greco. Dalla loro lettura erano emersi numerosi contatti in quel periodo proprio con Salvi. In particolare un lungo messaggio del 7 maggio 2020. Ovviamente, trattandosi di tabulati appariva solo il giorno e l’ora del messaggio inviato e non il suo contenuto. Partendo da questo dato, sia Salvi che Greco erano stati interrogati dai colleghi bresciani per fornire chiarimenti su quanto accaduto. Salvi aveva detto di aver “sollecitato” Greco, sia di persona che telefonicamente, affinché le indagini su quanto riferito da Amara venissero condotte con un certo ritmo, parlando anche delle iscrizioni.

Scenario completamente diverso per Greco, secondo il quale il pg della Cassazione era solo interessato ad avere notizie su procedimenti a carico Marco Mancinetti, un consigliere del Csm della corrente di Luca Palamara, e se ci fossero state indagini alquanto delicate su altri magistrati. Nessun accenno, dunque, a Davigo e Storari e ad eventuali contrasti all’interno della Procura di Milano sulla gestione del caso Amara. Non avendo più, come detto, nessuno dei due magistrati il cellulare dell’epoca, verosimilmente perso o gettato, su questo aspetto non si hanno notizie precise, non sapremo mai chi fra Greco e Salvi ha detto la verità. E se almeno uno dei due l’ha detta. Peccato. Greco, dalla sua, ha comunque la testimonianza della propria vice Laura Pedio. Dopo le interlocuzioni con Salvi, l’ex procuratore di Milano si sarebbe infatti confidato con la sua stretta collaboratrice esprimendo preoccupazione per la tenuta del segreto. Paolo Comi

Magistrati e marchesi del grillo. Salvi e Greco hanno perso i cellulari, inchiesta su Loggia Ungheria chiusa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.  

Ma guarda che certe volte succedono cose curiose. Molto curiose. C’è una inchiesta a Brescia che riguarda dei grandi pasticci che sono stati combinati dai magistrati milanesi, e forse non solo da loro, sui famosi interrogatori dell’avvocato Amara che denunciava l’esistenza di una certa Loggia Ungheria, che sarebbe stata (o forse ancora sarebbe) al comando del sistema Giustizia. I magistrati di Brescia vorrebbero sapere di alcuni scambi di messaggi che forse ci sono stati tra il procuratore di Milano Greco e il Procuratore generale della Cassazione Salvi.

Per accertare come sono andate le cose chiedono di poter controllare i cellulari di Salvi e Greco. Si fa sempre così (poi in alcuni casi si va anche oltre e si distribuiscono alla stampa pezzi di messaggi, i più scabrosi e privati e che non c’entrano niente con l’inchiesta, ma servono a fare spettacolo… In questo caso, certamente, questo non sarebbe avvenuto).

I magistrati di Brescia – ha rivelato ieri “La Verità” – chiedono a Greco di consegnare il suo cellulare. Ma lui risponde: “No, l’ho perduto”. Vabbé, poco male, tanto se ci sono scambi di messaggi si trovano anche sul cellulare di Salvi. Beh, ci crederete? Anche Salvi purtroppo ha perduto il cellulare. E allora niente. Su questo punto, indagini chiuse.

Voi potete pensare forse che Salvi e Greco abbiano per qualche motivo potuto mentire ai Pm di Brescia per nascondere i loro scambi? Spero francamente che la vostra sospettosità non giunga a tanto. E poi un’altra domanda: ma secondo voi che cosa sarebbe successo se a perdere il cellulare fosse stato magari un cittadino comune o addirittura un politico? A occhio e croce, in base all’esperienza, la scomparsa del cellulare sarebbe stata considerata prova certa di colpevolezza. Per fortuna i magistrati di Brescia sono garantisti. Almeno, questa volta lo sono.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Per l'avvocato continua il trattamento privilegiato. Così Amara inguaiò il Pm Toscano e salvò i Pignatone bros. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Dicembre 2021.  

Nuovo patteggiamento “scontato” per l’avvocato Piero Amara, il pentito preferito dalle toghe e noto alle cronache per aver rivelato l’esistenza della loggia segreta Ungheria di cui si sono le perse le tracce. Il tribunale di Roma ha infatti dato ieri il via libera al patteggiamento nei suoi confronti a sei mesi di reclusione per il fallimento, con circa 1,4 milioni di euro di imposte e tasse non pagate, della società P&G corporate. L’indagine era stata iniziata dall’allora pm Stefano Rocco Fava che aveva anche chiesto l’arresto per Amara. Arresto negato da parte dei suoi capi che poi gli avevano tolto il fascicolo.

Prosegue, dunque, il trattamento privilegiato riservato ad Amara “teste di accusa” delle Procure di Roma, Messina, Perugia e Milano, che non solo non lo hanno sottoposto a misure cautelari nonostante abbia continuato, dopo la sua finta collaborazione, a delinquere e a calunniare, ma non gli hanno sequestrato neppure un centesimo del suo ingente patrimonio costituito dagli oltre cento milioni di euro elargitigli dall’Eni e da una petroliera, la White Moon, carica di greggio iraniano sotto embargo, di cui abbiamo raccontato la storia sul Riformista nei mesi scorsi. Ed a proposito della sua collaborazione con i magistrati, tra le persone tirate in ballo per la loggia Ungheria vi fu anche l’ex procuratore aggiunto di Catania Giuseppe Toscano, padre dell’avvocato Attilio Toscano già collaboratore e collega di studio di Amara.

Di Giuseppe Toscano Amara parlò ai pubblici ministeri di Messina Antonio Carchietti e Antonella Fradà nell’interrogatorio del 24 aprile 2018, presenti anche l’aggiunto di Roma Paolo Ielo e di Milano Laura Pedio. «In occasione della vicenda GIDA, grazie all’intercessione del dott. Toscano, si riuscì a convincere Rossi (Ugo, ex procuratore di Siracusa, ndr) a coassegnare al Longo (Giancarlo, ex pm a Siracusa, ora in congedo, ndr) il procedimento sino a quel momento trattato dal solo Bisogni (Marco, ex pm a Siracusa, ora a Catania, ndr)», disse Amara, riferendosi al procedimento presso la Procura di Siracusa che vedeva indagato e poi imputato Amara stesso e la moglie S.ebastiana B.ona, soci della società GIDA oggetto dell’esposto al Csm di Fava. In quel procedimento sia Amara che la moglie avevano conferito incarichi al fratello avvocato dell’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Amara, però, non parlò di Pignatone e del fratello a cui aveva conferito molti incarichi bensì di Giuseppe Toscano, all’epoca già in pensione, e del figlio.

La Procura di Messina iscrisse immediatamente Toscano ottenendone il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio, poiché per la coassegnazione del procedimento GIDA a Longo, amico di Amara, Rossi era stato condannato fino in Cassazione. La Procura dello Stretto non procedette però negli stessi termini quando Longo dichiarò, per averlo appreso proprio da Amara, che il fratello di Pignatone aveva dato notizie dell’indagine a suo carico pendente a Messina, tanto che Longo poté predisporre una consulenza tecnica e una memoria difensiva per dimostrare la regolarità dei suoi conti bancari. In quel caso, infatti, la Procura di Messina aveva iscritto Longo per calunnia, salvo poi archiviarlo, senza tuttavia procedere contro il fratello di Pignatone o lo stesso Pignatone. Nel caso di Toscano, dunque, il procedimento andò avanti senza Amara, concorrente nel reato, che venne stralciato e nei cui confronti Carchietti e il procuratore di Messina Maurizio De Lucia firmarono, il 4 ottobre 2018, una richiesta di archiviazione per prescrizione. Ma non per abuso d’ufficio, il reato contestato a Toscano, bensì per furto.

Il gip di Messina Maria Militello archivierà allora Amara indagato per furto in concorso con Toscano indagato per abuso di ufficio, e la collega Tiziana Leanza rinvierà a giudizio Toscano senza porsi il problema di che fine avesse fatto il concorrente del reato Amara. La posizione di Toscano sarà successivamente dichiarata prescritta dalla Corte di Appello di Messina dopo la condanna in primo grado. Ora pende ricorso per Cassazione proposto dall’ex aggiunto di Catania. La vicenda messinese ricorda molto quella accaduta a Perugia dove Amara ha beneficiato di uno “stralcio” pur essendo stato, per i pm umbri, il corruttore di Luca Palamara, tanto che quest’ultimo è stato rinviato a giudizio esattamente come Toscano.

A Perugia però, considerata la “pericolosità” di Palamara nelle nomine dei magistrati al Consiglio superiore della magistratura, era stato fatto qualcosa in più. Il virus trojan era stato infatti inoculato solo a Palamara, tralasciando del tutto i suoi supposti corruttori: Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore ed il faccendiere Fabrizio Centofanti. Anzi quest’ultimo, in rapporti di frequentazione con l’allora procuratore di Perugia Luigi De Ficchy, non era stato neppure iscritto nel registro degli indagati se non a indagine praticamente finita. Ma anche questa storia l’abbiamo raccontata nei mesi scorsi. Paolo Comi 

Parte da un’inchiesta di un coraggioso settimanale catanese, il reportage che ha terremotato la Procura della Repubblica di Siracusa. “C’è del marcio in Procura. Il Pm messinese Fabrizio Monaco ha richiesto, dal 7 luglio scorso, l’archiviazione del procedimento a carico di Maurizio Musco, sostituto procuratore a Siracusa, Alessandro Centonze, ex Pm alla procura di Catania e Pasquale Alongi, vice questore aggiunto ed ex dirigente del commissariato di polizia di Augusta. Tutti indagati per vari reati che vanno dall’abuso alla rivelazione di segreti d’ufficio. L’intreccio perverso tra magistrati indagati, poliziotti ed avvocati sfiora anche una delle società della famiglia dell’attuale ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo”.

Un fatto di inaudita gravità che coinvolge in questo caso la procura di Siracusa, ma che è comune per tutti gli uffici giudiziari d’Italia. Procura che vai, usanza che trovi. Non vi aspettate condanne penali, si sa, “cane non mangia cane”, ma una riprovazione morale, questo sì, non ce la toglie nessuno. Basta conoscere i fatti. E chi ce li racconta? Meno male che ogni tanto si scopre qualche giornalista degno di questa funzione, che racconta i fatti senza timore.

In questo caso, pur essendoci tentativi di appropriazione indebita di prima genitura, con orgoglio la fa rilevare il suo direttore Salvatore La Rocca. “Magma”, questo il nome del settimanale, per un mese, ogni settimana, ha passato al setaccio fatti e misfatti della procura aretusea. D’altra parte “La Civetta” di Siracusa, una settimana dopo, ha dato ampio spazio all’inchiesta di Magma, sottolineando pure nei titoli come era stato un giornale catanese e non siracusano a denunciare quei fatti. E in relazione a questo il Procuratore Rossi nella prima conferenza stampa li accusava di gettare fango sulla Procura.

Ad avercene giornalisti così, che non hanno paura dei poteri forti, compresi i magistrati, e per questo si è orgogliosi di collaborare con loro e di dare rilevanza in tutto il mondo al loro lavoro, poi sì ripreso dagli organi di stampa nazionali.

Solo dall'azione disciplinare. Per i poveri cristi vi sarebbe stata anche l'azione penale, e magari l'arresto, per abuso d'ufficio, ma tant'è, siamo in Italia. Da "Il Corriere della Sera": Siracusa, ministro chiede il trasferimento del procuratore capo e di un sostituto. Avrebbero condotto inchieste che coinvolgevano i propri familiari. L'azione riguarda anche un terzo magistrato. Il Ministro «Reiterato e distorto uso della delicata funzione».

Sono stati depositati al Csm gli atti di un'azione disciplinare promossa dal ministro della Giustizia Paola Severino nei confronti del procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi e dei sostituti Maurizio Musco e Roberto Campisi. In particolare, da quanto si apprende, per i primi due si chiede anche l'immediato trasferimento cautelare. Motivo dell'istanza: la conduzione di inchieste che hanno visto coinvolti familiari e persone legate ai magistrati stessi e in cui erano in gioco interessi patrimoniali. «Mi difenderò con forza e determinazione in tutte le sedi opportune a cominciare dal Consiglio superiore della magistratura. Il resto lo dirò a fine vicenda», ha affermato all'Ansa il procuratore capo di Siracusa, Ugo Rossi. La richiesta di adozione dell'azione disciplinare sarà trattata dal Csm il 13 settembre 2012. Cinque giorni dopo Palazzo dei Marescialli si occuperà del procedimento per incompatibilità ambientale avviato dall'organismo di autotutela dei giudici nei confronti del procuratore Rossi e del sostituto procuratore Maurizio Musco. L'audizione era stata fissata per il 31 luglio ma è stata poi rinviata. Per Rossi e Musco l'azione disciplinare promossa dal guardasigilli è più pesante di quella ordinaria, perchè si chiede il trasferimento cautelare ad altra sede prima della conclusione dell'iter disciplinare. In particolare per il capo della Procura di Siracusa la richiesta di trasferimento cautelare - rilevano gli atti trasmessi al Csm e alla Procura generale presso la Cassazione, organi competenti sul piano disciplinare - è da ricondurre all'«allarmante preoccupazione di Rossi di proteggere i propri legami familiari e sociali», in particolare «in vari procedimenti in cui erano in gioco interessi patrimoniali dei suoi familiari o di persone a loro legate». Una condotta che va a discapito di quei principi di «correttezza e imparzialità» a cui il capo di un ufficio di Procura è tenuto nella gestione del proprio ruolo; e che getta «pesanti ombre sul prestigio della magistratura e mina nella fondamenta la fiducia nelle istituzioni». Per quanto riguarda Musco, nell'atto promosso dal ministero si riferisce, a quanto si apprende, della «indubbia gravità e consistenza del quadro indiziario acquisito», considerato «sintomatico di un reiterato e distorto uso della delicata funzione» ricoperta dal magistrato. Musco avrebbe «consapevolmente e reiteratamente» violato l'obbligo di astenersi da indagini in cui poteva avere un interesse diretto o indiretto. Inoltre si fa riferimento ai suoi rapporti con un avvocato cui è da ricondurre una serie di imprese attive nel territorio e che sono state, a vario titolo, oggetto di verifiche e indagini da parte dei magistrati al centro dell'azione disciplinare. Proprio questa «rete di piccole imprese» è stata al centro di una interrogazione parlamentare del senatore del Pd Francesco Ferrante presentata il 21 dicembre 2012. Nell'atto si riferisce tra l'altro che parenti dei magistrati sono diventati soci o ricoprono ruoli in queste società. Ma a Musco, a quanto risulta, viene addebitata anche un'altra circostanza: l'aver smentito, nel 2007, l'iscrizione di alcuni indagati nell'ambito dell'inchiesta per scommesse clandestine nel calcio su partite del Catania; e questo per creare, secondo l'atto di incolpazione, vantaggio alla società calcistica. Tanto più che l'inchiesta - è l'altro rilievo mosso - sarebbe dovuta andare per competenza alla Procura di Catania. Per quanto riguarda Campisi, gli addebiti nei suoi confronti sarebbero, tra l'altro, di aver omesso di comunicare fatti a lui noti su Musco (anche in merito alle dichiarazioni sul Catania calcio) e di aver iscritto due giocatori del Catania nel registro degli indagati senza comunicarlo a Catania, avendo così «leso il prestigio» dell'ordinamento giudiziario.

“La Repubblica” a firma di Saul Caia ed Andrea Ossino del 2 agosto 2012: Il ministero decapita la procura di Siracusa. Disposto il trasferimento del Capo e del sostituto. Strani intrecci familiari, inchieste in prescrizione dopo tre udienze. "Pesanti ombre sul prestigio della magistratura". Il ministro della Giustizia interviene sulla Procura di Siracusa, dopo diverse interrogazioni parlamentari. Paola Severino, si è espressa sui rapporti interni al tribunale, definiti da molti come "inopportuni" ed è intervenuta con appositi trasferimenti cautelari su cui si dovrà esprimere il Csm il 13 Settembre. Secondo la relazione ministeriale il capo della Procura, Ugo Rossi, si sarebbe "preoccupato di proteggere legami familiari e sociali" a "dispetto e discapito" della "corretta ed imparziale gestione del proprio ruolo", gettando "pesanti ombre sul prestigio della magistratura".

I precedenti. Rossi non si astenne quando dovette occuparsi di un fascicolo riguardante la presunta evasione fiscale e le false fatturazioni a carico di S.ebastiana B.ona, moglie dell'avvocato Amara, e nei confronti di tre società, tra queste la "Gi. Da. Srl" in cui risulta socio Rossi Edmondo, figlio dello stesso procuratore. Secondo il documento ministeriale il capo della procura di Siracusa, avrebbe inoltre commesso un "atto abnorme" designando a se stesso un'inchiesta di competenza della procura di Catania. Si tratta del caso "Oro Blu", dove era indagato Salvatore Torrisi, figlio dell'attuale moglie di Rossi e amministratore delegato della Sai8, società Ato idrica di Siracusa gestita dalla Sogeas e dalla Saccecav. Il fascicolo, nel febbraio 2012 portò agli arresti domiciliari per Giuseppe Marotta ex amministratore delegato Sogeas, Monica Casadei, rappresentate legale Saceccav, Gianni Parisi, rappresentante legale Sogeas, e Gino Foti, sottosegretario nel Governo Goria e Andreotti. Fu in quell'occasione che nei confronti del presidente della provincia aretusea fu emesso un ordine di "divieto di dimora" con l'accusa di "abuso d'ufficio". In una nota diffusa dall'Ansa, Rossi ha fatto sapere che si difenderà "con forza e determinazione in tutte le sedi opportune a cominciare dal Consiglio superiore della magistratura".

I reati ambientali. Il ministro della giustizia ha disposto anche il trasferimento del sostituto procuratore Maurizio Musco, lo stesso procuratore che indagò sui reati ambientali riguardanti le industrie dell'ex ministro Stefania Prestigiacomo. Le indagini finirono in prescrizione dopo sole tre udienze. Il pm fu invece chiamato dall'allora ministro come membro del comitato di studio ministeriale sul DL che si occupò di norme in materia d'ambiente. Nei suoi confronti adesso viene evidenziato un "reiterato uso distorto delle funzioni" di pm. Il magistrato fu amministratore della Panama Srl, dove si riscontrava anche il nome di Miano Sebastiano, praticante dello studio di Piero Amara. L'avvocato è figlio di Giuseppe Amara, descritto da un'informativa della Gdf come "personaggio intoccabile" appoggiato da amicizie politiche come quella di Giuliano Vassalli, ripetutamente ministro della giustizia sotto i governi Goria, De Mita e Andreotti, ed ex presidente della Corte costituzionale. Il figlio, Piero Amara è stato inoltre condannato a 11 mesi dal Gip Benanti per "rivelazione di segreti d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico" in quanto istigava Vincenzo Tedeschi, cancelliere del procuratore Centonze al tempo alla DDA di Catania, a fornire informazioni ancora coperte da segreto istruttorio. Amara, più volte controparte processuale del dott. Musco, è un legale del Calcio Catania e proprio in questo caso il procuratore avrebbe omesso l'iscrizione sul registro degli indagati dei giocatori Falsini, Biso e Pantanelli, all'epoca delle indagini atleti del Catania calcio, inchiesta che, per competenza, spettava ai pm catanesi. Per questa stessa indagine, finisce sotto azione disciplinare anche il pm Roberto Campisi, per aver "violato i doveri di correttezza" nei confronti dei colleghi di Catania dopo aver indagato due calciatori della squadra etnea. A carico di Campisi, il ministro evidenzia anche la "violazione dei doveri di vigilanza" per aver omesso di comunicare i fatti di rilievo disciplinare riguardanti il pm Musco, dei quali, secondo l'accusa, era a conoscenza.

Il ruolo dei giornali locali. Già da molto tempo i giornali locali aretusei, come "La civetta di Minerva", denunciavano le strane relazioni interne alla procura evidenziando come, seguendo le visure camerali di oltre 20 società, si potevano tracciare legami tra avvocati, procuratori, sostituti e aggiunti, periti, presidenti di municipalizzate o figure influenti al loro interno. Legami che arrivano fino a Roma. Queste relazioni sarebbero risultati inopportune in diversi casi. C'è il caso Mare Rosso, quando le acque di Siracusa cambiarono colore per la presenza del mercurio, del cromo e de nichel. C'è l'inchiesta sulla Oikoten, società del gruppo Marcegaglia o quella del centro commerciale Open Land o dei supermercati Fortè. Poi ci sono i casi di poliziotti e giornalisti che indagarono sugli stessi procuratori e con uno strano tempismo si trovarono indagati a loro volta. In una piccola città certi legami possano andare avanti anni senza creare scandali o attirare attenzioni particolari. Evidentemente quel tempo è finito.

Così sei mesi prima "S" aveva sollevato il caso. Scrive Antonio Condorelli su “Live Sicilia” il 2 agosto 2012. La battaglia per la testa del procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi si combatte da tre anni a suon di dossier anonimi, pedinamenti, articoli, querele e controquerele. Una ragnatela tanto fitta che è difficile tenere il conto delle decine di inchieste e fascicoli aperti da Siracusa a Roma grazie al fuoco incrociato dell’attività di magistrati e poliziotti, esponenti delle istituzioni e imprenditori, politici e parenti anche lontani degli uni e degli altri. Il risultato è che ad oggi sono stati intercettati tutti, dai massimi vertici della magistratura e dell’avvocatura siracusana, agli onorevoloni ed esponenti locali della destra e della sinistra. E così Ugo Rossi, che tenta di mantenere la barra dritta per lavorare come sempre ha fatto, al di sopra di ogni sospetto, oltre a guardarsi dai propri colleghi della corrente Unicost che pendono dalle labbra del Tar per la quantificazione della sua anzianità di servizio e le conseguenti promozioni a Catania, si è visto scandagliare ogni istante della propria vita privata. Per una guerra che ha messo nel mirino anche i suoi parenti. E la vicenda, dopo i dossier e le denunce anonime e i relativi passaggi su blog e giornali locali, è finita al centro di un’interrogazione parlamentare. A essere chiamati in causa sono tre magistrati – oltre a Rossi, Giuseppe Toscano, procuratore aggiunto prima in sella a Siracusa e adesso a Catania, e Maurizio Musco, pm di Siracusa – e l’avvocato Piero Amara, potente legale difensore dell’Eni. L’interrogazione, presentata a dicembre da Francesco Ferrante (Pd), chiama in causa l’avvocato e i congiunti dei tre magistrati, elencando società e presunti conflitti d’interesse. Accuse respinte però al mittente da Amara, l’unico fra gli interessati ad aver accettato di parlare con “S”. Non basta: negli ultimi giorni sotto attacco è finito anche Salvatore Torrisi, figlio della terza moglie del procuratore, divorziata da un importante assessore tecnico della giunta catanese di Raffaele Stancanelli, Claudio Torrisi. Dopo dieci anni di direzione della Sidra Catania, colosso pubblico della depurazione, l’ingegnere Torrisi è divenuto direttore tecnico alla Sai8 di Siracusa, la società che gestisce l’Ato idrico della provincia aretusea. Un’azienda finita al centro di un’inchiesta della Procura guidata dal compagno della madre. Il procuratore Ugo Rossi però non si è fermato, ha intercettato tutti, e adesso alcuni dirigenti dell’Ato idrico sono finiti in galera con l’accusa di aver gestito “a tavolino” gli appalti. E si attende una seconda operazione.

Vittime e carnefici

Il nodo della vicenda risiede in una srl che si chiama Gida. Amministrata da Carlo Lena, manager di Banca Nuova, vedrebbe tra i propri soci, secondo la ricostruzione di Ferrante, Edmondo Rossi, figlio del procuratore Ugo Rossi, Attilio Luigi Maria Toscano, figlio del pm Giuseppe Toscano, e S.ebastiana B.ona, moglie dell’avvocato Piero Amara. Ferrante sottolinea come nel processo Mare Rosso “fu presentata una denuncia (procedimento penale n. 5898/08) nella quale si lamentava il mancato rispetto degli accordi con i dipendenti dell’Eni (difesi da Piero Amara); il procuratore Toscano accertò che il denaro arrivato ad alcuni dipendenti era transitato dal conto della Gida srl”. In pratica, secondo Ferrante, attraverso una società partecipata da figli di pm che indagavano sull’inquinamento del petrolchimico sarebbero transitati fondi della principale azienda inquisita. Piero Amara bolla le accuse di Ferrante come “false a partire dal fatto che mai denaro dell’Eni è transitato nei conti della Gida”. E ancora, ad “S” spiega di non essere personalmente socio della Gida, ma di seguire l’attività imprenditoriale della moglie. “I fatti processuali citati da Ferrante risalgono al 2006-2007, quando Ugo Rossi non era a Siracusa e suo figlio non era titolare di quote, visto che è entrato in questa società soltanto nel 2010 a compensazione di un credito che lo stesso vantava per aver progettato un impianto fotovoltaico”. Carte alla mano Edmondo Rossi, figlio del procuratore capo, risulta amministratore delegato della A&M Global Solution srl, società costituita nel 2003 che si occupa della realizzazione di opere civili e industriali per Eurospin, Maltauro, Alstom e Siemens. La A&M Global Solution ha 25 dipendenti e si è specializzata nella progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici. Quello progettato per la Gida valeva 3 milioni e 140 mila euro e doveva essere realizzato a Melilli. “Per ragioni legate alle autorizzazioni - continua Amara - l’impianto fotovoltaico non è entrato in funzione immediatamente, per questo la quota del 20% è stata offerta, a titolo di compensazione per parte degli oneri di progettazione, all’ingegner Rossi, che adesso è pure uscito dalla società”.

I rapporti Toscano-Amara

“Attilio Toscano - scrive Ferrante - oltre ad essere socio della Gida Srl è un avvocato che in molti procedimenti giudiziari affianca l’avvocato Amara, quali ad esempio le vicende di Siracusa che riguardano Open Land e Sai8”. Una circostanza che Amara conferma: “Conosco Attilio Toscano dai tempi dell’università – spiega il legale – e lo ritengo uno dei migliori amministrativisti d’Italia. Spesso, per vicende che si riconnettono a profili di natura amministrativa, mi rivolgo a lui: lavoriamo insieme e siamo colleghi da tanto tempo”. Ricostruendo la vicenda Open Land, Ferrante punta l’attenzione sul fatto che “l’avvocato Piero Amara e Attilio Toscano”, come difensori dell’imprenditore Rita Frontino, denunciarono l’ingegnere comunale Natale Borgione, che pubblicamente si opponeva al progetto, perché avrebbe “premuto nei loro confronti per far nominare un suo tecnico di fiducia come direttore dei lavori”. Dopo la denuncia scattò la custodia cautelare per Borgione, poi annullata perché, secondo Ferrante, l’accusa della magistratura sarebbe stata “priva di fondamento” e il Tribunale del Riesame avrebbe delineato una “ipotesi di corruzione diametralmente opposta a quella configurata dai Frontino”. “Anche in questo caso - replica Amara – si tratta di falsità e insinuazioni. Innanzitutto io non difendo la denunciante Frontino, ma la stessa è assistita dai miei colleghi Calafiore e Fiaccavento. Io sono intervenuto soltanto in alcuni procedimenti amministrativi e non in quello penale. Aggiungo anche che non è vero che l’accusa era ‘priva di fondamento’: il Tribunale del Riesame ha qualificato i fatti come istigazione alla corruzione, reato che non prevede la custodia cautelare. Per Borgione è stato chiesto il rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è stata fissata per il 20 aprile 2012”. Partendo dalla società Gida srl, Ferrante sottolinea che “il procuratore Toscano si era già occupato di altre vicende che interessavano direttamente l’avvocato Amara: il caso dell’ispezione di villa Corallo ad Augusta e la denuncia presentata contro il cugino dell’avvocato Piero Amara, Pietro, per infedele patrocinio”. “Ferrante - insiste Amara – dimentica di comunicare gli esiti di quei procedimenti. Il processo di villa Corallo rimase nelle mani del pm Maurizio Musco soltanto per poche ore. Musco decise poi di astenersi, e così divenne titolare il pm Giuseppe Toscano, che chiese la condanna per il mio assistito e l’assoluzione del poliziotto che avevamo denunciato. E il mio assistito è stato condannato. Il processo di mio cugino Pietro è rimasto sotto la titolarità del dottor Toscano solo nella fase iniziale perché lo stesso è stato trasferito a Catania. Divenne titolare il pm Andrea Norzi che chiese l’archiviazione per evidente infondatezza della notizia di reato e l’archiviazione venne accolta dal Gip di Siracusa”.

I rapporti Musco-Amara

Ma non c’è solo Toscano nel mirino di Ferrante. Secondo il parlamentare del Pd, Claudio Torrisi, figlio della terza moglie di Ugo Rossi, è stato “consulente” del pm Maurizio Musco. Sul quale aggiunge un altro particolare: secondo l’interrogazione, infatti, Musco e la sorella Pasqua sarebbero soci della Panama srl, amministrata da Sebastiano Miano, che a sua volta è un ex praticante avvocato dello studio di Amara. “La Panama srl – scrive Ferrante – ha chiesto al Comune di Augusta l’autorizzazione alla costruzione di un impianto sul terreno di proprietà di un’altra società, la Geostudi srl, di proprietà di Piero e Serafina Amara, ma amministrata da Roberto Formica”. “Anche questo è un grande bluff - replica Amara - il contratto che la Panama aveva stipulato con la Geostudi per la locazione del terreno sul quale costruire un impianto fotovoltaico è stato risolto prima dell’interrogazione perché non ottenne l’autorizzazione alla concessione Enel. Musco in questa vicenda è stato penalizzato perché ha pagato anticipatamente il primo semestre di locazione e poi l’Enel ha bloccato tutto”.

Diritto e potere

Siracusa è culla del potere e del diritto tanto che insigni giuristi, magistrati, accademici e numerosi avvocati fanno parte del comitato scientifico dell’Osservatorio Permanente sulla Criminalità Organizzata, organo di consulenza della presidenza della Regione e degli Enti locali territoriali, istituito come “strumento di garanzia e di trasparenza nella gestione dei fondi pubblici”. Presidente del Comitato Scientifico è Giovanni Tinebra, procuratore generale di Catania, tra i componenti del Comitato c’è l’avvocato Piero Amara, che insieme al pm Maurizio Musco e ad altri avvocati nel 2009 ha organizzato il convegno “La tutela penale dell’ambiente”. Amara e Musco fanno anche parte del comitato scientifico del Centro Siciliano di Studi sulla Giustizia, fondazione costituita a Siracusa nel 2006 che vede nel proprio comitato scientifico i massimi esponenti della magistratura italiana e del mondo accademico, ma anche gli avvocati dei principali fori del Sud Italia e non solo. Nel 2008 il pm e l’avvocato, in seguito a una denuncia anonima che segnalava “frequentazioni” tra i due, sono stati intercettati durante l’organizzazione di un convegno. “Nel corso della conversazione intercorsa tra l’avv. Amara e il dott. Musco - scrivono i carabinieri - gli interlocutori discutono di strutturare un convegno, dopo di che decidono di incontrarsi”. Il 25 ottobre 2008 Musco invia un sms ad Amara con scritto: “Ma quando ci vediamo per organizzare il convegno di febbraio? Eventualmente insieme al prof. Mangione. Io stasera sono libero, fammi sapere”. E ancora, si legge: “L’Avv. Amara parla con il dott. Musco in merito alla redazione di programma da stilare. Durante il colloquio telefonico i due decidono di vedersi più tardi”. Su queste basi la procura di Catania aveva chiesto l’archiviazione ritenendo che “tali rapporti, in assenza di ulteriori elementi da cui ricavare eventuali condotte illecite del dott. Musco finalizzate ad agevolare l’Amara, non assumono rilevanza penale”. “Il dottor Musco - precisa Amara – ha curato 8 procedimenti penali cui io potevo essere direttamente o indirettamente interessato. Questi procedimenti penali sono stati definiti con 6 richieste di rinvio a giudizio per i miei assistiti e due astensioni. Non spetta a me difendere Musco, ma posso dirvi che sino al 2008 era considerato un eroe, poi ha iniziato a occuparsi di alcuni reati ambientali di importanti colossi di Augusta ed è finito al centro della macchina del fango”.

TUTTE LE SOCIETÀ E GLI UOMINI DELL’AVV. AMARA PRECISE DOMANDE CHE ESIGONO RISPOSTE. Le relazioni pericolose nella Procura di Siracusa. Franco Oddo e Marina De Michele su La Civetta di Minerva Anno III/n.13 - Venerdì, 2 Dicembre 2011. Nervosismo al Palazzo di Giustizia, convocazioni degli organismi rappresentativi di magistrati e avvocati, discussioni nelle redazioni dei giornali, ai vertici, riunioni presso le sedi dei partiti e delle associazioni cittadine, capannelli agli incroci delle strade e nei bar, ovunque aria di cospirazione. Ma tutto sotto traccia, in maniera carsica, senza fare troppo rumore, aspettando. È questo, al momento, l’effetto degli articoli che, settimana dopo settimana, dal 12 novembre scorso, pubblica il settimanale catanese Magma su vicende che chiamano in causa alcuni componenti della Procura di Siracusa, ma nessuno ha ancora dato risposte chiare alle inevitabili domande. Solo sofismi bizantini, formule pilatesche, evanescenti informazioni. Ma sgombrare il campo dalle nebbie è un obbligo per molti, certamente per quelli che nelle istituzioni, negli organismi di tutela e controllo, ai posti di regia della vita cittadina, occupano le posizioni più alte, hanno la responsabilità delle funzioni cui assolvono. Cosa dice l’Associazione nazionale magistrati in genere così pronta a prendere posizioni ”forti” sull’indipendenza e la terzietà dei magistrati, sulla loro necessaria autorevolezza, sull’imprescindibile esigenza non solo di essere ma anche di apparire magistrati? Quali passi intende compiere l’ordine degli avvocati? Quali iniziative pensa di assumere il procuratore Rossi per restituire all’ufficio che coordina piena credibilità? Quali indagini sono state avviate dagli organi inquirenti? Pagg. 9-13 (Oddo - De Michele)

Preoccupanti la nomina del nuovo amministratore delegato di Sai 8 e le mire su Sogeas.  Il Procuratore Rossi definisca al più presto la posizione di Bono per riportare trasparenza nella gestione dell’ATO idrico. FRANCO ODDO La Civetta di Minerva Anno III/n.13 - Venerdì, 2 Dicembre 2011.

Il settimanale catanese Magma ha dedicato due servizi, nei numeri del 19 e del 26 novembre, su presunte anomalie processuali ed investigative nascenti da un fitto rapporto personale e professionale tra il sostituto procuratore di Siracusa dott. Maurizio Musco e l’avv. Piero Amara. In essi si parla di un esposto col quale si investe il Consiglio Superiore della Magistratura e altri organismi, nel quale sono evidenziati alcuni strani comportamenti di Musco e Amara in talune vicende che si sono verificate nel Siracusano. Anche se il settimanale Magma non è (per il momento) diffuso in questa provincia, le inchieste hanno suscitato curiosità e meraviglia anche perchè negli ultimi mesi il Procuratore Capo di Siracusa, dottor Ugo Rossi, ha più volte espresso la volontà e l’impegno del suo ufficio, compresi i vari sostituti procuratori, a perseguire i possibili reati che maturano nel sottobosco dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, affermando anche di non voler avere alcun riguardo nei confronti dei potenti di turno. Comprendiamo facilmente il possibile disagio del Procuratore Capo nel leggere questi articoli, tanto da essere indotto a indire una conferenza stampa nella quale ha parlato di “attacco mediatico alla Procura”, quasi a voler dire che queste insinuazioni sono il frutto dell’atteggiamento rigido e intransigente degli uffici nel perseguire i vari reati, seppure dopo approfondite indagini. Per questo l’attività della Procura di Siracusa ha avuto larga eco nell’opinione pubblica, disorientata rispetto al malcostume della vita pubblica e privata, che ha apprezzato e condiviso il dichiarato orientamento degli uffici giudiziari di promuovere il massimo della legalità. E grande attenzione si è avuta per gli interventi della Procura riguardanti l’avviso di garanzia al Presidente dell’Ato idrico on. Nicola Bono, il sequestro del cantiere della Balza Akradina, la concessione negata dall’ing. Borgione per il centro commerciale dell’Open Land il quale è stato sottoposto a provvedimenti cautelari annullati poi dal Tribunale delle libertà di Catania. Dopo le inchieste del settimanale Magma, obiettivamente sorgono delle perplessità quando si apprende che Piero Amara, amico intimo del sostituto procuratore Musco, è avvocato di parte di tali procedimenti. Sapere che l’avv. Amara è il legale di Sai 8 induce ad alcune domande, specie se sono confermati – e da quanto scriviamo in altro articolo non ci pare sussistano dubbi – rapporti così stretti tra il legale dell’azienda e il giudice indagante. In particolare, le perplessità nascono dal fatto che il Presidente dell’Ato idrico, on. Nicola Bono, dopo avere intimato alla Sai 8 di rispettare, entro 30 giorni, i vincoli dell’art. 7 del contratto di affidamento della gestione dello stesso Ato, pena la recessione del contratto, è stato raggiunto da un avviso di garanzia col quale gli si comunicava di essere indagato per una ipotesi di reato di concussione. Un avviso che ha indotto il Presidente Bono a non esercitare più il suo mandato temendo di poter essere vittima di altro provvedimento giudiziario dal momento che, nella sua qualità di Presidente, avrebbe potuto reiterare il reato per cui era indagato o avrebbe potuto inquinare le prove. La rinuncia di Bono alla presidenza dell’Ato ha aperto la strada al Presidente della Regione per il commissariamento prima del Consiglio di amministrazione dello stesso Ato e poi anche della presidenza dell’assemblea dei sindaci. Ora i due decreti assessoriali sono stati “sospesi” dal Tar di Catania a seguito dei ricorsi presentati da qualche sindaco, complicando ulteriormente la già difficile gestione dell’Ato idrico. E si tratta di una gestione che suscita profondi malumori nell’opinione pubblica, bene interpretati dai sindaci che non hanno ancora consegnato gli impianti, anche a seguito della sentenza del CGA di Palermo che ha annullato la delibera di affidamento della gestione, mentre si è in attesa di una ulteriore sentenza del CGA relativamente alla ottemperanza della sentenza precedente. E’ bene precisare che il CGA, nella sentenza, di annullamento della delibera di affidamento, ha riscontrato aspetti giudiziari rilevanti che – a suo dire – interessavano non più il CGA ma “altre autorità giudiziarie”, implicitamente richiamando la competenza della Procura della Repubblica per accertare eventuali responsabilità della “aperta violazione di ogni regola di evidenza pubblica”. Ad oggi, a tale riguardo, non si hanno notizie di eventuali ulteriori indagini della Procura, anche se non si può escludere che esse siano in corso coperte dal segreto istruttorio. A dieci mesi dall’avviso di garanzia notificato al Presidente Bono, dobbiamo ritenere che le indagini a suo carico non sono state ultimate e che, di conseguenza, l’istruttoria della Procura non ha condotto né all’archiviazione né alla richiesta di rinvio a giudizio. Questa situazione ha lasciato la gestione dell’Ato idrico nel caos, con grave compromissione degli interessi della popolazione e degli Enti locali che richiedono la definizione delle varie pendenze giudiziarie e amministrative. Ciò è urgente e indispensabile dal momento che l’attuale situazione pone in stato di assoluta debolezza l’assemblea dei sindaci e rafforza, involontariamente, gli interessi di Sai 8 tutelati e difesi dall’avv. Piero Amara, il quale, subito dopo la sentenza del CGA, ebbe a precisare pubblicamente che essa non metteva in discussione la validità dell’affidamento della gestione. Per superare la preoccupazione, sicuramente infondata, che le lungaggini dell’indagine giudiziaria a carico del Presidente Bono finiscano per favorire la Sai 8 difesa dall’avv. Amara sarebbe quanto mai opportuno definire le indagini giudiziarie per ridare chiarezza e trasparenza alla gestione dell’ATO idrico, specie dopo la sospensiva concessa dal Tar per il commissariamento della presidenza del CdA. Ancor più v’è urgenza perchè le difficoltà finanziarie della Sogeas, non affrontate adeguatamente dal Comune di Siracusa, fanno correre il rischio di trasferire tutto nelle mani di Saccecav, socio di maggioranza di Sai 8, determinando la maggioranza assoluta della parte privata. Peraltro, la ventilata nomina di un nuovo Consiglio d’Amministrazione da parte di Saccecav e la nomina dell’attuale Direttore Tecnico ing. Torrisi, insediato quasi in coincidenza con la notifica dell’avviso di garanzia a Bono, ad amministratore delegato di Sai 8 evidenzia una sicumera da parte di chi pensa di avere tutto sotto controllo e di potere esautorare il ruolo della politica e degli enti locali. Per tutto questo auspichiamo che il Procuratore Capo dott. Rossi, stimato e apprezzato da tutti gli ambienti siracusani, contribuisca a diradare le ombre sulla Procura definendo, nei tempi più brevi possibili, l’indagine a carico del Presidente Bono, archiviando o richiedendo il rinvio a giudizio dello stesso per poter ripristinare la normale amministrazione dell’ATO idrico alla luce della sentenza del CGA già emessa o di quella di ottemperanza che dovrebbe essere vicinissima.

A Siracusa ne parlano tutti, nei bar e negli uffici, ma chi dovrebbe intervenire tace Inchiesta “Magma”, il popolo ha diritto di sapere. Marina De Michele su La Civetta di Minerva Anno III/n.13 - Venerdì, 2 Dicembre 2011.

 Nervosismo al Palazzo di Giustizia, convocazioni degli organismi rappresentativi di magistrati e avvocati, discussioni nelle redazioni dei giornali, ai vertici, riunioni presso le sedi dei partiti e delle associazioni cittadine, capannelli agli incroci delle strade e nei bar, ovunque aria di cospirazione. Ma tutto sotto traccia, in maniera carsica, senza fare troppo rumore, aspettando. È questo, al momento, l’effetto degli articoli che, settimana dopo settimana, dal 12 novembre scorso, pubblica il settimanale catanese Magma su vicende che chiamano in causa alcuni componenti della Procura di Siracusa, ma nessuno ha ancora dato risposte chiare alle inevitabili domande. Solo sofismi bizantini, formule pilatesche, evanescenti informazioni. Ma sgombrare il campo dalle nebbie è un obbligo per molti, certamente per quelli che nelle istituzioni, negli organismi di tutela e controllo, ai posti di regia della vita cittadina, occupano le posizioni più alte, hanno la responsabilità delle funzioni cui assolvono. Cosa dice l’Associazione nazionale magistrati in genere così pronta a prendere posizioni ”forti” sull’indipendenza e la terzietà dei magistrati, sulla loro necessaria autorevolezza, sull’imprescindibile esigenza non solo di essere ma anche di apparire magistrati? Quali passi intende compiere l’ordine degli avvocati? Quali iniziative pensa di assumere il procuratore Rossi per restituire all’ufficio che coordina piena credibilità? Quali indagini sono state avviate dagli organi inquirenti? Cosa dicono i deputati nazionali e regionali, i direttivi dei partiti, le associazioni di categoria degli imprenditori come dei lavoratori, i presidenti dei comitati cittadini? Quale linea intendono scegliere i direttori delle più importanti testate giornalistiche locali di fronte a notizie per troppo tempo ignorate o declassate a semplice pettegolezzo e ad avventate illazioni? La città ha il diritto di sapere, di conoscere la verità perché se cade il baluardo della giustizia si resta inermi di fronte ai poteri forti, a quelli che si ergono a sistema e sono in grado di inquinare ogni livello del vivere sociale. Se è vero, come si dice, che si tratta di fatti noti, addirittura in parte datati, documentati, se veramente si possono individuare collegamenti e connessioni tra vicende apparentemente così lontane tra loro, perché non si è intervenuti subito, lasciando ancora una volta che fossero solo dei giornalisti, per di più di Catania, ad assumere il ruolo di investigatori e di tutori della legalità? Fino a che punto risponde al vero che si sia fatto un uso “disinvolto” della giustizia? Le vicende raccontate da Magma, se vere, aprono scenari spaventosi. La “vendetta” nei confronti sia dei poliziotti colpevoli di aver operato il blitz a villa Corallo, luogo evidentemente off limits, che del vice questore Pasquale Alongi, causa prima del coinvolgimento dell’avvocato Piero Amara nel processo per rivelazione d’atti d’ufficio e accesso al sistema informatico della procura etnea; le azioni strategicamente congegnate di rimozione di funzionari e tecnici comunali dai propri uffici, o di allontanamento dalle attività in essere, per non avere intralci nella costruzione di un capannone per un supermercato ad Augusta (il caso del geometra Riera), o di un centro commerciale a Siracusa (i casi dell’ingegnere Borgione, il geometra Gallo e l’ingegnere Trigilia) come perché si bloccasse la realizzazione della piattaforma Oikothen (vicenda che vede coinvolto il sindaco Massimo Carrubba e l’ingegnere capo del comune di Augusta), e altre situazioni similari, avrebbero quale comune denominatore il restringimento di uno dei primi inalienabili diritti umani: la libertà. In tutti questi casi infatti gli interessati sarebbero stati colpiti da provvedimenti di custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, o in alternativa accusati di reati gravemente lesivi della dignità personale, per essere messi fuori gioco. Non è neanche possibile immaginare che veramente sia così facile prendersi gioco della vita di persone “innocenti”, che si possano distruggere carriere, procurare danni economici e soprattutto ledere l’integrità oltre che psichica anche fisica delle persone solo perché di intralcio a qualche affare. Quante volte il tribunale del riesame di Catania ha annullato sanzioni ritenute eccessive o non opportunamente calibrate? Quante volte il tribunale amministrativo è intervenuto per dare ragione ai funzionari comunali che avevano tentato di contrastare procedimenti amministrativi ritenuti illegittimi? Quante volte la minacciata pretesa di risarcimenti milionari, una strategia intimidatoria che può diventare prassi nella vita amministrativa di una città, ha condizionato pesantemente l’operato di chi eseguiva con coscienza il proprio dovere, per altro senza che gli enti di appartenenza offrissero adeguata tutela? È a queste domande che bisogna rispondere. Qualsiasi cosa si affermi, prima di aver fatto chiarezza su tutto questo, sarà solo un tentativo di eludere l’essenza del problema. Marina De Michele

Ricostruiamo l’intreccio delle società che si rifanno all’avvocato di Augusta, nome per nome Le relazioni pericolose della Procura della Repubblica di Siracusa. Nella galassia di srl dell’avv. Amara i figli di giudici che contano. FRANCO ODDO su La Civetta di Minerva Anno III/n.13 - Venerdì, 2 Dicembre 2011.

“Ma allora questo qui quanti ne ha soldi?”, sbottava Massimo Carrubba il 9 gennaio di due anni fa senza sapere di essere intercettato per la vicenda Oikothen. Il sindaco di Augusta si riferiva a Piero Amara, avvocato, figlio di quel Pippo che era stato suo predecessore nello scranno di primo cittadino e poi presidente del Consorzio Asi, notoriamente possidente. Non aveva ancora capito, Carrubba, che il rampollo di Pippo, a quei tempi non ancora quarantenne, aveva superato di gran lunga il genitore formando una rete di piccole società nelle quali egli stesso o la sorella Serafina o la moglie S.ebastiana B.ona o la cognata Antonia e persino la suocera Lucia Platania “governavano” almeno 20 società con altri rampolli figli di magistrati in carica o addirittura con gli stessi giudici dei tribunali di Siracusa e Catania, intessendo una fitta maglia di relazioni d’affari con alcuni colossi dell’economia locale e, addirittura, con un ministro. Non ci sarebbe nulla di male ma, a spulciare tra queste società, i nomi riconducibili alla magistratura s’intrecciano a tal punto con alcune vicende locali (Mare rosso, Open Land, Sai 8, Eni eccetera) che non si capisce come mai così tanti “figli d’arte”, come sono stati chiamati da un giornalista catanese, abbiano trovato il loro mentore proprio nel legale iscritto all’Ordine degli avvocati di Catania ma legatissimo al deputato nazionale Pippo Gianni e, da legale, fortemente inserito nei potentati economici siracusani. Una composizione societaria delle srl che, per gli eventi che hanno segnato la carriera dell’avv. Amara, recentemente condannato a un anno di reclusione per avere sgraffignato, in combutta con un cancelliere, dati coperti dal segreto istruttorio nel registro informatico della Procura, e per il ruolo dello stesso in vicende delicatissime accadute e che accadono nel nostro territorio, hanno gettato su alcuni magistrati della Procura di Siracusa ombre inquietanti che hanno indotto il procuratore capo dottor Ugo Rossi a dichiarazione a chiarimento, che in verità finora non hanno chiarito nulla. Ma vediamo di districarci anche noi nel labirinto di queste società. Anzitutto, però, è bene sapere che l’avvocato Piero Amara si appoggia, così come risulta dagli elenchi telefonici e dagli albi professionali, presso tre studi: uno in Il sostituto procuratore di Siracusa Maurizio Musco Siracusa (via San Sebastiano), uno in Augusta (via Megara 41) e uno in Catania (piazza Verga). Quest’ultimo studio, fino a qualche mese addietro, era in corso Italia 302. Altra cosa da sapere è che la sorella della moglie di Amara è o è stata fidanzata del sostituto procuratore della Repubblica di Siracusa dottor Maurizio Musco, uno dei protagonisti di questa storia. Cominciamo dalla Gi.da. srl. Con sede presso lo studio di Augusta dell’avv. Amara in via Megara 41, è una società che opera nel campo dello smaltimento dei rifiuti e che ha come amministratore delegato tale Carlo Lena e come soci S.ebastiana B.ona, Attilio Luigi Maria Toscano ed Edmondo Rossi. Carlo Lena è un nome ricorrente in quanto lo troviamo presente in altre sei società riconducibili agli Amara, Sebastana Bona, come dicevamo, è moglie di Piero Amara, Attilio Luigi Maria Toscano è figlio del dott. Giuseppe Toscano (già procuratore aggiunto alla procura di Siracusa, oggi aggiunto presso la DDA catanese, dove si occupa del Siracusano) e Edmondo Rossi è figlio del dott. Ugo Rossi (procuratore di Siracusa, già aggiunto presso la DDA catanese per il Siracusano). Attilio Toscano, oltre ad essere socio della Gi.da. srl, è un avvocato che in molti procedimenti giudiziari affianca l’avv. Amara. Basti ricordare le vicende di Siracusa che riguardano Open Land e la SAI 8, di cui il nostro giornale si è occupato più volte. Riassumiamo brevemente la prima. L’ing. Natale Borgione, dirigente dell’ufficio urbanistica del Comune, valendosi dei diversi vincoli archeologici e paesaggistici che gravano sulla zona, si era fermamente opposto al progetto dei Frontino di trasformare la ex Fiera del Sud in un grande centro commerciale. Senonchè, a un certo punto, gli imprenditori muovevano le indagini della magistratura accusando il dirigente comunale di avere premuto nei loro confronti per far nominare un suo tecnico di fiducia come direttore dei lavori. Natale Borgione finiva agli arresti domiciliari e il Comune dimissionava l’ingegnere sostituendolo con un altro dirigente, il quale revocava il precedente diniego e consentiva ai Frontino di riprendere i lavori, che sono poi proceduti a ritmo spedito. In più, la società dell’Open Land aveva chiesto al Comune e all’ing. Borgione decine di milioni per i presunti danni subiti. Ma l’accusa verso il funzionario si rivelò assai debole e infatti i giudici del Riesame non solo ne ordinarono la scarcerazione ma delinearono una ipotesi di corruzione diametralmente opposta a quella configurata dai Frontino. Le indagini e la conseguente richiesta cautelare (poi annullata) furono condotte dal dottor Musco e dal procuratore Rossi. Gli avvocati che hanno curato gli aspetti civili, penali e amministrativi, sono sostanzialmente tre: l’avv. Piero Amara, l’avv. Attilio Luigi Maria Toscano e l’avv. Giuseppe Calafiore. Anche in questo procedimento i due amici Musco e Amara si sono trovati su sponde molto vicine (accusa e parte offesa). Lo stesso avv. Calafiore è socio della SF srl (che opera nel campo delle gestioni immobiliari, acquisto e noleggio di attrezzature, macchinari e animali) unitamente alla Open Land srl. e alla Gefin Roma srl. Egli è socio anche nella P&G Corporated srl, con sede in Augusta nello studio di Amara in via Megara 41, socio anch’egli, alla di lui moglie S.ebastiana B.ona e a Diego Calafiore (fratello dell’avv. Giuseppe). Una società, insomma, per pochi parenti. Il procuratore Toscano si era già occupato di altre vicende che interessavano direttamente l’avvocato Amara: il caso dell’ispezione di villa Corallo ad Augusta di cui i brillanti giornalisti del settimanale Magma hanno diffusamente parlato e la denuncia presentata contro il cugino dell’avv. Piero Amara, che di nome fa Pietro, per infedele patrocinio. A margine dell’indagine Mare Rosso, fu presentata, peraltro, una denuncia (procedimento penale nr.5898/08) nella quale si lamentava il mancato rispetto degli accordi con i dipendenti dell’Eni (società difesa dall’avv. Piero Amara) che avevano percepito del denaro presumibilmente per patteggiare la pena. Il procuratore Toscano accertò che il denaro arrivato ad alcuni dipendenti era transitato dal conto della Gida srl (!), società riferibile agli Amara, e che gli accordi erano stati conclusi con l’avv. Pietro Amara di cui sopra. Oggi questa società ha aperto le porte, come detto, al figlio dello stesso procuratore aggiunto Giuseppe Toscano e al figlio del procuratore Rossi. Il caso Open Land ha molte similarità con quanto accaduto a Sai 8. Com’è noto, l’on. Nicola Bono, ancor prima di candidarsi alla presidenza della Provincia, aveva manifestato pubblicamente il suo dissenso sulla gestione del servizio idrico provinciale da parte di Sai 8, soprattutto per la mancata ottemperanza al capitolato d’appalto che obbligava la società a dimostrare la piena disponibilità delle risorse finanziarie per gli investimenti entro sei mesi dall’aggiudicazione. Diventato Presidente della Provincia e perciò anche presidente dell’assemblea dei soci, più volte Bono sollecitò Sai 8 al rispetto del contratto. Fino a quando l’avvocato Piero Amara inviò alla Sai 8 una diffida formale con un termine perentorio entro il quale avrebbe dovuto produrre la relativa certificazione, pena il recesso dell’affidamento. Ma, proprio nell’avvicinarsi della scadenza del termine, il presidente Bono venne iscritto nel registro degli indagati in quanto i giudici avevano intercettato due imprenditori che parlavano fra di loro, uno dei quali rivelava all’altro che il Presidente aveva brigato per fare assumere un suo uomo nella dirigenza societaria. In conseguenza di ciò Bono ha dovuto dimettersi da presidente dell’assemblea, cedendo il passo poi a un commissario regionale, la Sai 8 ha superato lo scoglio dell’ultimatum continuando a gestire tranquillamente il servizio idrico nonostante la posizione di 12 sindaci che non hanno voluto consegnare gli impianti e nonostante una durissima sentenza del Cga. Ebbene, gli avvocati che si occupano della vicenda sono sempre gli stessi: Piero Amara, Giuseppe Calafiore e Attilio Luigi Maria Toscano. Ma qui c’è una novità e un altro figlio d’arte: l’ing. Torrisi, che è il figlio dell’attuale terza moglie del procuratore di Siracusa Ugo Rossi. E’ sicuramente una coincidenza che l’ing. Torrisi sia stato nominato direttore tecnico della Sai 8 poco dopo la nomina del padre a procuratore di Siracusa. Com’è sicuramente una coincidenza che lo stesso ing. Torrisi è legato da rapporti di fiducia col sostituto procuratore Maurizio Musco in quanto è stato nominato come consulente del pm in alcuni procedimenti penali relativi a reati ambientali. Dunque, l’ing. Torrisi è nominato consulente dalla Procura diretta dal marito della madre, procura che provvederà a liquidare le somme pubbliche spettanti per la consulenza. Altra circostanza degna di nota è quella relativa a un nuovo procedimento penale che da poco è stato incardinato innanzi ai sostituti Bisogni e Boschetto per lo sversamento in mare dal depuratore gestito dalla SAI 8 di acque inquinanti nel porto di Siracusa. Ma cosa succederà quando i pm siracusani Bisogni e Boschetto si accorgeranno che il procedimento per lo sversamento in mare del depuratore gestito dalla SAI 8 ha come responsabile tecnico, e quindi possibile indagato, il figliastro del procuratore Ugo Rossi? 

Una fitta rete di società che in vari modi si collegano e s’intrecciano attorno a una sola famiglia Documentati i rapporti di amicizia e di affari di Piero Amara con Musco, Rossi, Toscano, Campisi, Canonico, Calafiore... FRANCO ODDO su La Civetta di Minerva Anno III/n.13 - Venerdì, 2 Dicembre 2011.

Ricapitolando, finora i coinvolti nella ragnatela di rapporti societari sono Piero Amara, S.ebastiana B.ona, Giuseppe Calafiore, Diego Calafiore, Attilio Toscano (e quindi il padre dr. Giuseppe), Edmondo Rossi e Salvatore Torrisi (e quindi il padre dell’uno e patrigno dell’altro dr. Ugo). Ma andiamo oltre. L’avv. Amara ha avuto in studio, fino a pochi mesi addietro a Catania in corso Italia, un collega praticante che oggi ha studio nel medesimo posto e le medesime utenze telefoniche dove qualche mese addietro si trovava lo studio che fu di Amara: si tratta del dott. Sebastiano Miano. Questi è amministratore di una società, la Panama srl con sede in Priolo. Nella visura camerale della società, i soci sono due, Maurizio Musco e Pasqua Musco: il primo è il sostituto procuratore della Repubblica di Siracusa, la seconda è la sorella. “La società Panama srl. - come scrive Magma - ha sede allo stesso indirizzo di Priolo dove abita il sostituto procuratore Musco, ma che vede il magistrato tra i soci”. Risultato finale è che amministratore della società Panama è un praticante (o ex praticante, poco cambia) dell’avv. Amara e che i soci sono il dott. Musco e la sorella. Ma andando a scavare qui e là, scopriamo che l’altro fratello del magistrato, Carmelo Musco, è socio della Novalux srl insieme ad Angela Formica. In comune la Panama e la Novalux non hanno solo il rapporto di parentela ma anche due particolari: l’indirizzo di posta certificata è il medesimo e medesima è anche la ragione sociale, costruzione di impianti fotovoltaici. E qui si è fatta anche un’altra scoperta. “La Panama srl - scrive ancora Magma - ha chiesto al comune di Augusta l’autorizzazione alla costruzione di un impianto sul terreno di proprietà di un’altra società, la Geostudi srl” (ndr: con sede, guarda caso, ad Augusta in via Megara 41). Chi saranno mai i soci di questa società? Gente sconosciuta: Piero Amara, Serafina Amara e, amministratore, tale Roberto Formica. Ricapitolando, il dr. Musco è socio, insieme alla sorella, della società Panama srl che ha come amministratore Sebastiano Miano, praticante dell’avv. Amara. La società del dr. Musco ha stipulato un contratto di affitto sul terreno della Geostudi srl di proprietà di Piero Amara e di Serafina Amara. L’amministratore Roberto Formica, inoltre, nei rapporti dei carabinieri che effettuarono le indagini nel procedimento “Morsa”, viene definito “ingegnere legato ad Amara Giuseppe”. Altra novità è che la Panama srl. (è sempre Magma a scriverlo) “per i lavori di costruzione dell’impianto fotovoltaico ha dato appalto dei lavori alla Coemi, ditta riconducibile immediatamente alla famiglia dell’ex ministro Stefania Prestigiacomo”. Ma non era lo stesso dr. Musco che aveva effettuato le indagini sul padre dell’ex ministro? E i figli d’arte non finiscono qui. Ce n’è un altro legato ad Amara, magari perché hanno le utenze telefoniche in comune sull’elenco telefonico a Siracusa: è l’avv. Andrea Campisi. Un nome nuovo? Macchè, ancora un figlio di magistrato essendo egli il rampollo dell’ex procuratore capo di Siracusa Roberto Campisi. Così, l’avv. Amara non è solo “vicino” al figlio dell’attuale procuratore della repubblica di Siracusa, ma anche a quello che c’era prima. Fra l’altro, da alcune intercettazioni effettuate a margine dell’indagine “Morsa 2“ è emerso che il procuratore Campisi aveva stretti rapporti di amicizia con l’avv. Amara. Quindi il procuratore Campisi era amico dell’avv. Piero Amara e il figlio Andrea ha studio in Siracusa con utenze telefoniche intestate anche ad Amara. Non è da trascurare che nell’indagine condotta a Messina contro il dott. Musco è emerso che tra l’Amara e il Musco e tra Amara e il dott. Campisi ci fosse una stretta amicizia e che Amara si vantasse pubblicamente di tale rapporto, amicizia che si sarebbe spinta fino all’organizzazione di viaggi insieme. Altra circostanza emersa dalle indagini è che il dott. Musco, come abbiamo già detto, aveva una relazione sentimentale con la sorella della moglie di Amara. Cosa lega ancora Musco e Amara? Oltre alla relazione con la cognata, alla vicenda Open Land, alla vicenda del capannone di Augusta, all’operazione Mare Rosso, ce ne sono molte altre, ma basta citarne una per tutte, quella che gli appassionati di calcio certamente ricordano. Si tratta del caso del calcio scommesse che portò ad iscrivere nel registro degli indagati i giocatori del Catania Falsini e Pantanelli. I due intrapresero una vertenza civile per mobbing nei confronti del Catania Calcio, che fu soccombente. Quasi contestualmente a Siracusa l’immancabile dr. Musco iscrisse nel registro degli indagati i due giocatori per reati connessi al calcio scommesse, e ancora non è chiaro come mai tale iscrizione avvenne nella nostra procura. Così la dirigenza del Catania Calcio fu ascoltata dal dr. Musco. Poi, quasi contestualmente al componimento della vicenda civile, il fascicolo fu trasferito a Catania per competenza territoriale dove il pm Puleio provvide a richiedere e ottenere l’archiviazione del procedimento penale. Il particolare che dimenticavamo di citare è che l’avv. Piero Amara è legale del Calcio Catania e difende il presidente Pulvirenti in tutte le vertenze penalistiche Ci sono altre società? Sicuramente sì e andiamo a campione altrimenti non finiremmo più. Prendiamo, ad esempio, la Dargiu Energy srl (progettazione e costruzione di impianti per la raccolta di rifiuti), anch’essa con sede in Augusta in via Megara 41, che ha come socio Ivan Canonico (figlio dell’ex comandante provinciale della guardia di Finanza di Siracusa). Altri soci sono S.ebastiana B.ona e Serafina Amara con amministratore l’immancabile fedelissino Carlo Lena. E poi la C.M.S. Service srl (gestione uffici destinati alla consulenza legale) con sede a Palermo. Questa società, oltre ad avere come socio l’avv. Amara, vede presente anche l’avvocato catanese Angelo Mangione. I due sono molto amici e si conoscono da quando frequentavano da praticanti lo studio dell’avv. Giovanni Grasso. Ora, oltre ad avere comuni interessi societari, hanno diversi clienti in comune tra cui il deputato regionale Mario Bonomo che, peraltro, difende strenuamente la legittimtà della gestione Sai 8. C’è poi la presenza societaria nella Salmeri srl (si occupa di lavori edili, marittimi eccetera) ancora una volta di S.ebastiana B.ona, moglie di Amara, insieme a Salmeri Rosario, Andrea e Sergio. La citiamo perché Rosario Salmeri è coinvolto come testimone nella vicenda Oikoten, di cui parleremo nel prossimo numero, ed è stato candidato sindaco, appoggiato da Pippo Amara, contro l’attuale primo cittadino di Augusta Massimo Carrubba. L’ultima notizia è che la Salmeri srl sta effettuando lavori per il campo fotovoltaico della società Gi.da. srl. Così siamo tornati all’inizio della nostra storia. Le società sono finite? No, ma forse ne parleremo un’altra volta. Difficile credere che vi sia in atto “un attacco mediatico” nei confronti della Procura della Repubblica di Siracusa. I colleghi di Magma, il periodico catanese che ha pubblicato tre articoli densi di fatti, hanno semplicemente svolto il loro lavoro di giornalisti. Che consiste nel porsi domande e cercare le risposte leggendo il più possibile le carte. Stupiscono semmai alcuni svenevoli salamelecchi letti a resoconto delle dichiarazioni del procuratore Rossi non consoni alla dignità del nostro mestiere. Franco Oddo   

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/14542 presentata da D'ANNA VINCENZO (POPOLO E TERRITORIO (NOI SUD-LIBERTA' ED AUTONOMIA, POPOLARI D'ITALIA DOMANI-PID, MOVIMENTO DI RESPONSABILITA' NAZIONALE-MRN, AZIONE POPOLARE, ALLEANZA DI CENTRO-ADC, LA DISCUSSIONE)) in data mercoledì 18 gennaio 2012

Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-14542 presentata da VINCENZO D'ANNA mercoledì 18 gennaio 2012, seduta n.572

D'ANNA. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: sono stati pubblicati articoli dai giornali La Civetta e Magma relativi ad una serie di atti e comportamenti che coinvolgerebbero l'avvocato Piero Amara, noto avvocato del Foro di Catania ed alcuni magistrati del distretto della corte d'appello di Catania tra i quali, il dottor Ugo Rossi, il dottor Maurizio Musco e il dottor Giuseppe Toscano; dalla lettura di notizie pubblicate da altri giornali locali, quali Il Diario, I fatti, Il Ponte e dalla consultazione della documentazione in possesso dell'interrogante, risulta che le notizie pubblicate dai giornali La Civetta e Magma siano assolutamente prive di fondamento e appaiono all'interrogante palesemente manipolate con intenti del tutto oscuri in quanto: a) non corrisponde al vero, come affermato negli articoli dei citati giornali che il dottor Maurizio Musco intrattiene rapporti di natura societaria con avvocati del Foro di Siracusa o del Foro di Catania. Risulta, piuttosto, che il dottor Maurizio Musco ha semplicemente stipulato un contratto di locazione con una società in cui uno dei due soci è l'avvocato Amara, senza intrattenere rapporti di impresa, societari affaristici con alcuno; b) i giornalisti nei citati articoli hanno taciuto che il contratto di locazione in questione era stato rescisso in data 28 ottobre 2011 prima ancora che cominciasse la campagna contro la procura di Siracusa. Appare evidente che si è discusso e si continua a discutere di un contratto di locazione non più in essere; c) i giornalisti negli articoli citati hanno taciuto che il dottor Musco ha costituito la società di cui si discute con la propria sorella al fine di realizzare, quale forma di investimento immobiliare, del resto come milioni di italiani, un impianto fotovoltaico; d) i giornalisti negli articoli citati hanno taciuto che un'impresa che realizza un impianto fotovoltaico, ha come unico interlocutore lo Stato senza che possano sussistere, in concreto, rapporti concorrenziali con chicchessia e che il CSM ha espressamente stabilito nella seduta del 6 maggio 2009, che i magistrati possono essere parte di società di capitali, purchè, come in questo caso, l'attività in concreto svolta dalla società non possa pregiudicare i connotati di indipendenza e trasparenza che qualificano l'azione della magistratura; e) i giornalisti nei citati articoli hanno riportato talune vicende giudiziarie in modo difforme dalla realtà; per ciò che concerne la vicenda Open Land, non è affatto vero che l'accusa contro tale ingegner Borgione, è caduta per effetto del provvedimento del giudice del riesame. Il tribunale del riesame, infatti, si è limitato ad affermare che i comportamenti dell'ingegner Borgione «potrebbero al più integrare la fattispecie incriminatrice di cui all'articolo 322, comma 3, del codice penale (istigazione alla corruzione) in relazione alla quale non è consentita l'emissione di misura cautelare». Si tratta evidentemente di una prospettazione per nulla diversa da quella della pubblica accusa; per ciò che concerne la vicenda Sai 8 spa, i citati giornali hanno affermato che «la Sai 8 spa ha continuato quindi a gestire il servizio idrico nonostante la posizione di 12 sindaci che non consegnarono gli impianti e la durissima sentenza del CGA (Consiglio di Giustizia Amministrativa); anche in questo caso gli avvocati che si occupano della vicenda sono Pietro Amara, Giuseppe Calafiore e Attilio, Luigi Maria Toscano»; il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Sicilia, smentendo le tesi sostenute dai citati giornali e citate nella interrogazione, ha dato pienamente ragione ai legali della Sai 8 spa, affermando che il contratto è pienamente valido ed efficace per tutta la sua durata; f) la circostanza che un fratello del magistrato dottor Musco abbia costituito a sua volta la società Novalux srl, è fatto assolutamente lecito e non si comprende in che modo possa gettare discredito nei confronti del dottor Musco; g) la partecipazione del signor Edo Rossi e del professor Attilio Toscano nella società Gida srl, è stata regolarmente comunicata alla camera di commercio e per quanto di conoscenza dell'interrogante non esiste alcuna norma penale, civile o di altra natura che impedisca la partecipazione di figli di magistrati a società di capitale; h) all'interno della società Gida, peraltro, non risulta essere socio l'avvocato Amara bensì sua moglie S.ebastiana B.ona che svolge, autonomamente dal marito l'attività di imprenditore, quindi, contrariamente a quanto affermato negli articoli dei citati giornali, non appare costituire notizia da interessare l'opinione pubblica; i) la circostanza che la famiglia dell'avvocato Piero Amara abbia costituito una serie di società di capitale, con capitale interamente intestato agli stessi famigliari, non appare costituire notizia tale da interessare l'opinione pubblica -: se intenda adottare tutte le azioni e i provvedimenti di propria competenza per assicurare l'imparzialità e l'indipendenza della magistratura siracusana che a giudizio dell'interrogante è oggetto di una palese campagna a carattere diffamatorio. (4-14542)