Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA MAFIOSITA’
SESTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia della mafia.
L'alfabeto delle mafie.
La Gogna.
Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.
Mafia: non è altro che una Tangentopoli.
In cerca di “Iddu”.
SECONDA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
E’ Stato la Mafia.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
QUARTA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa Nostra - Altare Maggiore.
La Stidda.
La ‘Ndrangheta.
La Mafia Lucana.
La Sacra Corona Unita.
La Mafia Foggiana.
Il Polpo: Salvatore Annacondia.
La Mafia Lucana.
La Camorra.
La Mafia Romana.
La Mafia abruzzese.
La Mafia Emiliano-Romagnola.
La Mafia Veneta.
La Mafia Milanese.
La Mafia Albanese.
La Mafia Russa-Ucraina.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
La Mafia Cinese.
QUINTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Antimafiosi.
Non era Mafia.
Il Caso Cavallari.
Il Caso Contrada.
Il Caso Lombardo.
Il Caso Cuffaro.
Il Caso Matacena.
Il Caso Roberto Rosso.
I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.
Il Business dello scioglimento dei Comuni.
Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.
Il Business del Proibizionismo.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
I tifosi.
Femmine ribelli.
Il Tesoro di Riina.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Caporalato.
Il Caporalato Agricolo.
Gli schiavi dei Parlamentari.
Gli schiavi del tessile.
Dagli ai Magistrati Onorari!
Il Caporalato dei giornalisti.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Usuropoli.
Aste Truccate.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Nimby lobbisti.
La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby dei Giornalisti.
La Lobby dell’Editoria.
Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
Fuga dall’avvocatura.
La Lobby dei Tassisti.
La Lobby dei Farmacisti.
La lobby dei cacciatori.
La Lobby dei balneari.
Le furbate delle Assicurazioni.
SETTIMA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Onoranze funebri: Il "racket delle salme.
Spettacolo mafioso.
La Mafia Green.
Le Curve degli Stadi.
L’Occupazione delle case.
Il Contrabbando.
La Cupola.
LA MAFIOSITA’
SESTA PARTE
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La Gogna Parentale e Territoriale.
Contro i pregiudizi per rendere "giustizia" a Mario Dodaro. MATTEO COSENZA su Il Quotidiano del Sud il 16 Dicembre 2022.
Ho avuto una grande fortuna. I miei editori, Antonella e Francesco Dodaro, sono persone per bene e non hanno mai interferito nel mio lavoro, il giornale lo hanno sempre letto il giorno dopo. D’altro canto, non sarebbe stato possibile il contrario perché ci saremmo salutati all’istante. Tra tante difficoltà imprenditoriali, con me hanno onorato il patto iniziale di assoluta autonomia.
Un incontro pubblico a Castrolibero per ripercorrere la storia di Mario Dodaro
La foto del loro papà – il sorriso di un uomo buono e onesto – mi è diventata familiare, e ho sempre pensato che nella loro attività ci sia stato e ci sia il valore aggiunto di una tragedia, l’assassinio del loro genitore, e della giustizia negata. Per sapere come vanno le cose in Calabria, non ho avuto bisogno di andare molto lontano».
Sono andato a rileggere l’editoriale con il quale, il 13 aprile 2014, mi accomiatai dal “Quotidiano della Calabria” sollecitato dal fatto che domenica prossima saranno quarant’anni da quando Mario Dodaro fu ucciso davanti casa. Chi lo ammazzò l’ha fatta franca e solo pochi giorni fa la figlia Antonella ha potuto scrivere che andava a dormire serena perché finalmente almeno una verità era stata riconosciuta: il papà è stato “una vittima della malavita organizzata”. Sinceramente un po’ poco anche perché dal comune sentire che ho potuto avvertire nei miei sette anni vissuti in Calabria questa era una verità acclarata benché i familiari aspettino ancora di sapere chi furono gli assassini.
Ma nell’attesa non sono stati inerti perché in un altro modo, pubblico e privato, hanno trasformato il bisogno di giustizia in un impegno civile e imprenditoriale. E per la mia parte, ma mi sento di parlare anche per il primo direttore Pantaleone Sergi, per il mio predecessore Ennio Simeone e per il mio successore Rocco Valenti, so che questo giornale è libero e pulito.
Antonella e Francesco Dodaro possono stare certi che il loro papà sarebbe fiero di loro e dell’impresa editoriale che, faticosamente e tra mille difficoltà e in un settore attraversato da una profonda crisi, tengono in piedi da tanti anni consentendo ai giornalisti di raccontare la loro terra di struggente bellezza e di amare contraddizioni in piena libertà. Alle loro spalle c’è una famiglia consapevole della necessità di sostenere questo impegno, in particolare la madre che fino all’ultimo ha coniugato il dolore mai sopito per la perdita del marito e la cura dei figli da proteggere.
Non vivendo in Calabria spesso mi trovo a dover rispondere a domande condite di luoghi comuni su questa regione e sui calabresi. E per quanto cerchi di far capire che è sbagliato generalizzare, che non ci sono solo la ’ndrangheta e la malapolitica, la sanità che non funziona, il lavoro che manca, i trasporti da ripensare, mi rendo conto che i pregiudizi sono duri a morire e che i primi che dovrebbero cancellarli sono proprio i calabresi con l’azione, l’iniziativa, i comportamenti, l’amore per la loro terra. Anche in questo modo si rende “giustizia” a Mario Dodaro e alle tante vittime innocenti di questa “nostra” Calabria.
Il ricordo e l'esempio di Mario Dodaro quarant'anni dopo. Il Quotidiano del Sud il 16 Dicembre 2022.
QUARANT’ANNI fa veniva ucciso l’imprenditore cosentino Mario Dodaro e la fondazione a lui dedicata vuole ricordarlo con un’iniziativa che si svolge stamattina nella sala consiliare del Comune di Castrolibero.
Aveva 43 anni Dodaro, una giovane moglie, Lisa, due figli adolescenti, Francesco ed Antonella, e una terza in arrivo, Maria Gabriella, che nascerà qualche mese dopo la morte del padre. Qualche settimana fa la Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto il ricorso presentato dalla famiglia Dodaro ed è stato riconosciuto all’imprenditore lo status di vittima innocente di ‘ndrangheta anche se l’associazione “Libera” già da tempo lo annoverava nel lunghissimo elenco di persone che hanno perso la vita per essersi opposte alle richieste estorsive della criminalità organizzata.
Partecipano all’incontro di oggi il sindaco di Castrolibero, Giovanni Greco, il presidente della Fondazione “Mario Dodaro”, Carlo De Rose, il sottosegretario agli interni Wanda Ferro, il professore di diritto processuale penale dell’Unical, Alessandro Diddi, l’assessore regionale Emma Staine, la vicepresidente nazionale dell’associazione “Libera”, Daniela Marcone, monsignor Leonardo Bonanno, vescovo della diocesi di San Marco Argentano – Scalea, il presidente di Confindustria Cosenza, Fortunato Amarelli e il questore di Cosenza, Michele Maria Spina. Racconteranno le loro storie alla giornalista Luciana De Luca del Quotidiano del Sud, che modererà e condurrà l’incontro, l’imprenditore testimone di giustizia Gaetano Saffioti, Silvia Ventra dell’associazione “Piana Libera”, Giuseppe Borrello del coordinamento regionale di “Libera”, il brigadiere dei carabinieri Pietro Toscano, Alessio Cassano, presidente dell’associazione antiracket “Lucio Ferrami” e i familiari di vittime innocenti di ‘ndrangheta Bruno Polifroni, Domenica Diano Giorgino e Giuseppina Germanò che coinvolgeranno anche gli studenti del Liceo scientifico “Scipione Valentini” di Castrolibero e dell’Istituto comprensivo “Tommaso Cornelio” di Rovito, chiamati nei giorni scorsi a proporre riflessioni sia sulla figura di Dodaro che sulla condizione dei familiari delle vittime innocenti costrette ad attendere moltissimi anni prima di veder riconosciuti loro i diritti previsti dalla legge 522 del 1999.
Riflessioni che hanno svelato quanto sia importante proporre ai giovani una nuova narrazione delle persone che hanno voluto scrivere una pagina di storia diversa della nostra realtà e che non è solo ‘ndrangheta ma anche talento, resistenza e bellezza.
QUEL 18 DICEMBRE DI 40 ANNI FA
Pioveva a dirotto quella sera. Mario Dodaro stava ritornando a casa da sua moglie Lisa e dai suoi figli Francesco e Antonella. Era felice, stava per diventare padre per la terza volta. Quella mattina aveva anche festeggiato all’interno del suo salumificio con i suoi dipendenti l’imminente arrivo delle feste. Solo dopo averli aiutati a sgomberare i tavoli, si era congedato da loro. L’agguato avvenne davanti al portone di casa: tre colpi di pistola, poi il soccorso dei familiari e la corsa, purtroppo inutile, verso l’ospedale. Una settimana prima, Mario Dodaro lo aveva confidato ai familiari, l’imprenditore era stato affrontato da cinque persone, che erano andate al salumificio per chiedergli di pagare una tangente di 200 milioni di lire. Lui rifiutò: era pronto a dar loro un lavoro se volevano, ma soldi no.
Ex senatore di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Stefano Baudino su L'Indipendente il 15 Dicembre 2022.
Alla fine, anche per l’ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì si sono aperte le porte del carcere. A decretarlo è stata una sentenza definitiva partorita dalla Corte di Cassazione, che ha condannato a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa l’ex parlamentare trapanese, che nel suo curriculum politico può vantare anche un Sottosegretariato al Ministero dell’Interno (dal 2001 al 2006) e la Presidenza della provincia di Trapani, sua città natale (dal 2006 al 2008).
“D’Alì – si legge nelle motivazioni della sentenza, confermata dalla Suprema Corte, con cui l’anno scorso era stato condannato in Appello – ha certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell’associazione mafiosa”: ciò può essere desunto “dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa nostra”. Oggetto di questa ricostruzione, un uomo che nel 1994 contribuì a fondare Forza Italia, creatura politica di Silvio Berlusconi, e che ha passato ben 24 anni di vita professionale a Palazzo Madama. Ma andiamo con ordine.
D’Alì mosse i primi passi come rampollo di una ricchissima famiglia di imprenditori trapanesi. Nel 1983 ereditò da suo zio la carica di amministratore delegato della Banca di Trapani, il più antico istituto di credito della Sicilia. Ed è proprio in quel periodo che, secondo i giudici, D’Alì cominciò a legarsi ad importanti personalità del mondo di Cosa Nostra, tra cui Matteo Messina Denaro, attualmente il più pericoloso latitante italiano, e il padre Francesco, che lavorava come campiere in un terreno di proprietà della sua famiglia. Nella sentenza di un precedente processo, in cui l’ex senatore fu assolto per i fatti successivi al 1994 e prescritto per quelli precedenti, sia in primo che in secondo grado, si evidenziava il ruolo giocato da D’Alì nella vendita fittizia di quel fondo, che Matteo Messina Denaro voleva donare a Totò Riina. Per evitare un possibile sequestro ai danni del padrino corleonese, Messina Denaro chiese infatti all’allora incensurato Francesco Geraci di acquistare formalmente il terreno da D’Alì: “È provato che Matteo Messina Denaro predispose e tradusse in atto un’operazione volta a far conseguire la titolarità del fondo sito in contrada Zangara a Francesco Geraci, nonostante reale proprietario ne fosse il Riina. Necessità di creare una provvista che potesse giustificare l’acquisto da parte dello stesso Francesco Geraci”. D’Alì, successivamente, restituì ai mafiosi i soldi ottenuti dall’acquisto fasullo. In tale cornice, per la Corte, l’ex parlamentare agì in maniera “cosciente e volontaria, comprendendo che il proprio fatto era volto alla realizzazione dell’operazione architettata dai massimi esponenti di Cosa nostra e volendovi prestare il proprio contributo”.
Nonostante lo spaccato emerso dalle carte, grazie alla prescrizione D’Alì evitò il peggio a livello giudiziario. Almeno fino al gennaio 2018, quando la Cassazione annullò l’assoluzione e ordinò un nuovo processo d’Appello. Esso è arrivato a compimento l’anno scorso, quando l’ex senatore è stato appunto condannato alla pena di sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa. “D’Alì ha manifestato la propria disponibilità verso (o vicinanza a) Cosa Nostra dai primi anni ’80 del secolo scorso fino agli inizi dell’anno 2006 – ha messo nero su bianco la Corte – e comunque non vi è prova di una condotta di desistenza dell’imputato incompatibile con la persistente disponibilità ad esercitare le proprie funzioni ed a spendere le proprie energie in favore del sodalizio mafioso”. Secondo i giudici, “D’Alì ha concluso nel 2001 (dopo una invero già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso) un patto (l’ennesimo) politico-mafioso con Cosa nostra, in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale che ha consentito all’imputato di essere nuovamente eletto al Senato”. Proprio quell’elezione costituì per il politico “il viatico per l’acquisizione dell’incarico di Sottosegretario al ministero dell’Interno” nell’allora governo Berlusconi. Ora, su questo processo è arrivato anche il timbro finale della Cassazione. E D’Alì si è dovuto costituire al carcere di Opera. Un altro tassello di un puzzle i cui contorni sono ormai ampiamente composti, provando – come ribadito dalle carte processuali sulla trattativa Stato-mafia – un legame tra Forza Italia e Cosa Nostra. [Stefano Baudino]
Il caso dell'ex parlamentare FI. Il calvario di Antonio D’Alì, sbattuto in cella dopo due assoluzioni. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Dicembre 2022
Se ti vota un “mafioso” automaticamente diventi mafioso. È quanto accaduto ad Antonio D’Alì, ex parlamentare di Forza Italia ed ex sottosegretario al Ministero dell’interno nel secondo governo Berlusconi. La sua storia giudiziaria è la seguente: assolto in primo e secondo grado. La Cassazione annulla e dispone un nuovo processo d’appello. Risultato? D’Alì viene condannato a sei anni di prigione per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Dopo la conferma ieri della sentenza della Corte d’appello di Palermo da parte della Cassazione, D’Alì si è costituito nel carcere milanese di Opera.
La vicenda processuale dell’ex senatore originario di Trapani, iniziata ad ottobre del 2011, è semplicemente surreale. A giugno del 2013 i pm palermitani, ritenendo che la sua prima elezione in Parlamento nel 1994 fosse stata “appoggiata elettoralmente dall’associazione mafiosa”, in particolare dal super boss Matteo Messina Denaro, avevano chiesto nei suoi confronti la condanna a sette anni e quattro mesi nel procedimento con rito abbreviato. Il gup lo aveva assolto per i fatti successivi al 1994 dichiarando prescritti quelli precedenti. La sentenza, come detto, era confermata tre anni dopo in Corte d’Appello.
Per i giudici non era stato provato che D’Alì continuò ad avere dei legami con Cosa nostra, dopo la sua entrata in Senato. La condotta dell’imputato non può “essere significativamente assunta come sintomatica della volontà di permanere, sia pure come extraneus, nell’associazione mafiosa, fornendo un contributo al rafforzamento della stessa”, avevano scritto i giudici nelle motivazioni della sentenza d’Appello. A D’Ali, in particolare, veniva contestata una compravendita di un terreno a dei familiari del superlatitante di Castelvetrano.
L’appello della Procura generale veniva accolto fino all’annullamento disposto dalla Cassazione a gennaio del 2018. Nel provvedimento la Suprema Corte aveva voluto sottolineare che le motivazioni dei giudici di secondo grado avevano “illogicamente e immotivatamente svalutato il sostegno elettorale di Cosa Nostra a D’Alì“.
Ad agosto 2019 la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani gli aveva imposto l’obbligo di dimora in città per tre anni sostenendo la sua “pericolosità sociale”, misura poi revocata a inizio 2021 dalla Corte d’Appello. A luglio del 2021 ecco arrivare la condanna a sei anni. Nella requisitoria dell’appello bis, chiedendo a sette anni e quattro mesi di carcere, il pg aveva definito D’Alì “il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”. E lo aveva accusato di aver “contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato”. L’ex parlamentare aveva sempre respinto tutte le contestazioni.
Nel processo si era fatto ricorso a numerosi collaboratori di giustizia, uno dei quali aveva raccontato che tutto il ‘cerchio magico’ di Messina Denaro era presente alla festa per la prima elezione al Senato di D’Alì, nel marzo 1994. Testimonianza ritenuta attendibile.
Per i pm, il senatore trapanese, oltre al superlatitante Matteo Messina Denaro, avrebbe avuto rapporti con i boss Vincenzo Virga e Francesco Pace, fin dai primi anni ’90, e avrebbe cercato fin dagli inizi l’appoggio elettorale dei clan. Ma, a parte i voti eventualmente presi dai mafiosi, non è dato sapere quale sia stata la contropartita.
L’appoggio elettorale eventualmente fornito a D’Alì da Cosa nostra in occasione delle elezioni al Senato del 1994, “in considerazione della preponderante vittoria delle forze politiche di centrodestra non assurge di per sé ad elemento sintomatico di un patto elettorale politico-mafioso”, avevano scritto i giudici nella prima assoluzione. “Le condotte oggetto di contestazione – continua – non risultano essere compiutamente comprovate per mancanza di adeguati e specifici riscontri, negli interventi fatti da D’Alì, nella sua veste istituzionale, successivamente al 1994 appare difficile ipotizzare che lo stesso abbia inteso avvantaggiare l’associazione mafiosa piuttosto che taluni imprenditori che soltanto in epoca successiva sono stati condannati per associazione mafiosa”. Forza Italia nel 1994 aveva fatto il pieno. D’Alì 54mila voti. Tutti, evidentemente, di mafiosi invece per i giudici del secondo processo che hanno disposto la condanna, ribaltando l’assoluzione. Paolo Comi
(ANSA il 12 dicembre 2022) - Il presunto boss della locale di 'ndrangheta di Pioltello (Milano) Cosimo Maiolo, tra i 10 arrestati nel blitz di oggi della Polizia, avrebbe fatto "campagna elettorale" nel 2021 a favore del candidato sindaco per il centrodestra della cittadina Claudio Fina (non eletto) organizzando "un banchetto elettorale" anche per "l'aspirante assessore all'urbanistica Marcello Menni" e "invitando" le comunità di albanesi e pakistani a "votare per Fina e Menni", anche loro accusati "in concorso" di coercizione elettorale con aggravante mafiosa. Emerge dall'ordinanza del gip di Milano Fabrizio Filice nell'inchiesta del pm Paolo Storari.
"La mafia? Sono del 1995, sono anni lontani”. Chi è Daniele De Martino, il neomelodico che canta contro il 41-bis ai detenuti per crimini di mafia. Redazione su Il Riformista il 12 Dicembre 2022
Il vero nome di Daniele De Martino è Agostino Galluzzo: è nato a Palermo nel 1995 e la sua casa discografica è la Seamusica. Ha sede a Catania e produce principalmente cantanti neomelodici. Il genere neomelodico deriva dalla canzone napoletana, ma è ormai molto popolare anche in molte città del sud anche in altre zone d’Italia.
De Martino è molto famoso e seguito sui social, e da qualche tempo è raccontato anche dai principali giornali italiani a causa dei testi delle sue canzoni che, come ha detto di recente il questore di Latina nel provvedimento con cui vietava un suo concerto in città, “veicolano messaggi espliciti contro i collaboratori di giustizia e sono espressione di solidarietà al sistema delle mafie”.
La canzone più recente di De Martino intitolata ‘Stanotte‘ sarebbe dedicata al 41-bis, la norma dell’ordinamento penitenziario che regola il carcere duro e che viene applicata ai detenuti per crimini di mafia con lo scopo dichiarato di impedire che possano comunicare con l’esterno. Il detenuto sottoposto a questo tipo di restrizioni deve essere isolato dagli altri, dormire in una cella singola e non può accedere agli spazi comuni. La cosiddetta ‘ora d’aria’, il momento in cui può uscire dalla cella e andare nel cortile, è limitata, e sono limitati anche i colloqui che avvengono attraverso un vetro divisorio.
Dal video della sua ultima hit De Martino interpreta un detenuto in regime di 41-bis. Si trova in una cella singola e scrive una lettera d’amore alla sua ragazza. Lo si vede da solo durante l’ora d’aria, mentre viene perquisito dalla polizia penitenziaria e poi dietro un vetro blindato nella sala dei colloqui. Nel video di ‘Comando io’, un altro suo successo, De Martino mette in scena la vendetta di un figlio appena uscito di prigione che deve regolare i conti con il nuovo boss che è anche l’assassino di suo padre.
Sui profili social del cantante non è raro trovare selfie con i boss. Tra i più noti: Francolino e Nino Spadaro. Il 28 agosto – come riporta Repubblica – ha cantato al matrimonio della figlia di un narcotrafficante vicino alla ’ndrangheta che si trova in carcere e ha anche omaggiato Emanuele Burgio, figlio del boss mafioso Filippo Burgio, ucciso a Palermo nel 2021 da tre persone dopo una lite per una precedenza. De Martino si è sempre difeso attaccando i giornalisti, spiegando che i selfie lui li fa “con tutti” perché è un cantante, e che “racconta le storie di tutti i giorni: oggi posso parlare d’amore, domani posso parlare di tradimenti, domani posso parlare di un avvocato o di un mafioso, poche volte l’ho fatto”.
Nel 2021 il questore di Palermo Leopoldo Laricchia l’ha ammonito a tenere “una condotta conforme alla legge” contestandogli “vicinanza ad ambienti malavitosi, non disdegnando di incontrare pregiudicati e pubblicando sui profili social, seguiti da numerosi utenti e in grado di influenzare le coscienze di molti giovani, messaggi contrari all’etica morale della società e di contestazione all’operato di esponenti del mondo civile e della lotta alla mafia”. Quando gli è stato chiesto che cos’è la mafia a Palermo ha detto: “Sono del 1995. Sono anni lontani”.
Natalia Aspesi per “il Venerdì di Repubblica” il 28 novembre 2022.
Questa autobiografia non sarebbe forse stata scritta se l'autore non avesse quel cognome, o per lo meno non l'avrebbe intitolata Fratelli. Ed è infatti soprattutto il rimpianto di anni in cui lui, Santo, e Gianni e Donatella erano una cosa sola di affetto, complicità, business, successo, denaro: erano i Versace, protagonisti dei grandi momenti di splendore, tra la metà dei 70 e la fine dei 90, nel tempo cupo di stragi fasciste, rivolte studentesche, Brigate Rosse, eroina e poi quel flagello dell'Aids che molto colpì proprio il regno felice della bella moda.
I Versace hanno perduto Gianni 25 anni fa, assassinato misteriosamente a Miami davanti alla sua villa; Donatella forse da tempo si è allontanata da Gianni, non ha voluto collaborare al libro e neppure leggerlo, e lui, tra le tante fotografie che accompagnano il testo, ne ha scelta una sola in cui c'è anche lei, i tre fratelli insieme, reperto dell'incancellabile antica fratellanza. Forse rimossa, certo molto rimpianta.
La ferita tra fratello e sorella si è aperta nell'orrore della tragedia di Miami con quel testamento forse azzardato (secondo Santo redatto dopo uno dei loro tanti litigi ma che col tempo sarebbe stato corretto) che lasciava il 30 per cento di tutta quella ricchezza a Santo, il 20 a Donatella e il 50 alla di lei figlia Allegra, adorata dallo zio Gianni, una bambina allora di 11 anni, troppo fragile per sopportare quella morte e quel peso assurdo di responsabilità e denaro. «Questo significava che fino al 2004, quando Allegra avrebbe compiuto 18 anni, Donatella avrebbe avuto virtualmente in mano il 70 per cento della società... Era troppa pressione per tutti».
Chi c'era ricorda a Milano il funerale in Duomo di un uomo, Gianni Versace, 50 anni, non solo celebre per il suo genio, ma anche molto amato per la sua gentilezza e generosità. Dietro le transenne la folla dei grandi eventi, davvero commossa, assisteva alla sfilata della celebrità il lutto, la principessa Diana, che poco più di un mese dopo sarebbe morta tra i rottami della macchina distrutta a Parigi, al braccio di Elton John in lacrime, e Carolyn Bessette, moglie di John Fitzgerald Kennedy Jr. che con lui sarebbe scomparsa in mare due anni dopo, e Sting con la moglie e i tanti colleghi compreso il grande rivale, Giorgio Armani, e quelle top model da lui inventate, donne grandi di vistosa bellezza, le donne degli uomini ricchi, che decoravano la Milano da bere, la bella vita craxiana.
Naturalmente si brontolò e Don Antonio Mazzi "scatenò" una polemica sul fatto che non si sarebbe dovuto concedere il Duomo per le esequie di un omosessuale...
Gianni era stato molto coraggioso a dichiarare pubblicamente di essere gay. Oggi si direbbe fare coming out. Lui lo fece senza giri di parole nel 1995, in un'intervista con il mensile della comunità gay americana The Advocate. Santo cita Richard Martin, curatore del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York: «Non c'è dubbio che l'identità gay di Gianni Versace sia parte integrante del suo lavoro come stilista».
Mentre lo stesso Gianni in un'intervista aveva detto: «Se un uomo commenta la bellezza maschile, per esempio di un divo del cinema, la gente penserà che è gay... ma per le nuove generazioni le cose sono già molto diverse, credo che tra qualche anno ci sentiremo tutti di commentare qualunque tipo di bellezza senza temere di essere etichettati in un modo o in un altro». Nel luglio 2011, Santo era ancora deputato del Popolo della Libertà, cooptato da Berlusconi nel 2008, «ci fu la discussione sul disegno di legge che avrebbe dovuto introdurre l'aggravante di omofobia nel codice penale.
Venne affossato. Io mi ribellai. In aula fui l'unico deputato della maggioranza a farlo». Finì la legislatura nel gruppo misto. «Non mi sono più candidato. In conclusione è stata un'esperienza deludente». Ricorda un aneddoto a una cena da lui organizzata per gli industriali del settore moda, presente Berlusconi. Un invitato se ne va e al suo posto arriva una ragazzina, «ci viene detto che è un'amica delle figlie di Berlusconi che è una grande appassionata di moda. Il nome? Noemi Letizia. La rividi un anno dopo su tutti i giornali».
Ancora prima dell'assassinio di Gianni, si era cominciato a ipotizzare legami illegali dell'azienda. «Noi non avevamo nulla da nascondere. Siamo calabresi, non mafiosi. Nel 2010 in una trasmissione televisiva si parlava di un libro sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Nel libro c'erano palate di fango contro di noi... Gianni sarebbe stato ucciso all'interno di un ipotetico fantasmagorico scontro con gente che nessuno di noi ha ma incontrato né conosciuto. L'anno della morte di Gianni avevamo pagato centoquattro miliardi di lire di tasse. Non proprio un comportamento da azienda alla canna del gas che si rivolge alla 'ndrangheta».
Reggio Calabria, una famiglia per bene. Nonno materno Giovanni, calzolaio, anarchico mandato al confino dopo i moti dei Fasci Siciliani, papà Nino commerciante di carbone e poi di elettrodomestici, mamma Franca, tipica donna italiana d'epoca, sottomessa al patriarcato per poter comandare con pugno di ferro la famiglia, la sua gestione e il suo denaro. Tutti ubbidienti, in più lei sarta di lusso e di successo, 15 dipendenti, le signore di Reggio in fila per le sue toilette. Nascono Tinuccia, che morirà bambina, e poi Santo, e poi Gianni, e anni dopo Donatella. «Se qualcuno si aspetta che io in qualche modo attacchi mio fratello, o mia sorella, resterà deluso. Pur nelle incomprensioni e nelle difficoltà di alcuni momenti, il legame resta profondo e sincero».
Santo si laurea in Economia e commercio a Messina, Donatella, molto studiosa, in Lingue a Firenze. Gianni ha già scelto altro; adolescente va a Parigi con la mamma «a comprare i cartoni di Dior, Chanel, Chloé» (così usava allora, le sarte italiane rifacevano il lusso parigino) e poi la convince ad aprire accanto alla sartoria una massima novità, la boutique di prêt-à-porter, chiamata Elle, diventandone il buyer, con immediato successo.
Sono i primi anni 70, il made in Italy ancora non esiste, lo stilista è solo il collaboratore di produttori di abiti, il più noto è il meraviglioso Walter Albini che per primo oserà mettersi in proprio. Ma a Reggio Calabria c'è questo giovane compratore di gran gusto, perché non farlo salire al Nord? Ricorda Santo: «Per aiutare Gianni a realizzare il suo sogno prendo in mano la situazione...». Solo un paio d'anni dopo «cominciai a impostare la Gianni Versace a tavolino, a modo mio... investimmo una cifra che oggi fa ridere, venti milioni di lire, diecimila euro attuali...».
A Milano li raggiunse anche Donatella e iniziò per loro, ma anche per le tante celebrità del lusso italiano, un'epoca di meraviglie: persino per noi giornaliste che, dedicandoci alla moda, venivamo allora mal giudicate dai colleghi, ma in compenso avevamo accesso a ricevimenti stupendissimi, a cene fantasmagoriche, a sfilate sempre più pazze, a sederci accanto alle celebrità, e alle famose cose firmate, le borse e i cappottini che tutte le ragazze sognavano e che a noi venivano regalate.
Tra il 1981 e il 1986, i Versace comprarono l'antico palazzo Rizzoli di via Gesù, 4.281 metri coperti, un cortile di 600, un giardino di 900. I grandi saloni immediatamente adornati da arte neo-classica e reperti archeologici e opere della transavanguardia, mentre nella palazzina di New York si moltiplicavano i Picasso, seppur i meno epocali, e nella antica villa di Moltrasio brillavano barocchismi di ogni tipo. Ospiti i divi americani, le celebrità del rock, chiunque fosse giovane e gay: e in mezzo noi invisibili, col nostro flute di champagne al lume di mille candele, un po' stordite e certo grate.
Pur di avere quel magnifico palazzo, io, dice Santo, «ero pronto a batterlo all'asta sino a 19 miliardi di lire». Gianni si fidava di lui così tanto che più di una volta gli chiese di «liquidare fidanzati che cominciavano a diventare molesti o che lui non sopportava più». Il lungo amore, sino alla morte, era stato per Antonio D'Amico, citato dal testamento ma escluso dall'azienda.
Santo Versace ha 78 anni, due figli di primo letto e quattro nipoti, una bella sottile seconda moglie, Francesca, 25 anni di meno, che ha rinunciato alla sua professione di avvocato dopo essere stata dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri, ispettore di Finanza pubblica al ministero dell'Economia. Lui se ne vanta moltissimo e nel libro abbondano le foto della coppia. Lui ha abbandonato il mondo della moda e adesso si occupa di produzione cinematografica con la Minerva film e ha già vinto premi ai festival.
La Gianni Versace è stata venduta anni fa agli americani per due miliardi di dollari, e si chiama ormai solo Versace, un marchio che vuole dimenticare il suo creatore: si vende Versace anche su Instagram. Donatella continua ad essere il volto e la consulente creativa dell'azienda, Allegra si occupa delle campagne pubblicitarie con grande successo. Credo che sia suo il palazzo di via Gesù. Il solo estraneo a quello che è stato il regno che ha aiutato a nascere e crescere, è lui, Santo. Il dolore per essere stato cancellato, dall'azienda e forse dalla famiglia, gli ha dettato questi ricordi.
Schillaci: "Per tirarmi fuori dai guai il calcio si è preso gli anni migliori". Angelo Carotenuto su La Repubblica il 16 maggio 2016.
Le Notti Magiche, il gossip, ma anche la mafia degli anni '90 e un calcio di oggi che non riconosce. L'attaccante che infiammò i Mondiali italiani si racconta
SBUCÒ dal nulla e aveva gli occhi a palla. I gol in B col Messina lo portarono alla Juve. Un anno di Juve lo portò ai Mondiali. I Mondiali del '90 lo portarono in cima. Totò Schillaci è stato un lampo, fra presidenti discussi, arresti in famiglia, telefonate registrate dall'anti-mafia, il dolore per la droga di suo cugino Maurizio: lo racconta nell'autobiografia "Il gol è tutto", domani in libreria. "La gente pensa che esista solo il campo. Invece per resistere nel calcio bisogna accettare altre cose. Io le ho accettate. Se vuoi essere un personaggio, devi stare al gioco. La sincerità è un bene a cui si rinuncia. Perciò esiste il calciatorese, quella lingua in cui si parla e non si dice niente".
Che cosa non racconta un calciatore?
"Alla mia prima partita, nello spogliatoio del Messina, c'era un barattolino di perline rosse. Pastiglie di Micoren. Ognuno ne prendeva due, servivano a spezzare il fiato. Le presi anch'io, fidandomi dei medici".
Era il prezzo da pagare?
"La mia vita è stata difficile. Sono nato di sette mesi, i nonni mi scaldavano con bottiglie d'acqua calda. Abitavamo in via della Sfera 19. Un segno. La sfera era il pallone e il 19 la maglia ai Mondiali. Al Cep avevo cattive compagnie, ma il calcio mi distraeva, e per distrazione mi sono salvato. Non andavo volentieri a scuola, ma i pericoli so vederli".
La mafia?
"Gli anni '90 a Palermo sono stati terribili. Ho aperto tardi gli occhi. Pensavo a giocare, per me la mafia era una realtà locale. Il pizzo, il totonero, le bische. Finché una sera, in ritiro, Trapattoni si avvicina e mi fa: avete ucciso anche Falcone. Gli risposi: mister, ero con Baggio, chieda a lui cosa ho fatto. Non scherzava, l'aria era pesante. Ma andai a ripeterglielo quando lasciai la Juve: non l'ho ucciso io, né quei siciliani che non meritano pregiudizi. Non vengo da una famiglia benestante. Mio padre ci portava al mare a Mondello, al posto del salvagente avevo una camera d'aria per stare a galla. Ho fatto il panettiere, il gommista, l'ambulante, ho consegnato il vino, vendevo frutta. Volevo dei soldi in tasca, il calcio è stato la mia camera d'aria. Giocavo per ore col Super Tele, il pallone leggero. Nemmeno Pelé ci fa tre palleggi col Super Tele".
È più insidiosa la celebrità o la povertà?
"La povertà l'ho superata, la celebrità l'ho sofferta. Non volevo essere famoso, volevo giocare a pallone. La mia vita è cambiata senza che cambiassi io. Quando accettai l'offerta del Jubilo, ai giapponesi dissi: voi siete penultimi in classifica, io da bambino ero ultimo. Bersaglio dei bulli. Fra i 17 e i 34 anni niente è stato normale. Per tirarmi fuori dai guai, il calcio s'è preso i miei anni migliori".
Lei racconta di fughe dai ritiri e donne disponibili.
"Per un calciatore il sesso è facile. Cercavo attenzioni. A Torino sono stato discriminato. Offese, sfottò, le scritte sotto casa. Andai in crisi. Convertivo la rabbia in sesso. Ho tradito molto. Ma il tradimento è come una bibita gasata. Toglie la sete subito, poi hai di nuovo la gola secca".
Si pente di qualcosa?
"Sbagliai a minacciare Poli dicendogli: ti faccio sparare. Ma lui aveva sputato, il gesto più volgare. Chi ti vuole sparare, dai, non ti avverte. E mi pento di quella volta con Baggio. Leggevo certe cose su mia moglie Rita, ero furioso. Lui col piede muoveva il giornale: non darci importanza, ripeteva. E muoveva il giornale. Mi alzai e gli diedi una testata".
Fu difficile lasciare Rita Schillaci?
"Rita Bonaccorso, perché Schillaci? La Juve non voleva che ci separassimo. Portavo in campo i tormenti. Gossip, malignità. Tutti a telefonarmi quando Lentini ebbe l'incidente mentre andava da lei. Negli stadi insultavano. Non bastava terrone e mafioso, non bastava il coro "ruba le gomme". No: pure cornuto. In società non ne parlavano, ma le persone intelligenti accennano, fanno capire. Comprarono Vialli. Dovetti andar via. Ora sono cambiati i tempi, dopo Gianni Agnelli vedo che è cambiata pure la Juve. Sui capelli lunghi, sulla puntualità, sugli amori".
Alla Juve non piaceva nemmeno come parlava. Le diedero un'insegnante di italiano. Lei provò a portarla a letto.
"Non ero l'unico a non saper parlare. La maggior parte dei calciatori è ignorante. Guardate come sbagliamo gli investimenti. Una donna semplice come mia madre è stata sempre più brava di me a capire quali fossero le persone di cui non fidarsi".
Sbagliò a fidarsi pure della politica?
"Candidarmi a Palermo non fu una mia scelta. Vennero a chiedermelo persone a cui non potevo dire di no. Mi hanno convinto a portare voti a Forza Italia. Sono stato spesso usato come un gioiellino da esibire".
Perché oggi è fuori?
"Ho una scuola calcio a Palermo, spendo il mio nome per gli altri. Se avessi fatto l'allenatore, avrei ripreso la solita vita. Alberghi, aeroporti, stadi. Questo è. Ma preferisco vivere. Ora se vado a Parigi, la torre Eiffel la vedo".
E come sono i ragazzi italiani?
"Si fanno portare la borsa dalla mamma. Invece dovrebbero imparare a portare il peso delle responsabilità. Non sono abituati. Quando sbagliano, è sempre colpa degli altri".
Chi le piace nel calcio attuale?
"Ho conosciuto Maldini, Baresi, Tacconi, Bergomi. Non ce ne sono come loro. Vedo ragazzi irrispettosi, come irrispettose sono le società verso le loro bandiere. Il mio calcio non c'è più. Nel mio calcio potevi scommettere cinquemila lire con Gianni Brera se scriveva che non avrei segnato di testa. I suoi articoli dovevo farmeli spiegare, ma gli dimostrai che di testa facevo gol".
Cosa sanno i suoi figli delle notti magiche?
"Jessica s'è laureata senza far sapere di essere mia figlia. Mattia è all'università. Nicole vive in Svizzera con la madre. Sono stato assente ma gli ho consentito di studiare. Spero non sia stato un peso chiamarsi Schillaci, anche se qualche effetto negativo l'avranno provato. Io mi sono sempre raccomandato: se c'è chi sparla di me, non rispondete. Mai. Certe volte, la lingua migliore è il silenzio".
“Reato di parentela”: il sindaco vieta il bando ai familiari degli ’ndranghetisti. Il comune di Polistena, Calabria, esclude dalle borse lavoro i parenti conviventi dei condannati per reati di mafia. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 21 ottobre 2022.
Il lavoro in Comune sì, ma solo se non convivi con la famiglia sbagliata. Ha diviso il paese la decisione dell’amministrazione di Polistena – poche migliaia di abitanti nel cuore della piana di Gioia Tauro, in Calabria – di escludere una parte della cittadinanza dal bando pubblico per l’accesso a 40 borse lavoro dedicate alle fasce di popolazione più povere. Un bando comunale destinato ai cittadini fino ai 40 anni d’età a cui però è precluso l’accesso ai parenti conviventi dei condannati per reati di mafia.
Una sorta di esasperazione delle “white list” prefettizie che si usano per i contratti con la pubblica amministrazione ma che, in questa occasione, è disegnato su base familiare. Approfittando degli aumenti economici agli amministratori disposti con un uno degli ultimi decreti del Governo Draghi, l’amministrazione comunale guidata da Michele Tripodi ha pensato bene di investire quel surplus finanziario per sostenere un progetto di avviamento al lavoro in una delle zone d’Italia più colpite dalla disoccupazione. Centomila euro, in tre anni, che anziché rimpolpare i conti di sindaco e assessori saranno destinati al finanziamento dell’iniziativa: 400 euro al mese per sei mesi per ogni assegnatario del “posto”.
Per accedervi, oltre a certificare la mancanza di reddito, il candidato deve però dimostrare di non convivere con un parente che abbia riportato condanne per reati legati al 416 bis, l’associazione mafiosa. Un provvedimento “limite” che sembra teso a “spalmare” le responsabilità penali personali con il proprio nucleo familiare e che, in centri come quello del reggino, finisce per colpire una parte non trascurabile della popolazione. Lo stesso ex sindaco del paese – per dieci anni braccio destro dello stesso Tripodi in Comune – si era dimesso, pochi mesi dopo l’elezione a primo cittadino e senza mai essere stato sfiorato dalle indagini, a causa degli arresti eseguiti su richiesta della distrettuale dello Stretto che avevano coinvolto il suocero ed altri parenti da cui lo stesso politico aveva comunque preso le distanze.
L’iniziativa è stata annunciata con un video sui canali social del comune: «Il bando – dice Tripodi – è un’iniziativa che l’amministrazione comunale ha adottato innanzitutto per dare una risposta alla disoccupazione dilagante e al bisogno sociale che c’è, in un momento in cui la crisi economica ci sta travolgendo». Ma è nei requisiti per l’accesso alle borse lavoro che le cose non tornano. Il candidato infatti, oltre a non avere riportato alcuna condanna penale, ad essere senza lavoro e dichiarare un reddito basso, deve anche «non avere, all’interno del proprio nucleo familiare, persone condannate per il delitto di cui all’articolo 416 bis». Una discriminante – quella del “casellario familiare” pulito – che ha fatto andare su tutte le furie le opposizioni in consiglio. «Si materializza lo squallore culturale dell’antimafia da fumetto – tuona sui social il capogruppo d’opposizione Francesco Pisano –. La mafia si sconfigge con gli esempi, con la cultura e con l’inclusione che strappi attraverso percorsi lavorativi come in questo caso, eventuali “affiliazioni” e culture contrarie alla convivenza civile. La responsabilità penale è personale e nessuno deve essere colpevolizzato per colpe altrui».
E mentre la polemica sul bando per il lavoro che non c’è che esclude i parenti dei condannati per mafia cresce, coinvolgendo anche la terza opposizione in consiglio ed allargandosi ai cittadini, il sindaco orgogliosamente comunista di Polistena difende le proprie scelte. «Dal bando sono esclusi coloro che convivono con persone che hanno condanne – rincara Tripodi ai microfoni di LacNews24 –. Dalle nostre parti questo fatto è indice di più di un sospetto, perché se una persona vuole può prendere le distanze. Chi non accetta quel modo di vivere se ne va da un’altra parte. Queste persone – conclude il sindaco – abbiano la bontà, troveranno sistemazione da un’altra parte ma non al Comune di Polistena».
Mafia, operazione Dda in Basilicata: arrestato consigliere FI, 39 indagati tra loro anche Bardi e 2 assessori. Tra le accuse: «Nel 2020 saltavano file per sottoporsi a tampone Covid».
A Potenza e in diversi comuni della provincia. Illeciti in settore sanitario, perquisizioni all’ospedale San Carlo. Oltre 100 indagati. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 ottobre 2022.
Il capogruppo di Forza Italia in Regione Basilicata, Francesco Piro, è stato arrestato nell'ambito di un'operazione della Dda di Potenza, condotta da Polizia e Carabinieri, che riguarda il settore della sanità lucana. Coinvolti uomini politici e amministratori della Regione Basilicata. Un altro provvedimento cautelare, non l'arresto, ma - secondo quanto è stato possibile apprendere - un divieto di dimora - è stato notificato all'assessore regionale all'agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia). Perquisizioni sono in corso alla Regione Basilicata e all'ospedale San Carlo di Potenza, il cui direttore generale Giuseppe Spera risulta essere coinvolto nell'inchiesta.
Anche l’ex assessore alla Sanità della Regione Basilicata, Rocco Leone, attuale consigliere regionale di Fratelli d’Italia, è coinvolto nell’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza. Nei confronti di Leone il gip di Potenza Salvatore Pignata ha disposto l’obbligo di dimora.
Dda: «Capogruppo FI Basilicata aveva relazioni con i clan»
Il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale della Basilicata, Francesco Piro, arrestato stamani, aveva «relazioni con esponenti della locale criminalità organizzata». Secondo la Dda di Potenza, «non di rado per raggiungere proprie finalità personali, politiche ed elettorali, e a scopo intimidatorio, ostentava ai suoi interlocutori i suoi asseriti collegamenti con contesti criminali calabresi».
Oltre 100 gli indagati
Sono oltre cento gli indagati nell’ambito dell’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Potenza sulla sanità lucana che stamani ha portato a diverse misure cautelari. Secondo quanto si è finora appreso, un’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata notificata stamani al capogruppo di Forza Italia nel Consiglio regionale della Basilicata, Francesco Piro, arrestato a Lagonegro (Potenza). Proprio la costruzione del nuovo ospedale di Lagonegro, nell’area sud della regione, sarebbe al centro dell’inchiesta che vede coinvolti diversi uomini politici e amministratori lucani. Tra questi l’attuale assessore regionale all’agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia), nei cui confronti è stato disposto un divieto dimora a Potenza e l’ex assessore lucano alla sanità, Rocco Leone (attualmente consigliere regionale di Fratelli d’Italia) a cui è stato notificato l’obbligo di dimora a Policoro (Matera). Tra le persone coinvolte anche il direttore generale dell’ospedale San Carlo di Potenza, Giuseppe Spera.
Il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, non ha subito la perquisizione dell’abitazione nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità della Dda di Potenza, ma ha solo consegnato agli investigatori il telefono cellulare. Lo si è appreso da fonti della giunta. La perquisizione riguarda l’ufficio di Bardi, dove gli investigatori si trovano in questo momento: sono stati acquisiti i device in uso a Bardi, che non sarebbe interessato da alcuna misura cautelare.
«Si va avanti in un momento di crisi senza precedenti": lo ha detto il presidente della giunta regionale della Basilicata, Vito Bardi, indagato nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità in Basilicata. «Sono come sempre disponibile a collaborare con gli inquirenti per chiarire ogni aspetto», ha aggiunto Bardi. Fonti vicine al governatore lucano hanno inoltre sottolineato che le delibere oggetto dell’inchiesta «sono atti pubblici, approvate senza secondi fini». Per quanto riguarda i tamponi, Bardi ha sottolineato di «non aver ricevuto alcun favore».
Nell’inchiesta sulla sanità lucana, oltre al presidente della giunta regionale, Vito Bardi, sono indagati anche gli assessori Francesco Fanelli (ex all’agricoltura, ora alla sanità) e Donatella Merra (infrastrutture), entrambi della Lega. L’operazione ha portato in carcere il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale lucano, Francesco Piro (candidato alle Politiche del 25 settembre scorso), mentre è agli arresti domiciliari il sindaco di Lagonegro (Potenza), Maria Di Lascio.
Gianni Rosa, eletto al Senato con Fratelli d’Italia alle Politiche dello scorso 25 settembre, è tra gli indagati dell’inchiesta sulla sanità lucana coordinata dalla Dda di Potenza. Rosa è stato assessore all’ambiente della Regione Basilicata dalla primavera del 2019 allo scorso mese di febbraio.
Tra le accuse al presidente Bardi e ad alcuni assessori, anche quella di essersi fatto sottoporre a tampone covid, nel 2020, saltando le file: «In seguito all’impossessamento indebito - secondo l’accusa -somministravano tamponi persone amiche asintomatiche che ne facevano espressa richiesta e che peraltro ricoprivano funzioni istituzionali di appartenenti a consessi amministrativi della Regione Basilicata e che più di qualsiasi altro cittadino dovevano essere consapevoli della destinazione non privatistica ma pubblica dei beni in questione producendo un danno al patrimonio della pubblica amministrazione quantificato 77 euro ciascuno per un importo totale pari a 1936 euro».
Ai domiciliari il sindaco di Lagonegro: sospeso
Nell’inchiesta sulla sanità lucana, oltre al presidente della giunta regionale, Vito Bardi, sono indagati anche gli assessori Francesco Fanelli (ex all’agricoltura, ora alla sanità) e Donatella Merra (infrastrutture), entrambi della Lega. L’operazione ha portato in carcere il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale lucano, Francesco Piro (candidato alle Politiche del 25 settembre scorso), mentre è agli arresti domiciliari il sindaco di Lagonegro (Potenza), Maria Di Lascio.
Le altre misure cautelari riguardano l’assessore lucano all’agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia), a cui è stato notificato l’obbligo di dimora. Provvedimento analogo per l’ex assessore alla sanità, Rocco Leone (attuale consigliere regionale di Fratelli d’Italia). Il divieto di dimora nel capoluogo lucano e la misura interdittiva all’esercizio di funzioni pubbliche è stato notificato a Giuseppe Spera, direttore generale dell’azienda ospedaliera di Potenza. I reati ipotizzati, a vario titolo, sono quelli di induzione indebita, corruzione, tentata concussione e altri reati contro la pubblica amministrazione.
Il prefetto di Potenza, Michele Campanaro, ha firmato il provvedimento «di accertamento della sospensione di diritto del sindaco del Comune di Lagonegro, Maria Di Lascio», da stamani agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità lucana. Il provvedimento - è spiegato in un comunicato diffuso dalla Prefettura potentina - è stato adottato «ai sensi della legge Severino»
Punito chi non sosteneva il candidato di Forza Italia
Il sindaco di Lagonegro (Potenza), Maria Di Lascio - agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità lucana - aveva chiesto ai gestori della telefonia mobile nella sua zona di disattivare i ponti radio «per impedire» che i «non sostenitori» di Francesco Piro - candidato di Forza Italia al Senato il 25 settembre scorso, in carcere da stamani - potessero usare i telefoni cellulari. La stessa Di Lascio - secondo la Direzione distrettuale antimafia di Potenza - aveva deciso di «punire» un altro non sostenitore di Piro, impedendogli di accedere «alle condotte idriche» a servizio di alcuni terreni.
Filone indagini su pacchetti di voti
Tra i filoni dell’indagine della Dda lucana sulla sanità vi è anche quello sulla promessa di "pacchetti di voti» ottenuti da alcuni indagati per le elezioni comunali di Lagonegro nel 2020, poi vinte dall’attuale sindaco Maria Di Lascio, da stamani agli arresti domiciliari.
In particolare, secondo l’accusa, gli indagati - tra i quali il capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Francesco Piro, da stamani in carcere - hanno ottenuto la promessa dei voti in cambio di «vari favoritismi» in riferimento «al loro pubblico ufficio», come trasferimenti, promozioni, assunzioni e affidamenti di servizi pubblici.
I commenti
La vicenda giudiziaria che ha portato all’arresto del capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Francesco Piro, e all’iscrizione nel registro degli indagati, tra gli altri, del presidente della Regione Basilicata Vito Bardi, oltre a diversi amministratori regionali, è stata commentata in Basilicata da uomini politici e rappresentanti sindacali.
«Un profondo gesto di responsabilità a Bardi» è stato chiesto dai tre consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, Gianni Perrino, Carmela Carlucci e Gianni Leggieri: «È difficile comprendere come l’esecutivo possa proseguire con la necessaria serenità il suo cammino, quando la quasi totalità dei suoi componenti è coinvolta in questa indagine», hanno aggiunto. «Il presidente Bardi, proprio per il ruolo che riveste e per quelli che ha rivestito in passato, da servitore dello Stato - hanno concluso - dovrebbe mettere fine a questa legislatura e ridare al più presto la parola ai cittadini lucani».
«La vicenda giudiziaria preoccupa sia per il contesto nella quale è maturata che per il merito», ha detto il capogruppo del Pd in consiglio regionale, Roberto Cifarelli. «Non è questo il momento né della strumentalizzazione e né delle speculazioni politiche, seppure risulta difficile per Bardi mettere la testa sotto la sabbia sia per la portata politica dell’accaduto e sia perché l’agibilità stessa di questa legislatura risulta fortemente compromessa», ha aggiunto.
Il segretario regionale del Pd, Raffaele La Regina, evidenziando come il quadro dalle indagini sia «inquietante e drammatico», ha twittato che «si tratta di accuse preoccupanti che coinvolgono la sfera istituzionale del centrodestra lucano che governa la Regione e siede in Parlamento. Accuse che, se confermate apriranno una voragine politica dalla quale si uscirà solo facendo fronte comune fra le migliori energie civili e politiche di questo territorio».
«L'operazione disvela un sistema clientelare e affaristico figlio di quella occupazione delle istituzioni pubbliche che è diventata ormai una prassi in questa Regione», ha sottolineato il segretario generale della Cgil Basilicata, Angelo Summa. "Siamo stati gli unici a denunciare, anche con un esposto alla Corte dei Conti, l’adozione del regolamento sull'ordinamento amministrativo della Giunta regionale. Un regolamento - ha proseguito - che sancisce di fatto una organizzazione tutta incentrata sul pieno controllo da parte del presidente Bardi degli uffici e delle direzioni dipartimentali fino a svuotare anche l’ufficio legale. E questo è l’epilogo di una maggioranza che ha pensato che governare significa occupare».
«Ancora una volta la sanità lucana finisce nel mirino della magistratura - ha commentato il segretario generale della Cisl Basilicata, Vincenzo Cavallo - segno che ci sono problemi strutturali che la politica non ha saputo o voluto risolvere. E' di tutta evidenza che la sanità lucana, anche in ragione dei cospicui investimenti previsti dal Pnrr, necessita di una profonda opera riformatrice e che assicuri piena trasparenza. Se non è in grado di farlo la politica regionale - ha concluso - si prenda in considerazione anche l’ipotesi del commissariamento».
E il segretario regionale della Uil, Vincenzo Tortorelli, chiede «prima di tutto di garantire il diritto alla salute dei cittadini, soprattutto nel Lagonegrese». «Raccogliamo il diffuso sentimento di sconcerto per il quadro che la magistratura delinea - ha aggiunto - al sindacato spetta rilanciare l’esigenza di affermare i principi di legalità e rispetto della legge specie nella gestione di un settore come la sanità che va sottratto ad ogni interesse di parte».
Per i consiglieri regionali di Italia Viva, Mario Polese e Luca Braia, «quello che sta accadendo in queste ore nei palazzi della politica lucana sta avendo una eco mediatica molto forte. Da parte nostra nessuna volontà di strumentalizzare per fini politici. Siamo convintamente garantisti e non barattiamo il nostro modo di essere, e di interpretare la politica, a seconda delle stagioni o delle casacche politiche. Per questo, ribadendo massima fiducia nel lavoro della magistratura auguriamo agli esponenti politici, coinvolti di poter dimostrare la piena estraneità dai fatti per i quali sono indagati. Allo stesso tempo - hanno aggiunto - esiste una questione politica che non può essere taciuta. Le indagini coinvolgono, a vari livelli, la gran parte del Governo regionale, compreso il presidente Vito Bardi. Al netto delle vicende giudiziarie che seguiranno il loro corso, c'è da garantire il perfetto funzionamento del massimo ente regionale. Per questo confidiamo che il presidente Bardi faccia chiarezza al più presto per il bene della Basilicata e dei lucani. Sarebbe grave per tutti - hanno concluso Polese e Braia - "sospendere" l’attività politica che invece deve continuare a garantire il massimo dell’efficienza al fine di dare le risposte che la comunità lucana attende».
Minacce con la pistola. Il pentito: «Mi chiese di eliminare un concorrente». Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Ottobre 2022.
«È vivo per miracolo perché io stavo… mio suocero eh! Io e mio… Lo abbiamo fatto mettere in ginocchio con la pistola in testa». Aveva due volti Francesco Piro, il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale lucano finito in carcere nell’inchiesta dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza. Uno alla luce del sole, l’altro - più oscuro - da retrobottega della politica.
Ufficialmente è un imprenditore di 46 anni con una laurea in ingegneria e un’esperienza ultra decennale in politica...
Mafia, operazione Dda in Basilicata: arrestato consigliere FI, 39 indagati tra loro anche Bardi e 2 assessori. Tra le accuse: «Nel 2020 saltavano file per sottoporsi a tampone Covid»
A Potenza e in diversi comuni della provincia. Illeciti in settore sanitario, perquisizioni all’ospedale San Carlo. Oltre 100 indagati
LUNEDI' L'INTERROGATORIO DI GARANZIA
E’ stato fissato per le ore 10.30 di lunedì prossimo, 10 ottobre, nel carcere di Potenza l'interrogatorio di garanzia di Francesco Piro, l’ormai ex capogruppo di Forza Italia nel Consiglio regionale della Basilicata, arrestato ieri nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità lucana coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia potentina. Lo ha reso noto all’ANSA il difensore di Piro, l'avvocato Sergio Lapenna, il quale ieri ha protocollato le dimissioni dall’assemblea lucana.
Ieri inoltre è stata arrestata e posta ai domiciliari Maria Di Lascio, dal 2020 sindaco di Lagonegro (Potenza), la città di Piro. Le altre misure cautelari riguardano l’assessore lucano all’agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia), a cui è stato notificato l’obbligo di dimora a Francavilla in Sinni (Potenza). Provvedimento analogo, a Policoro (Matera) per l’ex assessore alla sanità, Rocco Leone (attuale consigliere regionale di Fratelli d’Italia). Divieto di dimora nel capoluogo lucano e la misura interdittiva all’esercizio di funzioni pubbliche per Giuseppe Spera, direttore generale dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza.
Tra gli indagati vi sono anche il presidente della Regione, Vito Bardi, due assessori della giunta lucana di centrodestra, Francesco Fanelli (sanità) e Donatella Merra (infrastrutture), entrambi della Lega, e il neo eletto senatore di Fratelli d’Italia Gianni Rosa, coinvolto nell’inchiesta per la sua attività di assessore lucano all’ambiente, carica ricoperta dal maggio 2019 al febbraio scorso.
Estratto dell’articolo di Dario Del Porto per “la Repubblica” l'8 ottobre 2022.
C'è una frase che spiega molte cose dell'inchiesta che scuote la Basilicata e la giunta regionale di centrodestra guidata da Vito Bardi: «Prima vedere cammello», dice l'influente capogruppo di Forza Italia Francesco Piro trattando l'adesione di una candidatura alle Comunali di Lagonegro del 2020, appuntamento amministrativo trasformato in un suk di «ingerenze illecite, favoritismi nelle nomine, trasferimenti, assunzioni in sanità o società» pur di far eleggere sindaca Maria Di Lascio.
Ora Piro è in carcere e Di Lascio ai domiciliari, ma il terremoto giudiziario fa tremare tutto il sistema di potere della destra lucana, mentre ombre si affacciano sulla gestione della sanità e sull'affare da 70 milioni per il nuovo ospedale di Lagonegro. Il governatore Bardi è sotto inchiesta, i suoi uffici in Regione sono stati perquisiti.
[…] Nelle carte, Piro appare come un politico spregiudicato, che alludeva ai natali calabresi della moglie per vantare relazioni la criminalità organizzata: «È di Rosarno. Sanno da dove arriva...». A settembre, Piro correva per il Senato e la sindaca Di Lascio aveva addirittura pensato di far oscurare il segnale del cellulare in una zona dove gli elettori non volevano sostenerlo: un disservizio creato ad hoc per poi risolvere il problema e accreditarsi. Ma il tecnico interpellato si rifiuta: «Non sospendiamo niente, non sono elementi da utilizzare in campagna elettorale».
Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” l'8 ottobre 2022.
Tra l'estate e l'autunno del 2020, quando l'Italia intera, ma soprattutto il Mezzogiorno, aveva già dovuto fare tragicamente i conti con una sanità disastrata e inadeguata ad affrontare una emergenza come la pandemia da Covid 19, in Basilicata un gruppo di amministratori locali utilizzava quella sanità come terreno sul quale scambiare favori politico-elettorali. Voti in cambio di assunzioni, trasferimenti, incarichi.
È questo ciò che emerge dalla lettura delle 375 pagine dell'ordinanza con la quale il gip di Potenza ha parzialmente accolto le richieste della Procura disponendo l'arresto del capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale Francesco Piro e del sindaco di Lagonegro Maria Di Lascio.
Piro è al centro di quasi tutti gli episodi oggetto di indagine. È uno che lascia intendere di avere amicizie nella criminalità organizzata calabrese. In una intercettazione lo si sente dire a un amico: «Mia moglie è di Rosarno, io basta che mando un messaggio: "Potete venire". Poi me ne vado in galera come Cristo comanda». È lui il principale sponsor della lista Insieme con Maria Di Lascio , e si impegna per costruirle una squadra vincente. Lo dice in una conversazione del 10 agosto intercettata dagli inquirenti. «In questo momento per me è primario Lagonegro.
Dal 21 settembre (il giorno successivo alle elezioni comunali del 2020, ndr ) e per i prossimi cinque anni non me ne fotterà più niente».
L'attenzione per le sorti politiche della cittadina in cima alla Valle del Noce hanno un motivo preciso: «Oltre alla gestione dei posti in sanità, emergono gli interessi relativi al progetto per la realizzazione del nuovo ospedale di Lagonegro, con annesse questioni dell'affidamento dei lavori, gestione del bar, esproprio dei terreni per la realizzazione del parcheggio», scrive il gip.
E aggiunge: «Risulta dalle indagini che le condotte compendiate nei capi di imputazione non costituiscono episodi isolati e relativi a una situazione contingente (ossia l'elezione del sindaco di Lagonegro nel 2020) ma al contrario sono manifestazione di un sistema, di un modus operandi strutturale da parte dei politici coinvolti. Per convincere ogni possibile candidato c'è sempre una offerta mirata.
All'ortopedico Luigi Alagia, per esempio, Piro prospetta il primariato dell'unità operativa dell'ospedale di Lagonegro. E sa di poter contare sull'appoggio del direttore generale dell'Azienda ospedaliera, Giuseppe Spera, che ha preso il posto di Massimo Barresi, manager non allineato e fatto fuori dopo una guerra di carte bollate sulla quale lo stesso Piro interviene cercando di condizionare il lavoro dell'avvocato della Regione che assiste Barresi. E poi c'è il presidente della giunta regionale Vito Bardi.
Una raccomandazione in favore di un aspirante finanziere (Bardi fu vicecomandante generale), un ruolo nel siluramento di Barresi e quattro tamponi molecolari in un mese, tra marzo e aprile 2020 senza alcun sintomo di Covid. Stessa cosa anche assessori e manager della sanità. «Come fossero beni in loro privata disponibilità - scrive il gip - mentre si trattava di beni pubblici disponibili sul territorio nazionale e in Basilicata in misura ridotta e in numero limitato e contingentato».
Indagato Vito Bardi, presidente della Basilicata. Lui: «Fiducia nella magistratura». Bardi è indagato nell'ambito di un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Potenza che riguarda la sanità. Il Dubbio il 7 ottobre 2022.
Vito Bardi, presidente della Basilicata, è indagato nell’ambito di un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Potenza.
«La mia volontà di andare avanti nel governo della Basilicata non è nemmeno in discussione», ha detto Bardi. «Sono sereno e ho un lavoro da portare a termine nell’esclusivo interesse dei lucani».
Uno dei filoni principali d’indagine è quello legato alla realizzazione dell’ospedale di Lagonegro, in provincia di Potenza.
Tra le carte dell’inchiesta anche la gestione dell’emergenza Covid nella fase iniziale della pandemia, a marzo del 2020.
Il capogruppo di Forza Italia in Regione, Francesco Piro, e la sindaca di Lagonegro Maria Di Lascio, dello stesso partito, sono stati arrestati.
Piro è in carcere, Di Lascio ai domiciliari. Obblighi di dimora nei loro Comuni per Francesco Cupparo (Fi), e Rocco Luigi Leone (FdI).
Divieto di dimora a Potenza e interdittiva all’esercizio di funzioni pubbliche per Giuseppe Spera, ex direttore amministrativo dell’Asp di Potenza e attuale direttore generale dell’azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza.
«Voglio prima di tutto ribadire la mia disponibilità verso le forze dell’ordine e la magistratura cui darò la massima collaborazione per fare chiarezza», ha detto Bardi dicendosi estraneo ai fatti contestati.
«Voglio infine sottolineare un fatto: la mia vita è sempre stata improntata alla legalità e al rispetto delle regole. È la mia storia personale», ha aggiunto.
Sulla vicenda si è espresso anche il dem Enzo Amendola, lucano. «Esprimo fiducia nella magistratura e ribadisco il principio di presunzione di innocenza degli indagati», ha detto.
Aggiungendo però che «non si può non rilevare che dalle indagini della Dda emergono tratti preoccupanti ed estranei alla cultura lucana, sui quali è necessario fare massima luce».
Ha detto la sua anche Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia. «E bravi questi amministratori – ha scritto su Facebook – rubare sulla sanità pubblica dovrebbe prevedere pene particolarmente severe e l’interdizione perpetua da ruoli pubblici».
La social mafia tra champagne, lusso e pistole: la vida loca dei rampolli dei boss all’ombra del Duomo. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022
Come vip e influencer, gli eredi Fidanzati, Papalia, Casoppero ostentano profili pubblici. Oro, argento e sciabolate nei privé in discoteca, pose da gangster da Ibiza a Mykonos. E riappaiono i volti sorridenti di boss in carcere da più di 40 anni
Bottiglie di champagne «sciabolate» con il Rolex. Notti nei privé delle discoteche, come vip e calciatori. Mercedes, Maserati, Bmw, borse e scarpe Louis Vuitton, Balenciaga, Gucci. È la vida loca dei rampolli di mafia all’ombra del Duomo. Il lusso esibito e sfacciato. Anche se lo stipendio ufficiale è quello di un bidello. Nel mondo social la ‘ndrangheta non piange miseria e sfoggia le sue ricchezze, lo sfarzo, i suoi rich kids. È l’altra faccia della ’ndrangheta, quella che nelle inchieste maneggia fatture e crediti Iva. Cosche imprenditrici, mafia sotterranea, mimetismo e penetrazione silenziosa del tessuto economico.
La social mafia
Ma nel metaverso c’è tutto il resto. Compresi i volti sorridenti di boss murati in carcere da più di 40 anni registrati durante i colloqui in videochat ai tempi del Covid e rilanciati ossessivamente sui social. Così che tutti vedano questi uomini d’onore non scalfiti dalla galera, dalla repressione dello Stato. Come quel don Micu Papalia, in cella dal 1978, e considerato una sorta di Papa dalla ‘ndrangheta di tutto il mondo. O come suo fratello Antonio, ergastolano dai tempi della maxi inchiesta Nord Sud degli anni Novanta, che sorride e scherza nei video caricati su TikTok da nipoti così giovani che non lo hanno mai visto dal vivo.
E poi ancora matrimoni, battesimi, diciottesimi e la moda del momento, il gender reveal party, festa in cui si scopre il sesso del nascituro. Pranzi di gala in minuscoli paesi d’Aspromonte senza fognature ma dove si festeggia tra ori, posate d’argento e abiti da fare invidia alla principessa Sissi. Con i cantanti neomelodici, colonna sonora di sfarzosi ricevimenti o di post dove si mostrano i parenti detenuti circondati da cuori e baci. Su tutti c’è Niko Pandetta, nipote del padrino catanese di Cosa nostra Turi Cappello, che canta «pistole nella Fendi, maresciallo non ci prendi» e che s’è visto bloccare concerti dal vivo dalle prefetture di mezza Italia.
È il volto più nascosto e al tempo stesso sfacciato della mafia a Milano. Clan che s’adeguano ai tempi e sbarcano sui social. Sembrano i video dei rapper che fanno impazzire le classifiche di Spotify, ma qui le pistole sono vere e i cognomi hanno fatto la storia più nera del crimine organizzato in Italia. Per mesi, in alcuni casi per anni, abbiamo guardato dal buco della serratura i profili virtuali di condannati per mafia e dei loro più stretti familiari. Abbiamo cercato di capire chi sono e come vivono i rampolli della ‘ndrangheta in Lombardia. E soprattutto cosa li ha portati a sbarcare su TikTok, per quale motivo i figli di un’organizzazione segreta fondata sull’omertà scelgano oggi di esporre la loro vita sui social con profili pubblici, come cantanti e influencer.
Palestra, vacanze e Cosa Nostra
Il viaggio nella Social mafia inizia dal nipote di una delle dinastie più importanti della cupola palermitana. Si chiama Gaetano Fidanzati, come il nonno, scomparso nel 2013 dopo anni di latitanze e arresti. Don Tanino venne inquisito da Falcone e Borsellino nel Maxiprocesso a Cosa nostra. Gaetano jr, 31 anni, era poco più che un neonato quando nel ’92 la Commissione provinciale di Totò Riina faceva saltare in aria i magistrati del pool di Palermo. Ma è cresciuto in fretta a Milano, con qualche intemperanza notturna e con il nome finito in più di un’inchiesta antidroga. Come l’indagine Old story eden dove viene accusato di fare il mediatore per un traffico di stupefacenti. Oggi Fidanzati jr sfoggia un fisico da atleta, si professa personal trainer e su Instagram dispensa consigli sulla buona alimentazione. È molto conosciuto, Gaetano Fidanzati specie nella Milano di notte. Sui social le immagini di spiagge incantevoli e aperitivi a bordo piscina. L’itinerario delle vacanze tocca Mykonos, Naxos, Parigi, Maiorca, Formentera, Ibiza, l’amata Sicilia, la Sardegna. È uno che ce l’ha fatta, il nipote di don Tanino.
Locali e striscioni in curva
Milano, Quarto Oggiaro. Gli eredi delle famiglie di malavita decapitate dalle maxi inchieste degli anni Novanta sono cresciuti. Sui social si bullano in pose da gangster, immagini di Scarface e l’ossessione per i neomelodici napoletani. C’è il video di una festa di compleanno in un ristorante. Le immagini sono girate con cura, il montaggio è opera di un professionista. La telecamera indugia su vestiti firmati, gioielli, orologi, belle auto e tavola imbandita. In primo piano i «vecchi» usciti di galera, elegantissimi e impeccabili. Altro album di famiglia. C’è il figlio di un boss ergastolano. In una foto da ragazzo impugna una pistola insieme agli amici, in un’altra c’è lo striscione che la Curva sud del Milan gli ha dedicato anni fa: «Sei mesi passano in fretta, Bruno Quarto ti aspetta». Oggi le immagini sono quelle all’ingresso dell’Old Fashion e delle vacanze. Più a Nord, ai confini con il territorio comasco, c’è Ludovico Muscatello, nipote del boss Salvatore, uno dei più vecchi padrini della ‘ndrangheta al Nord, morto nel 2019. Sui social Ludovico sfoggia la vita di un ragazzo affermato: locali, la famiglia, amici, vacanze. Nel 2015 era rimasto ferito in un agguato a colpi di pistola ordito da una cosca rivale, i potenti Morabito di Africo per il controllo dei locali notturni di Cantù. Sui social le foto che lo ritraggono in carcere durante una partita di calcio: «Un leone, seppur in gabbia, rimane un leone».
Ostriche, gamberi e i volti dei padrini
Discoteca Tocqueville, cuore della movida di corso Como. I camerieri portano nel privé cestelli di ghiaccio e bottiglie di Moët & Chandon Nectar impérial rosé. Un ragazzo «sciabola» bottiglie usando un Rolex, gli amici riprendono estasiati con i cellulari. Il video rimbalza su TikTok. L’account è del figlio di un boss della ‘ndrangheta arrestato negli anni Novanta a Corsico. Altro video, discoteca Fellini. Al tavolo arrivano bottiglie di champagne accompagnate da una fontana di fuochi d’artificio. Poi ristoranti con gamberi e ostriche. Lavora come collaboratore scolastico nell’hinterland di Milano, soldi però sembrano girarne parecchi. Nello stesso profilo c’è il volto sorridente dello zio Domenico Papalia. Settantasette anni, Micu Papalia è considerato dai magistrati uno dei nomi più influenti negli assetti delle cosche calabresi. Per i suoi familiari è invece solo «un anziano malato», «ingiustamente recluso nonostante un tumore alla prostata». Grazie al sistema dei colloqui in carcere in via telematica nel corso della pandemia, oggi il viso sorridente del boss riempie le bacheche dei ragazzi: «Grande uomo», «Una grande persona», «Una presta libertà, leone», «Grandi Papalia persone garbate per bene e di buon cuore», il tenore dei commenti. Ci sono video con gli appelli per la sua liberazione. La storia di «una ingiusta detenzione per vendetta dello Stato». Uno dei pronipoti gli ha pure dedicato una canzone finita su Youtube: «I Papalia non su’ delinquenti ma sunu cristianeri comu tanti». Il video del boss è accompagnato dalla scritta «combatteremo e sorrideremo contro tutti». È come se i social avessero aperto le porte del carcere all’esterno. I boss sanguinari detenuti da anni tornano ad essere visibili a tutti. Non mostrano le loro sofferenze, sono invecchiati ma vivi e soprattutto ci sono ancora. C’è anche Saverio Trimboli, detto Savetta, altro padrino calabrese, condannato a vent’anni per l’omicidio del rivale Pasqualino Marando. Le foto con cuori, baci e sorrisi.
Carrozze, cavalli e ricevimenti
A completare la triade dei Papalia c’è Rocco, il boss che ha riconquistato la libertà nel 2017. La sua foto è ritratta insieme a quella dei fratelli Domenico e Antonio: «ingiustamente accusati». In Rete compare la prima immagine viene scattata il 4 giugno di cinque anni fa all’uscita dal carcere di Secondigliano. Ha una polo a righe, un borsone a tracolla, parla al telefono e sorride con un ghigno. La fotografia viene postata sui social da una parente, fa il giro di Facebook in poche ore. Oggi, nei video che compaiono su TikTok, il boss Rocco Papalia è un nonno che scherza suonando il flauto per i pronipoti. C’è anche Salvatore Barbaro, il genero. Nelle immagini «rubate» durante i colloqui via webcam, oppure in posa con marsupio di Gucci a tracolla davanti a una Maserati. Sui social finiscono le riprese del matrimonio celebrato a Buccinasco: carrozza trainata dai cavalli, in cielo palloncini a forma di cuore, lui con un vistoso smoking Philipp Plein (con etichetta in vista) accompagna la figlia all’altare, poi il grande ricevimento al Green park di Borgarello, Pavia. In un video una delle giovani nipoti di famiglia scherza sulle origini: «Barbaro, mi è familiare il tuo cognome». Sullo schermo la cartina della Calabria e la foto del padre boss.
Il controllo dei gruppi Facebook
Il caso esplode nel 2019. Il gruppo Facebook della cittadina di Lonate Pozzolo, alle porte di Malpensa, «Sei di Lonate Pozzolo se...» usato dagli abitanti per scambiarsi informazioni, notizie, opinioni passa nelle mani dei parenti del boss Cataldo Casoppero, arrestato il 4 luglio per mafia e condannato a 14 anni in secondo grado. A decidere cosa può essere pubblicato e cosa no, nel ruolo di amministratore, c’è il figlio del boss, la sua compagna, e alcune persone a lui vicine. I post si riempiono di attacchi alla sindaca Nadia Rosa e alla magistratura. Spariscono le notizie sull’inchiesta «Krimisa» che ha portato in cella i nuovi vertici della ‘ndrangheta. Polemiche, liti, attacchi frontali culminano nella sceneggiata del figlio del boss a un evento pubblico antimafia con Alessandra Dolci, procuratore aggiunto che coordina la Dda di Milano. Casoppero jr si alza e pone una domanda polemica al magistrato. L’accusa è sempre la stessa: gli investigatori colpiscono brava gente lasciando liberi i colpevoli. L’aula rumoreggia. Ma dalle ultime file c’è chi applaude e non nasconde il proprio sostegno al figlio del boss. La mutazione è compiuta, il virtuale è diventato reale.
MELITO PORTO SALVO – AVETRANA. IL FILO CONTINUO DEL LINCIAGGIO DI UNA COMUNITA’.
“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”
Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo.
Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità.
Il commento del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha scritto “Reggio e La Calabria, quello che non si osa dire” e “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese”.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.
Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero.
E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo.
E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità.
Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina.
Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’.
Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”.
Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolo’ Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società’ civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”.
L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto.
Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra?
Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”
Se questi son giornalisti… “Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa”. Goffredo Buccini 13 settembre 2017 Corriere della Sera.
Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.
Specchia. Noemi Durini e Lucio Marzo. Un film già visto, come Sarah Scazzi.
Lucio Marzo, fidanzato di Noemi, ha confessato ed ha fatto trovare il corpo.
Per il delitto di Sarah Scazzi, Michele Misseri, reo confesso, anch’egli ha fatto trovare il corpo, ma non è stato condannato per l’omicidio.
Chi sarà condannato per il delitto di Noemi Durini?
A Specchia, come ad Avetrana, si aspettavano i giornalisti con le palle, ma son arrivati solo…i coglioni.
Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi. Lettera al Direttore. Se questa è antimafia…di Antonio Giangrande*
In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale.
Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposti a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate.
L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione?
E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile?
E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi?
La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere.
La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…
Allora niente è mafia.
E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
*Antonio Giangrande ha scritto dei saggi sulla Mafia. (Mafiopoli; La Mafia dell’Antimafia; Castopoli; Massoneriopoli; Impunitopoli.)
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.
Capire di dover capire significa non muoversi a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.
Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.
Imparare ad imparare significa creare un percorso.
Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.
Art. 21 della Costituzione: diritto di manifestare il proprio pensiero. Diritto di critica e di cronaca; diritto di informare ed essere informati. C'è qualcuno che crede, invece, che sia diritto al villipendio e alla diffamazione, nascondendosi dietro l'anonimato. Più io cerco di cancellare questi pseudo amici infiltrati per fare propaganda politica, più loro si moltiplicano.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
"Sono nata Badalamenti", il libro di Maria sull'appassionata lotta a Cosa nostra. Maria Badalamenti - figlia di Silvio, ucciso dalla Mafia in un giorno di giugno - è l'autrice di un libro denso di memorie del padre e della sua lotta alla mafia.
Nota - Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di PalermoToday
Tanti ricordi della sua vita in cui la morte di suo padre ucciso mentre andava a lavorare sembra segnare la cesura tra un’infanzia spensierata e la consapevole maturità. Da allora Maria e la sua famiglia tutta al femminile dedica la sua quotidiana battaglia alla verità e alla legalità, in un percorso onesto che già Silvio Badalamenti aveva imboccato. Pagine appassionate in un libro che pare quasi un diario tramandato al lettore per fargli conoscere come sono andate le cose.
Il libro si apre con il fatto principale attorno a cui ruota ogni vicenda. Silvio Badalamenti, nipote del boss don Tano, unico esponente della famiglia non affiliato a “Cosa nostra”, viene ucciso mentre sta andando a piedi a lavorare, nel 1983, da un commando mafioso: quando i corleonesi vincono la guerra di mafia, Badalamenti diventa un nemico da abbattere. Tano si rifugia in Sudamerica e poi negli Stati Uniti, dove mette in piedi la “Pizza Connection”. Gli uomini di Riina fanno terra bruciata attorno al loro storico nemico. Il libro è il racconto di quel periodo, di quella famiglia conosciuta in tutto il mondo. E c’è poi un cognome, Badalamenti, così pesante da portare: in Sicilia, in Brasile, in Inghilterra. Il racconto di Maria è nel nome del padre, della sua onestà, per ridare dignità alla sua storia, ma è anche, soprattutto, il grido di una donna che è voluta tornare in Sicilia e restarci, per viverci a testa alta, senza paura.
E' la mattina del 2 giugno 1983, un dolce sole riscalda una limpida giornata di inizio estate; un uomo si avvia, come tutte le mattine, a piedi verso l’ufficio. Vive solo del suo lavoro che svolge con onestà e passione. È una persona brillante, dall’elegante portamento, stringe al petto l’agenda e alcuni documenti di lavoro e ha un’espressione felice, un dolce e scanzonato sorriso.
L’Autrice
Maria Badalamenti nasce a Palermo nel 1973 e vive un'infanzia felice a Marsala, in una famiglia comune, ma porta un cognome pesante: è parente del famigerato boss della mafia Gaetano Badalamenti. Il 2 giugno del 1983, Silvio Badalamenti, il padre di Maria, viene assassinato dalla mafia. La bambina ha solo nove anni e, da quel giorno, la vita sua e della sua famiglia è travolta da un crudele destino. Tre donne sole che si trasferiscono a Palermo, in un mondo che le guarda con pregiudizio e disprezzo perché hanno quel cognome che evoca malaffare, criminalità. La sfida più difficile che Maria ha affrontato, dopo quel violento e prematuro strappo dall'abbraccio paterno, è stata questa mortificazione sociale artatamente costruita per distruggere ogni suo progetto di vita personale, lavorativo, economico e, persino, affettivo. Ma lei è più forte del pregiudizio: si rialza, si diploma, si laurea e dà alla luce una splendida figlia che considera il suo più grande successo. Sono nata Badalamenti, romanzo autobiografico, è la sua prima opera letteraria.
Sono nata Badalamenti. La vera storia di un uomo per bene. Recensione unilibro.it.
Sono nata Badalamenti. La vera storia di un uomo per bene: Silvio Badalamenti, nipote del boss don Tano, unico esponente della famiglia non affiliato a "Cosa nostra", viene ucciso mentre sta andando a piedi a lavorare, nel 1983, da un commando mafioso: quando i corleonesi vincono la guerra di mafia, Badalamenti diventa un nemico da abbattere. Tano si rifugia in Sudamerica e poi negli Stati Uniti, dove mette in piedi la "Pizza Connection". Gli uomini di Riina fanno terra bruciata attorno al loro storico nemico. Il libro è il racconto di quel periodo, di quella famiglia conosciuta in tutto il mondo. E c'è poi un cognome, Badalamenti, così pesante da portare: in Sicilia, in Brasile, in Inghilterra. Il racconto di Maria è nel nome del padre, della sua onestà, per ridare dignità alla sua storia, ma è anche, soprattutto, il grido di una donna che è voluta tornare in Sicilia e restarci, per viverci a testa alta, senza paura.
Silvio Badalamenti non era estraneo al contesto mafioso dello zio Tano. Salvo Vitale su antimafiaduemila.com l'01 Luglio 2022.
Respinta l’istanza di risarcimento inoltrata dalla famiglia
E’ una battaglia che i familiari di Silvio Badalamenti e soprattutto la moglie Gabriella Ruffino, portano avanti da quasi cinquant’anni, ovvero che il loro parente nulla avrebbe avuto a che fare con il mondo della mafia, né, tantomeno, con la figura di suo zio Gaetano Badalamenti, uno dei più grandi boss di Cosa Nostra, condannato per l’omicidio di Peppino Impastato. Poco tempo dopo la morte del marito, la vedova scrisse un’appassionata lettera al Giornale di Sicilia sostenendo l’integrità morale del marito. Qualche anno più tardi, nel 2002, pubblicò, con la casa editrice Sellerio, un libro, “Come l’oleandro”, una sorta di romanzata autobiografia in cui si raccontano le vicende, le avventure, le espressioni di una cultura, in parte popolare, in parte mafiosa, in parte arcaica, ma anche le intuite crudeltà di Faro Badalamenti, una immaginaria e cavalleresca figura nella quale non è difficile intravedere l’ombra dello zio Tano, “il dolce profumo del venefico oleandro”. Anche una delle due figlie di Silvio, Maria, ha raccontato della sua vita e delle sue scelte, opposte a quelle di Don Tano, in un libro dal titolo: “Sono nata Badalamenti”, sostenendo: “Porto il cognome Badalamenti, ma disprezzo quello zio boss”. Si può trovare su YouTube un’intervista di Salvo Palazzolo su La Repubblica del 12.06.2018 e si può leggere nello stesso libro l’ammirazione di Maria per il padre, che, a suo dire, aveva tagliato i ponti e i legami con lo zio e scelto una vita onesta. Citato anche Giovanni Falcone che, dopo aver disposto l’arresto di Silvio, ne firmò la scarcerazione dopo averlo interrogato, invitandolo, a dire della figlia, ad allontanarsi dalla Sicilia.
Una richiesta non accolta
La richiesta della vedova e delle due figlie di Silvio B. di accedere ai benefici economici previsti dalla legge a favore dei familiari superstiti delle vittime della criminalità organizzata di stampo mafioso, presso il Ministero degli Interni, era già stata respinta in prima istanza e in Appello, nel 2015, sino all’attuale sentenza della Cassazione, che chiude la vicenda, non essendo stato riscontrato il requisito della “estraneità della vittima, al tempo dell’evento, ad ambienti e rapporti delinquenziali e, nella specie, al contesto mafioso». La sentenza richiama quella della Corte di Assise di Trapani relativa all’omicidio di Badalamenti e ai suoi “ignoti” autori, nella quale si citava «il radicato rapporto di fiducia» della vittima con suo zio, il boss Badalamenti, “fondato su presupposti non esclusivamente basati sul mero vincolo di sangue» e si riferivano le «condizioni di vita e professionali» di Silvio Badalamenti, «responsabile dell’esattoria comunale di Marsala, facente capo ai noti esponenti mafiosi Antonino e Ignazio Salvo, legati da stabili vincoli di affari con Gaetano Badalamenti».
La “guerra di mafia” a Cinisi e dintorni
Silvio B. venne ucciso a durante la guerra di mafia che i Corleonesi, alla fine degli anni ’70 scatenarono contro quelli che Mario Francese chiamava “i guanti di velluto”, ovvero la cosca dei badalamentiani, legata in stretti rapporti d’affari con Spatola, Inzerillo, Bontade, i Rimi di Alcamo e, Leonardo Greco di Bagheria, Cosimo Di Cristina, Tommaso Buscetta ed altri elementi di spicco della vecchia generazione di mafia, interamente cancellata dalla violenza e dalla spietatezza dei Corleonesi di Leggio, Reina, Bagarella, Provenzano, e altri boss di provincia e di città, come i Greco di Croceverde, i Brusca di San Giuseppe Jato, Nenè Geraci capo della cosca dei Partinicesi. Sulle strade della Sicilia Occidentale nel triennio 1980-1983 i morti furono più di duecento, ma nella sola Cinisi e zone limitrofe si contarono una trentina di caduti, quasi tutti dell’esercito di don Tano, che già, dal 1978, anno in cui era stato “posato” da capo della “Commissione”, ed in cui era stato ucciso Peppino Impastato, era scomparso. Ricomparve l’8 aprile 1984, quando venne arrestato a Madrid, assieme al figlio Vito e al nipote Pietro Alfano, a seguito di una complessa operazione internazionale, la “Pizza Connection”, un colossale traffico di droga. L’arresto di Badalamenti mise fine a un’epoca in cui, malgrado tutte le violenze, tra le istituzioni, le forze dell’ordine e il mondo politico c’era una sorta di continuo e in gran parte pacifico scambio di favori, di affari, di voti, di denaro, di carriere.
L’ombra dei Salvo
E’ in questo contesto che venne ucciso a Marsala, Silvio Badalamenti, responsabile della locale esattoria comunale e collettore di imposte dirette per la zona di Marsala e per altri comuni delle provincie di Palermo, Agrigento e Caltanisetta, dopo avere lavorato, dal 1969 al 1977 presso l’agenzia di Castellammare del Golfo.. Marsala è a due passi da Salemi, il regno dei due cugini Ignazio e Nino Salvo, esponenti di punta della D.C. siciliana, “legati da stabili vincoli di affari con i boss”, in particolare a Gaetano Badalamenti, “grandi esattori” attraverso la SA.RI, delle imposte di tutta la Sicilia, grazie a un incarico dato dalla Regione e costantemente rinnovato. Scrive la sentenza: «le pregresse esperienze giudiziarie e altri stretti rapporti con esponenti mafiosi di primissimo rilievo, erano tutti elementi, per la Corte di merito, univocamente orientati a certificare la sostanziale contiguità di Silvio Badalamenti ad ambienti mafiosi o quantomeno ad ingenerare il forte sospetto della sua non estraneità al contesto criminoso nel quale era maturato il delitto, circostanze entrambe ostative al conseguimento, da parte degli eredi, del beneficio economico rivendicato». Secondo i giudici “non basta la sola incensuratezza della vittima o la non affiliazione a una cosca, ma occorre che «vi sia la completa estraneità ad ambienti delinquenziali mafiosi, intesi in senso ampio e in modo particolarmente rigoroso laddove per vincoli, e ragioni familiari, la frequentazione di quegli ambienti sia naturalmente assidua».
La macchina di don Tano
Al momento della sua uccisione Silvio Badalamenti aveva addosso un assegno di sei milioni di lire, sulla Cassa Centrale di Risparmio, rilasciato da Rosalia Benedetto quale prezzo di una autovettura SAAB 900 TURBO venduta, tramite il Badalamenti, al Direttore della Esattoria di Trapani, Sig. Trapani, il quale dopo qualche giorno si era detto insoddisfatto dell'acquisto ed aveva richiesto la restituzione della somma pagata. Ma la vicenda più interessante è quella legata alla macchina di Don Tano, come viene fuori dalle indagini della squadra Mobile: Il 13 marzo 1982, i carabinieri di Montagnana (Padova) trovarono nella officina di De Putti Renzo, in riparazione, una autovettura "Alfetta 2000" targata PA-539233, blindata, intestata a Badalamenti Gaetano, ma in uso a Badalamenti Silvio che, interrogato, dichiarò di aver avuto in prestito la vettura dalla zia anche perché trovasse qualcuno disposto ad acquistarla. Dichiarava altresì di trovarsi in Veneto da solo per cure mediche. A Padova Silvio B. aveva preso contatto con Catarinicchia Alfonso - impiegato presso la Prefettura di tale centro, palermitano di origine, amico della famiglia Badalamenti conosciuta a Cinisi ove si recava ogni estate in vacanza – affinche lo accompagnasse da uno specialista per una visita e, nello stesso tempo perché gli indicasse un meccanico presso il quale fare eseguire alcune riparazioni all’Alfetta blindata che lo aveva portato a Padova. Qui vicino i carabinieri avevano sequestrato l’auto blindata, mentre Silvio si spostava a Macherio, tra Monza e la Brianza, presso la casa del magistrato Cusumano Antonino, la cui moglie era sorella della moglie del Badalamenti. Dall’interrogatorio del giudice Cusumano veniva fuori che Silvio era in affettuosi rapporti con il giudice, che, ogni qualvolta si recava al Nord per lavoro, veniva a trovarlo, che dopo l’omicidio di Giacomo Impastato (15.01.1982 ), imparentato con Gaetano Badalamenti, egli aveva pregato Silvio di trasferirsi a casa sua, a Milano, ed egli, dopo essersi dichiarato tranquillo, perchè diceva di non avere alcun rapporto con lo zio, verso la fine di gennaio del 1982, aveva accettato l’offerta, portando con se' moglie e figli, ed era rimasto a casa sua sino alla fine di maggio, recandosi spesso a Firenze presso la sede della SA.RI. sempre per esigenze del suo lavoro: erano arrivato a Milano con la moglie, verso i primi di ottobre del 1981, a bordo di una Alfetta 2000 blindata e si erano trattenuti circa quattro giorni, recandosi anche a Brescia. L’auto era stata lasciata, parcheggiata, presso il cancello della sua casa ed era stata ritirata, un mese dopo, dal fratello di Silvio, Salvatore Badalamenti, in compagnia di uno o due persone, ed allo stesso aveva consegnato le chiavi dell'auto; secondo il giudice ad accompagnare il cognato poteva essere stato Ninni Di Giuseppe, nipote acquisito di Gaetano Badalamenti. Evidentemente, secondo il giudice Cusimano i familiari di Silvio pensavano che anche lui avrebbe potuto essere un bersaglio dei killers mafiosi, sia che egli detenesse la vettura dello zio per venderla, sia che durante i suoi viaggi al Nord andasse ad incontrare lo zio, segnalato proprio in quel periodo in detta zona della provincia lombarda.
L’arresto, il rilascio, l’agguato
Dopo l’arresto e l’interrogatorio Silvio, aveva dichiarato di temere per la propria vita e di essersi allontanato da Marsala consumando due mesi e mezzo di ferie non godute più altri due mesi di congedo per malattia, era stato rilasciato ed era tornato a Marsala dove, si legge nel rapporto, “veniva raggiunto dai killers i quali non avrebbero mai potuto permettere che rimanesse in circolazione, dati gli obbiettivi aiuti che poteva dare allo zio, come dimostrato, tra l'altro, dalle vicende della auto blindata".
Nel rapporto della Squadra Mobile di Palermo, (22.8.84) si riporta l’interrogatorio di Pellerito Maria - madre della vittima e cognata di Gaetano Badalamenti per averne sposato il fratello Giuseppe - la quale aveva dichiarato che il figlio Silvio raramente si incontrava con il predetto zio, ma si prende nota anche di un esposto anonimo, con il quale Rimi Natale e Badalamenti Gaetano venivano indicati quali mandanti dell'omicidio di Silvio Badalamenti, ritenuto destituito di fondamento dato che, perché nella guerra di mafia il clan dei Badalamenti era stato preso di mira dalle cosche vincenti con la eliminazione di molti dei suoi componenti.
La vittima, proprio per l'appartenenza al nucleo familiare dei Badalamenti, era stata inserita dagli inquirenti nella associazione mafiosa ed era stata raggiunta dall'ordine di cattura emesso il 26.7.82 dalla Procura della Repubblica di Palermo, nonché dai mandati di cattura n. 343 del 17.8.82 e n. 237 del 31.5.83. Aveva 38 anni, quando il due giugno 1983, a Marsala, era appena uscito di casa e venne freddato da un killer in via Mazzini, al civico n. 22. La moglie sentì i colpi di pistola dalla sua casa. Diverse notizie sono state ricavate dal sito “Domani” in un articolo del 2 aprile 2021, che riporta atti del maxiprocesso.
Una disputa inutile
Tra la famiglia Ruffino-Badalamenti e quella di Giovanni Impastato da tempo si trascina, specialmente su Facebook una querelle degna di miglior causa. Il 5 dicembre 2021, visibilmente irritata da frasi ingiuriose, amplificate, fra l’altro, dai commenti, in siciliano si dice “di cu si ci abbagna u pani”, cioè di chi vi inzuppa il pane, categoria di cui Cinisi è piena, Felicetta Vitale, moglie di Giovanni Impastato, ha scritto questa lettera, dalla quale si può facilmente ricavare il livello dello scontro e delle accuse, quasi a testimoniare la permanenza di ferite che, a distanza di quasi 50 anni, non si sono mai sanate. Non riporto le accuse di Maria Badalamenti, che sono fra l’altro bene evidenziate nel testo:
“Cari amici e compagni di fb dopo l'ennesima provocazione della nuova paladina antimafia di Cinisi Maria Badalamenti che augura malattie e disgrazie agli Impastato per vivere tranquilla, non posso non intervenire. Chi è Maria Badalamenti? È la figlia di Silvio Badalamenti nipote di don Tano e nipote del mafioso Salvatore Badalamenti fratello di Silvio. Per chi non lo ricordasse Salvatore era il proprietario dell'immobile confiscato dove attualmente ha sede la polizia municipale di Cinisi. Da quando lo stato ha negato l'attestato di vittima di mafia per il padre e non avendo il nostro supporto (famiglia Impastato, Casa Memoria associazione compagni di Peppino e CSD di Palermo) la signora Badalamenti fa come la volpe con l'uva, diventiamo i suoi nemici. Ci definisce "allegra comitiva tra mafia e massoneria, mafiosa antimafia e vermi di cadavere" e che ci siamo costruiti la carriera attaccando 3 donne piccole e indifese, (soffre di mania di persecuzione), non abbiamo mai speso una parola né una frase su lei nè su suo padre. Silvio Badalamenti era un dipendente della SA-RI (esattoria) dei fratelli Salvo vicini a Bontade a don Tano. (È entrato per concorso?) In un video la signora dichiara che i suoi genitori quando si sono sposati per dissociarsi da don Tano non lo invitano al matrimonio, non è perché in quel momento don Tano si trova al fresco all'Ucciardone, perché non mi spiego la presenza di Silvio davanti casa di don Tano quando questo ritorna a Cinisi da Padreterno: una volta lo scambiai per Vito perché fisicamente si somigliavano. Mi domando, se Silvio si dissocia a da don Tano, perché gli ha fatto il favore di portare l'alfa 2000 blindata a Macherio per consegnarla al fratello Salvatore che è andato a ritirarla con Ninni Di Giuseppe. L'attacco alla famiglia Impastato continua denigrando Luisa prendendola per ignorante senza cultura che ha solo la terza media ecc.. (non sa che Luisa era prossima alla laurea in lettere e non ha preso la laurea per motivi personali) in ogni modo per portare avanti la propria testimonianza non c'è bisogno di laurea, dovresti vergognarti. A Luisa muove continuamente l'accusa che ha rapporti con la figlia ricchissima di don Tano, ma che io sappia don Tano aveva due figli maschi Vito e Leonardo: Maria fai uno scoop facci una sorpresa rivela chi è. La nuova paladina antimafia ha atteggiamenti che di antimafia hanno ben poco anzi sembra che la mafia è innata in lei: ecco come si rivolge ad Umberto Santino Presidente del CSD, che io amo e stimo assieme ad Anna: "Volevo dire a maialino Umbi baffo, satanasso e basso che finito con due mongospastici (Giovanni e Luisa) comincio con lui e la vecchia (Anna Puglisi) e la verità supposta in quel posto ti deve finire!! Mostro vi faccio vedere io una che vi fa nuovi”. Un'altra accusa che ci muove è il pregiudizio che noi avremmo sul nome Badalamenti: la solita mania di persecuzione: abbiamo tanti amici e parenti Badalamenti e non ci poniamo il problema. Ai nostri compaesani che non dimostrano dissenso nei nostri confronti "Cinisarazza, brutti criminali, orrendi e volgari, cafoni e ignoranti, buzzurri e pezzenti." Ovviamente da una che ha tutto bello che è colta, che ha villa con piscina che possiede 10 Rolex non mi aspettavo un linguaggio del genere. Maria sei una sorpresa. Una nostra amica di fb che, alla ennesima volta che gli Impastato la perseguitano (sempre mania di persecuzione) gli suggerisce di rivolgersi agli organi inquirenti, la signora risponde che già si è rivolta a procure a società e potenti mafiosi..al che mi viene un dubbio, che ci sia il suo zampino nell'esposto anonimo arrivato in procura sull'irregolarità della nostra impresa sul territorio di Carini. Come mai Carini dopo quasi sessanta anni scopre che l'impresa Impastato opera abusivamente su un territorio non di appartenenza? Di Veca non posso parlare perché c è un procedimento in corso fate una bella coppia siete fatti della stessa pasta. Io preferisco l'amicizia di persone perbene. In ultimo va dicendo che a noi arrivano soldi tanti soldi tantissimi soldi, ebbene voglio fare una confidenza alla signora Badalamenti con tutti questi soldi abbiamo comprato su suo suggerimento la discoteca "New Kennedy" di Alcamo e stiamo organizzando il veglione di Capodanno, alla consolle ci saranno Giovanni e Luisa Impastato. Sei invitata non mancare".
Se Felicetta, che io conosco come una donna mite e riservata, sia arrivata a un livello di esasperazione da causare questo tipo di risposta, vuol dire che, attraverso i social Maria Badalamenti ha portato avanti una feroce campagna di accuse, soprattutto nei confronti di quella che per lei è un’antimafia di facciata che usufruisce di finanziamenti pubblici edi protezioni istituzionali. Personalmente, ogni volta che mi trovo davanti a questi violenti scontri che caratterizzano il variegato mondo dell’antimafia, e che ho provato anche sulla mia pelle per altre ragioni, provo molta amarezza e penso che tante forze così agguerrite andrebbero rivolte a combattere insieme il vero nemico, che è la mafia, non chi, con tutti i suoi limiti e con le sue cicatrici interne la mafia la combatte.E’ qualcosa che dico alle due famiglie private di un loro congiunto per opera di criminali mafiosi: “Unire le forze della Sicilia migliore, Organizzare assieme la vera antimafia per cambiare la Sicilia: che sogno!
Un’ultima nota che riguarda il casolare che, per quanto confiscato e restaurato, secondo la Corte d’Appello di Palermo andrebbe riconsegnato a Leonardo Badalamenti, figlio di don Tano: l’udienza definitiva è stata rinviata al 14 luglio.
"Porto il cognome Badalamenti ma disprezzo quello zio boss". Salvo Palazzolo su La Repubblica.it il 12 gennaio 2018
Di che cosa stiamo parlando
Silvio Badalamenti, figlio di un fratello del boss Gaetano Badalamenti, era il direttore delle esattorie di Marsala, fu assassinato il 2 giugno 1983, mentre andava al lavoro. Sua figlia Maria ha scritto un libro in cui racconta la storia della famiglia e la scelta del padre di stare lontano dai parenti coinvolti in vicende di mafia. Una storia che riporta agli anni bui della Sicilia, ma per molti aspetti è una storia ancora attuale, che ha ancora Cinisi come palcoscenico.
Ha scoperto la mafia una mattina d'estate, a un pranzo di famiglia.
«Avevo sei anni ed ero felice di giocare in quella bellissima villa antica – racconta – poi mi accorsi di don Tano, era seduto a capotavola, tutti lo ossequiavano. Tutti tranne me e mio padre che se ne stava in disparte, gli tirarono un gavettone. E io, per vendetta, lanciai addosso a don Tano una tazzina di caffè bollente». Da quel giorno, don Gaetano Badalamenti, il capo della Cupola mafiosa che qualche tempo dopo ordinò la morte del giovane Peppino Impastato, iniziò a chiamare quella bambina con un ghigno di disprezzo. «A sirbaggia, mi aveva soprannominata. La selvaggia».
La donna che parla porta lo stesso cognome di don Tano. Si chiama Maria, è la pronipote del capomafia di Cinisi morto nel 2004, in un carcere americano.
«Ho sempre disprezzato quell'uomo e tutto ciò che ha rappresentato», dice. Adesso, l'ha anche messo nero su bianco in un libro ("Sono nata Badalamenti", Dm edizioni) perché vuole ridare giustizia a suo padre Silvio, figlio di un fratello del capomafia, venne ucciso nel 1983, proprio per quel cognome che in Sicilia vuol dire mafia, affari e sangue. A quel tempo, invece, don Tano era stato ormai bandito dai nuovi signori di Cosa nostra, Riina e Provenzano, i suoi fedelissimi rimasti in vita e tutti i parenti erano fuggiti lontano dalla Sicilia. «Mio padre no – racconta Maria – lui era diverso da loro, mio padre non era un mafioso.
Aveva studiato al Gonzaga, la migliore scuola di Palermo, si era laureato, era diventato il direttore delle esattorie di Marsala, niente a che fare con le esattorie dei cugini Salvo. E continuava ad andare al lavoro, lo uccisero prima che entrasse in ufficio».
Silvio Badalamenti portava un cognome pesante. «Restando in Sicilia aveva detto il suo no alla mafia. Ai Corleonesi che odiavano i Badalamenti, ma anche ai suoi stessi parenti, che lui cercava di tenere sempre a distanza». Poi, però, anche Silvio Badalamenti era finito in un blitz contro il clan di Cinisi, con l'accusa di aver portato l'auto blindata di don Tano da Palermo a Milano. «Ma dopo averlo interrogato, Falcone lo scarcerò subito», racconta Maria, che adesso ritiene di aver trovato nuove prove per raccontare la vera storia di quel viaggio con l'auto blindata del capomafia, e le nuove prove le ha consegnate ai carabinieri. «Non era un favore a Badalamenti», dice. E di più non vuole aggiungere, al momento. In quei giorni difficili, Falcone disse al padre di Maria: «Se ne vada dalla Sicilia». «Mio padre gli rispose: "Ma io vivo del mio lavoro, dove vado?"». Fu ucciso la mattina del 2 giugno 1983. «"Era un galantuomo", disse Falcone al colonnello Nicolò Gebbia, che fece le prime indagini. Gli disse: "Aveva la sfortuna di questa nemesi storica, di portare il cognome Badalamenti"».
Eppure, al processo per la morte di Peppino Impastato, il pentito Angelo Siino ha raccontato di aver saputo da «Silvio Badalamenti, un mio conoscente» notizie sull'ordine di morte lanciato da don Tano: «Mi disse che con le sue trasmissioni radiofoniche aveva offeso Badalamenti». Racconta Maria: «Il figlio di Siino era mio ero compagno di liceo, un giorno mi sussurrò: "Mio padre conosce tuo padre Salvatore". Gli dissi: "Ti sbagli, mio padre si chiama Silvio, ed è morto da tempo. Lui chiese a suo padre e tornò dicendomi, hai ragione, non si conoscono». Salvatore è il fratello di Silvio, che è stato condannato per mafia.
Sono i Badalamenti il cuore del lungo racconto di Maria, il suo destino. «C'è un filo rosso che lega passato e presente», dice.
«La vera ricchezza di don Tano stava nei suoi segreti, attorno alle relazioni inconfessabili che intratteneva, con il mondo della politica, delle istituzioni, dell'economia. Segreti che oggi, probabilmente, conservano i suoi figli, di cui non si ha più traccia». L'inchiesta su Leonardo Badalamenti, arrestato in Brasile, per aver gestito operazioni con bond venezuelani per un miliardo di dollari, si è chiusa con un nulla di fatto. Ora, la pronipote di don Tano denuncia che a Cinisi sono tornati i perdenti di un tempo. «Con i loro soldi, con i loro affari, accolti da un rinnovato consenso sociale – dice Maria Badalamenti – basta guardare su Facebook quanti like ottengono. E per quel no di mio padre ci hanno tolto l'eredità, ci fanno una guerra silenziosa. Ma io non ho paura e vado avanti».
Cognome pesante Maria Badalamenti è figlia del nipote del capomafia che volle la morte di Peppino Impastato. Salvo Palazzolo 12 gennaio 2018
MARIA BADALAMENTI. La figlia di Silvio, ucciso dalla mafia, non ha paura dei boss (Italia sì). Morgan K. Barraco su ilsussidiario.net il 27 ottobre 2018.
Maria Badalamenti, figlia di Silvio, ucciso dalla mafia, sarà ospite a Italia sì oggi pomeriggio, su Rai 1. La donna non ha paura dei boss e lo dice apertamente
Ucciso per un cognome: Silvio Badalamenti ha pagato caro il suo collegamento con il boss mafioso Gaetano. Uno zio conosciuto per il suo ruolo nella mafia e da cui il direttore delle esattorie di Marsala ha preso le distanze da sempre. La figlia di Silvio Badalamenti, Maria, ne parla nel libro “Sono nata Badalamenti”, pubblicato con DM Edizioni, una raccolta di memorie in cui spiega perché il padre ha deciso di stare alla larga da tutti i parenti coinvolti con Cosa Nostra. Una storia che ci riporta indietro a prima degli anni Ottanta e dell’uccisione dell’imprenditore, fino a quella Cinisi inginocchiata di fronte a un clan sempre più spietato. Maria Badalamenti ne parlerà a Italia sì oggi pomeriggio, su Rai 1. Ripercorrerà ancora una volta quel primo incontro con don Tano, il prozio venerato da tutta la famiglia e che Silvio guarderà sempre con sospetto.
MARIA BADALAMENTI E LO ZIO GAETANO
Non ci sarà mai un legame affettuoso anche fra Maria e il boss Gaetano, per via di una tazzina di caffè bollente che, bambina, gli tirerà addosso per vendicarsi di un gavettone fatto al padre. Per don Tano quella piccola di soli sei anni diventerà anche per gli anni a venire “a sirbaggia”, la selvaggia. “Lui era diverso da loro”, riferisce a La Repubblica, “mio padre non era un mafioso”. L’intera esistenza di Silvio Badalamenti dimostra infatti come fin dalla giovane età non vorrà far parte di quella famiglia mafiosa. Studia, si laurea, diventa direttore delle esattorie e mette su famiglia. Casa e lavoro, ma lo uccideranno proprio per quel cognome così pesante che attirerà i Corleonesi. Esiste un unico filo conduttore fra Maria Badalamenti e il padre Silvio, ucciso dalla mafia nel giugno dell’83. Il loro grido di battaglia è quel no detto alla mafia che li unisce ancora oggi, a distanza di trent’anni dal delitto ordinato forse dallo stesso Gaetano Badalamenti, boss mafioso.
LA MORTE DEL PADRE SILVIO
Ufficialmente in realtà saranno i Corleonesi a mettersi sulle tracce dell’imprenditore di Marsala e a vendicare il loro diritto a controllare Cinisi senza le incursioni del clan rivale. Anche Silvio Badalamenti finirà nel mirino della giustizia, con un blitz ordinato da Giovanni Falcone che sospetta possa essere un affiliato della mafia. La sua colpa è infatti aver guidato l’auto blindata di don Tano da Palermo fino a Milano. “Se ne vada dalla Sicilia”, gli dirà alla fine Falcone dopo aver appurato l’innocenza dell’imprenditore. Il Magistrato intuiva la pericolosità di quella parentela. Fin quando Silvio fosse rimasto in Sicilia, avrebbe corso lo stesso rischio del resto della famiglia, nonostante la sua lotta silenziosa contro la mafia. La stessa che poi il clan sopravvissuto alla morte di don Tano continuerà a fare a Maria e ai suoi familiari. “Non ho paura e vado avanti”, dice a La Repubblica convinta che ancora oggi il clan sia ossequiato a Cinisi.
“Sono nata Badalamenti” Storia di una lotta coraggiosa (Mattino della Domenica 18.07.2021). Stefano Piazzas il 18 Luglio 2021 su confessioni-elvetiche.ch.
Fa già caldo a Marsala la mattina del 2 giugno 1983 e un uomo cammina a passo spedito: si chiama Silvio Badalamenti ed è diretto verso l’esattoria dove lavora e non vuole fare tardi. È tranquillo perché nonostante il cognome che porta e che pesa come un macigno non ha nulla a che vedere con la mafia e con il male. È un padre affettuoso e un uomo gentile ma per lui è l’ultimo giorno della sua vita perché in quell’ufficio non ci arriverà mai; improvvisamente degli uomini lo affiancano e lo ammazzano al centro di una piazza di Marsala. Il male arriva e sommerge tutto, restano solo le lacrime di chi lo piange mentre a distanza chi ne ha decretato la morte festeggia magari durante un osceno banchetto. Chi sono? Sono i mafiosi corleonesi guidati da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (entrambi deceduti) che spazzano via tutti i loro avversari trasformando la Sicilia in un teatro di guerra dove trovano la morte magistrati, poliziotti, carabinieri, mafiosi veri e presunti, donne, bambini, parenti o supposti tali. È un massacro che annichilisce lo Stato che in Sicilia è marcio nelle sua fondamenta e che per questo fatica a reagire.
Chi è stato? Chi sono gli esecutori materiali? Da dove sono arrivati coloro che hanno ucciso Silvio Badalamenti senza pietà in pieno giorno strappandolo alla sua famiglia? Nessuno vede niente ed è la solita litania; “Guardi Dottore, non ho visto nulla ero girato dall’altra parte”– oppure – “ero appena andata via”. Storie di omertà e di paura, quella vera che ti fa asciugare la bocca. Silvio Badalamenti è li steso a terra e nemmeno il tempo di piangerlo che iniziano a girare (ad arte) le voci di coloro che dicono che è morto per i legami con lo zio Don Gaetano Badalamenti all’epoca capo della cupola mafiosa. È un classico della mafia quello di sporcare la figura di chiunque e non importa se la vittima è ancora lì in una pozza di sangue e per un po’ il fango ricopre Silvio la moglie Gabriella e le due figlie, Gloria e Maria. Ci vuole un cercatore di verità come Giovanni Falcone, a sua volta vittima di calunnie anche da parte di suoi colleghi diretti da “quelle menti raffinatissime” che lo faranno uccidere sull’autostrada di Capaci (Palermo) il 23 maggio 1992, per ridare a Silvio Badalamenti e alla sua famiglia ciò che è loro. Quest’uomo gentile e perbene ucciso in una piazza di Marsala, anche secondo le preziose testimonianze di alcuni pentiti, con la mafia non c’entrava nulla, anzi, si era sempre tenuto ben lontano dalle attività criminali della famiglia Badalamenti e lo aveva fatto ben sapendo che questo avrebbe potuto costargli ma l’uomo che aveva la schiena dritta aveva deciso di restare a vivere e a lavorare nella sua terra. Un incosciente? No, Silvio era una persona perbene, un cittadino e padre modello e un lavoratore. Per conoscere la sua storia e quella della sua famiglia bisogna leggere il libro della figlia Maria “Sono nata Badalamenti” (Ed. David and Matthaus) presentato lo scorso 10 luglio alla VII edizione del Festival letterario AG Noir di Andora (Savona) ma leggerlo non ci basta e così decidiamo di andare ad incontrare questa donna orgogliosa, dal sorriso contagioso e dalla malinconia struggente. La accompagna la sorella Gloria, che si tiene lontano dai riflettori per scelta ma che è un tutt’uno con Maria e te ne accorgi subito da come la guarda e da come la protegge.
Perché è morto vostro padre?
Perché Salvatore Riina e i corleonesi nella loro strategia del terrore decisero di uccidere chiunque potesse anche solo lontanamente essere d’intralcio. Papà aveva capito cosa stava accadendo e nel 1983 per qualche mese, ci allontanammo dalla Sicilia ma poi ci disse “perché devo fuggire dalla mia terra come se fossi un mafioso, come se fossi un criminale? Io sono un uomo onesto” e così tornammo.
Che cosa significa chiamarsi Badalamenti?
Sia io che mia sorella da bambine non ci accorgemmo di nulla essendo cresciute in un contesto completamente diverso da quello mafioso, poi nel tempo abbiamo dovuto fare i conti con il pregiudizio e l’ostilità della gente che ti giudica da un cognome nonostante tutti sappiano che noi con la mafia non abbiamo mai avuto nulla a che fare. Io stessa fatico ancora a capire come le persone si facciano guidare ancora dal pregiudizio che non è casuale.
In che senso, che cosa intendi?
Il pregiudizio verso di noi è stato costruito a tavolino e ne ho avuto conferma anche da collaboratori di giustizia con i quali ho parlato. Intorno al pregiudizio e all’isolamento costruito attorno a noi si sono fatti accordi, interessi politici e interessi mafiosi. Mio padre decise di rimanere in Sicilia nonostante in quegli anni si uccidesse chiunque portasse il cognome Badalamenti. E questa è una scelta che io voglio ribadire, perché è un NO, seppure vissuto nell’intimità della famiglia, che lui disse alla mafia. Al ricatto dei Corleonesi che lo volevano via dalla sua terra nonostante fosse estraneo agli affari mafiosi. Disse NO ai Badalamenti che gli chiedevano favori e che lo volevano coinvolgere nei loro sporchi affari. C’è un episodio che mi ha colpito ascoltandoti e del quale parli nel libro: a soli sei anni tirasti addosso e di proposito a Don Tano Badalamenti un caffè bollente. Perché? Eravamo in campagna non ricordo se in estate o in primavera e venimmo invitati a pranzo da Don Tano con il quale non ci si vedeva praticamente mai e con il quale la distanza era profonda, basti pensare che i testimoni di nozze di papà e mamma erano uomini delle Istituzioni. Mio padre aveva studiato dai gesuiti ed era laureato, non frequentava questi uomini lontani anni luce da lui. Nonostante questo andammo (e non ricordo il perché) a questo pranzo. Don Tano era lì seduto attorniato dai suoi uomini che ad un certo punto iniziarono a prendere in giro mio padre arrivando al punto di tirargli dell’acqua e non era per scherzo, era per disprezzo, era fatto per metterlo in ridicolo davanti a tutti ed io lo avvertii e fu così che andai dritta da Don Tano e gli tirai addosso il caffè che avevo preso per papà…Mentre i figli di Don Tano scorazzano a bordo di lussuose fuoriserie tu fai una gran fatica a tirare avanti e lotti ogni giorno contro il pregiudizio e le cattiverie gratuite delle quali sei vittima…Vedi, anche oggi ho avuto ho avuto una giornata amara. Amara di difficoltà economiche, di difficoltà di ogni tipo ma resto a Cinisi ( Palermo) perché ho questo animo per cui voglio alla fine avere ragione, perché so che ho ragione e quindi sono qui a lottare contro coloro che mi chiudono tutte le porte e mi fanno delle cattiverie come le recensioni negative, orrende e mortificanti sulle stanze del Bed & Breakfast del quale mi occupo. Tutte inventate e da questo non mi posso difendere perché è tutto organizzato. Poi arrivata a un certo punto non riesco più neanche a distinguere le cose che ti succedono per caso, quelle che accadono perché è giusto da quelle che ti fanno apposta. Sei così stanca e così provata che confondi la realtà con le paure. Ci vuole grande forza per sopportare tutto questo perché sembra di impazzire.
Chi può ridarti la serenità? Lo Stato?
Sì, ma anche l’opinione pubblica perché io sono qua, sono da sola a combattere e mi scontro io quotidianamente con le porte chiuse. E quindi è ora che si prenda atto che non è giusto, che non è corretto tutto questo, che io avevo solo 9 anni, noi eravamo solo due bambine, non c’entravamo niente. Poi per tutta la vita ci siamo sentite dire: “Questo lavoro no perché ti chiami Badalamenti, questo no perché ti chiami Badalamenti”. Io sono sopravvissuta, sono ancora viva dopo tanto dolore e tanta amarezza, però sono stanca veramente. È ora che mi venga restituita la mia dignità.
La storia di Maria Badalamenti è stata rilanciata sui media attraverso la diretta Facebook ne “Il salotto di Germana”, dove Maria ha dialogato con Germana Zuffanti (ideatrice dello spazio virtuale che durante la pandemia ha animato numerose presentazioni di libri) ed il noto giornalista del Tg1 Paolo Di Giannantonio.
Non c'è più religione...Assolto il figlio del boss, si chiama Polverino e il fatto non sussiste: assurdo vero? Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Luglio 2022.
La nascita è un caso, ma è un gran bel caso e un cognome può essere una grande fortuna o una grande maledizione. Se nasci figlio di un boss allora la maledizione inizia alla nascita e poco conta ciò che fai e chi sei, il marchio è indelebile. Vincenzo Polverino, figlio del boss Giuseppe Polverino, detenuto da tempo, è stato assolto dall’accusa di intestazione fittizia di beni. Lo ha deciso il giudice del tribunale Napoli nord. Per lui i pm avevano chiesto una condanna a tre anni e sei mesi di reclusione. Polverino era a processo assieme ad altri presunti esponenti dello stesso clan. Siamo a Marano e la storia è quella di Vincenzo Polverino.
È nato figlio di un boss, mica l’ha deciso lui. Ci è nato e basta. È incensurato. Decide di aprire varie attività commerciali tra Marano e la zona flegrea: pub e macellerie per la precisione. Entra nel mirino della Procura, anzi, ci è nato. Il suo cognome lo precede, nasce attenzionato dai Pm. Così nel 2020 le sue attività vengono raggiunte da interdittiva antimafia, Polverino è costretto a chiudere una macelleria e un’hamburgheria a Marano. «Lascio dopo 5 anni meravigliosi, conscio che non posso cambiare il mio stato di famiglia. Ho combattuto invano contro il pregiudizio. Lascio tanti operai con le loro famiglie senza lavoro» scriveva sul suo profilo Facebook nell’annunciare la chiusura delle attività. Già… il pregiudizio.
«Per la giustizia Vincenzo Polverino è il “figlio di” e in quanto tale è votato a condurre determinate dinamiche di vita, non è così – commenta l’avvocato Giovanni Esposito Fariello, suo legale insieme con l’avvocato Raffaele Esposito – È estraneo a qualsiasi illecito. Era ed è incensurato». Eppure, è stato imputato in un processo salvo poi essere assolto perché il fatto non sussiste. «È un paese nel quale il profilo probatorio e l’investigazione per arrivare alla prova di responsabilità è evanescente, a Vincenzo Polverino sono stati contestati due episodi di trasferimento fraudolento di beni ma non sono emerse prove in questa direzione. Qual è invece l’ipotesi delittuosa? – argomenta l’avvocato Esposito Fariello – La finalità, secondo l’accusa queste due attività erano finalizzate a eludere le disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale. Ma la verità è che in questo processo nessuno ha accertato come, quando e perché sia avvenuta questa intestazione fittizia di beni con quello scopo, quindi mancava la precondizione dell’imputazione. Questa assoluzione – conclude – dimostra che esiste ancora la giustizia perché i giudici hanno verificato l’inesistenza dei profili probatori».
La sentenza, infatti, dice: assoluzione perchè il fatto non sussiste (eh lo so che a molti sembrerà assurdo). Ma i fatti dicono anche tanto altro, raccontano di attività aperte e chiuse, di famiglie senza un lavoro e di un ragazzo che è incensurato e che ha provato a scrollarsi di dosso un cognome pesante, ingombrante, giudicante più dei giudici. Polverino sarà stato pure assolto dalla giustizia in un’aula di tribunale, ma noi saremo capaci di assolverlo mettendo da parte i pregiudizi? No. Perché siamo impregnati di giustizialismo e perché chi nasce lì e con quel cognome non potrà mai avere un’altra vita. È così o no? Sì, sarà così fino a quando si continuerà a mettere un marchio a fuoco alla nascita.
Sei figlio di, sei nipote di, sei nato lì. La bilancia è il simbolo della giustizia, ma l’ago non può essere rappresentato da un cognome. «Bisogna recuperare i fondamenti del diritto – conclude Esposito Fariello – nelle aule c’è scritto “la legge è uguale per tutti”. Bisognerebbe invertire la frase e scrivere “tutti sono uguali davanti alla legge” e per finire la frase non so se metterci un punto, un punto esclamativo o un punto interrogativo…».
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Liberi di scegliere. Serve una legge per salvare i figli e i nipoti dei mafiosi dalla criminalità organizzata. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.
Il 31 luglio del 2023 scadrà il protocollo che ha permesso a 100 minori e a 25 nuclei famigliari di uscire da un destino già segnato. Il magistrato Roberto Di Bella spiega a Linkiesta perché bisognerebbe cristallizzare questo aiuto in una norma: «I successi sarebbero più forti e duraturi se potessimo disporre di risorse per il reinserimento lavorativo dei ragazzi».
Il 19 luglio del 1992, il giorno in cui fu assassinato Paolo Borsellino insieme agli agenti della sua scorta, nell’anno dell’assalto terrorista di Cosa Nostra, è diventata una data indimenticabile e tragica. A marzo viene assassinato Salvo Lima, l’uomo di Cosa Nostra dentro le istituzioni, il proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia, ucciso per non aver mantenuto la promessa di aggiustamento del maxiprocesso istruito dal pool antimafia di Palermo che aveva seppellito i boss sotto una montagna di ergastoli; a maggio la strage di Capaci.
«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur», aveva denunciato dieci anni prima il cardinale Salvatore Pappalardo, ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, citando la famosa locuzione di Tito Livio. Dieci anni dopo, risuonò come una biblica condanna contro i mafiosi l’invettiva straziante di Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti della scorta di Falcone: «Io vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio». Costretto a reagire dopo anni di codarda inerzia, di complicità, di sottovalutazione, lo Stato mise infine in campo una durissima reazione che sgominò i sanguinari corleonesi.
Il racconto di quel che allora vidi da cronista l’ho raccontato nell’ultimo numero di Linkiesta Magazine. Oggi voglio ricordare quella data attraverso una delle tante persone la cui vita cambiò in quei giorni: «Era il 17 luglio 1992. Non erano ancora passati due mesi dalla strage di Capaci e a Milano, cinque mesi prima, il 17 febbraio, l’arresto di Mario Chiesa aveva fatto franare il sistema politico italiano. In quel momento fare il magistrato non era una scelta come le altre, soprattutto per un ragazzo siciliano. Per anni attorno a noi si era combattuta una guerra. Non c’era ragazzo siciliano che non avesse sfiorato da vicino il rosario dei morti che aveva devastato la nostra isola», così racconta il giorno in cui diventò magistrato Roberto Di Bella, già presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, attualmente presidente di quello di Catania, nel libro scritto con Monica Zappelli “Liberi di scegliere” (Rizzoli), alla cui storia si ispira anche l’omonima fiction Rai interpretata da Alessandro Preziosi.
Messinese, 59 anni, aspetto mite e fisico minuto da judoka, sposato con un figlio, Di Bella è impegnato in una sfida che sembrava impossibile, sottrarre al destino mafioso decine di ragazzi e ragazzi. Mi racconta: «Ho fatto tutta la mia carriera lavorativa al tribunale dei minori di Reggio Calabria che scelsi come sede quel 17 luglio del 1992. Sono arrivato nel 1993 e, dopo una parentesi fuori, sono tornato nel 2011 come presidente e mi sono trovato a dover giudicare i figli o fratelli minori di quelli che avevo giudicato negli anni ’90. Ma non era solo una mia sconfitta personale: era anche la sconfitta della giustizia e dello Stato che sembravano non poter cambiare un destino ineluttabile Ci domandavamo perché il tribunale intervenisse su genitori tossicodipendenti che non assicuravano il benessere dei minori allontanandoli provvisoriamente dall’ambiente familiare e non potessimo farlo per famiglie che inculcavano una vera e propria educazione criminale, esponendo i figli a una condizione di sofferenza. Voglio essere chiaro: nessuna pulizia etnica, né interventi preventivi: se il genitore mafioso tiene lontani i figli da quell’ambiente noi non interveniamo. Né vogliamo imporre ideologie, solo educare al rispetto delle leggi, al rispetto dell’altro. Non ho mai detto a nessuno di rinnegare il padre e la madre, ma di rinnegare la cultura criminale. Certo, all’inizio è stata dura, quando scrivevano che non esistono deportazioni a fin di bene, quando ci accostavano alle magistrature di stati totalitari, accusandoci di voler inculcare in questi ragazzi un’ideologia di Stato. Abbiamo attraversato la bufera isolandoci e concentrandoci sui singoli casi, poi i risultati positivi ci hanno aiutato a far comprendere che la nostra azione era rivolta al bene del minore».
«Vuol sapere qual è la chiave di tutto? – mi spiega Di Bella – È la sofferenza. Non solo quella procurata al di fuori della famiglia, ma quella causata ai figli, alle mogli, alle madri, a sé stessi. È il dolore di bambine e bambini cresciuti in notti insonni popolate da incubi in attesa di un’irruzione delle forze dell’ordine; condannati al Natale trascorso in un covo nascosto nel cuore della montagna; allevati, come dice un padre al figlio, per diventare Vangelo della ‘ndrangheta al posto suo; che devono imparare, anche questo l’ho sentito in un’intercettazione, a tagghiari ‘a purviri, cioè la droga; educati all’uso delle armi. Ci sono ragazzi che sputano in terra al passaggio di una volante, altri che si fanno tatuare sotto la pianta del piede la fiamma dei carabinieri, in modo da poterla calpestare costantemente. È capendo che dietro questi comportamenti spavaldi si cela spesso una sofferenza che abbiamo fatto breccia nel muro della ‘ndrangheta e salvato decine e decine di ragazzi, allontanandoli dalle famiglie mafiose e mostrando loro che c’è un altro destino possibile, che possono essere liberi di scegliere».
Le prime a recepire questo messaggio sono state le madri. Ecco il racconto che una di queste, devastata da un pianto irrefrenabile, fa davanti al giudice: «Sono la madre di R. di 15 anni…. Mio figlio pensa che andare in carcere sia un onore e pensa che può dargli rispetto, ma in realtà non sa cosa è il carcere e quello che potrebbe accadergli li dentro. La prego, mandi i miei figli lontano da Reggio Calabria». Questa esperienza che finora ha riguardato 100 minori e 25 nuclei familiari è affidata a un protocollo d’intesa siglato con la Cei, Libera, la Direzione nazionale antimafia e ben cinque ministeri (Giustizia, Interno, Istruzione, Difesa, Pari Opportunità).
Per una vera e propria strategia di recupero secondo Di Bella serve che «quanto previsto nei protocolli che abbiamo stilato sia cristallizzato in una normativa nazionale, con risorse da destinare alla formazione degli operatori, all’assistenza alle famiglie, al problema del lavoro. I successi sarebbero più forti e duraturi se potessimo disporre di risorse per il reinserimento lavorativo dei ragazzi. Penso a una specie di Piano Marshall per i giovani che vogliono uscire dalla criminalità, e dobbiamo aiutare le donne che, pur senza voler diventare collaboratrici di giustizia, vogliono comunque allontanarsi e allontanare i figli dal sistema criminale».
Il protocollo scade il 31 luglio dell’anno prossimo e attualmente è finanziato solo dalla Conferenza episcopale italiana. La sottosegretaria al sud Dalia Nesci ha presentato una proposta di legge affinché il protocollo diventi una legge.
Anche a Catania ci sono molti minori utilizzati come carne da macello. E anche qui Di Bella immagina una sorta di Erasmus della legalità per i minori utilizzati dalla mafia: «Con la prefettura abbiamo creato un osservatorio sulla criminalità giovanile. Abbiamo già emesso oltre venti provvedimenti di allontanamento dalle famiglie, ma occorre intervenire con strumenti diversi anche sull’evasione scolastica che qui è altissima: se non vanno a scuola i ragazzi stanno per strada dove nei quartieri poveri e degradati sono facile preda della criminalità. Si sta aprendo una breccia psicologica e culturale importante».
Ecco cosa gli scrive un boss detenuto al 41 bis, parlando del figlio: «Quando viene a trovarmi in carcere mi considera un mito. Ma io non sono un mito, la mia vita è stata un fallimento, non voglio che mio figlio faccia la mia stessa vita, lo tenga lontano da quel maledetto quartiere».
Dice Di Bella: «Ho trovato spesso riflessioni intense e un grumo di umanità che non mi aspettavo di trovare. Noi possiamo giudicare i loro comportamenti dal punto di vista penale, ma cosa li spinga a tali scelte lo sa solo Dio».
Credo che questa idea di giustizia, attenta all’umanità delle persone, priva di ansie giustizialiste, sia molto vicina all’idea che ne aveva Paolo Borsellino, che aveva gestito con paterna attenzione e umanità la vicenda di Rita Atria, una giovane che aveva denunciato la famiglia mafiosa e che si uccise dopo la morte del giudice.
(ANSA il 7 Dicembre 2022) - "Sono un uomo libero e non starò mai zitto per compiacere il potere o avere in cambio qualche favore. Continuerò a dire sempre quello che penso". In un'intervista esclusiva a "Il Lametino.it", il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, parla a tutto campo del suo futuro prossimo - non appena scadrà il mandato alla guida della Dda del capoluogo di regione - si sofferma sulla storia criminale della Calabria, sul valore anche simbolico della nuova sede degli uffici giudiziari di Catanzaro e - tra gli altri argomenti - sull'evoluzione del processo Rinascita Scott in corso nell'aula bunker di Lamezia Terme.
"Potrei stare a Catanzaro fino al 16 maggio 2024 - spiega al 'Lametino.it' - dal 17 in questa procura tornerei sostituto procuratore dell'ordinaria, quindi non per reati di mafia. Devo per forza trovare per quella data un posto in cui poter continuare a fare il procuratore della Repubblica e che anche sul piano motivazionale rappresenti per me una sfida. Ho fatto domanda per la procura di Napoli e vedremo cosa pensa di me il Csm, in ogni caso si deciderà a febbraio 2023. Si è liberata la procura generale di Roma e farò domanda anche per quella".
"Altrimenti, se per il Csm e la politica non vado bene per nessuna delle due postazioni, aggiunge - potrei andare in pensione e continuare a scrivere libri, a dire la mia. In realtà posso fare tante cose. C'è gente che può fare solo un mestiere, io almeno tre o quattro. Sono un bravo organizzatore, ho una grande manualità. Da bambino, nel mio paese (Gerace, ndr) sono andato a bottega - questa era la tradizione - e da quando avevo cinque anni ho iniziato a lavorare: ho imparato a fare il calzolaio, il panettiere, il falegname, il meccanico, a coltivare l'orto.
Una cosa sia chiara sempre: sono sotto scorta dall'aprile 1989, più passano gli anni e minore è la mia libertà fisica, anche per percorrere 10 metri devo parlarne con la scorta ma nella mia testa resto un uomo libero, assai libero. Non ho padroni e continuerò a dire quello penso e se non lo dico è perché non lo posso dimostrare, ma di certo non starò in silenzio per avere incarichi. Sono libero e sono geloso di questa mia libertà. Molti non parlano per codardia o opportunismo rispetto al potere del momento. Non io".
Urge la riforma Nordio. Ecco le intercettazioni taroccate da Gratteri e le troppe persone innocenti arrestate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 8 Dicembre 2022.
Sono quei casi che un profano potrebbe ritenere rarissimi. Non sono rarissimi. Specialmente non lo sono a Catanzaro. Cosa è successo? Che un signore che si chiama Francesco Pannace, di 35 anni, è stato condannato all’ergastolo perché ritenuto colpevole di un omicidio. Anche particolarmente ignobile. Aveva freddato con la pistola – secondo l’accusa e la Corte – un padre di famiglia che teneva per mano il figlioletto di sei anni. A incastrarlo alcune testimonianze dei pentiti, che però erano in contrasto una con l’altra, e dunque non potevano provare nulla, ma soprattutto una intercettazione, presentata dall’accusa, che era stata interpretata come una specie di confessione.
Pannace avrebbe detto a un amico: “Hai saputo? Mi hanno incastrato per l’omicidio Polito”. Per la verità non sembra una frase così chiara, ma alla Procura di Gratteri e alla Corte era sembrata chiara e inequivocabile. Al processo d’appello però gli avvocati hanno chiesto che si ascoltasse l’originale dell’intercettazione. E si è scoperto che nella trascrizione era stato tagliato un pezzo della frase. Pannace diceva: “Hai saputo cosa si dice in giro?”. Cioè semplicemente riferiva delle voci contro di lui che poi erano le voci che portarono alla sua incriminazione. Nessuna confessione. Anzi. I giudici della Corte d’appello non hanno avuto dubbi e lo hanno assolto.
Dicevamo che taroccare le intercettazioni a Catanzaro non è una cosa rarissima. Recentemente è emersa l’intercettazione taroccata con la quale due anni fa fu incastrato- appunto: incastrato, che non vuol dire “scoperto” – l’avvocato Pittelli. Era la voce di una signora che diceva al marito, considerato dall’accusa un mafioso: “qui abita l’avvocato Pittelli. È mafioso”. Più che sufficiente questa affermazione per spiccare il mandato di cattura. Poi l’intercettazione è stata ascoltata. Era diversa. La moglie chiedeva al marito: “Ma è mafioso?”, col punto interrogativo. Il marito rispondeva: “No: è avvocato”.
Lo show di Gratteri da Lilli Gruber, le bufale del pm: “Io garantista, tra i miei arresti non ce ne è uno infondato”
Pensateci un po’ a questi episodi. Ieri Gratteri ha dichiarato a un giornale che nessuno mai lo farà tacere perché lui è un uomo libero. Va bene: nessuno lo farà tacere. Il problema è se qualcuno gli impedirà di arrestare troppa gente innocente. Che non è libera perché lui, per sbaglio, li ha messi in cella. Magari ci penserà Nordio, se rispetterà la parola e riformerà drasticamente le intercettazioni. Speriamo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Gli agenti invocano “Gratteri al Dap”, ma il governo vuole Riello. Il Sappe “sceglie” il procuratore di Catanzaro facendo il tifo come allo stadio. Ma il rischio è di mettere in ombra Nordio. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 novembre 2022.
Nicola Gratteri, Luigi Riello, o ancora Carlo Renoldi. La partita del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), uno degli incarichi più importanti (e remunerati) della pubblica amministrazione, si giocherà molto probabilmente su questi tre nomi, tutti di magistrati. La procedura prevede che la proposta venga formulata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per poi essere ratificata dal Consiglio dei ministri. Sul nome del procuratore di Catanzaro c’è stato in questi giorni l’endorsement dei sindacati della polizia penitenziaria.
Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) a tal proposito ha pubblicato un lungo articolo sulla propria rivista online, poliziapenitenziaria.it, dal titolo particolarmente esplicito: “Gratteri, Gratteri, Gratteri”. Richiamandosi alla torcida degli stadi, i sindacati di polizia stanno facendo apertamente il tifo per il magistrato che in passato Matteo Renzi, prima di essere stoppato, avrebbe voluto come Guardasigilli nel suo governo. «Non siamo mai entrati (e mai vogliamo entrarci) nell’agone politico italiano ma per il bene e a salvaguardia della polizia penitenziaria che rappresentiamo saremmo i primi ad alzarci in piedi sugli spalti dello Stadio Penitenziario e gridare in coro: Gratteri! Gratteri! Gratteri», scrivono i dirigenti del Sappe.
La liason fra Gratteri e la polizia penitenziaria è nota da tempo. Sul sistema carcerario il procuratore ha le idee molto chiare. Intervenendo ieri a Milano ad una manifestazione letteraria svoltasi all’interno proprio del carcere di San Vittore, Gratteri ha illustrato le sue proposte, ad esempio «mettere ai domiciliari i detenuti tossicodipendenti, con percorsi di terapia», facendo poi «una formazione adeguata agli agenti». La polizia penitenziaria, per Gratteri, necessita di una profonda riorganizzazione. Pur essendo una della quattro forze di polizia nazionali (erano cinque prima dello scioglimento del corpo forestale dello Stato, secondo il procuratore calabrese è di «Serie C» , gettata in uno stato di «depressione e frustrazione» dalle istituzioni che non se ne curano. A cominciare dalle scuole di formazione: «Nelle scuole ci deve andare gente che sul campo ha dimostrato di saper fare qualcosa, non gli amici degli amici. Altrimenti le lezioni diventano una passerella e i ragazzi non imparano nulla».
Il procuratore ha, ovviamente, anche la ricetta per risolvere il sovraffollamento nelle carceri: «La costruzione di nuove strutture detentive o l’ampliamento di quelle esistenti». Una idea da sempre sostenuta dalla Lega e da Fratelli d’Italia con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Una proposta, pur utilizzando i fondi del Pnrr, allo stato però difficilmente realizzabile. Sono anni, infatti, che in Italia non si costruisce un’opera pubblica. Le normative, ad iniziare dal codice degli appalti, con il prevedibile strascico di contenzioni amministrativi, rendono impossibile porre in essere opere del genere in tempi relativamente brevi. Le uniche opere pubbliche, infatti, vengono realizzate quando si sospendono le procedure di legge e si nomina, come per il ponte di Genova, un commissario. Ma sul punto serve una volontà politica forte. Gratteri, comunque, ha incassato anche l’appoggio della segretaria nazionale dell’Associazione dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria, Daniela Caputo, secondo cui serve «un capo per il nostro corpo operativo, unico tra le forze dell’ordine a non averlo. Un problema non più rinviabile, come hanno dimostrato le rivolte carcerarie del 2020. Il sistema di prevenzione penitenziario è parte integrante dell’ordine pubblico ed è giusto che abbia un vertice a regolarlo e organizzarlo».
L’outsider della contesa potrebbe allora essere Riello, procuratore generale di Napoli, recentemente “scottato” dalla mancata nomina a procuratore generale della Cassazione. Riello, in un duro articolo, aveva recentemente criticato il Consiglio superiore della magistratura. Una presa di posizione che potrebbe agevolarlo nel trovare sponda nell’attuale maggioranza che non ha mai lesinato critiche verso l’attuale gestione di Palazzo dei Marescialli post Luca Palamara. Per Renoldi, invece, l’eventuale conferma andrebbe letta nel segno della continuità, essendo stato scelto dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia con cui Nordio ha sempre avuto un buon rapporto. Tornado, comunque, a Gratteri, la sua scelta non potrebbe non mettere in “difficolta” lo stesso Nordio. La forte personalità del procuratore, molto mediatica e che non ha bisogno di comunicatori, metterebbe sicuramente in ombra il ministro. Con conseguenze facilmente immaginabili.
L'amministrazione penitenziaria merita ben altro. Gratteri non può andare al Dap, non si affidano le carceri a chi ha fatto inchieste show senza costrutto. Otello Lupacchini su Il Riformista il 18 Novembre 2022
A fronte dei rumors raccolti e rilanciati da il Riformista, circa le grandi manovre in corso per insediare il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, mi sorge spontanea la domanda, considerata la vocazione di «Rattenfänger» o «ciaparat» che dir si voglia, confessata ore rotundo dall’odierno procuratore della Repubblica di Catanzaro, se sia assurta, fra le altre, a irrinunciabile «priorità» del Gabinetto Meloni, anche la «derattizzazione» degli Istituti di pena della nostra amata Patria.
Il pretesto per avanzare un simile interrogativo mi è offerto dalla lettura di un passo delle Memorie dell’architetto Andreï Mikhaïlovitch Dostoevskï, fratello del più noto Fëdor, relativo a una delle brutte «sorprese» riservategli dalla cella in cui era stato rinchiuso dopo una giornata e parte della notte trascorse nella «terza sezione» degli uffici della polizia moscovita, a seguito dell’arresto per motivi politici patito il 23 aprile del 1849, «Non appena si fece buio, e mi portarono il lumino», racconta, infatti, Andreï Mikhaïlovitch, «piano piano cominciarono a comparire dei ratti di dimensioni enormi (…). Talora ce n’erano dieci alla volta e io, temendo che si arrampicassero nella mia cuccetta, non dormivo, fino all’alba. Non riuscivo a capire da dove saltassero fuori (…). Alla luce del giorno non si vedevano. Ma bisogna pur dire che era fine aprile e inizio maggio faceva giorno presto, l’avevo, il tempo per dormire. Oltretutto, dormivo sempre anche di pomeriggio, dopo pranzo». Non mi nascondo il rischio che qualcuno dei tanti, per dirla con Friedrich Nietzsche (Götzen-Dämmerung, 1889), «fari nel mare dell’assurdo», magari un Maitre ein Stifter dell’«io sto con…», incistati da grassi parassiti nelle Istituzioni, «mito impossibile», d’«esaltazione che si toglie la sottana», potrebbe muovermi la resistibile obiezione che n’è passato di tempo da quando l’architetto Dostoevskï era ospite non di un carcere di questa Nazione, ma di una prigione della Russia zarista, potrebbe muovermi l’accusa, è già successo, del resto, di essere «sarcastico». Poco male. Conservare la propria allegria in mezzo a faccende oscure e oltremodo gravide di responsabilità, non è artificio da poco, ma del resto cos’è più necessario dell’allegria?
Com’è ovvio che sia, il dottor Carlo Nordio, che anche in virtù della sua generalmente riconosciuta cultura garantista è stato insediato al vertice del ministero della Giustizia, certamente, sempre che addirittura non l’abbia già fatto, smentirà sdegnosamente, non solo a parole, naturalmente, ma soprattutto con i fatti, la notizia diffusa da il Riformista. A meno che non voglia «perdere la faccia». L’Os aureum di Gerace, infatti, non perde occasione, nella sua bulimia mediatica nota lippis et tonsoribus, di ostentare l’allergia per la Costituzione, la fedeltà alla quale, nell’ambito della legislazione penale, è specchio dell’autentica democraticità dello Stato: a prescindere dal suo retorico pessimismo come rigurgito del pranzo sui futuribili in generale del processo penale e specialmente dei «maxiprocessi», per effetto dell’entrata in vigore della pur timidissima riforma Cartabia, aliena gli è l’idea stessa che teoria generale del reato e funzione della pena non siano due momenti concettuali distinti, posto che dal fine costituzionalmente attribuito alla pena può derivare una connotazione globale e sostanziale dello stesso illecito penale; è altresì fuori dai suoi orizzonti culturali il «nuovo volto» del reato, quale risulta dalla combinazione dei principi desumibili soprattutto, ma non solo, dagli articoli 2, 3, 13, 24, 25 e 27 della Costituzione, come fatto previsto in forma tassativa dalla legge, di realizzazione esclusiva dell’agente o in ogni caso al medesimo riconducibile tramite un atteggiamento colpevole (doloso o colposo), idoneo a offendere un valore costituzionalmente significativo, minacciato con una pena proporzionata anche alla significatività del valore tutelato e strutturalmente caratterizzato dal teleologismo costituzionalmente attribuito alla sanzione penale e, infine, intollerante rispetto ad ogni articolazione probatoria che faccia in qualche modo ricadere sull’imputato l’onere della prova o il rischio della mancata allegazione di elementi di ordine positivo che ne caratterizzano la struttura; al fondo di ogni suo discorso è dato leggere, del resto, il messaggio che tolti lui e quelli che la pensano come lui l’ordine decade a caos, la convinzione, cioè, ch’egli e quelli come lui stiano adempiendo a una sorta di missione salvifica: il male pullula nel mondo, dunque va represso, la scimitarra della giustizia non ha guaine, incombe continuamente.
Sintomatico di tutto questo è l’ossessivo susseguirsi, del resto, di «massicce operazioni» o «grandi retate» o «mega blitz» anti-’ndrangheta, con decine e decine, se non addirittura centinaia di arresti, abbattentisi sulla Calabria, per iniziativa della direzione distrettuale antimafia della quale l’Os aureum è a capo; blitz, operazioni e retate che, per dirla con Boncompagno da Signa, «evanescunt sicut umbra lunatica»: dopo le roboanti conferenze stampa promozionali, ben presto esse vengono irrimediabilmente ridimensionate, se non addirittura travolte e totalmente vanificate, nei procedimenti incidentali de libertate, quali riesame e Cassazione, e nei dibattimenti davanti ai tribunali o alle Corti d’assise o alle Corti d’appello o alla Corte di cassazione, le motivazioni dei cui provvedimenti evidenziano, in inquietante sintesi, l’incontenibile pulsione che prova il titolare della funzione d’accusa a punire, purtroppo, senza legge, senza verità, senza colpa. Pur non essendovi evidenza alcuna che il ministro Carlo Nordio sia in qualche modo disponibile a «perdere la faccia» chiamando il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la vulgata, alimentata dal continuo rincorrersi di voci correnti nel pubblico, vedrebbe un bizzarro sodalizio, quello che chiamerò M.U.F., esercitare fortissime pressioni sia sul Governo sia sulle Opposizioni, per favorire la nomina dell’Os aureum di Gerace.
Pur in mancanza di evidenze in tal senso, non è tuttavia temerario intravvedere, sulla scorta dell’id quod plerumque accidit – si chiama, questa, «prova critica» – quale possa esserne il fondamento, non perdendo di vista né i posizionamenti politici dei membri del M.U.F. né l’influenza che ognuno di essi può avere, e su chi, per le funzioni da essi, sia precedentemente sia attualmente, svolte. Ma altri sono gli indici rilevanti dai quali non si può prescindere. La prigione, come evidenziato dalla letteratura scientifica e constatato, anche da me, nella pratica quotidiana, è di sicuro la più efficace e la più feconda fra tutte le istituzioni che producono illegalismi. Dalle carceri si esce quasi sempre più delinquenti di quando vi si è entrati: per via degli effetti del disinserimento sociale, dell’esistenza del casellario giudiziale, del formarsi di sodalizi delinquenteschi e di tant’altro. Il funzionamento interno delle prigioni, inoltre, è possibile solo a prezzo di un gioco di illegalismi, al tempo stesso molteplici e complessi: i regolamenti interni sono sempre assolutamente contrari alle leggi fondamentali che, nel resto della società, garantiscono i diritti umani; la galera è luogo di violenza fisica e sessuale esercitata sui detenuti, dai detenuti e dagli agenti di custodia; è luogo di commerci incessante e, ovviamente, illegale, tra detenuti, detenuti e agenti di custodia, tra questi e il mondo esterno; è, altresì, un luogo in cui l’amministrazione pratica quotidianamente l’illegalismo, fosse anche solo per coprire agli occhi della giustizia e dell’amministrazione superiore, da un lato, e dell’opinione pubblica, dall’altro, tutti gli illegalismi che si producono al suo interno; è finalmente un luogo di cui gli apparati polizieschi si servono per reclutare la loro manovalanza, i loro informatori, i loro scagnozzi, all’occorrenza i loro assassini e ricattatori.
La sempre maggiore consapevolezza che tra le tante priorità vi sia anche quella del carcere, grave e incivile situazione, indegna perché offende innanzitutto la dignità, a cui si accompagnano la richiesta, dai pulpiti più autorevoli, di riconsiderare il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena e la stigmatizzazione del fatto che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, negando l’affettività, privando dello spazio e annullando il tempo, che cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, vanno di pari passo con la progressiva perdita d’utilità del ruolo della prigione, quale macchina per la fabbricazione dei delinquenti in vista della diffusione e del controllo degli illegalismi. I grandi traffici di armi, di droga di valuta sfuggono, infatti, sempre più alla competenza di un ambiente di delinquenti tradizionali, che magari erano dei bravi ragazzi, ma forse incapaci, perché formatisi in galera, di diventare i grandi trafficanti internazionali di cui c’è bisogno ora. Qui, tuttavia, si profila prepotente un altro interrogativo: è concepibile un potere che non ami l’illegalismo, che non abbia bisogno di possedere gli illegalismi, controllarli e mantenersi saldo se non mediante il loro esercizio? La risposta, com’è ovvio è negativa, la domanda va dunque elusa. E chi, meglio dell’Os aureum di Gerace, o simili, al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, potrebbe compiere l’esorcismo? Ecco perché, paradossalmente, ma anche con buona pace di tutti, in nome della ragion di Stato, le chances di Nicola Gratteri potrebbero essere, nonostante tutto, molto concrete.
Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato in pensione
Il blitz Reset, Gratteri: «La più estesa indagine su Cosenza». ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2022.
Con 202 arresti (blitz Reset), la Dda di Catanzaro guidata dal procuratore Nicola Gratteri ha smantellato il “Sistema Cosenza”, sgominando una confederazione di sette famiglie di ‘ndrangheta e nella rete è finito pure il sindaco della vicina Rende nonché presidente dell’Anci Calabria, Marcello Manna, noto avvocato penalista, accusato di voto di scambio politico-mafioso.
Operazione “Reset”, l’hanno chiamata. «Forse è la più estesa indagine su Cosenza e riguarda un’associazione mafiosa, un’associazione finalizzata al traffico di droga e tutti reati fine caratteristici della criminalità organizzata, quindi estorsioni, usura e anche rapporti con la pubblica amministrazione. Sono indagati anche tre professionisti», ha spiegato Gratteri nel corso di una conferenza stampa durante la quale ha fornito notizie assai scarne, facendo riferimento alle nuove norme sulla presunzione d’innocenza.
«La stampa ha potere – ha detto ai giornalisti – chiedete ai vostri editori di dire ai politici di cambiare la legge, ma finché non cambia non intendo essere né indagato né sottoposto a procedimento disciplinare».
OPERAZIONE RESET A COSENZA, CON GRATTERI UN’AZIONE INTERFORZE
Un’inchiesta interforze – soltanto gli operatori della polizia di Stato impiegati sono stati 600, ma la collaborazione con centinaia di carabinieri e finanzieri è stata strettissima – che ha ricostruito un romanzo criminale cosentino, tra controllo delle piazze di spaccio, racket, usura e gestione del gaming, che andava avanti da 20 anni ma, soprattutto, avrebbe svelato il patto col clan D’Ambrosio stretto da Manna per essere eletto sindaco di Rende. Il pool antimafia guidato dal procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla (e composto, inoltre, dai pm Vito Valerio e Corrado Cubellotti) è partito dalle dichiarazioni del pentito Adolfo Foggetti, che «costituiscono un ulteriore elemento a fondamento della sussistenza delle esigenze cautelari, evocando contatti duraturi nel tempo con la criminalità organizzata cosentina» e si riferiscono alla campagna elettorale per le Comunali del 2014.
«Tutti gli appartenenti al clan federato Rango-Zingari e Lanzino-Ruà – afferma il collaboratore di giustizia – si sono mobilitati per fare la campagna elettorale all’avvocato Manna, ad eccezione di Maurizio Rango, il quale da me interpellato e richiesto sul punto ebbe a riferirmi che i suoi familiari e/o parenti residenti in Rende erano particolarmente legati a Principe». Il riferimento è all’ex sindaco Sandro Principe che, è il caso di precisarlo, è stato però assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa nel processo “Sistema Rende”. Foggetti rievoca il sostegno, a suo dire, offerto al penalista e dice che sarebbe stato anche ringraziato da Manna in persona per l’apporto elettorale.
RESET A COSENZA, IL PESO DELLE INTERCETTAZIONI NELL’INCHIESTA DI GRATTERI
Il resto lo hanno fatto le intercettazioni dalle quali emergerebbe «la sussistenza di un rapporto tra Massimo D’Ambrosio e Pino Munno, assessore (ai lavori pubblici, manutenzioni, e rapporti con la Rende Servizi srl, e benessere animali) del Comune di Rende già nel 2014». Le accuse, però si riferiscono alle elezioni del 2019. Secondo la Dda, Massimo D’Ambrosio si sarebbe adoperato per far eleggere i due amministratori rendesi coinvolti (anche Munno si trova ai domiciliari) e, in particolare, avrebbe contattato «diverse volte» Munno «per chiedergli di risolvere problemi di manutenzione delle strade e/o dei palazzi, rivolgendo tali richieste con tono estremamente confidenziale, e avendo sempre risposte affermative da parte del politico».
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L’assessore, stando a un’intercettazione captata nel maggio 2019, è uno che «non chiude mai la porta» e il clan, anziché limitarsi a incassare i “classici 100 euro a voto” («ho rifiutato cento euro a voto»), avrebbe individuato «il tornaconto in altre “utilità”». Dando una «buona mano quartiere di competenza, ossia il Cep (“io voglio guardarmi un poco la Cep … mi interessa là a me”), D’Ambrosio può affermare al telefono che «noi il nostro dovere lo abbiamo fatto». Alla base del presunto accordo ci sarebbe stata la gestione del palazzetto dello sport, tanto che D’Ambrosio avrebbe atteso l’esito della competizione: «vediamo il risultato e poi partiamo subito all’arrembaggio».
SETTE GRUPPI CHE SI SPARTISCONO IL TERRITORIO
Ma è soltanto un capitolo del più vasto romanzo criminale scritto e riscritto da sette gruppi che si spartirebbero, finita la stagione delle guerre, gli affari illeciti nella città bruzia. Uno dei più lucrosi era quello delle sale giochi e delle scommesse. Monopolio dei clan.
Un business ripercorso dai collaboratori di giustizia che all’unisono hanno inguaiato l’assessore ai Lavori pubblici del Comune di Cosenza, Francesco De Cicco, anche lui ai domiciliari (e peraltro ex consigliere comunale) ritenuto «un anello del sistema» dai pentiti e accusato di intestazione fittizia, con aggravante mafiosa, del Popily Street, circolo ricreativo che si occupa di scommesse e videogiochi, ma considerato anche un “collaboratore” nell’ambito dell’associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita del gaming.
Non solo tentacoli sui giochi. La Dda di Catanzaro ha ridisegnato la geografia criminale del territorio cosentino, individuando sette gruppi facenti capo alla cosiddetta “Confederazione”, al cui vertice troviamo Francesco Patitucci (già reggente per conto di Ettore Lanzino). Accanto troviamo il gruppo Porcaro: anch’esso operante a Cosenza, con ruolo apicale rivestito da Roberto Porcaro; e ancora il gruppo degli Abbruzzese, la famiglia “Banana” e quella degli «altri Zingari».
A Roggiano Gravina la supremazia sarebbe della famiglia Presta, infine, troviamo i gruppi Di Puppo e quello capeggiato dai D’Ambrosio, il cui core business sarebbero le estorsioni. Un “sistema” raccontato nei dettagli dai pentiti. Secondo i collaboratori i proventi delle attività illecite confluivano nella bacinella comune. Da quì venivano suddivisi tra i gruppi degli “Zingari” e quelli degli “Italiani”. Le regole sono le regole. «Ogni spacciatore che “lavora” a Cosenza è vincolato con uno dei gruppi che fa parte del “Sistema”».
RESET A COSENZA, GRATTERI BLOCCA UNA PIOVRA DIFFUSA IN TUTTO IL TERRITORIO
Una piovra capillare, che avviluppava anche il mondo degli spettacoli. Ai domiciliari, per illecita concorrenza con l’aggravante mafiosa, anche il promoter Francesco Occhiuzzi per la scelta di una ditta di security ritenuta vicina al clan Muto di Cetraro, quella riconducibile a Giuseppe Caputo. I tentacoli stavolta erano, sempre secondo la Dda di Catanzaro, sull’edizione 2019 della kermesse “Moda Mare”.
Ma le mani dei clan si erano allungate anche sui fondi del progetto “Resto al Sud” erogati da Invitalia spa: nei guai, per truffa aggravata, uno dei commercialisti più in vista a Cosenza, Andrea Mazzei, finito in carcere per una pratica di finanziamento in favore di personaggi delle cosche e basata su fatture false. I colletti bianchi coinvolti sono diversi. All’avvocato Paolo Pisani i giudici hanno applicato la misura cautelare del divieto di esercitare la pratica forense per la durata di un anno. E i beni sequestrati dai finanzieri dello Scico e da quelli del Gico di Catanzaro ammontano complessivamente a 72 milioni: i sigilli sono scattati anche su uno yacht e a un aeromobile ultraleggero.
Blitz di Cosenza, parte del Pd attacca Gratteri: «Vuole seguire la legge o essere la legge?» ENRICA RIERA su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2022.
Parte del Pd attacca Gratteri. È successo questa mattina, in un noto hotel del centro città, durante la presentazione dei candidati dem alle politiche del prossimo 25 settembre. La prima a “sferrare” il colpo è la parlamentare uscente, in corsa nel collegio plurinominale della Camera in Calabria, Enza Bruno Bossio che, nel suo intervento, attacca per l’appunto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.
«Giovedì, a seguito del blitz coordinato dalla Dda (l’Operazione Reset meglio nota come Sistema Cosenza, che ha portato a eseguire misure cautelari nei confronti di 202 persone, ndr), tutta la politica ha applaudito al procuratore. Certo – dice la deputata democrat -, chi non è contro la mafia. Ma leggere sui quotidiani titoli come “Sgominate le cosche” con a corredo le foto di tre politici significa ledere diritti, nonché la capacità di amministrare».
«A questo proposito – aggiunge Bruno Bossio – mi piace sottolineare quanto ripotato da “Il Foglio”: Gratteri dapprima ha convocato una conferenza stampa per spiegare i dettagli dell’operazione, poi l’ha sconvocata a causa della legge di Enrico Costa di Azione sulla presunzione di innocenza, attaccandola, e poi l’ha nuovamente convocata, dando contro al mondo politico. Io mi chiedo – continua – se Gratteri voglia seguire la legge o essere la legge. Perché, diciamolo, anche la mafia vuole essere la legge; mentre il Pd, che è contro le cosche, vuole difendere lo stato di diritto».
CRITICHE ANCHE DA PARTE DELLA CANDIDATA FRANCESCA DORATO
Scrosciante l’applauso in sala. «Emozionata», si dice, invece, la candidata del Pd Francesca Dorato al Senato nell’uninominale. Dopo l’intervento in cui Enza Bruno Bossio attacca Gratteri, infatti, il consigliere comunale di Castrovillari dice: «La magistratura dovrebbe essere un organo terzo. Noi non possiamo consentire ai giudici di creare precedenti che diventino legge, quando legge non sono». Sulla vicenda, e più in particolare, sulle dichiarazioni del presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra relative alla possibilità di costituire commissioni d’accesso nei Comuni di Cosenza e Rende, interviene anche Gianni Papasso, candidato, in quota Psi, al collegio uninominale Corigliano-Rossano della Camera.
«Cosenza – dice – non può essere un’altra Cassano. Quando ho letto le dichiarazioni di Morra, ho subito chiamato Franz». E Franz non può che essere Franz Caruso, sindaco socialista della città bruzia, pure presente all’appuntamento. «Certi soggetti politici – dichiara il primo cittadino –, che non hanno prestigio personale, vorrebbero verificare la situazione del Comune che amministro (uno dei suoi assessori, Francesco De Cicco, è ai domiciliari a seguito dell’Operazione Reset, ndr). Ebbene – chiosa Caruso – io a Morra, la cui carica per fortuna durerà poco, consiglio di guardare alla sua situazione “interna”, perché nella casa comunale cosentina c’è esclusivamente legalità».
In platea, seduta in fondo, c’è pure il neo vicesindaco dell’amministrazione di Rende Annamaria Artese (il cui fratello Ariosto è stato arrestato nell’ambito dell’operazione Reset). Il vicesindaco, che si trova a operare senza un sindaco e un assessore (Marcello Manna e Pino Munno sono appunto ai domiciliari a seguito del blitz), indossa occhiali scuri; in un primo momento dice che sì, rilascerà una dichiarazione alla stampa, ma poi ci ripensa. È accomodata troppo lontano dalle prime file per dire con certezza se, quando il Pd attacca Gratteri, applauda o meno.
GLI ATTACCHI A COSENZA DELLE CANDIDATE PD IN CONTRASTO CON LA NOTA A SOSTEGNO DI GRATTERI
A ogni modo, gli interventi in questione – quello della Bruno Bossio che attacca Gratteri nella specie – quasi contraddicono la nota che il Partito democratico della Calabria ha diramato a seguito dell’operazione della Dda di Catanzaro. «Il Partito democratico, pur certo che saranno le sedi opportune a poter esprimere una qualsiasi sentenza e rispettando la presunzione di non colpevolezza, esprime massimo apprezzamento per l’immane lavoro messo in campo dal procuratore Nicola Gratteri», recitava, non a caso, la nota.
A COSENZA PARTE DEL PD ATTACCA GRATTERI, IRTO GLISSA SULL’ARGOMENTO POI PRECISA
Nicola Irto, Vittorio Pecoraro e Maria Locanto alla conferenza stampa durante la quale Enza Bruno Bossio attacca Gratteri
Durante la presentazione dei candidati, glissa sul punto giustizia il segretario regionale del partito, Nicola Irto, candidato come capolista al Senato nel plurinominale. A domanda precisa («Perché è stato l’unico a non intervenire sulla questione?»), risponde che «non è vero, anche altri non sono intervenuti». Sollecitato, dunque, a commentare il blitz, ricorda, in maniera al quanto infastidita, che l’appuntamento di oggi «riguarda la presentazione dei candidati, non altre considerazioni». Considerazioni che, tuttavia, tutti i presenti, iscritti e simpatizzanti di casa democrat, fanno prima e dopo, a margine e sottovoce, dell’evento.
LA PRECISAZIONE DI NICOLA IRTO E VITTORIO PECORARO
A seguito della pubblicazione di questo articolo, arriva una nota firmata da Nicola Irto e Nico Stumpo, candidati capolista al Senato e alla Camera per il Partito democratico, che ribadiscono la posizione del Pd subito dopo gli arresti di Cosenza e «smentisce categoricamente qualsiasi attacco al procuratore Nicola Gratteri e agli uomini di Stato che in questa operazione sono stati impegnati a tutela della legge». «L’interpretazione riportata dal Quotidiano del Sud è assolutamente distante da quella che è la posizione del Partito Democratico, unica forza politica ad aver espresso apprezzamento proprio per l’operato del procuratore Gratteri», conclude la nota.
«La discussione di oggi non ha mai inteso essere un attacco ai magistrati inquirenti. Uno dei miei primi atti da Segretario provinciale è stato mandare una lettera alla Procura di Cosenza per esprimere apprezzamento nella comune battaglia per la legalità. Il Partito democratico nella provincia di Cosenza è presidio di rispetto della legge e svolge costantemente sul territorio un’attività di contrasto alla criminalità organizzata. Noi siamo nettamente contro tutte le mafie per vocazione e missione.» scrive, invece, sempre dopo la pubblicazione dell’articolo del “Quotidiano del Sud”, Vittorio Pecoraro, segretario del Pd Cosenza.
Pecoraro poi aggiunge «Nella lunga articolata e dettagliata discussione di oggi, si sono rinnovati gli auspici di questa lotta alla criminalità organizzata senza quartiere, sempre all’insegna dei mezzi della Costituzione e del giusto processo. In relazione ai fatti di Rende, non è mia prassi commentare attività di indagine e ordinanze su misure cautelari, ma rinnovo sentimenti di forte fiducia nella giustizia anche all’insegna della rapidità del giudizio»,
Confermiamo, a ogni modo, le dichiarazioni espresse pubblicamente dalle candidate democrat Enza Bruno Bossio e Francesca Dorato, nonché tutte le altre riportate.
In Calabria il “Minotauro” dell’antimafia ha bisogno sempre di nuove vittime. La strategia messa in campo in questi anni da noti procuratori antimafia è fallita: per ogni innocente arrestato la ’ndrangheta conquista mille simpatizzanti. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 04 settembre 2022
Il contesto: un centinaio di aderenti a ‘Nessuno tocchi Caino’ sono in sciopero della fame per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla diffusa pratica di pena di morte tramite suicidio in carcere. Di questi il 30% era in attesa di giudizio. Sappiamo inoltre che le carceri calabresi sono in pessimo stato e che al loro interno, l’unica autorità riconosciuta è la ndrangheta.
Infine è noto a tutti che la Calabria è la prima regione d’Italia per indennizzi a persone innocenti finite in carcere. In tale contesto la procura di Catanzaro guidata dal dottor Gratteri dà un’ulteriore pennellata al quadro già molto angosciante arrestando quasi 200 persone. Tra questi il sindaco della città di Rende, nonché presidente dell’Anci Calabria.
In questo tipo di inchieste un politico importante non deve mai mancare pena il calo di attenzione da parte dell’opinione pubblica. La nuova maxi retata avviene in un momento in cui ‘ Rinascita scott’ si trascina e agonizza tra stanchezza e noia. L’avvocato Pittelli continua ad essere detenuto ma è difficile sfuggire alla sensazione che i motivi della sua detenzione abbiano poco da fare con il processo. Tra l’altro Rinascita Scott, un piccolo processo di provincia gonfiato artificialmente, per impressionare l’opinione pubblica, rischia di saltare nella sua interezza.
A questo punto la strategia è quasi obbligata. Bisogna rilanciare e magari alzare la posta. Spostare la discussione da Pittelli al sindaco Manna e ad altri politici oggi coinvolti. Dai Mancuso alla cosca degli zingari e via dicendo. Sia chiaro noi non facciamo indagini e non sapremmo farle. Non è questo il nostro mestiere quindi non siamo innocentisti e tanto meno colpevolisti.
Continuiamo a credere nella presunzione di innocenza ed alla necessità di non ferire a morte una persona quando non ricorrono le condizioni indispensabili per l’emissione d’un mandato di cattura. E di abusi, in Calabria, in questi ultimi trent’anni ne sono stati fatti a migliaia senza mai una pur timida autocritica da parte dei responsabili.
Il risultato è che in Calabria la campagna elettorale è stata aperta da un colpo di fucile contro la segreteria di un parlamentare mentre lo stesso si trovava nei locali e oggi, in piena campagna elettorale, si registra l’ennesima retata che di fatto sposta l’attenzione dell’opinione pubblica dal floscio e moscio dibattito ‘ politico’ alla attività dell’antimafia. Avvantaggiando di fatto i candidati duri e puri.
Una sola certezza: la strategia messa in campo in questi anni da noti procuratori antimafia è fallita. È iniziata tanti anni fa sull’esempio di quanto succedeva a Palermo dove magistrati eroici scrivevano la storia facendo luce, almeno parzialmente, sui rapporti oscuri tra mafia e Stato (centrale e periferico), su centinaia di omicidi, di estorsioni e di ricatti mentre in Calabria da ‘ Stilaro’ a ‘Mandamento Jonico’ a ‘Marine’ e via dicendo ogni ‘retata’ corrispondeva ad una acclarata strage di innocenti. E per ogni innocente arrestato la ’ndrangheta conquista mille simpatizzanti. Così ancora oggi la ’ndrangheta è protagonista e il ‘Minotauro’ dell’antimafia pretende sempre nuove vittime innocenti per mantenersi in vita.
«La ‘ndrangheta si presenta nelle vesti di un avvocato», rivolta della Camera Penale di Cosenza contro Morra. I penalisti cosentini esprimono dissenso verso il senatore dopo le sue parole all'indomani del blitz della Dda di Catanzaro coordinata da Nicola Gratteri. Il Dubbio il 3 settembre 2022.
Riceviamo e pubblichiamo dalla Camera Penale di Cosenza
Il Consiglio direttivo della Camera penale di Cosenza “Avvocato Fausto Gullo”, all’unanimità premesso che il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Senatore della Repubblica, Nicola Morra, ha così pubblicamente presentato, mediante canali social-network, il recente provvedimento giudiziario con cui il Gip del Tribunale di Catanzaro ha applicato numerose misure cautelari personali e reali: “Qui (a Cosenza) è pieno di ‘ndrangheta; però è una ndrangheta con il colletto abbottonato, con la cravatta, che si presenta nelle vesti di un avvocato, nelle vesti di un imprenditore, nelle vesti di un amministratore pubblico ..”, relegando, ad un mero inciso, la precisazione secondo cui “in attesa” (e non in assenza) “di sentenza definitiva nessuno è condannato quindi si tratta pur sempre di soggetti su cui bisogna lavorare con la presunzione di innocenza”».
«Considerato che il contenuto perentorio delle suddette affermazioni – che rendono l’inciso “garantista” di sola forma – si traduce in un vero e proprio “verdetto” di condanna nel merito delle ipotesi di reato, emesso da un Rappresentante delle Istituzioni, ancor prima che gli indagati abbiano potuto esercitare compiutamente, correttamente e tempestivamente il diritto di difesa dinanzi agli Organi di giurisdizione preposti al controllo di merito e legittimità del provvedimento coercitivo; rilevato che tale fatto costituisce un vero e proprio “corto circuito Istituzionale-Giudiziario” poiché in grado di depotenziare o – peggio – fare detonare la regola di civiltà giuridica della “presunzione di non colpevolezza”, tesa alla tutela dei diritti delle persone coinvolte nel procedimento penale e – ancor più – rivolta alla salvaguardia della funzione giurisdizionale, onde rendere effettivamente libero il convincimento della Magistratura giudicante da ogni forma di interferenza e suggestione, anche e soprattutto di rango istituzionale come nel caso di specie, che sono e devono restare estranee al “giusto processo”; rilevato, ancor più, che l’espressione “è una ndrangheta … che si presenta nelle vesti di un avvocato” intacca, mediante l’inaccettabile accostamento “ndrangheta-avvocato”, l’effettività del diritto di difesa degli Avvocati indagati nel detto procedimento e ne dileggia la funzione costituzionale; ritenuto di rivendicare, con forza e determinazione, la funzione di “sentinella delle garanzie dei diritti” da parte dei penalisti cosentini, nei termini impressi nello Statuto della Camera penale “Avvocato Fausto Gullo” per la più efficace attuazione della giustizia penale, che deve essere tenuta al riparo dal pensiero “illiberale che imperversa nel nostro Paese, sempre più proclive ad assimilare l’indagato al reo”»
Così, la Camera Penale di Cosenza «delibera di esprimere ferma e incondizionata SOLIDARIETÀ agli Avvocati penalisti del Foro cosentino, Marcello Manna e Paolo Pisani, che da decenni difendono con probità, decoro, diligenza e competenza “i diritti degli ultimi” e le cui Toghe sono intrise dei valori dell’Avvocatura come vocazione ancor prima che professione, certi che i preposti Organi di giustizia ne accerteranno la estraneità da qualsiasi condotta loro ascritta; delibera con riguardo all’intervento pubblico del Senatore e Presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra e alla correlata preoccupazione che il contenuto dello stesso possa costituire una interferenza “Istituzionale” idonea a condizionare l’attività giurisdizionale, lo STATO DI AGITAZIONE dei penalisti della Camera penale di Cosenza, riservando, nelle prossime ore, la fissazione, d’urgenza, dell’Assemblea degli iscritti. Il presente deliberato è trasmesso al Ministro della Giustizia, al Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane e ai Componenti del Coordinamento delle Camere penali della Regione Calabria.
Il garante: "Come è possibile eseguire blitz senza verificare posti disponibili". Gratteri arresta tutti ma in carcere non ci sono posti: “Scaricati in cella, anche 12 nella stessa stanza”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 2 Settembre 2022.
Tutti in carcere anche se non ci sono posti disponibili. Ma vuoi mettere il clamore mediatico di un blitz che coinvolge 254 persone indagate di cui 139 da spedire in carcere, 51 ai domiciliari e 11 da sottoporre all’obbligo di dimora? Per di più il primo settembre, dopo l’estate e con l’attenzione dell’opinione pubblica che è tornata alla vita di tutti i giorni. Dopo il maxi blitz contro le presunte ndrine di Cosenza, che ha coinvolto anche il sindaco di Rende e due assessori, arriva la denuncia del garante dei detenuti perché, dopo la retata richiesta dalla Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri (tra l’altro in corsa per la procura di Napoli) e avallata dal gip, non ci sono celle disponibili in carcere.
E’ caos infatti nella casa circondariale di Vibo Valentia. Secondo l’allarme lanciato dal garante campano Samuele Ciambriello (che interviene sulla situazione dell’istituto penitenziario calabrese essendo la regione ancora priva del Garante), “nella giornata di ieri è stato allertato da diversi familiari di detenuti campani, attualmente ristretti nella Casa circondariale di Vibo Valentia, per sovraffollamento della struttura penitenziaria. I loro parenti ristretti hanno lamentato di trovarsi, da ieri mattina, in celle con dieci e dodici compagni, a seguito dell’operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, scattata alle luci dell’alba di ieri nella provincia di Cosenza”.
Detenuti ammassati come sardine e poco importa se la situazione nelle carceri è ulteriormente degenerata con il periodo estivo, dove è stato registrato un picco di suicidi (una sessantina dall’inizio del 2022) e dove l’aria è letteralmente irrespirabile in celle tanto piccole quanto sempre più affollate di esseri umani.
“Sono preoccupato – dice Ciambriello – per quello che sta succedendo nel carcere di Vibo Valentia. Comprendo, in parte, i motivi e le pulsioni che spingono un giudice a firmare un’ordinanza di misura cautelare in carcere per 200 persone, ma mi chiedo come sia possibile che, prima di eseguire questi blitz, non si verifichino le disponibilità negli istituti penitenziari.. E’ impensabile – aggiunge – che vengano prelevati di notte dalle loro case e poi ‘scaricati’ in carceri non adeguati ad accoglierli”.
“Mi sto occupando di questa vicenda – prosegue – perché in Calabria sono tanti i detenuti di origine campana e anche perché è l’unica regione d’Italia che ancora non ha eletto il Garante dei detenuti. C’è un punto all’ordine del giorno del Consiglio regionale che viene puntualmente rinviato. Sono detenuti doppiamente dimenticati. Per quanto tempo ancora dovranno vivere questa ‘doppia reclusione’? Mi auguro – conclude – che, non solo al più presto vengano adottate misure che ristabiliscano serenità nel carcere di Vibo Valentia, ma soprattutto che la Regione si decida a garantire ai ‘diversamente liberi’ un organo di garanzia, che si occupi delle loro problematiche quotidiane”.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
L'incredibile storia. “Maria Rosaria Ceglie è innocente”, ennesimo flop dell’infallibile Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Dicembre 2022
Questa è la storia di Maria Rosaria Ceglie, funzionaria Invitalia, incensurata. Il procuratore Gratteri aveva fatto lo spiritoso, due mesi fa, annunciando dopo il blitz nel cosentino, “questa notte sono stati raggiunti da ordinanza di custodia cautelare 202 presunti innocenti”. Chissà se gli era venuto il dubbio che qualcuno innocente lo fosse davvero, a prescindere dal principio costituzionale. Non parliamo soltanto dei “pesci grossi”, quelli il cui arresto garantisce qualche titolo sui giornali nazionali.
In questo caso il sindaco di Rende, Marcello Manna, nei cui confronti il tribunale del riesame, nell’ordinanza di annullamento della custodia cautelare, ribalta la patente di ”mafioso” trasformandola in “antimafioso”, cioè uno che le cosche le ha sempre combattute. È andando a spigolare negli atti processuali, e soprattutto nelle singole storie, che si scoprono le più clamorose sciatterie e superficialità degli investigatori, la faciloneria con cui si maneggiano strumenti delicati come le intercettazioni, le deduzioni arbitrarie sulle vite comuni, quelle delle persone per bene in cui gli investigatori si imbattono per caso. Impressionante è il cinismo con cui queste normali storie di vita vengono anche buttate in pasto alla gogna di organi di stampa non sempre attenti e rispettosi.
Maria Rosaria Ceglie è una funzionaria presso Invitalia, l’Agenzia per lo sviluppo del ministero dell’Economia che promuove progetti di finanziamento per le imprese. Una persona per bene, normale, incensurata. Viene intercettata in diverse occasioni, mentre parla, spesso scherzando, al telefono o di persona con il suo amico Andrea Mazzei, che è stato molti anni prima, tra il 2004 e il 2005, suo fidanzato. I due hanno un rapporto affettuoso, lui le parla dei suoi progetti, lei dà qualche consiglio sulle procedure necessarie per ottenere i finanziamenti. E questa è una parte delle conversazioni. Poi c’è quella più personale. I due sono in auto, a Roma, vanno verso il quartiere dei Parioli, lui insiste per presentarle la nuova fidanzata, lei non ne ha voglia, lui le spiega che proprio in quella zona prestigiosa della città ha “sistemato” l’amica in un appartamento di cui paga lui stesso l’affitto di 850 euro al mese.
Accidenti, scherza la giovane donna, allora potresti pagare anche la rata del mio mutuo, visto che te la cavi così bene economicamente. Poi c’è un altro siparietto in cui la ex e l’attuale fidanzata dell’uomo vanno insieme a fare shopping, Maria Rosaria acquista una borsa, aveva anche visto un anellino che le piaceva, ma aveva rinunciato, era sufficiente la borsa. E finisce che l’anellino glielo regala lui. Valore? 150 euro. Il prezzo della corruzione, secondo la Dda di Nicola Gratteri. Così, mentre Andrea Mazzei finisce in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, tra i 202 della retata del primo settembre è inserita anche Maria Rosaria Ceglie, ai domiciliari con l’accusa di corruzione. Corrotta da un mafioso, e quindi finanziatrice della ‘ndrangheta tramite pubblici concorsi. Scaraventata sui giornali come pubblico ufficiale al servizio delle cosche. Non c’è bisogno di contestare il 416 bis, per dare la patente di mafioso. Quando sei arrestato in un blitz di ‘ndrangheta, c’è poco da fare, sei dentro al pentolone dei reprobi.
Ma esistono i giudici, anche in Calabria. Così la dottoressa Ceglie passa dai domiciliari all’obbligo di dimora. Poi arriva il tribunale del riesame di Catanzaro, seconda sezione, presidente Santoemma. E il quadro si capovolge. La funzionaria non si è mai occupata del progetto “Resto al sud”, cui era interessato il suo ex fidanzato. Le informazioni che ha dato su alcune modifiche normative in itinere erano già state pubblicate dalla Gazzetta Ufficiale in epoca precedente a quella degli incontri “in captazione” con Mazzei. Il tono confidenziale (tesoro, amò) tra i due che secondo l’accusa era improprio, aveva spiegazione solo in un rapporto affettivo tra due ex fidanzati rimasti amici.
Il contesto scherzoso, poi, come quello in cui è inserita la battuta sul mutuo della casa da pagare. E l’anellino da 150 euro che corruzione è, visto che di fronte al regalo la ragazza apostrofa l’amico con espressioni del tipo “ma sei matto”? E visto anche che “deve registrarsi l’assenza di riferimenti all’impegno della Ceglie nel fornire informazioni riservate o privilegiate al Mazzei”. E visto anche che l’uomo, mentre parlava con l’attuale fidanzata, riferendosi all’amica, aveva detto di esserle riconoscente e precisava “non mi ha mai chiesto nulla”. Della lezione di diritto che i giudici del riesame impartiscono ai colleghi della procura e dell’ufficio del gip non avrebbe dovuto esserci bisogno, in situazioni di normale amministrazione della giustizia. Ma c’è anche quella.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislazione.
In arresto anche il sindaco di Rende. Maxi Gratteri, blitz elettorale: manette a valanga e show con i media. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Settembre 2022
Da ieri mattina il sindaco di Rende Marcello Manna, l’assessore della sua giunta Pino Munno e l’omologo del Comune di Cosenza Francesco De Cicco sono agli arresti domiciliari. In buona compagnia di circa 200 persone accusate di essere mafiose. Benvenuto, primo blitz di campagna elettorale! Come si sentirebbe, il cittadino Nicola Gratteri, qualora fosse candidato, in qualunque lista, alle elezioni politiche del 25 settembre (ma sappiamo che non lo è perché non ci tiene), e vedesse cadere nel bel mezzo della competizione politica, la bomba che la Dda di Catanzaro ha innescato e un giudice fatto esplodere?
Non stiamo parlando di “orologeria politica”, ma di una deflagrazione che ha portato 139 persone in carcere, 51 agli arresti domiciliari e 12 con l’obbligo di dimora in esecuzione di un provvedimento firmato dal gip Alfredo Ferraro che porta la data del 2 agosto. Cioè il giorno in cui il suo ufficio ha trasmesso per l’esecuzione dei provvedimenti un documento di 533 pagine, un decimo di quelle che il procuratore Gratteri gli aveva inviato il 14 dicembre di un anno fa, pagine arricchite con integrazioni a marzo, maggio a giugno di quest’anno. Prima di entrare nel merito, perché guai se nelle maxi-inchieste non c’è, come in questo caso, almeno un sindaco accompagnato da un paio di assessori, osserviamo le date e i tempi della giustizia italiana. Il pubblico ministero manda il malloppo di cinquemila pagine con tutte le richieste nel dicembre 2021. Un documento “aperto”, però, perché lo stesso pm si riserva di centellinare l’accusa con piccole integrazioni. Perché magari arriva un nuovo “pentito” o una nuova intercettazione.
Tanto sappiamo che le indagini sono fatte così: o c’è lo spione o c’è la spiata. Mai che si leggano i bilanci delle società o delle amministrazioni, per scovare le magagne, tanto per dirne una. Quindi il giudice ha avuto più o meno un anno per studiare le carte del procuratore, e poi ha deciso il 2 agosto. Era proprio necessario fare la retata il primo settembre? E perché non il primo ottobre? Ma c’è sempre fretta, perché dalla malattia del Maxi, cui il procuratore Gratteri pare affezionato, gli investigatori non sono ancora guariti. Come da quella della conferenza stampa, ieri prima convocata poi cancellata poi in qualche modo tenuta. Ma la ministra Cartabia e il Parlamento non avevano consentito solo i comunicati del capo della procura? Unico dato positivo, si ritorna finalmente alla buona vecchia intitolazione “Abate più…”.
Casualmente un Abate c’è anche in questa inchiesta, ed è un Fabrizio a guidarne altri 253, il numero degli indagati. Ma il gip è costretto a ricordare i nomi delle precedenti inchieste che il buon Gratteri ha voluto unificare, e allora possiamo anche divertirci: Garden, Missing, Squarcio, Tamburo, Twister, Terminator 2, Terminator 4, Anaconda, Magnete, Telesis, Vulpes, Acheruntia, Nuova Famiglia, Doomsday, Drugstore, Apocalisse, Job center, Testa del serpente, Ouverture. Complimenti per la fantasia, e speriamo che siano stati gli ultimi colpi di coda, la legge sui diritti degli indagati non consente più neppure di giocherellare con le parole sulla pelle degli innocenti. L’inchiesta, come tutti i maxi che si rispettano, ha molte teste. La più rilevante dovrebbe essere quella del narcotraffico, cui sappiamo si dedica ancora abbondantemente, e non solo in Calabria ma prevalentemente nelle regioni del nord, la mafia chiamata ‘ndrangheta, forse l’unica ormai sopravvissuta. Ma potremmo scommettere sui titoli di giornali e tv, perché il boccone grosso è invece un altro, anzi altri tre.
Uno è un avvocato penalista, e chissà perché, il fatto ci ricorda qualcun altro, sempre qui in Calabria, che si chiama Giancarlo Pittelli e che languisce, nonostante l’età e le condizioni psico-fisiche, chiuso in casa, inseguito però dalla perentoria richiesta di Nicola Gratteri perché un giudice lo sbatta di nuovo in uno di quei luoghi di delizia dove dall’inizio dell’anno sessanta persone si sono tolte la vita. L’avvocato si chiama Marcello Manna, e nel maggio del 2019 è stato eletto sindaco della cittadina del cosentino, dopo aver svolto la sua brava campagna elettorale. Quella che, non se la prenda procuratore, avrebbe svolto anche lei qualora fosse stato (ma lei non lo voleva) candidato da un qualunque partito. Magari quello di Matteo Renzi, visto che l’ex premier l’avrebbe voluto al suo fianco nella veste di ministro di giustizia.
Ora, veda, le campagne elettorali sono cose complicate. È molto difficile per esempio, tranne che per Giuseppe Conte, entusiasta della retata, riuscire a fare l’analisi del sangue e tutti quelli che ti stanno vicini, che partecipano ai tuoi appuntamenti, che ti promettono voti. E poi magari dicono tra loro al telefono che tu hai detto al suocero della sorella (testuale) di un tizio che ha una tabaccheria, che il comune di Rende con te sindaco andrà da lui a comprare le marche da bollo. Al fianco del sindaco, nel comune destino di arresti domiciliari, l’assessore ai lavori pubblici (ruolo pericolosissimo, meglio delegarlo a un magistrato o un poliziotto) Pino Munno e quello alla manutenzione e decoro della città di Cosenza, Francesco De Cicco. La base di tutte le imputazioni, quella che consente intercettazioni e arresti, è sempre il reato associativo, in questo caso non solo di stampo mafioso, ma anche finalizzato al voto di scambio. Ora, non conoscendo noi personalmente questi amministratori indagati, e sapendo solo che sono, come tutti gli altri, innocenti secondo la Costituzione, possiamo solo fare qualche riflessione sulle procedure.
È vero, il giudice Ferraro, nell’introduzione dell’ordinanza, premette, con una certa abilità, di avere un’interpretazione delle sentenze della cassazione sulla custodia cautelare diversa da altri suoi colleghi. Non dice quindi che si limiterà ad aggiungere una propria “creatività” alla pedissequa trasposizione degli atti raccolti dalla Dda. Ma con puntiglio precisa che procederà a un’ “autonoma valutazione” di ogni indizio. Ma non sfugge alla storia. E la storia ci dice che, colpevoli o innocenti che saranno, alla fine, questi indagati, una cosa è quasi certa, o forse certissima. Cioè che prima o poi il reato associativo cadrà, soprattutto nell’aggravante di mafia. O vogliamo tirarla avanti nei secoli la tiritera del concorso esterno? Diciamoci la verità: sotto sotto non c’è la speranza di qualche dimissione? E non saranno gli stessi partiti magari a suggerirlo “per ragioni di opportunità”?
Il procuratore Gratteri ieri mordeva il freno, con la conferenza stampa che entrava e usciva dalle agenzie. Prima ha lasciato uscire dalla bocca tutte le maiuscole possibili: “Forse è la più estesa indagine su Cosenza e riguarda un’associazione mafiosa, un’associazione finalizzata al traffico di droga e tutti i reati-fine caratteristici della criminalità organizzata, quindi estorsioni, usura e anche rapporti con la pubblica amministrazione. Sono indagati anche tre professionisti”. Avvocati o amministratori, dunque? Eccoci qua, ecco come si mette in pratica la difesa della non colpevolezza dell’indagato.
Sintesi finale: la Dda di Catanzaro si è messa alla testa di squadre di carabinieri, agenti di polizia e guardie di finanza, che hanno cucito con ago e filo tutte le inchieste con quei bei nomi del passato, e hanno individuato una sorta di consorzio che unificava anche i profitti, in una “bacinella comune” di gruppi che un tempo si erano fatti la guerra nel cosentino. Gruppi di fuoco che però in qualche intercettazione sembrano a volte dei poveracci. Come quando uno dice “Ti piglio a calci davanti a tua moglie e tua madre…e pure davanti ai carabinieri ti schiatto di palate”. Sicuramente il tono non è rassicurante. Ma per la serietà dell’inchiesta, speriamo che la ferocia di questi mafiosi non si limiti a minacce di questo genere.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Dopo il super blitz di Cosenza, si contano i danni...Fame di fama, Gratteri show: quasi 200 arresti ma il carcere è in overbooking, solo posto in piedi. Francesca Sabella su Il Riformista il 3 Settembre 2022
Lo sentite anche voi il tintinnio delle manette? Sì, c’è Gratteri. Ma c’è anche una notizia: non ci sono più posti in carcere. Uno show costruito ad arte, una pioggia di arresti, quasi duecento le manette strette intorno ai polsi dei pericolosi “mafiosi” che Nicola Gratteri, a capo della procura di Catanzaro, ha stanato con un tempismo da Oscar. Ovvero, appena rientrati dalla pausa estiva, ora che l’opinione pubblica ha riposto sdraio e ombrellone ed è di nuovo attenta a cosa accade e soprattutto a due settimane dallo scadere dei termini per presentare la domanda come procuratore di Napoli. (Sì, perché dopo essere stato battuto da Giovanni Melillo all’Antimafia nazionale, ora vuole la guida della procura napoletana).
Ma si sa, ognuno fa la campagna elettorale con i mezzi che ha, Gratteri nella sua borsa ha manette, show e conferenze stampa da divo. Non c’è che dire, fa le cose in grande. Questo bisogna riconoscerglielo. E allora, dicevamo, cosa ha fatto Gratteri? Niente che non abbia già fatto. Ha svegliato Cosenza con duecento arresti. Chiamiamo le cose con il loro nome così da non offendere nessuno: ha messo in atto un maxi blitz! Il sindaco di Rende Marcello Manna, l’assessore della sua giunta Pino Munno e l’omologo del Comune di Cosenza Francesco De Cicco sono agli arresti domiciliari. Con loro ci sono circa 200 persone accusate di essere mafiose. E ancora: 139 persone in carcere, 51 agli arresti domiciliari e 12 con l’obbligo di dimora in esecuzione di un provvedimento firmato dal gip Alfredo Ferraro che porta la data del 2 agosto ed è stato eseguito il primo settembre.
Resta da capire che nome di fantasia attribuirà a questa nuova e grande inchiesta e visti i precedenti (Garden, Missing, Squarcio, Tamburo, Twister, Terminator 2, Terminator 4, Anaconda, Magnete, Telesis, Vulpes, Acheruntia, Nuova Famiglia, Doomsday, Drugstore, Apocalisse, Job center, Testa del serpente, Ouverture) ci sarà da divertirsi. Si fa per dire di fronte a questa smania di arrestare con tanto di “Siete tutti mafiosi”, della serie: per il momento lo dico, poi si vede se è vero. Davanti a questa fame di fama, a questa voglia di fare show mediatici, di sbattere in prima pagina i cattivi, c’è da piangere. E da piangere dovrebbe venire anche al ministro della Giustizia Marta Cartabia che aveva promesso di occuparsi di carcere, dei diritti di indagati e detenuti. Benissimo, c’è una notizia: i duecento arrestati rimangono in piedi, non ci sono posti. Nel penitenziario di Vibo Valentia, perché le carceri scoppiano. E sono anni che lo scriviamo: scoppiano!
A denunciare la mancanza di posti per i neo arrestati, per i mafiosi di Gratteri, è il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: «Sono preoccupato per quello che sta succedendo nel carcere di Vibo Valentia. Comprendo, in parte, i motivi e le pulsioni che spingono un giudice a firmare un’ordinanza di misura cautelare in carcere per 200 persone, ma mi chiedo come sia possibile che, prima di eseguire questi blitz, non si verifichino le disponibilità negli istituti penitenziari – e ce lo chiediamo anche noi – È impensabile che vengano prelevati di notte dalle loro case e poi ‘scaricati’ in carceri non adeguati ad accoglierli. Sono stato allertato da diversi familiari di detenuti campani, attualmente ristretti nella Casa circondariale di Vibo Valentia, per sovraffollamento della struttura penitenziaria. I loro parenti ristretti – denuncia il garante – hanno lamentato di trovarsi, da ieri mattina, in celle con dieci e dodici compagni, a seguito dell’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, scattata alle luci dell’alba di ieri nella provincia di Cosenza. Mi sto occupando di questa vicenda – conclude – perché in Calabria sono tanti i detenuti di origine campana e anche perché è l’unica regione d’Italia che ancora non ha eletto il garante dei detenuti».
Capite che le carceri sono diventate discariche sociali? Sono enormi scatole di cemento nelle quali rinchiudere le persone che sbagliano per davvero o perché fa comodo al giudice di turno o al procuratore che deve fare carriera dire così. Capite che allora la scritta Palazzo di Giustizia non ha senso di esistere? Chiamiamolo Palazzo della Legge dove ognuno la interpreta secondo i propri bisogni del momento.
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
La retata a Cosenza contro cosche e politici. Gratteri, solo maxi blitz (190 arresti) e appello contro il garantismo: “Dite ai vostri editori di convincere i politici”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Settembre 2022
Una retata che ha coinvolto 254 persone: 139 finite in carcere, 51 ai domiciliari, 11 sottoposte all’obbligo di dimora e divieto di esercizio della professione e altre 52 indagate a piede libero. Sono i numeri del blitz avvenuto tra Cosenza e provincia e disposto dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Un’operazione scattata all’alba del primo settembre, una data probabilmente scelta non a caso dopo il periodo estivo di agosto, e che ha coinvolto polizia, carabinieri e guardia di finanza perché “un’inchiesta del genere non poteva farla una sola forza, visto che ognuno di loro già lavorava sulle famiglie di ‘ndrangheta, sul territorio”. Solo la polizia ha utilizzato circa 600 uomini per il blitz.
Una operazione di dimensioni simili a quella del dicembre del 2019, quando prima delle festività natalizie lo stesso Gratteri ottenne il via libera del Gip che dispose un’ordinanza, denominata Rinascita Scott, nei confronti di ben 334 presunti ndranghetisti. L’obiettivo da anni resta quello non di colpire i singoli gruppi malavitosi ma più organizzazioni insieme, confederate tra loro. Mission che spesso porta a operazioni sempre più mediatiche dove nella rete dei pm cadono anche persone che con la malavita non hanno nulla a che fare. Ma questo, così come già dimostrato dal Riesame o dal gup in Rinascita Scott, verrà stabilito successivamente.
Questa volta nel mirino di Gratteri sono finite le presunte cosche del Cosentino ed esponenti di primo piano della politica locale tra cui il sindaco di Rende, l’avvocato Marcello Manna, presidente anche di Anci Calabria, oltre all’assessore (sempre del comune di Rende) Giuseppe Munno e all’assessore dell’amministrazione di Cosenza Francesco Di Cicco. Molteplici i capi d’accusa per la maggior parte dei destinatari dei provvedimenti, quasi tutti appartenenti alla malavita cosentina sia di etnia nomade che italiana, tra cui associazione di tipo ‘ndranghetistico finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, a commettere delitti inerenti all’organizzazione illecita dell’attività di giochi – anche d’azzardo – e di scommesse, delitti di riciclaggio, auto-riciclaggio e trasferimento fraudolento di beni e valori, nonché in ordine ad altri numerosi delitti, anche aggravati dalle modalità e finalità mafiose.
In conferenza stampa, Gratteri non è entrato nei dettagli dell’inchiesta e ha invitato gli editori a cambiare la legge sul garantismo, quella che tutela i diritti degli indagati (da ritenersi presunti innocenti in considerazione dell’attuale fase del procedimento – indagini preliminari – fino a un definitivo accertamento di colpevolezza con sentenza irrevocabile). Per il capo della procura di Catanzaro (che sognava l’Antimafia nazionale) bisogna “sensibilizzare i politici a cambiare la legge vigente” sull’impossibilità di “fornire dettagli sull’operazione anti-ndrangheta di stanotte a Cosenza e nell’hinterland, tantomeno confermare la fuga di notizie sul coinvolgimento di politici. Ma la stampa è potente…”. Poi ha stuzzicato l’ordine dei giornalisti e il sindacato: “Non ricordo sollevazioni quando è stata approvata la legge in questione il risultato oggi è questo”. “Finché non cambia non intendo essere né indagato né sottoposto a procedimento disciplinare” chiarisce.
Sulla maxi retata aggiunge: “E’ una inchiesta di livello superiore questa odierna perché a Cosenza avevano concertato una confederazione criminale unitaria che messi da parte gli screzi operava in modo congiunto e riconosciuto verso tutti”. Le investigazioni si sono sviluppate attraverso un’imponente attività di indagine di tipo tradizionale, consistente in attività tecniche, servizi sul territorio, riscontri “sul campo”, con una parallela poderosa attività di acquisizione e analisi di dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, corroborati dai relativi riscontri, oltre alla acquisizione di plurime emergenze di altri procedimenti penali.
La gravità indiziaria ha riguardato l’attuale operatività delle organizzazioni criminali nell’area cosentina, passate attraverso una importante rimodulazione degli equilibri sul territorio, curata dai “nuovi” presunti capi e gregari, legati al “nucleo stabile” degli storici esponenti dei gruppi criminali. Si tratta in particolare di gravi elementi indiziari circa l’attuale assetto dell’organizzazione criminale di ‘ndrangheta di Cosenza e del suo hinterland, articolata in diversi gruppi organicamente confederati, e tutti riconducibili ad una struttura di vertice, nello specifico riconducibili ai due principali gruppi, il clan degli italiani, nelle sue varie componenti, e il clan degli zingari, anch’esso con varie articolazioni, nell’assetto rideterminatosi a seguito delle complesse e altalenanti dinamiche relazionali tra gli stessi, nonché delle numerose vicende giudiziarie, con i relativi diversificati esiti, che li hanno interessati.
Contestualmente è stato eseguito, a cura dei Finanzieri GICO del Comando Provinciale di Catanzaro e lo SCICO di Roma, il sequestro preventivo d’urgenza disposto dal pm, che dovrà essere sottoposto al vaglio del Giudice per le Indagini Preliminari, di beni immobili, aziende, società, beni mobili registrati, riconducibili a numerosi indagati, per un valore stimato in oltre 72 milioni di euro, e consistenti, tra l’altro, in 78 fabbricati, tra i quali 5 ville, 44 terreni, per un’estensione complessiva di 26 ettari, in vari comuni della provincia di Cosenza, 57 quote di partecipazioni in attività produttive e commerciali al dettaglio e all’ingrosso in diversi settori (ristorazione con somministrazione, bar, abbigliamento produzione energia elettrica, agricoltura, lavanderie e lavanderie industriali, servizi nel settore dello spettacolo, noleggio attrezzature per spettacoli ed eventi, formazione culturale, edile), 39 complessi aziendali, anche di imprese del settore del c.d. “gaming” (scommesse on-line e sale giochi e biliardo), 20 ditte individuali attive nei vari settori delle attività produttive e commerciali (ristorazione, strutture turistiche e ricettive, agricoltura, bar, supporto rappresentazioni artistiche, intermediazione finanziaria), 7 associazioni non riconosciute, impegnate prevalentemente in ambito sportivo-ricreativo, uno Yacht, un aeromobile ultraleggero, un natante, 70 autovetture, 7 motoveicoli.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Caro Renzi, venga in Calabria a scoprire casi di malagiustizia più gravi del suo. Certo, nella vicenda dell’ex premier le garanzie costituzionali vacillano. Ma è nulla se si pensa ai tanti innocenti finiti in manette e poi assolti di una terra a diritti zero. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 15 luglio 2022.
«Ci sono dati che di fatto vi faranno pensare. Hanno arrestato i miei genitori con un provvedimento subito annullato, hanno sequestrato i telefoni dei miei amici non indagati, hanno cambiato nomi nei documenti ufficiali per indagare sulle persone a me vicine, hanno scritto il falso in centinaia di articoli, hanno pubblicato lettere privatissime tra me e mio padre, mi hanno fotografato negli autogrill e mentre uscivo dal bagno di un aereo, hanno controllato e pubblicato tutte le voci del mio estratto conto, hanno violato la Costituzione per controllare i mie messaggi di Whatsapp …» e per far tutto ciò «hanno coinvolto strutture dei servizi di intelligence non solo italiani».
A scrivere le cose che avete appena letto è stato Matteo Renzi ex presidente del Consiglio dei ministri ed attuale senatore e a commettere una lunga serie di reati nei suoi confronti sarebbero stati magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, pubblici funzionari. Sullo sfondo si intravedono alcuni politici ma giocano la partita solo di rimessa dal momento che il pallone è sempre in possesso di forze oscure (ma non tanto) che operano all’interno dello Stato. Non sono mai, (ma proprio mai), stato “renziano” ma mano che la matassa si dipana mi pare evidente che le accuse mosse contro il senatore fiorentino saranno difficilmente sostenibili in un giusto processo. Sarà il tempo a farci capire meglio le cose ma è certo che nel suo libro Renzi, fa intravedere con chiarezza la febbrile attività di un sistema inquirente che opera nel “cuore” dello Stato e conta sul sostegno attivo di parte importante degli organi di informazione di massa. Nel libro si delinea un tentativo di “linciaggio” mediatico contro un uomo che ha ricoperto e ricopre incarichi di primissimo piano, dei suoi familiari e dei suoi amici personali e politici.
Una trama che ha come colonna sonora il lugubre rumore di manette e un continuo agitar del “cappio”. Gli “associati” pur avendo giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, non avrebbero esitato un attimo a violare le leggi di cui avrebbero dovuto essere custodi mettendo così in pericolo la libertà e la sicurezza dei cittadini e la legittimità dello Stato.
Ci troviamo in presenza di un libro inquietante perché, dopo la lettura, è impossibile non domandarsi cosa potrebbe succedere ( anzi, cosa succede) a un normale cittadino che dovesse capitare nel mirino di coloro che detengono il potere reale in Italia viste le cose successe ad un ex capo del governo della Repubblica che dispone intanto dell’immunità parlamentare e quindi di amicizie, denaro e che forse potrebbe contare su un circuito di potere alternativo rispetto a quello che ha tentato di fargli scacco matto. In qualche modo, penso di sapere quello che succede alle tantissime persone che capitano dentro il tritacarne kafkiano che è la “giustizia” in Italia e per come riesco da oltre quarant’anni cerco di raccontare le loro storie, in particolare di coloro che abitano in una terra a zero democrazia come la Calabria. Parlo dei superstiti delle tante tempeste giudiziarie che hanno sconvolto molte vite di innocenti segnandoli per sempre.
Se potessi vorrei invitare il senatore Renzi in Calabria. Potrei fargli conoscere “casi” rispetto ai quali quanto successo a Lui è acqua fresca. Avrei una sola difficoltà: non potrei farlo parlare con i morti di crepacuore per non aver avuto giustizia. Morti che si aggiungono ad altri morti per mano mafiosa. In mezzo un popolo che deve abbassare la testa agli uni e agli altri e ci vuole molto coraggio ad alzare la testa.
Nel libro di Renzi non mi sembra che costoro abbiano avuto spazio. Comprendo perfettamente che l’autore non avrebbe potuto conoscere i singoli casi ma il segretario nazionale del Partito democratico, anche bendandosi gli occhi, avrebbe potuto e dovuto conoscere la particolare situazione della Calabria: le somme spese dallo Stato per ingiusta detenzione, la pesca con le reti a strascico in cui restano impigliati soprattutto gli innocenti, le sfilate in manette di persone successivamente assolte, le intercettazioni telefoniche di massa, la “vendetta” praticata con gli strumenti della giustizia, la paura che terrorizza la gente obbligandoli al silenzio sia rispetto ad una certa antimafia che alla mafia.
Evidentemente gli è sfuggita o i suoi amici calabresi non hanno avuto interesse a fargliela conoscere e questo lo porta a commettere altri errori. Per esempio Egli spara ad alzo zero e con molta precisione sui magistrati che hanno indagato Lui, i suoi genitori e i suoi amici ma il problema non è il nome del giudice. Si chiami Creazzo, Gratteri, Davigo o Di Matteo. I nomi sono passati e passano ma le storture restano, quindi Il problema vero è che la classe politica complice una legge elettorale truffa e una dirigenza golpista – non è davvero legittimata dal consenso, per cui alcuni magistrati si sono sentiti autorizzati a operare fuori e contro le leggi e la Costituzione. Costoro sono intoccabili, non pagano per i loro errori, impongono il silenzio stampa sulle loro stesse vittime, trovano complicità e protezione negli altri poteri dello Stato.
A questo punto Renzi deve scegliere se comportarsi da Nume offeso che cova una sua personale vendetta per “l’onta ricevuta”, oppure vuole essere un leader che, capace di autocritica rispetto alla sua stessa esperienza politica e governativa, intende battersi per il rispetto della Costituzione. In quest’ultimo caso gli rinnovo l’invito: “scenda” in Calabria ma non cerchi sempre le stesse persone e solo così potrà scoprire di ‘ che lacrime gronda e di che sangue’ lo scettro dei detentori del potere.
Tallini: «Nessuna prova contro di me. Ma la Dda di Catanzaro fa ricorso». Il Dubbio il 5 luglio 2022.
L'ex presidente del Consiglio regionale della Calabria in primo grado è stato assolto. Ora Gratteri propone appello. «Da amministratore ho sempre combattuto le organizzazioni criminali»
«Sono pronto a dimostrare la mia totale estraneità alle accuse ipotizzate dalla Procura anche davanti alla Corte d’Appello, così come già avvenuto davanti al Tribunale del Riesame, alla Cassazione e al Gup». Così in una nota Mimmo Tallini, dopo che la Dda Catanzaro ha presentato appello contro l’assoluzione dell’ex presidente del Consiglio regionale accusato di concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta “Farmabusiness” scaturita dall’operazione che nel novembre del 2020 fece luce sugli interessi della cosca Grande Aracri di Cutro (Crotone) intorno a una società finalizzata alla distribuzione di prodotti farmaceutici.
«Il ricorso in appello della Procura non mi sorprende – osserva Tallini -, anzi era ampiamente previsto e non intacca la mia serenità e la mia fiducia nella magistratura. Tre fasi di giudizio terzi – il Riesame, la Cassazione e il Gup – hanno stabilito l’assoluta insussistenza di prove e di indizi a mio carico, certificando la mia completa estraneità a fatti criminali o illegali. In particolare, con la sentenza di primo grado sono stato totalmente assolto, con formula ampia, dalle accuse formulate dalla Procura».
«Affronterò a testa alta anche il processo d’appello – sottolinea Tallini -, con la forza di chi ha servito le istituzioni sempre con umiltà e correttezza e nella sua lunga storia politica e amministrativa ha sempre contrastato con fermezza i fenomeni criminali che rappresentano un grave ostacolo alla crescita e allo sviluppo della nostra terra». «Ho sempre onorato le istituzioni dove il consenso popolare mi ha voluto – conclude Tallini – e non ho mai tradito la fiducia che tantissimi calabresi hanno nutrito verso di me».
CAMBIAMENTI TROPPO LENTI. I parenti del mafioso intimano il silenzio al giornalista siciliano Josè Trovato. Ma lui denuncia. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 28 giugno 2022
Nel 2005 ha scritto di Rosario Mauceri, oggi condannato all’ergastolo per omicidio. Il mafioso gli aveva chiesto il silenzio: «Non mi sono lasciato intimidire». Dopo le minacce trapelate dal carcere, ancora anni dopo, la famiglia ha intimato al giornalista di tacere sotto un post di Facebook
Nel 2005 ha scritto per la prima volta di Rosario Mauceri, il rappresentante di Cosa Nostra a Enna oggi condannato all’ergastolo per aver ucciso due persone, e quasi vent’anni dopo, la famiglia ha intimato ancora una volta al giornalista Josè Trovato di tacere. La terza richiesta di silenzio ricevuta negli anni, ma lui ha denunciato ancora una volta: «E sono combattuto se andare a farne un’altra», dice a Domani, visto che l’attacco social è stato ripetuto dopo la notizia del post del sindacato dei giornalisti che gli esprimeva solidarietà.
TRE VOLTE
Questo è solo l’ultimo capitolo di una vicenda partita quando «tutti sapevano che l’assassino era lui, ma ancora non era stato condannato in via definitiva». Trovato era un cronista poco più che ventenne «e raccontavo la mafia a Enna quando tutti dicevano che non c’era». Nel 1999 il mafioso, originario anche lui di Leonforte, aveva ucciso Filippo Musica ed Elisa Valenti: «Musica – racconta Trovato – veniva visto come un rivale perché voleva gestire affari legali pur non facendo parte di Cosa Nostra, mentre Elisa Valenti era solo la sua fidanzata». Così ha iniziato a scrivere di quello che stava accadendo e del mafioso.
La prima volta è stato lo stesso Mauceri ad avvicinarlo. «Nel 2005 mi ha avvicinato, ha preso una copia del giornale di Sicilia e mi ha detto, “la devi smettere di scrivere di me”. Avevo 26 anni e non capendo il tono, ho chiamato la polizia». Trovato ha scritto di lui ancora una volta la settimana stessa: «Non mi sarei lasciato intimidire».
La sorpresa arriverà quattro anni dopo, quando il giornalista ha scoperto che dal carcere Mauceri voleva passare ai fatti: «Il 3 febbraio del 2009 sono stato convocato dal questore di Enna, e dietro la porta ho trovato il comandante provinciale dei carabinieri. Dal carcere, mi hanno riferito, aveva messo in moto qualcosa “per farmi saltare la testa”, ma il detenuto che era venuto a saperlo stava collaborando ed è emerso il disegno. Lo ricordo con precisione perché è accaduto una settimana prima che nascesse mio figlio».
Da allora passiamo al 2022. Il 27 giugno Trovato ha sporto una formale denuncia al commissariato di polizia di Leonforte contro i responsabili dei profili di Facebook che hanno scritto contro di lui: «I figli di Mauceri». In un post sul suo profilo, il giornalista annunciava la prossima presentazione a Leonforte del suo libro dal titolo Mafia 2.0-21, con un commento: “Nel corso della serata parlerò della presenza dei parenti dei mafiosi dei social: un bestiario che non smetterà di stupirmi”. Non si riferiva nemmeno a loro. Ma è stato apostrofato come “giornalista da strapazzo” e “ridicolo”, e uno dei figli del malvivente, con tono apparentemente amichevole, lo ha invitato a «smettere di parlare di suo padre».
IL SINDACATO
Il sindacato dei giornalisti si è schierato con lui immediatamente: «Terza intimidazione per il collega ennese Josè Trovato, componente del Gruppo cronisti siciliani di Assostampa Sicilia, da parte di una famiglia mafiosa» e ha espresso «solidarietà e stima al collega, invitandolo a proseguire la sua testimonianza professionale con coraggio e perseveranza».
Adesso sarà la magistratura a stabilire se questa richiesta, proveniente dal figlio di un mafioso e assassino, integri o meno una specifica fattispecie di reato: «Ciò che riteniamo non si possa far passare in silenzio è il messaggio che un giornalista possa essere aggredito verbalmente sui social dai parenti di un mafioso, nel tentativo di ridurlo al silenzio», dicono Roberto Ginex, segretario di Assostampa Sicilia, Claudia Brunetto, segretaria regionale del Gruppo cronisti, e Gianfranco Gravina, vicesegretario di Assostampa Enna.
I familiari di Mauceri hanno ricondiviso la notizia dicendo che è «tutto falso», e Trovato sta decidendo se è il caso di tornare al commissariato.
UN LENTO CAMBIAMENTO
Il giornalista ricorda che uno dei figli ha usato sostanzialmente le stesse parole che il padre gli rivolse 17 anni fa e gli ha chiesto di non occuparsi di lui.
«Sono passati tutti questi anni – dice il giornalista a Domani -, ma l’opinione è questa. Basta dire a qualcuno di non scrivere». Racconti che sembrano appartenere a un’altra epoca, atteggiamenti ancora più stridenti perché nati sui social.
«Si sta prendendo consapevolezza, c’è un risveglio da parte di Enna. C’è un impegno forte da parte della società civile, oggi i comuni si costituiscono parte civile. Cominciano a invitarmi nelle scuole, ma alla fine per certi aspetti i cambiamenti sono lenti». Allo stesso modo, le reazioni di segno contrario, non per forza sono un segnale negativo: «Probabilmente sono reazioni al fatto che la musica sta cambiando».
Il giornalista è anche presidente della pro loco di Leonforte e il 30 giugno «a più di vent’anni dall’omicidio scopriremo un quadro che ritrae Elisa Valenti, una delle due vittime. Valenti era solo la fidanzata di Musica, e il ministero dell’Interno l’ha riconosciuta vittima incolpevole di mafia». Un riconoscimento che adesso il comune vorrebbe trasformare nell’intitolazione alla donna di una via o una piazza: «Ma il nulla osta dalla prefettura continua a non arrivare»
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Ucciso dai Corleonesi, alla famiglia del nipote di Badalamenti niente fondi: «Non estraneo alla mafia». Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
Moglie e figlie di Silvio Badalamenti, che fu ucciso nel 1983 a Marsala, si appellavano alla legge per le vittime di mafia. La Cassazione dice no e respinge le richieste della vedova: «Radicato rapporto di fiducia con lo zio»
Gaetano Badalamenti collegato con un’aula bunker
Fu assassinato a Marsala il 2 giugno del 1983, ma la Corte di Cassazione non crede all’estraneità alla mafia di Silvio Badalamenti, nipote del più noto Tano Badalamenti, il «toro seduto» di Cinisi, tra i boss schiacciati dalla guerra con i Corleonesi di Totò Riina. Per la moglie e le figlie del nipote di Tano niente benefici, quindi, in base alla legge in favore dei familiari superstiti delle vittime di mafia
La Cassazione ha respinto il ricorso della vedova, contro la decisione della Corte di Appello di Palermo che nel 2015 aveva negato il diritto ad accedere al fondo assistenziale istituito dal ministero dell’Interno. Secondo la Cassazione manca il requisito della «estraneità della vittima, al tempo dell’evento, ad ambienti e rapporti delinquenziali e, nella specie, al contesto mafioso».
Ricordano in proposito i giudici che la sentenza della Corte di Assise di Trapani a carico degli autori dell’omicidio di Silvio Badalamenti evidenziava «il radicato rapporto di fiducia» della vittima con suo zio, il boss Badalamenti, «fondato su presupposti non esclusivamente basati sul mero vincolo di sangue». La stessa sentenza sottolineava inoltre le «condizioni di vita e professionali» di Silvio Badalamenti quale «responsabile dell’esattoria comunale di Marsala, facente capo ai noti esponenti mafiosi Antonino e Ignazio Salvo, legati da stabili vincoli di affari coni boss».
Silvio Badalamenti era stato sicuramente ucciso dalla mafia, sembra rilevare la Cassazione, ma nell’ambito di una guerra alla quale aveva preso parte, o alla quale non era del tutto estraneo. Nel confermare il no all’accesso al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di reati di tipo mafioso, i giudici ricordano che non è sufficiente la sola incensuratezza della vittima o la non affiliazione a una cosca, ma che «vi sia la completa estraneità ad ambienti delinquenziali mafiosi, intesi in senso ampio e in modo particolarmente rigoroso laddove per vincoli, e ragioni familiari, la frequentazione di quegli ambienti sia naturalmente assidua».
Gaetano «Tano» Badalamenti fu arrestato nel novembre 1984 a Madrid ed estradato negli Stati Uniti dove fu condannato a 45 anni di carcere: morì nel 2004, a 80 anni. In Italia fu condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio del giornalista Peppino Impastato, il 9 maggio 1978 a Cinisi, dove viveva.
“Classi pericolose”, non solo mafiosi, narcotrafficanti e ladri. ENZO CICONTE, storico, su Il Domani il 20 giugno 2022
Chi dovesse oggi parlare di classi pericolose, si troverebbe nell’imbarazzo di dover scegliere tra mafiosi, narcotrafficanti, ladri, rapinatori. La scelta è molto ampia e, volendo, potrebbe includere altri soggetti o categorie. Le classi pericolose, però, non sono una categoria immobile nel tempo...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.
Chi dovesse oggi parlare di classi pericolose, si troverebbe nell’imbarazzo di dover scegliere tra mafiosi, narcotrafficanti, ladri, rapinatori. La scelta è molto ampia e, volendo, potrebbe includere altri soggetti o categorie.
Le classi pericolose, però, non sono una categoria immobile nel tempo perché hanno subito variazioni con il trascorrere dei secoli e via via si sono trasformate profondamente agli occhi di chi deteneva il potere e quindi ne determinava la pericolosità. Se gettiamo uno sguardo anche rapido a quello che è successo nei secoli passati ci accorgiamo come la nozione delle classi pericolose abbia subito delle trasformazioni a volte lente e a volte molto rapide; soprattutto ci accorgeremmo come dal Cinquecento fino ai giorni nostri si possono rintracciare non solo linee di evoluzione ma soprattutto di sconcertante continuità.
Prendiamo in considerazione la figura emblematica del povero; con essa possiamo cogliere al meglio queste modificazioni. Ad esempio, soprattutto dopo il Medioevo, il povero, che veniva considerato come il lasciapassare per il ricco di poter schiudere le porte del Paradiso facendo l’elemosina, si trasforma in una figura ambigua, oscura, persino pericolosa.
La società via via si trasforma sotto l’impulso di una borghesia che trionfa sulle altre classi sociali imponendo una nuova cultura e un diverso stile di vita, pretendendo il decoro delle città e dei comportamenti delle persone che le abitano, difendendo con ogni mezzo la proprietà e la sicurezza. L’idea che i poveri, i vagabondi e gli stranieri, e più di recente i contadini e gli operai, siano un pericolo sociale diventa pratica di governo, si trasforma in leggi, decreti, ordinanze, seleziona i soggetti che devono essere sorvegliati e, quando è il caso, messi al bando o rinchiusi lontano dal consesso civile.
Sembrano novità, tutte queste iniziative prese in molte parti del nostro paese, e invece sono molto antiche e sono il segno più evidente del fallimento storico di politiche rivolte a nascondere, eliminare dalla visuale, reprimere, rinchiudere marginali, scarti, reietti della società, con l’illusione che così facendo il problema si risolva. Poveri e stranieri hanno subito la stessa sorte.
Essi sono stati considerati pericolosi e criminali anche quando non hanno fatto nulla per violare la legge, perché si è affermata nel corso degli anni la tendenza a definire in termini criminali problemi che hanno una forte connotazione sociale. Per questo tutte le politiche repressive a loro danno si sono rivelate un clamoroso fallimento.
ENZO CICONTE, storico. Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Fra i suoi libri, Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza).
Mafia: in Italia due arresti al giorno e 4.300 in sei anni. Ma a finire sotto accusa è sempre l’Antimafia. È il numero di affiliati di Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta e criminalità pugliese spediti in carcere solo dai Carabinieri. Ma il governo non parla più di questa piaga. E gli avvocati-deputati propongono di limitare le confische dei patrimoni mafiosi. Paolo Biondani su L'Espresso il 10 giugno 2022.
Da anni la parola mafia sembra scomparsa dal vocabolario di governo. Se ne parla negli anniversari, alle commemorazioni degli eroi nazionali assassinati, ma come un problema del passato, un cancro che sarebbe stato debellato dopo la morte dei giudici Falcone e Borsellino, con l'inizio della riscossa dello Stato. Un'emergenza di trent'anni fa, sparita dall'agenda degli attuali ministri. Al punto che oggi in Parlamento importanti esponenti della maggioranza ormai pianificano la grande contro-riforma.
Riccardo Arena per “La Stampa” l'11 giugno 2022.
Due arresti a distanza di 48 ore nella coalizione che candida l'ex rettore Roberto Lagalla a sindaco di Palermo: dopo il caso di Pietro Polizzi nelle fila di Forza Italia, a finire in carcere ieri è stato un esponente di Fratelli d'Italia, Francesco Lombardo, inserito nella lista che corre per il Consiglio comunale.
Anche lui è accusato di voto di scambio politico-mafioso, per avere chiesto preferenze a Vincenzo Vella, boss di corso dei Mille temporaneamente fuori dalle patrie galere. Sembra un arresto-fotocopia di quello di Pietro Polizzi, candidato nella lista di Forza Italia, fermato mercoledì con un altro capomafia, Agostino Sansone, tra l'altro fratello del padrone della lussuosa villa in cui abitava Totò Riina. Di nuovo si scatena il putiferio, quando ormai mancano poche ore all'apertura delle urne che, a Palermo, decideranno chi sarà il successore dell'eterno Leoluca Orlando.
Nel suk elettorale del capoluogo siciliano, in una campagna segnata da polemiche e veleni sul ruolo di Cosa nostra, a partire dal ruolo svolto da Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro, il centrodestra aveva avuto un attimo di respiro ieri mattina, dopo che su La Stampa era stata pubblicata la storia di Nicola Piranio. Lui, figlio di Biagio detto Gino, è candidato alla VI Circoscrizione con la lista Progetto Palermo, diretta emanazione del candidato sindaco di centrosinistra, Franco Miceli: il padre però è in carcere da maggio 2020, manco a dirlo, con l'accusa di mafia.
Piranio, visto il clamore, si era affrettato a rendere pubblica la propria abiura rispetto al genitore, «con cui non ho rapporti da vent' anni». Poi, da caporalmaggiore dell'Esercito, si era definito uomo dello Stato e lontano dalla mafia: insomma, ce n'era quanto bastava perché l'aspirante primo cittadino Miceli lo definisse un novello Peppino Impastato, il militante di Democrazia proletaria ucciso nel 1978, figlio a sua volta di un mafioso di Cinisi.
Lagalla e i suoi avevano replicato facile, evocando il doppiopesismo della sinistra, implacabile con i nemici e indulgente con i propri uomini e donne. Poi però nel pomeriggio è piombato il nuovo arresto, a complicare la corsa di Lagalla verso Palazzo delle Aquile.
Francesco Lombardo era vicepresidente del Consiglio comunale di Villabate, un paesone dell'hinterland, e per tentare la scalata a Sala delle Lapidi si era dimesso. Poi era andato da Vella: fuori per un cavillo nonostante una pesante condanna, il mafioso era ovviamente monitorato dalla Squadra mobile, così come Agostino Sansone nel caso di Polizzi. La notizia dei nuovi arresti è stata diffusa poco prima che Lagalla, nella multisala Politeama, facesse l'ultimo appello prima del silenzio pre-elettorale: imbarazzato, colpito, dice che si dimetterà «da sindaco se emergeranno nomi di impresentabili dall'indagine dell'Antimafia e i partiti non li faranno dimettere».
Con lui ci sono Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa: «La magistratura - dice l'esponente meloniano - avrebbe potuto aspettare qualche giorno in più vista la vicinanza con il voto, ma i pm avranno avuto esigenze cautelari, magari». Esigenze consistenti nella necessità di fermare il patto elettorale politico-mafioso. Quello che appare come un assist giudiziario al centrosinistra viene sfruttato al volo: «Lagalla si ritiri», dice il vicesegretario nazionale del Pd Giuseppe Provenzano. E Giuseppe Conte: «Noi incontriamo la gente che non arriva a fine mese, loro i mafiosi». Lagalla ovviamente resta in lizza, però il conto è pesante.
Alessandro Di Matteo per "La Stampa" l'11 giugno 2022.
Sono 18 gli "impresentabili" alle elezioni comunali, secondo le verifiche della commissione parlamentare Antimafia e ben 10 sono candidati in liste civiche. È questo il risultato dei controlli su 19.782 candidature annunciato da Nicola Morra, ex M5s, presidente della commissione. Tra i partiti il record negativo spetta a Forza Italia (4 impresentabili), poi ci sono Fdi, Pd, Noi con l'Italia e Cambiamo con Toti, con un nome ciascuno.
Sono candidati bocciati in base al codice di autoregolamentazione, ma ai quali non viene impedito di presentarsi alle elezioni: si tratta perlopiù di persone che hanno processi in corso, ma non ancora sentenze definitive, per reati come corruzione, riciclaggio, concussione, traffico di rifiuti e via dicendo. Un bilancio che Morra commenta parlando di «situazioni imbarazzanti» e di «numero cospicuo», sottolineando che c'è stato un «aumento del 65%» rispetto alla volta precedente. Ma con numeri così piccoli è abbastanza poco significativa la variazione percentuale.
Semmai è significativo che rapportando il dato sul totale dei controlli si ottiene che risultano "impresentabili" lo 0, 09% dei candidati esaminati.
Tra le città è Palermo a contare il maggior numero di "bocciati", in tutto 4, seguita da Frosinone con 3, 2 a Mondragone (Caserta) e 2 in provincia di Cosenza. Un "impresentabile" anche a Ciampino (Roma), uno a Gorizia, uno a Barletta, uno a Verona, uno a Piacenza, uno ad Ardea (Roma) e uno a Taranto.
A Frosinone, in particolare, è finito nella lista addirittura un candidato sindaco, Mauro Vicano, che si presenta con la lista "Per Frosinone se vuoi si fa": nei suoi confronti, sottolinea la commissione, risulta emesso un decreto che dispone il giudizio per «attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti». «Mai nascosto il procedimento, sono sicuro che ne uscirò estraneo» commenta Vicano. A Palermo, invece, c'è Francesco La Mantia ("Noi con l'Italia"), condannato in primo e secondo grado con un giudizio poi annullato dalla Cassazione, che ha rinviato tutto alla Corte d'appello, che parla di «un errore clamoroso».
Sempre a Palermo, Salvatore Lentini di "Alleanza per Palermo", rinviato a giudizio per tentata concussione. E proprio nel capoluogo siciliano ci sono Giuseppe Milazzo, Fdi, rinviato a giudizio per concussione, e Giuseppe Lupo, Pd, anche lui a processo per corruzione. «Non ho nulla da vergognarmi - dice Milazzo -. È vergognoso essere in una lista definita di impresentabili senza mai essere stato condannato in primo grado». Franco Mirabelli, Pd, membro della commissione Antimafia assicura «pieno sostegno a Lupo: non può esserci un automatismo che porta a cancellare la credibilità di una figura come lui».
Morra se la prende con i partiti: «Ci saremmo aspettati ben più collaborazione, non hanno facilitato queste verifiche. Ci siamo dovuti affidare al duro lavoro degli uffici giudiziari». Giuseppe Brescia, M5s, è contento: «Non ci sono nomi del Movimento 5 Stelle tra i 18 impresentabili». Lo stesso dice Gennaro Migliore, Iv: «Mi fa piacere che non c'è nessuno di Iv. Vuol dire che basta essere più attenti»
C'è anche un candidato sindaco a Frosinone. Elezioni, l’Antimafia di Morra dà “patenti di legalità”: 18 gli “impresentabili” candidati. Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Giugno 2022.
La Commissione parlamentare antimafia torna, come in ogni appuntamento elettorale, a dare “patenti di legalità”. Secondo l’ex grillino Nicola Morra sono 18 i candidati alle elezioni amministrative di domenica “impresentabili” secondo il codice di autoregolamentazione dei partiti e la legge Severino, su un totale di 19mila candidati presi in considerazione dalla Commissione.
Un numero che arriva con una premessa, ha spiegato lo stesso Morra, ovvero che “sono arrivate delle note di rettifica anche nel pomeriggio e che provvederemo a rettificare i giudizi di impresentabilità anche lunedì”.
Il caso più particolare arriva di Frosinone, dove viene giudicato “impresentabile” addirittura il candidato sindaco Mauro Vicano, per la lista ” Per Frosinone se vuoi si fa”. “È stato mandato a giudizio per traffico illecito di rifiuti“, ha spiegato il presidente della commissione antimafia Morra.
Questi nel dettaglio i nomi dei cosiddetti “impresentabili”: Acri (Cosenza): Luigi Maiorano, lista “Pino Capalbio Sindaco”; Barletta: Antonio Comitangelo, “Forza Italia Berlusconi per Cannito”; Belvedere Marittimo (Cosenza): Carmelina Carrozzino, lista “Niti per Belvedere” che sostiene il candidato sindaco Filicetti; Ciampino (Roma): Ernesto Garofano, lista “Ideale per Ciampino” che sostiene il candidato sindaco Colella; Frosinone: Patrizia Giannoccoli, lista “Frosinone capoluogo” che sostiene il candidato sindaco Mastrangeli; Frosinone: Giuseppe Patrizi, lista “Piattaforma civica ecologistica” che sostiene il candidato sindaco Marzi; Frosinone: Mauro Vicano, candidato sindaco per la lista “Per Frosinone se vuoi si fa”; Gorizia: Silvana Romano, “Forza Italia Berlusconi per Ziberna”; Mondragone (Caserta): Patrizia Barbato, lista “Città futura” che sostiene il candidato sindaco Lavagna; Mondragone (Caserta): Antonio Valenza, “Forza Italia”, che sostiene il candidato sindaco Pagliaro; Palermo: Francesco La Mantia, “Noi con l’Italia- Noi di centro- Mastella” che sostiene il candidato sindaco Lodato; Palermo: Salvatore Lentini, “Alleanza per Palermo- Movimento di iniziativa popolare”., che sostiene il candidato sindaco Lagalla; Palermo: Giuseppe Lupo, Partito democratico, che sostiene il candidato sindaco Miceli
Il caso Palermo
A Palermo gli “impresentabili” sono Totò Lentini, Giuseppe Milazzo e Francesco La Mantia per il centrodestra; Giuseppe Lupo per il Pd. Elezioni a Palermo già scottate dal doppio arresto in pochi giorni di due candidati consiglieri: Pietro Polizzi, di Forza Italia, e Francesco Lombardo, di Fratelli d’Italia.
Proprio rispetto a queste due vicende, Morra ha sottolineato che i due candidati arrestati “sarebbero stati presentabilissimi ai sensi del Codice Bindi di autoregolamentazione e della legge Severino. Il mio invito agli elettori è pertanto a usare la massima attenzione al momento del voto”.
Il richiamo ai partiti
Morra ha duramente richiamato i partiti, evidenziano che la Commissione “si sarebbe aspettata ben più collaborazione dai partiti che non hanno facilitato queste verifiche, in quanto avrebbero potuto inviare prima gli elenchi dei candidati e darci il tempo utile per fare le verifiche in tempi ragionevoli. Ci siamo dovuti affidare al duro lavoro degli uffici giudiziari, che seppur con organici spesso deficitari sono riusciti ad inviarci i nominativi con non poche difficoltà. Successivamente la Procura Nazionale Antimafia ha fatto un ulteriore lavoro in tempi assai celeri, lasciandoci infine l’onere di approfondire e perfezionare tutte le verifiche per offrire ai cittadini la possibilità di scegliere con consapevolezza”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Attilio Bolzoni per editorialedomani.it il 29 settembre 2022.
Tutto è cominciato al Grand Hotel et des Palmes e tutto è finito lì, fra i velluti e gli specchi dei suo saloni dove a inizio estate Marcello Dell'Utri ha benedetto Roberto La Galla sindaco di Palermo e dove ieri Renato Schifani ha ringraziato giustamente chi doveva ringraziare.
Con meticolosa precisione: Totò Cuffaro, Raffaele Lombardo, Saverio Romano, la trimurti che lo ha portato a diventare il governatore della Sicilia. Un bell’ambientino. Qualcuno condannato per reati di mafia e altri che se la sono cavata per il rotto della cuffia, compreso lui stesso, Schifani, graziato per le sue pericolose frequentazioni criminali ma nell'isola ormai meglio noto come “il professore Scaglione”, misterioso personaggio che compare con quel nome in codice nei diari di un agente segreto.
Il primo pensiero dell’ex senatore Renato Schifani, dell’ex presidente di Palazzo Madama Renato Schifani, dell’attuale “professore Scaglione” e dell’attuale presidente della Sicilia o anche dell’attuale imputato Renato Schifani è andato agli amici.
Essere "un amico” in Sicilia può assumere i significati più disparati e insoliti per altri luoghi (lascio alla vostra immaginazione, io mi astengo) ma c'è anche un proverbio popolare che dice: “Amico e guardati”. Stai attento.
L’imputato Schifani deve stare attento agli amici con “certificato” che lo circondano e agli altri che stanno nei paraggi, l’imputato Schifani deve stare attento anche al suo processo di Caltanissetta dove è alla sbarra per associazione a delinquere e con l’accusa di avere veicolato notizie segrete per salvare dal carcere l’ex presidente di Confindustria Antonello Montante.
Sicuramente si sarà fatto i suoi conti prima di candidarsi, sicuramente avrà ricevuto assicurazioni e garanzie, sicuramente avrà intuito che quel processo di Caltanissetta esasperatamente lento finirà in prescrizione. Ma le variabili non è che si possono sempre prevedere. In Sicilia, più che altrove, gli imprevisti sono in agguato. Vedremo cosa riserverà Renato Schifani ai siciliani e cosa il destino riserverà a lui.
Con la sua trionfale elezione (il 42 per cento dei voti, secondo l’ex sindaco di Messina Cateno De Luca che dal niente ha raccolto un sorprendente 24,5 di consensi) il cerchio si è chiuso. A giugno Palermo nelle mani di una creatura di Totò Cuffaro, a settembre la Regione nelle sue mani. Dalle amministrative della capitale e dalle regionali esce una verità incontestabile: i padroni dell'isola di trent’anni fa sono padroni anche oggi
È una classe dirigente che non si è mai arresa e che, con molta intelligenza ed esperienza, ha seguito alla lettera lo spirito di un altro detto siciliano: “Càlati juncu ca passa la china”, piegati giunco fino a quando la piena non passa. Altra versione con medesimo significato: “Quando tira vento fatti canna”.
Cosa che hanno fatto tutti i vincitori delle consultazioni elettorali estate-autunno 2022, dopo gli anni infami che avevano passato nelle carceri di Rebibbia e di Parma o nei lunghi corridoi della procura della repubblica di Palermo insieme ai loro avvocati. Sono stati pazienti, astuti, raffinati calcolatori.
Quando la piena è passata, quando il ricordo delle stragi del 1992 era sempre più lontano, quando la magistratura si è mostrata sempre più sensibile a colpire i macellai di Cosa Nostra e sempre meno gli abitanti dei palazzi loro sono tornati. E si sono ripresi ciò che hanno sempre considerato una proprietà privata: Palermo e la Sicilia.
Ciascuno con il suo stile e con il suo passato, perché il profilo del sindaco La Galla è uno e quello di Schifani un altro. Ma si vogliono comunque molto bene. Amici. Tutti però, hanno rispolverato – fuori tempo massimo? – la loro ricetta antimafia.
Il sindaco di Palermo in questi mesi è sembrato un piccione viaggiatore, sempre in volo ogni giorno a farsi il segno della croce davanti alle tante lapidi della città, un mazzo di fiori per far dimenticare che il 23 maggio, giorno dell’anniversario dell’uccisione di Giovanni Falcone, il sindaco di Palermo – lui – non c’era.
Il nuovo governatore della Sicilia, che già all'apertura della campagna elettorale aveva suscitato ilarità con una battuta effervescente («Forza Italia è il partito che più di altri si è battuto contro la mafia e che ha avuto il coraggio di fare approvare leggi contro la criminalità») neanche due ore dopo la certezza della sua incoronazione a Palazzo d’Orlèans si è presentato ai giornalisti dichiarando: «Istituirò una conferenza di servizi, composta da uomini dello stato, come ex magistrati, possibilmente non siciliani, per darci una mano contro le infiltrazioni mafiose nel Piano nazionale di resistenza e resilienza».
Possibilmente non siciliani? E di dove? Svizzeri, ugandesi, canadesi, cecoslovacchi? «Devono però essere estranei al nostro territorio, noi non ci vogliamo sottrarre alle verifiche», ha aggiunto per ribadire che pm siciliani fra i piedi non ne vuole avere. Magnifico. I magistrati li sceglierà lui per controllare quello che fa lui. Cominciamo bene. La parolina magica Schifani l'ha pronunciata: Pnrr. È il piatto ricco che sta scatenando gli appetiti di tutti.
Questi maggiorenti siciliani che hanno riconquistato la Sicilia si portano sulla pelle un marchio o un nomea tutta speciale. È difficile che possano cancellare l'una e l'altra, anche con quel 42 per cento di voti, comunque nulla di paragonabile al famoso 61 a 0 del 2001 quando Forza Italia espugnò tutti i collegi siciliani lasciando a secco gli avversari.
Oggi Forza Italia è nell’isola solo il quinto partito. Particolare curioso: nella Sicilia che tanto ha dato a Berlusconi, Renato Schifani è il primo governatore di Forza Italia.
Che dicono oggi gli altri della trimurti? Totò Cuffaro, capo della Nuova democrazia cristiana, quello che aveva giurato – appena uscito dal carcere dopo cinque anni di pena per concorso esterno in associazione mafiosa – che sarebbe andato in Africa ad aiutare i bambini orfani del Burundi, ha preferito parlare di sé stesso in terza persona: «Cuffaro è tornato. Chiedetevi il perché abbiamo avuto il sette per cento. Non è colpa mia se la gente vota Cuffaro e non il Pd. Vuol dire che la nostra proposta è convincente e c’è bisogno di noi».
Saverio Romano, ex ministro dell’Agricoltura originario del comune palermitano di Belmonte Mezzagno, rieletto alla Camera nel collegio di Bagheria, al momento è in silenzio stampa. Raffaele Lombardo, ex governatore della Sicilia da qualche mese sopravvissuto a una delicata inchiesta antimafia, se la prende con i sondaggisti e obliquamente con Cateno De Luca che nelle ultime settimane gliene ha dette di tutti i colori a lui e ai suoi coimputati nell'indagine di Catania dove era stato trascinato.
Per capire un po’ di più cosa è accaduto in Sicilia in queste elezioni fermiamoci un attimo su Lombardo. Lo ha ringraziato Renato Schifani per l’apporto alla sua elezione ma, sino a un mese fa, insieme a lui voleva tentare la scalata alla regione la candidata del centrosinistra Caterina Chinnici.
Di Lombardo era stata assessore per quattro anni dal 2008 al 2012, un governo double face, magistrati (come la Chinnici) e fedelissimi del famigerato Montante, un gioco degli specchi. Quindi: Lombardo va bene all'imputato Schifani e andava bene a Chinnici, era ed è buono per il rappresentante di Forza Italia che frequentava gentaglia di mafia quando esercitava la professione di avvocato ed era ed è buono per la giudice figlia del consigliere istruttore Rocco Chinnici che la mafia ha fatto saltare in aria il 29 luglio del 1983.
Chiamiamola confusione per mantenerci in equilibrio (forzato), ma com’è possibile che non ci sia distanza intorno a Lombardo fra Renato Schifani e Caterina Chinnici? Senza fare salti mortali una risposta netta ce la serve il risultato del Pd in Sicilia: 12,7 per cento.
Un disastro, il peggior risultato elettorale di sempre. Pare che fra il 25 e il 26 settembre il Pd non abbia aperto neanche il suo comitato elettorale per seguire ora dopo ora lo spoglio. Il segretario regionale Anthony Barbagallo era nel suo paese, Pedara, in provincia di Catania. Caterina Chinnici a casa sua, a Caltanissetta.
Un ultimo dato per addentrarci ancora di più nella realtà della Sicilia. Riguarda i Cinque stelle, ancora il primo partito in Sicilia ma solo alle elezioni politiche: intorno al 30 per cento. Alle regionali però il movimento di Conte è al quarto posto e, soprattutto, al 15 per cento. La metà dei voti.
Per finire ecco l'omaggio del sindaco di Palermo Roberto La Galla al nuovo governatore: «Le mie congratulazioni vanno all’amico Renato Schifani, al quale rinnovo tutta la mia stima e che, potendo contare su una lunga esperienza politica e istituzionale, sarà certamente un eccellente presidente della regione e un’autorevole guida per la Sicilia». Les jeux sont faits.
La riconquista della Sicilia di Renato Schifani e quei complimenti di Riina. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 agosto 2022
I vecchi padroni si stanno riprendendo la “loro” Sicilia. A Palermo governa da due mesi l'ex magnifico rettore Roberto Lagalla, creatura politica dell'ex governatore Totò Cuffaro
La regione rischia di finire nelle mani di questo ex sconosciuto avvocato con un passato di frequentazioni davvero poco raccomandabili
Tutti contenti nel centrodestra, tutti zitti (come sempre) a sinistra. Tante le accusa che pesano sulll’ex presidente del Senato. Intercettato in carcere, Riina disse di lui: “È una mente”
Ma come lo dovremo chiamare se il 25 settembre diventerà governatore della Sicilia? Renato Schifani o “Mastro”, come veniva citato in codice nel diario di un agente dei servizi segreti coinvolto nell'indecente vicenda Montante? Renato Schifani o “Professore Scaglione”, come lo menzionavano alcuni personaggi di un maleodorante sottobosco politico e spionistico sempre finiti nell'inchiesta giudiziaria sulle criminali scorribande dell'ex vicepresidente di Confindustria?
Mai menzionato con il suo nome, mai una volta. In versione più o meno criptata, è possibile che Renato Schifani (così è registrato all'anagrafe) ce lo ritroveremo sulla poltrona più alta di Palazzo d'Orléans, la sontuosa settecentesca sede della regione siciliana. Almeno se il centrodestra resisterà all'annunciata valanga di Cateno De Luca, l’ex sindaco di Messina, il Masaniello siculo che sta raccogliendo promesse di voto e candidati in ogni comune dell'isola.
LA RICONQUISTA DELLA SICILIA
Come era ampiamente previsto, in questa primavera-estate del 2022 i vecchi padroni si stanno riprendendo la “loro” Sicilia. A Palermo governa da due mesi l'ex magnifico rettore Roberto Lagalla, creatura politica dell'ex governatore Totò Cuffaro che - insieme al senatore Marcello Dell'Utri - gli ha consegnato le chiavi del Comune. Per sponsor due condannati per reati di mafia. La regione finirà nelle mani di questo ex sconosciuto avvocato con un passato di frequentazioni davvero poco raccomandabili e che, grazie a Berlusconi è diventato presidente del Senato nel XVI legislatura.
Sembra che i giochi siano fatti anche in Sicilia. Sino all'ultimo, il suo compagno di partito Gianfranco Micciché aveva puntato sull’ex ministra Stefania Prestigiacomo, sua amica da sempre. Ma alla fine, nella rissa che si stava scatenando con Fratelli d'Italia e Lega, Micciché ha preferito cedere su Schifani pur di non rivedere a Palazzo d'Orlèans l’odiatissimo governatore uscente Nello Musumeci.
Tutti contenti o quasi nel centrodestra in Sicilia, tutti zitti (come sempre) nel centrosinistra. E, insieme, fanno finta di niente sull'accusa per associazione a delinquere e violazione di segreto che pesa sulla testa del "professore Scaglione”. E' uno degli imputati a Caltanissetta del processo Montante, sospettato con l'ex capo dei servizi segreti Arturo Esposito e con il tributarista Angelo Cuva di avere veicolato informazioni riservate proprio su Calogero Antonio Montante detto Antonello. L'inchiesta sull'ex vicepresidente di Confindustria era appena all'inizio e c'era un “mondo” che si dava gran da fare per cattura notizie sull'indagine, in quel "mondo” c'era anche l'ex presidente del Senato che oggi si vuole fare incoronare governatore della Sicilia.
RECUPERO CREDITI
Fedelissimo di Berlusconi fin dalla prima ora, un paio d'anni con Angelino Alfano nel Nuovo Centro Destra e poi il ritorno ad Arcore. Prima della sua straordinaria avventura politica era “Il Principe del Foro dei recuperi crediti” (battuta velenosissima di Filippo Mancuso, ex procuratore generale della Cassazione e ministro della Giustizia nel governo di Lamberto Dini nel 1995) per la sua attività palermitana di civilista esperto in diritto amministrativo, attività che Schifani era costretto a svolgere in un ambiente assai difficile che lo portava ad avere pericolosi contatti. E, proprio per queste relazioni sul confine, fu iscritto nel registro degli indagati per concorso esterno. Anche in quell'occasione, destino beffardo, i magistrati non usarono il suo nome ma un altro per iniziare le indagini nei suoi confronti: “Schioperatu”.
L’ARCHIVIAZIONE PER MAFIA
Due anni di investigazioni e poi l'archiviazione: «Sono emerse talune relazioni con personaggi inseriti nell’ambiente mafioso o vicini a detto ambiente nel periodo in cui lo Schifani era attivamente impegnato nella sua attività di avvocato» che però “non assumono un livello probatorio minimo per sostenere un’accusa in giudizio tanto più che, a prescindere dalla consapevolezza dell’indagato dell’effettiva caratura mafiosa dei suoi interlocutori, tali condotte si collocano per lo più in un periodo ormai lontano nel tempo fatti per i quali opererebbe, in ogni caso, la prescrizione”.
I rapporti c’erano ma troppo lontani nel tempo: l'inizio degli Anni Novanta, appena prima della fondazione di Forza Italia. Il profilo del personaggio è questo, né più né meno. Se n'è accorto persino il vecchio Totò Riina. In uno dei suoi sproloqui nel carcere di Opera intercettati da una microspia, il capo dei capi ha manifestato la sua stima: «Renato Schifani è una mente». E se l'ha detto lui, significherà pur qualcosa o no?
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
DOPO LE ELEZIONI COMUNALI. Palermo, il sindaco Roberto Lagalla sembra la fotocopia di Totò Cuffaro. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 23 giugno 2022
Giochi di prestigio. Si prende l'appoggio di Cuffaro e gli endorsement di Dell'Utri, fa il pieno anche nei quartieri - Uditore e Brancaccio - dove hanno pizzicato i due candidati catturati per voto di scambio e poi il 21 giugno, primo atto ufficiale da sindaco, va a deporre una corona di fiori al monumento dei caduti contro la mafia,
Nel momento della proclamazione ufficiale ha invocato la Santuzza, la patrona di Palermo: «Santa Rosalia aiutaci tu».
Assessori e vicesindaco, una partita che s’incastra con lo scenario delle elezioni regionali d'autunno, lo scontro fra Gianfranco Micciché e l'attuale governatore Nello Musumeci, il duello fra la Meloni e Salvini a Roma.
I gatti neri saranno d'ora in avanti l'incubo degli autisti del comune di Palermo, come per anni lo sono stati per quelli della regione siciliana quando lui era assessore alla Sanità e poi anche all'Istruzione. Se ce n'è uno che taglia la strada, di gatto nero, non si passa. Si torna indietro, a costo di infilarsi nel traffico infernale e rifare il giro della città.
Così, per scaramanzia, “il professore” non si è messo addosso la fascia tricolore nemmeno la mattina di venerdì 17 giugno come prevedeva il protocollo e ha preferito rimandare la cerimonia a lunedì 20.
Tanto cambiava poco: giorno più o giorno meno l'ex magnifico rettore Roberto Lagalla era ormai diventato il nuovo re di Palermo. Essenza pura di borghesia palermitana, allievo del collegio gesuitico del Gonzaga - la scuola che sforna da sempre le classi dirigenti della capitale della Sicilia - è un vecchio democristiano che può essere indicato senza timore di smentita una “creatura” politica dell'ex governatore Totò Cuffaro.
LA CONTINUITÀ NELLA DIVERSITÀ
È la continuità nella diversità, un gioco di parole che non disorienta più di tanto i siciliani ma al contrario esalta l'orgoglio degli ispiratori dell'”operazione” che ha trionfalmente scaraventato a Palazzo delle Aquile questo medico specialista in radiologia e radioterapia nonostante il disturbo di certe voci, compresi imbarazzanti legami familiari acquisiti - da parte di moglie - che l'interessato definisce «parentele prive di qualsivoglia frequentazione». C'è da credergli. Come c'è da prendere atto che la sua conquista del comune è stata più facile del previsto: Palermo aveva bisogno di Lagalla e Lagalla aveva bisogno di Palermo. Semmai il difficile viene ora.
Con più di mille bare accatastate al cimitero dei Rotoli che buttano veleni e a volte pure scoppiano per il gran caldo, con centonovantamila tonnellate di rifiuti che ristagnano e imputridiscono nella spaventosa discarica di Bellolampo, nel solenne momento della proclamazione ufficiale il neo sindaco non poteva fare altro che invocare la Santuzza, la patrona di Palermo: «Santa Rosalia aiutaci tu».
Dopo il sostegno spericolato del vecchio amico Totò e il versetto satanico pronunciato in suo favore dal senatore Marcello Dell'Utri, l'ex magnifico rettore cerca anche soccorso divino.
Si porta appresso il peso di quasi centomila voti (esattamente 98.574) conquistati al primo turno con il 47,68 per cento dei consensi, voti però che sarebbero stati sicuramente di più se in piena campagna elettorale non avessero arrestato due candidati del centrodestra per patti mafiosi, e se la partita allo stadio della Favorita per la promozione in B della squadra di calcio l'avessero anticipata o posticipata.
La diserzione dei presidenti di seggio ha danneggiato lui e soltanto lui. Veleggiava intorno al 57 o al 58 per cento, nell'ultima settimana qualche gatto nero gli ha attraversato la strada a tradimento.
VOTI DI MAFIA E VITTIME DI MAFIA
Per Palermo comunque è cominciata una nuova era dopo ventuno anni di Leoluca Orlando, città perduta e rinata e che mai avrebbe immaginato di tornare al punto di partenza.
Definirla una svolta epocale non è retorica, Roberto Lagalla incarna in tutto e per tutto il passato, è un vestito nuovo infilato sopra un vestito di trenta, quarant'anni fa. Giochi di prestigio.
Lui che si prende l'appoggio di Cuffaro e gli endorsement di Dell'Utri, che fa il pieno anche nei quartieri - Uditore e Brancaccio - dove hanno pizzicato i due candidati catturati per voto di scambio e poi il 21 giugno, primo atto ufficiale da sindaco, va a deporre una corona di fiori al monumento dei caduti contro la mafia, un pezzo di ferro arrugginito in piazza XIII Vittime, scultura detestata dai palermitani per la sua astrazione e anche la sua bruttezza.
Ma poco importa l'arte, conta piuttosto il doppio passo di Lagalla: «La mia presenza qui credo che sia doverosa. Spero serva a chiudere definitivamente un capitolo che ha avvelenato dolorosamente la campagna elettorale, ora è il tempo dei fatti e di dimostrare tensione civile».
È partita una piccola contestazione dei ragazzi del collettivo Our Voice e tutto è finito lì. Roberto Lagalla si presenta candidamente come la fotocopia di Totò Cuffaro. Prende i voti dai condannati di mafia e onora le vittime di mafia.
Preciso come a Totò che, appena indagato per reati di mafia, ha fatto coprire i muri delle città e dei paesi dell'isola con manifesti dove c'era scritto “la mafia fa schifo”. Il copione è sempre lo stesso, è il gioco delle tre carte.
GLI ASSESSORI E IL VICESINDACO
Da qualche giorno un tam tam riporta che, una volta sindaco, l'ex magnifico rettore non avrebbe intenzione di nominare nella sua giunta assessori vicini a Cuffaro (la sua lista ha superato lo sbarramento del 5 per cento e la sua Nuova Democrazia Cristiana può contare su 3 consiglieri), un tentativo per prendere distanza dallo sponsor che ha marchiato la sua campagna elettorale. Vero? Falso? È solo un magheggio: assessori o non assessori Cuffaro è lì accanto al “professore”.
Lui promette un governo della città di “alto profilo”, al Bilancio e all'Urbanistica andranno due tecnici, per il resto è tutto in ballo. Tantissimi nomi per pochissimi posti.
Il centrodestra che intorno a Lagalla si era riunito adesso intorno Lagalla si divide nella spartizione delle poltrone.
Le voci parlano di Rosi Pennino alle Attività Sociali e Ottavio Zacco per Forza Italia che nella sua lista è stato il primo degli eletti, di Giuseppe Milazzo per Fratelli d'Italia, un assessorato toccherebbe pure alla Lega che è entrata in consiglio comunale con tre dei suoi con il simbolo Prima l'Italia.
Il vero problema però è la scelta del vicesindaco, visto che i due pretendenti erano entrambi candidati come numeri uno. Si sono clamorosamente ritirati in piena campagna elettorale, quando le loro facce erano ancora su tutti i cartelloni.
Uno è Franco Cascio, lanciato personalmente da Gianfranco Micciché. L'altra è Carolina Varchi, voluta fortemente da Giorgia Meloni che poi si è riconvertita su Lagalla. Chi dei due aspiranti sindaci farà il vice?
L’INCASTRO CON LE ELEZIONI REGIONALI
È una partita palermitana che s'incastra con lo scenario delle elezioni regionali d'autunno, lo scontro fra Gianfranco Micciché e l'attuale governatore Nello Musumeci, il duello fra la Meloni e Salvini a Roma.
Se fino a qualche giorno fa la ricandidatura di Musumeci sembrava molto probabile (a maggio è andato a genuflettersi anche davanti a Marcello Dell'Utri, che riceveva nei saloni del Grand Hotel et des Palmes), oggi è lo stesso governatore che annuncia «di togliere il disturbo».
Ci sono troppe spaccature sul suo nome. Per vincere sicuri nel centrodestra dovranno virare su un altro candidato, il favorito si dice che sia Raffaele Stancanelli. Attualmente eurodeputato è stato sindaco di Catania dal 2008 al 2013, fra i fondatori con Musumeci di Diventerà Bellissima è passato poi con Fratelli d'Italia. Punta su di lui anche un personaggio politico che ha ancora potere più di come sembra, l'ex governatore Raffaele Lombardo, dietro le quinte sempre decisivo nelle grandi scelte della regione.
L'individuazione del candidato perfetto è obbligata per il centrodestra, altrimenti rischia di perdere. Perché sulla Sicilia si sta abbattendo una nuova tempesta che ha origine a Messina.
È il fenomeno Cateno De Luca, ex sindaco della città sullo Stretto che si è dimesso da primo cittadino, imponendo al suo posto lo sconosciuto funzionario comunale Federico Basile che al primo turno ha sbaragliato gli avversari con quasi il 45 per cento dei voti. Cateno De Luca, già al parlamento siciliano con il Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, sta tentando la scalata a governatore.
IL “MASANIELLO” MESSINESE
Ex sindaco anche di due piccoli comuni della provincia messinese, Fiumedinisi e Santa Teresa di Riva, coinvolto in alcune inchieste giudiziarie dalle quali è uscito senza macchia, De Luca è una sorta di "Masaniello” siciliano protagonista di clamorose proteste e pittoresche esibizioni.
Come quella volta che si gli promisero un posto nella commissione Bilancio dell'Assemblea regionale e poi non lo ottenne, così chiamò i giornalisti e iniziò a fare uno striptease davanti alle telecamere. Restò completamente nudo, le parti intime avvolte da una bandiera giallo-rossa della Trinacria, in una mano la Bibbia e nell'altra un Pinocchio di legno.
Dal centrodestra hanno provato a blandirlo ma lui ha risposto: «Non mi interessano i compromessi, la proposta della mia Sicilia Vera e il nostro progetto politico non possono essere barattati». Volenti o nolenti tutti devono misurarsi con “Scateno De Luca” e la sua potenza elettorale.
È questa l'aria che tira in Sicilia. Gli amici di Totò Cuffaro già piazzati a Palermo per l'estate, il variopinto mondo del politico spogliarellista all'assalto del resto dell'isola in autunno.
Il ritorno di Vasa-vasa. Report Rai PUNTATA DEL 20/06/2022 di Luca Bertazzoni. Collaborazione di Edoardo Garibaldi
Gli ultimi
giorni di campagna elettorale a Palermo con gli arresti per scambio elettorale.
Alla vigilia delle elezioni per il sindaco di Palermo, sono scesi in campo
schierandosi a favore del candidato di centrodestra Totò Cuffaro e Marcello
Dell’Utri, condannati in via definitiva il primo per favoreggiamento verso
esponenti mafiosi e il secondo per concorso esterno in associazione mafiosa.
L'inchiesta racconterà gli ultimi giorni di campagna elettorale a Palermo con
gli arresti per scambio elettorale politico-mafioso a poche ore dal voto.
IL RITORNO DI VASA VASA di Luca Bertazzoni Collaborazione di Edoardo Garibaldi Immagini di Cristiano Forti Ricerca immagini di Alessia Pelagaggi Montaggio di Igor Ceselli
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A due giorni dal voto per l’elezione del sindaco di Palermo, il compleanno di una candidata al consiglio comunale diventa una passerella per l’ex governatore della Sicilia Toto’ Cuffaro. Detto vasa-vasa.
LUCA BERTAZZONI Ma ci credete al ritorno di Cuffaro, dico?
UOMO Almeno speriamo. È una degna persona.
LUCA BERTAZZONI Però qua c’è una condanna definitiva di Cuffaro.
UOMO Sì, praticamente è definitiva, finita.
LUCA BERTAZZONI Quindi è legittimo questo ritorno in politica?
UOMO Però ritornerà e non farà mai gli stessi errori, penso.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pensa o spera, vabbè comunque… Roberto Lagalla, ex rettore dell’Università di Palermo, si è aggiudicato le elezioni, è diventato sindaco di Palermo con il 47,6 percento dei consensi. Questo perché la legge siciliana consente di evitare il ballottaggio se superi il 40 percento. Ha raccolto l’eredità di Leoluca Orlando. Ma la notizia di queste elezioni siciliane è l’ascesa e il ritorno in campo di Totò Cuffaro, l’ex governatore, che per l’occasione ha anche rispolverato l’usato garantito: il simbolo della Democrazia Cristiana. Ora qualcuno lo definisce anche il padre nobile della candidatura di Roberto Lagalla. Ma non è stato il solo a dispensare consigli e ha anche benedetto la candidatura di Lagalla, Marcello Dell’Utri, dopo aver scontato la sua condanna per concorso esterno alla mafia. Ora a chi chiede a Cuffaro: ma che cosa hai chiesto in cambio dell'appoggio elettorale a Lagalla, lui dice: “nulla, l’ho fatto per gli altri”. Dice di aver imparato dalla sua condanna per aver favorito la mafia, i suoi errori, insomma si è pentito e vuole essere un buon esempio. Ora però di fronte a uno che si pente, ce ne se sono altri però che la dritta via la smarriscono. Il nostro Luca Bertazzoni.
VIDEO AMATORIALE È tornata la Democrazia Cristiana, votiamo Democrazia Cristiana con Toto’ Cuffaro!
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo aver scontato una condanna definitiva a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia, Cuffaro torna in campo e sceglie l’usato sicuro: la Democrazia Cristiana.
LUCA BERTAZZONI Fa strano trovarsi qui. È un ritorno al passato?
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Può darsi che l’insieme di Cuffaro e della Democrazia Cristiana funzioni ancora.
LUCA BERTAZZONI La notizia è che quindi lei porta ancora voti, insomma, se sta qua.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Se il test andrà bene noi con la Democrazia Cristiana vogliamo partecipare alla costruzione di un “rassemblament” di centro.
LUCA BERTAZZONI Che comprende?
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Forza Italia, Italia Viva. Io penso che in questa area moderata e centrista uno di quelli che potrebbe aspirare ad avere una leadership è certamente Matteo Renzi, penso che ne abbia le qualità.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il tentativo di costruire un’area di centro più estesa in Sicilia nasce da una cena. A ottobre Matteo Renzi invita all’enoteca Pinchiorri di Firenze il coordinatore di Forza Italia in Sicilia, Gianfranco Miccichè. Sui giornali si inizia a parlare di “Forza Italia Viva”, il laboratorio siciliano per le amministrative e le regionali che potrebbe portare ad un accordo su scala nazionale. Ma un mese dopo dal palco della Leopolda Matteo Renzi lancia la candidatura di Davide Faraone a sindaco di Palermo.
MATTEO RENZI - LEOPOLDA 21 NOVEMBRE 2021 Caro Davide, Palermo ha bisogno di te e noi siamo convinti che la tua candidatura a sindaco di Palermo non sarà figlia di un “accordicchio” con qualche forza politica, ma sarà una candidatura che parla alla città di Palermo. Noi a Palermo non stiamo con Miccichè, stiamo con Davide Faraone che è una cosa diversa.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ad aprile però Faraone annuncia il suo ritiro dalla corsa a sindaco di Palermo e il suo sostegno a Roberto Lagalla, all’epoca appoggiato solo da Fratelli d’Italia, Udc e dalla Democrazia Cristiana di Cuffaro.
LUCA BERTAZZONI A una domanda su di lei come padre nobile della Democrazia Cristiana, Lagalla ha risposto: “né padre, né nobile”.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 A me non offendono quelli che hanno detto delle cose bruttissime nei miei confronti, figuratevi se mi offendo per una cosa che condivido: non sono né padre e neppure nobile.
LUCA BERTAZZONI Miccichè puntava su Cascio, arriva poi Dell’Utri che fa capire che vuole spingere per Lagalla, poi lei dà il suo ok definitivo e passa Lagalla.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Io credo che Dell’Utri sulla vicenda di Lagalla abbia influito meno di niente.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In realtà l’ombra di Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, è arrivata fino in Sicilia. A fine marzo, nel centralissimo hotel delle Palme di Palermo, l’ex senatore di Forza Italia ha ricevuto tutti i big del partito per trovare una quadra sulla candidatura di Lagalla.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Si è permesso di dire Lagalla era il migliore candidato possibile. Ma questo non credo che sia una grande scoperta di Dell’Utri.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E quando il centrodestra converge compatto sull’ex rettore dell’università di Palermo, Matteo Renzi annuncia che Italia Viva non lo sosterrà. Ma i vertici locali del partito sconfessano il capo e continuano ad appoggiare Lagalla.
GIORGIO MOTTOLA Voi a Palermo appoggiate Lagalla, Italia Viva appoggia Lagalla?
MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 E stai dicendo l’ennesima cazzata perché ho detto in tutta la campagna elettorale che se vince Lagalla siamo all’opposizione. Sai benissimo che ti ho già detto in 17 lingue, testuale detto in tutti i giornali, se vince Lagalla noi siamo all’opposizione, che vuol dire…
GIORGIO MOTTOLA Mah e Dario Chinnici?
MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 …non sosteniamo Lagalla…chi sostiene Lagalla non è Italia Viva… ora c’ho soltanto una alternativa visto che è sabato alle 20, ti faccio un disegnino, però capitelo questo.
GIORGIO MOTTOLA Però nel disegnino ci fa rientrare anche Dario Chinnici e Toni Costumati.
MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Chi è Costumati?
GIORGIO MOTTOLA Che sono rispettivamente il segretario di Italia Viva di Palermo…
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Dario è l’ex capogruppo di coso…
GIORGIO MOTTOLA Di Italia Viva, e il segretario di Italia Viva, Toni Costumati, non si è dimesso, lei non ha chiesto le dimissioni…
MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Ti ho detto chi sta con Lagalla non è Italia viva.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Toni Costumati e Dario Chinnici ad oggi risultano ancora dentro Italia Viva ed il secondo è stato eletto nel Consiglio Comunale con “Lavoriamo per Palermo”, una lista civica a fianco del centro destra e di Toto’ Cuffaro.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Io sono uscito dal carcere sette anni fa, dopo aver fatto 1768 giorni tutti per intero. So di aver pagato il mio conto con la giustizia, credo di avere tutta la possibilità di tornare, da uomo libero, a coltivare le mie passioni.
LUCA BERTAZZONI La politica quindi.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 So che non potrò candidarmi mai più, quindi io faccio una cosa per gli altri.
LUCA BERTAZZONI Però le volevo chiedere come mai un condannato in via definitiva, no, per favoreggiamento alla mafia decide alla fine di fondare un partito. Cosa trasmette lei ai suoi giovani?
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Trasmetto una cosa semplicissima. Dico loro: “volete essere dei buoni dirigenti politici? Fate esattamente il contrario di quello che ho fatto io”. Loro devono comportarsi con grande rigore morale - quello che io purtroppo nel passato non ho avuto. Non devono dare prebende, non devono fare scambio elettorale, non devono fare clientele.
LUCA BERTAZZONI Quello che ha fatto lei.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Quello che ho fatto io, del quale sono assolutamente pentito.
LUCA BERTAZZONI Però io mi ricordo all’epoca, ci siamo incontrati nel corso degli anni, che lei difendeva quel modo di fare politica. Perché io ora dovrei crederle?
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Tu puoi non credermi, non dico che devi credermi.
LUCA BERTAZZONI Perché “la mafia ci fa schifo”?
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Ho sempre detto che la mafia fa schifo. La mafia è un cancro terribile che si infiltra dappertutto e in tutti i partiti, certamente non in un partito.
LUCA BERTAZZONI Lo dice lei che è stato condannato per favoreggiamento.
TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Lo dico io che sono stato condannato e quindi vi assicuro che la mafia fa schifo.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure, la mafia è entrata a piedi uniti nella campagna elettorale a Palermo. Il 28 maggio scorso Francesco Lombardo, candidato di Fratelli d’Italia, è andato a cercare i voti di “cosa nostra” dal boss Vincenzo Vella, mafioso del quartiere Brancaccio.
RICOSTRUZIONE INTERCETTAZIONE AMBIENTALE 28 MAGGIO 2021 FRANCESCO LOMBARDO - CANDIDATO FDI AL CONSIGLIO COMUNALE DI PALERMO Se salgo io, io sono in commissione urbanistica. Hai capito che appena qua c’è un problema io salto e tu mi chiami.
VINCENZO VELLA Sì, il suolo pubblico te lo puoi sbrigare?
FRANCESCO LOMBARDO - CANDIDATO FDI AL CONSIGLIO COMUNALE DI PALERMO E certo! Non mi sono messo sempre a disposizione con voialtri a prescindere dalla politica?
VINCENZO VELLA I voti nostri tutti li prendi! Quanti ce ne vogliono?
FRANCESCO LOMBARDO - CANDIDATO FDI AL CONSIGLIO COMUNALE DI PALERMO Ce ne vogliono da 1300 a 1400.
VINCENZO VELLA Li prendi! Ciao “Sangu”.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Entrambi sono stati arrestati per scambio elettorale politico-mafioso. Stessa sorte per il candidato di Forza Italia Pietro Polizzi che ha incontrato in piena campagna elettorale il costruttore mafioso, Agostino Sansone. In diversi atti processuali, Sansone è stato indicato come assiduo frequentatore dell'abitazione di Toto’ Riina negli anni della sua latitanza. Anche perché erano vicini di casa: la villa dove hanno arrestato Sansone è attaccata a quella dove Riina si è nascosto per evitare l’arresto e che oggi è diventata una caserma dei carabinieri. Nell’incontro il candidato di Forza Italia Pietro Polizzi rassicurava il boss mafioso con queste parole: “se sono potente io...siete potenti voialtri”.
LUCA BERTAZZONI Stiamo raccontando la storia di Pietro Polizzi.
UOMO Non mi interessa.
LUCA BERTAZZONI Siccome gli incontri con il presunto mafioso avvenivano qui, volevo capire…
UOMO Ma io sono della borgata e non conosco nessuno.
LUCA BERTAZZONI Non lo conosce questo Pietro Polizzi?
UOMO 2 No, no.
LUCA BERTAZZONI Ci stiamo occupando dell’arresto del candidato di Forza Italia.
UOMO 2 Non lo conosco.
LUCA BERTAZZONI Ma stava qui.
UOMO 2 Non lo conosco.
UOMO 3 Perché non cancella la fotografia?
LUCA BERTAZZONI Ok, scusi.
UOMO 3 Ma come si permette? Chi cazzo siete per fotografare i cristiani?
LUCA BERTAZZONI Se lei ce lo dice non la fotografiamo.
UOMO 3 Adesso ti prendo la telecamera e te la rompo tutta.
LUCA BERTAZZONI Polizzi qua lo ha visto?
UOMO 4 Sì, certo.
LUCA BERTAZZONI Con questo Sansone?
UOMO 4 No. LUCA BERTAZZONI Sansone era un mafioso.
UOMO 4 Non lo so, Sansone…ci sono Sansone che sono tutti di qua, della zona. Chi era tra tutti…
LUCA BERTAZZONI Agostino Sansone, condannato per mafia.
UOMO 4 Non lo conosco.
LUCA BERTAZZONI Perché l’incontro è stato qua con il boss mafioso.
UOMO 4 Non mi interessa l’incontro, non incontro, queste cose le sa lei, io non lo so.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La notizia degli arresti per mafia è arrivata proprio nel giorno di chiusura della campagna elettorale di Roberto Lagalla.
LUCA BERTAZZONI È di pochi minuti fa la notizia di un arresto, e siamo al secondo in tre giorni, di un candidato al consiglio comunale della sua coalizione, per scambio elettorale politicomafioso. Possibile che la mafia non riesca ad uscire da questa competizione elettorale?
ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO La cosa più assurda è che è la politica che cerca la mafia, come in questo caso. La cosa indicibile e ovviamente non solo non prevedibile, ma non controllabile da parte di nessuno, se non dalla magistratura che bene ha fatto a proporre l’arresto.
LUCA BERTAZZONI Però i candidati li scegliete voi.
ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Ehi, come stai?
LUCA BERTAZZONI - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO La sua candidatura è stata avallata da Cuffaro e da Dell’Utri.
ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Assolutamente no.
LUCA BERTAZZONI Hanno dato il loro ok. Volevo capire, siccome sono stati condannati entrambi per mafia. Senza mettere le mani addosso però, ok? 10 GIUGNO 2022
GIANFRANCO MICCICHE’ - CHIUSURA CAMPAGNA ELETTORALE PALERMO È un mondo oggi dove veramente non ha più spazio la mafia, non ha più motivo di esistere e siccome stanno arrivando questi quattrini del Pnrr, non c’è dubbio che il mondo intero ci guarda, e questi due episodi purtroppo sfavoriscono questa cosa, ci guarda con l’attenzione di chi dice: “vediamo che sanno fare, vediamo che fanno questi, vediamo quanto la mafia rientrerà in gioco con questi qua”. La mafia non deve rientrare in gioco, perché non esiste.
ROBERTO LAGALLA - CHIUSURA CAMPAGNA ELETTORALE PALERMO 10 GIUGNO 2022 Noi i voti dei mafiosi non li vogliamo, non li vogliamo!
LUCA BERTAZZONI Volevo capire se può dirci, anche alla luce di quello che sostiene dentro, che i voti di Dell’Utri e Cuffaro lei non li vuole.
ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Guardi io non ho contatti diretti né Cuffaro è impegnato direttamente in questa campagna elettorale.
LUCA BERTAZZONI Quindi non li vuole siccome sono due persone che sono state condannate in via definitiva per mafia?
ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Non voglio i voti di Dell’Utri, non voglio i voti di Cuffaro, non voglio i voti di nessun altro se dovessero essere voti mafiosi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lagalla aveva nella sua coalizione la Democrazia Cristiana di Totò Cuffaro che ha capitalizzato i voti e ha il 5,5 percento dei consensi e ha anche piazzato tre candidati nel Consiglio Comunale. Poi una domanda: che fine hanno fatto i voti che i clan avevano promesso ai candidati della coalizione di centrodestra che sono stati arrestati? Le elezioni in Sicilia da sempre rappresentano la metafora della lotta fra il bene e il male che è anche difficile distinguerli perché si camuffano. In questo caso, poi sono stati i politici a chiedere i voti alla mafia ma se lo fanno è perché c’è la consapevolezza che i clan controllano fette di un intero territorio. Ora, il rigore morale che tanto invoca Cuffaro, sarà sufficiente come antidoto quando da una parte c’è invece la fame? Come fai a contrastare l’unico che ti viene incontro magari chiedendoti in cambio l’anima? Anima che potrebbe coincidere con i 198 milioni del Pnrr destinati alle 57 opere della città metropolitana di Palermo. Bisogna tenere alto il monito di Totò Cuffaro ai nuovi politici, ai quali dice: niente prebende, niente scambio elettorale fra mafia e politica e niente clientelismi.
La “nuova” Dc di Totò Cuffaro entra in consiglio comunale a Palermo. Antonio Fraschilla su La Repubblica il 14 Giugno 2022.
L’ex governatore con la sua lista supera lo sbarramento ed elegge tre consiglieri. E intanto l’ex senatore Marcello Dell’Utri gongola per la vittoria di Lagalla da lui lanciato: «Ho illuminato alcune menti offuscate».
Erano stati al centro del dibattito sulla questione morale, entrambi fondamentali per lanciare la candidatura dell’ex rettore Roberto Lagalla quando Forza Italia e Lega minacciavano di andare su altri nomi. E adesso si godono entrambi la vittoria: Salvatore Cuffaro eleggendo tre consiglieri comunali con la sua “nuova” Democrazia cristiana, tra i quali il suo pupillo di Ballarò, il dipendente della società comunale degli ex precari Salvatore Imperiale; l’ex senatore Marcello Dell’Utri rivendicando con orgoglio la sua scelta contro il volere di Gianfranco Micciché e, come al solito, lanciando messaggi a tutto il suo mondo facendo capire che è tornato, eccome, nell’agone.
L’ex rettore Roberto Lagalla, che in campagna elettorale non è andato alle celebrazioni per i trent’anni della Strage di Capaci perché travolto dalle polemiche per gli endorsement dei due condannati per fatti di mafia, incassa quasi il 50 per cento dei consensi contro lo sfidante del centrosinistra Franco Miceli che si ferma sotto il 30. La lista di Cuffaro supera lo sbarramento del 5 per cento, arrivando al 5,6 ed eleggendo tre consiglieri, lo stesso numero degli eletti della Lega. E Cuffaro festeggia, lui che aveva detto che si sarebbe ritirato definitivamente se la lista non avesse superato la soglia minima. Nessun pericolo, Cuffaro è tornato e adesso rivendicherà, considerando il suo apporto quasi fondamentale per la vittoria di Lagalla, assessori e posti nel sottogoverno comunale delle società partecipate. Anche se ufficialmente dice: «Forse ho creato un danno a Lagalla con il mio ritorno in politica».
Gongola anche Dell’Utri che parla all’Adnkronos lanciando messaggi e “metamessaggi” e critica L’Espresso: «Sono molto contento che Roberto Lagalla sia stato eletto sindaco di Palermo, ma era scontato. Era il candidato di maggior peso. Ma ci tengo a sottolineare che io non c'entro nulla con la sua candidatura. Avevo semplicemente espresso un mio parere dicendo che l'ex rettore era il candidato più indicato. Era il parere di un semplice cittadino Invece, sono stato massacrato. Ma quale “ombra di Dell’Utri"? Semmai l'ombra di Dell'Utri ha illuminato le menti offuscate... Hanno veramente esagerato, ormai sono abituato ma ritengo sia ingiusto dire tutte quelle cose, compresa la copertina dell’Espresso».
Poi bacchetta il suo ex delfino Micciché: «Avevano candidato altri personaggi che non si possono proprio paragonare con Lagalla - prosegue Dell'Utri - Si diceva che Lagalla non era di Forza Italia ma chi se ne frega! I partiti vogliono il meglio, la politica è la scelta dei migliori. In questo caso di Lagalla. Forse Miccichè ha dimenticato certi principi…».
Cuffaro e Dell’Utri guardano adesso avanti: alle prossime elezioni regionali, dove diranno la loro e puntano, al momento, sul governatore uscente Nello Musumeci. Che, manco a dirlo, Micciché non vuole assolutamente. Chi avrà la meglio? Palermo in parte dà la risposta più probabile: quando l’ex senatore e l’ex governatore sussurrano qualcosa, in Sicilia conta. Eccome.
Ottavio Cappellani per mowmag.com il 15 giugno 2022.
E niente, il centrodestra, in Sicilia, sa come fare campagna elettorale. E’ stato un colpo di genio – tutta la mia ammirazione per il loro spin doctor – farsene arrestare due per voto di scambio con la mafia: Pietro Polizzi, di Forza Italia, che chiedeva voti al boss Gaetano Sansone, della famigghia facente capo a Totò Riina e Francesco Lombardo, di Fratelli d’Italia (l’Italia s’è desta) che traccheggiava con Vincenzo Vella, boss di Brancaccio, già tre volte arrestato.
Copertura mediatica eccezionale, in modo da fare sapere a tutta la mafia per chi votare.
Non c’è niente da fare: è stato un colpo di genio. Perché l’endorsement di Cuffaro e Dell’Utri per Lagalla, si era capito subito, non era abbastanza, ci voleva una qualche forma di sprint: un arresto sarebbe stato ottimo, due è una pacchia.
E’inutile, sta minchia di centrosinistra non ce la può fare, in Sicilia, con la parentopoli di Cancelleri, con le indubbie, ma non sfruttate, parentele mafiose, con questa etica morale che vuole rinunciare ai voti della mafia senza rendersi conto che in democrazia “i voti non olet”.
Che senso ha traccheggiare con la mafia se poi non la sfrutti in campagna elettorale? Voglio dire: io, se fossi mafioso, mi offenderei.
Ma meno male che c’è la stampa di centrosinistra, che tace molto e sempre quando i mafiosi sono vicini al Pd e urla e strilla quando sono vicini al centrodestra (la cosa comica è che spesso si tratta degli stessi individui).
Perché il centrosinistra, da sempre, in Sicilia, con la mafia, ha questo atteggiamento: se siete con noi un po’ vi ripulite, come se la mafia volesse a tutti costi ripulirsi, o accettare consigli da chi ritiene la mafia un “guilty pleasure”.
Perché la mafia dovrebbe farsi trattare da amante nascosta? Perché dovrebbe accettare di farsi portare a cena in ristoranti scogniti di periferia? Non ha forse diritto, la mafia, di aspirare a un matrimonio? Possiamo condannare la sua voglia di andare a braccetto con il potere politico alla luce del sole? Il centrosinistra si comporta da marito che non vuole lasciare la moglie, si comporta da pavido maschilista ipocrita.
Evviva il centrodestra, che coraggioso e sfacciato, non solo accetta endorsement di chi ha pagato il proprio conto con la giustizia e adesso è un libero cittadino (ma non “pentito”, ci mancherebbe quest’infamia), ma si fa anche arrestare un paio dei suoi per collusione con la mafia.
Fossi mafioso voterei per loro, non c’è dubbio. Sono persone serie. Non come quei quaqquaraqqua del centrosinistra che fottono con la mafia e poi fanno finta di non conoscerla.
La mafia e il passato che pesa. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.
Il voto a Palermo: grava la mancata elaborazione da parte degli ex democristiani della lunga stagione di intensi rapporti tra una parte potentissima della Dc e la malavita organizzata.
La festicciola per l’elezione a sindaco di Palermo, l’ex rettore d’università Roberto Lagalla ha deciso di farla in un famoso hotel a cinque stelle del quartiere Brancaccio, il San Paolo Palace, sequestrato una trentina d’anni fa a Giovanni Ienna, prestanome di uno dei fratelli Graviano. Oggi quell’albergo è (ben) gestito dall’Agenzia dei beni confiscati alla mafia. Niente da rimproverare perciò al primo cittadino palermitano in merito al luogo scelto per l’autocelebrazione. Né — anche se questo è ben più grave — gli si può imputare di aver avuto tra i compagni di strada qualche arrestato dell’ultima ora e qualche «impresentabile» («neanche li conoscevo», si è difeso). Anche se quel titolo, «Die Mafia lebt» (la mafia è viva) che campeggia sulla prima pagina della Süddeutsche Zeitung, suona come un avvertimento che viene da oltre confine: ci risiamo, l’esperienza amministrativa di Lagalla verrà giudicata, giorno per giorno, anche (e, forse, soprattutto) alla luce delle possibili commistioni tra la nuova giunta e Cosa nostra.
Sulla sua persona, ad oggi del tutto immacolata, grava però la mancata elaborazione da parte degli ex democristiani della lunga stagione di intensi rapporti tra una parte potentissima della Dc e la malavita organizzata. In che senso? Complice la scandalosa sentenza double face per Giulio Andreotti. Che ha consentito ad alcuni di considerare l’ex presidente del Consiglio come una vittima di Cosa nostra, ad altri alla stregua di un conclamato mafioso.
Anche per via di questa sentenza, gli ex o postdemocristiani hanno pensato di cavarsela gettando su Vito Ciancimino tutte le colpe di quella stagione. Sicché, con i loro eredi, si sono ripresentati sulla scena politica, perfino con formazioni intestate a quello che fu in tutta Italia il partito di maggioranza relativa. Neanche una condanna definitiva — come è accaduto nel caso di Totò Cuffaro — li ha dissuasi dall’impresa. Come se non avessero percepito il significato autentico e profondo del successo proprio a Palermo o sulla scena nazionale di Leoluca Orlando e Sergio Mattarella.
Con questo non vogliamo dire che in Sicilia solo Orlando e Mattarella siano ex democristiani degni di rappresentare la parte buona di quello che fu il loro partito. Né dimenticare i nomi degli esponenti Dc che furono vittime di mafia. E neanche quelli di uomini come Calogero Mannino che subirono anni e anni di processi prima di essere assolti con sentenze definitive. Sia chiaro, anche, che non consideriamo quella della Dc siciliana come una storia criminale. Pensiamo però che chi partecipò all’esperienza democristiana di quegli anni debba fare un ulteriore sforzo per chiarire ai successori (che militano in prevalenza nel centrodestra) cosa rese possibile le commistioni di cui si è detto. Commistioni che non furono affatto marginali e andarono ben al di là del caso Ciancimino.
Una personalità di spicco di quello che fu l’entourage andreottiano, l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino, ha appena dato alle stampe un pregevole volumetto, «Il grande inganno» (Lindau) che si presenta come una «controstoria della Seconda repubblica». Seconda repubblica di cui Pomicino non è stato e, a maggior ragione, non è oggi un grande estimatore. Il libro spiega in modo convincente perché la cosiddetta Prima repubblica andò in crisi ed è zeppo di notazioni sottilmente autocritiche. Tranne che per la parte che riguarda la Sicilia. Qui, anche se non si ricorre alla parola «complotto», sembra che tutte le disavventure in cui precipitò la parte prevalente della Dc isolana sia riconducibile all’attività di due «nemici» della causa democristiana: Gianni De Gennaro e Luciano Violante. Per il resto, tutti assolti eccezion fatta per il solito Ciancimino («espulso nel 1983», si precisa più volte, «per opera proprio di Calogero Mannino»).
Troppo poco, onorevole Pomicino. E soprattutto sono le stesse cose che lei pensava e scriveva dieci, venti, trenta anni fa. Come è possibile riproporre in sede di «controstoria» quel che già si percepiva ai tempi in cui i fatti accadevano? Ci sarà pure qualcosa di sostanziale che riguarda i suoi amici di un tempo su cui lei è stato costretto a ricredersi. Non basta dire: «fummo ingenui a credere che...». Né si può pretendere l’assoluzione (parliamo di quella della Storia, beninteso) perché anche gli avversari ne fecero di cotte e di crude.
Il buon Lagalla oggi è circondato da suoi eredi. Veri o supposti che siano. Lasciamo stare i rilievi che ora gli muovono i perdenti di domenica scorsa. Fanno anch’essi parte dell’autoassoluzione che di norma (e non solo in Sicilia) tendono a darsi gli sconfitti. Ma diamo per certo che da oggi in poi il neosindaco non potrà più dire che non sapeva di qualcuno dei suoi eventualmente scoperto a trafficare con qualche malfattore. Meglio che dedichi un’importante parte del suo tempo a conoscere uno ad uno i suoi collaboratori e si faccia un’idea (oltre a quella che dovrà farsi l’Osservatorio sulla legalità) di dove vanno a finire i fondi che erogherà. Poi, nel tempo che gli rimane, studi a fondo la storia della Dc siciliana nel trentennio che va dai Sessanta ai Novanta del secolo scorso. Troverà un grandissimo campionario di facilonerie, omissioni e clamorosi sbagli che misero nei guai, portandoli sul confine del crimine, molti suoi predecessori.
I protagonisti della bufala sulla trattativa. Totò Riina e Forza Italia, a Travaglio brucia ancora Berlusconi e ignora che Polizzi ha militato in tutti i partiti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Giugno 2022.
Un simbolico filo rosso in quel di Palermo, dove la successione agli eterni ventidue anni di governo della città di Leoluca Orlando, che ha riacceso i riflettori su mafia, antimafia e mafia dell’antimafia, pare aver fatto ritrovare insieme Alfredo Montalto e Roberto Scarpinato. Cioè il presidente della corte d’assise che aveva condannato tutti gli imputati del processo “Trattativa Stato-mafia” e scritto una sentenza di 5.000 pagine che sarà clamorosamente sconfessata due anni dopo nel processo d’appello. Proprio quello in cui un altro prestigioso magistrato, il procuratore generale Roberto Scarpinato, che rappresentava l’accusa, subiva la sconfitta più bruciante della sua carriera.
Quel patto maledetto e infamante tra i rappresentanti dello Stato, i politici e i militari da una parte, e gli uomini di Cosa Nostra dall’altra non ci fu, fu solo fantasia, dissero i giudici. E il procuratore Scarpinato, che all’ipotesi contraria aveva dedicato gran parte della sua vita professionale, finì per andare in pensione con questo grumo doloroso in mezzo al petto. Ma non rassegnato, come anche la storia palermitana di questi giorni insegna. E il suo collega (perché qui da noi i giudici e gli avvocati dell’accusa continuano a stare sulla stessa barca) Montalto è intanto passato dalle aule di tribunale a un altro ruolo, nominato dal Csm a capo dei gip di Palermo nel 2020, prima ancora della sentenza d’appello per il “processo trattativa”. Certo, Palermo è piccola, e ci si ritrova un po’ tutti, soprattutto in quel mondo così ben raccontato da fronti opposti da Sciascia e Pasolini. E in quel mondo in cui è feroce il gioco del chi c’era e chi non c’era, a cavallo dei trentennali della strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ecco il filo rosso del “processo trattativa” congiungere metaforicamente il capo dei gip che arresta per voto di scambio politico-mafioso un candidato del centrodestra, e l’ex pg pensionato che arringa una folla di duemila palermitani con una lectio magistralis proprio su mafia e politica.
A volte ritornano. E non stiamo parlando di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, cui non viene perdonato il fatto di non accontentarsi di essere fantasmi del passato. E soprattutto il fatto di essere vivi, di poter avere relazioni, addirittura parlare e agire la vita politica. Palermo, e non solo, pullula di signori virtuosi che mai voterebbero nelle urne per il ripristino della pena di morte, ma che nei fatti vorrebbero la sparizione fisica di certe persone condannate (non si sa quanto giustamente), per l’evanescenza di aver appoggiato da fuori la mafia, pur dopo che hanno scontata la pena. Alla faccia della Costituzione e del suo articolo 27. Roberto Scarpinato è tornato a parlare con il refrain di sempre, quaranta minuti di denuncia antimafia, e dice di vedere l’orologio spostarsi all’indietro, senza rendersi conto di essere lui a far girare al contrario le lancette. È pur vero che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta, ma quando è rotto non c’è molto da fare. Un po’ come quando si è perso il treno. Perché, dal momento che una sentenza ha ormai seppellito tutte le tesi del complotto tra lo Stato e la mafia e dei mandanti occulti delle stragi, continuare a insistere su depistaggi e settori deviati di servizi e massoneria e pezzi della destra eversiva? Non è bastato aver sconfitto sul piano militare e nelle aule di tribunale la faccia feroce della mafia?
Evidentemente non basta. Ed ecco il nuovo nemico, l’abolizione dell’ergastolo ostativo, voluta dalla Cedu e dalla Corte Costituzionale, e un pochino anche dal Parlamento. Ecco l’immobilità delle famose lancette dell’orologio: “Lo Stato rinuncia a conoscere la verità sui mandanti occulti delle stragi, di cui sono depositari una quindicina di boss, che con questa riforma non avranno motivo di collaborare”. Il dubbio che forse questi quindici non abbiano niente più da dire, o da aggiungere alla valanga di dichiarazioni già registrate da una serie di boss di rango prontamente “pentiti” dopo l’arresto, non sfiora mai la fronte di chi vive di certezze anche quando la storia le ha già sconfessate. E c’è da sperare, anche se pare un po’ paradossale, che all’altro capo del filo rosso, quelle tenuto tra le mani del giudice Montalto, ci sia la certezza di aver fatto la cosa giusta, con l’arresto di Pietro Polizzi, candidato al Comune di Palermo e recordman di preferenze (pare un migliaio, e non sono poche) e anche di spostamenti elettorali. Li ricorda La Stampa, ma non Il Fatto, chissà perché.
Meglio mettere il faccione di Totò Riina davanti alla bandiera di Forza Italia (ancora ti brucia eh Marcolino, quella sedia pulita con il fazzoletto da Berlusconi?) e distrarre l’attenzione. Ricapitoliamo la carriera di Polizzi: democristiano dell’Udc, poi candidato in una lista di sostegno a Leoluca Orlando nel 2017, poi renziano e infine approdato a Forza Italia. Cose che capitano, nelle situazioni politiche locali. Strano però che nel 2017 nessun gip (ma il dottor Montalto faceva un altro mestiere e si occupava della “trattativa”) abbia mai avuto il sospetto che questo portatore di voti ne accettasse anche qualcuno “sporco”. E’ capitato ora, e se i sospetti, derivati da un’intercettazione, hanno qualche consistenza, bene ha fatto il giudice ad attivarsi per prevenire la commissione di un reato, cioè lo scambio tra i voti che gli avrebbe portato il costruttore Agostino Sansone (fratello di colui che ospitava Totò Riina quando fu arrestato nel 1993) e la promessa di favori. Che, a occhio, dovrebbero essere un po’ più concreti di quel che si intuisce dalla frase, ripetuta due volte, e intercettata il 10 maggio scorso, dal candidato Polizzi: “Se sono potente io, siete potenti voialtri”.
Parole che possono voler dire molto, o niente. Che il gip ha ritenuto premessa di comportamenti che giustificavano l’arresto, “ineluttabile e urgente per scongiurare il pericolo che il diritto-dovere di voto sia trasfigurato in merce di scambio assoggettata al condizionamento e all’intimidazione del potere mafioso”. E ancora siamo nel campo delle ipotesi su quel che avrebbe potuto accadere, ma di cui probabilmente non si saprà mai se sarebbe poi accaduto. Ma che intanto hanno prodotto arresti e seminato panico da una parte, il centrodestra (ma non pare particolarmente imbarazzato il candidato professor Roberto Lagalla), e sogghigni di soddisfazione dall’altra (anche se non ha particolarmente infierito il rivale Franco Miceli). Domenica si vota, a Palermo. La città in cui dovrebbe essere più urgente smaltire le 170mila tonnellate di rifiuti e seppellire le 1.200 bare, eredità dell’ultima amministrazione Orlando, che non continuare a tessere il logoro filo rosso del circuito infinito di mafia-antimafia-mafia dell’antimafia.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
IL CANDIDATO A SINDACO DELLA DESTRA. Lagalla candidato a Palermo e il parente boss della mafia di Agrigento. ATTILIO BOLZONI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 21 maggio 2022.
Un personaggio politico che si candida a diventare sindaco di Palermo ha il dovere di informare gli elettori dei suoi legami familiari con esponenti mafiosi o può far finta di niente?
Roberto Lagalla avrebbe fatto meglio a svelare, ad inizio di campagna elettorale, che sua moglie Maria Paola è la nipote di Antonio Ferro, quello che fu il patriarca di un clan di Canicattì legato da una parte ai Corleonesi di Bernardo Provenzano e dall'altra ai catanesi di Benedetto Santapaola?
«Non ho mai avuto rapporti e frequentazioni con la famiglia di mia moglie», dice Lagalla a Domani nell’intervista che pubblichiamo integralmente. ATTILIO BOLZONI E GIOVANNI TIZIAN
«La questione morale in Italia è morta. E la resuscitiamo solo negli anniversari». Claudio Fava su su L'Espresso il 7 Giugno 2022.
Ridotta a commemorazione inoffensiva, ormai è quasi un fastidio anche solo il suo essere evocata. E quanto avviene in Sicilia ne è la dimostrazione.
La questione morale in Italia è morta. Seppellita dalla liturgia inoffensiva delle commemorazioni, ridotta a questione giudiziaria, considerata superflua come una porcellana di Capodimonte. Parlarne in una campagna elettorale (a Palermo, ad esempio) viene considerato un errore di ortografia, un andar fuori tema perché «ben altri» sono i nodi politici, le emergenze sociali, le miserie amministrative. Pretenderne una pubblica e pacata riflessione è un’ingenuità da anime candide: con gli eserciti in armi in Europa, il rischio di un impazzimento nucleare, il rapido declino delle riserve energetiche, lo spettro di nuove povertà sociali vogliamo davvero perder tempo a trastullarci con la questione morale?
Io la penso diversamente. Nel senso che credo che lo spirito di un Paese sia anzitutto espressione della sua condizione morale, del senso comune prevalente, della misura di decenza civile che abbiamo conservato nei nostri comportamenti sociali. In questo senso la vicenda siciliana è paradigmatica. Le strizzate d’occhio di dirigenti del centrodestra ad alcuni condannati (in via definitiva) per reati di mafia svelano il segno di una pubblica ignavia, la sciatteria morale di chi vuol fare della politica solo ricerca esasperata del consenso, piegando a questa ricerca, a questo consenso, ogni principio di opportunità morale.
Eppure, quelle strizzate d’occhio sono state lette con superficialità: come si permettono quei condannati per mafia a immaginare nuovi partiti, a proporre candidati ed alleanze? Un ragionamento un po’ rozzo, se mi è consentito: essere interdetti in via perpetua dai pubblici uffici vuol dire non poter più votare né candidarsi ad alcuna carica pubblica. La gogna, l’esilio, il pubblico ludibrio non sono pene accessorie previste dai nostri codici. Ed aver scontato interamente la propria condanna pretende, comunque, umano rispetto, non l’insulto.
Per cui, a mio giudizio non sono Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri (peraltro, in condizioni affatto assimilabili: l’uno colpevole di favoreggiamento e pubblicamente pentito; l’altro condannato per sodalizio mafioso e pubblicamente muto) ad aver offeso la questione morale. L’hanno fatto i loro illustrissimi frequentatori, coloro che andavano all’Hotel delle Palme per chiedere al senatore Dell’Utri la sua benedizione. Il presidente della Regione Siciliana Musumeci, in pellegrinaggio dal suddetto Dell’Utri per ottenere una intercessione telefonica con il Cavaliere, nei brevi minuti di quel siparietto palermitano ha rilegittimato politicamente un condannato in via definitiva per mafia, gli ha attribuito un ruolo politico, una capacità di intermediazione, un potere d’arbitrato.
Ma il gesto disinvolto del presidente Musumeci è parafrasi d’un pensiero diffuso: l’idea che in politica non vi sia più spazio per alcuna questione morale, a meno che non la reclamino i tribunali della repubblica a suon di sentenze. Tracciare la linea delle palme, per distinguere ciò che sta sotto da ciò che sta sopra, è tornato ad essere compito dei giudici. Non per loro vocazione ma per nostra rassegnazione. S’è ormai smarrita l’idea di un sentimento morale che non parli il linguaggio delle sentenze ma quello dei comportamenti, che interroghi i diritti e non i reati. Alla questione morale resta la consolazione di essere evocata nei trentennali e di prendersi un applauso in prestito prima di essere nuovamente riposta sotto vetro, in attesa della prossima celebrazione, del prossimo atto di dolore.
SOSTENITORI IMBARAZZANTI. Palermo, la mafia e un candidato sindaco già prigioniero del passato. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 12 maggio 2022
Ma non prova neanche un po' di vergogna l'ex rettore di Palermo Roberto Lagalla a farsi sostenere nella sua corsa a sindaco da Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro, due uomini politici condannati per reati di mafia?
Ma non prova neanche un po' di vergogna l'ex magnifico rettore dell'università di Palermo Roberto Lagalla a farsi sostenere da due personaggi così, candidato sindaco per indicazione comune di Marcello Dell'Utri e Salvatore “Totò” Cuffaro? Non gli passa per la mente nemmeno un solo cattivo pensiero che a piazzarlo lì, se sarà eletto, contribuiranno due uomini politici condannati per reati di mafia?
Della vicenda, noi di Domani, ce ne siamo occupati il 19 marzo scorso ma vogliamo tornarci perché il “caso Palermo” sta facendo affiorare umori e odori che ci trasportano nel passato più buio della città. Anche perché il nuovo sindaco, dopo l'era di Leoluca Orlando, si insedierà a Palazzo delle Aquile proprio a cavallo fra la strage Falcone e la strage Borsellino che verranno ricordate in pompa magna a trent'anni di distanza.
Ora, immaginiamoci questa scena. Sono le 16.59 di martedì 19 luglio 2022 e in via Mariano D'Amelio, luogo del massacro dove hanno fatto saltare in aria il procuratore, cala un minuto di silenzio e sul palco sale, per portare il saluto di Palermo, il primo cittadino Roberto Lagalla fasciato nel tricolore che gli hanno messo addosso anche l'ex governatore condannato per favoreggiamento alla mafia e il senatore condannato per concorso esterno. Come potrebbe reagire il popolo dell'antimafia raccolto in via D'Amelio non lo sappiamo, sappiamo però che è uno spettacolo che non vorremmo mai vedere.
In questo affaire palermitano si è parlato tanto di Cuffaro e di Dell'Utri che si sono rituffati nell'arena politica. E' vero che la Costituzione riconosce a entrambi il diritto di esprimere liberamente le loro idee politiche dopo avere scontato la pena, ma il punto è un altro: e riguarda soprattutto il candidato sindaco. Cuffaro continua a fare Cuffaro e Dell'Utri continua a fare Dell'Utri, l'anomalia vera è rappresentata dall'ex magnifico rettore che finge di ignorare chi gli sta portando aiuto elettorale e consensi. Ed è molto grave per chi si appresta a governare Palermo, La Galla non si libererà facilmente di queste ombre semmai il 13 giugno dovesse davvero diventare sindaco.
E’ TORNATO IL MEDIOEVO O QUALCOS’ALTRO?
Ma l'ex magnifico sembra vivere in un mondo tutto suo, lontano, inafferrabile. Si chiede: «Perché dovrei scandalizzarmi?». Dice: «Io sto chiedendo agli elettori un voto su di me, sulla mia storia e sulla mia persona. Io sono il candidato di una coalizione larga dove c’è una forza che trova in Totò Cuffaro il suo riferimento e ci sono dei candidati, con le loro storie, legittimamente titolati e in campo. Perché dovrei rifiutarli?». Spiega: «Marcello Dell’Utri ha semplicemente espresso un giudizio positivo su di me. Se qualcuno ritiene davvero che un uomo non sia libero di dire come la pensa, allora stiamo dicendo che è tornato il Medioevo».
Non, non è tornato il Medioevo. E' tornato un antico sistema di potere che vuole riprendersi Palermo. Dopo anni e anni di un faticoso e doloroso percorso che sembrava aver trascinato la città fuori dalla palude, che puntava al cambiamento, strada difficile ma in qualche modo tracciata. E invece rieccoli.
Il candidato Roberto La Galla, laureato in Medicina e Chirurgia nel 1979, specialista in radiologia diagnostica e radioterapia oncologica dal 1983, ordinario di “diagnostica per immagini e radioterapia” all'università di Palermo, autore di oltre 450 pubblicazioni scientifiche, ha un ambizioso programma per i suoi primi giorni da sindaco. Dieci “rivoluzioni” per Palermo. Rifiuti, mobilità, ambiente, partecipate, coste, inquinamento, grandi eventi. Dovrebbe aggiungere un altro punto che ha dimenticato: mafia. Ma forse non l'ha dimenticato, forse i suoi supporter eccellenti non gradirebbero sconfinamenti in un quel territorio.
Su ciò che sta accadendo a Palermo in questa campagna per il nuovo sindaco già un mese aveva avuto uno sfogo il procuratore generale di Agrigento Luigi Patronaggio, due giorni fa è stato Alfredo Morvillo (il fratello di Francesca, la moglie di Giovanni Falcone) a denunciare coloro che "strizzano l'occhio” ai condannati per mafia e, ieri, l'ex giudice del pool antimafia Giuseppe Di Lello ha aggiunto «che sembra di essere tornati a trent'anni fa come se nulla fosse successo».
Roberto la Galla va dritto per la sua strada: «Non ho niente da nascondere, non c’è niente da nascondere. Il problema non esiste, se non per la macchina del fango che si sta agitando in queste ore». La chiama – prorpio così – macchina del fango. L'ex magnifico rettore sembra già prigioniero prima dello spoglio elettorale.
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
Questione amorale: L’Espresso in edicola e online da domenica 5 giugno.
Cuffaro, Dell’Utri e il volto peggiore della politica. Le armi vietate usate dai russi contro i civili in Ucraina. La corsa a ostacoli per lo “ius scholae”. Ecco cosa trovate sul numero in arrivo. E gli articoli in anteprima per gli abbonati digitali. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 3 giugno 2022.
Nero, rosso, bianco: solo tre colori per la copertina del nuovo numero de L’Espresso. Ai lati, due mezze facce grigie, in bianco e nero. A destra Marcello Dell’Utri, a sinistra Totò Cuffaro. In mezzo il titolo: “Questione amorale”. Perché è indegno di un paese civile che due persone che hanno alle spalle condanne per mafia siano decisive per le elezioni regionali in Sicilia. Uno scandalo che mostra l’inadeguatezza politica dell’intero Paese.
Ci eravamo illusi che la classe politica potesse riformarsi da sola, denuncia Massimo Cacciari. E invece il Palazzo non ammette nessun argine morale, aggiunge Lirio Abbate nel suo editoriale.
Un Eugenio Scalfari d’epoca ci ricorda quando a denunciare la “questione morale” era stato Enrico Berlinguer. Oggi l’allarme parte dalla Sicilia: a ricostruire la storia dell’appoggio degli “impresentabili” al candidato della destra è Antonio Fraschilla, accompagnato dai commenti di Claudio Fava e di Enrico Letta. Susanna Turco ricompone il puzzle delle fantasiose alleanze nei mille comuni che vanno alle amministrative.
Quell’argine morale che i politici non fissano. Lirio Abbate su L'Espresso il 3 giugno 2022.
La delega in bianco alla magistratura non ha innalzato una diga. L’idea di abolire la Severino ne è una prova. E intanto condannati per reati di mafia ispirano le scelte di una classe dirigente che ha la pretesa di presentarsi come nuova.
Sulla questione amorale si ripropone il vecchio tema del rapporto fra etica e politica. Vecchio tema e sempre nuovo, perché non vi è questione morale in qualsiasi campo venga proposta che abbia mai trovato una soluzione definitiva.
Si parla abitualmente di un’etica dei rapporti economici, o, com’è accaduto spesso in questi anni, del mercato, di un’etica sessuale, di un’etica medica, di un’etica sportiva e via dicendo.
Il ritorno degli impresentabili: le trame di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri per riprendere il potere. Condannati per reati di mafia, sono big sponsor del candidato sindaco di Palermo Roberto Lagalla. I due fanno asse e puntano a riprendersi anche la Regione. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 3 giugno 2022.
Uno è sfacciato e ama i bagni di folla. L’altro invece si muove da sempre dietro le quinte, al massimo qualche battuta, e non si fa vedere certo nelle piazze, bensì nei saloni affrescati di qualche hotel esclusivo. In fondo sono sempre gli stessi e non sono cambiati nemmeno dopo le condanne per fatti legati alla mafia, gli scandali e le cattive amicizie mai rinnegate, né prima né durante né dopo il carcere.
Dai comunisti ai no vax fino ad Antonio Ingroia: la strana alleanza rossobruna di Francesca Donato. La candidata sindaca ed ex leghista ha appena incassato l‘endorsement di Rizzo e anche dell’ex magistrato antimafia. E ha guidato la protesta contro il ministro Speranza che teneva un comizio in città. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 3 giugno 2022.
Se qualcuno è curioso di sapere quanto pesa davvero elettoralmente l’alleanza rossobruna che si è saldata sui social soprattutto a favore di Putin sulla guerra in Ucraina, o contro l’obbligo vaccinale durante la pandemia, ha trovato il suo laboratorio politico a Palermo. E in particolare il 12 giugno potrà concentrarsi sul risultato elettorale della candidata sindaco Francesca Donato, l’ex leghista e pasionaria di destra nota in Parlamento per le sue sparate contro i migranti (chiamati sempre “clandestini”), contro l’obbligo vaccinale e la “dittatura” sanitaria, o contro le sanzioni a Vladimir Putin e le certezze dell’Occidente sui massacri di Bucha. Donato, oltre che su un drappello di ex grillini confluiti in Alternativa, può contare sul sostegno dell’ex magistrato antimafia e fondatore di Azione civile Antonio Ingroia, nonché sostenitore dell’ex governo regionale di centrosinistra di Rosario Crocetta e anche su quello del segretario del Partito Comunista Marco Rizzo.
Proprio quest’ultimo ha appena annunciato il suo appoggio a Donato: «A Palermo voterei senza esitazione per Francesca Donato, una donna dalla parte del popolo e della Costituzione. Palermo è una città che è stata spesso umiliata dalla grande finanza, dalla politica, da questi poteri che hanno visto nella mafia la possibilità di piegare la resistenza dei cittadini. In questa città però c’è una donna candidata, Francesca Donato, che ho avuto modo di apprezzare per il suo lavoro controcorrente al parlamento europeo e per il suo essere dalla parte del popolo sui temi principali della Costituzione italiana sempre più calpestati: il tema del lavoro e della disoccupazione, i temi della libertà schiacciate e i temi della pace e della guerra». «Il 12 di giugno i palermitani votando Francesca Donato hanno la possibilità di dare un segnale alla grande finanza e al governo del banchiere Draghi che non fa gli interessi del popolo italiano». conclude Rizzo.
Nei giorni precedenti per la Donato si era schierato Ingroia, che vuole con lei «costruire un'opposizione trasversale al sistema oggi rappresentato dal Governo Draghi» perché «siamo in una fase di emergenza costituzionale e di compressione dei diritti democratici, sociali e civili, con una mortificazione del Parlamento quasi senza precedenti».
Al fianco della Donato si erano già schierati anche gli ex grillini di Alternativa guidati dal deputato Pino Cabras: «Ho portato il sostegno mio e di Alternativa a Francesca Donato, una candidata che può cambiare le sorti di Palermo grazie alla sua esperienza politica di questi anni, che è stata sempre incentrata sulla difesa delle persone abbandonate dallo Stato e sul tentativo di ricostruire legami sociali e politici laddove il governo ha fomentato divisioni assurde e nuove sofferenze. La corsa a sindaco di Palermo dell’europarlamentare indipendente ha moltissimi punti di contatto con la nostra azione».
Donato aveva già dalla sua parte il consenso dei no vax, lei che ha condotto “battaglie” al Parlamento Europeo contro i provvedimenti presi per l’obbligo vaccinale in Italia. Ma piace molto anche ai no euro e, chiaramente, anche a chi di fronte alla guerra in Ucraina non vuole fermare l’avanzata di Putin e anzi mette in dubbio quello che i media raccontano stia accadendo: ha fatto discutere il suo intervento a Bruxelles sui massacri di Bucha commessi dalle truppe russe ha sostenuto che «l’Ue non è imparziale» nel verificare quanto accaduto.
Un bel tipo, insomma, che porta avanti istanze di destra estrema, e che qualche giorno fa a Palermo, durante un comizio del ministro Speranza, ha guidato la protesta di un vasto popolo che comprendeva no vax, no euro e tanti rappresentanti del movimento di Paragone, Italexit, che però formalmente sostiene un altro candidato sindaco, Ciro Lo Monte. Ma la base elettorale nella quale pescano è la stessa.
Francesca Donato, dai gilet ai No Vax, chi è la sovranista che ha abbandonato Matteo Salvini. Anti euro, anti Mes, contro il Green Pass: una carriera a cavallo della pancia del Paese. Sara Dellabella su L'Espresso il 21 settembre 2021.
I ben informati sapevano che l'addio di Francesca Donato alla Lega era nell'aria già da un po' e quindi nessuno perderà il sonno alla notizia. Ma d'altronde la leghista del sud, anconetana di nascita, ma palermitana d'adozione, eletta all'Europarlamento nel 2019 con oltre 28 mila preferenze alla Lega non era arrivata per militanza quanto per le sue posizioni anti euro, in voga qualche anno fa e utili per la costruzione di un partito sovranista, come l'aveva immaginato un Salvini barricadero pronto a scalare i sondaggi. Insieme a lei, per la missione, il segretario del Carroccio aveva arruolato, anche Alberto Bagnai, Antonio Rinaldi e Claudio Borghi. Ma dove li ha trovati?
I quattro esponenti anti euro, nel 2013, erano stati protagonisti di una conferenza stampa organizzata dall'ex eurodeputato Magdi Cristiano Allam, proprio nelle sale del Parlamento Ue, per un pomeriggio in cui si spiegava con dovizia di particolari perché l'euro rappresentasse una fregatura per l'Italia e che bene avremmo fatto ad abbandonare la moneta unica. Della conferenza solo qualche agenzia diede notizia e i protagonisti tornarono nel dimenticatoio.
Qualche anno più tardi, tutti sono stati imbarcati dalla Lega di Matteo Salvini, sempre più impegnato a scalare i consensi all'interno del centrodestra. Da quel convegno fino all'elezione, la Donato ha costruito la sua immagine politica come presidente di Eurexit a colpi di ospitate tv e video postati su Facebook, diventando la voce dei sovranisti ante - litteram.
Il progetto Eurexit, si legge nel sito, nasce "con lo scopo di portare all'attenzione dell'opinione pubblica i problemi derivanti dalla partecipazione dell'Italia all'Unione Europea (UE) e all'adozione della moneta unica (l’euro), sia attraverso un'opera di divulgazione e informazione, sia attraverso la predisposizione di progetti di riforma dell’UE e/o dell’Eurozona". Negli anni l'abbiamo vista accanto ai Gilet Gialli, il movimento di protesta nato sui social network contro il caro carburante che nel 2018 ha messo a ferro e fuoco la Francia. Proteste che causarono 15 morti, 3mila feriti e 5mila persone arrestate per i disordini.
Insomma, dove la pancia del popolo ribolle, la Donato c'è. Negli ultimi anni, ha cavalcato qualunque battaglia che fosse preceduta da un "NO", così da ultimo, sbattendo le porte di via Bellerio ha promesso di diventare "il punto di riferimento dei no vax". Ha un canale Telegram "Francesca Donato - Liberi di pensare" dove conta 3,4 mila iscritti che usa per diffondere notizie "alternative" sull'efficacia dei vaccini. Una militanza la sua che spesso la espone a gaffe e cadute di stile. Ultimamente ha deriso la famiglia di un medico morto per Covid seppure vaccinato, ma alla replica dei familiari è rimasta in silenzio. Non molto tempo prima, la nostra sovranista aveva accostato la frase "il vaccino rende liberi" al motto nazista "arbeit macht frei", bollata dall'Auschwitz memorial come «Declino morale e intellettuale». Come dargli torto?
Nel 2020 in pieno lockdown ha inscenato in diretta streaming la rivolta dei clacson contro le bugie del Mes. Protesta che dopo 4 minuti è stata interrotta dall'arrivo della Polizia
Ma nulla sembra fermare Francesca Donato. Qualche giorno fa ha definito il decreto Green Pass "la tomba della rappresentatività democratica" e oggi, in rotta di collisione con una Lega troppo filo governativa, promette di diventare la nuova leader "di lotta" e di rappresentare "la minoranza degli italiani etichettati come 'no-vax', gravemente discriminati e attaccati nel nostro Paese, e di tutti coloro che credono ancora nei valori della nostra Costituzione repubblicana, che pongono al centro il rispetto dei diritti umani per tutti i cittadini".
Qualcuno vede in questo addio i primi segni di cedimento della leadership di Matteo Salvini, che a forza di esercitare la politica dei due forni sta rischiando la bruciatura a favore dell'ala moderata del partito rappresentata da Giancarlo Giorgetti e Massimiliano Fedriga. Il doppio gioco di essere fuori e dentro il governo sta erodendo il consenso conquistato selfie dopo selfie, felpa dopo felpa, soprattutto tra l'ala più arrabbiata degli elettori leghisti, quelli a cui oggi strizza l'occhio Giorgia Meloni. I no vax però possono stare tranquilli, ora c'è Francesca Donato a difenderli e probabilmente ne arriveranno altri dalle fila della Lega, sempre più un partito sull'orlo di crisi di nervi.
Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.
Totò Cuffaro si costituisce ed entra nel penitenziario di Rebibbia all’ora di pranzo del 22 gennaio 2011. Il borsone gliel’ha preparato sua moglie, Giacoma Chiarelli. Dentro ci sono due libri (La fattoria degli animali di George Orwell e un romanzo di George Simenon, Il ranch della giumenta perduta).
Poi un maglione di cachemire. Il necessaire con lo spazzolino, il dentifricio, la schiuma da barba. Gli occhiali di ricambio. Lui infila anche una copia del Vangelo di Matteo. «E lei, che mi accompagna sempre» (un’immagine della Madonna palermitana di Santa Rosalia). È molto devoto. Quattro ore prima era a mani giunte, in ginocchio, nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva, vicino alla sua abitazione romana: aspettava la sentenza della Cassazione.
Un rosario inutile. Alle 12,50 arriva la telefonata dell’avvocato: la condanna è a 7 anni di reclusione per «favoreggiamento» verso persone appartenenti a Cosa Nostra. Ex senatore, ex governatore della Sicilia, ex potente: ora piange, chiede un bicchiere d’acqua. Lo aiutano a infilarsi il cappotto stretto sui cento chili tondi sfoggiati per tutta la carriera politica («Trasmetto allegria: dimagrissi, perderei voti»), sempre sostenuto da feroce ambizione, da simpatia contagiosa (baciava chiunque, inevitabile il soprannome di “Totò vasa vasa”) e da formidabile arroganza (dopo la sentenza di primo grado, ai dipendenti della Regione Sicilia offrì un vassoio di cannoli).
Cuffaro resta in cella 1688 giorni: lo scarcerano in anticipo nel dicembre 2015; due anni dopo si laurea in Giurisprudenza (meglio conoscere un po’ di codice penale); nel 2018, al Vinitaly di Verona, presenta i suoi vini (tenuta Cuffaro, 70 ettari); nel 2020 si iscrive alla Democrazia Cristiana Nuova; adesso lancia e sostiene Roberto Lagalla, candidato per il centrodestra a sindaco di Palermo, che sfida il candidato del centrosinistra Franco Miceli, presidente nazionale dell’Ordine degli Architetti.
Lagalla è però sponsorizzato anche da Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per «concorso esterno in associazione mafiosa» (4 scontati in carcere e gli altri ai domiciliari). «Totò vasa vasa», in piena campagna elettorale, dal palco del Politeama ha così ritenuto di dover urlare alla folla: «Gridate con me: la mafia fa schifo!». Poi ha aggiunto: «Comunque il problema dei palermitani, sia chiaro, è il traffico»
Il caso dell'ex presidente della Sicilia. Totò Cuffaro esce dal carcere, ma resta ancora prigioniero. Sergio D'Elia su Il Riformista il 3 Giugno 2022.
Voglio parlare di Totò Cuffaro, del giudicabile, impresentabile, irredimibile ex presidente della Regione Sicilia. Perfetto e perenne tipo d’autore, di lui non si dice che reato abbia fatto, contro di lui si continua a “fare giustizia”. Pagato il suo debito con la società, non si può presentare in società, perché un marchio di infamia con la scritta indelebile “non cambierai mai” rimane impresso sulla sua pelle. Ha scontato la sua pena fino all’ultimo giorno, ma per lui non vi può essere redenzione, il suo fine pena è mai.
È stato condannato a essere un reo per sempre, non come Caino a cui pure, in un altro senso dell’errare, è accaduto di attraversare terre desolate e da radice del male divenire padre fecondo di nuove discendenze e beato costruttore di città. La sua colpa? Quella di voler continuare a fare politica. In terra di mafia e con lo scudo crociato. Eppure, nella corsa elettorale al Comune di Palermo, Totò Cuffaro non concorre di persona. Il suo è un concorso esterno, non in un’associazione di stampo mafioso, reato che non esiste nei codici, che è di stampo giudiziario, che è stato inventato nei tribunali e per il quale Cuffaro non è mai stato condannato, ma in un’associazione politica denominata “democrazia cristiana”. Per questo, in questi giorni, è stato messo in croce, criminalizzato e processato sulla pubblica piazza perché “da fuori” ispira, dirige, condiziona i giochi della politica dei partiti e del potere mafioso sulla città.
In Italia, a partire almeno dagli anni 90, è avvenuto un capovolgimento totale di principi e regole dello stato di diritto, del giusto processo e della giusta detenzione, se giusta può essere mai definita la pratica barbara di chiudere in gabbia una persona. È accaduto che il tribunale sia ormai divenuto un carcere e il carcere un tribunale. Accade che ti fanno espiare una pena in attesa del giudizio e continuano a giudicarti anche durante l’espiazione della pena. In tribunale non entra il reato, il fatto di reato, entra l’uomo, il tipo d’autore. Viceversa, in carcere entra il reato, mentre l’uomo resta fuori; il reato, poi, è sempre ostativo e la pena infinita. Per Totò Cuffaro, il diritto è stato capovolto dalla parte del torto oltre ogni umana percezione dello spazio e del tempo. Il condannato rimane colpevole anche fuori dal luogo del delitto e del castigo, anche dopo la fine del processo e della pena.
Totò Cuffaro sta subendo un processo per un reato che non gli è mai stato contestato e sta scontando un ergastolo che non gli è stato mai comminato. Cuffaro ha onorato la sentenza che lo ha condannato, ha scontato la sua pena tutta d’un fiato, con dignità e senza tregua, senza un attimo di respiro, senza un giorno di ristoro, senza un atto di condono. Gli è stata negata persino la minima manifestazione di umana, cristiana pietà di una visita a casa della madre anziana e in gravi condizioni di salute. Il “fine pena mai” è terribile e inumano per chi è stato condannato all’ergastolo, è particolarmente odioso quando viene applicato vita natural durante anche a chi all’ergastolo non è mai stato condannato. Racconto la storia di Cuffaro perché è la storia di un detenuto noto che ci deve far riflettere sul destino di migliaia di “detenuti ignoti” che, una volta espiata la pena, sono costretti alla clandestinità dei rapporti sociali, sono indotti a vergognarsi di essere stati carcerati, sono marchiati a vita per il loro passato.
Hanno scontato per intero la loro pena? Anche se è stata lieve, su di loro continua a pesare il fatto di essere stati “carcerati”. Non hanno diritto a un reinserimento sociale pieno e incondizionato. Sono interdetti da diritti civili e politici fondamentali: di parola, di opinione, di associazione, di partecipazione alla vita sociale. Uscito dal luogo deputato per la pena alla fine del tempo stabilito dal giudizio, in realtà, Cuffaro dal carcere non è mai uscito e rimane sempre uno in attesa di giudizio: prigioniero è stato nel passato, prigioniero rimane nel presente, prigioniero sarà per il futuro. Per il solo fatto di essere stato processato, condannato, carcerato. Allora, se io devo scegliere di chi fidarmi, mi fido più di un condannato che non di un innocente. Perché del condannato so tutto, cosa ha fatto, cosa non ha fatto. Dell’innocente non so nulla. È, come si dice, “innocente fino a prova contraria”, anche fino alla prova del contrario di ciò che appare. Del condannato, invece, sono certo: è un “colpevole fino a prova contraria”, che può essere la prova della sua innocenza, della sua estraneità al reato, ma anche, meglio, la prova della innocenza ritrovata, della sua diversità rispetto al tempo del reato.
Io ho conosciuto il condannato Cuffaro quando era detenuto a Rebibbia. Con Marco Pannella e Rita Bernardini lo andavamo trovare, lui e i suoi compagni di sventura, la notte di San Silvestro per augurare, allo scoccare della mezzanotte, un buon anno, diverso da quello appena passato. Il carcere è il luogo della pena, ma anche il momento della verità, della conoscenza della persona, della scoperta del suo essere autentico. Lì, nel luogo di privazione della libertà e del potere, ho conosciuto e stimato Cuffaro nella sua nuda identità, per la sua grande umanità e la sua infinita bontà. Quando era a Rebibbia, detenuto, colpevole, condannato. Credo di non averlo mai incontrato quando era libero, innocente e potente governatore di regione. Io mi fido di Totò Cuffaro perché è stato detenuto a Rebibbia e, oggi, lo difendo da chi lo considera ancora un detenuto. Lo difendo, innanzitutto, dai sepolcri imbiancati, da coloro che lo hanno conosciuto, frequentato e votato quando era innocente come un angelo e potente come un imperatore.
Mentre, oggi, caduto dall’alto dei cieli e finito all’inferno della condizione umana, lo condannano – senza processo e senza pena – all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, e gli negano finanche il diritto di parola, il diritto di associazione, il diritto di aggregazione e di partecipazione alla vita politica democratica. Io difendo l’umanità di Totò Cuffaro, i suoi diritti umani, civili e politici, e indico il suo vissuto come un esempio che plasticamente descrive e, nello stesso tempo, invoca il superamento della realtà, che fa letteralmente pena, di uno Stato anti-Diritto, anti-Costituzione, anti-Convenzione europea sui diritti umani. Chiunque l’abbia detto – Voltaire, Tolstoj o Dostoevskij – non basta più dire che la civiltà di un Paese si misura entrando nelle carceri. Occorre dire che la si misura uscendo dalle carceri, da un sistema di giustizia penale che pregiudica anche dopo il giudizio, che condanna oltre ogni punizione e imprigiona anche fuori dal muro di cinta del luogo di detenzione. Sergio D'Elia
Manifesti anonimi contro il Centrodestra, “Chi li ha affissi è un mascalzone”. INDAGA LA DIGOS. Redazione il 20/05/2022 su blogsicilia.it.
“Manifesti provocatori e offensivi, chi li ha affissi è portatore sano di ignoranza”. E’ la reazione di Roberto Lagalla dopo che questa notte a Palermo sono comparsi dei manifesti con la scritta “Democrazia Collusa” e il logo della Democrazia Cristiane e con la Forza Italia che è diventata “Forza Mafia”. Sul caso indaga la Digos.
La reazione di Lagalla,
“Comprendo le esigenze di copione elettorale del candidato di quella sinistra a cui faceva riferimento quell’antimafia di facciata oggi alla sbarra. Piuttosto che prendere le distanze dai vandali che hanno imbrattato la nostra città, denunciando le volgari illazioni contenute nei manifesti, si diletta ad additarmi come male assoluto di Palermo. L’ennesima caduta di stile da parte di chi, privo di contenuti e idee, tenta di delegittimare l’avversario politico pur di ottenere un briciolo di visibilità. Chi ha affisso quei manifesti offensivi e denigratori è un mascalzone, un provocatore, un portatore sano d’ignoranza. Vergogna”. Lo ha detto il candidato sindaco di Palermo del centrodestra Roberto Lagalla.
I manifesti spuntati in centro
“Make mafia great again” con il logo della democrazia Cristiana che diventa “Democrazia collusa”. “Forza mafia” che richiama il logo del partito di Berlusconi. Il centro di Palermo si risveglia tappezzato di manifesti che prendono di mira il partito di Totò Cuffaro, la democrazia Cristiana Nuova, e Forza Italia.
Clima sempre più pesante a Palermo
Si fa sempre più pungente il clima della campagna elettorale a Palermo condita da aspre polemiche. E si ripresenta così il tema degli appoggi che fanno storcere il naso tra mancati inviti ai candidati sindaci alle celebrazioni per il trentennale delle stragi e botta e risposta più o meno violenti dagli schieramenti che sono scesi in campo per le amministrative palermitane. Politica e mafia, insomma, è il tema che infiamma la dialettica politica di queste settimane a Palermo.
Mario Di Caro per “la Repubblica” il 26 maggio 2022.
Macché eminenze grigie fuori dal tempo, macché ritorno al passato: per Franco Maresco, regista bastian contrario, il fatto che a Palermo, come denunciato d Maria Falcone e da Pif sul palco di "Repubblica".
Ricompaiano due "suggeritori" della politica come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri, due condannati per mafia capaci di indicare al centrodestra la scelta del candidato sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, non è certo un ritorno indietro negli anni bui della città. «Io in questa situazione ci vedo continuità nel tempo - dice Maresco - Semmai l'illusione è che in tutti questi anni ci sia stata una discontinuità».
Palermo e la Sicilia non hanno fatto passi avanti nel cammino antimafia dopo le stragi del '92?
«Dopo il '92, se togliamo quella ripartenza della società civile fondata su uno stato d'animo, sullo choc delle stragi, c'è stato l'avvento del partito di Berlusconi e Dell'Utri.
Forza Italia è nata qui a Palermo, in corso dei Mille, Quindi abbiamo avuto, semmai, una continuità impressionante lungo tutti questi anni, a partire dall'isolamento di quei magistrati che invitavano a non abbassare la guardia e che denunciavano una serie di deviazioni, anche in seno all'antimafia. Il paradosso è che non siamo mai andati oltre quegli anni cosiddetti bui, c'è stata sola una cesura drammatica con quei due giudici che sono saltati in aria».
E la rivolta antimafia post stragi?
«Un'azione c'è stata ma evidentemente non ha fatto niente. Chiediamoci perché qui , per l'anniversario delle stragi, arrivano le navi della legalità, le più alte cariche dello Stato, ma i giudici continuano a dire che ci sono insabbiamenti, trattative. depistaggi. E il problema non è solo il centrodestra».
Ci sono colpe anche nel centrosinistra?
«Già ai tempi di Cuffaro presidente c'era una certa disinvoltura da parte della sinistra, sono state legittimate certe situazioni, non c'è stata una presa di distanza. Quindi non mi stupiscono i "suggerimenti" di Cuffaro e Dell'Utri, fanno il loro mestiere. Io ero ragazzo quando frequentavo la sede del Pci a Palermo e ricordo già allora l'isolamento di Pio la Torre».
Insomma, per lei Palermo non sta tornando indietro verso il suo passato peggiore?
«Non credo che si possa tornare indietro in un'epoca spaccata dalla guerra e dalla pandemia che trasforma il panorama geopolitico. Nessuno pensava che potesse esserci una nuova guerra nel cuore dell'Europa: evidentemente sono cadute delle barriere oltre le quali non si andava per un credo morale.
Che ci sia un ritorno degli intrighi politici non mi pare: semplicemente ormai tutto è possibile perché non ci sono confini perché viviamo una realtà in cui le cose non hanno permanenza, senza più punti cardinali. Oggi un ragazzo di vent' anni pensa a come cambierà la sua vita con il virus, se la sua città sarà bombardata».
Il ritorno da protagonisti dei condannati per mafia significa che l'amministrazione di Leoluca Orlando non è riuscita a consolidare nei fatti un'idea nuova di Palermo, della politica e della cosa pubblica? Possibile?
«Quella di Leoluca Orlando è una parabola tristissima, quella di uno che ha cominciato alla grande, perché gli va dato atto che è stato capace di rompere con la vecchia Dc, ma che chiude quest' ultimo mandato alla deriva , e le sue responsabilità sono tante. È un'uscita di scena che non corrisponde al suo ingresso nella politica e nella società siciliana».
Insomma, è il teorema del suo film "Belluscone" quando dimostrò con le interviste sul campo che nelle periferie palermitane Falcone e Borsellino sono vissuti ancora come nemici e la coscienza antimafia lì non è mai attecchita?
«Sarebbe inelegante dire "io l'avevo detto". 'Belluscone' era un viaggio nelle periferie in cui il Cavaliere era celebrato. Le periferie sono sempre state in mano alla mafia ma dopo l'uscita di 'Belluscone' tante persone mi hanno chiamato per dirmi "sono inorridito" come se invece di vivere nella stessa città fossero stati su un altro pianeta».
Lagalla: “La sinistra ha attivato la macchina del fango”. La nota del candidato del centrodestra. Redazione livesicilia.it il 13 maggio 2022.
“Se la sinistra ha scelto di affrontare la campagna elettorale di Palermo attivando la macchina del fango, evidentemente è a corto di argomenti. Non intendo percorrere alcun sentiero dialettico che mi porti lontano dai problemi reali della città. Sarebbe facile fare riferimento alla campagna del 2017, quando Ferrandelli difendeva fra i suoi alleati proprio Totò Cuffaro, evidentemente amico comune. Oppure dovrei andare a fondo della vacuità della campagna di Miceli e rammentare di quando il Pd cercava il campo largo coni centristi. In questo caso, se si fosse realizzata, sarebbe forse stata una coalizione meno maleodorante?”. Così, in una nota, Roberto Lagalla, candidato della coalizione di centrodestra al Comune di Palermo.
E continua: “La mafia è un virus mutante, infido, è un fenomeno sociale complesso, guai a cadere nella tentazione delle facili generalizzazioni e dei luoghi comuni. Chi lo fa, vuole solo nascondere sotto il tappeto dell’antimafia parolaia tutta la polvere che soffoca la nostra città, da troppo tempo in mano alla sinistra. Parlano per me le attività e le iniziative portate avanti in questi anni e le coerenti posizioni assunte durante tutta una vita di lavoro e di impegno civile. Premesso che il contrasto alle mafie è ad ogni forma di illiceità costituisce un prerequisito essenziale per ogni buona amministrazione sarà facile verificare, nei quotidiani comportamenti, come non vi sia nessun pactum sceleris o forma di ispirazione a soggetti che abbiano avuto condotte men che corrette ed irreprensibili. Sono e sarò garante di una coalizione che, lontana da ogni diversa motivazione o tentazione, intende sposare gli interessi legittimi e le aspettative delle donne e degli uomini onesti di Palermo”.
Carlo Bonini per “la Repubblica” il 24 maggio 2022.
Nel giorno in cui il Capo dello Stato, i ministri del governo Draghi, i vertici dei nostri apparati di sicurezza si sono inchinati a Palermo nel ricordo della strage di Capaci, Roberto Lagalla, candidato sindaco del centrodestra, ha deciso di disertare il palco del Foro Italico (spazio urbano sottratto alle mafie dalla resilienza civile e politica della parte migliore della città) per ragioni di "opportunità".
"Per evitare - testuale - che qualche facinoroso, sensibile al fascino di certe feroci parole, potesse macchiare uno dei momenti simbolici più importanti della città con potenziali violenze". Le "feroci parole" - ha aggiunto Roberto Lagalla - sarebbero quelle pronunciate da Pif, nel pomeriggio di domenica, durante l'iniziativa di Repubblica dedicata alla memoria delle stragi. I "facinorosi" sarebbero quanti, domenica, a quelle parole hanno applaudito e - si fa intendere - il giorno successivo (ieri) sarebbero potuti passare a vie di fatto "violente".
Lagalla ha ragione. Le parole hanno grande importanza. Per chi le pronuncia o evita di pronunciarle, per chi le ascolta e per chi decide di manipolarle trasformandole in un atto politico ad alto valore simbolico. E non solo. Domenica, dal palco di Repubblica, Maria Falcone, prima, e Pif, poi, avevano posto, con modi e lessico evidentemente diversi, un identico interrogativo.
Che, all'osso, suona così: è possibile che, a trent' anni da Capaci e via D'Amelio, un candidato sindaco - nel caso di specie Roberto Lagalla - debba essere la risultante politica di un "lodo" che ha visto come suoi architetti e azionisti politici Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri, entrambi condannati in via definitiva e reduci dall'aver scontato pene detentive per reati di mafia? È irragionevole pretendere da un centrodestra moderno, costituzionale, che si sottragga all'abbraccio di antiche consorterie e di una cultura politica che sono state l'acqua in cui hanno nuotato e sono cresciuti i peggiori pescecani della storia palermitana?
È eccentrico o minaccioso chiedere che a trent' anni da Capaci e via D'Amelio la città non venga riconsegnata al comune sentire di una classe dirigente isolana che, per quarant' anni, in sostanziale continuità, ha eletto Cosa Nostra a interlocutrice legittima, ad attore sociale ed economico dell'amministrazione cittadina?
Detta altrimenti, la domanda politica posta da Repubblica a Lagalla è stata ed è: con quali pezzi di cittadinanza, di impresa, di classe dirigente, ha deciso di parlare il centrodestra a Palermo?
È una domanda semplice, in fondo, e a suo modo cruciale. Cui Lagalla, ieri, ha deciso appunto di rispondere con un atto politico. Lasciando vuota la sedia di un palco e di una platea dove lo Stato, nella sua massima espressione istituzionale, celebrava la memoria di Falcone e Borsellino al cospetto di uno spicchio di città - il quartiere della Kalsa - ad alta concentrazione mafiosa.
Lagalla, medico ed ex rettore dell'Università di Palermo, nonché ex assessore regionale delle giunte Cuffaro e Musumeci, è infatti uomo troppo intelligente e colto per non comprendere come la sua assenza, e la giustificazione che ne ha fornito, siano la plastica rappresentazione di una postura politicamente opaca che, a queste latitudini, e non solo, ha un significato preciso.
E, dunque, la sua scelta ha una sola spiegazione possibile. Che il centrodestra che il 12 giugno andrà alle urne per eleggere il nuovo sindaco di Palermo non abbia la forza per emanciparsi. Che alla presenza, anche fisica, nel saldo perimetro rappresentato dallo Stato raccolto a Palermo in un ricordo che ha l'ambizione di diventare memoria condivisa e non partigiana, preferisca la scorciatoia esiziale di dichiararsi "vittima" di un processo alle intenzioni intentato dagli epigoni della "via giudiziaria all'antimafia" contro i "pacificatori" della guerra alla mafia.
Come se quella guerra fosse stata vinta. Come se a Palermo la battaglia quotidiana per i diritti non richieda la radicalità necessaria per distinguere il bianco dal nero e il nero dal grigio. La verità è che gli argomenti di Lagalla, la sua sedia vuota, hanno il sentore e la simbologia stantii di una paccottiglia che riporta indietro le lancette della discussione e del confronto su mafia e politica ad un altro secolo. Certificano il pessimo stato di salute politica del centrodestra e quanta strada ancora vada fatta per costruire una memoria che aiuti Palermo e il Paese intero a guardare avanti nella comune consapevolezza di ciò che è stato e non deve più tornare ad essere.
Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 24 Maggio 2022.
«Che doveva fare? Andare a farsi linciare?». Totò Cuffaro, leader della nuova Dc siciliana, difende il candidato sindaco di centrodestra Roberto Lagalla, che lunedì ha disertato la commemorazione di Falcone dopo le polemiche sui suoi sponsor, lo stesso Cuffaro e Dell'Utri, pregiudicati per reati di mafia.
Lei avrebbe fatto altrettanto?
«Sì, per evitare contestazioni in un clima da gogna. Ma avrei fatto lunedì quello che Lagalla ha fatto ieri, andando da solo sotto l'albero Falcone».
Anche lei non ha partecipato alle commemorazioni.
«Ho pregato per Falcone da solo in chiesa. Non vado sotto un palco armato contro di me».
Armato da chi?
«È un'aggressione scatenata da mass media e artisti di una certa sinistra giustizialista.
Una sceneggiata».
Sceneggiata ricordare le condanne dei mentori del probabile sindaco di Palermo?
«Lagalla non era il mio candidato, ho aderito per ultimo».
Era suo assessore.
«Quindici anni fa, prima di diventare rettore».
Dell'Utri ha spostato Forza Italia su di lui.
«Dell'Utri non è protagonista di niente. Ha solo detto una banalità, che è il candidato migliore. E a differenza di me, non ha peso elettorale».
Vi accomunano le sentenze.
«Io non ho il concorso esterno».
Favoreggiamento alla mafia, fa differenza?
«Non ho mica dato soldi o manovalanza alla mafia. Una notizia su un'indagine, avrei dato».
Che è arrivata a un boss. Per questo è un pregiudicato.
«In primo grado la condanna era senza aggravante mafiosa. Anche il procuratore della Cassazione era d'accordo».
E il favoreggiamento semplice non vale?
«Un reato da nulla, se non c'è la mafia».
Ma è normale guidare un partito con questo fardello, per giunta a Palermo?
«La Costituzione vale anche per me. Ho fatto i miei errori, mi sono costituito in carcere, ho scontato la pena senza giorni di permesso. Il giudice che me li ha negati li ha concessi a Brusca».
Brusca ha collaborato con lo Stato, lei no.
«Io non ho commesso 90 omicidi».
Le resta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
«Non mi posso candidare, ma nessuno può vietarmi di far risorgere la Dc con gli ideali e senza prebende».
Sicuro? Niente prebende?
«Altri tempi».
Oltre la legge, c'è l'opportunità.
«Nella coscienza di ciascuno. Ma quella del Pd non si sveglia nei Comuni in cui hanno bisogno di me per fare le liste».
Per Maria Falcone lei non è adamantino.
«In passato no. Ora sì».
Sente leader nazionali?
«Ho ricevuto tante telefonate di solidarietà da Roma».
Come vanno le elezioni?
«Lagalla vince al primo turno e la Dc supera il 5%».
E il fattore mafia?
«Ai palermitani interessano traffico, rifiuti e 1200 bare accatastate da un anno e mezzo senza degna sepoltura».
E poi che farà?
«Sono amareggiato, psicologicamente distrutto. Faccio le liste per le regionali, entro fine anno lascio e torno in Burundi a fare il medico».
Dalla kermesse dei pm alle polemiche su Lagalla. Show del partito dei Pm, ma Falcone direbbe: “Non in mio nome”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Maggio 2022.
“Non nel mio nome”, avrebbe detto Giovanni Falcone. Il magistrato assassinato da Cosa Nostra avrebbe avuto in orrore il fatto che, nelle celebrazioni del trentennale della sua morte, si accendessero, nel suo nome, guerre di religione con crociati pronti a uccidere invocando un qualche dio. Non avrebbe apprezzato, lui che ha sempre negato l’esistenza del terzo livello della mafia, quei professionisti dell’antimafia in toga –capostipite Nino Di Matteo- che raccoglievano applausi citando i nomi di Andreotti e Berlusconi.
E ancor meno si sarebbe entusiasmato, lui sempre così rispettoso nei confronti delle istituzioni, sull’uso politico che del suo nome veniva fatto, con la messa alla gogna del candidato non gradito. Già, perché a Palermo il 12 giugno si vota per la successione a Leoluca Orlando, che pareva eterno nella sua carica di sindaco. E ci sono i politici di sinistra, con tutto il loro entourage di giornalisti coccodé, che paiono impazzire all’idea di un possibile cambiamento di regime. In questo sciagurato caso, vorrà dire che al posto di un antimafioso ci sarà un mafioso. Lo dicono nel nome di Giovanni Falcone. Un incontro di magistrati “antimafia” si è svolto, quasi in competizione con le celebrazioni ufficiali del 23 maggio, al teatro Golden di Palermo su iniziativa della rivista “Antimafia duemila”. I nomi sono da parterre de roi: oltre al consigliere Di Matteo, il suo collega del Csm Sebastiano Ardita, e poi l’ex procuratore generale Roberto Scarpinato, il pm di Firenze Luca Tescaroli, titolare delle indagini sui presunti mandanti delle stragi del 1993, e il procuratore calabrese Giuseppe Lombardo, un altro “antimafia” doc per l’inchiesta sulle relazioni ‘Ndrangheta-Cosa nostra.
Non manca proprio nessuno. Sono uomini delle istituzioni e dovrebbero avere un moto d’orgoglio e allontanarsi subito da un cartello che li ha convocati sotto il titolo “Fuori la mafia dallo Stato”. Giovanni Falcone si sarebbe tenuto lontano da quel titolo e da quel teatro. Nulla da dire sul fatto che questo gruppo di magistrati abbia preferito disertare quello che Nino Di Matteo ha definito “lo sterile esercizio di una stucchevole retorica di Stato” e Scarpinato (che il quotidiano La Stampa nella cronaca definisce “commosso”) “una falconeide sedativa da corriere dei piccoli”. Applauso dunque a queste toghe così schive, che preferiscono ricordare lontano dai riflettori il loro collega assassinato dalla mafia. Però quel titolo “fuori la mafia dallo Stato”, da nessuno contestato, dice in modo esplicito che ancora oggi, non solo ai tempi di Ciancimino, le istituzioni (anche la magistratura?) sarebbero inquinate da complicità mafiose.
Vien da chiedersi quindi se questi procuratori ne siano veramente convinti e sulla base di quali elementi. O sono tutti pasoliniani dell’ “io so, ma non ho le prove”? Certo, non ci tranquillizza il ragionamento di Nino Di Matteo nei confronti del Parlamento e del Governo, impegnati nella “riforma Cartabia” sulla giustizia. Ma poco rispettoso anche verso la Corte Costituzionale e gli organismi di giustizia europei. “Falcone –ha detto, sempre nel suo nome- è stato tradito e ucciso da quelle istituzioni che in queste ore hanno partecipato al gran gioco delle finte commemorazioni e domani, tornate a Roma, riprenderanno a lavorare per smantellare pezzo dopo pezzo le leggi antimafia da lui ispirate, 41 bis ed ergastolo ostativo”. E “voteranno una riforma…”.
“Non nel mio nome!”. Questa volta lo griderebbe, Giovanni Falcone. Non solo per la mancanza di rispetto istituzionale, ma anche perché le leggi di cui parla il consigliere Di Matteo, in parte sono diverse dai principi da lui ispirati, e in altra parte sono state votate dopo la morte del giudice assassinato. La due giorni di celebrazioni che è alle nostre spalle ha lasciato sul terreno, come unica vera vittima, proprio il nome di Giovanni Falcone. Ma c’è stata anche una vittima collaterale, il povero professor Roberto Lagalla, stimatissimo rettore emerito dell’Università di Palermo ed ex assessore regionale, che pare avere come unica (quella vera) “colpa”, quella di essere il candidato del centro-destra al ruolo di sindaco come successore di Leoluca Orlando, cioè proprio di colui che accusò Falcone di nascondere nei cassetti le prove della mafiosità delle istituzioni, il terzo livello, insomma.
Dovrebbero ricordarsene gli uomini della sinistra, prima di avere la pretesa di fare gli esami del sangue sul tasso di mafiosità al candidato Lagalla a causa del sostegno politico manifestato nei suoi confronti da Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri. E dovrebbero apprezzare il fatto che uno stimatissimo giurista come Giovanni Fiandaca, che fu candidato del Pd alle europee, abbia ammonito che i due esponenti politici, avendo scontato la loro pena (Cuffaro per fiancheggiamento, e Dell’Utri per concorso esterno alla mafia) “hanno tutta la libertà di continuare a impegnarsi politicamente”. Non lo apprezzano per niente il direttore de La Stampa Massimo Giannini, che impegna due cronisti oltre alla propria prestigiosissima penna e la prima pagina del quotidiano per denunciare quella “sedia vuota” lasciata, nella manifestazione ufficiale, dal professor Lagalla, dopo che il giorno prima era stato redarguito da Maria Falcone ma poi insultato dal regista Pif e trattato come un mafioso. E lasciamo perdere il titolo de La notizia, che essendo la brutta copia del Fatto quotidiano deve spararla grossa per farsi ascoltare: “Se la mafia vive di segnali, il candidato del centrodestra a Palermo, non celebrando Falcone, gliene ha dato uno chiarissimo”. Non nel mio nome, per favore. Non nel nome di Falcone.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L'inchiesta già finita in polvere nel 2009. Dopo il flop “mafia” la procura di Roma ci riprova: ecco ‘ndrangheta capitale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Maggio 2022.
Se a Roma non esiste Mafia Capitale, ci sarà almeno ‘Ndrangheta Capitale. Ci aveva già provato a dimostrarlo nel 2009 la Procura di Pignatone e Prestipino ed era andata male, dieci anni dopo, compreso il dissequestro del mitico Café de Paris. Ci riprovano oggi, inquirenti e forze dell’ordine, in coordinamento con la procura di Reggio Calabria con il sequestro di 24 società e 72 arresti, 43 nel Lazio e 35 in Calabria. Il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino ha guidato le indagini, mentre il suo ex capo e mentore Giuseppe Pignatone sostiene l’operazione con un editoriale su Repubblica dal titolo “Il contagio della ‘ndrangheta”.
Può essere che quest’operazione, apparentemente così brillante perché ha portato agli arresti di personaggi come Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro e alla scoperta dell’esistenza a Roma di una vera ‘ndrina calabrese, avrà il meritato successo, coronato da sentenze dei tre gradi di giudizio. Così si potrà cancellare l’onta delle decisioni di segno opposto del passato. Quella che ha negato l’esistenza della mafia a Roma e l’altra identica sulla presenza della ‘ndrangheta. Ma è proprio necessario dover comunicare al mondo che la capitale d’Italia, se proprio non è il centro nevralgico della mafia che fu di Riina e Provenzano, quanto meno è ‘Ndrangheta Capitale?
Certo, se esistesse già il fascicolo delle performance dei magistrati, qualche macchiolina il nome di Vincenzo Alvaro, considerato il capo della ‘ndrina romana, dovrebbe averla lasciata. Nei fascicoli dei pm e magari, se fosse possibile, anche nelle carriere di qualche giornalista. Non occorre essere di Roma e conoscere via Veneto per ricordare la storia gloriosa di quel Café de Paris frequentato negli anni cinquanta e sessanta da Frank Sinatra, Federico Fellini e Marcello Mastroianni. Quel luogo magico oggi non esiste più soprattutto a causa di un’indagine sballata della Procura di Roma. Era il 22 luglio del 2009 quando guardia di finanza e carabinieri del Ros posero sotto sequestro preventivo il bar, insieme ad altri centri commerciali, ristoranti e società varie, e misero le manette a una serie di persone, presunte affilate alla ‘ndrangheta. Nel mirino soprattutto l’imprenditore calabrese Vincenzo Alvaro, ritenuto il proprietario occulto del locale di via Veneto e il capo dell’infiltrazione mafiosa nell’economia della città.
Anche allora, proprio come oggi, apparvero titoloni allarmistici per la scoperta delle “mani”, o dei “tentacoli” della organizzazione mafiosa sulla capitale d’Italia. È impressionante come la storia giudiziaria di questo Paese, quella più strillata e valorizzata dai media, si ripeta come in una perversa catena di Sant’Antonio: retata-condanne in primo grado-assoluzioni in appello con conferma di cassazione. E il reato associativo di stampo mafioso, quello su cui tutto si era retto, sbriciolato. Anche quella volta è andata così. Intanto il numero degli imputati era stato già sfrondato in primo grado, con quattordici condanne su ventiquattro imputati. Ma la sentenza -siamo nel 2014- aveva consentito di far apprezzare ai giornali i “quarant’anni alla cosca degli Alvaro”, secondo la pessima abitudine di certi cronisti giudiziari di sommare gli anni di condanna. In realtà la pena inflitta a Vincenzo Alvaro, la più pesante, era stata di sette anni di carcere. Non proprio un peso da capomafia. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che aveva coordinato le indagini, aveva espresso soddisfazione per averci visto giusto, con i sequestri preventivi di tante imprese commerciali tra cui il Café de Paris, a «conferma significativa della presenza di questi spaccati criminali nelle pieghe dell’economia della città».
I tempi della giustizia sono lunghi, si sa, ma il sistema economico non aspetta, e un locale sequestrato nel frattempo muore. E così è stato. Anche se, tra il 2018 e il 2020, una serie di sentenze ha ribaltato l’inchiesta del 2009: dalla cassazione che ha stabilito l’inesistenza del “sistema Alvaro”, fino alla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha riconsegnato ai proprietari 102 beni sequestrati, tra cui il Café de Paris ad Alvaro, e infine la terza sezione d’appello di Roma, che fa cadere l’aggravante mafiosa e assolve tutti gli imputati. Un mucchio di polvere. Questa è la storia che nessun giornale racconta (un plauso a Mattia Feltri, l’unico ad averne fatto accenno). Naturalmente non è detto che l’abbaglio del 2009 e poi del 2014 debba ripetersi nel 2022 e negli anni successivi. Ma ci sarà qualche inquirente, o qualche giudice a rammaricarsi se nel frattempo quelle che erano fiorenti attività commerciali sono morte e qualche imprenditore è finito sul lastrico? Ci pensino gli entusiasti del blitz di oggi. Dal prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, al sindaco Roberto Gualtieri e al Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La finestra sulla Calabria. 'Ndrangheta in Trentino, il leghista a Morra: «Qui non siamo in Calabria». Il Quotidiano del Sud il 10 Maggio 2022.
“Grave che il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra si sia espresso in quei termini nei confronti del governatore Maurizio Fugatti: qui non siamo in Calabria, dove le radici e la diffusione dei fenomeni delinquenziali sono ben diversi”.
Così Roberto Paccher, consigliere della Lega in Regione Trentino Alto Adige, in merito alle affermazioni del senatore Morra a margine delle audizioni della Commissione parlamentare antimafia a Trento che ha esplicitato incredulo il fatto che Fugatti non avesse avuto sentore di infiltrazioni mafiose nel comune di Lona Lases, al centro del primo processo contro la ‘ndrangheta nel tessuto del porfido.
“Fino ad oggi, ferma restando la giusta necessità di tenere alta la guardia contro ogni tipo di criminalità, stiamo parlando di un caso ben delimitato in un comune della valle di Cembra – ha aggiunto Paccher –. Non mi pare che le istituzioni qui in Trentino si siano mai tirate indietro dal collaborare con qualunque soggetto impegnato in indagini con le forze dell’ordine, ad ogni livello”.
“Voler insinuare dubbi di questa portata, ammiccando ai cronisti senza per giunta alcun tipo di riscontro, non fa un bel servizio alla comunità e nemmeno all’importantissimo ruolo che il senatore Morra riveste”, ha concluso.
"Trentini onesti e calabresi mafiosi", la Lega del Nord diversa da quella del Sud. PARIDE LEPORACE Il Quotidiano del Sud l'11 Maggio 2022.
LONA-LASES è un Comune del Trentino di 872 anime che unisce il nome dei suoi due principali villaggi. Il prossimo 29 maggio alle elezioni municipali non si voterà perché nessuno ha voluto presentare liste e candidati. Esattamente come il 10 ottobre. Tutto questo perché hanno scoperto che la ‘ndrangheta si è infiltrata in questa terra che si ritiene immune dalla criminalità organizzata. Il sindaco di è dimesso e il commissario regna come un borgomastro.
Lona-Lases come San Luca in Calabria. Oscurati dalla scoperta del primo “locale” di Roma, le cronache si sono distratte dalla visita della Commissione antimafia e del suo presidente Nicola Morra in Trentino. Dopo le audizioni, il senatore calabrese non ha avuto mezze misure e in conferenza stampa ha dichiarato rispetto alla ‘ndrangheta sul presidente della Provincia in carica (il Trentino è regione a statuto speciale divisa in due province autonome): “Fugatti a precisa domanda ha affermato di non aver avuto il minimo sentore di ciò che stava accadendo. Ci si deve domandare se è difetto di intelligenza o altro. Da quanto abbiamo raccolto vi sono state testimonianze di reati spia nel settore del porfido degli anni Ottanta. Ma mentre qualcuno dormiva sonni irenici altri lavoravano per raggiungere altri scopi”.
Fugatti è l’uomo forte della Lega. Deputato e sottosegretario in passato. L’intemerata di Morra (che ha trascurato l’elemento di riservatezza delle audizioni) ha scatenato l’inferno nella politica trentina con nutrite verniciate di razzismo sui calabresi. Nel dibattito in consiglio provinciale si è distinto il consigliere leghista Alessandro Savoi che ha tuonato “Sono allibito dalle parole di Morra che viene dalla regione più mafiosa d’Italia ed è venuto qui in Trentino, portato dai grillini, per darci dei mafiosi. Non a caso i maggiori indagati nell’operazione Perfido sono calabresi e vengono proprio dalle zone dell’onorevole Morra, mentre i cembrani (gli abitanti della Val Cembra) sono gente onesta e per bene. Tornino a casa loro e si ricordino che al nord la mafia l’hanno portata i siciliani e i calabresi”.
Forse Savoi non sa che la Lega ha in Calabria uno sportello antindrangheta e lotta la criminalità ovunque esso sia. Ma questi sono i partiti di oggi. Tutto ruota attorno al porfido che si estrae nella valle. La magistratura ha scoperchiato la pentola proprio con l’operazione Perfido con 19 arresti, decine di indagati tra cui tre esponenti politici locali e sequestri per otto milioni di euro. E Morra, al netto delle disattenzioni istituzionali, sulla sostanza ha le sue ragioni considerato che nel 2017 il professore Nicola Tranfaglia già scriveva: “ll Trentino sembra non accorgersi di nulla. Le cosche gestiscono molti affari riuscendo a mimetizzarsi alla perfezione senza richiamare l’attenzione di nessuno”.
Eppure la Dia all’epoca aveva ricevuto ben 903 segnalazioni sulla presenza della ‘ndrangheta nel Trentino. Ma si deve ad un trentino, segretario comunale proprio di Lona Losas, che aveva segnalato ai magistrati come nelle cave di pietra girassero anche cocaina e sporchi affari. E al consigliere leghista andrebbe anche fatto leggere quello che ha scritto un laureato di sociologia della celebre facoltà di Trento, Alberto Marmiroli, che nella sua tesi su porfido e ‘ndrine smonta la tesi del Trentino felix sostenendo: “È una narrazione che piace molto perché fa sentire migliori di altri, calabresi, campani e siciliani. Come spiegano i medici, però, non si possono avere anticorpi di una malattia che non si ha mai avuto. E in Trentino ci sono ricchezza diffusa, attività tradizionali e piccoli Comuni, oltre a una popolazione con una scarsa percezione: sono dell’idea che il Trentino per un ‘ndranghetista sia il territorio perfetto”.
Il riscontro lo offre anche il collaboratore di giustizia, il calabrese Luigi Bonaventura che nelle sue trascrizioni ha detto a futura memoria: “Il Trentino sembra non accorgersi di nulla. Le cosche gestiscono molti affari riuscendo a mimetizzarsi alla perfezione senza richiamare l’attenzione di nessuno”.
Una questione solo calabrese? Non sembra proprio considerato che a Lona-Lases sono messi peggio di Platì.
NON È QUESTIONE DI MERIDIONALI. L’omertà è un prodotto tipico del Sud? Falso, ecco i documenti sui silenzi nordici. ENZO CICONTE, storico, su Il Domani il 16 marzo 2022
Era il 10 agosto 1867. Anni dopo nella ricorrenza del luttuoso anniversario, il 10 agosto 1904, il poeta Giovanni Pascoli prende carta e penna e scrive ad un altro orfano, Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era stato direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893.
I due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli: sono orfani di un padre assassinato. hanno cercato la verità senza trovarla, si sono scontrati con un muro di silenzio.
La conferma ci viene da alcune vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato. Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di Bologna nel maggio del 1889. Oppure a Torino, all’alba dell’Unità d’Italia.
ENZO CICONTE, storico. Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Fra i suoi libri, Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza).
Disabile dalla nascita, non riuscì a scappare. La storia di Antonio Landieri, vittima innocente della camorra: “Ucciso dai proiettili e dai giornali”. Rossella Grasso su Il Riformista il 4 Maggio 2022.
Antonio Landieri aveva solo 25 anni quando una pioggia di proiettili piombò su di lui e i suoi amici mentre giocavano a biliardino sotto casa ai Sette palazzi di Scampia. Ci furono 5 feriti. Antonio che non poteva muoversi perché dalla nascita aveva tutto il lato destro paralizzato, non riuscì a mettersi al riparo e morì poco dopo essere arrivato in ospedale. Ma il dramma di Antonio e della sua famiglia non fu solo la morte. Antonio fu ucciso due volte: la prima dai colpi di pistola, la seconda dall’essere additato come criminale. Ma Antonio era solo un ragazzo che stava andando a mangiare una pizza. La sua “colpa”? Essere nato a Scampia. Era il 6 novembre 2004, i terribili anni della prima faida di camorra. Per essere iscritto nell’elenco delle vittime innocenti della criminalità ci sono voluti 12 anni. “Mio figlio è stato trattato come un criminale, non doveva succedere. Quello che è successo ad Antonio non voglio che succeda mai più. Dodici anni sono lunghi per avere una sentenza di vittima innocente”, ha detto Raffaella Landieri, mamma di Antonio.
Sono passati 18 anni da quando Antonio è stato ucciso. La sua vicenda è esemplare di tanti pregiudizi ed errori che ancora marchiano un intero territorio. “Antonio che doveva andare a mangiare una pizza, non l’ha mai più mangiata – continua mamma Raffaella – Da allora è iniziato il nostro calvario. Perché abitiamo qui a Scampia non ci hanno fatto fare i funerali. Perché abitiamo a Scampia siamo tutti delinquenti, pusher. Ma Scampia non è questo. Ci sono tantissime associazioni e tante persone per bene che si sono ribellate alla malavita. Ma di noi questo non si parla mai. Di noi si continua solo a fare di tutta un’erba un fascio, come è successo ad Antonio”.
Mamma Raffaella ricorda perfettamente quegli istanti così dolorosi in cui suo figlio fu ucciso da un gruppo di fuoco dei Di Lauro in lotta contro gli scissionisti per il controllo del territorio. Antonio con quella vita non c’entrava nulla. Fu scambiato, insieme ai suoi cinque amici, per un gruppo di spacciatori del rione. “Stavo preparando un panettone perché ad Antonio piaceva tanto – ricorda – sentì gli spari giù al palazzo. Chiamai subito mio marito e corremmo giù. L’ascensore no arrivava mai, facemmo 11 piani di corsa a piedi. Appena usciti dal palazzo vedemmo un ragazzo, dal piede gli usciva un sacco di sangue. Ho visto mio figlio Giuseppe chino su Antonio. Ho preso in braccio Antonio, lui ha girato gli occhi all’insù”.
“Quella sera a sparare erano in cinque – racconta Enzo, il papà di Antonio – poi hanno avuto tutti la condanna all’ergastolo perché avevano in carico anche altri omicidi. Siamo stati 12 anni anche senza sapere chi fosse stato a sparare. Non ci hanno fatto fare nemmeno il funerale – continua – quando abbiamo portato la salma al cimitero c’erano le auto della polizia davanti e indietro a noi, solo noi genitori per l’ultimo saluto. Siamo stati trattati come camorristi”.
In un primo momento tutti dissero e i giornali scrissero, che Antonio era un narcotrafficante internazionale, che andava e veniva dalla Colombia, ma la mamma racconta che lui non aveva nemmeno il passaporto. “Poi ‘grazie’, diciamo così, a un pentito che ha raccontato come erano andate veramente le cose quella sera, finalmente Antonio ha avuto giustizia ed è stato dichiarato vittima innocente della camorra. Dodici lunghi anni dopo perché un pentito ha parlato e ha detto che Antonio non era l’obiettivo ma un’altra persona che camminava come mio figlio e aveva lo stesso giubbino”. Il 27 gennaio 2015 Antonio viene dichiarato vittima innocente della camorra, nel 2017 il primo processo. Poi nel 2018 si è concluso il processo di primo grado nei confronti dei responsabili dell’omicidio di Antonio. L’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria si è chiuso nel settembre 2021. Un tempo interminabile.
E intanto la famiglia ha vissuto il suo inferno. “Sono stati 12 anni di angoscia – continua Enzo – Abbiamo perso tutto, a partire dal lavoro. Mia figlia andava a scuola, andava molto bene e non ci è più voluta andare. La guardavano e dicevano: ‘ questa è la sorella di quello ucciso ai Sette palazzi’. Mio figlio era una promessa del calcio e non ha più voluto giocare. Persino mia suocera non è mai più salita a casa nostra”. Enzo e Raffaella raccontano che in quegli anni anche in tribunale erano sempre scortati dalla polizia. “Quando scoprì che uno di quelli che aveva sparato era più piccolo di Antonio, 20 anni, ho capito che quella era una tragedia nella tragedia: io avevo perso mio figlio ed ero condannata all’ergastolo del dolore, lui era un giovane che aveva perso tutto, anche i suoi figli. Due vite perse”, continua Raffaella.
Enzo e Raffaella non hanno mai mollato per dare giustizia al loro figlio. Hanno dovuto lottare con tutti e anche con i giornalisti. “’Hanno ucciso un pusher di Secondigliano, apparteneva a questo, a quell’altro’, scrivevano nei titoli. Le foto di mio figlio in mezzo a quelle dei criminali che lo hanno ucciso. Che tragedia. E poi quando chiedevano scusa usciva un articoletto piccolino”, dice ancora Enzo.
C’è anche un’altra questione che ha particolarmente ferito i Landieri: Gomorra, il best seller mondiale di Roberto Saviano. Uscito nel 2006, due anni dopo l’omicidio di Antonio, tra le sue pagine è finita anche la vicenda del ragazzo e dei suoi amici feriti. “Nel libro c’è scritto che Antonio ‘pare’ che gestisse una piazza di spaccio. Quante copie ha venduto quel libro in tutto il mondo? Tantissime. Una volta in una scuola di Ponticelli un ragazzo ci disse che aveva letto nel libro di Saviano che Antonio gestiva una piazza di spaccio e che non credeva alla nostra testimonianza di familiari di vittime innocenti della camorra”. Saviano tuttavia nel 2013 ha letto il nome di Antonio Landieri tra quelli delle vittime innocenti della camorra durante una manifestazione pubblica.
La dolorosa storia di Antonio Landieri è conosciuta in tutta Italia. Ed è una storia esemplare, purtroppo simile a tante altre che poi sono susseguite dopo. Il cugino Rosaio Esposito La Rossa, editore, l’ha raccontata in un libro dal titolo “Al di la della neve”. Ad Antonio hanno dedicato lo stadio comunale di Scampia, numerosi presidi di Libera in tutta Italia, il primo a Volvera nel 2010, poi a Teano e l’ultimo nel 2018 a Scampia. Una storia importante che non deve essere dimenticata.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Processi di mafia, professionalità più elevata per evitare errori. I tre giudici che compongono il collegio del processo "Rinascita Scott", secondo per importanza solamente al maxi processo di Palermo, non raggiungono insieme i dieci anni di servizio. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 agosto 2022.
«Bisogna evitare che in futuro si ripetano gli errori commessi nella celebrazione dei processi sulla strage in cui ha perso la vita Paolo Borsellino». È quanto ha affermato Antonio D’Amato, già procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere e attuale presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, in occasione dell’ultimo Plenum prima della pausa estiva. A trent’anni dall’eccidio di via D’Amelio e dal più grande depistaggio che la storia giudiziaria del Paese ricordi, il dibattito sulle stragi di mafia del 1992- 1993 è quanto mai attuale.
Nei giorni scorsi era intervenuto al riguardo il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, chiedendo «pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità» sulla morte di Borsellino. Melillo aveva poi sollecitato l’esigenza di elevare la professionalità dei magistrati che si occupano dei fenomeni mafiosi, in particolare per gli aspetti relativi alla «raccolta delle dichiarazioni del collaboratore».
Per rendere maggiormente efficace il contrasto alla criminalità organizzata ed evitare i tragici errori del passato, la soluzione proposta da D’Amato prevede una riscrittura del Regolamento interno del Csm con la reintroduzione della Commissione antimafia. I componenti di tale Commissione, oltre allo studio della normativa antimafia e al monitoraggio degli uffici impegnati nei processi di mafia, avrebbero «l’obbligo di recarsi presso i medesimi uffici giudiziari al fine di ascoltare i colleghi e i dirigenti».
La Commissione antimafia di Palazzo dei Marescialli, lavorando in sinergia con le altre Commissioni, potrebbe allora fornire elementi di conoscenza circa “situazioni di incompatibilità” che si possono venire a creare, senza trascurare quanto attiene ai requisiti per i magistrati che aspirano ad incarico direttivo e semidirettivo.
Valutando gli «assetti organizzativi degli uffici (giudicanti e requirenti)» si potrebbero far acquisire al Csm «elementi preziosi di valutazione così da contribuire a rendere le decisioni consiliari più “vicine” alle reali esigenze dell’ufficio giudiziario e dunque, più efficaci in un’ottica di sollecita ed efficiente gestione di indagini e processi per fatti di criminalità organizzata di tipo mafioso».
Con una attività così organizzata, puntualizza D’Amato, «sarebbe più facile prevenire il formarsi di situazioni “anomale” e “particolari” nelle quali si annidano, assai spesso, gli errori nella conduzione di indagini e di processi anche delicati, così da scongiurare il rischio che alcune delle criticità emerse in relazione a procedimenti anche delicatissimi per la storia del nostro Paese vengano reiterate».
L’altro aspetto da non sottovalutare è relativo invece all’attività di formazione permanente dei magistrati impegnati nel settore specifico della lotta alla criminalità organizzata ed al terrorismo. Per D’Amato è fondamentale una «incisiva opera di individuazione, in questa materia, delle linee guida sulla formazione da rendere alla Scuola superiore della magistratura ed una scelta più impegnata e trasparente dei formatori». È innegabile, infatti, che l’estrema delicatezza della materia necessiti di magistrati opportunamente formati e, possibilmente, d’esperienza.
Un auspicio che molte volte si scontra con la realtà degli uffici giudiziari del Sud caratterizzati da un fortissimo turn over. Tanto per fare un esempio i tre giudici che compongono il collegio del processo “Rinascita Scott“, secondo per importanza solamente al maxi processo di Palermo, non raggiungono insieme i dieci anni di servizio.
«Giudici incompatibili»: scure sul processo Rinascita. La Corte d'Appello di Catanzaro ha accolto l'istanza di ricusazione presentata dai legali di un imputato. E ora l'intero processo rischia di ripartire da zero. Valentina Stella su Il Dubbio il 12 agosto 2022.
Colpo di scena al processo Rinascita Scott: la prima sezione penale della Corte d’Appello di Catanzaro ha infatti accolto la richiesta di ricusazione presentata dagli avvocati del presunto boss Giuseppe Antonio Accorinti, Francesco Sabatino e Daniela Marina Garisto, nei confronti dei giudici Brigida Cavasino e Gilda Romano, rispettivamente Presidente e componente del collegio giudicante.
Il motivo? I due magistrati, quali componenti del Collegio del Tribunale di Vibo Valentia, emettendo sentenza nell’ambito del processo denominato “operazione Nemea”, avevano di fatto valutato pure la posizione di Accorinti, «ricostruendo l’assetto strutturale e le modalità di funzionamento dell’associazione mafiosa operante sul territorio di Zungri con a capo I’Accorinti, specificando altresì la faida esistente tra le due fazioni criminali»; in tal modo «avevano anticipato la valutazione sul merito della colpevolezza dello stesso».
Una specie di anticipazione di giudizio nei confronti Accorinti che, non a caso, era stata segnalata dagli stessi giudici che avevano opportunamente presentato richiesta di astensione dal maxiprocesso Rinascita Scott, dopo il deposito delle motivazioni della sentenza Nemea, richiesta di astensione tuttavia respinta dal presidente del Tribunale di Vibo Valentia.
La Corte d’Appello si è pronunciata in sede di rinvio dopo un precedente annullamento ad opera della Cassazione di una precedente ordinanza di un’altra sezione di Corte d’Appello che aveva respinto l’istanza dei difensori. Per questi giudici catanzaresi l’istanza dei difensori invece risulta fondata. «Dirimente è accertare – si legge nel provvedimento – se la posizione di Accorinti sia stata oggetto di valutazione di merito nell’ambito del processo “Nemea”, così come ritiene la difesa. Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha peraltro chiarito che “anche una valutazione incidentale del merito della posizione del terzo può giustificare la ricusazione del giudice” (Cass. Pen. sez. I n. 25004/22)”. Pare dunque doversi concludere – proseguono i magistrati – che il giudice del processo “Nemea”” ha, di fatto, coinvolto nelle sue valutazioni anche Accorinti, presentandolo come “capo mafia” la cui presenza sul suo territorio il Leone Soriano non poteva tollerare».
Sempre la Corte d’Appello spiega che il Collegio che ha deciso il processo “Nemea” ha perciò «proceduto ad una valutazione incidentale di merito anche quanto alla posizione associativa dell’Accorinti e tanto vale a fondare l’incompatibilità della dott.ssa Brigida Cavasino e della dott.ssa Gilda Romano a giudicare Accorinti quale imputato nel processo “Rinascita-Scott” tra l’altro del reato di associazione mafiosa». Infine, «deve essere dichiarata l’inefficacia degli atti a contenuto probatorio compiuti dal collegio composto dagli stessi due magistrati a partire dalla data del 5 marzo 2021 (data del deposito della sentenza nel processo “Nemea”), non ravvisando profili di inefficacia negli ulteriori atti compiuti in particolare in materia cautelare». Cosa succede ora? La posizione di Accorinti verrà stralciata e sarà giudicato da altri giudici. Ma resta una questione: il capo di imputazione di Rinascita Scott riguarda un’associazione ndranghetista unitaria, un unico reato commesso da più persone in concorso. A ciò si aggiunge che, secondo la sentenza delle Sezioni Unite Gerbino, gli effetti della ricusazione potrebbero ricadere su tutti gli altri imputati. Quindi tutto da rifare anche per gli altri imputati? Prossima udienza: 2 settembre.
Gratteri: “La mafia ha i suoi giornali”. Se non è un’iperbole, vorremmo saperne di più. Clamorosa denuncia del procuratore di Catanzaro, che in un incontro con gli imprenditori vicentini ha parlato di opinione pubblica condizionata da testate di proprietà criminale. Due sono le cose: o l’allarme è immotivato, o lo stiamo incredibilmente sottovalutando. Errico Novi su Il Dubbio il 20 ottobre 2022.
Il potere controlla i media. Si sa. E poi, nell’altra metà campo, c’è l’indipendenza di noi giornalisti. Tra i due fattori, libertà e potere, c’è sempre una dialettica, dagli esiti variabili. Ma qualcosa cambierebbe nel momento in cui il potere che controlla tv e giornali fosse un potere criminale.
Ecco, c’è una differenza. Un conto è il condizionamento delle grandi banche, dei grandi interessi, inevitabilmente dotati delle risorse per comprare quotidiani e altri mezzi d’informazione. Ma se l’editore è la mafia o la ’ndrangheta, cambia parecchio. E pure in un Paese come il nostro, in cui l’intreccio oscuro degli interessi è una suggestione intramontabile, ancora non siamo arrivati al punto di trovare giornali finanziati dalla malavita. O meglio: non c’eravamo ancora arrivati.
Fino a un paio di giorni fa, quando Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, si è trovato a conferire davanti a una platea di imprenditori vicentini a Schio, radunati dal locale Lions club e, secondo il report del quotidiano “L’identità”, ha detto: “Se le mafie anziché acquistare aziende cominciano a comprare, o hanno già comprato, pezzi di giornali e televisioni, lo fanno per manipolare l’opinione pubblica. Vogliono indirizzare il pensiero della gente”. Ha quindi aggiunto: “Nel dibattito politico non si parla più di contrasto alla mafia. Non avverto più la tensione morale di un tempo”. Quasi a voler condividere l’idea che il fenomeno dell’editoria criminale già è avanzatissimo e produce i suoi devastanti effetti.
Nessuno, finora, ha reagito. E un po’ restiamo interdetti pure noi. Ci sono dunque colleghi, direttori, testate, al soldo delle mafie. Sono rimasti interdetti tutti, tanto che nessuno ha replicato, né dal mondo dell’informazione né da altre parti. Su una frase gravissima come quella di Gratteri potrebbe muoversi, oltre alle rappresentanze istituzionali e sindacali di noi giornalisti, anche la Procura nazionale antimafia, che coordina le informazioni investigative particolarmente quando provengono da uffici giudiziari diversi.
Certo c’è un’altra possibilità. E cioè che sulla gigantesca e finora sottostimata denuncia di Gratteri – la mafia ha i suoi giornali e le sue tv – continui il silenzio. Vorrebbe dire che si dà per scontata una cosa, a proposito del procuratore di Catanzaro: che in qualche caso può anche volutamente esasperare il grado dell’allarme. Può essere un modo per tenere alta la vigilanza sull’illegalità, sul diffondersi del crimine. Ma in questo caso siamo noi giornalisti, per una volta, ad avere il diritto di essere informati.
Di sapere se davvero alcuni di noi sono soldatini delle cosche, stipendiati da chi è passato dalle stragi agli investimenti. Se c’è qualcosa di concreto, in quella denuncia, non chiedeteci di indagare su noi stessi. Se c’è qualcosa di accertato (non di ipotizzabile, ma di accertato) fateci leggere le carte. Su una cosa del genere, anche Gratteri ne converrà, il decreto sulla presunzione d’innocenza non imporrebbe alcun divieto.
La Cassazione gli dà di nuovo ragione. Pittelli batte Gratteri 3-0, ora liberatelo! Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Ottobre 2022
Che cosa potrebbero fare di più, i giudici di Cassazione, dopo che per ben tre volte hanno annullato i provvedimenti della magistratura di Catanzaro che ostinatamente tiene prigioniero ai domiciliari l’avvocato Giancarlo Pittelli? Le indicazioni dell’ultima sentenza, emessa nella serata di venerdì scorso, sono chiare, e il Tribunale della libertà del capoluogo calabrese non potrà che adeguarsi, e finalmente allora, si spera, l’ex parlamentare di Forza Italia potrà riavere la libertà.
Le accuse che tre anni fa portarono Pittelli in carcere, e poi ai domiciliari e poi ancora in carcere, dove il procuratore Gratteri lo vorrebbe ancora, e infine sempre prigioniero nella sua abitazione, sono state eliminate dalle sentenze della Cassazione come le foglie del carciofo. Una dopo l’altra, fino ad arrivare al cuore dell’ortaggio, che proprio cuore non è. Perché anche l’ultima imputazione, quella che tiene l’avvocato ancora con i polsi stretti nella custodia cautelare, è stata ormai demolita. È avvenuto in seguito alla presentazione di prove inequivocabili davanti ai giudici della Cassazione da parte del Presidente dell’Unione Camere penali Giandomenico Caiazza, che insieme agli avvocati Contestabile e Staiano assiste il collega catanzarese.
Potremmo aggiungere che quest’ultima “prova” presentata dai Pubblici ministeri avrebbe potuto finire da subito nella pattumiera, quella marroncina degli alimentari, insieme alle altre foglie esterne del carciofo, se le accuse che hanno riguardato Giancarlo Pittelli non fossero state così superficiali e sciatte. Come dimenticare il fatto che quando è capitato che, come si usa ancora al sud in segno di rispetto, alcuni personaggi dessero del “voi” all’avvocato, questo sia stato interpretato come sua complicità con la cosca mafiosa? Per non dire del fatto che qualche parola di gentilezza, qualche offerta di aiuto, magari per un bambino ricoverato in ospedale, sia stata scambiata per prova di sodalizio criminale. Tutti indizi che, secondo l’accusa, avrebbero rafforzato il quadro dell’appartenenza, sia pure con un ruolo “esterno”, dell’avvocato Pittelli alla cosca mafiosa.
Il cuore del carciofo porta il nome del “pentito” Mantella, e la “prova” in un’intercettazione ambientale. Una data, il 12 dicembre 2016. Pittelli è in auto con un certo signor Giamborino e parlano di quel collaboratore di giustizia. Commentano dei “sentito dire”, e l’avvocato Pittelli avrebbe rivelato al suo interlocutore che il collaboratore di giustizia avrebbe dichiarato ai magistrati un fatto che avrebbe incriminato il proprio fratello. Così i magistrati avevano dato per scontato che l’avvocato si fosse dato da fare per procurarsi in modo illegale dei verbali di interrogatorio secretati, e che avesse dei canali privilegiati per poter fare da trait-d’union con la cosca mafiosa e agevolarne l’attività criminale. La rivelazione di quella specifica dichiarazione del “pentito” sul fratello sarebbe la prova decisiva dell’attività di complice che l’avvocato Pittelli avrebbe svolto nei confronti della ‘ndrangheta.
A questo punto, domandiamoci perché i difensori del legale affermano senza ombra di dubbio che Pittelli è innocente. Perché sarebbe stato sufficiente controllare le date. A quella del 12 settembre 2016, giorno dell’intercettazione, il collaboratore di giustizia aveva già reso due interrogatori, in cui aveva parlato del fratello, effettivamente, ma solo per scagionarlo. Si parlava del prestito di un’auto, che era stata utilizzata per andare a compiere un omicidio. Mio fratello non ne sapeva niente, aveva detto Mantella. Se l’avvocato Pittelli avesse avuto accesso a quei verbali e avesse avuto l’intenzione di divulgarli per favorire la cosca e magari aiutare qualche mafioso a darsi alla latitanza, non avrebbe mai detto che il collaboratore di giustizia accusava il fratello, ma se mai al contrario che lo difendeva.
Se qualcuno, pubblico ministero o giudice avesse dimostrato più curiosità che pregiudizio, si sarebbe accorto del fatto che solo al terzo interrogatorio, cioè un mese e mezzo dopo rispetto al giorno in cui l’avvocato Pittelli fu intercettato mentre parlava con il suo assistito Giamborino, il “pentito” aveva detto che il fratello sapeva che i suoi amici stavano andando a compiere un omicidio. Lo aveva quindi accusato di complicità. Ma un mese e mezzo dopo. Dov’è quindi l’ “accesso indebito a atti omissati”? Dove è dunque finito quel quadro di “gravità indiziaria” per cui Giancarlo Pittelli deve continuare a essere prigioniero, oltre a tutto di un processo abbandonato dalla stessa procura e con due giudici su tre con la spada di Damocle delle ricusazioni?
Il processo Pittelli è tutto qui, nel cuore del carciofo. Ma è difficile dimenticare che, tra le foglie esterne del carciofo, quelle che ormai giacciono nella pattumiera marroncina degli alimentari, c’erano intercettazioni male interpretate se non manipolate, e anche l’accusa al legale di aver svelato altre notizie segrete, di cui in realtà avevano già parlato giornali e canali come Zoom. Ora la parola passa di nuovo al Tribunale della libertà di Catanzaro. Ma di foglie esterne da eliminare non ce ne sono più, è rimasto solo il cuore del carciofo. Insieme, si spera, a cuore e mente dei giudici che tengono nelle mani la vita di un imputato che, dopo tre anni di sofferenze, ha diritto a difendersi nel processo da uomo libero.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il pg della Cassazione demolisce l'imputazione. L’accusa sconfessa Gratteri: “Pittelli non è un mafioso”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Ottobre 2022
Giancarlo Pittelli non è un mafioso. Lo dice lo stesso rappresentante dell’accusa. Perché il suo sarebbe stato un concorso esterno in associazione mafiosa “dai confini assai incerti”. Così incerti da non esistere se non, al massimo, come favoreggiamento. E’ lo stesso Procuratore generale della cassazione a demolire l’imputazione nei confronti dell’avvocato calabrese voluta da Nicola Gratteri, che lo ha fatto arrestare il 19 dicembre del 2019 e lo tiene ancora prigioniero ai domiciliari. E che lo vorrebbe addirittura rimandare in galera.
Sono ormai passati tre anni da quella notte del blitz con centinaia di arresti in Calabria, una vera retata che avrebbe dovuto far tremare i polsi non solo alle cosche della ‘ndrangheta, ma a quella famosa “zona grigia” di imprenditori e politici che avrebbe dovuto squassare l’intera classe dirigente della Regione. Le cose non sono andate proprio così, e se è vero che il procuratore Gratteri sognava di diventare il nuovo Falcone, la delusione è stata grande, e l’alto magistrato è rimasto con le pive nel sacco. Che cosa è rimasto infatti della Grande Retata? Polvere e (pochi) lapilli.
Prima di tutto perché i giudici di diversi gradi, dal tribunale del riesame fino alla cassazione, hanno restituito la libertà a moltissimi imputati. Poi sono emersi, piano piano e uno dopo l’altro, una serie di errori procedurali. Perché dopo la prima ricusazione dei confronti della Presidente del tribunale di Vibo che inizialmente stava conducendo il processo, da parte della stessa Procura, le ricusazioni si sono susseguite per iniziativa di una serie di imputati nei confronti della nuova Presidente e di una delle due giudici laterali. Infine, e il fatto è clamoroso, l’aula bunker di Lamezia, fatta appositamente costruire per il processo “Rinascita Scott” e pubblicizzata per i turisti con diversi cartelli e segnaletiche stradali, in modo che chiunque vada in Calabria sappia che quello è il luogo in cui si annienterà la ‘ndrangheta, è perennemente vuota. Proprio pochi giorni fa, a firma del segretario Francesco Iacopino e del Presidente Valerio Murgano, la Camera Penale di Catanzaro ha lanciato un vero allarme.
Quello che era stato definito “il processo del secolo”, scrivono nel documento gli avvocati, è diventato solo un luogo in cui, invece di giudicare gli imputati secondo le regole della Costituzione e dello Stato di diritto, ci si limita a “sbrigare la pratica”, dimenticando che lì ci sono persone, innocenti secondo la Costituzione e non soggetti buttati in “centri di raccolta imputati”. E gli avvocati non sono comparse, obbligate a fare atto di presenza e a correre in affanno dai vari tribunali fino a quel luogo in mezzo al nulla per rincorrere i propri assistiti secondo il piacere delle toghe. Oltre a tutto toghe sempre più delegittimate dalla varie istanze di ricusazione. Una delle quali è stata presentata proprio da Giancarlo Pittelli.
Che fine ha fatto il suo “Rinascita Scott”, dottor Gratteri? Questa frase del Procuratore generale della Cassazione sui “confini incerti” del reato di concorso esterno in associazione mafiosa contestato al famoso avvocato calabrese, non le ricorda qualcosa? Altri tempi, e un altro alto magistrato, Otello Lupacchini, che parlò di “ombre lunari” e che lei riuscì a fare cacciare dalla magistratura. E il Csm che metro di misura ha usato nel paragonare i risultati tra l’attività professionale dell’uno e dell’altro procuratore? La desolazione vuota dell’aula bunker di Lamezia parla da sola. E intanto, ci spiace doverlo ricordare ancora, ma il procuratore Gratteri si è candidato all’Antimafia nazionale, alla Procura di Milano e ora a quella di Napoli. Lascia il campo, così, signor procuratore?
E l’avvocato Pittelli, colui nei cui confronti lei ha chiesto e ancora richiesto la detenzione cautelare in carcere, dopo tre anni, deve ancora essere rinchiuso per un’accusa “dai confini incerti”? Non possiamo dimenticare quel che lei aveva detto di lui, dopo gli arresti del 2019. Lei aveva sostenuto che il legale ed ex senatore della Repubblica, era la cinghia di trasmissione tra le cosche mafiose e la società civile, il mondo delle professioni, della politica e della massoneria. Esaminiamo allora, dai documenti dell’accusa e da quelli della difesa che ieri si sono fronteggiate davanti alla seconda sezione penale della cassazione, quali sono gli elementi di accusa che tengono Giancarlo Pittelli non solo imputato davanti a un tribunale composto da tre giudici di cui due ricusate, ma anche ancora vincolato alla detenzione domiciliare.
Impedito dal 2019 di svolgere una normale vita e una normale possibilità di difendersi nel processo. Di tutte le frattaglie che arricchivano il fascicolo del pubblico ministero tre anni fa, una sola accusa è rimasta, dopo aver separato il grano dal loglio. Il legale è sospettato di aver spifferato a un proprio assistito il contenuto di dichiarazioni rese al pubblico ministero da un coimputato “pentito” che, a quanto pare, si accingeva ad accusare persino i propri familiari, e in particolare il fratello. Notizie segrete, che l’avvocato Pittelli non avrebbe dovuto conoscere direttamente. Infatti ne aveva solo sentito parlare.
Perché quel giorno, la data del 12 settembre 2016 è sicura perché c’è un’intercettazione ambientale, ne avevano già parlato un giornale, il Quotidiano del sud, e un sito, Zoom 24. E addirittura le accuse al fratello saranno verbalizzate un mese dopo. Quindi Giancarlo Pittelli ha “millantato”, era stata la conclusione del tribunale di Catanzaro che aveva rigettato l’istanza dei suoi legali Caiazza e Staiano. Cioè si sarebbe vantato di qualcosa che non conosceva, ma comunque avrebbe inteso aiutare il suo assistito e di conseguenza la cosca di cui lui era il boss. La solita confusione tra imputato e difensore buttata lì dagli uomini delle procure e a volte dagli stessi giudici, non solo calabresi, di cui si lamentano costantemente gli avvocati e la Camere penali.
E’ così che siamo arrivati di nuovo in cassazione, dopo una sentenza che il 25 giugno del 2020 aveva sfrondato il testo dell’accusa da una serie di fatti che in nessun modo potevano essere qualificati come reati. E’ rimasto solo lo “spiffero”, ovvero la “millanteria”. Ma si tiene prigioniero un uomo per tre anni per un concorso “dai confini incerti?”. Sapendo anche che, qualora si fosse trattato, come ha suggerito il procuratore generale, di un semplice favoreggiamento, probabilmente le manette non sarebbero neppure state necessarie. Ma come si sarebbe potuto, in quel caso, se il principale imputato della famosa “area grigia” non era mafioso, celebrare il Maxiprocesso che avrebbe dovuto rendere il procuratore Gratteri più famoso di Falcone?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il 21 la Cassazione decide sulla misura cautelare. Giancarlo Pittelli è innocente, basta leggere le carte. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Ottobre 2022
Ci sarà pure un giudice in Cassazione, che avrà voglia di leggere la memoria degli avvocati Caiazza e Staiano, il prossimo 21 ottobre. Se c’è, se quei giudici ci sono, non potranno che stabilire quanto sia infondata la detenzione di Giancarlo Pittelli. E saranno ormai quasi tre anni da quel 19 dicembre del 2019 in cui mezza Calabria fu squassata dal terremoto di quel blitz chiamato Rinascita Scott, poi sfociato in un processo che langue destinato alla morte nell’aula bunker di Lamezia, nei giorni scorsi persino simbolicamente allagata dalla pioggia che ha determinato la sospensione dell’udienza.
L’avvocato Pittelli è ancora prigioniero, mentre il suo processo rischia l’estinzione per il moltiplicarsi delle ricusazioni nei confronti dei giudici. E il principale artefice di quel blitz, il procuratore Nicola Gratteri, è tuttora affaccendato nella speranza di una promozione che lo porti lontano da Catanzaro e dai suoi flop. L’ultimo sono le numerose scarcerazioni dopo l’ultima retata nel cosentino. Se qualcuno ha la curiosità di capire perché l’avvocato Pittelli è accusato di aver “esternamente” sostenuto una cosca mafiosa intestata al suo principale protagonista, un certo Luigi Mancuso di cui il legale è stato difensore per tantissimi anni, la memoria degli avvocati Giandomenico Caiazza e Salvatore Staiano è perfetta per cogliere tutta la pretestuosità e illogicità dell’accusa. Punto di partenza è una sentenza della corte di cassazione del 25 giugno 2020. Sono passati sei mesi dall’arresto dell’avvocato calabrese, e ancora i giornali rimbombano di una serie di episodi e episodietti che dimostrerebbero il suo ruolo di “consiglieri” di mafia.
Avrebbe raccomandato la figlia del boss per un esame universitario, e poi un bambino per un intervento ospedaliero. E addirittura nella conversazione tra due mafiosi mentre passavano davanti a casa sua, al primo che non lo conosceva e chiedeva se lui fosse un mafioso, l’altro rispondeva: “No, è un avvocato”. La cassazione aveva spazzato via tutto ciò come non-reati. Solo un comportamento di Pittelli era rimasto nelle mani dell’accusa, il sospetto che il legale fosse a conoscenza di atti investigativi segreti sulle deposizioni del “pentito” Mantella e li avesse divulgati ai suoi assistiti, in questo modo favorendo la cosca mafiosa. Un punto per l’accusa del procuratore Gratteri che pareva di una certa consistenza. Ma va sottolineato che il processo nei confronti di Giancarlo Pittelli è tutto qui. Lo ha detto la cassazione, non dimentichiamolo. Ora, che cosa ci si aspetterebbe da giudici attenti e imparziali, come devono essere coloro che siedono in mezzo alla bilancia, nel caso in cui si dimostrasse, oltre a tutto con documenti alla mano, che quella “prova” non esiste?
L’immediata scarcerazione dell’imputato, prima di tutto. Avrebbero dovuto essere presi per mano, quei giudici del Tribunale della libertà di Catanzaro che si sono persi in un labirinto di fantasie e deduzioni, tralasciando l’esame dei documenti che scagionano in modo inoppugnabile l’avvocato Pittelli dall’aver rivelato notizia riservate e inedite ai suoi assistiti per aiutare la cosca Mancuso. “La carta canta”, avrebbe detto con soddisfazione l’ex pm Tonino Di Pietro. Invece le carte sono state ignorate. La narrazione della procura di Catanzaro parte da un fatto storico preciso e da una data, il 12 settembre 2016, e da un’intercettazione ambientale tra Pittelli e un certo signor Giamborino. La cosca sarebbe “in fibrillazione” per le deposizioni del “pentito” Mantella, quindi si rivolge al legale per capire che cosa ci sia scritto nelle parti dei verbali coperte da omissis. Ed ecco qui la frase incriminata, la pistola fumante che inchioda Pittelli mentre afferma: “dice che ha scritto una lettera alla mamma, lui…accusa il fratello”. Ecco la prova! L’imputato conosceva verbali segreti del “pentito”, li propalava e li usava per aiutare la cosca.
Peccato che. Peccato che, a quella data, quella dell’intercettazione, la notizia che il “pentito” Mantella avesse scritto una lettera alla madre e che accusasse i più stretti familiari fosse già stata pubblicata dal Quotidiano del sud e fosse stata già diffusa dal sito Zoom 24. Quanto all’accusa nei confronti del fratello, Mantella la farà verbalizzare solo nell’interrogatorio di un mese dopo. Non era neanche ancora una notizia, al massimo un’intuizione, visto che i giornali parlavano di “stretti parenti”. Di fronte a questi documenti inoppugnabili, che cosa ci si sarebbe dunque aspettato da parte del tribunale della libertà? Che anche per quei giudici la parola “libertà” avesse un significato vero. Invece era accaduto che la cultura avesse preso il posto della ragione. Così quei giudici avevano preferito recitare la favola di Esopo, poi ripresa da Fedro e La Fontaine, “il lupo e l’agnello”.
Caro Pittelli, avevano sancito, se anche non mi hai intorbidato l’acqua e non hai violato la legge rivelando a un mafioso atti giudiziari segreti, allora hai commesso un altro reato, quello di “millanteria”. Cioè hai imbrogliato i tuoi interlocutori mafiosi. In questo modo li hai comunque sostenuti, vantandoti di informazioni che in realtà non avevi. Di fronte a un tale paradosso, potranno i giudici di cassazione, che già una volta sono intervenuti a sfrondare i fronzoli accusatori grattereschi, non annullare l’ordinanza del tribunale di Catanzaro? Non potranno. Appuntamento al 21 ottobre. Sperando che nel frattempo le precarie condizioni psicologiche e fisiche di Giancarlo Pittelli non mostrino ulteriori crepe.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Anche l'avvocato ricusa i giudici. Rinascita Scott, il processo che non c’è e rischia di crollare come un castello di carta. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Settembre 2022
Giancarlo Pittelli ha ricusato i suoi giudici. Due su tre, per la precisione, la presidente del tribunale Brigida Cavasino e una delle due laterali, Gilda Danila Romano. Non è il primo a farlo, e la cassazione e la corte d’appello a cascata sono state già abbastanza chiare al riguardo, le due magistrate non possono garantire l’imparzialità. Loro stesse hanno già ripetutamente richiesto di potersi astenere, ancora ieri in aula, ma il tribunale le tiene legate alla sedia. Benvenuti al “Rinascita Scott”, ormai diventato il processo che non c’è, quello in cui un imputato, l’avvocato Giancarlo Pittelli, che non è certo il più importante per la gravità del reato o per i fatti contestati, ma è ancora nel suo carcere casalingo, è accusato del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa.
Questo processo, è quello che avrebbe dovuto rendere il procuratore Gratteri pari per fama a Giovanni Falcone, quello che, in seguito al blitz del 19 dicembre 2019, tiene impegnati centinaia di imputati e almeno il doppio di avvocati e forze dell’ordine, in una mega dispendiosa aula bunker costruita appositamente a Lamezia e ormai perennemente semivuota. Con i giudici che cadono come birilli per le ricusazioni, mentre il procuratore Gratteri pare sempre impegnato altrove, a candidarsi, prima alla Direzione Nazionale Antimafia (e gli è andata male) e ora al vertice della procura di Napoli. Ma anche in qualche blitz di supporto, come l’ultimo nel cosentino, occasione di feroci polemiche con la ministra Cartabia, il premier Draghi e l’intero Parlamento, colpevole di aver approvato qualche timido provvedimento sulla presunzione di non colpevolezza. Cioè di un principio costituzionale, non di un piccolo colpo di Stato.
In questo clima quasi di abbandono, e di indifferenza nei confronti degli imputati e dei loro diritti, le due giudici incompatibili vengono strattonate e costrette a una presenza quasi solamente notarile, perché concretamente, come loro stesse sanno benissimo, non possono più giudicare una serie di imputati con la serenità dovuta e imposta anche dall’articolo 111 della Costituzione, che garantisce il giusto processo di fronte a un giudice imparziale. Perché le due non possono esserlo? Perché hanno già giudicato alcuni imputati in un processo connesso di nome “Nemea”. E perché la giurisprudenza sia della Corte Costituzionale che della Cassazione a sezioni riunite è molto chiara, soprattutto per quel che riguarda i reati “a concorso necessario”, sull’effetto trascinamento che ha la valutazione di un imputato anche sugli altri.
Il caso dell’avvocato Pittelli è chiarissimo, e gli argomenti usati dai difensori, gli avvocati Gian Domenico Caiazza (presidente dell’Unione Camere penali) e Salvatore Staiano, nell’istanza di ricusazione, molto approfonditi. La base di tutto è la recente ordinanza del 16 settembre della Corte d’appello di Catanzaro che, dopo il rinvio della cassazione, ha accolto l’istanza di ricusazione nei confronti delle due giudici avanzata dall’imputato Luigi Mancuso. Il quale, nella sentenza del processo “Nemea” nel cui collegio giudicante sedevano Brigida Cavasino e Gilda Danila Romano, era stato individuato come “soggetto apicale di una omonima cosca madre, operativa in tutta la provincia di Vibo Valentia”. Che cosa c’entra l’avvocato Pittelli con questa persona? C’entra moltissimo, perché la sua imputazione nasce proprio dal rapporto tra i due, che poi era quello tra difensore e assistito. Ma c’è di più. Nel provvedimento della Corte d’appello, viene ricordato come nell’imputazione di Luigi Mancuso viene esplicitato tra gli altri il suo fondamentale compito di “mantenere i rapporti con i colletti bianchi (professionisti, imprenditori, politici, appartenenti alla massoneria), quali Pittelli Giancarlo, di riferimento per la risoluzione dei problemi della organizzazione”.
Più chiaro di così, il legame processuale. Pittelli nel suo capo d’imputazione è accusato proprio di aver mantenuto costantemente rapporti con il capo di un’organizzazione mafiosa –definito tale proprio come ha scritto la sentenza “Nemea”– in un rapporto definito come “sinallagmatico”, cioè quello che determina obbligazioni tra le parti, “caratterizzato dalla perdurante e reciproca disponibilità a prestarsi ausilio”. Il ragionamento, in conclusione, è ben di più che deduttivo. Perché la corte d’appello di Catanzaro ha già stabilito, nell’ordinanza sulla ricusazione presentata dagli avvocati di Luigi Mancuso, che le due giudici si sono già pronunciate, con la sentenza “Nemea”, sul fatto che esista quella specifica associazione mafiosa e che Mancuso ne sia un capo, senza ombra di dubbio.
E lo ha stabilito usando indizi e prove esistenti anche nel “Rinascita Scott”. Processo in cui al fianco del boss, ma in funzione esterna, compare anche Giancarlo Pittelli, in rapporto confidenziale e strettissimo, “sinallagmatico” . Ruolo che l’avvocato calabrese non potrebbe svolgere se l’associazione non esistesse e se Luigi Mancuso non ne fosse il capo. Se tutto questo ragionamento ancora non convincesse i giudici della Corte d’appello di Catanzaro, ecco la corposa giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle sezioni unite della Cassazione a supportare l’impianto dell’istanza di ricusazione. Ne sono convinte, del resto, le stesse due giudici Cavasino e Romano. Quale è dunque il motivo vero che le tiene incollate loro malgrado alle poltrone in quell’aula? La paura che il castello di carta del processo disveli il castello di carta di tutta l’inchiesta.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il flop del procuratore di Catanzaro. Povero Gratteri, Rinascita Scott smontato come un Lego: il processo è tutto da rifare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Agosto 2022
Povero procuratore Gratteri, se gli scoppiasse nelle mani la sua creatura, quel processone “Rinascita Scott” nato con il blitz del 19 dicembre 2019 e che avrebbe dovuto renderlo più famoso di Giovanni Falcone. Dopo la ricusazione della presidente Brigida Cavasino e di una delle due giudici laterali, Gilda Danila Romano, sancita da un’ordinanza della corte d’appello di Catanzaro in seguito all’iniziativa di un imputato, saranno nulli tutti gli atti compiuti dal tribunale a partire dal 5 marzo 2021. Per capire il perché di quella data occorre fare qualche passo indietro. Fino a quel blitz del 19 dicembre 2019 con 340 arrestati e 400 indagati, e alla pompa magna mediatica che lo aveva accompagnato. Con la conferenza stampa dello stesso procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che annunciava non solo di aver sgominato il vertice della ‘ndrangheta, ma anche e soprattutto di aver individuato e colpito quella zona grigia (quella in cui Falcone non ha mai creduto) che fungeva da cinghia di trasmissione tra i boss e la società civile. Poi in realtà tutto si riduceva all’arresto di un paio di legali, di cui uno gravemente malato. Ma i riflettori venivano puntati da subito sull’avvocato Giancarlo Pittelli, perché era un personaggio famoso anche come politico, essendo stato parlamentare. Ma le cose non andarono da subito come gli uomini della Dda avevano sperato. Tra giudici delle indagini preliminari, tribunali del riesame e corte di cassazione, molti provvedimenti erano presto evaporati. Ecco allora il secondo blitz dal nome “Imponimento”, che consentiva, dopo che era stata allestita una maxi-aula a Lametia, di imbastire infine il maxiprocesso, il primo in Calabria, a coronamento del sogno di smontare la regione e poi ricostruirla come fosse un Lego.
Il problema delle incompatibilità dei giudici viene posto da subito, fin dai primi giorni del processo. Ed è sorprendentemente proprio la Dda, cioè la procura “antimafia”, a fare la prima mossa, tirando il calcio dell’asino alla presidente del collegio Tiziana Macrì. Grande sorpresa ha accompagnato in quei giorni il gesto degli uomini di Gratteri, perché era stata presa di mira una giudice stimata da tutti, lontana dalle correnti sindacali e dai convegni in cui vanno a fare la ruota del pavone tanti magistrati. E soprattutto imparziale. Come vedremo nelle vicende che seguiranno, motivi di ricusazione nei confronti della presidente, come delle due giudici laterali, in realtà ci sarebbero stati, perché proprio quelle tre magistrate avevano costituito il collegio di un altro processo, chiamato “Nemea”, un ramo collaterale di “Rinascita Scott”, in cui erano anche presenti alcuni imputati di ambedue le inchieste. Si tratta proprio del processo che può far saltare in aria oggi tutta quanta l’operazione investigativa sulle cosche della ‘ndrangheta in Calabria.
Ma il fatto singolare è che l’azione della Dda aveva messo nel mirino solo la presidente Macrì. Tra l’altro la ricusazione era apparsa da subito poco fondata, anche se convalidata dalla corte d’appello di Catanzaro. La magistrata nel 2018 quando era giudice per le indagini preliminari aveva autorizzato la proroga di alcune intercettazioni, con una motivazione in cui si alludeva a all’organizzazione di stampo mafioso. Che è poi il vero collante su cui si fondano tutte quante le indagini della procura di Catanzaro. Era parso singolare questo argomento, anche perché la cassazione, con pronunciamenti costanti, ha sempre distinto tra la responsabilità del giudice che dispone l’autorizzazione a intercettare e quella di chi si limita a consentire una proroga. Perché la Dda non ha ricusato Tiziana Macrì in quanto presidente del tribunale che aveva emesso la sentenza del processo “Nemea”? Solo ora è chiaro: perché avrebbe dovuto ricusare anche le altre due giudici. Che evidentemente godevano di maggiore stima da parte della procura. Che cosa dobbiamo dunque pensare di questa differenza di trattamento? Certo, quel ramo laterale della mega-inchiesta del procuratore Gratteri non era andato proprio bene per l’accusa: sette condanne, ma anche otto assoluzioni. E tra l’altro, grazie a quella sentenza due degli assolti erano anche usciti definitivamente anche dal processo principale. E dei due che avevano scelto il rito immediato, solo uno era stato condannato. Cioè il cinquanta per cento di quel che aveva chiesto il rappresentante dell’accusa. Forse questa sconfitta del procuratore Gratteri era stata intestata alla sola presidente del collegio giudicante del processo “Nemea”?
Se torniamo a oggi, ritroviamo ancora lo stesso dibattimento, nato da un blitz dell’ 8 marzo 2019 contro il clan Soriano di Filandari , quasi una prova generale di quello con centinaia di arresti del 19 dicembre. Finito con un disastro per l’accusa perché, non solo il numero degli assolti superava quello dei condannati, ma anche perché a questi ultimi le pene erano tate dimezzate rispetto alle richieste. Se la presidente era Tiziana Macrì, la giudice inflessibile e imparziale in seguito ricusata dagli uomini dell’ “antimafia”, non dimentichiamo che le due giudici laterali erano Brigida Cavasino (che ha poi preso il posto della dottoressa Macrì alla presidenza del tribunale che giudica “Rinascita Scott”) e Gilda Danila Romano. Se fossero state ricusabili, lo sarebbero state tutte e tre. Invece la procura di Gratteri fece un’altra scelta, quasi un’operazione chirurgica. Incomprensibile, un anno e mezzo fa.
Ma hanno provveduto gli avvocati. Una decina. Ma uno è andato a segno, il difensore di Giuseppe Accorinti, considerato uno dei tre vertici della ‘ndrangheta vibonese. Il quale ha ricusato le due giudici del processo “Nemea” (Tiziana Macrì era ormai fuori gioco) davanti alla corte d’appello di Catanzaro, che ha in un primo momento respinto la richiesta. Ma poi la cassazione ha invece accolto l’istanza e deliberato un annullamento con rinvio, che è infine sfociato nell’accoglimento della ricusazione da parte di una seconda corte d’appello. Con decisioni ballerine, perché andrebbe anche ricordato il fatto che le due magistrate avevano presentato una richiesta di astensione, che era però stata respinta prima dal tribunale di Vibo Valentia e poi dall’appello di Catanzaro. Il risultato è che, con l’ultima decisione di due giorni fa, che avrà effetto immediato anche se la procura potrebbe presentare un altro ricorso in cassazione, saranno dichiarate inefficaci tutte le decisioni del tribunale a partire da 5 marzo 2021, cioè dal giorno in cui sono stati depositati gli atti del processo “Nemea”. Una catastrofe, per il “Rinascita Scott”, perché la decisione potrebbe avere effetti a cascata, con la possibilità di arrivare alla prescrizione e anche alla revoca delle misure cautelari per decorrenza dei termini.
La possibilità di una vera deflagrazione di tutto il processo è supportata da una recente decisione della cassazione a sezioni riunite (sentenza del 16 luglio 2020 numero 37207), la famosa “sentenza Gerbino”, dal nome di un imputato per associazione mafiosa e narcotraffico che aveva ricusato il suo gup il quale, nelle more della decisione, lo aveva rinviato a giudizio. Le sezioni riunite della cassazione, innovando anche rispetto a decisioni precedenti, aveva riscontrato nel magistrato “un difetto di capacità particolare a giudicare”, attribuendo la sanzione di nullità per mancanza di imparzialità del giudice anche ad atti che non avevano natura probatoria, allargando quindi il cerchio delle possibilità a tutti i provvedimenti giurisdizionali con valenza di decisione. Questioni di tecnica giuridica e processuale, che il procuratore Gratteri e i pm della Dda dovrebbero conoscere e su cui sarebbe stato bene avessero riflettuto, prima di compiere l’operazione chirurgica con cui avevano allontanato la giudice Tiziana Macrì, quella considerata inflessibile e imparziale.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Riprendono le udienze e non si trova un giudice. Rinascita Scott a rotoli, si sbriciola il sogno di Gratteri di diventare più famoso di Falcone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Settembre 2022
Altro che soufflé che si sgonfia, qui nel forno lo troveranno carbonizzato, il processo, quando domani si riapriranno le porte dell’ormai tristissima e vuota aula bunker di Lamezia per riprendere le udienze del “Rinascita Scott”. Non sappiamo più, di questi tempi, se c’è ancora il famoso giudice a Berlino invocato dal mugnaio di Bertold Brecht, ma pare che non ce ne sia più nessuno a Vibo Valentia, dove di ricusazione in ricusazione non si sa più chi sia in grado di condurre il famoso Maxi che avrebbe dovuto rendere il procuratore Gratteri più famoso di Giovanni Falcone.
Lui stesso pare spingere lo sguardo sempre più lontano. Verso Cosenza, dove si è esibito con un nuovo blitz di duecento persone, e vedremo quante gliene resteranno, dopo i vari gradi di riesame e cassazione. E dove ha rischiato l’azione disciplinare per la nota di sarcasmo con cui ha detto che erano stati arrestati dei “presunti innocenti” di cui non poteva dire nomi né imputazioni. Mentre intanto qualcuno volantinava ai giornalisti l’intero documento dell’ordinanza del giudice. Un inciampo che potrebbe chiudergli le porte di Napoli, e la sua aspirazione a prendere il posto di Giovanni Melillo, al vertice della procura più affollata d’Italia. Ma intanto una lezione Nicola Gratteri dovrebbe averla imparata. Non tutti sono capaci di mettere in piedi un maxi-processo con centinaia di imputati. Anche perché il codice di procedura penale del 1989 dovrebbe andare in direzione opposta. E il procuratore può solo ringraziare gli interventi più conservatori (e nostalgici del sistema inquisitorio) della Corte Costituzionale, se è riuscito a mettere in piedi un baraccone che lega gli imputati tra loro solo sulla base del reato di associazione mafiosa. E che è stato già in parte demolito dai provvedimenti del tribunale del riesame e della cassazione.
La storia delle ricusazioni parte dall’iniziativa della stessa Dda, la procura antimafia di Catanzaro, che, quando il processo cominciò, sollevò l’incompatibilità della presidente Tiziana Macrì, la quale in passato in un procedimento “minore”, nella sua veste di gip, aveva autorizzato la proroga delle intercettazioni nei confronti di un imputato che riapparirà anche nel “Rinascita Scott”. La stessa giudice aveva in seguito presieduto collegi che avevano mandato assolti parecchi imputati fatti arrestare su impulso del procuratore Gratteri. Ma questo, sul piano formale, è secondario. Ed è vero che benché l’incompatibilità fosse dubbia, trattandosi solo di una proroga, probabilmente anche gli avvocati difensori l’avrebbero ricusata. Cosa che stanno facendo ora nei confronti di altre due giudici, la presidente e una laterale del collegio. Il patatrac che sta sbriciolando il maxiprocesso di Nicola Gratteri ha le impronte digitali della Corte d’appello di Catanzaro, che si è pronunciata nello scorso agosto in sede di rinvio sull’incompatibilità della presidente Brigida Cavasino e della giudice Gilda Romano. Le due magistrate, ha stabilito la corte, non possono essere imparziali nei confronti dell’imputato Giuseppe Accorinti perché hanno già espresso un giudizio su di lui nella sentenza del processo “Nemea-Rinascita Scott”. Loro stesse erano ben consce della situazione, tanto che nel marzo 2021 avevano presentato una richiesta di astensione dal maxiprocesso, che però era stata respinta sia dal presidente del tribunale di Vibo Valentia Di Matteo che dalla corte d’appello di Catanzaro.
Sembra la storia di due prigioniere, quella di queste due giudici. E noi, non conoscendo la situazione dei tribunali calabresi, ci domandiamo se non esistano a Vibo Valentia altri magistrati che non abbiamo mai messo la testa sulle carte del processone di Gratteri, oltre a loro. Perché la storia non finisce qui, purtroppo. Perché sia la decisione della cassazione del 12 gennaio che poi quella della corte d’appello del 10 agosto, accogliendo la richiesta di ricusazione dell’imputato Accorinti, hanno dichiarato l’inefficacia di una serie di atti. Si pone però subito un problema: la decisione non dovrebbe riguardare anche il giudizio su tutte le posizioni connesse, quindi altri imputati? Ah le problematiche dei maxiprocessi, dottor Gratteri! Poi la situazione si ingarbuglia perché alla ripresa del processo, pochi giorni fa, il tribunale ha disposto lo stralcio della posizione di Giuseppe Accorinti, e non avrebbe potuto farlo, senza aver prima sentito le parti. Quindi si è ricominciato daccapo. Molti difensori di diversi imputati hanno fatto notare che lo stralcio di una sola persona non risolverebbe il problema delle incompatibilità, in quanto il reato di associazione mafiosa, cioè il collante che tiene insieme tutto quanto il processo e che lega gli imputati l’uno all’altro, è un reato a “concorso necessario”. Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia, dunque.
Tutti inscindibili, come in una certa formula rituale di matrimonio latino. Tra l’altro, la principale imputazione nei confronti di Accorinti nel processo “Rinascita Scott” è quella di essere, insieme a Luigi Mancuso, Saverio Razionale e Rocco Anello, uno dei quattro capi della ‘ndrangheta del vibonese, che viene intesa come una struttura unitaria. Ancora una volta, cascano le braccia. Era proprio indispensabile mettere tutto insieme, vedere sempre il “disegno unico” e coltivare manie di grandezza invece di fare i singoli processi e magari cercare di vincerli? E di assestare qualche bel colpo processuale ai boss? Nel frattempo i pubblici ministeri della Dda di Catanzaro, che rappresentano l’accusa in aula, Antonio De Bernardo e Andrea Mancuso, vogliono mantenere le due giudici all’interno del collegio e andare avanti con il processo, dopo lo stralcio della sola posizione di Accorinti. Ma intanto –piccolo colpo di scena- sia la presidente Cavasino che la giudice Romano hanno presentato di nuovo richiesta di astensione, la prima solo nei confronti di tre imputati, l’altra verso tutti. Sarà di nuovo il presidente del tribunale Di Matteo a dover decidere. Ma insomma, domandiamo ancora, non ci sono altri giudici, in quel di Vibo Valentia? Pare ne esistano altri tre, escludendo anche la dottoressa Macrì già mandata al “sacrificio” dagli stessi uomini della procura.
Ma se qualcuno pensa che l’imbroglio sia di facile soluzione, non ha fatto i conti con gli i difensori degli altri imputati. Prendiamo per esempio la posizione di Luigi Mancuso, che sarebbe uno dei quattro importanti boss del Vibonese. La sua posizione è identica a quella di Accorinti, perché anche nel suo caso la cassazione ha rinviato a un’altra corte d’appello, che nei prossimi giorni non potrà che uniformare la propria decisione a quella dei colleghi, accogliendo le richieste di ricusazione nei confronti delle due giudici. Così si creerà un ulteriore garbuglio procedurale. Che riguarderà, a cascata, una serie di altri soggetti processuali. Tra gli altri anche Giancarlo Pittelli, che continua a essere in vinculis con un’accusa di concorso esterno basata sul fatto che avrebbe favorito proprio Mancuso attraverso la divulgazione di atti segreti, nella sua veste di avvocato. Se il tribunale del Maxi decidesse, come ha fatto di nuovo alla fine dell’ultima udienza rispetto a Giuseppe Accorinti, di stralciare la posizione di Luigi Mancuso (su cui una delle due giudici si è già astenuta) e di farlo processare da un altro collegio, per l’avvocato Pittelli verrebbe messo in scena il teatro dell’assurdo. Con chi avrebbe concorso esternamente nell’associazione mafiosa? Con uno che nel processo non c’è più? Qui le violazioni del codice di procedura si sommano e si sprecano. Certo che se il Csm, nonostante le birichinate dell’altro giorno, dovesse promuovere il dottor Gratteri e mandarlo a dirigere la procura di Napoli, sarebbe bella bollente la patata che rimarrebbe nelle mani del suo successore. Intanto vediamo che cosa succederà nella triste e vuota aula di Lametia domani mattina.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Arrestato da Gratteri e cacciato dall’Arma, il Tar: “Restituite il posto al colonnello Naselli”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Settembre 2022
La Corte di Cassazione aveva smontato l’impianto accusatorio della Procura di Catanzaro ma per il Comando generale dell’Arma era ‘colpevole’ a prescindere. È quanto capitato al colonnello dei carabinieri Giorgio Naselli, ex comandante provinciale di Teramo, arrestato nell’ambito dell’inchiesta Rinascita Scott condotta dal procuratore Nicola Gratteri. Secondo le accuse, Naselli, quando era comandante del Reparto operativo di Catanzaro, avrebbe intrattenuto rapporti ‘illeciti’ con il parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, anch’egli arrestato nella maxi retata che portò in carcere alla vigilia di Natale del 2019 ben 330 persone.
Per Gratteri, Pittelli, dopo aver avuto da Naselli la notizia “segreta” di una interdittiva antimafia in arrivo ai danni di Rocco Delfino, un imprenditore del posto, l’avrebbe comunicata all’interessato. Pittelli, nel frattempo diventato avvocato proprio di Delfino, avrebbe quindi chiesto un favore a Naselli. La prova schiacciante dell’accordo fra i due sarebbe stata una intercettazione dove il colonnello rispondendo ad una domanda di Pittelli sulla situazione di Delfino spiega che è complicata e poi dice: “Eventualmente lasciamo decantare la pratica”. Da questa frase gli investigatori avevano dedotto che Naselli avesse promesso a Pittelli un rinvio sine die del provvedimento. Circostanza non vera in quanto il provvedimento in questione era stato eseguito esattamente sei giorni dopo la telefonata. I difensori del colonnello, gli avvocati Gennaro Lettieri e Giuseppe Fonte, si erano inizialmente rivolti al tribunale del riesame, ottenendo però la conferma del quadro accusatorio. Il successivo ricorso in Cassazione, a luglio del 2020, aveva invece avuto successo, smontato in radice tutte le accuse.
“L’aggravante agevolativa dell’attività mafiosa ha natura soggettiva e si applica al concorrente solo se da lui conosciuta”, avevano scritto i giudici di piazza Cavour. Una pronuncia che “non lascia scampo alla ipotesi accusatoria, definitivamente demolita”, commentò soddisfatto l’avvocato Lettieri. “Il colonnello Naselli – aggiunse – viene restituito alla libertà, con piena dignità ed immutato onore, che nessuno della nostra comunità, in realtà, aveva mai messo in dubbio. Naselli è stato ‘punito’ senza alcuna colpa e senza alcuna verità, sacrificando i valori di civiltà e di certezza del diritto” . “La giustizia in questo paese trionfa, ormai, soltanto dopo i suoi grandi fallimenti”, aveva poi concluso Lettieri. Nemmeno il tempo di festeggiare, però, che il Comando generale dell’Arma, in fretta e furia, aveva deciso di avviare nei confronti di Naselli un procedimento disciplinare di stato, finalizzato ad accertare se il colonnello avesse ancora i requisiti morali per potere continuare a prestare servizio nell’Arma.
Il responso della Commissione di disciplina, composta da cinque generali nominati personalmente dal numero uno dell’Arma, era stato impietoso: degradazione sul campo e congedo immediato.
Il motivo di un provvedimento così severo? Quello di “aver leso il prestigio ed il decoro dell’Arma”, la classica frase di stile buona per tutte le occasioni. Una decisione che, ovviamente, non era stata accettata da Naselli il quale, dalla sera alla mattina e con quattro figli a carico, si era trovato, sulla base delle imputazioni provvisorie di Gratteri, messo alla porta e senza stipendio. Forte della pronuncia della Cassazione, come nelle migliori tradizioni, ne era allora scaturito un contenzioso amministrativo fra Naselli ed il Comando generale dell’Arma che l’altro giorno ha avuto un esito positivo. I giudici amministrativi hanno, infatti, annullato il provvedimento di destituzione del colonnello.
“Diventa contraddittorio e sintomatico di istruttoria incompleta il fatto di non aver lasciato spazio a quanto nelle more delibato dalla suprema Corte di cassazione in merito ai fatti imputati”, si legge nella sentenza del Tar, secondo cui le contestazioni a Naselli sono “indubbiamente ridimensionate”. Strano modo di agire a viale Romania: gli ufficiali condannati per aver depistato e taroccato le indagini sulla morte di Stefano Cucchi sono tutti in servizio presso gli Stati maggiori dell’Arma, alcuni anche con incarichi di comando, mentre Naselli, senza nemmeno una sentenza di primo grado, si è ritrovato degradato a soldato semplice. Sarà stata l’influenza di Gratteri sul Comando generale? Paolo Comi
Rinascita Scott, Gratteri aveva chiesto di rimuovere il segreto di Stato. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 10 agosto 2022.
CACCURI – «Io sono contrario al segreto di Stato, ritengo che vada tolto se elementi di un’indagine servono per arrivare alla verità giudiziaria, per questo avevo chiesto di toglierlo per l’inchiesta Rinascita Scott. L’Italia è il Paese dei misteri e delle ombre. Il Paese in cui si continua a mantenere il segreto di Stato per 50 anni su cose su cui segreto di Stato non doveva esserci». Lo ha rivelato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, conversando con Pietro Comito sul suo ultimo libro scritto insieme allo storico Antonio Nicaso, “La Costituzione, attraverso le donne e gli uomini che l’hanno fatta”, nell’ambito dell’undicesima edizione del Premio Caccuri.
Si è parlato molto dell’inchiesta che nel dicembre 2019 portò all’arresto di oltre 330 persone (e sfociata in processi a carico di oltre 450 imputati) e che per la prima volta svelò in modo palese intrecci tra ‘ndrangheta, massoneria e politica, volti a pilotare appalti e affari in cambio di voti e a drenare soldi pubblici.
RINASCITA SCOTT E IL SEGRETO DI STATO
Un’inchiesta quella denominata Rinascita Scott che, evidentemente, è arrivata così in alto da incrociare il segreto di Stato, se Gratteri ha chiesto la desecretazione di atti da versare nel maxi procedimento. Proprio l’esistenza del segreto di Stato impedisce all’Autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzo, anche indiretto, delle notizie sottoposte al vincolo. Filoni dell’inchiesta Rinascita Scott potrebbero, dunque, riservare nuovi colpi di scena con la rimozione del segreto di Stato perché, forse, quegli intrecci tra ‘ndrangheta, massoneria e politica sono ancora più stretti.
Non a caso quando Comito, accennando alle sue origini vibonesi, ha parlato di «provincia liberata dopo l’operazione Rinascita», incentrata appunto contro le cosche vibonesi, Gratteri ha annunciato che la Dda da lui guidata «farà ancora tanto nel distretto di Catanzaro» ricordando che «la ‘ndrangheta più dura è quella delle province di Vibo e Crotone», i territori in cui «c’era bisogno di uno sforzo ulteriore».
«Dobbiamo fare di più ma abbiamo bisogno della gente, a cui non chiediamo di rischiare la vita e di sovraesporsi. Quando ci avete dato il filo di Arianna non vi abbiamo mai abbandonato», ha detto ancora il procuratore facendo riferimenti alla sua grande disponibilità all’ascolto. «Se volete venire a denunciare ci siamo. Ricevo anche persone che vengono dal Nord e dall’estero, che poi indirizzo ai magistrati competenti. I calabresi non sono omertosi, se non denunciano è perché non si fidano e lo Stato li ha spesso delusi o abbandonati».
DRAGHI
Ma sono stati tanti i temi scottanti toccati da Gratteri, che non ha risparmiato critiche al Governo e ha esordito presentandosi come il «trombato procuratore nazionale antimafia», con riferimento alla bocciatura da parte del Csm che tanto ha fatto discutere.
«In 15 mesi il capo del Governo non ha mai pronunciato la parola mafia, e quando l’ho rilevato dalla Gruber il giorno dopo ne ha parlato alla mostra della Dia a Milano che forse veniva presentata per la sedicesima volta. Ma noi dal punto di vista normativo vorremmo sapere cosa è stato fatto contro la mafia, perché credo sia stato fatto il contrario di quello che serviva». Il riferimento è al discorso di Draghi che, sul finire del maggio scorso, nella sede di Milano Dia, finalmente parlò della mafia d’affari del Nord, ma anche alla contestatissima riforma della Giustizia del ministro Cartabia. Strali sull’ipocrisia del potere che Gratteri ravvisa anche quando ai convegni gli esponenti della classe dirigente si rivolgono ai giovani che sono il “futuro”.
«Il futuro è di tutti, anche del novantenne che quando fa la spesa sceglie se andare nel negozio della persona perbene o dello ‘ndranghetista. Tu adulto e potente che dici che il futuro sono i giovani, cosa fai per il loro futuro, per evitare che quei giovani siano i futuri disoccupati?».
GRAMMATICA
Un fiume in piena, Gratteri, soffermatosi anche sul dilagare dell’uso dei social da parte dei giovani. «Non accedo a Facebook, ma Facebook mi serve a qualcosa perché mi basta guardarlo dieci minuti per capire il livello di ignoranza che c’è in giro. Ci sono perfino professionisti che fanno errori di grammatica. Durante il giorno – ha ammesso il procuratore – ne devo correggere tanti di errori di grammatica. Ai giovani dico che devono studiare, e ai genitori di fare i papà e le mamme. Sgridate i figli ogni tanto, mica si traumatizzano, io sono stato preso a bastonate e cinghiate e sono ancora qua», ha detto il procuratore suscitando ilarità.
E ancora: «siamo seri, se non fanno i compiti non facciamoli andare in palestra, altrimenti come fanno a superare un concorso se non sanno scrivere in lingua italiana».
DEPISTAGGI
Gratteri, incalzato sulla sua intensa attività pubblicistica, si è poi soffermato sulle figure di cui ha scritto che più lo hanno affascinato, da Pertini, «vero padre della Nazione», a Falcone, col quale ha respinto accostamenti anche se ha ricordato che quando si candidò a consigliere del Csm ottenne soltanto 50 voti su un bacino di 500.
Ma, soprattutto, si è dilungato su quello che anche i magistrati definiscono il più grande depistaggio della storia. «Nessuno si aspettava che Falcone sarebbe stato ucciso. Avrebbe potuto essere ucciso mentre era a Roma, invece Cosa Nostra volle fare spettacolo. Tutti sapevano, invece, che Borsellino sarebbe stato ucciso. In quei due mesi saliva e scendeva da Roma anche due volte a settimana. Non poteva indagare su Capaci perché competente era la Procura di Caltanisetta. Ma se uno va a Roma ci va per mangiare il gelato o il cannolo? A Palermo sono molto più buoni. Se va a Roma ci va per parlare con persone che ricoprono importanti ruoli istituzionali, e lui segnava tutti gli incontri nella sua agenda rossa. La vedova ci dice che da Roma tornava sempre più preoccupato. Chi ha l’agenda rossa ha il filo di Arianna che porta ai mandanti della strage di Capaci».
TAPPARELLE
Ha spirito di osservazione, Gratteri, come si deve a un magistrato tra i più acuti. E quando Ugo Floro e Roberta Marzullo, i conduttori della serata, gli hanno chiesto se avesse gradito il trailer del film su Giuseppe Letizia, il dodicenne misteriosamente morto dopo aver assistito all’uccisione del sindacalista Placido Rizzotto nel 1948 (un format per la tv da un’idea di Emanuele Bertucci e per la regia di Giulia Zanfino), il procuratore ha detto che gli è piaciuto. Ma ha chiesto di verificare se «all’epoca ci fossero tapparelle verdi» come quelle che ha scorto in un fotogramma.
La prima serata del premio letterario è scivolata con leggerezza e profondità, riservando chicche inedite, come i brani del cantautore Dalen, nome d’arte di Pierluigi Virelli che ha presentato il brano “Crotone” sul dramma dell’alluvione. Suggestiva la conversazione di Cataldo Calabretta con Alessandro Riello, il pm scrittore, sul suo esordio letterario, “Delitto in contropiede”. Strepitoso il concerto di Gegè Telesforo, che a un certo punto ha lasciato la scena alla meravigliosa, riccioluta vocalist Daniela Spalletta, accompagnata dal creativo pianista Domenico Sanna, per una perla come “Zahara”. Trame di jazz e melodia siciliana. E il linguaggio universale della musica si è intrecciato con le parole per aggiungere nuove pagine a una storia che il Premio Caccuri scrive da undici anni.
Tifa Gratteri, o stai coi boss: l’alternativa umilia l’Antimafia. Giusta la manifestazione di Milano in difesa del procuratore di Catanzaro. Meno l'idea che il suo "metodo" sia l'unico possibile, collusi gli altri. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'8 luglio 2022.
Le Camere penali calabresi hanno dichiarato uno “sciopero” per il 14 e 15 luglio – due giorni di astensione dalle udienze – contro un’amministrazione della giustizia nella regione che considerano ormai lesiva dello stato di diritto. C’è un dato che è incontrovertibile: la Calabria detiene il record nazionale di persone dichiarate innocenti dopo gli arresti e il processo; record di errori giudiziari, insomma.
In alcuni casi, si è calcolato che meno del 20 percento degli arrestati sia stato poi considerato colpevole: su dieci, per dire, due colpevoli e otto innocenti – dopo anni di carcere duro. È un dato mostruoso. Né vale dire che proprio perché siamo in Calabria è normale che ci siano tanti processi per’’ndrangheta con tanti imputati: cos’è – arrestiamoli tutti, poi Dio riconoscerà gli innocenti? E a meno di pensare che tutti i giudici giudicanti, al contrario dei procuratori, siano al soldo della mafia, quello è un dato indicativo. Indicativo, cioè, di un “modo” di procedere – che è stato anche definito “pesca a strascico” – in cui si fanno operazioni “spettacolari” con grancassa mediatica, con centinaia di arresti, con abuso nell’applicazione e mantenimento delle misure cautelari, che però poi non reggono alla prova dei fatti e del giudizio. Ma quelle vite, e le comunità dove sono inserite, ne rimangono ferite a morte per sempre.
La lotta alla ’ndrangheta è una questione prioritaria, fondamentale, per la Calabria e per il paese tutto. E la mobilitazione civile – la stessa formazione di una cultura sociale – ne sono un importante complemento, forse anzi la vera speranza, insieme alle opportunità di creare lavoro per i giovani, per lo sradicamento di una piaga parassitaria che è economica oltre che sociale. Ma in nome della lotta alla ’ndrangheta è sbagliato, è controproducente, è immorale sacrificare vite civili. Ancora, a esempio di “distorsioni”: va sempre più manifestandosi una forte perplessità riguardo l’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati alla criminalità organizzata – al limite stesso della costituzionalità e in cui comunque è diventata marginale la valorizzazione imprenditoriale prevalendo piuttosto un modello di tipo assistenziale, spesso fallimentare. Non tutto è così, e ci sono splendidi esempi di valorizzazione e di “restituzione” alla società: ma, spesso, quest’azione di “complemento” a quella giudiziaria ha finito con il penalizzare attività economiche sane. Parliamo di imprenditori per bene, parliamo di posti di lavoro. Ancora, a esempio di “distorsioni”: lo scioglimento dei consigli comunali, spesso anche reiterato, ha assunto un carattere “moralizzatore” ma dove non ci sono mai prove di effettivi reati o di partecipazione associativa; il presunto “familismo amorale” antropologico dei calabresi è diventato una leva per scardinare: a volte bastava avere un cognato o uno zio o lo zio di un cognato che era stato coinvolto in processi per ’ndrangheta e “l’ambiente” non poteva che essere infettato.
La “zona grigia” è una categoria dello spirito, non può essere un principio di accusa, dove servono prove di reato. Ma è proprio questo il punto: in Calabria si vive sotto “presunzione di colpevolezza”. È come se il “principio di Davigo” riguardo la colpevolezza “a prescindere” dei politici – «Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove» – si applicasse a tutti i calabresi che non possono non essere ’ndranghetisti, e quelli che non vengono condannati è solo perché l’hanno fatta franca. Va da sé che gli avvocati sono considerati – quando va bene – un intralcio. Ieri l’altro, a Milano, città dove la ’ndrangheta ha esteso e radicato i suoi tentacoli, si è svolta una manifestazione, voluta da oltre 150 associazioni, di sostegno al giudice Gratteri – per delle minacce ricevute di recente.
È bello che delle persone si dichiarino pronte a proteggere il procuratore Gratteri – “Gratteri non si tocca”, gridavano tutti insieme. Ma è come se quelle persone lì manifestanti – che sventolano di nuovo le “agende rosse” – dichiarassero che per loro è meno importante lo stato di diritto e più importante che si combatta la ’ndrangheta con qualunque mezzo. Se qualche vita innocente ne rimane travolta e spezzata – sarà pure un sacrificio che si può compiere. Ma questo non è bello, per niente. Il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, era presente alla manifestazione. Il senatore Morra – che sembra la figurina del feroce Saladino del giustizialismo – ci aveva qualche tempo fa spiazzato dichiarando che: «Uno Stato forte si presenta con caratteristiche di giustizia e mai di vendetta; la volontà di far sentire i muscoli dello Stato su chi non può più reagire è accanimento». Sorprendente.
Va detto che era accaduto tra una infelice dichiarazione sulla povera Jole Santelli, governatore della Calabria, morta per cancro, e un altrettanto infelice blitz contro il centro vaccinale di Cosenza, dove si era presentato con la scorta a cui aveva chiesto di identificare tutto il personale sanitario presente, a suo dire “incapace di gestire la vaccinazione”. Ieri l’altro, a Milano, il senatore Morra si è lasciato andare contro il ministro Cartabia e la sua riforma – «demolita, distrutta, devastata dalle critiche di Gratteri» – lasciando intendere che a Cartabia, e al governo Draghi, la questione della lotta alla ’ndrangheta non interessi per nulla. Questo governo è per la “normalizzazione”, ovvero non vive la ’ndrangheta come “emergenza”, e perciò il suo operato è – ancora parole di Morra – Nc, non classificato. Che sono appunto – ellitticamente per un verso e più apertamente per un altro – le stesse identiche parole del procuratore Gratteri.
Gratteri non si tocca – ci mancherebbe. Ma questa “personalizzazione” tra Gratteri e la lotta alla ’ndrangheta non fa bene alla stessa lotta alla ’ndrangheta, dato che sembra che solo Gratteri, in questo paese, la faccia, e tutti gli altri – magistrati, forze di polizia, avvocati, imprenditori, insegnanti, professionisti, giornalisti, persone comuni – esclusi i manifestanti pro-Gratteri e il signor Morra in cerca di futuro politico, in alto e in basso, siano invece collusi. Che è una cosa che proprio non si può sentire.
"La mia vita distrutta da Gratteri". Antonio Velardo, una storia semplice. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Agosto 2022.
Una storia semplice, come scriveva Sciascia. Quella di Antonio Velardo, imprenditore italoamericano, oggi poco più che quarantenne, si riassume in una storia sin troppo semplice, dopo tante peripezie. Avventure e disavventure. Successi, guai giudiziari. Accuse e assoluzioni. Nelle sue pieghe si annida quel virus tutto italiano – e forse ancor più calabrese – che unisce lo strapotere giudiziario a una diffusa cultura del sospetto. Ma raccontiamo questa storia con ordine.
Velardo, originario di Pompei – dove il padre ha una ditta edile – studia ingegneria in Inghilterra, si laurea a pieni voti. Dopo l’università vuole conquistare altre vette: quelle del cielo. E decide di prendere il brevetto di volo come pilota, negli Stati Uniti. Riesce anche lì. Si rende conto di quanto stia costando alla famiglia e vuole rendersi indipendente. Dopo lo choc dell’11 settembre però, per i piloti che vengono da fuori America, la strada si è fatta in salita. Ottiene la doppia cittadinanza ma non basta. Velardo parla bene le lingue: oltre all’italiano, l’inglese e lo spagnolo. Punta su altri settori. Sa di essere un abile venditore. Entra così nel business del real estate vacanziero, le proprietà immobiliari da vendere come seconda abitazione ai facoltosi inglesi e americani che vogliono conquistare un posto al Sole, prima alle Canarie e poi nel Mediterraneo. Empatia, ascolto e sense of business ne fanno in breve l’interlocutore preferito di decine di clienti. Poi, centinaia. Il denaro arriva, cresce l’ambizione. Bisogna smetterla di far arricchire altri intermediari, di portare acqua al mulino delle grandi agenzie. Velardo vuole mettersi in proprio. Insieme con il socio Henry Fitzsimons, irlandese, vola di fiera in fiera, di congresso in congresso, studia lo scenario delle case-vacanza. Vede che c’è una bellissima regione italiana dove un turismo internazionale di livello ancora manca, mentre il mare, le spiagge, i paesaggi sono tra i più belli al mondo. La Calabria. È l’uovo di Colombo, pensa. Non ci ha ancora provato nessuno, pensa. E insieme con il socio vanno per la prima volta a esplorare quell’angolo remoto (chissà perché) e ignorato (chissà perché) d’Europa. Quella punta di stivale da cui sembra calciato via il resto del mondo.
Mal gliene incolse, come stiamo per scoprire. I due soci, pratici del mondo anglosassone e di mercati americani, sperimentano gioie e dolori del Belpaese. Belli, i tramonti. Buona, la pizza. Ma la giungla normativa, le tasse e i balzelli pesano, e parecchio. E poi c’è la diffidenza della gente, delle autorità locali. La subcultura dell’eterno sospetto, la mentalità spesso chiusa della Calabria profonda. I due non si scoraggiano. L’obiettivo, aperta una Srl, è quello di costruire un residence sul mare con appartamenti di pregio e piscine, dove far arrivare una selezionata clientela internazionale. Inglesi e americani che avrebbero portato un turismo d’élite, pensate un po’, nel cuore della Calabria. Si affidano a uno studio legale e ai consulenti che trovano in zona. Siamo nel reggino. E tra tanti professionisti, tra qualche incoraggiamento, dopo le prime adesioni, incappano in qualche furbacchione e anche – com’è statisticamente facile – in qualcuno che sconfina nella criminalità organizzata. Comprano un terreno edificabile da un proprietario che poi scopriranno non essere uno stinco di santo. Un affiliato di una ‘ndrina locale, un ‘punciuto’. Storie di profondo Sud, dove non si distingue facilmente tra bene e male. Dove banche complici e opacità a tutti i livelli colgono i nostri impreparati. I lavori intanto sono iniziati e con quelli le richieste di denaro, sul posto, si moltiplicano. Nasce un tira e molla. Velardo e Fitzsimons capiscono di essere finiti in un covo di serpenti. Hanno inaugurato la loro struttura, Jewel of the Sea, un resort che rispetta gli standard di qualità cui puntavano. Ma il contesto è ostile. E la Ndrangheta, come uno squalo che fiuta la preda a distanza, inzia le sue danze. Arrivano prime richieste di denaro, offerte di “protezione”. E’ allora che Velardo decide di mettere tutto il capitale che ha al sicuro, in Svizzera. E dopo aver detto addio alla Calabria, e forse anche a un’Italia di cui faticano a capire le storture, ecco che li raggiunge una cartolina da Reggio Calabria. Arriva Nicola Gratteri con tutta la cavalleria. La Procura della Repubblica indaga Velardo che si trova negli Stati Uniti. In men che non si dica, viene spiccato un mandato di arresto nei suoi confronti. Il socio, Henry Fitzsimons, era a Capo Verde per dove lavorare a un altro resort. Prende un aereo per il Senegal e quando atterra a Dakar viene raggiunto dalla rogatoria e arrestato. Ha quasi 70 anni, ma poco importa: viene portato in un carcere senegalese e messo in cella con altre quaranta persone. La lotta quotidiana diventa per la sopravvivenza: si deve imporre sui detenuti più giovani per poter andare al bagno.
Era il 2011 quando due procure antimafia – quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro – lo avevano messo sotto intercettazione “perché sospettato di muovere capitali riconducibili alla ‘ndrangheta e all’IRA”, sintetizzano un po’ con l’accetta i giornalisti che ne scrivono. Gioverà riportare qui, senza indugi, che da tutte le accuse mossegli Velardo è poi risultato estraneo. Parliamo di tempi lunghi, comunque. Perché non si dice mai abbastanza quanto l’attesa sia, essa stessa, una pena accessoria. Devastante, talvolta. Dilaniante, sempre. Ma torniamo ai mandati di arresto internazionale: siamo nel 2014 e Velardo, dicevamo, si trova a Miami. Fa in tempo a telefonare a un avvocato per provare a capacitarsi di quello che sta succedendo. Interpol. Rogatoria. Arresto. Vocaboli fino ad allora sentiti solo nei film, per il giovane imprenditore. Che cade in un incubo senza capo né coda. Sotto choc, agisce d’impulso: lascia gli Stati Uniti salendo su un catamarano che prende il largo nella notte. Arriva dopo una navigazione senza mèta nel Belize, il piccolo stato centroamericano incastonato tra la provincia messicana di Cancùn e l’Honduras. Dove Velardo non conosce nessuno. “Sei un latitante”, gli fanno sapere dall’Italia. Lui che le mafie calabresi le aveva contrastate e combattute, si ritrova nel plot di un brutto remake del Padrino. Ricercato dall’Antimafia per essersi opposto al pizzo. E’ un mondo alla rovescia, quello in cui si ritrova Antonio. E lui che è stato sempre lineare, naviga seguendo l’Equatore. In Belize rimane una settimana. Dal Belize va nelle Bahamas. Poi nella Repubblica Domenicana. Guadagna tempo prezioso affinché i suoi legali possano contattare le autorità che indagano e iniziare a produrre le evidenze di una innocenza alla quale s’addossa l’onere della prova. Si muove per lui, in Italia, l’avvocato Aldo Labate, del foro di Reggio Calabria. Fa presente che non esistono indizi di colpevolezza: la Cassazione invia gli atti al Tribunale del Riesame che deve aver strabuzzato gli occhi, a leggere la vicenda. E ha revocato la misura cautelare. Revoca confermata dal Tribunale di Vibo Valentia. Velardo è libero e può difendersi: perché il paradosso delle nostre leggi è che garantiscono un diritto di difesa a metà, quando l’imputato va arrestato all’estero e non è messo nella condizione materiale di ricostruire i fatti e prendere in mano i documenti necessari a scagionarsi. Il processo in primo grado assolve Velardo per non aver commesso il fatto. La Procura rinuncia ad appellarsi. La vicenda giudiziaria si conclude così, come spesso accade: senza neanche tante scuse. Ci siamo sbagliati, lei è innocente. Arrivederci. Peccato che quei fatti rimangano lì come una ferita che non si rimargina. Nella vita professionale incidono, eccome. La comunità del business a stelle e strisce prende le distanze: che ne sanno, loro, di quante migliaia siano ogni anno le vittime di errori giudiziari in Italia? Le valutano, nei circoli che contano a New York, a Miami, a Los Angeles le statistiche che riportano il numero abnorme di archiviazioni e assoluzioni per le inchieste dell’Antimafia calabrese? Certo che no. La parola “criminal record” chiude già di per sé tutte le porte. E non parliamo della reputazione: i giornali online si scimmiottano. Copiano e incollano gli articoli l’uno dall’altro. Cercano di vendere sbandierando il mostro, poi dimenticano di aggiornare la notizia con la sua assoluzione. E quel mostro fa paura anche in Italia: esula troppo dagli schemi. Pretende di muoversi a passi svelti nel campo minato dell’edilizia calabrese, muove le mani senza paura per i fili che legano quel territorio. Non paga il pizzo. Non blandisce la politica. Non conosce nessun magistrato. Chi crede di essere? O meglio, chi è? E’ un uomo d’affari business che parla l’inglese meglio dell’italiano. Non ha santi in paradiso, eppure ha un discreto fatturato. Vende, sì. Sa vendere. Ma qualcosa dietro deve esserci. “A pensare male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, la massima andreottiana a certe latitudini vige come legge. E quando escono i leaks sul Credit Suisse, ecco che affiorano i suoi conti correnti: quelli nei quali ha provato a proteggere il capitale, legittimo, minacciato dai ricatti ndranghetisti. Ecco che ritorna la berlina. Riecco che Velardo torna carne da macello. “Riciclaggio di denaro”, dicono. E Google fa da cassa di risonanza. Il tam tam si ingigantisce. Nasce nel febbraio di quest’anno da una fonte anonima che fa avere a un consorzio di giornalisti una lunga lista di conti correnti sospetti. E in quelle liste c’è anche lui, il giovane Velardo. Eccolo, il gioco delle ombre che provano a prendere forma. Riciclaggio. Lui prova il contrario: capitale messo al riparo, risparmi salvaguardati. Derivanti da un lavoro più che pulito: meritorio. Alla luce del sole, in tutti i sensi: guadagni ricavati dall’attrazione di turismo e investimenti stranieri in Italia. Frutto di compravendite immobiliari registrate e di transizioni tracciate. Ce ne fossero, verrebbe da dire. Perché alla fine della fiera Velardo è un abile venditore con l’unica colpa di aver depositato il suo denaro in un conto corrente – come si nota, accessibile – in quella Svizzera che già dal marzo 2009 aveva abrogato il segreto bancario e permette alle autorità giudiziarie (e fiscali) italiane ed internazionali di guardarci dentro. Antonio Velardo non aspetta neanche il consiglio dei suoi avvocati: prende i suoi rendiconti e li spedisce, in allegato mail, a tutti gli indirizzi dei giornalisti che trova. “Vi prego di esaminare i miei movimenti bancari e di dirmi dove sarebbe il riciclaggio”, scrive loro. Naturalmente non otterrà risposte, ma epiteti. Accuse infamanti, con un danno reputazionale gratuito e incalcolabile. Che si protrae nel tempo, trascinandolo in un gorgo in cui gli schizzi di fango sembrano mossi ad arte, da un ventilatore piazzato non a caso. Lui si prende la briga di contattare le redazioni, una a una. Alcune leggono le carte e hanno la bontà di rimuovere i contenuti diffamatori, altri no. Le accuse fanno vendere. Come scriveva Leonardo Sciascia in Una storia semplice, quel che è sotto gli occhi di tutti è quello che si vuole far vedere. Ma non è detto che sia la realtà. Talvolta i “cattivi” sono buoni, e i “buoni” i veri cattivi.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Anm contro i penalisti calabresi: «Solidarietà ai magistrati». Il Dubbio il 17 luglio 2022. Il sindacato delle toghe reagisce alle critiche arrivate dalle Camere penali calabresi.
Solidarietà e «pieno sostegno ai magistrati calabresi» sono stati espressi dall’Associazione nazionale magistrati che, in una nota, stigmatizza quanto accaduto ieri a Lamezia Terme nel corso dell’incontro dal titolo “A tutela della libertà dei cittadini»” organizzato dal coordinamento delle Camere penali calabresi. «Si è parlato – sottolinea la Giunta Esecutiva Centrale dell’Anm – di una magistratura calabrese «soffocata dal metodo staliniano» e del processo Rinascita-Scott come «summa delle storture della malagiustizia», espressione addirittura di un «potere esercitato sulla società, sull’economia, sulla politica da un asse di ferro costituito da procure distrettuali, forze di polizia, informazione».
Per l’Anm «si tratta di affermazioni offensive, slegate da riferimenti concreti e prive di fondamento, che si traducono in un attacco indiscriminato e generico al difficile lavoro della magistratura calabrese, da sempre impegnata nella tutela della legalità e dei diritti dei cittadini».
Nel manifestare pieno sostegno ai colleghi calabresi, l’Anm «ribadisce la propria disponibilità al dialogo anche con le Camere penali, purchè nel rispetto dei reciproci ruoli, e ricordando come la tutela delle libertà dei cittadini sia assicurata proprio dall’azione di contrasto al crimine organizzato in territori angustiati dal fenomeno mafioso».
Il pm Musolino: «Le Camere penali sbagliano, non c’è una deriva autoritaria». Intervista al pm di Reggio Calabria, nonché segretario di Magistratura democratica. «Sono state rivolte accuse gravissime alla magistratura, volte a denigrare l’interlocutore con slogan privi di riscontro». Valentina Stella su Il Dubbio il 7 luglio 2022.
Stefano Musolino, pubblico ministero alla Procura di Reggio Calabria e Segretario di Magistratura democratica commenta al Dubbio il durissimo documento emanato da tutte le Camere penali calabresi per annunciare l’astensione di due giorni della prossima settimana.
I penalisti calabresi hanno lanciato un grido di allarme. Secondo loro ‘ l’andamento della giurisdizione nei Distretti giudiziari della Calabria segna un inarrestabile trend recessivo, con costante erosione dei principi fondamentali dello Stato di diritto e del garantismo penale’. Che ne pensa di questo quadro?
Credo che il documento rappresenti un’occasione persa, perché a fatti che meritano un approfondimento si associano fattoidi, slogan, e giudizi ingiusti e ingiustificati nei confronti della magistratura calabrese, esponendola al pubblico ludibrio. Tutto questo non agevola il confronto con l’avvocatura che pure come magistratura sosteniamo. Le faccio un esempio.
Prego.
Non so cosa avviene negli altri distretti, ma a Reggio Calabria ho partecipato personalmente a degli incontri per la formazione di protocolli di gestione delle udienze per venire incontro alle esigenze del foro, ai quali hanno partecipato anche le Camere penali e il Consiglio dell’Ordine. Da noi il confronto è sempre aperto: per questo siamo rimasti molto stupiti da questa modalità così faziosa e oppositiva di agire delle Camere penali. Come Magistratura democratica siamo stati gli unici a guardare in termini propositivi alla partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità e alcuni dei fatti segnalati possono essere significativi, se veri, a quello scopo. Tuttavia, presentare le questioni nei termini e nei modi scelti dal Coordinamento delle Camere Penali calabresi offre seri argomenti a chi sostiene che l’avvocatura è troppo faziosa e chiusa per svolgere adeguatamente quel ruolo.
I penalisti criticano aspramente la vicenda «degli “appelli cautelari”: l’Avvocatura ha appreso, accidentalmente, della illegittima corsia preferenziale riservata ( con circolare interna!) alle impugnazioni del requirente; una prassi “esclusiva” pensata e voluta dall’allora Presidente facente funzioni del Tribunale del Riesame di Catanzaro’.
Se fosse vero bisognerebbe intervenire. So per certo che a Reggio Calabria non è così e non riesco a immaginare una ragione per un trattamento differenziato della calendarizzazione degli appelli del pubblico ministero rispetto a quelli dei difensori. Questo è uno di quei fatti che, se veri, giustificano l’apertura di un tavolo di confronto e verifica.
Le Camere penali sostengono che la Calabria detiene il record di errori giudiziari ed ingiuste detenzioni. Questo è un fatto, non un fattoide.
Alcune Corti di Appello, come quella di Reggio Calabria, hanno alacremente lavorato su questi numeri. Nell’ultimo periodo hanno aggredito l’arretrato e consegnato i numeri relativi ai nostri distretti che poi vengono utilizzati per elaborare le statistiche nazionali. Per cui i numeri che leggiamo non riguardano un ristretto arco di tempo, ma più anni. Poi non c’è dubbio che fronteggiando la ‘ndrangheta abbiamo un numero di processi con imputati in custodia cautelare che non si registra in altri posti d’Italia.
Non dimentichiamo infine gli effetti prodotti da alcuni mutamenti giurisprudenziali come quello affermato, ad esempio, dalle Sezioni unite “Cavallo” che ha disposto il divieto di utilizzazione di intercettazioni disposte in procedimento diverso. E comunque questo è un altro tema su cui aprire un tavolo di confronto che noi non abbiamo mai negato. Anzi, alcuni di questi temi all’interno di Magistratura Democratica li abbiamo sollevati prima ancora delle Camere Penali.
Per i penalisti ‘ la deriva autoritaria non ha risparmiato neanche l’esecuzione penale’.
Attribuire alla magistratura l’avere determinato una deriva autoritaria è una accusa gravissima, volta a denigrare l’interlocutore con uno slogan privo di riscontro. Noi riteniamo che la critica ai provvedimenti giudiziari e ai comportamenti dei magistrati sia un fattore di arricchimento della nostra indipendenza ma non quando questa stessa critica è formulata in termini così spregiativi e faziosi.
Però a un detenuto di media sicurezza è stato impedito di vedere la madre morente. Intervenuto il decesso l’unica risposta è stata la videochiamata nella bara.
Non si può da un singolo caso, ove positivamente verificato, trarre un giudizio così squalificante per tutta la magistratura calabrese.
Gli avvocati denunciano altresì: ‘ stiamo assistendo a una mutagenesi del diritto penale ( il “più terribile dei poteri pubblici”), trasformato da argine alla pretesa punitiva dello Stato leviatano a strumento di “lotta sociale”, con conseguente arretramento della storia della civiltà giuridica nel nostro territorio’.
È un’altra espressione gravissima. A chi staremmo facendo la lotta sociale? E contro quale altra categoria? Siamo dinanzi all’ennesimo slogan fumoso che mi lascia davvero senza parole.
Un altro campo minato è il sistema della prevenzione che decide la morte aziendale delle imprese sane.
Credo che abbiamo ancora un problema, nonostante gli ultimi interventi legislativi, nella prevenzione cosiddetta amministrativa, parlo delle interdittive antimafia e dei provvedimenti di scioglimento dei Comuni. Mentre quella giurisdizionale funziona e funziona bene anche al fine di attenuare gli effetti deleteri di quella amministrativa, in particolare con l’istituto del controllo giudiziario volontario.
Area Dg ha chiesto al Csm una pratica a tutela per i magistrati calabresi. Si risolve così la situazione o rafforzando il dialogo tra avvocatura e magistratura.
Quella richiesta è sbagliata. A fronte di un errore della Camere penali si risponde con un altro errore che tende ancora una volta a creare contrapposizioni. Creare fazioni che si contrappongono non è il modo giusto per risolvere i problemi della giustizia calabrese. Il Csm invece dovrebbe farsi carico ad esempio delle reali disomogeneità tra il numero effettivo dei magistrati della magistratura requirente e quelli della giudicante. Questo punto è spiegato male nel documento dei penalisti ma è un segnale di allarme vero, perché incide sulla qualità del prodotto giurisdizionale, esponendo i Giudici dei distretti calabresi a carichi di lavoro e di responsabilità che non hanno paragoni nel confronto nazionale.
In nome dell’antimafia hanno massacrato lo Stato di diritto. I penalisti hanno ragione. La denuncia delle Camere penali è sacrosanta, la giusta lotta alla ’ndrangheta è diventata il pretesto per erodere i diritti. È una vera strategia della tensione. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 7 luglio 2022.
Le camere penali calabresi hanno proclamato l’astensione dal lavoro per il 14 e 15 luglio in quanto ritengono che in Calabria non ci sia la più possibilità di esercitare la professione di penalista essendo venuti meno i presupposti su cui si fonda uno Stato di diritto. Normalmente quando pensiamo ad uno Stato in cui non esistono più le garanzie fondamentali dei cittadini ci viene in mente il Cile di Pinochet, la dittatura argentina o, in tempi più recenti, la Turchia di Erdogan o la Russia di Putin. In Italia esistono certamente pericoli per la democrazia, provenienti soprattutto dallo strapotere di alcune corporazioni che operano all’interno dello Stato, ma, fortunatamente, al potere non ci sono i “colonnelli”. In Calabria non siamo ai colonnelli ma a qualcosa che se non è molto somiglia.
Andiamo con ordine. Trenta anni fa la ndrangheta era una organizzazione barbara e sanguinaria che si era appena lasciata alle spalle l’odiosa stagione dei sequestri di persona e che aveva messo a ferro e fuoco la Regione con le ricorrenti guerre di mafia. Era ancora solo una setta criminale odiata e sostanzialmente isolata in Calabria più che altrove. In quel momento storico lo Stato avrebbe potuto e dovuto circondarla e sradicarla dal territorio calabrese ed invece ci fu “chi” operando dall’interno dell’apparato statale riuscì a convincere tutti (o quasi) che per sconfiggere la ndrangheta sarebbe stato necessario sacrificare lo Stato di diritto. Iniziò la stagione della pesca con le reti a strascico. Tutte sostanzialmente fallite dopo lacrime, sangue e galera imposte a migliaia di cittadini innocenti.
Per i nuovi “strateghi” dell’antimafia importante non era sconfiggere la ndrangheta ma dare la sensazione che si stesse combattendo una titanica lotta di pochi eroi contro orde di assassini. In poco tempo si è allestito con sapiente regia un teatro: sirene spiegate nel cuore della notte, foto sui giornali, arresti di massa, attacco al cuore della democrazia elettiva con scioglimenti a catena dei consigli comunali e criminalizzando ogni voce critica con il “dire e non dire” e sostituendo le prove processuali con categorie impalpabili come l’appartenenza alla “zona grigia” o il “reato” di parentela o di amicizia. “Facimmu ammuinu” fu la parola d’ordine ed ammuino fu fatto. E fu un gioco da ragazzi persuadere i cittadini perbene ed in buona fede sulla necessità di scegliere tra “ndrangheta e barbarie” da una parte e “libertà, dignità giustizia” dall’altra.
Molti calabresi credettero nella buona fede degli antimafiosi di professione ed oggi si trovano a dover convivere con una ndrangheta cento volte più ricca e potente rispetto a trenta anni fa, e con un apparato repressivo tra i più oppressivi del Mediterraneo. Non ci credete? Due soli esempi: ieri s’è concluso il processo “bellu lavuru” che ha preso le mosse 15 anni fa tra squilli di tromba e suono di fanfara. Una retata con decine di arrestati in una sola notte e che veniva propagandata come un duro colpo alla ndrangheta. Ieri la sentenza: dei diciannove imputati ben quindici sono stati riconosciuti innocenti, quattro condannati. Meno del 20%. Alla fine della fiera ci troviamo con 15 persone tenute per tanto tempo nelle sezioni di massima sicurezza delle galere e oggi risultati estranei ad ogni sodalizio mafioso.
Meno grave ma più significative le motivazioni pubblicate nei giorni scorsi sui motivi che hanno portato allo scioglimento del consiglio comunale di Portigliola, nella Locride. Il sindaco, gli assessori, i consiglieri comunali sono tutti incensurati. Nessuno è stato mai processato e tantomeno ha ricevuto una condanna. Ma spunta qualche rapporto di polizia che non riguarda direttamente gli amministratori di Portigliola ma loro parenti o amici. Ebbene il rapporto di polizia ha più valore delle sentenze. Alla luce di quanto abbiamo appena detto vi domando: la Calabria è o non è uno Stato di polizia anche se non vige il coprifuoco e non ci sono militari ad ogni crocicchio?
La velenosa equazione “ndrangheta = Stato di diritto” s’è dimostrata falsa ed interessata ed ha prodotto solo “giustizia spettacolo” con un sistematico sacrificio di innocenti, il crollo della qualità dell’impegno politico con il progressivo emergere di una classe “politica” serva e subalterna ai nuovi poteri, uno spreco di pubblico denaro che se impiegato diversamente avrebbe potuto dare sollievo ai tanti ammalati calabresi. Intanto però lo Stato ha perso gran parte della sua base sociale perché nessuno è disposto a riconoscere la legittimità d’uno Stato che non rispetta le sue stesse regole. Rispetto a tutto ciò le Camere penali hanno deciso due giorni di astensione dal lavoro. Un notevole passo avanti anche se tradivo e forse insufficiente. Il “blocco d’ordine” (e di potere) difficilmente mollerà la presa. E comprende perfettamente che per non far scoprire il gioco deve alzare la posta attraverso la strategia della tensione che come un Moloch insaziabile si alimenta con nuove retate, manifestazioni insensate, processi-spettacolo, misure di prevenzione comminate col massimo arbitrio.
I penalisti con la loro azione hanno rotto un muro di silenzio e con la loro azione possono fare da lievito per la formazione d’un blocco democratico che coinvolga i cittadini e faccia luce sulla realtà d’una Regione tenuta alla catena e senza luce per tanto tempo. Noi ci abbiamo provato per decenni e, spesso, in perfetta solitudine. Una lotta di civiltà che va molto oltre la giustizia e che abbiamo combattuto con tutte le nostre forze pur sapendo di non poter vincere.
I togati di Area al Csm: «Difendiamo i giudici calabresi dai penalisti». La replica: «Critiche eluse». Gli avvocati penalisti calabresi hanno indetto uno sciopero lamentando una mancanza delle garanzie costituzionali per i cittadini che vengono coinvolti nella gogna giudiziaria. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 luglio 2022.
Aprire una pratica a tutela dei magistrati operanti nei distretti di Corte d’appello di Reggio Calabria e Catanzaro: è la richiesta avanzata al Csm dai togati di Area democratica per la giustizia, che denunciano la «delegittimazione» dei magistrati calabresi. «Letto il comunicato diffuso dalle Camere penali della Regione Calabria in data 1 luglio 2022; premesso che deve sempre essere riconosciuta la legittimità dell’esercizio del diritto di critica nei confronti dell’attività giurisdizionale», i togati di Area Giuseppe Cascini, Elisabetta Chinaglia, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro osservano come «nel caso di specie, in luogo di critiche puntuali e argomentate relative a specifiche attività processuali o a specifici provvedimenti organizzativi, si assista a una denigrazione generica e generalizzata dell’intera attività giurisdizionale penale svolta da tutti i magistrati operanti nei distretti calabresi, con il risultato di determinare presso la pubblica opinione una delegittimazione diffusa e indiscriminata della funzione giudiziaria, tra l’altro in distretti già interessati da pervasive forme di criminalità organizzata e da disagi socio economici».
Insomma, il clima è diventato ancora più rovente, in Calabria, dopo che le Camere penali territoriali, per la prima volta tutte insieme, hanno indetto due giorni di astensione per il 14 e 15 luglio. A stretto giro arriva la replica dell’avvocato Valerio Murgano, presidente della Camera Penale di Catanzaro: «Si è persa l’ennesima opportunità di aprire un dialogo che noi avevamo chiesto prima di annunciare l’astensione. In questa richiesta di pratica a tutela non vi è alcun riferimento ai fatti che abbiamo sottolineato nelle nostre delibere. Noi abbiamo posto, a fondamento della nostra astensione, circostanze ben precise, come, l’abuso delle misure cautelari, il record di errori giudiziari, la corsia preferenziale degli appelli cautelari riservata ai requirenti. Eppure i magistrati del Csm non entrano nel merito delle questioni né le smentiscono. Si tratta della solita difesa corporativa. Noi tutti condividiamo la lotta alla criminalità ma non possiamo rimanere inermi dinanzi alla contrazione dei diritti dei cittadini, a partire da quello alla presunzione di innocenza. Anziché chiedere l’apertura di una pratica, che non ci spaventa affatto, avrei auspicato l’apertura di un tavolo di confronto con l’avvocatura».
Ingiuste detenzioni, Reggio Calabria tra le prime dieci città in Italia. Il Quotidiano del Sud il 21 Aprile 2022.
Più di 30mila casi di “errori giudiziari” in 30 anni, con una media di mille l’anno; 50 euro di risarcimento ogni minuto per “ingiusta detenzione”, per una spesa complessiva vicina al miliardo di euro (27 milioni di euro l’anno): «Sono dati che esprimono con chiarezza l’altra faccia della medaglia dell’emergenza sistema giustizia che si ripercuote direttamente sul sistema penitenziario italiano aggravandone le criticità, evidenziando ancora una volta le storture del sistema carcerario e penale del nostro paese in cui il mondo della politica è incapace di affrontare il drammatico problema».
È quanto sostiene il segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, sottolineando che se la faccia della medaglia più conosciuta è quella del comando dei capi clan dalle celle da dove continuano a dirigere i traffici e le continue aggressioni agli agenti, questa dell’ingiusta detenzione, meno nota, crea ulteriore allarme, innanzitutto per quanti da innocenti subiscono provvedimenti di detenzione. Una vera e propria situazione di inciviltà indegna per un Paese occidentale.
Nella “speciale” classifica degli errori giudiziari tra le città con il maggior numero di casi indennizzati sette su dieci sono al Sud con Napoli (101 casi nel 2020, con il record di 5 anni di ingiusto carcere), Reggio Calabria (90), Bari (68), Catanzaro (66) e nella graduatoria delle città dove lo Stato ha speso di più in risarcimenti ai primi tre posti ci sono Reggio Calabria (circa 8 milioni di euro complessivi), Catanzaro (più di 4,5 milioni) e Palermo (4,3 milioni). Nel 2021 i casi di ingiusta detenzione sono stati 565, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 24,5 milioni di euro.
«Tutto questo accade – commenta Di Giacomo – mentre nessuno risponde degli “errori giudiziari” e la ministra Cartabia è “incartata” dalle vicende relative alle riforme che sembrano sempre ad un passo dalla conclusione per tornare, come nel gioco dell’oca, alla casella di partenza. È anche questa la prova provata dell’incapacità della politica di dare risposte ai problemi del sistema giudiziario e di quello penitenziario. Basterebbe prendere esempio dal Belgio dove lo Stato spende in risarcimento circa 20 volte in meno dell’Italia».
Conclude Di Giacomo: «Vale la pena ricordare che le valutazioni di professionalità positiva dei magistrati italiani è del 99,2%».
Disposto un nuovo giudizio del Riesame. Giancarlo Pittelli non deve tornare in carcere, la Cassazione stoppa Gratteri. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2022.
Giancarlo Pittelli non deve tornare in carcere. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, disponendo l’annullamento con rinvio ad una diversa sezione del Tribunale del Riesame dell’ordinanza che disponeva la misura cautelare in carcere per l’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia.
A chiedere che Pittelli tornasse dietro le sbarre era stata la Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. L’avvocato Pittelli sarebbe stato colpevole di aver inviato una lettera al ministro per il Sud Mara Carfagna mentre era ai domiciliari, chiedendole di interessarsi della sua vicenda giudiziaria.
Pittelli, l’avvocato calabrese detenuto da ormai quasi tre anni perché imputato nel processo “Rinascita Scott”, in corso nell’aula bunker di Lamezia, era stato ricondotto in carcere nel dicembre 2021 dopo la scoperta della raccomandata alla Carfagna, in violazione degli obblighi imposti dal regime detentivo dei domiciliari, quello di non avere rapporti con l’esterno tranne che con le persone con le quali si coabita.
In particolare la segreteria del ministro aveva inviato la missiva all’ispettorato di Palazzo Chigi che, a sua volta, l’aveva trasmessa alla Squadra mobile di Catanzaro che aveva informato dei fatti la Procura della Repubblica di Catanzaro diretta da Gratteri. I magistrati della Dda avevano quindi inviato la raccomandata al Tribunale di Vibo Valentia, chiedendo l’aggravamento della misura cautelare.
A febbraio quindi la decisione dello stesso tribunale di Vibo Valentia, ma con una diversa composizione, aveva accolto la richiesta dei legali difensori di Pittelli, Guido Contestabile e Salvatore Staiano, ripristinando i domiciliari per l’ex senatore.
Uno smacco per Gratteri e i suoi, con la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che aveva immediatamente presentato appello al Riesame, che ad aprile aveva accolto il ricorso. Nell’accogliere il ricorso il Riesame (presidente Filippo Aragona, a latere Sara Mazzotta e Roberta Cafiero) definendo l’ordinanza di scarcerazione come affetta da “vizi di logicità, ragionevolezza e coerenza argomentativa”. I giudici avevano infine anche stabilito che “nel momento in cui la presente decisione diverrà definitiva, nei confronti di Pittelli Giancarlo venga ripristinata la misura della custodia cautelare in carcere”, considerando scontato il giudizio degli ermellini.
Ma la Cassazione non ha convenuto con i giudici del Riesame, consentendo all’avvocato di restare ai domiciliari.
Stop della Cassazione alla decisione del Riesame. Perché Gratteri vuole sbattere in galera l’avvocato Pittelli, che però resta ai domiciliari. Angela Stella su Il Riformista il 19 Luglio 2022.
L’avvocato Giancarlo Pittelli, imputato nel processo “Rinascita Scott” per concorso esterno in associazione mafiosa ed altri reati, resta ai domiciliari per ora. La Cassazione ha infatti deciso l’annullamento con rinvio a una diversa sezione del Tribunale del riesame di Catanzaro dell’ordinanza con cui gli stessi giudici del riesame avevano disposto il ritorno in carcere per l’ex parlamentare di Fi. Ripercorriamo brevemente i fatti: nel dicembre del 2021 Pittelli, difeso da Salvatore Staiano, Guido Contestabile e ora anche da Gian Domenico Caiazza, era tornato in carcere per decisione del Tribunale di Vibo Valentia. Il collegio aveva accolto la richiesta della Procura di Catanzaro di aggravare, dai domiciliari al carcere, la misura cautelare cui è sottoposto Pittelli in seguito alla scoperta di una raccomandata che l’avvocato aveva inviato al ministro per il Sud Mara Carfagna.
Due mesi dopo, lo stesso Tribunale di Vibo, composto diversamente poiché il presidente era assente per malattia, aveva accolto la richiesta dei difensori di Pittelli ed aveva ripristinato i domiciliari per l’ex parlamentare, ritenendo che il tempo trascorso in carcere consentisse di “esprimere un giudizio prognostico favorevole di resipiscenza del Pittelli in punto di futuro rispetto delle prescrizioni”. Decisione impugnata dalla Dda di Catanzaro che aveva fatto appello al Tribunale del riesame che nell’aprile scorso ha accolto l’istanza e ripristinato il carcere per Pittelli. Ora la decisione della Cassazione di annullare con rinvio quest’ultima decisione del Tribunale del riesame. In attesa di conoscere le motivazioni, possiamo comunque delineare i punti principali evidenziati dalla difesa. Innanzitutto “le condizioni di salute dell’assistito sono gravemente peggiorate sia sotto il profilo organico che psicologico”, come dimostrerebbero tre perizie.
Inoltre dal diario clinico del carcere di Melfi dove era stato recluso era emerso un “elevatissimo rischio suicidario, sicché ebbe a disporsi il controllo diuturno del detenuto”. Inoltre “l’aurea che circondava la figura dell’avv. Pittelli è stata travolta dal procedimento in esame, all’avvocato, al politico, all’abile conferenziere, si è sostituito un detenuto per fatti di mafia, gravemente depresso, sull’orlo del suicidio, cui nessuno degli interlocutori di un tempo è disponibile a prestare tempo e attenzione. Tanto vale a rendere non attuale né concreto il ragionamento che individua nelle passate capacità relazionali, ormai disintegratesi, il substrato indispensabile per la proclività a delinquere dell’avv. Pittelli”.
Poi bisogna verificare in concreto se sia possibile prospettare che l’imputato si trovi dinanzi all’occasione attuale di reiterare il reato di concorso esterno. Secondo i legali “l’indagine Rinascita ha disarticolato la presunta cosca Mancuso e tutte le altre presunte cosche operanti in provincia di Vibo” e comunque “nessuna associazione a delinquere ha interesse a rapportarsi con politici o professionisti ‘bruciati’”. “Impossibile obbiettare che il patrimonio di relazioni dell’avv. Pittelli sia comunque rimasto integro nel tempo, e quindi potenzialmente idoneo a consentire a quest’ultimo di operare in maniera non lecita; l’esito della missiva inviata all’On. Carfagna lo dimostra plasticamente”. Su questo punto aggiungono i difensori “il diritto di corrispondere con i parlamentari, garantito dall’art. 18ter Op al detenuto” non può “soffrire limitazioni in capo a chi si trovi sottoposto al regime degli arresti domiciliari”.
Se è concesso a chi sta in carcere perché dovrebbe essere vietato a chi sta ai domiciliari, considerati sempre come custodia cautelare? Poi in merito al contenuto: Pittelli informava la Carfagna di voler presentare una istanza rispetto al suo stato di custodia cautelare e una interpellanza a firma Vittorio Sgarbi. “Vi è da chiedersi – scrivono gli avvocati – a cosa si è voluto riferire il Tribunale di Catanzaro la dove si scorge l’intenzione di Pittelli di intraprendere iniziative volte a incidere sullo svolgimento del processo, giacché le stesse non possono identificarsi in un’istanza prevista dal codice di rito”. Infine dalla lettera “non traspare alcun contatto vietato”. Angela Stella
L'accanimento contro l'avvocato. Gratteri contro Pittelli, perché il procuratore si è accanito con l’avvocato coinvolto in Rinascita Scott. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Luglio 2022.
I referti medici gli attribuiscono un “disturbo depressivo maggiore grave con manifestazioni psicotiche”, il “ritmo sonno-veglia fortemente alterato” e preoccupanti tremori dovuti all’uso di farmaci. I suoi avvocati ne reclamano la libertà, ma il Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e con lui il tribunale del riesame gli vogliono rimettere le manette ai polsi e rispedirlo dai domiciliari al carcere. La parola definitiva alla cassazione. Ingorgo di processi nei giorni scorsi per Giancarlo Pittelli, l’avvocato calabrese detenuto da ormai quasi tre anni perché imputato nel processo “Rinascita Scott”, in corso nell’aula bunker di Lamezia. Ieri la cassazione, giovedi scorso l’appello.
Partiamo in ordine cronologico. Gli avvocati Guido Contestabile e Giuseppe Staiano lo avevano preannunciato nell’aula bunker e hanno mantenuto l’impegno, presentando un’istanza di revoca della detenzione domiciliare. Giancarlo Pittelli è innocente, lo hanno documentato, inoltre è un uomo settantenne molto provato da questa situazione sia nel fisico che nella psiche. Lo ha ribadito giovedì anche l’avvocato Giandomenico Caiazza, il Presidente dell’Unione Camere penali di recente entrato a far parte del collegio difensivo. All’udienza era presente anche lo stesso Giancarlo Pittelli, che ha preso la parola, mentre era stranamente assente il rappresentante della Procura di Catanzaro, quasi si desse per scontato il rigetto dell’istanza da parte dei giudici. I quali, ancor prima di toccare con mano, visivamente, quanto questi tre anni di vera tortura abbiano trasformato il brillante avvocato e uomo politico che fu Giancarlo Pittelli, avevano già mostrato una certa sensibilità anticipando al 14 luglio un’udienza che era stata già fissata per il 28 di settembre. Cambiamento di data dovuto proprio alla documentata e visibile debolezza fisica e psichica dell’imputato. Che meriterebbe, fosse anche solo per questo, di poter riacquistare la propria autonomia in modo da poter partecipare da uomo libero al processo.
Non la pensa così il Procuratore Gratteri, sempre impegnato a cercare di dimostrare come l’imputato Pittelli rivesta nel processo Rinascita Scott un ruolo di primo piano, quello di cinghia di trasmissione tra la “marmaglia” mafiosa e i piani alti, quelli della società civile della politica, dell’impresa, della massoneria. È piuttosto palese che, se si togliesse questo tassello, tutto quanto il castello dell’accusa, e soprattutto l’ipotesi di tipo ideologico, rischierebbe di franare. Tra l’altro proprio in questo periodo in cui il Procuratore di Catanzaro non nasconde le proprie ambizioni. Caduta la speranza di raggiungere il vertice dell’Antimafia, restano ancora due bocconi succulenti, quello di procuratore generale di Napoli, ruolo lasciato libero proprio da colui che lo ha appena surclassato, oppure l’ingresso in settembre al Csm. Il momento è politicamente delicato. E se il tribunale del riesame accogliesse la richiesta di scarcerazione, cosa che sarebbe quasi doverosa e sicuramente non pericolosa per la comunità, qualcuno potrebbe considerarlo un affronto personale.
È abituato bene, il procuratore Gratteri. Basterebbe ricordare quanto accaduto nello scorso aprile nell’udienza presso il tribunale del riesame di Catanzaro, presieduto da Filippo Aragona, proprio l’alto magistrato che durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario aveva proposto di far inserire il reato di associazione mafiosa tra i crimini contro l’umanità. Quel giorno si discuteva per l’appunto l’iniziativa della procura, quella che è arrivata ieri in cassazione. Si trattava dell’appello del procuratore Gratteri contro la decisione dei giudici di Vibo Valentia di scarcerare l’avvocato Pittelli, prostrato dopo venti giorni di sciopero della fame nel carcere di Melfi. Era ridotto al lumicino il legale in quei giorni, così era stato rimandato a casa. Non da uomo libero, ma sempre ai domiciliari.
La procura era immediatamente intervenuta contro quella decisione, anche con toni che in genere non si usano tra colleghi, irridendo le motivazioni nell’ordinanza di scarcerazione. Gli stessi toni sbrigativi usati dal tribunale del riesame nell’accogliere il ricorso della procura, definendo l’ordinanza di scarcerazione come affetta da “vizi di logicità, ragionevolezza e coerenza argomentativa”. I giudici avevano infine anche stabilito che “nel momento in cui la presente decisione diverrà definitiva, nei confronti di Pittelli Giancarlo venga ripristinata la misura della custodia cautelare in carcere”. Dando per scontato che la cassazione avrebbe detto signorsì.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Di fronte al potere assoluto delle toghe ai calabresi non rimane che rivolgersi a Dio. Il disimpegno, la promessa di silenzio e la riscoperta della "Fede", rappresentano un tratto comune dei “sopravvissuti” alle ricorrenti bufere giudiziarie che si abbattono sulla Calabria. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 14 aprile 2022.
Nei giorni scorsi è stato assolto dal reato di concorso in associazione mafiosa l’ex consigliere Cosimo Cherubino già capogruppo socialista nel consiglio regionale della Calabria. In verità gli assolti sono stati cinque su sei imputati. L’assoluzione avviene dopo dodici anni e di questi Cherubino ne avrà trascorsi almeno quattro in carcere. Solo qualche giornale ha dedicato un trafiletto asettico alla vicenda. Per il resto nessuna riflessione e nessuna domanda. La notizia è stata trattata come una piccola bagattella simile ad un’infrazione stradale o a fastidiosi schiamazzi d’un ubriaco in luogo pubblico. In fondo, a tutto si fa l’abitudine: i giapponesi hanno imparato a convivere con il terremoto, gli afgani con la guerra, i calabresi con la mafia e la cosiddetta antimafia.
Tuttavia ci sono due passaggi del comunicato diffuso all’ex consigliere regionale che colpiscono particolarmente ed infatti inizia con un “ringraziamento a Dio” e poi, come dovesse obbedire ad ex voto maturato in dodici anni di tormenti, promette solennemente che non sarà mai più candidato alle elezioni e di aver chiuso con la politica. Il resto della sua vita lo dedicherà alla famiglia. La Fede è sempre una bella cosa e dedicarsi alla famiglia una gran virtù. Non possiamo che rispettare la sua decisione e senza alcuna nostalgia per quel “mondo politico” . Il problema è un altro: il disimpegno, la promessa di silenzio e la riscoperta della “Fede” rappresentano un tratto comune dei “sopravvissuti” alle ricorrenti bufere giudiziarie che si abbattono sulla Calabria quasi che quando non si crede più alla giustizia degli uomini e ci si affidi a quella Celeste.
Narrano le cronache che quando nel Sud vigeva la “legge Pica” che dava agli inquisitori diritto di vita e di morte su coloro che cadevano nelle maglie della “giustizia” sommaria, i malcapitati si aggrappassero al Crocefisso percepito come ultimo argine ad un potere sadico ed impazzito. Non siamo nella stessa fase storica ma c’è chi vorrebbe riportare indietro le lancette della Storia. Facciamo qualche esempio prendendo in esame le ultime vicende che hanno colpito esponenti della politica: Mario Oliverio, da presidente della Regione, è stato esiliato e poi assolto. Il senatore Caridi è stato tenuto in carcere qualche anno. Assolto. Mimmo Tallini è stato arrestato mentre era presidente del Consiglio regionale della Calabria e costretto alle dimissioni. Arresto annullato. La sindaca antimafia di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole è stata arrestata e poi assolta. Qualche mese fa, lo stesso Lorenzo Cesa ha avuto la casa e lo studio perquisiti ed un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Era andato a pranzo con un gruppo di calabresi, quindi in fondo se l’era cercata. Ma il caso è stato archiviato. Oggi abbiamo il caso Cherubino.
Ci siamo fermati – e non a caso – a nomi noti e che in quanto tali hanno suscitato un minimo di dibattito sui giornali e nell’opinione pubblica. Le “vittime” tra la gente comune sono molti di più. Nessuno, e certo non io, invoca processi sommari o rappresaglie di alcun tipo per i magistrati che si sono resi responsabili, in così poco tempo, di tanti e gravi errori. Ma il minimo che si può chiedere è una pausa di riflessione, un momento di autonoma autocritica, una virtuosa prudenza quando si maneggia la vita degli altri. Un sostanziale rispetto delle garanze costituzionali da parte di pubblici impiegati che hanno giurato fedeltà alla Costituzione. Un minimo di cautela che dovrebbe portare a ricorre alla carcerazione preventiva, (ancora peggio nelle misure di prevenzione) che devasta la vita di una persona innocente, solo in casi estremi e rispettando non dico lo Stato di diritto ma quantomeno “l’Habeas Corpus”. Invece il “caso Pittelli” dimostra che alcune procure, come nulla fosse finora successo, utilizzano la carcerazione preventiva come una clava.
Ho già scritto di non aver mai conosciuto l’ex senatore della “destra” italiana e di considerarmi distante mille miglia dalle sue scelte politiche. Ma oggi il “corpo” di questo settantenne sballottato tra carcere ed arresti domiciliari rappresenta il guanto di sfida che un potere che si ritiene assoluto ed onnipotente lancia non solo allo Stato di diritto ma ai “lumi” della Ragione. Ma cosa potrebbe fare fuori dal carcere un vecchio malandato: darsi alla fuga tra le montagne? Inquinare le prove che sono in mano ai giudici? Ripetere il reato pur non potendo esercitare la professione? E’ difficile sfuggire alla sensazione che Pittelli, già uomo di “casta” e di “privilegi”, rappresenti uno specchio per le allodole per sviare l’attenzione dal maxiprocesso “Rinascita Scott” che si trascina stancamente in un’aula bunker semivuota e sonnolenta. Il problema non è affatto Pittelli, il dramma vero è quello di un potere assoluto che prima ancora della vittima divora il “carnefice” risucchiandolo in un delirio di onnipotenza. Dinanzi ad un tale potere perché sorprendersi se i malcapitati, oggi come due secoli fa, si rivolgono a Dio o che si ritorni alla promessa (ex voto) solenne di disimpegno, e di genuflessa obbedienza pur di salvarsi? Che aggiungere? “Dio Salvi la Calabria”!
Nella Locride festa di Liberazione dall’inquisizione giudiziaria. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 19 aprile 2022.
Ci sarà anche Pino Mammoliti, mezzo secolo di impegno politico nella Dc di Locri e avvocato, di recente assolto dall’accuso di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo essere stato condannato in primo grado a tre anni nel rito abbreviato che ne aveva chiesto dodici di carcere nel processo Mandamento, all’insolita festa della Liberazione che si svolgerà nella Locride con un minitour che dal 23 al 25 aprile toccherà Africo, Locri Epizefiri e Siderno.
Titolo manifesto “La Liberazione continua. Dagli stati di emergenza allo Stato di Diritto. In Calabria e non solo”.
Il pretesto è dato da un libro non pubblicizzato nei talk show televisivi “Quando prevenire è meglio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia” che racconta storie di imprenditori estranei alla mafia condannati da misure interdittive, di misure di prevenzioni antimafie, di comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, promosso dall’associazione di area radicale “Nessuno tocchi Caino” che da qualche tempo offre visibilità ai protagonisti di queste storie drammatiche cui i media danno poco spazio.
Saranno presenti all’iniziativa i rappresentanti più autorevoli dell’associazione: Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elena Zamparutti che daranno vita a tre panel molto vibranti per presenza garantista: gli scrittori Gioacchino Criaco e Mimmo Gangemi, il deputato Enza Bruno Bossio, sindaci ed ex sindaci, il giornalista Pasquale Motta di recente prosciolto da ogni accusa da una controversa vicenda mafiosa, il polemista molto sensibile al tema Ilario Ammendolia, l’ex senatore Pietro Fuda , rinviato a giudizio per concorso esterno quando esercitava il ruolo di sindaco a Siderno nella sciolta amministrazione comunale. La giusta iniziativa sulla Giustizia mostra solo una falla.
Nell’ampio numero di relatori non contempla magistrato o sostenitori della linea emergenziale per nulla minoritaria in Calabria, sarebbe stato meglio per avere un confronto serrato. Ma l’iniziativa è lodevole perché affronta un tema cruciale dei diritti civili cui si sente molto il bisogno di discutere e di agire per correggere molte storture. Cosimo Cherubino, capogruppo regionale del Psi, assolto dopo 12 anni, dopo averne trascorsi 4 in carcere.
Solo uno degli ultimi casi. Qualcosa non funziona. Ben venga il confronto sulla Liberazione dall’Inquisizione carceraria che colpisce troppi innocenti.
Non basta essere un pm antimafia per meritare una carriera fulminante. Il Dubbio il 23 aprile 2022.
Assolti i medici dell’Asp di Reggio Calabria che a marzo 2021 erano stati arrestati per concorso esterno in associazione mafiosa. Ora la riforma della Giustizia contenga l’incontrollabile furia moralizzatrice di alcune frange della magistratura.
Si era prodigato pure il Comandante Generale dei Ros nel dare l’annuncio urbi et orbi che il 23 marzo 2021 alcuni medici dell’Asp di Reggio Calabria, oggi pienamente assolti, erano stati mandati agli arresti domiciliari con le gravissime accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e traffico di influenze illecite con l’aggravante della finalità di agevolazione mafiosa, l’una e l’altra, a distanza di pochi giorni, significativamente vanificate dal Tribunale del Riesame per assoluta mancanza di gravità indiziaria.
In altri termini, l’Organo di Garanzia aveva statuito che non esistevano ab initio elementi in grado di giustificare la privazione della libertà per i dottori Salvatore Barillaro, Domenico Forte e Antonino Coco, evidentemente ritenuti, con gravissima superficialità, concorrenti esterni ed agevolatori della ‘ndrangheta. Eppure, nonostante l’impianto accusatorio fosse imploso già in occasione della sua prima, immediata verifica procedimentale, il pubblico ministero che aveva condotto le indagini preliminari, lungi dal prestare attenzione al “giudicato cautelare” che aveva frantumato i suggestivi postulati della tesi accusatoria, ha esercitato l’azione penale ed avanzato, di conseguenza, la richiesta di rinvio a giudizio dei professionisti.
L’esercizio dell’azione penale, come è noto, determina la transizione dallo status di indagati a quello di imputati, ed è superfluo soffermarsi sugli effetti devastanti destinati ad abbattersi su qualsiasi cittadino a causa di un “carico pendente” per pretesi “fatti” connessi alla “ndrangheta”, trattandosi di uno stigma indelebile, in grado di resistere all’esito conclusivo del processo. Oggi che è intervenuto un verdetto ampiamente assolutorio, quei medici hanno pieno titolo per lamentare che tutto ciò si sarebbe potuto e dovuto evitare se solo si fosse preso atto del giudicato cautelare, di segno opposto a quello inseguito dal pubblico ministero. Vero è che, con la requisitoria in sede di giudizio abbreviato, l’Ufficio di Procura ha correttamente chiesto l’assoluzione dei professionisti dall’accusa di concorso esterno, non senza avere rinunciato anche alla contestata aggravante ad effetto speciale della agevolazione mafiosa.
Ma è del pari vero che, nell’ambito del controllo sociale da esercitare senza timore e/o omertà su vicende che avevano generato allarme nell’opinione pubblica, oggi va puntualizzato che il mutato atteggiamento della Pubblica Accusa lo si deve ad un giovane magistrato che non si era occupato delle indagini preliminari. Il giovane Pm ha semplicemente “ereditato” il fascicolo dai colleghi, e lo ha studiato, prendendo diligentemente nota delle verifiche giurisdizionali che avevano già da tempo messo la sordina ai roboanti annunci della esecuzione dei provvedimenti restrittivi.
Ancora: l’esercizio del controllo sociale sulla vicenda giudiziaria impone che adesso la pubblica opinione sappia anche della assegnazione di un incarico semi-direttivo al pubblico ministero che aveva richiesto la misura cautelare e il rinvio a giudizio dei professionisti, pur nella significativa assenza di progressione probatoria successiva alla assoluta insussistenza di gravità indiziaria affermata dall’Organo di Garanzia.
La realtà, dunque, pone il cittadino comune davanti ad un quadro, anzi una crosta che conferma l’importanza della funzione del Giudice; ribadisce la necessità di una sostanziale riforma della Giustizia che sappia contenere l’incontrollabile furia moralizzatrice di frange estreme della magistratura requirente; colloca al centro della scena, una volta di più, l’esperienza fallimentare del “concorso esterno in associazione mafiosa”, fattispecie di reato di impropria creazione giurisprudenziale, con l’aggravante della assegnazione a essa di una missione salvifica che ha solo prodotto l’effetto di farne l’icona di una vera e propria emergenza nazionale.
Quanto basta per esigere l’immediato abbandono della corsia preferenziale sin qui fideisticamente riservata a pubblici ministeri che aspirano ad avanzamenti di carriera grazie al declamato e narrato impegno profuso sul versante della criminalità organizzata guardandosi bene dallo specificare se tale impegno, in concreto, si sia poi tradotto nel rispetto o nell’allontanamento dalla cultura della giurisdizione. Oreste Romeo, avvocato
Check point in tribunale, i penalisti calabresi: «Trattati come pericolo pubblico». Divieto di parcheggio all’aula bunker di Lamezia, controlli e sospetti nei confronti dei legali. La denuncia delle Camere penali calabresi: «Pari dignità in discussione». Valentina Stella su Il Dubbio il 7 aprile 2022.
«In difesa del prestigio dell’avvocatura e per la rimozione di ogni ostacolo alla pari dignità tra tutti gli attori della giurisdizione», è il titolo di un documento licenziato dalle Camere penali calabresi – Catanzaro, Crotone, Lamezie Terme, Vibo Valentia – per stigmatizzare quanto sta avvenendo negli ultimi giorni durante i processi contro la criminalità organizzata, a partire da Rinascita Scott e Imponimento.
«Da qualche giorno – scrivono i penalisti – agli avvocati impegnati nei processi presso l’aula bunker di Lamezia Terme è inibito, per presunte e non meglio esplicitate ragioni di sicurezza, parcheggiare le auto nello sconfinato piazzale dell’edificio giudiziario». Chi abbia emesso il provvedimento non è dato sapere. Bocche cucite da parte degli agenti e militari chiamati a garantire la sicurezza. Comunque fino a qualche giorno fa, «l’avvocatura, e non solo, vi accede(va) previo controllo da parte dei militari dell’esercito – un vero e proprio check-point – i quali registrano e annotano targa e documenti, previa verifica anche della effettività dell’impegno professionale. Inoltre, prima di accedere alla sede giudiziaria i difensori sono sottoposti ad ulteriori controlli, attraverso la verifica dell’identità personale (nuova annotazione del nome e numero di tessera professionale sul registro tenuto dalle guardie giurate della vigilanza privata) e al passaggio dal metal detector ogni qual volta si entra ed esce dall’aula».
Poiché, però, criticano i penalisti, «l’avvocato rappresenta all’evidenza un “pericolo” per l’ordine pubblico e l’incolumità personale – di chi, lo si può solo intuire», è apparso «necessario implementare i presidi di sicurezza al fine di neutralizzare la fonte di rischio, vietando l’utilizzo agli avvocati del predetto “piazzale”, già distante circa 300 mt. dall’aula». Sia inteso, precisano, «qui non si tratta di rivendicare un diritto corporativo al posto auto (ora relegato in un luogo distante circa 800 mt.); è in gioco, invece, il doveroso e reciproco rispetto che tutti gli attori della giurisdizione dovrebbero reciprocamente riconoscersi come terreno minimo comune sul quale edificare e garantire il buon andamento della vita giudiziaria». Inoltre «presso il Tribunale e la Corte D’appello di Catanzaro è stato introdotto, da pochi giorni, per i soli avvocati (non anche per magistrati, personale di cancelleria, addetti all’ufficio del processo, guardie giurate, carabinieri, fonici, etc) il controllo di borse e valigette sul nastro trasportatore del metal detector. Sicché, all’evidenza, l’avvocato è considerato come “fonte di pericolo per la sicurezza pubblica”. Nella casistica delle circostanze, dei luoghi comuni o di quant’altro possa svilire e attaccare il ruolo difensivo, questa mancava».
Il problema, secondo le Camere Penali, è che «dilaga la cultura del sospetto, l’utopia securitaria rappresenta l’ennesimo e ingiustificato attacco nei confronti dell’avvocatura, degno di un regime illiberale, in cui il difensore è avvertito come un nemico del popolo e, come tale, merita di essere avversato». La questione è stata sollevata nell’udienza del 1 aprile dall’avvocato Michele Andreano, che ha anche ricordato che «anche il bar è stato chiuso e quindi neanche una bottiglietta d’acqua si può prendere in questa maestosa Aula, ma siamo costretti anche, come dire, a portarci i viveri e le bevande». Sembrerebbe perché qualcuno tema che gli imputati a piede libero possano parlare tra loro davanti ad una tazza di caffè.
A lui, durante l’udienza, si sono poi associati altri colleghi, tra cui l’avvocato Vincenzo Comi (che è anche presidente della Camera Penale di Roma) difensore di uno degli imputati, che ci dice: «Si tratta di una vera e propria anomalia, soprattutto in un momento così delicato per l’organizzazione dei processi e per il rispetto delle prerogative difensive. Cosa sia accaduto negli ultimi giorni di così grave da inibire a noi avvocati l’utilizzo del parcheggio non è dato sapere. Durante l’udienza ho chiesto che della questione venisse investito il presidente del Coa, il presidente della Corte di Appello e quello dei penalisti del capoluogo. È come se magistrati e cancellieri entrano dalla porta principale mentre noi avvocati da quella di servizio. Questo non è tollerabile». Per tutto questo le camere penali firmatarie del documento chiedono «che il presidente della Corte e il procuratore generale del distretto di Corte D’Appello di Catanzaro, ognuno nelle rispettive competenze, revochino, con effetto immediato, i provvedimenti che hanno determinato il trattamento discriminatorio riservato all’avvocatura».
Triste Solitario y final. Mario Oliverio e il silenzio del Pd sul «populismo penale» calabrese. Carmine Fotia su L’Inkiesta il 28 Novembre 2022.
L’ex presidente della Regione Calabria, dopo l’ennesima assoluzione nei processi aperti contro di lui dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, racconta di esser stato «lasciato solo» dal partito in questi anni. «Pur essendo membro della direzione non sono stato mai convocato», dice. «La verità è che il Pd è subalterno all’ala giustizialista dei pm per codardia o perché qualcuno, come si dice dalle mie parti, ha i “carboni bagnati”, cioè ha qualcosa da temere»
«Sono stati per me anni di amarezza, personale e politica. Mi sono sentito offeso nella ragione stessa di tutta la mia vita, isolato, maltrattato, tradito dagli stessi compagni delle mie lotte, immerso in un mondo capovolto». Mario Oliverio, 69 anni, parla dopo l’ennesima assoluzione nei processi aperti contro di lui dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.
Una vita spesa prima nel Pci e poi nel Pds, nei Ds e nel Pd, Oliverio è stato uno dei più importanti leader della sinistra calabrese: consigliere comunale e poi sindaco di San Giovanni in Fiore, presidente della provincia di Cosenza, consigliere regionale, parlamentare, eurodeputato, presidente della Regione.
Nel dicembre del 2018, nell’ambito dell’Inchiesta “Lande Desolate”, l’allora presidente della Regione Calabria è accusato di corruzione e abuso d’ufficio nella realizzazione di alcune opere pubbliche. Per lui scatta l’obbligo di dimora nel comune di San Giovanni in Fiore, revocato da una sentenza della Corte di Cassazione nel marzo del 2019 che motiva la sua decisione parlando di un “pregiudizio accusatorio”. L’anno successivo Oliverio ottiene l’assoluzione con formula piena, «perché il fatto non sussiste». E per altri due esponenti del Pd, il vicepresidente della Regione Nicola Adamo e la deputata Enza Bruno Bossio, viene decretato «il non luogo a procedere». La Dda di Catanzaro diretta allora da Nicola Gratteri non oppone ricorso alla sentenza, che così passa così in giudicato. Nel secondo procedimento, relativo alla sponsorizzazione (95mila euro) di un evento nell’ambito del Festival dei due mondi a Spoleto (un’intervista con il giornalista Paolo Mieli, al fine di promuovere l’immagine della Calabria in una strategia di sostegno al turismo nella regione), viene accusato di peculato. Malgrado l’accusa chieda la condanna a quattro anni, il 10 novembre il tribunale lo assolve perché «il fatto non sussiste».
«In questi anni di enorme sofferenza sono stato lasciato solo dal Pd», racconta Oliverio, che nel 2019 contribuì all’elezione di Zingaretti a segretario con il 70% dei voti in Calabria, ma che oggi è fuori dal partito. «Pur essendo membro della direzione non sono stato mai convocato, nessuno del Pd ha aperto bocca neppure dopo la sentenza della Corte di Cassazione che annullò l’obbligo di dimora con motivazioni chiarissime, parlando di “chiaro pregiudizio accusatorio” e di provvedimento “abnorme”. Non parlò nessuno neppure dopo l’assoluzione con formula piena e nessuno ha profferito parola dopo l’ultima assoluzione. Ringrazio i tanti che mi hanno espresso la loro solidarietà in forma privata, mi aspetto che lo facciano in forma pubblica. La verità è che il Pd è subalterno all’ala giustizialista dei pm per codardia o perché qualcuno, come si dice dalle mie parti, ha i “carboni bagnati”, cioè ha qualcosa da temere».
Il fatto è che l’accanimento giudiziario contro Oliverio ha avuto risvolti politici rilevanti, che hanno cambiato la storia politica recente della Calabria. «È stato interrotto dall’azione giudiziaria un processo di rinnovamento che avevamo avviato, un processo di bonifica della regione dal verminaio degli interessi illeciti, abbiamo sciolto enti inutili e consigli di amministrazione, centri di malaffare e sottratto alla Regione la gestione di imponenti risorse e di appalti attraverso il trasferimento di funzioni ai Comuni, alle Province, alle Università. La Calabria aveva smesso di essere ultima in tutte le graduatorie a partire dalla utilizzazione dei fondi europei dove era giunta prima tra le regioni del sud», sostiene Oliverio.
«In Calabria viviamo sotto una dittatura giudiziaria», si sfoga Enza Bruno Bossio, parlamentare Dem non rieletta nell’ultima tornata. «C’è il caso Oliverio, ma anche quello del senatore Giancarlo Pittelli», dice.
La vicenda dell’ex presidente della Regione Oliverio è particolarmente significativa. Ma al neo ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Comitato per Pittelli ha chiesto se non sia meritevole della sua attenzione anche la condizione dell’ex parlamentare della Repubblica, «avvocato penalista incensurato, ormai sulla soglia dei settant’anni, in condizioni di salute precarie, privato della libertà ormai dal lontano dicembre 2019, con l’accusa infamante ma mai provata di essere “l’anello di congiunzione fra Ndrangheta e massoneria”, ben prima di qualunque processo o sentenza, il quale in questi tre anni di attesa di giustizia ha collezionato ben tre sentenze della Cassazione che hanno cancellato o ridimensionato i capi d’imputazione originari e accolto le richieste della difesa su questioni parallele al giudizio principale». Lo scorso 15 novembre, Nordio ha inaugurato il nuovo palazzo di giustizia a Catanzaro, indicandolo a modello, ma che prima di assumere la carica di Guardiasigilli aveva firmato un appello a favore dell’ex senatore.
«L’ultima motivazione per revocargli i domiciliari è stata giustificata per il fatto che si era rivolto ad alcuni parlamentari, tra cui c’ero anche io, che hanno presentato un’interrogazione parlamentare sul suo caso», racconta Bruno Bossio. Che denuncia: «Questo è il clima e il Pd non si ribella ma anzi vi si sottomette. E così abbiamo avuto leggi come la Severino che ha abolito la presunzione d’innocenza per gli amministratori locali, la spazzacorrotti che equipara i reati di corruzione a quelli di terrorismo e mafia, e la definizione del traffico d’influenze impossibile da tipizzare. Ma io non mi arrendo, anche se mi calpestano e farò fino alla fine questa battaglia nel Pd».
Non è solo la vicenda giudiziaria in sé a sconcertare. È che “Il caso Oliverio” è il paradigma di una sottomissione culturale al “populismo penale”, che uno dei massimi giuristi italiani, Luigi Ferrajoli, ha definito così: «Alimenta e interpreta il desiderio di vendetta su capri espiatori. Configura l’irrogazione di pene come nuova e principale domanda sociale e perfino come risposta a gran parte dei problemi politici».
«Io penso che la sinistra si sia sempre battuta per i diritti, per la libertà, per la garanzia delle persone. E penso che il garantismo sia lo strumento per combattere con efficacia mafia e corruzione. I polveroni, l’azione inquisitoria, in assenza di fatti e persino di indizi, utilizzata a scopo mediatico, politico, nel medio lungo periodo indebolisce la stessa credibilità della magistratura», dice Oliverio. Che cita Falcone: «“A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede. Perché da queste contestazioni poi derivano conseguenze incalcolabili. Il sospetto non è l’anticamera della verità ma del khomeinismo”». Il magistrato ucciso nella strage di Capaci, a cui spesso Gratteri viene associato da parte dei suoi sostenitori, pronunciò queste parole nella sua deposizione davanti al Csm per rispondere all’accusa di nascondere le prove dei delitti politico-mafiosi.
Caso Oliverio, la magistratura ha cambiato la storia politica. È evidente che in prossimità delle penultime elezioni regionali fu impedito ai calabresi di decidere chi avrebbe dovuto rappresentare il Pd e di conseguenza tra quali candidati scegliere il proprio Presidente. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 12 novembre 2022.
Mario Oliverio già presidente della Regione Calabria ed esponente di primo piano del Pd nazionale e regionale, è stato assolto dell’accusa di peculato perché “il fatto non sussiste”. Se ci fosse realmente il Partito democratico dovrebbe chiedere scusa non tanto a Oliverio quanto agli elettori “democratici” per la codardia che nel 2018 il Pd ha dimostrato nei confronti della Procura di Catanzaro.
È evidente che in prossimità delle penultime elezioni regionali fu impedito ai calabresi di decidere chi avrebbe dovuto rappresentare il Pd e di conseguenza tra quali candidati scegliere il proprio Presidente. Al loro posto hanno deciso oscuri burocrati. La democrazia è stata mera finzione.
A scanso di equivoci ribadiamo: criticare, anche aspramente, il governo Oliverio sarebbe stato del tutto legittimo, chiedere la sua sostituzione un fatto del tutto normale. Non votarlo una decisione democratica. Il problema è chi avrebbe dovuto decidere i nomi dei candidati e una cosa è certa a scegliere il presidente della Regione non può essere di fatto la procura della Repubblica. Non è questo il suo ruolo.
Siamo partiti dicendo che pochi giorni fa Oliverio è stato assolto ma la procura di Catanzaro aveva chiesto 4 anni di carcere. Già nel processo “Lande desolate” l’ex presidente, dopo 4 mesi e mezzo di confino politico nelle montagne della Sila, veniva assolto perché le indagini risultavano marcatamente viziate in quanto gravate da un chiaro “pregiudizio accusatorio“.
Entrambi i processi erano stati avviati a ridosso delle elezioni regionali del 2018 quando Oliverio è stato al centro d’un fuoco incrociato tra l’opposizione di centro destra e il Pd retto da un commissario che, in nome delle inchieste aperte dalla procura di Catanzaro, ha chiesto e ottenuto che il presidente uscente non venisse ricandidato. Ed infatti non fu candidato. Al posto di Oliverio il “Pd” (si fa per dire) ha scelto Pippo Callipo, già sostenitore del centro destra e che ritroveremo pochi giorni dopo l’investitura, e precisamente il 18 febbraio 2018, a manifestare solidarietà e vicinanza al dottor Gratteri perché le sue inchieste avrebbero avuto poco spazio sui giornali e in televisione (sic).
Alla manifestazione di Catanzaro aveva aderito legittimamente anche la candidata ufficiale del centrodestra. Divisi su tutto ma uniti sul sostegno a Gratteri. Cosa avrebbero scritto i grandi giornali italiani se ciò fosse successo nella Russia di Putin, in Egitto o in Turchia? Il caso Oliverio, sotto alcuni aspetti, non è meno grave di quello a Patrick Zaki. Ma è successo in Calabria e “hic sunt leones”, quindi ogni discussione sarebbe stata inutile.
L’intervento della magistratura, amplificato oltre modo dalla stampa, ha cambiato la storia politica della Calabria nel cupo silenzio dei grandi giornali, della quasi totalità degli intellettuali e degli “operatori di giustizia”. Pochi giorni fa abbiamo preso consapevolezza della gravità d’un decreto legge di sapore liberticida votato dal governo Meloni per fronteggiare i rave party.
Alcuni, soprattutto a Sinistra, secondo me giustamente, hanno invocato le “barricate” contro il decreto. Ma l’attuale governo non ha viaggiato su un vagone piombato. È il frutto del progressivo sputtanamento della democrazia, del continuo cedere ai poteri non democratici, dell’assoluta subalternità della politica ai Pm. Tutto ciò ha aperto la strada alla svolta autoritaria in atto.
A furia di invocare ordine e disciplina (per gli altri) la gente s’è convinta che si può anche sacrificare la Costituzione e così quando si prende la china giustizialista è del tutto naturale che si possa arrivare in poco tempo sulla sponda turca. In Calabria ci siamo già e non da oggi.
Fu indagato a ridosso del voto: assolto l’ex governatore Oliverio. All'epoca, per l'inchiesta coordinata dalla procura di Catanzaro, il governatore della Calabria rinunciò alla ricandidatura per la guida della Regione. Simona Musco su Il Dubbio l’11 novembre 2022
Ancora un’assoluzione per l’ex governatore della Calabria Mario Oliverio. L’ultima riguarda l’accusa di peculato, per la quale la procura di Catanzaro aveva chiesto una condanna a quattro anni. Oliverio era finito a processo a novembre del 2020 assieme all’imprenditore spoletino Mauro Luchetti e l’ex parlamentare del Partito democratico Ferdinando Aiello (per i quali era stata chiesta una condanna a 2 anni e otto mesi). L’inchiesta, coordinata dal pm Graziella Viscomi, ruotava attorno alle presunte irregolarità relative all’uso di quasi 100mila euro della Regione Calabria.
I fatti risalgono all’estate 2018 quando, nell’ambito del Festival dei Due Mondi a Spoleto, l’allora governatore partecipò agli Incontri di Paolo Mieli organizzati per molte edizioni del Festival da Hdrà di Luchetti. Secondo la procura, l’iniziativa venne finanziata con fondi della Regione destinati alla promozione turistica, spesi per finalità privatistiche di promozione politica dello stesso governatore. I 100mila euro, nell’ipotesi investigativa, sarebbero stati spesi per pagare uno spot di due minuti che non sarebbe mai andato in onda, un’intervista con l’ex direttore del Corsera Paolo Mieli, il pernottamento, il vitto ed i comfort per i vip ospiti del Festival di Spoleto. Ma non solo: quei soldi sarebbero serviti anche per pagare una cena di gala per sessanta ospiti, per il noleggio delle berline per gli spostamenti dei vip e 500 copie di uno dei libri di Mieli stampate da Mondadori. Subito dopo la notizia dell’inchiesta,
Oliverio accusò la procura di agire ad orologeria proprio poco prima delle elezioni regionali, alle quali poi non si presentò. «Caratterizzare questa fase immediatamente a ridosso delle elezioni regionali significa condizionare oggettivamente quelle che sono le vicende politiche – commentò all’epoca -. Però se i processi non si fanno se non dopo anni e magari si fissa anche al punto giusto una udienza per condizionare le scadenze, credo che debba fare riflettere ai fini della sostanza democratica». Anche nell’intervista rilasciata a Mieli, spiegò «c’è stata una promozione della Calabria perché il massimo rappresentante della Calabria che viene intervistato in una sede come quella non promuove se stesso, ma promuove la Calabria».
Per il Tribunale di Catanzaro, che ha assolto anche gli altri imputati, il fatto non sussiste. E si tratta della seconda assoluzione per l’ex governatore, già coinvolto nell’inchiesta “Lande desolate”, dalla quale uscì pulito, anche allora con la stessa formula assolutoria. La procura generale di Catanzaro decise di non impugnare quella sentenza, ma l’indagine, nel 2018, costrinse l’allora presidente a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. E proprio a causa di quell’inchiesta fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra.
Ciò nonostante la Cassazione, nell’annullare l’obbligo di dimora disposto dal gip, lo avesse definito «oggetto di un chiaro pregiudizio accusatorio», con il quale l’accusa avrebbe attribuito al politico la condivisione delle modalità fraudolente con cui dovevano essere finanziate alcune importanti opere per la Regione Calabria. In quelle sentenze, aveva spiegato Oliverio al Dubbio, «c’è una risposta chiara a quella che è stata l’inconsistenza e la gravità di un’inchiesta che mi ha fatto finire in un tritacarne mediatico per anni. Non solo, è stata questa la vera ragione per cui il Pd ha detto no alla mia candidatura».
Su quel pronunciamento della Cassazione, aveva evidenziato, «i dirigenti nazionali del Pd non hanno detto una parola». Nemmeno dopo la sentenza, pronunciata dopo le elezioni e, dunque, con il problema delle liste per le candidature già superato. «Ora ci si arrampica sugli specchi, ma era evidente anche alle pietre in Calabria e non solo – che la ragione era quella. C’è stato un atteggiamento supino e subalterno, non so per quali ragioni, ma la linea scelta è stata questa e segna il comportamento del Pd sulle problematiche della giustizia».
Estratto dell’articolo di Ermes Antonucci per “Il Foglio” il 10 novembre 2022.
"E' stato un incubo. Fino al 2019 avevo un'azienda che fatturava oltre venti milioni, oggi circa sei. Ho dovuto licenziare decine di dipendenti. Sono stato trattato come un presunto colpevole". Inizia così il racconto al Foglio di Mauro Luchetti, presidente del gruppo di comunicazione ed eventi Hdrà, assolto martedì dal tribunale di Catanzaro insieme all'ex presidente della regione Calabria, Mario Oliverio, e all'ex parlamentare Ferdinando Aiello, dall'accusa di peculato. L'ultimo flop di Nicola Gratteri.
La vicenda esplose nell'agosto 2019, finendo sulle prime pagine dei giornali. La procura di Catanzaro accusò l'allora governatore Oliverio di aver utilizzato oltre 95 mila euro di fondi pubblici, destinati alla promozione turistica della regione Calabria al "Festival dei due mondi" di Spoleto, per finalità ritenute "privatistiche".
In precedenza, la procura guidata da Gratteri aveva aperto nei confronti di Oliverio altre due inchieste ben più pesanti, una per corruzione e abuso d'ufficio (che poi si è chiusa con l'assoluzione definitiva dell'ex governatore), un'altra in cui gli stessi pm hanno poi chiesto l'archiviazione. Un'iniziativa giudiziaria su larga scala che demolì l'immagine di Oliverio, poi non riconfermato governatore alle successive elezioni regionali.
In questo ambito si collocò anche l'indagine sulla partecipazione di Oliverio al Festival di Spoleto. Nel 2018 la Regione Calabria decise di contribuire al format "I dialoghi di Paolo Mieli", ideato dal gruppo Hdrà, [....] sponsorizzando l'evento con 95 mila euro al fine di promuovere la Calabria.
Il marchio della regione calabrese comparve in tutti gli appuntamenti dell'ex direttore del Corriere della Sera, che nel corso del Festival intervistò personaggi come Raffaella Carrà, Paola Cortellesi, Franca Leosini, Gabriele Muccino e Marco Travaglio, oltre che lo stesso Oliverio. Venne anche organizzata una cena di gala a base di prodotti tipici calabresi. Nonostante ciò, per gli inquirenti si era trattato soltanto di una "promozione politica" dell'allora governatore, tesi ora smentita dai giudici, che hanno assolto Oliverio, Luchetti e Aiello perché "il fatto non sussiste".
"Io non ho nulla contro i magistrati, che fanno il loro mestiere", dice Luchetti, per il quale i pm avevano chiesto una condanna a due anni e otto mesi. "Sono stato indagato, processato e assolto, sono contento così. Ma è da rivedere tutto quello che sta in mezzo a queste vicende giudiziarie: i risvolti mediatici, il comportamento delle banche, le conseguenze sulla propria reputazione e sulla propria vita personale". […]
Ennesimo flop di Gratteri: Mario Oliverio ancora assolto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Novembre 2022
Non fu peculato: assolto a Catanzaro di nuovo Mario Oliverio, ex Presidente della Regione Calabria. E intanto a Reggio, Giuseppe Falcomatà, condannato anche in appello a un anno di reclusione per abuso d’ufficio, è un “sindaco sospeso” in eterno, a causa della legge Severino. I giudici di Catanzaro hanno assestato un altro sonoro schiaffone alla Procura di Catanzaro e al loro capo Nicola Gratteri, oltre che a quel Pd che in questi anni ha preferito sacrificare i suoi figli migliori e lasciar distruggere il partito in Calabria pur di inseguire i pubblici ministeri e il Movimento cinque stelle. La vicenda di oggi è piccola cosa rispetto alla storia del recente passato.
Ma non è insignificante nella vita di una persona, di un uomo politico costretto a vivere con inchieste a raffica sulla propria testa. Secondo l’accusa i 95.000 euro che la giunta calabrese aveva speso nel 2018 per promuovere le bellezze turistiche della regione partecipando al “Festival dei due mondi” a Spoleto, e al talk “I dialoghi di Paolo Mieli”, erano in realtà serviti per pagare “una personale promozione politica” del Presidente Oliverio e del suo partito. Insieme a lui erano accusati anche il deputato del Pd Ferdinando Aiello e l’organizzatore di eventi Mario Luchetti. Il pubblico ministero aveva chiesto quattro anni di carcere per Oliverio e due anni e otto mesi per gli altri due imputati. Il tribunale ha assolto. Gli uffici del procuratore Gratteri hanno dimostrato anche questa volta di non demordere mai. Quasi mai, per la precisione. La notizia è passata inosservata, nessuna conferenza stampa né interviste televisive quando, dopo la clamorosa assoluzione dello stesso Oliverio nell’inchiesta “Lande desolate”, quella che ha cambiato il destino politico della Calabria, la Dda di Catanzaro prendeva la ancor più clamorosa decisione di non ricorrere in appello.
Il che sarebbe un fatto apprezzabile, in generale, ma in questo caso interpretabile solo come disperazione, dopo che la Cassazione prima e poi la stessa Europa, titolare dei fondi che sarebbero stati usati per alimentare corruzione e malaffare, avevano addirittura irriso le modalità con cui gli uomini di Gratteri avevano condotto le indagini. Avevano puntato gli occhi sulla seggiovia di Lorica, la realizzazione di piazza Bilotti a Cosenza e l’aviosuperficie di Scalea. Tutte opere realizzate con i fondi europei. Qui c’è puzza di bruciato, aveva detto il procuratore Gratteri, e in un’intervista a Rai 1 dichiarava che “con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ‘ingrassare’ alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte”. E aveva chiesto per Oliverio la detenzione, che il gup non aveva condiviso neanche nella forma domiciliare, decidendo però per il Presidente della Regione il confino al suo paese, San Giovanni in fiore, provincia di Cosenza. Molto comodo, per amministrare.
Altri giudici poi, quelli della cassazione, lo avevano liberato, accusando anche gli uomini della Dda, che avevano basato le loro accuse solo su alcune intercettazioni, di scarso senso dell’ironia, scrivendo nelle motivazioni dell’annullamento della misura cautelare che “la chiave di lettura delle conversazioni lette e interpretate senza considerare l’intonazione canzonatoria e irriverente assunta dagli interlocutori…muove dal chiaro pregiudizio accusatorio”. Pregiudizio, dunque. Un sospetto molto grave, per un magistrato. Ma l’altro fatto grave, mentre montava la gogna mediatica ispirata anche da ambienti istituzionali, è che l’Unione Europea, sempre cauta nel controllare la destinazione dei fondi erogati, aveva, per “ragioni prudenziali”, bloccato 131 milioni di euro destinati alla Regione Calabria. Un bel danno economico dunque, unito a quello politico e mediatico. Saranno poi proprio i tecnici europei, già nel novembre del 2019, a eseguire controlli a tappeto su tutte le opere e i cantieri e a rilevare che nessuna frode era stata compiuta, a parte qualche piccola irregolarità amministrativa di routine.
Ecco perché, dopo l’assoluzione di Oliverio del gennaio del 2021, la Dda di Catanzaro non si è appellata, rendendo così definitiva la sentenza. Troppo tardi, per la sinistra di Calabria. Perché nel frattempo, mentre il procuratore Gratteri lanciava, nel dicembre 2019, l’operazione “Rinascita Scott” con centinaia di arrestati e metteva a ferro e fuoco la Calabria, gli impavidi uomini del Pd mettevano le vesti dei grillini e si avviavano al suicidio politico, le cui ferite sono ancora aperte. Oliverio fu abbandonato al proprio destino, mentre Gratteri era di fatto il numero uno che condizionava la campagna elettorale. Il Pd candidò un imprenditore del tonno, quel Pippo Callipo che subito disse che con lui presidente nessuno avrebbe dovuto più bussare alla porta di “politici e mafiosi”. Inutile genuflessione ai magistrati. Così il 26 gennaio 2020, proprio a ridosso del blitz “antimafia”, Jole Santelli e il centro destra strapparono la Calabria alla sinistra. Lo sconfitto Callipo non rimase neppure un giorno a fare il consigliere regionale. E il settimanale L’Espresso dedicò quindici pagine alle elezioni regionali calabresi titolando “Calabrexit”. Un invito a scappare dai luoghi dove si governava con la ‘ndrangheta. Storie di Calabria.
È finita? In Calabria nulla finisce come dovrebbe. Così, nella stessa giornata dell’assoluzione di Oliverio a Catanzaro, un’altra notizia di politica giudiziaria, una bomba che dovrebbe destare l’attenzione dello stesso ministro Nordio, arriva da Reggio. Il sindaco Giuseppe Falcomatà del Pd è stato condannato anche in appello a un anno per abuso d’ufficio. Perché è rilevante la notizia? Perché il primo cittadino della città di Reggio Calabria è in questo momento già un “sindaco sospeso”, cioè non in funzione, a causa dell’ applicazione della “legge Severino”, in seguito alla condanna nel processo di primo grado di un anno fa a sedici mesi di carcere. Pena sospesa, ma anche il ruolo di sindaco. In questo momento quindi, nella città calabrese, c’è un sindaco facente funzioni, oltre a un altro che funge da primo cittadino della città metropolitana. Con la condanna di ieri al processo d’appello, pur con la pena ridotta a un anno, si aggiungono altri dodici mesi di sospensione dall’incarico. Un’eternità. Falcomatà è condannato per aver agevolato un imprenditore amico nelle procedure dell’affidamento della gestione dell’hotel “Miramare”. Avrebbe saltato le procedure di evidenza pubblica e non avrebbe lanciato nessun bando. Le solite vicende amministrative, simili a quelle dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, che però aveva anche subito il carcere e la gogna. Che dire? Ministro Nordio, dia un po’ un’occhiata alla Calabria, per favore.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Non favorì la ‘ndrangheta, assolto un ex consigliere regionale della Calabria. «La fine di un incubo…». Arrestato nel 2012 e trascorsi 4 anni in carcere, nel 2016, in primo grado, Cherubino era stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Locri. I giudici d'appello lo hanno assolto «perché il fatto non sussiste». Il Dubbio il 6 aprile 2022.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa l’ex consigliere regionale Cosimo Cherubino, uno dei principali imputati del processo «Falsa politica» nato da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria contro la cosca Commisso di Siderno. Arrestato nel 2012 e trascorsi 4 anni in carcere, nel 2016, in primo grado, Cherubino era stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Locri. I giudici d’appello lo hanno assolto «perché il fatto non sussiste».
Secondo l’accusa, la cosca Commisso controllava l’amministrazione comunale di Siderno. Per i pm, i politici, per candidarsi, avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione del boss Giuseppe Commisso, detto «il mastro». Ex Nuovo Psi, poi passato al Popolo della Libertà, Cherubino era accusato non solo di essere stato appoggiato alle regionali del 2010 dalla ‘ndrangheta ma di averne fatto parte. «Mi sono sempre difeso avendo fede in Dio – il commento di Cherubino – credendo nella giustizia, soprattutto nella mia innocenza, seguendo il processo e introducendo costantemente nuove prove, a chiarimento della mia posizione. Devo ringraziare dal profondo del cuore l’avvocato Sergio Laganà che ha sempre combattuto credendo in questo risultato fin dall’inizio di questo incubo» aggiunge Cosimo Cherubino.
«Devo ringraziare l’avvocato Nico D’Ascola che mi ha seguito con professionalità nella fase d’appello e gli avvocati Giuseppe Zampaglione ed Ettore Squillace, i consulenti tecnici della difesa Domenico Garreffa, Antonio Milicia e Antonio Miriello. L’assoluzione è il frutto di una difesa maturata negli anni, durante i quali si sono sempre più approfonditi i temi della difesa. L’unica certezza che in questo momento mi sento di dichiarare è che non mi candiderò mai più in nessuna competizione elettorale. Ho molto sofferto e il pensiero di profonda riconoscenza va a tutti i miei familiari che hanno sofferto con me, ai miei genitori che non hanno potuto gioire in questo momento e, soprattutto, a mia moglie e a mio fratello» conclude l’ex consigliere regionale della Calabria.
Appello al ministro Nordio per Giancarlo Pittelli: “Vittima di accuse infamanti e mai provate”. Redazione su Il Riformista l’11 Novembre 2022
Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta del Comitato Riforma Giustizia, Presidente Enrico Seta e Portavoce Umberto Baccolo.
Martedi 15 novembre saranno inaugurati a Catanzaro, alla presenza del Ministro Carlo Nordio, i nuovi uffici della Procura, risultato di un intervento di restauro sicuramente apprezzabile. Vorremmo suggerire con rispetto al Ministro di cogliere l’occasione per porsi alcune domande anche sulla amministrazione della giustizia nella nostra regione.
Pur confermando il dovuto rispetto della funzione e dell’attività giudiziaria, molti calabresi sono tuttavia perplessi del fatto che negli ultimi anni moltissime inchieste giudiziarie che hanno riguardato rappresentanti eletti delle istituzioni si siano concluse con sentenze di assoluzione con formula piena, in appello o addirittura in primo grado. Molti calabresi osservano che ogni volta tali episodi hanno avuto un grande clamore mediatico, hanno suscitato allarme sociale e hanno gettato su rappresentanti delle istituzioni il sospetto, rivelatosi infondato nei successivi processi, di connivenze con una criminalità organizzata esecrata per la sua ferocia, distruggendo per sempre la reputazione di personalità note in tutta la regione e trasmettendo un’immagine immeritata delle istituzioni democratiche calabresi come irrimediabilmente inquinate. La vicenda dell’ex Presidente della regione, Oliverio, è in proposito particolarmente significativa.
Infine il comitato, il cui appello è stato sottoscritto nei primi mesi dell’anno da oltre tremila persone, chiede al Ministro Nordio se non sia meritevole della sua discreta e rispettosa attenzione anche la condizione di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare della Repubblica, avvocato penalista incensurato, ormai sulla soglia dei settanta anni, in condizioni di salute precarie, privato della libertà ormai dal lontano dicembre 2019, con l’accusa infamante ma mai provata di essere “l’anello di congiunzione fra Ndrangheta e massoneria”, ben prima di qualunque processo o sentenza, il quale in questi tre anni di attesa di giustizia ha collezionato ben tre sentenze della Cassazione che hanno cancellato o ridimensionato i capi d’imputazione originari e accolto le richieste della difesa su questioni parallele al giudizio principale.
Nicola Gratteri presenta il nuovo libro e spara a zero su Fazio. Nicola Gratteri presenta il nuovo libro “Fuori dai confini”, scritto con Antonio Nicaso e spara a zero su Fabio Fazio e su alcuni media. Giampiero Casoni su Notizie.it il 23 Novembre 2022
Rispondendo ad una domanda di Affari italiani il magistrato antimafia spiega senza mezzi termini che non stima il conduttore. Ha detto Gratteri: “Da Fazio? Non vengo invitato da tempo, ma non mi interessa. Preferisco andare nelle trasmissioni dove ho maggiore stima per i conduttori, stessa cosa vale per la carta stampata”.
Insomma, il procuratore di Catanzaro ha le sue preferenze sui “salotti” tv in cui andrà a presentare il suo nuovo libro, “Fuori dai confini”, scritto con Antonio Nicaso e uscito per Mondadori.
Ha spiegato ancora Gratteri: “Me lo hanno chiesto tante trasmissioni. Certamente andrò dalla Gruber, a Otto e mezzo, su La7, perché è stata la prima a prenotarsi. Ma ci vado con piacere, perché mi dà la possibilità di rispondere e non c’è confusione, né caos”.
“Non si riesce a concludere un pensiero”
Poi Gratteri ha chiosato: “In altre trasmissioni non sempre si riesce a concludere un pensiero e questo non va bene, ma non per me, ma perché penso che la collettività debba essere messa a conoscenza di qual è la situazione attuale della criminalità organizzata in Italia in maniera completa e corretta.
Lo spettatore fa fatica a seguire un format dove parlano contemporaneamente sette o otto persone”.
Lo schiaffo del riesame al procuratore. Gratteri e l’arresto del sindaco che combatte la ‘ndrangheta, cara Lilli Gruber gli faccia una domanda su Marcello Manna. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Novembre 2022
Chissà se Lilli Gruber, nella cui trasmissione “Otto e mezzo” il procuratore Gratteri è atteso, perché, quando ha saputo del nuovo libro sulla ‘ndrangheta si è prenotata per prima, mentre Floris non l’ha neanche invitato, gli farà subito una domanda su Marcello Manna. Se non sa chi sia, non si può sapere tutto, ci permettiamo di spiegarlo alla giornalista. Non al dottor Gratteri, che conosce benissimo il sindaco di Rende, cittadina del cosentino, visto che ha contribuito al suo arresto, in piena campagna elettorale e in compagnia di qualche centinaio di mafiosi, o presunti tali. ‘Ndranghetista doveva essere anche l’avvocato Manna, secondo la Dda di Catanzaro, ma anche secondo il gip Alfredo Ferraro.
Associato ai boss criminali e anche sospettato di voto di scambio alle elezioni comunali del 2019, quando fu eletto sindaco. Il tribunale del riesame, che lo ha scarcerato il 29 settembre, dopo un mese di detenzione domiciliare, nelle motivazioni depositate in questi giorni dà un vero schiaffo al binomio pm-gip, i cui visi dovrebbero coprirsi di rossore. I giudici fanno due diverse riflessioni. Prima rilevano che non ci sono gli estremi per l’imputazione di associazione mafiosa con voto di scambio, “difettando, allo stato, qualsivoglia elemento su cui fondare la partecipazione del ricorrente a tale specifico accordo illecito”. Poi il vero affondo: caro Gratteri, caro Ferraro, sappiate che, nel caso dell’avvocato Manna, “si riscontrano addirittura elementi contrari alla sussistenza di tale sinallagma”. Quindi, si deduce che, se il sindaco di Rende non è un mafioso, “al contrario” è uno che la mafia la combatte. E se non ha messo in atto, quando si è candidato, il voto di scambio, vuol dire che, “al contrario”, se qualcuno glielo avesse proposto lo avrebbe respinto con sdegno. È stato dunque arrestato come mafioso uno che è l’opposto di un boss, di un criminale.
Senza voler indossare le vesti della pubblica accusa, e senza voler rubare il mestiere a chicchesia, una volta ancora ci domandiamo se chi di dovere, per esempio il Csm, si renda conto delle modalità con cui viene amministrata la giustizia in Calabria. Il procuratore Gratteri è un grande lavoratore, e anche un bel personaggio, così dicono quelli che l’hanno incontrato in questi giorni, e trova il tempo per fare tante cose, un vero multitasking. Ha scritto l’ennesimo libro sulla ‘ndrangheta, senza rendersi conto che i suoi testi sono tutti uguali, e si appresta a presentarlo in diverse trasmissioni (caro Floris, affrettati, se non vuoi essere tagliato fuori). Poi ha inaugurato, con la civetteria del capomastro e alla presenza del ministro Carlo Nordio, la nuova sede della procura di Catanzaro, da lui voluta e realizzata in sei anni. Poi ancora è volato a Milano, per un evento all’interno di San Vittore, dove non ha dimenticato di raccomandare la costruzioni di nuove carceri. Il tema deve stargli particolarmente a cuore. Non useremo la cattiveria di ricordargli che lui contribuisce sensibilmente al sovraffollamento degli istituti penitenziari.
Piuttosto vorremmo discutere con il nuovo ministro guardasigilli se a presiedere il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia opportuno collocare un pubblico ministero che, per quanto prestigioso, ha fatto riempire così spesso le carceri di innocenti. Il caso del sindaco Manna non è così peregrino. Segue uno schema già noto. Con immodestia, possiamo ricordare che lo scorso 2 settembre, all’indomani del blitz chiamato “Reset”, avevamo scritto “prima o poi il reato associativo cadrà, soprattutto nell’aggravante di mafia”? Fondamentale, naturalmente, è stata la capacità degli avvocati Nicola Carratelli e Gian Domenico Caiazza, che avevano saputo presentare ai giudici quella documentazione che né il pm né il gip avevano trovato il tempo di esaminare, prima di puntare il dito contro il solito “pesce grosso”, che in queste inchieste non manca mai.
Ma altre due particolarità usuali in terra di Calabria avevano caratterizzato l’inchiesta “Reset”. La prima è che è stata costruita a tavolino nell’arco forse di qualche anno. Il procuratore Gratteri l’aveva presentata come “..la più estesa indagine su Cosenza” che “riguarda un’associazione mafiosa”, e aveva impegnato i suoi uomini ad armarsi di ago e filo per cucire insieme una serie di altre piccole o medie inchieste. Così ha creato il prossimo maxiprocesso, visto che il primo, “Rinascita Scott”, sta mostrando seri problemi procedurali. La seconda questione riguarda l’insofferenza del dottor Gratteri nei confronti della legge sulla presunzione di innocenza e la regola che dovrebbe rompere le tradizionali conferenze stampa con tanto di fanfare e gogne garantite agli arrestati. Non posso parlare, aveva lamentato il procuratore il giorno dell’arresto dell’avvocato Manna, giocando a rimpiattino con l’incontro con i giornalisti. Ma intanto era già uscita l’intera ordinanza del gip. Altro che silenzio stampa. A magistrati di questo tipo può essere affidata la vita dei detenuti?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Csm, la sezione disciplinare censura un magistrato calabrese. Sanzione per l'ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla limitatamente alle interlocuzioni con il magistrato Luca Primicerio per i dati relativi alla sua difesa personale contenuti nel procedimento a carico dei componenti della famiglia di Greco. Il Dubbio il 23 novembre 2022
Per il magistrato calabrese Eugenio Facciolla arriva la sanzione disciplinare della censura. L’ex procuratore di Castrovillari, trasferito dal Csm nel 2018 a Potenza, con le funzioni di giudice civile, per una inchiesta della procura di Salerno sulle ipotesi delittuose di corruzione e falso, è stato giudicato nella giornata del 22 novembre 2022, dalla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli relativamente a tre incolpazioni formulate a suo tempo dalla procura generale. L’impianto accusatorio, all’esito della Camera di Consiglio, presieduta dal vicepresidente del Csm, David Ermini, non ha retto.
Il sostituto procuratore generale Giovanni Di Leo, infatti, nella sua requisitoria aveva invocato la perdita di sei mesi d’anzianità e il trasferimento ad altra sede per due incolpazioni. La prima riguardava una presunta rivelazione fatta da Facciolla a Nicola Inforzato, al quale avrebbe detto di andare a Roma per sentire un collaboratore di giustizia, ovvero Franco Bruzzese, nel secondo invece avrebbe chiesto ai colleghi di Castrovillari Luca Primicerio e Angela Continisio di fare accertamenti investigativi contro i magistrati calabresi Nicola Gratteri e Vincenzo Luberto, violando l’art. 11 che obbliga i pm ad inviare gli atti alla procura competente, una non facente parte dello stesso Distretto giudiziario, nel caso di specie Salerno, su eventuali presunte condotte illecite di altre toghe.
Alla fine, Facciolla è stato censurato limitatamente alle interlocuzioni con il magistrato di Castrovillari Luca Primicerio per i dati relativi alla sua difesa personale contenuti nel procedimento a carico dei componenti della famiglia di Greco. Assolto dunque per il caso Inforzato e per la presunta campagna mediatica che avrebbe pianificato con un giornalista calabrese. Nulla di tutto ciò. La difesa di Facciolla, rappresentata dall’avvocato Ivano Iai farà comunque ricorso in Cassazione. (a. a.)
«A cena con Pittelli»: i giudici Perri e Scuteri a rischio trasferimento. Domani il plenum voterà la proposta della prima Commissione: le toghe “incastrate” dal trojan. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 22 novembre 2022
È prevista per domani la discussione da parte del Plenum del Consiglio superiore della magistratura della pratica di trasferimento per “incompatibilità ambientale” aperta nei confronti degli attuali consiglieri della Corte d’appello di Catanzaro Giuseppe Perri e Pietro Scuteri.
Il procedimento era nato a seguito di una intercettazione effettuata dal Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri nell’ambito dell’indagine “Rinascita Scott” della Procura di Catanzaro e dalle dichiarazioni dell’ex presidente di sezione della Corte d’appello di Catanzaro Marco Petrini, arrestato per corruzione in atti giudiziari. I carabinieri, in particolare, avevano inserito nel cellulare di Giancarlo Pittelli, parlamentare di Forza Italia ed avvocato penalista del foro di Catanzaro, il trojan, registrando così ogni sua conversazione.
Pittelli, arrestato a dicembre del 2019 per i suoi rapporti con la cosca ‘ndranghetista del clan Mancuso (il dibattimento è ora davanti al tribunale di Vibo Valentia), a marzo del 2018 aveva deciso di organizzare presso la propria abitazione una cena «per soli uomini». Fra gli invitati diversi avvocati e magistrati, come Nicola Durante, giudice del tar, e appunto Perri e Scuteri, all’epoca dei fatti entrambi giudici per le indagini preliminari al tribunale di Catanzaro. Alla cena avrebbe dovuto partecipare anche Antonio Saraco, in quel periodo in servizio alla Corte d’appello di Catanzaro ed ora consigliere in Cassazione, e l’Avvocato generale Beniamino Calabrese.
Come riportato nella trascrizione dei carabinieri, i commensali si sarebbero lasciati andare a commenti critici circa «determinate vicende giudiziarie del distretto di Catanzaro» e «sull’operato di non pochi magistrati». I militari dell’Arma a tal proposito annotarono anche commenti critici sul procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, titolare dell’inchiesta Rinascita Scott. Pittelli, rivolgendosi a Perri e Scuteri, avrebbe detto che erano «magistrati atipici» che ci poteva discutere e fidare, dando invece un giudizio negativo nei riguardi «della gran parte dei magistrati e della magistratura”». La conversazione in questione era finita in un una nota informativa dal titolo “massoneria e i rapporti fra Pittelli e il colonnello dei carabinieri Francesco Merone”, anch’egli presenta a quella cena.
Merone era il comandante del Reparto comando della Legione carabinieri di Catanzaro, successivamente sarà trasferito dal Comando generale dell’Arma a Torino. L’istruttoria del Csm ha cercato di ripercorre i rapporti fra i due magistrati e Pittelli, ad esempio se avessero trattato procedimenti patrocinati da quest’ultimo, accertando così che erano stati una trentina ciascuno, soprattuto in tema di riesame e misure di prevenzione. Era stato ascoltato il presidente della Corte d’appello di Catanzaro, Domenico Introcaso, il quale avevo sottolineato l’eccezionale produttività dei due magistrati che, comunque, non si erano mai astenuti nei fascicoli dove Pittelli figurava come avvocato.
Tornando, invece, alla cena ed ai rapporti confidenziali che erano emersi, Perri e Scuteri si erano giustificati dicendo che anche se usavano darsi del “tu” con Pittelli, non avevano mai avuto con lui rapporti di vera frequentazione, limitati a quella cena di marzo del 2018. Entrambi trasferiti alla sezione civile della Corte d’appello non avrebbero comunque trattato l’appello del processo Pittelli. In altri termini, nella prospettazione difensiva, non era stato compromesso lo svolgimento in maniera serena, indipendente ed imparziale, anche sul piano della percezione esterna ai fini della necessaria credibilità della funzione giudiziaria.
La presenza del colonnello, avevano poi affermato le due toghe, era stata «rassicurante» circa le vicende giudiziarie di Pittelli, anche pregresse e da essi non conosciute.Il Csm inizialmente aveva proposto l’archiviazione della pratica, salvo poi decidere di rimandarla in commissione per un supplemento di accertamenti. Accertamenti che facevano emergere altre telefonate che smentirebbero l’occasionalità dei rapporti fra i due magistrati e Pittelli. Quest’ultimo, ad esempio, si sarebbe rivolto a Scuteri chiamandolo “bello mio”, proponendo l’abbreviato ai suoi assistiti quando c’era lui come giudice. In una altra telefonata gli aveva suggerito di andare a comporre il tribunale della libertà.
Tutte circostanze che smentivano quanto affermato dai due magistrati circa l’occasionalità dell’incontro, determinando dunque un appannamento dell’immagine della magistratura con la loro presenza, anche se al settore civile, nel palazzo di giustizia di Catanzaro. Appannamento che rende inevitabile un loro trasferimento fuori distretto.
I fatti un anno e mezzo prima del suo arresto. A cena con Pittelli, due giudici trasferiti per lesa maestà a Gratteri: lo show di Di Matteo che chiama in causa il Riformista. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Novembre 2022
Trasferiti, con 17 voti favorevoli e 6 astenuti. Non è bastato che di propria iniziativa i due giudici siano passati dal settore penale a quello civile, e neanche che abbiano proposto di traslocare a Messina, ritenuta troppo "contigua". I due giudici Giuseppe Perri e Pietro Scuteri, contagiati dal virus di Giancarlo Pittelli, sono stati cacciati dal plenum del Csm a causa di una cena. I due "imputati" non ci sono, e neanche i loro difensori. Il processo si svolge dunque in contumacia. E la scena se la prende il consigliere Nino Di Matteo, che pare indossare la toga e svolgere la sua requisitoria non solo nei confronti dei due magistrati di cui si discute la necessità di trasferimento, ma anche contro Giancarlo Pittelli e la notorietà non solo del personaggio, ma anche di chi ne difende i diritti.
Sarebbe lo "strepitus eccezionale" degli articoli del Riformista sui diritti dell’imputato a rendere appannata la reputazione di due magistrati calabresi che devono essere trasferiti, possibilmente molto lontani dalla loro regione e anche dalla contigua città di Messina. Contigua perché ci potrebbe essere qualche scambio di carte, qualche forma di collaborazione tra i giudici dei due lati dello stretto, anche se ancora non collegati dal ponte. Ma se i due magistrati sono ormai al settore civile? Non importa, la longa manus di Pittelli potrebbe allungarsi fino lì. E anche quella del Riformista, supponiamo. Si arriva così, paradossalmente, a una sorta di pena aggiuntiva per Giancarlo Pittelli: nessuno vorrà più andare a cena da lui. L’ipotesi non è azzardata, visto quel che è capitato a questi due magistrati, finiti sulla graticola del Csm solo per aver partecipato a una serata piacevole. Non su invito di una cosca mafiosa, ma a casa di un avvocato incensurato, di cui non era possibile prevedere che un anno e mezzo dopo sarebbe stato indagato e arrestato, su stimolo del procuratore Nicola Gratteri nel blitz del 19 dicembre del 2019, e che lo vede ancora in detenzione domiciliare.
Ma qui si aggiunge assurdo all’assurdo. La vicenda è sintetizzata dal relatore Alberto Maria Benedetti, laico in quota Cinque stelle, che illustra un percorso veramente singolare. Perché la notizia di quella cena del 16 marzo 2018 tra magistrati e avvocati a casa dell’onorevole Pittelli sarebbe emersa da una richiesta di archiviazione di un’inchiesta sulla massoneria. All’interno di questa "evanescenza" (come avrebbe detto il dottor Lupacchini) l’avvocato catanzarese aveva un bel trojan nel telefono, proprio come Luca Palamara, e con quello i carabinieri sono andati a caccia di reati. E hanno trovato la cena. Niente reati, a tavola, quella sera. Perché dalle intercettazioni non risulta che si sia violato qualche segreto investigativo, né i due magistrati hanno profferito verbo su inchieste di cui erano titolari in prima persona o a conoscenza da parte dei colleghi. Di che cosa sono accusati, dunque? Di non aver mostrato dissenso su affermazioni di altri. E’ sicuro, questo lo ammettono anche i suoi accusatori, che i due non sapessero che l’avvocato Pittelli era indagato, visto che sarà arrestato un anno e mezzo dopo, ma non importa. Quando sentivano la parola "Gratteri", immaginiamo, avrebbero dovuto scattare in piedi e dire "obbedisco!", e non tacere se qualcuno lo criticava.
Ma la domanda più logica la pone il consigliere indicato da Forza Italia, Alessio Lanzi: è possibile che qualche giudice vada a cena con un avvocato? E magari persino con qualche pm? E sono reati le chiacchiere in libertà che si fanno in quelle occasioni? Ma c’è sempre un "ma", perché pare che l’avvocato Pittelli qualche battutina sul procuratore Gratteri l’abbia fatta davvero, e anche su qualche gip di Catanzaro. E abbia persino definito i suoi ospiti, all’epoca ambedue gip, come magistrati "atipici". Magari perché, possiamo aggiungere, non erano sempre proni ai voleri del Grande Procuratore. L’avvocato è già intercettato prima della cena, nel momento degli inviti. Ogni sua parola registrata e poi trascritta e consegnata al Csm è interpretata nel modo funzionale a far "condannare" i due magistrati. E’ sospetto il fatto che l’ospite dica di invitare a una cena in casa invece che al ristorante perché lì si può stare più tranquilli, anche perché, dal momento che la moglie è assente, si può stare "tra soli uomini". Mamma mia, chissà che cosa potrà succedere, senza le consorti! Altra aggravante. Dire a un amico giudice "bello mio" indica qualcosa di peccaminoso, forse di contagioso.
Ricordiamo che l’avvocato Pittelli all’epoca era non solo come ora incensurato, ma ufficialmente non indagato. E stimato da tutti. Naturalmente il consigliere Di Matteo trova il modo, allusivo, di citare persino la disastrosa inchiesta di de Magistris "Poseidone", per dire che comunque il legale era stato "attenzionato" dalla magistratura. E nella replica ricorda anche l’indagine attuale di Reggio Calabria per costruire un bel "tipo d’autore" e sottoporlo al plenum del Csm. Ma non si doveva solo decidere sul trasferimento di due giudici? Quanti sono gli "imputati"? Chi ha mostrato più dignità, se ci è consentito dopo aver ascoltato la diretta dal sito di Radio Radicale, sono stati proprio i due assenti, i giudici Perri e Scuteri. Non sappiamo se siano "atipici", ma hanno dato una bella lezione a questo morente Csm.
Tiziana Maiolo.Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Quella cena a casa Pittelli, per due magistrati dì Catanzaro rimane concreto il trasferimento per incompatibilità. Il Plenum del Csm opta per il ritorno in prima commissione. Si tratta della pratica contro i magistrati Giuseppe Perri e Pietro Scuteri. Il Dubbio l'8 giugno 2022.
Il Plenum del Csm ha votato per il ritorno in prima commissione della pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale e/o funzionale dei giudici della Corte d’Appello di Catanzaro, in servizio attualmente nel settore civile, Giuseppe Perri e Pietro Scuteri, presenti in una cena svoltasi prima della conoscenza dell’indagine “Rinascita Scott” a casa dell’avvocato Giancarlo Pittelli.
Il relatore Benedetti in apertura dell’assemblea plenaria aveva annunciato la richiesta di effettuare una nuova attività istruttoria bei confronti dei due magistrati. Istanza che è stata accolta in modo favorevole da quasi tutti i consiglieri, ad eccezione di Di Matteo che aveva invocato il trasferimento immediato dei due colleghi dal Distretto giudiziario di Catanzaro.
I due giudici alla cena “per soli uomini” con il massone Pittelli, “affidabile e rassicurante”. Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa il 7 giugno 2022.
Una «cena per soli uomini perché non voglio andare nei ristoranti con gli amici magistrati, siccome mia moglie se ne viene a Roma, la faccio a casa». La voce (e la casa) è quella di Giancarlo Pittelli: avvocato ed ex deputato, per un decennio plenipotenziario berlusconiano in Calabria. Siamo nel marzo 2018, pochi giorni dopo le elezioni. All’altro capo del telefono medici, avvocati e magistrati sia ordinari che amministrativi. Il tono è confidenziale. Alcuni declinano l’invito. Tra quelli che accettano Giuseppe Perri e Pietro Scuteri, all’epoca giudici per le indagini preliminari a Catanzaro e attualmente consiglieri della Corte d’appello. Quello che i commensali non sanno è che Pittelli è indagato (e oggi imputato) di concorso esterno in associazione mafiosa, nell’inchiesta Rinascita-Scott di cui si sta celebrando attualmente il maxiprocesso con 355 imputati. Pittelli è ritenuto dalla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri l’anello di congiunzione tra politica, ‘ndrangheta e massoneria. Grazie al virus trojan che hanno inoculato nel cellulare di Pittelli, quella sera di quattro anni fa gli investigatori ascoltano le conversazioni prima e dopo la cena. Parlano, come risulta dagli atti del Csm, «di tematiche di carattere generale, sociale e politico, ma pure di vicende di natura giudiziaria e dell’operato di diversi magistrati, per lo più del distretto di Catanzaro. Prima dell’inizio della cena Pittelli, parlando con due avvocati, si riferisce a non meglio precisate cene a Roma e dice di essersi recato nella sede delle logge massoniche romane». Poi i commensali «si lasciano andare a commenti e considerazioni personali (…) anche sull’operato di diversi magistrati operanti nel distretto di Catanzaro; invero i commenti e le valutazioni dei commensali, anche specifici e piuttosto critici, riguardano sia determinate vicende giudiziarie proprie del distretto, trascorse e attuali, sia l’operato di non pochi magistrati; si segnalano, ad esempio, commenti critici sull’attuale procuratore della Repubblica Nicola Gratteri». Viceversa, i due giudici commensali vengono simpateticamente definiti «atipici con i quali si può discutere e dei quali ci si può fidare, mentre risulta negativo il giudizio espresso da Pittelli nei riguardi della gran parte dei magistrati e della magistratura». I carabinieri annotano tutto. E il procuratore Gratteri manda a Salerno, per competenza sui magistrati calabresi, questi atti che si saldano con le rivelazioni choc di un altro giudice di Catanzaro, Marco Petrini, già presidente di sezione della Corte d’appello. Arrestato per diversi episodi di corruzione giudiziaria, Petrini racconta ai pm «dell’esistenza di un radicato sistema corruttivo in cui sarebbero stati coinvolti appartenenti alla magistratura calabrese, avvocati e professionisti (…), cementato da una comune appartenenza massonica attraverso cui orientare le decisioni giurisdizionali in modo favorevole a sé e ai propri assistiti in procedimenti penali». E mette in fila i nomi, tra i quali oltre all’onnipresente Pittelli ci sono quelli di alcuni magistrati. Guadagnatosi i domiciliari, Petrini però ritratta. In assenza di conferme da altri testimoni e senza riscontri dalle intercettazioni, la Procura di Salerno archivia l’indagine. Né trova prove che la ritrattazione sia stata coartata. Ma le carte sulla «cena per soli uomini» finiscono al Csm, per valutare se i due giudici commensali di Pittelli possano ancora lavorare a Catanzaro. Dall’istruttoria della prima commissione, risulta che «il giudice Perri ha trattato 26 procedimenti in tema di riesame e 2 in tema di misure di prevenzione patrocinati dall’avvocato Pittelli; il giudice Scuteri, a sua volta, ha trattato 38 procedimenti in tema di riesame e 4 in tema di misure di prevenzione patrocinati dall’avvocato Pittelli. Anche all’ufficio gip vi sono stati procedimenti patrocinati dall’avvocato Pittelli, o da suoi colleghi di studio: 3 trattati dal giudice Perri (uno dei quali patrocinato personalmente anche dall’avvocato Pittelli) e nove dal giudice Scuteri (uno dei quali patrocinato personalmente anche dall’avvocato Pittelli)». La commissione ha dunque ascoltato Domenico Introcaso, presidente della Corte d’appello dove lavorano i due giudici. Introcaso, non sorprendentemente, ha difeso l’operato dell’ufficio, lodandone la produttività. Ha poi raccontato che «si mormora di questa cena perché i notiziari, soprattutto quelli locali, via internet, sostanzialmente questi giornali, queste pubblicazioni o questi mezzi di informazione via internet parlano di questa cena, però nominativamente posso dire, a mia conoscenza, non c’è stato nessun riferimento di carattere individualizzante e personale, nel senso che si mormora di questa cena e si fanno pettegolezzi su questi mezzi di informazione, che son per lo più di tipo scandalistico. Si fa menzione di questa cena, però non c’è nessun riferimento personale o nominativo a questi o ad altri magistrati, per la verità», confermando poi che «Pittelli, come avvocato penalista, difendeva spesso esponenti della criminalità organizzata». In particolare «tra il 2017 e il 2019, e limitatamente ai processi patrocinati personalmente dall’avvocato Pittelli, il giudice Scuteri ne ha trattati due, in uno dei quali è stato anche relatore, mentre il giudice Perri ne ha trattati otto, in due dei quali è stato anche relatore». Dunque i giudici erano commensali di un politico-avvocato massone e difensore abituale di ‘ndranghetisti, anche in processo di cui si occupavano essi stessi, senza mai astenersi. In assenza di rilievi penali e disciplinari, è comunque opportuno che continuino a lavorare a Catanzaro, dove Pittelli è ora imputato? Convocati dal Csm, i due giudici commensali si difendono. Perri spiega «di non avere mai avuto con Pittelli alcun rapporto di frequentazione, né telefonica né personale», tanto che «la cena del 16 marzo 2018 è stata l’unica occasione in cui lo ha frequentato per ragioni non d’ufficio». Nega imbarazzo, perché «all’epoca Pittelli appariva persona affidabile e aveva rapporti di frequentazione anche con altri magistrati». Precisa che «hanno cominciato a darsi del tu più o meno intorno al 2016 fermo restando che le nostre conversazioni non hanno mai avuto ad oggetto vicende giudiziarie né tanto meno questioni personali, familiari o confidenziali». Specifica che «prima di quella cena del 2018 mi aveva invitato altre volte ma avevo declinato gli inviti, dopo quella cena non l’ho più incontrato né sentito telefonicamente». Anche il giudice Scuteri nega un’intensa frequentazione con Pittelli, che peraltro all’epoca «era una persona che non mi risultava fosse gravata da precedenti penali, la cui condizione di indagato non gli era nota e che non era nota socialmente, le cui frequentazioni risultavano piuttosto rassicuranti o comunque non tali da ingenerare sospetti e che, inoltre, non aveva mai coinvolto chi scrive, anche solo verbalmente, in situazioni opache o poco commendevoli». E derubrica la cena a «episodio isolato e unico». Eppure dagli atti emerge un tono confidenziale e la conoscenza dell’ubicazione della casa di Pittelli, circostanze che fanno supporre agli investigatori una frequentazione non episodica. Entrambi i giudici hanno negato che la vicenda abbia avuto ripercussioni nei rapporti con i colleghi e con gli avvocati. Ora tocca al plenum decidere la sorte dei due giudici, dopo che la commissione del Csm si è divisa. Due componenti (Benedetti e Braggion) hanno votato per archiviare la pratica, convinti soprattutto da due circostanze: l’assenza di prove di ulteriori rapporti tra i giudici e Pittelli e la scelta dei due giudici di trasferirsi al settore civile, scongiurando conflitti di interessi. Altri due consiglieri (Chinaglia e Celentano) si sono astenuti. A votare per il trasferimento dei due giudici per incompatibilità ambientale solo Nino Di Matteo. Come sempre, o quasi.
Giudici a cena con Pittelli. I penalisti: «No a sanzioni per Perri e Scuteri». Il Dubbio il 29 giugno 2022.
La Camera Penale di Catanzaro "difende" i due magistrati che negli anni scorsi parteciparono a una cena a casa dell'avvocato penalista, imputato nel processo "Rinascita Scott".
«I dottori Perri e Scuteri sono sempre stati magistrati liberi da qualsivoglia forma di influenza, fedeli alla Repubblica e alla Costituzione, che hanno onorato la toga indossandola con grande equilibrio e autentico spirito di servizio. Mai, in alcun modo, essi hanno appannato, né ieri né oggi, la loro immagine di magistrati irreprensibili». A dirlo è il direttivo della Camera penale di Catanzaro, in un documento inviato al Csm. La vicenda è quella relativa ai magistrati Pietro Scuteri e Giuseppe Perri, attualmente in servizio presso la sezione civile della Corte d’Appello di Catanzaro, sui quali pende una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale e/ o funzionale per aver preso parte a una cena svoltasi prima della conoscenza dell’indagine “Rinascita Scott” a casa dell’avvocato Giancarlo Pittelli, attualmente imputato in quel procedimento. La I Commissione del Csm aveva proposto l’archiviazione del procedimento, ma il plenum ha votato per il ritorno in Commissione e per lo svolgimento di ulteriore attività istruttoria.
Nella propria proposta di archiviazione, i consiglieri della “Prima” avevano precisato «condivisibilmente», secondo la Camera penale di Catanzaro, l’assenza di circostanze «dalle quali ritenere che, all’attualità, si debba procedere al trasferimento d’ufficio» delle due toghe, «non solo perché “le condotte accertate risultano prive di rilievo penale e ( per quanto risulta) di rilievo disciplinare”», ma anche perché «il trasferimento a domanda di entrambi i magistrati interessati al settore civile della stessa Corte d’appello» costituisce «“un elemento di novità significativo perché elide del tutto, o comunque attenua in maniera significativa e decisiva, il predetto appannamento”».
Ma in plenum il laico Benedetti ha parlato di «circostanze oggettive tali da determinare una caduta nell’immagine di imparzialità e indipendenza dei magistrati», motivo per cui la pratica era tornata in Commissione. Per i penalisti catanzaresi il rapporto fiduciario con l’ambiente giudiziario e sociale sarebbe tuttora solidissimo. Perciò, «avvertono l’esigenza morale di rappresentare alla I Commissione e al Csm che i dottori Perri e Scuteri, come già ben evidenziato dal presidente della Corte di Appello di Catanzaro Domenico Introcaso, nei 20 anni di esercizio delle loro funzioni giudiziarie, in tutte le sedi, si sono sempre distinti per serietà, professionalità, competenza e spirito di sacrificio, esercitando il ministero loro affidato nel pieno rispetto dei valori di indipendenza e di imparzialità».
Sul Fatto Quotidiano spunta il “pentito” cucito per inguaiare Pittelli: un detenuto ‘comune’ che non ha mai conosciuto l’avvocato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
“L’avvocato Pittelli era ammanicato con i giudici”, disse il “pentito” Guastalegname, cui lo aveva riferito un certo Colace e poi anche un altro di nome Barba. Un bell’ambientino, questo del neo-collaboratore di giustizia, il quale non c’entra niente con la ‘ndrangheta, ma molto con affari di droga, con una condanna già scontata. Ma poi anche arrestato e condannato in appello a 30 anni di carcere per l’omicidio di un tabaccaio a Asti, città dove da Vibo Valentia si era trasferito nel 1999. Un detenuto “comune” che pensa bene all’improvviso di convocare un pm della Dda e di offrire il boccone grosso, il nome dell’avvocato Pittelli.
Il vestito viene cucito addosso in questo modo: il pm della Dda presieduta da Nicola Gratteri, Antonio De Bernardo, va al carcere di Rebibbia a incontrare l’aspirante ”pentito” Guastalegname. Il quale ovviamente non ha niente da dire su Pittelli, che non conosce, che non è (e neppure viene accusato di essere) uno spacciatore e men che meno un complice in omicidi di tabaccai in terra piemontese. Ma è uno amico dei giudici, dice il neo “pentito”. Perché glielo ha riferito un tizio, e poi anche un altro. E così, ci riferisce il Fatto Quotidiano, “Guastalegname sta riempiendo pagine di verbali, per i quali adesso la Dda sta cercando i riscontri. Al momento il neo-pentito è ritenuto attendibile dai pm e le sue dichiarazioni sono state depositate nel processo Rinascita”. Perché stiamo citando la fonte giornalistica della notizia? Perché a cucire addosso il vestitino si fa così, come ha ben spiegato Luca Palamara nel Sistema, ma come avevamo già avuto occasione di verificare fin dai tempi dell’arresto di Enzo Tortora e dei “pentiti” che erano diventati diciannove.
Senza un legame stretto tra gli uffici delle procure e le caserme con la redazione di qualche giornale o il numero di cellulare anche di un solo cronista, il vestitino del colpevole non c’è. L’abito deve essere composto di vari strati, l’accusa iniziale cui si aggiungono di volta in volta nuovi “pentiti” e nuovi spunti, di reato o anche solo di sospetto. Come questo sulle presunte amicizie tra Giancarlo Pittelli e i giudici. Il che farebbe persino ridere, se non stessimo parlando di una persona detenuta in gravi condizioni di salute. Di una persona in ceppi, tra carcere e domiciliari, da due anni e mezzo senza prove. Un vero amico dei magistrati! Uno bravo a tirar fuori di galera gli altri ma non se stesso, evidentemente. Complimenti alla Dda, se è vero che al furbetto non mafioso dà talmente credito da riversare la sue deposizione negli atti di un processo per ‘ndrangheta. Adesso si che il signor Guastalegname ha trovato la stradina, tanto da dichiarare: “Ho intenzione di collaborare con la giustizia perché dopo la condanna per l’omicidio sono stato abbandonato da tutti. Avrebbero dovuto sistemarmi il processo ma sono stato lasciato solo”. Chissà se adesso ha trovato il modo di farsi aggiustare la sua condizione carceraria.
Sicuramente da “pentito” questo personaggio ora sta molto meglio di Giancarlo Pittelli. Il quale rischia, tra un vestitino e l’altro, di finire la sua vita da detenuto. Mens sana in corpore sano, dicevano gli antichi, perché stretta è la connessione tra il tuo equilibrio psicologico e i segnali che ti manda il corpo quando stai subendo uno stress violento che ti fa a pezzettini. Mi è scoppiata dentro la bomba atomica, soleva dire Enzo Tortora quando aveva scoperto di avere un tumore. Ma sono faccende che riguardano la vita e la morte degli individui e di cui in genere non si occupano i magistrati, abituati alle carte più che alle persone. Tutte “amiche” di Giancarlo Pittelli, le toghe. A partire dall’ “amico” procuratore Gratteri e dai suoi sostituti che, all’indomani del ritorno del detenuto al proprio domicilio, avevano già chiesto un aggravamento della modalità di esecuzione della misura cautelare, cioè il ritorno in carcere.
L’”amico” tribunale del riesame ha accolto la richiesta di Gratteri, su cui deciderà, tre giugno e luglio, la cassazione. Nel frattempo gli avvocati Contestabile e Stajano hanno presentato una corposa e ben documentata istanza di scarcerazione del loro assistito per mancanza di indizi. Ma gli “amici” del tribunale di Vibo Valentia il 14 aprile scorso l’hanno respinta con due paginette, in cui neppure si teneva conto delle ormai gravi condizioni di salute del detenuto. Che in questo momento ha sicuramente meno amicizie importanti del signor Guastalegname.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La lettera alla ministra. “Il caso Pittelli è la tomba dello Stato di diritto”, lettera alla ministra Cartabia. Redazione su Il Riformista il 30 Aprile 2022.
Alla Ministra della Giustizia Prof.ssa Marta Cartabia e, per conoscenza, al Procuratore Generale della Corte di Cassazione dott. Giovanni Salvi e al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura avv. Davide Ermini.
Siamo comuni cittadini, amici dell’Avvocato Giancarlo Pittelli che, come Lei sa, è legittimamente oggetto – da oltre due anni – di due distinte inchieste penali.
Abbiamo pubblicamente manifestato nello scorso mese di gennaio i nostri sentimenti di affetto e di stima verso questo professionista e uomo pubblico, allo scopo di rispondere al linciaggio mediatico prima che alcun processo sia concluso e alcuna sentenza sia stata emessa, secondo un costume barbaro che ormai si è tristemente radicato nel nostro Paese. Abbiamo raccolto in pochi giorni oltre 2.500 firme che testimoniano che almeno una fetta di opinione pubblica conserva la volontà di appartenere a una comunità retta dal diritto e dai valori costituzionali.
Ma i nostri sforzi purtroppo non bastano a scongiurare un altro rischio: che – dietro lo schermo della legalità – si consumi un’opera di annientamento morale e fisico di una persona, probabilmente innocente e comunque tale – ad oggi – secondo un principio aureo che occorrerebbe sempre ribadire, se non altro per evitare che di esso i cittadini italiani finiscano per perdere la memoria. Illustre Ministra, quello di presunzione di innocenza è un valore di civiltà che andrebbe instillato sin dall’educazione scolastica. Senza una meditazione costante su di esso e senza una sua continua riaffermazione, non solo l’amministrazione della giustizia ma la vita sociale stessa si corrompe. Invece, nel “caso Pittelli” una serie di episodi si connettono fra di loro attraverso un filo comune che – temiamo – sia proprio la relativizzazione, lo svuotamento, l’obliterazione di questo principio.
Il giorno successivo al clamoroso arresto di Giancarlo Pittelli (19 dicembre 2019, inchiesta Rinascita Scott), un magistrato della Repubblica, il titolare stesso delle indagini, definiva in una conferenza stampa l’accusato, un cittadino incensurato e molto noto – senza neanche ricorrere a una formula ipotetica – “anello di congiunzione fra mafia e massoneria”, drammatizzando oltre ogni misura un’inchiesta appena ai suoi esordi. Temiamo che questo comportamento originario abbia dato il “la” ad una catena eccezionale di eventi, di cui citiamo – in questo scritto necessariamente breve – solo i termini più generali. E temiamo, ipotesi ancora più inquietante, che tale drammatizzazione originaria finisca ancora oggi per condizionare i comportamenti e le scelte di tanti soggetti chiamati a intervenire nel processo.
Dal dicembre 2019 ad oggi Giancarlo Pittelli non ha più riacquistato la libertà, in un alternarsi incredibile tra arresti domiciliari e detenzione, in ben tre supercarceri. Da ultimo, la Procura ha proposto appello contro un’attenuazione della misura cautelare che era stata deliberata lo scorso 9 febbraio, quando Giancarlo Pittelli nel Supercarcere di Melfi era giunto allo stremo delle forze per un disperato sciopero della fame. Nei motivi di appello sono stati allegati (fra le altre cose) due atti di sindacato ispettivo, nonché articoli di un quotidiano (il Riformista) e alcuni post su Facebook di un parlamentare della Repubblica (On. Vittorio Sgarbi). Siamo convinti che il succedersi e la natura di questi atti abbiano ingenerato allarme e confusione in una opinione pubblica sempre più perplessa, indotta a confondere concetti fra loro ben distinti e separati quali il sacrosanto diritto di ciascuno di difendere le proprie ragioni, in ogni sede, l’esercizio – da parte di parlamentari e giornalisti – dei propri diritti/doveri e una fantomatica “volontà di influire sul processo”, mai suffragata dall’ombra di un indizio.
Di questa grave e pericolosa confusione – lesiva al tempo stesso di principi di civiltà giuridica, di libertà e di sovranità popolare – esiste, purtroppo, più di una traccia in numerosi atti giudiziari di questo processo ormai esemplare. Ma questi richiami sommari servono solo da premessa all’oggetto principale di questa lettera: la segnalazione di due recenti episodi, meritevoli – a nostro parere – di una Sua considerazione. Il primo attiene alla fissazione dell’udienza per l’appello proposto dalla Procura contro l’ordinanza di attenuazione della misura cautelare. Come denunciato dalla Camera Penale di Catanzaro, tale ricorso ha ottenuto una incredibile “corsia preferenziale”: “il decreto di fissazione dell’udienza risulta emesso eccezionalmente nei 10 (dieci) giorni dal deposito dell’appello e la relativa trattazione fissata insolitamente nei 20 (venti) giorni successivi”, laddove gli appelli cautelari presentati dai difensori risultano – in quel Distretto giudiziario – mediamente pendenti per sei mesi. Questa allarmante segnalazione – contenuta in una lettera formalmente inviata il 24 febbraio, a nome di tutti i penalisti del distretto di Catanzaro, al Presidente del Riesame, dott. Filippo Aragona e p.c. al Presidente del tribunale, dott. Rodolfo Palermo – si concludeva con una richiesta di “cortese, quanto necessario riscontro”. Riscontro che non risulta essere mai pervenuto. Per completezza di informazione, l’appello è stato prontamente accolto.
Il secondo episodio che vorremmo segnalarLe, Signora Ministra, è relativo non alla vicenda cautelare principale ma ad una istanza di scarcerazione, pertanto un procedimento incidentale, proposta dalla difesa dell’avvocato Giancarlo Pittelli dinanzi al Tribunale di Vibo in data 10 aprile 2022. Ovviamente, non entriamo nel merito – né Le chiediamo di entrare nel merito – di tale istanza e delle sue motivazioni, la quale istanza, come previsto da alcuni, è stata puntualmente e prontamente rigettata. Segnaliamo invece il nostro fortissimo disagio – non come amici ma, prima ancora, come semplici cittadini – convinti ancora di vivere in uno stato “di diritto”, nel constatare che con due secche pagine il tribunale di Vibo ha respinto, in data 14 aprile 2022, una istanza di scarcerazione – della quale una significativa parte, corredata di appositi allegati, riguardava le condizioni di salute dell’imputato – senza che una sola parola venisse dedicata dall’estensore dell’ordinanza a tale punto e cioè alla idoneità o meno della custodia cautelare ai fini dei trattamenti sanitari ritenuti necessari dai medici firmatari delle perizie.
Non sappiamo se tale omissione sia dovuta a semplice negligenza o – peggio – alla implicita convinzione che non sia meritevole di alcuna considerazione lo stato di salute di un uomo sulla soglia dei settant’anni, incensurato, privato da oltre due anni e quattro mesi della libertà e sottoposto ad una vicenda processuale giocata, sin dalle sue prime battute, in termini parossistici e di mobilitazione mediatica. Ci domandiamo con preoccupazione, se la compressione dei diritti di un cittadino sottoposto a procedimento penale e ristretto, possa arrivare fino al punto che un Tribunale della Repubblica possa non citare neanche – sia pure per respingerla – una sua richiesta di considerazione dello stato di salute, suffragata da perizie.
Ci domandiamo, con sgomento, se la obliterazione del principio di presunzione di innocenza e dello stesso habeas corpus possano arrivare a tali eccessi e se, anche nel “caso Pittelli”, i cittadini dovranno attendere una sentenza di assoluzione, come ormai troppo spesso accade, per conoscere la reale consistenza di accuse che – nel frattempo – avranno annientato psicologicamente, moralmente, fisicamente, economicamente, un uomo e definitivamente distrutto il tessuto di relazioni nel quale egli è vissuto.
Ci domandiamo e Le domandiamo se non vi sia un modo, rigoroso ma non parossistico, di condurre l’azione giudiziaria, se non ci sia un modo per evitare che la parola alta e forte della Giustizia giunga solo a corollario beffardo di un tale panorama di macerie. Le domandiamo se il “caso Pittelli” non sia meritevole della Sua attenzione, oggi e non quando ogni sforzo sarà reso inutile da un drammatico fatto compiuto.
Enrico Seta, Francesco Peltrone, Massimo Sabatino, Nicola Mazzuca, Anna Sgromo, Ercole Incalza, Giulio Marini Agostini, Marisa Lombardi Comite, Massimo Vinci, Giuditta Sgromo, Paolo Suriano
Il "processetto" all'avvocato. Caso Pittelli, per Gratteri articoli e interrogazioni inquinano le prove: il super pm e la fifa per, l’ennesima, assoluzione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2022.
Non resta che pensare che la procura di Nicola Gratteri ritenga l’avvocato Pittelli così potente da condizionare, con qualche avvelenamento dei pozzi, le stesse decisioni dei giudici. Diversamente da questa ipotesi, per quale motivo l’avvocato Giancarlo Pittelli sia tuttora un detenuto in attesa di giudizio, dopo due anni e mezzo dall’arresto, quando finì in una retata di ‘ndrangheta, nessuno lo sa spiegare. È in detenzione domiciliare, dopo un ping-pong tra Procura della repubblica e giudici, ma i suoi inquirenti-inquisitori lo vogliono di nuovo in galera. E ieri si è tenuta la prima vera udienza di un “processetto” che dovrebbe decidere, sulla base dell’articolo 274 del codice di procedura penale, se esistano motivi formali e di fatto, cioè esigenze cautelari, per cui l’ex senatore di Forza Italia debba continuare a essere rinchiuso.
Nella sua abitazione, dove è oggi, dopo la decisione del tribunale di Vibo Valentia del 9 febbraio, oppure di nuovo sbattuto in qualche carcere speciale, come è già accaduto e come vorrebbe la Procura di Nicola Gratteri. Se ieri è stata la prima vera udienza del “processetto” è perché nella precedente del 22 marzo i procuratori si erano fatti precedere da un bel malloppo di scartoffie, sconosciute alla difesa, contenenti, secondo la loro lettura, prove inequivocabili della perseverante capacità dell’avvocato Pittelli di avvelenare i pozzi, cioè di inquinare le prove. Ormai non occorre più nemmeno la laurea in giurisprudenza, visto che anche un semplice frequentatore di talk show sa che per tenere in galera (o nella galera domiciliare) una persona prima del processo, occorre il rischio che si verifichi almeno una delle condizioni previste dalla norma. Ed essendo più che escluse, e addirittura lunari, le possibilità che Giancarlo Pittelli decida di espatriare o di ripetere il reato di “concorso esterno” (che essendo un reato fantasma non può essere reiterato), il bandolo della matassa non può essere che un sospetto di inquinamento.
In effetti la Procura di Catanzaro non ha tutti i torti. Di pozzi, questo imputato ne ha avvelenati parecchi lungo il percorso delle indagini e del processo “Rinascita Scott”, il fiore all’occhiello che renderà il dottor Gratteri più famoso di Giovanni Falcone. Quello che potrebbe aprirgli le porte, magari proprio oggi, con la decisione del Csm, della Procura nazionale Antimafia. Perché ogni tanto capita che l’opinione pubblica non riceva solo le comunicazioni delle conferenze stampa dei procuratori. Ogni tanto anche i difensori, o magari lo stesso imputato, e gli amici che credono nella sua innocenza, riescono a far sentire la propria voce, e questo dà molto fastidio. Più che fastidio, addirittura reazione forte, visto che la famosa lettera che l’avvocato Pittelli aveva mandato dalla propria detenzione domiciliare alla ministra e deputata Mara Carfagna è diventata pretesto per un ordine di custodia cautelare in carcere. Neanche fosse stata indirizzata a Matteo Messina Denaro. “Ma la cosa assurda –lo fa notare uno dei due difensori, l’avvocato Guido Contestabile– è che con quella decisione Giancarlo è stato mandato laddove di lettere ai parlamentari può mandarne quante vuole, cioè in prigione”. Ammesso e non concesso che dai domiciliari scrivere a un deputato sia illegittimo, come ha sostenuto in aula l’avvocato Salvatore Staiano.
Ma il fastidio che ha suscitato la reazione forte dei magistrati si è moltiplicato strada facendo, tanto che il famoso malloppo consegnato dalla Procura ai giudici in vista dell’udienza del 22 marzo, conteneva articoli del Riformista, interviste di Vittorio Sgarbi e addirittura interrogazioni di parlamentari. Quasi fossero prove a carico. Il concetto è semplice e paradossale insieme. Perché tutte queste manifestazioni di interesse per il “caso Pittelli” sarebbero in realtà inquinamenti di prove con la finalità di condizionare i giudici. Seguiamo i ragionamenti svolti nell’udienza di ieri dagli avvocati Contestabile e Stajano. Prima di tutto: di quali prove stiamo parlando? Quelle che i rappresentanti dell’accusa e il giudice delle indagini preliminari hanno ritenuto sufficienti per mandare a giudizio l’avvocato Pittelli sono depositate al processo “Rinascita Scott” che si sta celebrando nell’ aula bunker di Lamezia.
Quindi inquinamento di che cosa? Del processo? La verità è che questi procuratori hanno poca fiducia nei giudici, e di conseguenza sono prede di una vera fifa blu ogni volta che i tribunali assolvono, come sta capitando sempre più spesso nei processi conseguenti a retate raffazzonate che mescolano le mele con le pere, e i mafiosi con i cittadini per bene. E sempre più spesso gli avvocati, il cui status viene fatto coincidere con quello dell’assistito e addirittura con il reato di cui questi è imputato. Che cosa si sta discutendo quindi in quest’aula dove si celebra il “processetto” che dovrà decidere se le manette ai polsi dell’avvocato Pittelli debbano essere reali (galera) o solo virtuali (domicilio)? Si sta verificando se la mobilitazione degli amici in favore di Pittelli e le iniziative giornalistiche e parlamentari che lo riguardano siano in grado di condizionare i giudici. Il che è molto grave, perché vuol dire che questi pubblici ministeri ritengono i tribunali soggetti condizionabili. E forse preferirebbero che proprio non esistessero, o fossero tutt’uno con le Procure, come ai tempi dell’Inquisizione.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
«La procura di Catanzaro vuol forse intimidire i deputati della Repubblica?». Il parlamentare di Italia viva. «Gratteri nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Giancarlo Pittelli, ha alleato anche due interrogazioni parlamentari». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 marzo 2022.
«Incomprensibile, grave e ingiustificata». Così al Dubbio l’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti descrive una iniziativa di Nicola Gratteri, resa nota due giorni fa in Aula dallo stesso parlamentare: «La procura della Repubblica di Catanzaro, Direzione distrettuale Antimafia, nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Giancarlo Pittelli ha allegato tra gli atti anche due interrogazioni parlamentari». Una a prima firma Riccardo Magi (+ Europa) con la dem Bruno Bossio e lo stesso Giachetti e un’altra depositata al Senato da Emma Bonino e da Matteo Richetti di Azione. «I deputati – ha spiegato Giachetti – hanno il diritto, nella loro attività, attraverso le interrogazioni, di stigmatizzare delle cose che non vanno. Io ho presentato decine e decine di interrogazioni, anche grazie alle segnalazioni di Rita Bernardini, sul carcere, il 41 bis, e questioni anche più gravi. Nel caso specifico si tratta di cose che personalmente ho appreso dai giornali».
Caso Pittelli, la lettera alla ministra Carfagna
Ma cosa dice la famosa interpellanza del 14 febbraio? Ricorda l’arresto di Pittelli, la misura cautelare in isolamento, la negazione di un interrogatorio per mesi, lo sciopero della fame intrapreso per chiederne la scarcerazione, la continua fuga di notizie sul caso, la abnorme durata della carcerazione preventiva che a febbraio 2022 ha raggiunto i 26 mesi, la tutela di diritti dell’imputato e del detenuto, la diffusione degli atti istruttori, peraltro irrilevanti ai fini processuali e riguardanti la vita privata dell’imputato, la revoca dei domiciliari per aver inviato una lettera alla Ministra Carfagna, anomalie sulle trascrizioni delle intercettazioni contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, il fatto che «il dottor Otello Lupacchini, già procuratore generale presso la corte d’appello di Catanzaro, ha rivelato di aver ricevuto, nel gennaio 2020, una lettera da Pittelli che conteneva denunce circostanziate nei confronti di un magistrato di Catanzaro e di aver trasmesso tale documento alla procura della Repubblica di Salerno; all’esposto non ha fatto seguito né l’avvio di indagini nei confronti del magistrato accusato, né un eventuale procedimento per calunnia verso lo stesso Pittelli. Per tutto questo gli interroganti hanno chiesto alla Ministra Cartabia “se non ritenga che i fatti in premessa, qualora confermati, siano meritevoli di un accurato approfondimento tramite una ispezione presso gli uffici giudiziari di Catanzaro coinvolti”».
Al momento nessuna risposta all’atto di sindacato ispettivo ma intanto è finito tra gli allegati della Procura di Catanzaro. Quali potrebbero essere le ragioni di questa iniziativa? Ci dice Giachetti: «è una forma di intimidazione, un tentativo di gettare un’ombra su di noi e la nostra attività parlamentare, il sospetto di una regia organizzata inserendola in un contesto di criminalità organizzata?» Pittelli – ricordiamo – è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. «L’articolo 68 della Costituzione – prosegue Giachetti – difende la libertà dei parlamentari rispetto agli altri poteri. E allora perché viene messa agli atti una precipua, specifica e dovuta attività di un parlamentare, in un procedimento in cui quella roba non c’entra nulla?». Giachetti ci annuncia che presenterà un’interrogazione alla Cartabia ma inoltre «credo sia dovere del Presidente della Camera chiedere spiegazioni al CSM: e voglio proprio sapere se il Consiglio si assumerà la responsabilità di dire che una cosa del genere è accettabile».
Gli esposti contro Gratteri bocciati dal Csm
I precedenti non fanno ben sperare. Ricordiamo che per alcuni articoli critici nei confronti della Procura di Catanzaro sempre in merito a Pittelli, la corrente di Area ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela nei confronti di Gratteri e colleghi e che lo stesso Csm qualche settimana fa ha archiviato senza fornire una spiegazione l’esposto dell’Unione delle Camere Penali contro Gratteri per una sua intervista al Corriere della Sera dove alluse a pericolose collusioni dei giudici di Catanzaro visto che non avallavano le sue inchieste. Comunque conclude Giachetti: «Se qualcuno pensa che, allegando delle interrogazioni che sono figlie del mio dovere di parlamentare nei confronti di persone che sono sicuramente fragili, in custodia cautelare e che, spesso e volentieri, proprio a Catanzaro finiscono assolte, otterrà il mio silenzio, sbaglia: io ho il dovere di difendere la mia dignità, e penso che il Presidente della Camera abbia il dovere di tutelare la dignità e le prerogative dei parlamentari».
Caso Pittelli, parla Magi
Anche per l’onorevole Riccardo Magi si tratta di una iniziativa «gravissima, intimidatoria». Magi aggiunge che «come ha spiegato in Aula il presidente di turno Andrea Mandelli, dopo essersi consultato con gli uffici, non ci si ricorda di precedenti del genere. Noi in quella interrogazione abbiamo raccolto degli elementi di cronaca, pubblicati sui giornali, in particolare sul Riformista, dopo un accurato vaglio dei nostri uffici molto attenti all’indicazione delle fonti». Pertanto «è assolutamente necessario che il Presidente della Camera Fico chieda un chiarimento direttamente alla Procura per capire qual è la finalità, quale l’intento di questa iniziativa del Procuratore Gratteri. Sono in gioco le prerogative parlamentari, l’insindacabilità degli atti compiuti dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Quindi, poiché questa questione ha una rilevanza costituzionale, io invito tutti i colleghi a sottoscrivere quella interpellanza».
Il Csm che fa: finta di niente? Gratteri prende a calci la Costituzione: ma l’avvocato Pittelli è Matteo Messina Denaro? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Marzo 2022.
Ma è davvero così importante questo avvocato Pittelli, e le sue responsabilità sono così gravi, quasi fosse, per dire, un Matteo Messina Denaro, da indurre la procura di Catanzaro a violare, in un sol colpo, ben tre articoli della Costituzione? Stiamo parlando di tre principi che sono il punto focale delle libertà dei cittadini e dello Stato di diritto. Cioè gli articoli 21, 27 e 68 della Costituzione. Ci saranno, dopo che il deputato Roberto Giachetti lo ha denunciato in aula, un intervento del Presidente della Camera e della ministra perché intervenga il Csm? O l’organo di autogoverno dei magistrati prenderà in considerazione solo la richiesta delle toghe di sinistra di Area che hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela del procuratore Gratteri e degli uomini della Dda di Catanzaro?
Breve riassunto di quel che è accaduto. Nel maxiprocesso “Rinascita Scott” che si sta celebrando a Lamezia, tra le centinaia di imputati, ce ne è uno che è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa solo perché è un avvocato che esercita la professione in una regione, la Calabria, dove, se sei un penalista, ti capita ogni giorno di assistere persone imputate di reati di mafia. Dobbiamo dirlo chiaro: ad alcuni magistrati, in particolare ai pm “antimafia”, il fatto che questo tipo di imputati abbiano bravi avvocati che difendono i loro diritti, dà molto fastidio. Il loro ideale di processo è quello in cui non si fa neanche la fatica di indagare, basta la parola dei “pentiti” a costruire le accuse e in seguito i maxiblitz. Ma ogni arrestato deve essere solo e disperato per diventare un “pentito”. Se ha al suo fianco un difensore, magari si difende, a maggior ragione se è estraneo ai fatti di cui è accusato. Ai pm “antimafia” parrà strano, ma esistono persino gli innocenti, nei processi e nelle galere.
Quindi questo signor Giancarlo Pittelli è importante per la procura di Catanzaro e la direzione antimafia perché è un pericoloso complice dei boss di ‘ndrangheta, o solo perché fa il suo dovere di avvocato in una terra difficile come la Calabria dove poco si fa per debellare le ‘ndrine nonostante i blitz e le conferenze stampa? Noi propendiamo per la prima ipotesi, perché se invece fosse vera la seconda, saremmo in presenza di un accanimento giudiziario e di violazioni dei diritti (della difesa ma anche della professione) di proporzioni tali da giustificare quanto meno gli interventi immediati della ministra Cartabia e del procuratore generale Salvi con un’azione disciplinare nei confronti del dottor Nicola Gratteri e dei suoi collaboratori. Perché questo avvocato e signor Pittelli è stato usato, negli ultimi due anni e mezzo, come una pallina di ping pong, sballottato di carcere speciale in carcere speciale, con le accuse di gravi reati di mafia che entravano e uscivano dai provvedimenti dei giudici, e senza che mai lui potesse avere pace, neanche nella detenzione domiciliare. Un vero sorvegliato speciale, privato persino del diritto alla salute e al riposo.
Perché per esempio, se lui coabita solo con la moglie, e non può parlare con nessun altro, e se voi della procura e della polizia giudiziaria sapete anche delle sue condizioni psichiche che lo costringono a sonniferi e psicofarmaci, andate a controllarlo nelle prime ore del mattino, magari quando la moglie è andata a fare la spesa e lui dorme e non sente il campanello? E poi questa relazione, considerando anche il fatto che due ore dopo, al successivo controllo l’avvocato ha aperto la porta agli agenti, viene allegata ai documenti con cui “Gratteri più tre” chiedono di nuovo la galera per l’imputato? È un’aggravante , o un reato, non sentire il campanello? O addirittura il sospetto di pericolo di fuga previsto dall’articolo 274 del codice di procedura? La costante violazione dell’articolo 27 della Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza, ma anche dell’articolo 111 sul giusto processo, nella vicenda giudiziaria dell’avvocato Pittelli è costante. Fin da quel 20 dicembre 2019 quando, dopo la retata dell’inchiesta “Rinascita Scott” del giorno prima, il legale fu presentato alla stampa come la cinghia di trasmissione tra la ‘ndrangheta, la società civile e la massoneria. Già colpevole, già condannato. Ma osiamo dire che la situazione, a partire da quel giorno, si è aggravata.
Quella conferenza stampa non è stata un colpo di testa, un’esagerazione del procuratore Gratteri. Lo dimostrano le settanta pagine che la Dda ha voluto allegare nei giorni scorsi all’udienza in cui i giudici dovranno decidere se accogliere la richiesta con cui la procura chiede di poter mettere per la terza volta le manette ai polsi dell’avvocato. Il raggio d’azione, con il deposito di quei documenti, si è decisamente allargato. E anche aggravato. Perché non si fa più solo riferimento ai diritti di un imputato o a quelli professionali di un avvocato. Con il gesto di allegare, quasi fossero corpi di reato, le due interrogazioni parlamentari –quella alla Camera dei deputati Giachetti, Bruno Bossio e Magi, e quella al Senato di Emma Bonino e Matteo Richetti– è entrato in discussione un attacco alla libertà di espressione dei parlamentari prevista dall’articolo 68 della Costituzione. E ancora non basta. L’Ordine e i sindacati dei giornalisti, che spesso si appellano all’articolo 21 della Costituzione, non hanno niente da dire sul fatto che gli articoli del Riformista vengano inseriti in atti giudiziari quasi fossero anch’essi, come le interrogazioni dei deputati e senatori, corpi di reato? “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, dice l’articolo 21. Ma che cosa significa, sul piano giuridico e giudiziario, il fatto che vengano additate come fatti sospetti le iniziative di sindacato ispettivo da parte di parlamentari e le inchieste giornalistiche di un quotidiano, oltre addirittura a commenti della pagina facebook o interviste tv di Vittorio Sgarbi? Siamo sicuri che questi messaggi siano diretti solo all’imputato Pittelli Giancarlo e non a quel mondo politico e giornalistico che nel passato chinò la testa, ma oggi potrebbe rialzarla a ribellarsi, dopo trent’anni, al governo dei pubblici ministeri?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Gratteri mette nel mirino pure i parlamentari che in Aula "tifano" per i domiciliari a Pittelli. Felice Manti il 27 Marzo 2022 su Il Giornale.
Dda contro le interrogazioni sull'ex deputato. Giachetti invoca Fico e Csm.
Quando si vive dentro un bunker è difficile distinguere le mille sfumature della politica da un attacco personale. È quello che sta succedendo al coraggioso procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, purtroppo non nuovo a certe entrate in tackle. Vedi l'attacco al Guardasigilli Marta Cartabia e alla sua riforma che, per dirla con delicatezza, «non scoraggia i criminali». Chi conosce il preparatissimo pm sa che ha un caratteraccio. Il suo collega Emilio Sirianni di Md in un'intercettazione legata all'inchiesta sull'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano lo definisce «un fascista di mer... mediocre e ignorante» ma chi ci lavora da una vita sa che non è così, anzi.
Gratteri è convinto che il processo nato dalle indagini Rinascita-Scott sia cruciale per sconfiggere la 'ndrangheta. L'imputato chiave del processo è l'ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, già sfiorato dieci anni fa dalle indagini Why not di Luigi de Magistris, finito ai domiciliari nonostante la gravità delle accuse (essere il riferimento delle cosche calabresi e il garante dell'aggiustamento di alcuni processi). In ogni caso Gratteri sa che una sconfitta processuale, financo un ridimensionamento dell'impianto accusatorio, sarebbe una tegola. Sia per la sua carriera (è in corsa per guidare la Direzione nazionale antimafia) sia per la sua credibilità, attesa «l'ombra di evanescenze lunatiche» - per dirla con le parole dell'ex Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, cacciato dalla Calabria in un amen dal Csm solo per aver leso la maestà di Gratteri - che si allungherebbe ulteriormente sulle sue indagini. Perché darebbe benzina a chi sostiene che gratta gratta certe sue indagini alla 'ndrangheta non fanno un baffo. Pittelli, si sa, è un gran chiacchierone. Una sua frase sul caso David Rossi («Se si sa chi l'ha ammazzato scoppia un casino») captata da Gratteri è al setaccio dei pm che indagano sulla morte del manager Mps. Qualche giorno fa è finito incautamente intervistato sul pianerottolo di casa da Alessio Fusco, che con Klaus Davi ha curato degli speciali di Studio Aperto. Ma un conto è volerlo legittimamente imbavagliare per evitare che possa mandare pizzini o messaggi in codice, un altro è accostare maliziosamente alle 'ndrine i parlamentari che ne difendono le garanzie costituzionali e che si sono battuti per fargli addolcire la pena preventiva. Come il renziano Roberto Giachetti, mite parlamentare con la tessera di Italia Viva a destra e il cuore radicale a sinistra, che in Parlamento ha affrontato la questione della sua detenzione dopo il caso della missiva che Pittelli ha mandato alla ex collega azzurra Mara Carfagna e che Gratteri ha preso a pretesto per giustificare ancor di più la morsa detentiva. «So che nel ricorso contro i domiciliari la Dda ha allegato interrogazioni anche mie. È una forma di intimidazione o un tentativo di gettare ombra sull'attività dei parlamentari?», si è chiesto Giachetti, che ha chiamato in causa il Csm e il presidente della Camera Roberto Fico per tutelare «la dignità e le prerogative che la Costituzione attribuisce ai parlamentari». Inimicarsi governo e Parlamento non è il modo migliore per fare la guerra alla 'ndrangheta, anzi. Quando i buoni litigano, i cattivi se la ridono.
Il discorso alla Camera. Giachetti contro Gratteri: “Intimidisce il Parlamento, Csm e Cartabia intervengano”. Redazione su Il Riformista il 25 Marzo 2022.
L’onorevole Roberto Giachetti, di Italia Viva, ieri è intervenuto alla Camera per rendere pubblica una iniziativa del Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che appare evidentemente come una intimidazione nei confronti di alcuni parlamentari. Giachetti ha chiesto l’intervento della ministra e del Csm. Ecco il testo del suo intervento: “Ho appreso che la procura della Repubblica di Catanzaro, Direzione distrettuale Antimafia, nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Pittelli – vicenda della quale ci siamo occupati in molti anche in questo Parlamento, attraverso interpellanze e interrogazioni – ha depositato alcune interrogazioni parlamentari: una presentata dal sottoscritto, dall’onorevole Bruno Bossio e dall’onorevole Magi, un’altra presentata al Senato dai colleghi Bonino e Richetti.
Si tratta di interrogazioni, svolte nell’attività parlamentare, che sono figlie di quello che facciamo da una vita, in base a quanto stabilito dalla legge, che prevede che i parlamentari siano addirittura gli unici a poter fare le ispezioni in carcere per verificare le condizioni dei detenuti. I deputati hanno il diritto, nella loro attività, attraverso le interrogazioni, di stigmatizzare delle cose che non vanno. Nel caso specifico si tratta di cose che personalmente ho appreso dai giornali. Senza avere nessun rapporto diretto con l’onorevole Pittelli. L’articolo 68 della Costituzione difende la libertà dei parlamentari. Il principio dell’articolo 68 è difendere la libertà dei parlamentari rispetto agli altri poteri. La domanda è: perché viene messa agli atti una precipua, specifica e dovuta attività di un parlamentare, in un procedimento in cui quella roba non c’entra nulla?
Faccio presente che sono stati messi dentro, nel materiale depositato dalla Procura di Catanzaro, anche articoli di giornale, de Il Riformista (uno dei pochi giornali che, rispetto alla giustizia e alla magistratura ha una posizione di un certo tipo) e addirittura un video dell’onorevole Sgarbi su Facebook. Si può pensare, in quel caso – non nel nostro – che ci possano essere gli estremi per una querela. Ma che c’entra con il procedimento che riguarda gli arresti domiciliari dell’onorevole Pittelli? Nulla. E allora il dubbio viene: è una forma di intimidazione, ovvero è un tentativo di gettare un’ombra su un’attività parlamentare, inserendola in un contesto? Pittelli è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e compagnia bella.
Non è un caso personale, mio, dell’onorevole Bossio o dell’onorevole Magi, è un problema di questo Parlamento, è un problema di tutti. Allora io, per conto mio, presenterò un’interrogazione alla Ministra della Giustizia per sapere quali strumenti ha e per sapere se intenda fare qualcosa su questo tipo di attività della procura della Repubblica di Catanzaro. Ma io penso che sia, non solo interesse, ma dovere del Presidente della Camera di chiedere spiegazioni al CSM, in ragione di iniziative che palesemente, per quanto mi riguarda, più che un’ombra appaiono come un’intimidazione. Se qualcuno pensa che, allegando delle interrogazioni che sono figlie del mio dovere di parlamentare nei confronti di persone che sono sicuramente fragili, in custodia cautelare e che, spesso e volentieri, proprio a Catanzaro finiscono assolte, otterrà il mio silenzio, sbaglia: io ho il dovere di difendere la mia dignità, e penso che il Presidente della Camera abbia il dovere di tutelare la dignità e le prerogative dei parlamentari”.
Il Csm fermerà il Procuratore? Attacco eversivo di Gratteri alla Cartabia: “Gestione della giustizia devastante”. Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2022.
Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha lanciato accuse feroci contro il governo e la ministra Cartabia. Ha detto che governo e ministero non stanno facendo niente per contrastare la mafia, ha detto di sperare solo in nuove elezioni che promuovano un governo più vicino alla magistratura, e ha definito le misure pensate dalla ministra Cartabia “devastanti per i prossimi decenni”. Diciamo che ha superato anche Travaglio, il quale però fa il giornalista non è un rappresentate dello Stato.
La domanda ora è questa: il Csm interverrà per condannare queste dichiarazioni oggettivamente eversive del Procuratore e per controllare se le sue esternazioni sono compatibili con il ruolo che ricopre? Se invece il Csm non ha la forza o l’autonomia per bloccare il magistrato, si pone un altro problema: non sarà giunta l’ora di uniformarci agli altri paesi occidentali e mettere l’ufficio del Pm sotto il controllo del ministero?
Gratteri contro Cartabia: «Il governo non ci aiuta nella lotta alle mafie». «Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni». Il Dubbio il 21 marzo 2022.
«In Calabria c’è la ’ndrangheta, c’è la corruzione. Purtroppo il fenomeno riguarda tutto il mondo occidentale, negli ultimi 20 anni c’è stato un forte abbassamento della morale e dell’etica e la corruzione ha investito appieno il mondo occidentale, in particolare l’Italia e in particolare il Sud e i posti ad alta densità mafiosa. Ma noi purtroppo non abbiamo avuto dei governi che hanno voluto investire in sicurezza, che hanno voluto investire contro le mafie». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervenendo in collegamento con l’evento del «Calabria Day» in corso al Padiglione Italia dell’Expo 2020, a Dubai.
«Purtroppo – ha proseguito Gratteri – la storia ci insegna, già dalla fine dell’800, che il potere, la classe dirigente ha bisogno di mafie per contrastare altri centri di potere e altri poteri concorrenti. Purtroppo devo dire che questo governo non ci sta aiutando nel contrasto alle mafie, con scelte apparentemente che c’entrano poco con la mafia, ci sta aiutando pochissimo. Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni. Il problema – ha sostenuto il procuratore di Catanzaro – non è l’immediato, il problema è che nella testa della gente entra il tarlo che tutto si aggiusta, c’è una sistemazione. Non è sostanzialmente un deterrente».
«Io – ha rimarcato il procuratore della Repubblica di Catanzaro – ho bisogno di un sistema giudiziario nel rispetto della Costituzione, c’è bisogno di fare tali e tante modifiche in modo che diventi non conveniente delinquere. Quindi non un approccio morale ed etico, ma un rapporto di convenienza, dimostriamo sul piano sostanziale che non è conveniente delinquere. Temo che con questo governo, da questo punto di vista, sul piano della sicurezza e sul piano del centrato alle mafie non si andrà da nessuna parte, se non si arriverà alle prossime elezioni sperando in un governo che abbia una visione sulla sicurezza e soprattutto sulla trasformazione delle mafie, che non sparano, non uccidono ma che – ha concluso Gratteri – comprano tutto ciò che è in vendita e soprattutto comprano l’animo delle persone».
Il giudice restituisce «casa Impastato» al figlio di Badalamenti. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 4 marzo 2022.
Per un errore banale, dicono gli avvocati del Comune, per un refuso nella trascrizione delle particelle catastali, la famiglia del vecchio boss di Cinisi coinvolta nell’omicidio di Peppino Impastato torna proprietaria di un bene confiscato dall’Antimafia. Un errore di burocrati, magistrati e investigatori infine beffati da Leonardo Badalamenti, dal rampollo di «don Tano», il figlio di «Tano Seduto», come lo chiamavano dalla loro radio nel 1978 i ragazzi dei Centopassi. Come nel gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza per il casolare di Contrada Uliveto, tolto al boss e assegnato nel 2010 al Comune di Cinisi. Si chiude con la presentazione dei libri antimafia, con convegni e visite guidate sulla strada della legalità. Con soddisfazione di Badalamenti junior, rientrato quattro anni fa dal Brasile dove era ricercato per traffico internazionale di droga, adesso forte di due sentenze, di cui una definitiva. Era stato lui a minacciare il sindaco Gianni Palazzolo che, «dopo avere spesso 400 mila euro di fondi europei per la ristrutturazione», aveva assegnato l’immobile all’associazione costituita dal fratello di Peppino Impastato, Giovanni, e da sua figlia Lucia. Un movimento di aggregazione giovanile diventato «Casa Felicia», in memoria della madre coraggio di questo martire dilaniato da una bomba mafiosa.
La madre
Appunto, , proprio la donna che nell’aula bunker di Palermo puntò il dito contro il vecchio boss Tano Badalamenti, poi condannato. C’è questa storia, trasformata in un capolavoro cinematografico da Marco Tullio Giordana con un giovanissimo Luigi Lo Cascio nei panni di Peppino dietro il paradosso giudiziario annunciato da una scarna nota dell’Agenzia dei beni confiscati: «Il 26 aprile dovremo restituire l’immobile al figlio di don Tano, perché venne commesso un errore nelle procedure...». Trionfa Badalamenti junior, arrestato dalla Dia nell’agosto 2020, ma poi scarcerato. Vittorioso anche su quel fronte. La Corte di appello decise infatti di non potere accogliere la richiesta di estradizione «perché viola alcuni punti del trattato bilaterale con il Brasile». Un altro cavillo, tuonano al Comune di Cinisi dove il sindaco non considera quella del casolare una battaglia persa: «Nonostante la sentenza, Badalamenti non può tornare in possesso del bene perché quando l’Agenzia lo assegnò a noi non valeva niente e solo dopo la ristrutturazione ha acquisito un vero valore». Dall’altra parte rimproverano il sindaco di contestare le sentenze: «Dovrà cedere le chiavi». Secca la replica: «Il codice antimafia prevede che riavranno il casolare solo pagando un congruo indennizzo». Vicenda spinosa. Un contrasto che si gioca anche al tribunale di Trapani dove il figlio di «don Tano» ha denunciato il sindaco per appropriazione indebita, con procedimento seguito da una controdenuncia del primo cittadino per calunnia
Per un errore di trascrizione il casolare di Peppino Impastato torna al figlio di don Tano. Roberto Chifari il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il prossimo 26 aprile il comune di Cinisi, nel Palermitano, dovrà restituire al figlio di don Tano Badalamenti il casolare confiscato al boss. Tutto per un errore nel decreto dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati.
Il casolare dove è stato ucciso Peppino Impastato è al centro di una vicenda surreale. Per un errore nel decreto di confisca commesso tanti anni fa, l'Agenzia nazionale per i beni confiscati, deve restituire Casa Felicia al figlio del capomafia di Cinisi, don Tano Badalamenti, condannato per essere il mandante dell'omicidio di Peppino Impastato. Il prossimo 26 aprile il bene dovrà essere restituito dal Comune all'erede. Ci sono due sentenze, di cui una definitiva, che stabiliscono che il casolare di contrada Uliveto, tolto al boss e assegnato nel 2010 al Comune di Cinisi, debba ritornare al legittimo erede. L'episodio è surreale perché il casolare, dopo un restauro costato 400 mila euro, era stato legittimamente affidato dal comune di Cinisi all’Associazione “Casa Felicia”. A sua volta il Comune lo aveva ottenuto dalla Regione Sicilia che nel dicembre 2020 aveva dichiarato che il casolare, che prende il nome della coraggiosa mamma di Peppino Impastato, era ufficialmente rientrato nel patrimonio della Regione dopo una procedura di esproprio lunga e complicata. Alla fine il comune di Cinisi e la Città metropolitana di Palermo avevano deciso di destinarlo ad attività sociali e di recupero della memoria. Un modo per tenere viva la speranza e il ricordo di Peppino Impastato e di tutte le vittime di mafia.
"Sconcerto e incredulità"
La Cgil esprime incredulità e sconcerto per il fatto che, per un errore nel decreto di confisca commesso tanti anni fa, l'Agenzia nazionale per i beni confiscati debba restituire Casa Felicia al figlio del capomafia di Cinisi condannato per essere il mandante dell'omicidio di Peppino Impastato. “È incredibile che, per un errore nelle procedure, il prossimo 26 aprile si dovrà restituire al figlio di don Tano il casolare confiscato al boss Badalamenti”, dicono il segretario generale Cgil Palermo Mario Ridulfo e il responsabile del dipartimento legalità della Cgil Palermo Dino Paternostro, che esprimono solidarietà e sostegno alla famiglia Impastato affinché venga individuata una soluzione diversa.
"Spesi soldi pubblici"
In una nota l'Associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato rivendica il bene che negli è stato oggetto di una importante riqualifica. "Se c'è stato un 'errore' vogliamo capire chi ne ha la responsabilità, anche perché - aggiunge la nota - questo ha determinato la spesa di molti soldi pubblici. Leonardo Badalamenti nell'agosto del 2020, con la scusa di rivendicare un suo diritto, aveva rotto le serrature di questo immobile - spiegano le associazioni - per appropriarsene con la forza". Negli ultimi due anni il Comune ha dato a Casa Memoria Impastato la gestione del bene, che da allora è stato visitato da centinaia di giovani. Poi l'improvvisa notizia arrivata al Comune di Cinisi con sole 24 ore di anticipo: l'Agenzia nazionale dei beni sequestrati alla criminalità organizzata aveva notificato la revoca della confisca e le operazioni di immissione in possesso erano fissate per il 25 febbraio, appuntamento rinviato al 29 aprile". Il Comune, con una delibera, ha dichiarato la volontà di mantenere la proprietà e il possesso del bene e di avvalersi della facoltà della restituzione per equivalente. "Per quanto ci riguarda, dichiariamo l'intenzione di porre in atto la nostra resistenza - concludono le associazioni - affinché questo bene non ritorni a Leonardo Badalamenti".
L'ombra di Badalamenti si aggira ancora su Cinisi. Salvo Vitale l'11 Marzo 2022 su antimafiaduemila.com.
Gli ultimi anni di don Tano
L’ultima volta don Tano fu visto da chi scrive in un bar-ristorante di Cinisi, vicino alla stazione, nei paraggi delle sue proprietà oggi confiscate, e del casolare, del quale è stata disposta la restituzione all’erede Vito. Era il luglio 1978, due mesi dopo l’uccisione di Peppino Impastato e tutti lo davano per “scappato” o nascosto, a seguito della sanguinosa guerra di mafia scoppiata con i corleonesi di Totò Riina per il controllo di Cosa Nostra. Secondo Buscetta, egli sarebbe stato posato dal suo ruolo di capo della Commissione e sostituito con Michele Greco prima e da Totò Riina dopo qualche anno. In realtà è stato accertato, come sostenuto anche da Falcone, che Badalamenti fu posato alla fine del ’78 e che quindi, al momento dell’omicidio di Peppino Impastato egli era a Cinisi nel pieno delle sue “funzioni”. Dopodiché del boss si perdono le tracce, sino al momento del suo arresto, l’8 aprile 1984, a Madrid, assieme al fido figlio Vito. Estradizione negli USA, condanna a 45 anni di carcere per traffico di droga, sino alla morte, in Massachusset, ad Ayer, nel centro medico federale di Devens, dove era stato trasferito dal carcere di Fairton.
L’ombra del boss
Sia durante gli anni passati in prigione che dopo la sua morte l’ombra di don Tano ha continuato ad aggirarsi su Cinisi, non tanto per la sua numerosa parentela, ormai inoffensiva o emigrata altrove, ma per i suoi interessi e la sua eredità, non solo di capo, ma anche di beni materiali. Qualche anno prima si era diffusa la voce che Badalamenti, ammalato di cancro, avrebbe potuto essere instradato in Italia e la madre di Peppino Felicia visse per qualche periodo con questa paura, scomparsa solo con la morte del boss, nell’aprile 2004, otto mesi prima che lei stessa venisse meno, il 7.12.2004. L’ombra del boss si è intravista in diversi altri momenti, attraverso i cortei annuali per Peppino, attraverso scritte murali del tipo “Viva la mafia”, “viva Badalamenti”, ma anche “Badalamenti boia”, attraverso l’altro boss che ne prese il posto, Procopio Di Maggio, in una scia di altri omicidi e altre sotterranee bravate, come quelle di una targa segnaletica appesa sulla via Peppino Impastato, con la scritta “Via Gaetano Badalamenti vescovo”, o come quella dei due cani uccisi a Giovanni Impastato davanti al suo negozio, per non parlare delle macchie di vernice rossa spruzzate sul muro dello stesso negozio nel novembre 2003.
Il fratello partigiano
Altro rigurgito di memoria scoppiò nel maggio 2015, allorché il neosindaco di Cinisi, Giangiacomo Palazzolo, a seguito di un mio articolo in cui denunciavo l’anomalia di una via intestata a Salvatore Badalamenti, fratello di Tano, spacciato per partigiano, dal balcone di Casa Impastato annunciò la sua volontà di rimuovere l’intestazione. Apriti cielo!!!!! In contemporanea con molti degli abitanti di Cinisi, orfani di don Tano, insorse, su pressione di qualche elemento locale anche l’ANPI, si trovò che Salvatore Badalamenti era un partigiano ucciso dai fascisti il 23 aprile 1945 a S. Albano Stura-Ceriolo, (CN) in uno scontro a fuoco e che esisteva addirittura un cippo con il nome dei cinque caduti. E così la via è rimasta, malgrado l’appello dello scrivente a valutare “l’opportunità” di questa scelta.
Divieto di pasto
A partire dal 2001 la casa sul corso di Cinisi appartenuta a don Tano divenne sede saltuaria del Forum Sociale Antimafia, che la usava per le riunioni preparatorie e per l’organizzazione delle giornate di maggio per l’anniversario della morte di Peppino. Il Comune non aveva problemi a concedere la chiave e per la luce elettrica ci si arrangiava grazie a un vicino che concedeva di allacciarsi, il tutto con grande scandalo dei soliti benpensanti che scambiavano le riunioni operative per bivacchi. Il sindaco arrivò addirittura a scrivere un’ordinanza in cui si proibiva di mangiare in quella casa, sino allo scoppio di un altro scandalo nel 2013, perché, dopo l’organizzazione di un presepe vivente sulle terre e nel casolare abbandonato e confiscato, un gruppo di giovani organizzatori dell’evento aveva osato fare una mangiata di montone arrosto in quel posto. Si è arrivato praticamente a formalizzare una sacralità delle terre confiscate a don Tano, dove era proibito anche mangiare un panino o bere una birra. Sorvoliamo sulle successive vicende di Casa Badalamenti, prima promessa all’Associazione Peppino Impastato, poi, dopo una serie di contrasti, divisa con Casa Memoria al pianterreno e diventata, al primo piano, sede della biblioteca comunale dopo un lungo restauro.
Da una confisca all’altra
Il casolare oggi conteso, che non è quello in cui è stato ucciso Impastato, ancora abbandonato al degrado dopo decenni di promesse di acquisizione e sistemazione. In principio era un rudere, più o meno come quello della canzone di Sergio Endrigo, “Era una casa tanto carina, - senza soffitto, senza cucina, - non si poteva entrarci dentro - perché non c’era il pavimento, - non si poteva andare a letto, - in quella casa non c’era il tetto”. Il rudere si trova all’interno di un vasto appezzamento di terreno in contrada “Napoli”, sopra la stazione ferroviaria di Cinisi-Terrasini. Il 20 novembre 2007, praticamente allo scadere dei cinque anni dalla morte, previsti dalla legge, lo Stato, o, se si preferisce, la magistratura, decideva, con molto ritardo, di mettere sotto confisca i restanti beni di Gaetano Badalamenti, in gran parte terreni agricoli, compreso anche il rudere “tanto carino” cui abbiamo fatto cenno. La casa di Cinisi era invece già stata messa sotto sequestro dai Giudici Falcone, Borsellino, Guarnotta, Di Lello, a partire dal 4.4.1985, sino alla definitiva confisca del 4.11.2009, (24 anni). Alla confisca aveva fatto ricorso Teresa Vitale, moglie di don Tano, nell’aprile del 2009, ma il ricorso era stato ritenuto inammissibile da una serie di sentenze, da quella del 10 aprile 2014, all’ultima del 24 maggio 2019. E tuttavia gli avvocati difensori scoprirono che nel decreto di confisca non si era tenuto in adeguato conto un particolare, ovvero di una “casa”, quella “tanto carina”, “donata” da Fara Maniaci Badalamenti, sorella di Gaetano, al fratello. Non si trattava pertanto di un bene acquistato con denaro di dubbia provenienza, ma di un lascito. Nel maggio 2018 il figlio di Badalamenti, Vito, presentava un’istanza di annullamento non del decreto di confisca di tutti i beni del padre, ma solo della particella in questione censita al foglio di mappa 12, come particella 134 e la Corte accoglieva il suo ricorso, decretandone, anche in appello, la restituzione.
Il restauro e la restituzione
Nel frattempo, dopo la confisca, il Comune di Cinisi, al quale era stato affidato il patrimonio, otteneva un finanziamento di 370 mila euro dal GAL di Castellammare del Golfo e avviava una ristrutturazione della vecchia costruzione, rendendola una casa abitabile, che il 28 gennaio 2021 è stata data in gestione a Casa Memoria Impastato, con l’obiettivo di realizzarne un centro culturale per iniziative antimafia. Quindi, al momento della sentenza, Leonardo Badalamenti si è ritrovato proprietario di un bel caseggiato, dove all’origine c’era solo una stalla. La sentenza ha provocato una levata di scudi e una serie di proteste sia da parte del sindaco di Cinisi che dagli esponenti di Casa Memoria. Da entrambe le parti si sostiene che la restituzione è una sconfitta per tutta l’antimafia e che si rischia di assistere all’utilizzo di un pubblico finanziamento per il restauro di un rudere appartenuto a un noto mafioso ed ereditato dal figlio. Lo Stato che finanzia la mafia, ha detto qualcuno. “Non si può restituire il casolare alla mafia”, ha detto Giovanni Impastato, facendo irritare L. Badalamenti, che si è sentito calunniato, poiché egli sostiene di essere incensurato. Non è chiaro se per lui essere incensurato vuol dire non essere mafioso. Qualcuno ha visto una delle tante discrasie delle norme sui sequestri e le confische, essendo nei poteri di un magistrato procedere a un sequestro e/o a una conseguente confisca di prevenzione, anche in assenza di prove: a maggior ragione si potevano e si potrebbero ritrovare elementi per una nuova confisca, spulciando nella presunta carriera criminale di Leonardo Badalamenti.
Una storia infinita
Ripercorriamo i momenti della vicenda: l’affidamento del bene al Comune di Cinisi risale, per quel che se ne sa, al 2010. Dopo i ricorsi di Leonardo Badalamenti, è del 2 luglio 2020 la sentenza della Corte d’Appello che dispone la restituzione. Qualche giorno dopo, il 5 agosto, Leonardo B. tenta di prendere possesso, senza che sia stata ancora avviata la procedura di consegna, rompendo il lucchetto. Il Sindaco di Cinisi denuncia l’effrazione, Badalamenti è arrestato, viene fuori che egli aveva una pendenza con la magistratura brasiliana con una condanna a 5 anni per traffico di droga e con una richiesta di estradizione. L. Badalamenti rimane in carcere per 9 mesi, e la richiesta di estradizione viene respinta dai giudici italiani per i motivi procedurali. Nel frattempo il 28 gennaio 2021 il sindaco di Cinisi decide di affidare il bene a Casa Memoria Impastato, che ne prende possesso battezzando il locale “Casa Felicia”. In sede civile L. Badalamenti ottiene un’altra sentenza di restituzione e il 25 febbraio scorso si presenta ai cancelli dell’immobile con l’avvocato difensore per prendere possesso: alla fine si decide di rinviare il tutto al 29 aprile per l’individuazione, d’intesa con l’ufficio tecnico, dei confini esatti tra il fabbricato e la restante area confiscata, di effettuarne la recinsione e sgomberare l’immobile per renderne possibile la riconsegna.
Nel frattempo il sindaco di Cinisi continua la sua battaglia tentando di giocarsi la carta di una normativa che dispone per i Comuni l’acquisizione del bene, con il pagamento riportato al valore originario e all’indennizzo per la sua detenzione, a partire dal momento dell’affidamento. Come ultima soluzione si riserva, o dopo l’eventuale avvenuta restituzione da parte di Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, che ne è affidataria, di avviare una vertenza per la restituzione del valore del finanziamento con il quale è stato possibile ristrutturare il caseggiato.
La particella 134 e il suo contesto
Che cosa ha motivato questa vicenda, dalla quale non ne escono di sicuro a testa alta l’Agenzia dei beni confiscati e sequestrati (ANSB) alla criminalità mafiosa, la magistratura e i suoi tecnici e lo stesso Comune di Cinisi? Il ricorso di Leonardo Badalamenti è basato sul fatto che la particella134 in oggetto non era compresa nell’originario provvedimento di confisca, acquisito al patrimonio dello Stato per effetto del provvedimento di rettifica della primigenia ordinanza del 10 aprile 2014, con il quale L. Badalamenti aveva chiesto in proprio la restituzione con istanza del 4 ottobre 2019. A suo avviso il provvedimento di rettifica avrebbe giustamente corretto i dati catastali di una delle cinque particelle costitutive del fondo rustico (pascolo), sito in Cinisi alla contrada Uliveto, intestato a Vitale Teresa, essendo stata detta particella erroneamente indicata come la numero 174 anziché la numero 474 ma aveva anche del tutto arbitrariamente fatto ricadere nel provvedimento di correzione il fabbricato rurale (in catasto censito allo stesso foglio 12, particella 134), intestato a Gaetano Badalamenti ed allo stesso pervenuto per donazione da parte della sorella Fara, (ex sorore) il 9 dicembre 1977. Per risolvere la complessa questione, la Corte d’Assise, con un procedimento di rettifica, aveva ordinato la correzione dell’originaria confisca, oltre che nella parte in cui lo stesso aveva erroneamente ricompreso la p.lla 174 (invece della p.lla 474) anche nella parte in cui, “per errore”, nel sequestro e nella successiva confisca, non sarebbe stato ricompreso il fabbricato rurale censito alla p.lla 134, che con il provvedimento di rettifica si assumeva essere annesso al fondo costituito da quattro particelle catastali. Invero, in quel procedimento dalla perizia tecnica si rilevava l’errore materiale fatto dai giudici che avevano messo in atto il sequestro e la confisca indicando, tra le particelle costitutive del fondo agricolo la numero 174, invece della numero 474; nulla però era stato osservato con riguardo al fabbricato rustico di cui alla particella 134. In sintesi, l’ordinanza del 10 aprile 2014 avrebbe - di fatto - operato una nuova confisca, ampliando l’oggetto di quella di cui al provvedimento iniziale del 26 novembre 2007 e ricomprendendovi l’immobile oggetto della donazione ovvero un “fabbricato rurale adibito a stalla con soprastante solaio e spiazzo di pertinenza” confinante da due lati con Vitale Teresa e con tale Randazzo, catastalmente indicato con la p.lla 134. Pertanto questo cespite, non facendo parte del complesso delle altre particelle, andava considerato diversamente e non poteva essere compreso nei beni confiscati. A complicare ulteriormente le cose si aggiunga che la particella 134 sulla quale insiste invece il fabbricato rurale di cui all’ordinanza di rettifica del 10 aprile 2014 non figura affatto; semmai, il fabbricato “non censito”, del quale vi era cenno nella perizia eseguita era piuttosto quello di cui alla particella 482. La Corte d’Assise presieduta da Sergio Gulotta, ha pertanto deciso che il cespite va restituito agli aventi diritto, “a meno che lo stesso non formi oggetto di altri provvedimenti di sequestro emessi da altra autorità giudiziaria in altri e diversi procedimenti”. Questi “altri provvedimenti” non ci sono, ma avrebbero potuto, in itinere, esser fatti.
L’intervista
Merita attenzione un’intervista concessa a Palermo Today il 7 marzo da L. Badalamenti: a proposito della stalla egli dice che “non era un rudere, tanto che era persino abitato. Certo, in nostra assenza e senza interventi di ristrutturazione era malandato. Ma non tanto da impedire, per esempio, al comune di Cinisi, di organizzare al suo interno una manifestazione nel Natale 2012. Cioè ben due anni prima che la confisca fosse sancita dal tribunale e quindi all’insaputa di noi proprietari, ovvero un presepe vivente”. La dichiarazione trasuda di inesattezze, se non vogliamo chiamarle falsità, in quanto, sin dalle prime confische, l’immobile è definito “un fabbricato rurale adibito a stalla con soprastante solaio e spiazzo di pertinenza”. La manifestazione del 2012, cui fa riferimento Leonardo B. era stata organizzata poiché il Comune, avvalendosi della sentenza di confisca, aveva preso possesso dell’immobile, che, a quella data era già ridotto male e che venne sistemato alla meno peggio. Che una stalla potesse poi essere abitata non è credibile, come non lo è l’affermazione che la manifestazione fosse stata fatta all’insaputa dei proprietari, che, sulla carta, non erano più tali: l’iniziativa era a conoscenza di tutto il paese già da qualche mese ed ebbe un notevole successo.
Sul casolare, che oggi non è più tale, L.B. è molto chiaro: si dice non disposto a lasciare il bene al Comune o a Casa Memoria, come pegno di legalità, sia perché i giudici gli hanno restituito ciò che gli spetta, sia perché il Comune non si è comportato correttamente, occupando il casolare prima della sua confisca, ristrutturandolo senza esserne proprietario e dandolo in gestione a Casa Memoria sei mesi dopo la sentenza di restituzione: si stupisce che pertanto Giovanni Impastato abbia accettato un affidamento di qualcosa che si sapeva avrebbe dovuto essere restituita. Sulle accuse di coloro che gli contestano di non avere mai preso le distanze con suo padre, anche qua la sua posizione è chiara: rispetto per le sentenze della magistratura, che lo ha sempre assolto, diversamente da quanto fa il mondo dell’antimafia, che gli si è scagliato contro, come se ne fosse colpevole di avere agito in difesa dei suoi diritti e di averli riconosciuti. Sul padre non esprime giudizi e riconosce di non potere essere imparziale. Anche sulla condanna per l’omicidio di Peppino Impastato sostiene di non avere gli elementi per potere valutare e ritiene inaccettabile la richiesta di parte dell’opinione pubblica di rinnegare il padre: “Ognuno deve essere giudicato per ciò che è e che fa, i figli non possono pagare per le colpe dei padri, è una visione arcaica. Inoltre ritengo che mio padre, se ha sbagliato, ha pagato abbondantemente, visto che ha trascorso 20 anni in carcere, dove è pure morto”.
Carriera di un incensurato
Leonardo B. sostiene: "Sono incensurato, nonostante diversi processi subiti in 40 anni sono stato sempre assolto. Io rispondo delle mie azioni, non posso pagare per le eventuali colpe di mio padre”. In realtà nei suoi confronti esiste un mandato internazionale di cattura emesso a San Paulo (Barra Funda) in Brasile per associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti e falsità ideologica. L.B. sostiene che vive in Sicilia dal 2017 e che, per due anni, è stato sottoposto a misura di prevenzione e le forze dell’ordine hanno quotidianamente controllato se era in casa. Facile pensare che Badalamenti sia tornato in Italia, dov’è incensurato, nel momento in cui è scattata la condanna in Brasile. Durante il suo soggiorno brasiliano Leonardo B. si presentava come un uomo d’affari di nome Carlos Massetti. In Italia è finito agli arresti, per opera dei carabinieri del Ros, nel maggio 2009, nel contesto di un’operazione definita Mixer-Centopassi, con altre 19 persone, ed è stato scarcerato dopo un mese. Pare che, secondo la Dia, tra il 2003 e il 2004 fosse a capo di un’organizzazione internazionale, impegnato a negoziare titoli di debito pubblico provenienti dal Venezuela grazie all’opera di un impiegato corrotto a garanzia dell’apertura di linee di credito in banche estere, con tentativi di truffa nei confronti di filiali della Hong Kong Shanghai Bank, della Lehman Brothers e della banca inglese Hsbc, per centinaia di migliaia di dollari americani. Di fatto Leonardo B. oggi è libero da qualsiasi misura cautelare.
Parla il presidente dei penalisti. Libertà e diritti della difesa, avvocati del sud penalizzati: “Il giudice ha perso di vista il suo compito”. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
La libertà e i diritti della difesa, il ruolo del giudice, l’esigenza di riforme, il divario tra Nord e Sud. «Partiamo da un dato. L’avvocato penalista del Sud deve confrontarsi con una realtà ambientale e processuale a dir poco complessa. La scelta di celebrare l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti a Catanzaro è stata quanto mai azzeccata. È stata una scelta evidentemente dettata dalle gravi difficoltà in cui svolgono la propria funzione gli avvocati calabresi, costretti ad operare in un clima di ingiusto ed irragionevole sospetto».
Il Sud paga lo scotto di una realtà resa difficile dalle troppe disfunzioni, da problemi irrisolti, da degrado e criminalità dilaganti. Come tutto questo pesa sulla quotidianità giudiziaria?
«Come sappiamo, strumento centrale nell’attività di contrasto alle mafie è, indubbiamente, l’aggravante prevista dall’art. 416-bis, comma 1, del codice penale, talvolta utilizzata con eccessiva disinvoltura. La giurisprudenza ha, infatti, inteso dilatare la portata operativa dell’aggravante, con il risultato di ampliare il sistema repressivo del cosiddetto “doppio binario” anche a comportamenti di mera connivenza o solidarietà alla criminalità organizzata. Si è arrivati, quindi, ad un vero e proprio automatismo nell’applicazione dell’aggravante, soprattutto nel Meridione, dove notoriamente esiste la maggiore concentrazione delle attività criminali di tipo mafioso».
Il rapporto tra difensore e assistito, soprattutto in caso di indagati o imputati accusati di reati di criminalità organizzata, è uno degli aspetti più delicati del nostro sistema giudiziario. È un rapporto che poggia sulla base della libertà e dei diritti della difesa, ma sul quale molto spesso la magistratura entra a gamba tesa in nome di sospetti o esigenze investigative.
«Si registrano, soprattutto nel Sud Italia, molteplici violazioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale, laddove vengono trascritte, in violazione dei precisi parametri normativi, conversazioni tra avvocato ed assistito. Le conversazioni del difensore devono rimanere inviolabili, perché espressione irrinunciabile del diritto di difesa. Gli investigatori devono abbandonare la cultura del sospetto ed interrompere immediatamente l’ascolto delle conversazioni tra l’avvocato e il proprio assistito».
La cultura del sospetto può portare a coltivare diffidenza nei confronti dell’avvocato che assume la difesa di un boss, di un latitante, di un soggetto ritenuto pericoloso, e quindi a immaginare anche eventuali presunte connivenze?
«Non ritengo sussista un problema, salvo rarissimi casi, di connivenza tra l’avvocato e il proprio assistito. Del resto, voglio ricordare che tanti, troppi avvocati penalisti meridionali sono stati barbaramente uccisi dalla criminalità organizzata solo per aver svolto con professionalità il proprio mandato difensivo. Solo pochi anni fa, non lontano dalla splendida cornice del Teatro Politeama di Catanzaro, è stato tragicamente ucciso, a soli 43 anni, il noto penalista catanzarese Francesco Pagliuso, vittima innocente della criminalità organizzata».
Da qui la scelta di aprire l’anno giudiziario dei penalisti in una città del Sud tra quelle più provate da carenze e criticità?
«L’Unione delle Camere cenali Italiane ha deciso, correttamente, di riunire tutti i penalisti italiani nel capoluogo di provincia calabrese per esprimere vicinanza e solidarietà agli avvocati che operano in quelle difficili zone. Diciamolo con chiarezza, al di là delle colte e convincenti conclusioni del presidente Gian Domenico Caiazza, sarebbe stato opportuno denunciare con maggiore fermezza l’attacco alla funzione difensiva che, talvolta, si registra in alcune zone nel nostro Paese».
Da tempo gli avvocati penalisti denunciano, e con sempre maggiore frequenza, il ruolo eccessivamente marginale che viene riservato al difensore all’interno del processo, come se vi fosse uno sbilanciamento fra le parti processuali a vantaggio degli organi inquirenti e a svantaggio della difesa. Come se avesse perso spessore la figura del giudice.
«Il caso Pittelli, ad esempio, è un caso che presenta molteplici elementi di eccezionalità. Un duplice arresto per i medesimi fatti e, soprattutto, un aggravamento della misura cautelare a seguito dell’inoltro di una lettera all’onorevole Mara Carfagna, segno tangibile della disperazione di un uomo che si è sempre dichiarato innocente. E stupisce profondamente che un giudice non abbia compreso quanto era di solare evidenza e cioè che quella missiva, forse improvvida e frutto di disperazione, non costituiva certamente un tentativo di inquinamento delle prove».
Come mai, secondo lei?
«Se ciò è accaduto è perché evidentemente la figura del giudicante ha smesso di esercitare un controllo effettivo sull’attività dei pubblici ministeri».
Che giudice è quello di adesso?
«Il giudice, negli ultimi tempi, si è smarrito e ha perso di vista quello che è il suo unico compito: non già quello di contrastare fenomeni criminali, che spetta esclusivamente alle forze dell’ordine espressione del potere esecutivo, bensì quello di fornire il servizio giustizia nel rispetto dei diritti e delle garanzie dei singoli. L’unico rimedio, dunque, per garantire l’autonomia e l’indipendenza del giudice è la separazione delle carriere».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Patrizia Maciocchi per ilsole24ore.com il 22 gennaio 2022.
Un “baciamo le mani” ideale imposto a tutti i partecipanti alla processione in onore di San Giovanni Apostolo, lo stop imposto, per ben due volte davanti all’abitazione di Antonina Maria Bagarella, moglie del capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina. Un segnale di ossequio per il quale il capo vara è stato condannato, per il reato di turbamento di una funzione religiosa. A punire chi interrompe il regolare svolgimento del rito è l’articolo 405 del Codice penale, introdotto dopo i Patti lateranensi solo riguardo alla religione cattolica, poi esteso a qualunque culto con la legge 85/2006.
Una tutela unica per eliminare disparità di trattamento tra le diverse confessioni, assicurata dopo che la Corte Costituzionale aveva affermato l’incompatibilità, con il principio di uguaglianza, della sanzione riferita solo alla religione cattolica. Così, in passato, per lo stesso reato è stato condannato chi durante la messa ha calpestato l’ostia, o chi ha alzato la voce tanto da coprire le preghiere dei fedeli.
L’offesa ai sentimenti religiosi
Ora è toccato al capo vara della processione di San Giovanni Evangelista. Un corteo fermato dal confratello, con il suono della campanella, davanti casa della famiglia Riina a Corleone. L’omaggio è costato all’imputato sei mesi di reclusione, a fronte dei due anni chiesti inizialmente dal Pm. Inutile per la difesa sottolineare che, in quei momenti la moglie del boss Ninetta Bagarella non era fisicamente presente, ma c’erano alle finestre solo le sue sorelle.
Quello che conta per i giudici è che le due soste sono state fatte, senza alcuna giustificazione, proprio davanti alla casa dei congiunti stretti del capo dei capi di Cosa nostra - all’epoca in carcere sottoposto al 41-bis - e ordinate dal ricorrente, anche lui imparentato con il boss di Corleone. La Cassazione sottolinea la materialità del gesto, interpretato correttamente dalla Corte d’Appello, come ossequio ad un capo storico della criminalità mafiosa. Una strumentalizzazione della processione religiosa «per fini del tutto contrari ai sentimenti di coloro che vi partecipavano e comunque a valori - si legge nella sentenza - universalmente espressi e riconosciuti dalla religione cattolica, sovvertendoli completamente».
L’abbandono del corteo da parte delle Forze dell’ordine
Non conta neppure il fatto, anche questo evidenziato dalla difesa, che non ci sia stato materialmente un “inchino”: per la Cassazione si tratta di una semplice variabile. I rappresentanti della Polizia e dei Carabinieri avevano lasciato il corteo, come evidente segno di dissociazione. Mentre la difesa del ricorrente chiedeva di dare un peso alla dichiarazione del parroco, il quale aveva affermato che la funzione non aveva subìto alcun impedimento né turbativa.
Da corriere.it il 2 febbraio 2022.
La Direzione Investigativa Antimafia ha dato esecuzione a un decreto di sequestro emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Bologna, su proposta del Direttore della DIA, nei confronti di un indiziato di appartenere alla ‘ndrangheta operante in Emilia-Romagna: si tratta di Giuseppe Iaquinta, imprenditore edile originario di Cutro e padre dell’ex calciatore della Juventus Vincenzo, campione del mondo nel 2006.
Operazione «Aemilia»
Iaquinta, raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere nel gennaio 2015 nell’ambito dell’operazione denominata “Aemilia”, è stato condannato nel 2018 dal Tribunale di Reggio Emilia a 19 anni di reclusione, pena successivamente rideterminata, in sede di appello, a 13 anni per i reati di associazione mafiosa e detenzione illegale di armi e munizioni.
Anche il figlio ex giocatore è stato coinvolto nello stesso processo, sempre per reati di armi: per lui la condanna, confermata in appello, è stata a due anni con la sospensione condizionale.
Il ruolo
Il suo ruolo, come accertato nel corso delle indagini svolte sotto la direzione della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, corroborate dalle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia, era quello di “volto pubblico” della associazione mafiosa, in grado, quale imprenditore di successo, di fungere da chiave di accesso per i sodali negli ambienti della imprenditoria e delle Istituzioni.
Gli accertamenti effettuati dalla D.I.A. hanno consentito di acclarare, come riconosciuto dal Tribunale di Bologna, una netta sproporzione tra i redditi dichiarati e il patrimonio accumulato.
I sequestri
Il provvedimento di sequestro ha interessato due società operanti del settore dell’edilizia, 71 immobili ubicati nelle province di Reggio Emilia, Brescia e Crotone, 2 autovetture e numerosi rapporti bancari per un valore complessivo di oltre 10 milioni di euro.
Il risultato operativo si inserisce nell’ambito delle attività istituzionali finalizzate all’aggressione delle illecite ricchezze riconducibili a contesti delinquenziali mafiosi, contribuendo in tal modo alla salvaguardia della parte sana del tessuto economico nazionale.
Il caso del padre del calciatore campione del mondo. “Iaquinta è mafioso”, condannato a 13 anni di carcere con una sola ‘prova’: essere nato a Cutro. Antonio Coniglio, Sergio D’Elia su Il Riformista il 19 Marzo 2022.
Dei “calanchi” di Cutro, quelle collinette colorate dal grano che somigliano tanto alle dune del deserto, era innamorato Pierpaolo Pasolini tanto da trasformarle laicamente nel “vangelo secondo Matteo”. A Cutro, ai tempi di Filippo II di Spagna, che voleva convertire ogni angolo di terra al cattolicesimo, nacque anche il primo campione di scacchi del nuovo mondo. A Cutro, nel secolo dell’antimafia sciasciana delle fanfare che sognava la transustanziazione dei pani e dei pesci nella mafia, ebbe la ventura di nascere pure Vincenzo Iaquinta, campione del mondo della nazionale di calcio nelle notti magiche di Berlino. Sempre in quei lidi, nella disgraziata Calabria, è nato il padre di Vincenzo, l’imprenditore Giuseppe Iaquinta, emigrato tanti anni fa con la famiglia in Emilia Romagna per cercare fortuna.
Può capitare, nella vita di un uomo, che il successo diventi malasorte, iattura. È sorte certa, nel XXI secolo, se hai visto la luce nel mezzogiorno d’Italia, nelle terre del male, dove abita Caino: il “peccato originale” di nascita ti accompagna nel corso della tua esistenza. Oggi il nome di Giuseppe Iaquinta compare prepotentemente nel processo Aemilia: 700 anni di carcere che il Tribunale e la Corte di Appello di Bologna hanno irrogato ai presunti sodali di una cosca di ndrangheta operante in Emilia Romagna legata ai “Grande Aracri” di Cutro. Mafioso, per i giudici di Bologna, sarebbe pure Iaquinta Senior, condannato in secondo grado, in nome dell’art. 416 bis del codice penale, a 13 anni di carcere.
Chiosa la Corte D’Appello che «Iaquinta Giuseppe è risultato essere un soggetto con un ruolo fondamentale per il sodalizio, rappresentando la figura dell’imprenditore di successo, oltre che padre di un calciatore famoso. Consapevolmente l’imputato si prestava al sodalizio consentendone l’infiltrazione nei settori economici e politici della zona in occasione di affari leciti o illeciti dell’associazione, talvolta anche avvantaggiandosene personalmente come si dirà oltre». In questa storia, calabrese ed emiliana, proprio “l’oltre” a cui fanno riferimento i togati fa davvero paura. Nessuna traccia del coinvolgimento di Iaquinta nelle grandi operazioni antimafia riportate dall’inchiesta – Grande, Drago, Edilpiovra ecc. – si rinviene negli atti del processo, né tantomeno nei grandi affari contestati: fallimento Rizzi, Sorbolo, Oppido. È allora lecito chiedere: perché è stato condannato Giuseppe Iaquinta? C’è stato un tempo in cui il “governo dell’oltre”, di ciò che va al di là dei fatti umani che possono anche esser fatti di reato, era monopolio delle religioni rivelate. Oggi, “l’oltre”, il “noumeno”, ciò che non è fenomeno, non si manifesta, che kantianamente è inconoscibile, diventa invece terreno del diritto penale della igienizzazione e sterilizzazione della società.
Accade allora che Giuseppe Iaquinta sia reo in quanto abbia “valutato” una operazione economica, ritenuta illecita, il cosiddetto “affare Milano”, senza alcun coinvolgimento o atto concreto: nei processi di mafia, in fondo, il “valutare”, è sempre sicuro indice di colpevolezza. Capita che Iaquinta sia mafioso perché parente del calabrese Antonio Muto, avendo preso parte al compleanno di quest’ultimo – una vendetta dello ius sanguinis e dello ius soli – o abbia avuto buoni rapporti con Alfonso Paolini, Pasquale Brescia, peraltro all’epoca dei fatti tutti incensurati, e in quattro occasioni, udite udite, abbia incontrato Nicolino Grande Aracri in iniziative evidentemente criminali: il matrimonio della figlia di quest’ultimo che conveniva a nozze con un nipote di Iaquinta, un pranzo a Porto Kaleo, la consegna di un malcapitato pesce, anch’esso forse indagato per mafia. I pranzi, le cene, i convivi, nel regno del panteismo mafioso, del “tutto è mafia”, fondano il “concorso esterno in associazione mafiosa”. La scena dei crimini di Iaquinta sono i ristoranti e il corpo del reato le portate consumate in socialità. Non si capirebbe altrimenti quale delitto sarebbe stato commesso nella cena del 26 ottobre 2011 presso il ristorante Antichi Sapori o in quella del 13 ottobre presso il ristorante Laghi di Tibbia o ancora, il 10 marzo 2012, quando Iaquinta cenò al New West Ranch!
Il prof. Vincenzo Maiello, che difende l’imputato in Cassazione, ha sostenuto instancabilmente che, a partire dalla sentenza Mannino, una condanna per 416 bis non può essere edificata su mere situazioni di status, ma occorre la fattiva partecipazione del soggetto a un sodalizio, un ruolo dinamico e funzionale. Parole al vento: nel regno dell’antimafia, si punisce quia peccatum e non quia prohibitum: non per quel che si fa, per quel che si è! È doveroso chiedere: quali benefici avrebbe apportato Giuseppe Iaquinta alla consorteria criminale? La verità è presto detta: la sua immagine, il suo status di imprenditore, di padre di un calciatore famoso, avrebbe rafforzato la mafia. È come affermare insomma che Frank Sinatra fosse mafioso perché fotografato, sorridente, accanto a Paul Gambino o Maradona andasse incarcerato per le notti brave a Napoli, incrociando talvolta mariuoli e mafiosi! The voice e El pibe de oro erano forse in concorso esterno con la mafia? Di cosa è colpevole Giuseppe Iaquinta? Del fatto che Nicolino Grande Alacri lo volle incontrare per scattare una foto con il figlio calciatore, per una maglietta? Del “fatto di reato” che i suoi conterranei lo chiamavano