Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA MAFIOSITA’

SESTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia della mafia.

L'alfabeto delle mafie.

La Gogna.

Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

In cerca di “Iddu”.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

E’ Stato la Mafia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa Nostra - Altare Maggiore.

La Stidda.

La ‘Ndrangheta.

La Mafia Lucana.

La Sacra Corona Unita.

La Mafia Foggiana.

Il Polpo: Salvatore Annacondia.

La Mafia Lucana.

La Camorra.

La Mafia Romana.

La Mafia abruzzese.

La Mafia Emiliano-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Milanese.

La Mafia Albanese.

La Mafia Russa-Ucraina.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Cinese.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Antimafiosi.

Non era Mafia.

Il Caso Cavallari.

Il Caso Contrada.

Il Caso Lombardo.

Il Caso Cuffaro.

Il Caso Matacena.

Il Caso Roberto Rosso.

I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

 

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

I tifosi.

Femmine ribelli.

Il Tesoro di Riina.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caporalato.

Il Caporalato Agricolo.

Gli schiavi dei Parlamentari.

Gli schiavi del tessile.

Dagli ai Magistrati Onorari!

Il Caporalato dei giornalisti.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Usuropoli.

Aste Truccate.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Nimby lobbisti.

La Lobby.

La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby dei Giornalisti.

La Lobby dell’Editoria.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Fuga dall’avvocatura.

La Lobby dei Tassisti.

La Lobby dei Farmacisti.

La lobby dei cacciatori.

La Lobby dei balneari.

Le furbate delle Assicurazioni.

 

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massoneria Occulta.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Sanità: pizzo di Stato.

Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Spettacolo mafioso.

La Mafia Green.

Le Curve degli Stadi.

L’Occupazione delle case.

Il Contrabbando.

La Cupola.

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Gogna Parentale e Territoriale.

Contro i pregiudizi per rendere "giustizia" a Mario Dodaro. MATTEO COSENZA su Il Quotidiano del Sud il 16 Dicembre 2022.

Ho avuto una grande fortuna. I miei editori, Antonella e Francesco Dodaro, sono persone per bene e non hanno mai interferito nel mio lavoro, il giornale lo hanno sempre letto il giorno dopo. D’altro canto, non sarebbe stato possibile il contrario perché ci saremmo salutati all’istante. Tra tante difficoltà imprenditoriali, con me hanno onorato il patto iniziale di assoluta autonomia.

Un incontro pubblico a Castrolibero per ripercorrere la storia di Mario Dodaro

La foto del loro papà – il sorriso di un uomo buono e onesto – mi è diventata familiare, e ho sempre pensato che nella loro attività ci sia stato e ci sia il valore aggiunto di una tragedia, l’assassinio del loro genitore, e della giustizia negata. Per sapere come vanno le cose in Calabria, non ho avuto bisogno di andare molto lontano».

Sono andato a rileggere l’editoriale con il quale, il 13 aprile 2014, mi accomiatai dal “Quotidiano della Calabria” sollecitato dal fatto che domenica prossima saranno quarant’anni da quando Mario Dodaro fu ucciso davanti casa. Chi lo ammazzò l’ha fatta franca e solo pochi giorni fa la figlia Antonella ha potuto scrivere che andava a dormire serena perché finalmente almeno una verità era stata riconosciuta: il papà è stato “una vittima della malavita organizzata”. Sinceramente un po’ poco anche perché dal comune sentire che ho potuto avvertire nei miei sette anni vissuti in Calabria questa era una verità acclarata benché i familiari aspettino ancora di sapere chi furono gli assassini.

Ma nell’attesa non sono stati inerti perché in un altro modo, pubblico e privato, hanno trasformato il bisogno di giustizia in un impegno civile e imprenditoriale. E per la mia parte, ma mi sento di parlare anche per il primo direttore Pantaleone Sergi, per il mio predecessore Ennio Simeone e per il mio successore Rocco Valenti, so che questo giornale è libero e pulito.

Antonella e Francesco Dodaro possono stare certi che il loro papà sarebbe fiero di loro e dell’impresa editoriale che, faticosamente e tra mille difficoltà e in un settore attraversato da una profonda crisi, tengono in piedi da tanti anni consentendo ai giornalisti di raccontare la loro terra di struggente bellezza e di amare contraddizioni in piena libertà. Alle loro spalle c’è una famiglia consapevole della necessità di sostenere questo impegno, in particolare la madre che fino all’ultimo ha coniugato il dolore mai sopito per la perdita del marito e la cura dei figli da proteggere.

Non vivendo in Calabria spesso mi trovo a dover rispondere a domande condite di luoghi comuni su questa regione e sui calabresi. E per quanto cerchi di far capire che è sbagliato generalizzare, che non ci sono solo la ’ndrangheta e la malapolitica, la sanità che non funziona, il lavoro che manca, i trasporti da ripensare, mi rendo conto che i pregiudizi sono duri a morire e che i primi che dovrebbero cancellarli sono proprio i calabresi con l’azione, l’iniziativa, i comportamenti, l’amore per la loro terra. Anche in questo modo si rende “giustizia” a Mario Dodaro e alle tante vittime innocenti di questa “nostra” Calabria.

Il ricordo e l'esempio di Mario Dodaro quarant'anni dopo. Il Quotidiano del Sud il 16 Dicembre 2022.

QUARANT’ANNI fa veniva ucciso l’imprenditore cosentino Mario Dodaro e la fondazione a lui dedicata vuole ricordarlo con un’iniziativa che si svolge stamattina nella sala consiliare del Comune di Castrolibero.

Aveva 43 anni Dodaro, una giovane moglie, Lisa, due figli adolescenti, Francesco ed Antonella, e una terza in arrivo, Maria Gabriella, che nascerà qualche mese dopo la morte del padre. Qualche settimana fa la Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto il ricorso presentato dalla famiglia Dodaro ed è stato riconosciuto all’imprenditore lo status di vittima innocente di ‘ndrangheta anche se l’associazione “Libera” già da tempo lo annoverava nel lunghissimo elenco di persone che hanno perso la vita per essersi opposte alle richieste estorsive della criminalità organizzata.

Partecipano all’incontro di oggi il sindaco di Castrolibero, Giovanni Greco, il presidente della Fondazione “Mario Dodaro”, Carlo De Rose, il sottosegretario agli interni Wanda Ferro, il professore di diritto processuale penale dell’Unical, Alessandro Diddi, l’assessore regionale Emma Staine, la vicepresidente nazionale dell’associazione “Libera”, Daniela Marcone, monsignor Leonardo Bonanno, vescovo della diocesi di San Marco Argentano – Scalea, il presidente di Confindustria Cosenza, Fortunato Amarelli e il questore di Cosenza, Michele Maria Spina. Racconteranno le loro storie alla giornalista Luciana De Luca del Quotidiano del Sud, che modererà e condurrà l’incontro, l’imprenditore testimone di giustizia Gaetano Saffioti, Silvia Ventra dell’associazione “Piana Libera”, Giuseppe Borrello del coordinamento regionale di “Libera”, il brigadiere dei carabinieri Pietro Toscano, Alessio Cassano, presidente dell’associazione antiracket “Lucio Ferrami” e i familiari di vittime innocenti di ‘ndrangheta Bruno Polifroni, Domenica Diano Giorgino e Giuseppina Germanò che coinvolgeranno anche gli studenti del Liceo scientifico “Scipione Valentini” di Castrolibero e dell’Istituto comprensivo “Tommaso Cornelio” di Rovito, chiamati nei giorni scorsi a proporre riflessioni sia sulla figura di Dodaro che sulla condizione dei familiari delle vittime innocenti costrette ad attendere moltissimi anni prima di veder riconosciuti loro i diritti previsti dalla legge 522 del 1999.

Riflessioni che hanno svelato quanto sia importante proporre ai giovani una nuova narrazione delle persone che hanno voluto scrivere una pagina di storia diversa della nostra realtà e che non è solo ‘ndrangheta ma anche talento, resistenza e bellezza.

QUEL 18 DICEMBRE DI 40 ANNI FA

Pioveva a dirotto quella sera. Mario Dodaro stava ritornando a casa da sua moglie Lisa e dai suoi figli Francesco e Antonella. Era felice, stava per diventare padre per la terza volta. Quella mattina aveva anche festeggiato all’interno del suo salumificio con i suoi dipendenti l’imminente arrivo delle feste. Solo dopo averli aiutati a sgomberare i tavoli, si era congedato da loro. L’agguato avvenne davanti al portone di casa: tre colpi di pistola, poi il soccorso dei familiari e la corsa, purtroppo inutile, verso l’ospedale. Una settimana prima, Mario Dodaro lo aveva confidato ai familiari, l’imprenditore era stato affrontato da cinque persone, che erano andate al salumificio per chiedergli di pagare una tangente di 200 milioni di lire. Lui rifiutò: era pronto a dar loro un lavoro se volevano, ma soldi no.

Ex senatore di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Stefano Baudino su L'Indipendente il 15 Dicembre 2022.

Alla fine, anche per l’ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì si sono aperte le porte del carcere. A decretarlo è stata una sentenza definitiva partorita dalla Corte di Cassazione, che ha condannato a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa l’ex parlamentare trapanese, che nel suo curriculum politico può vantare anche un Sottosegretariato al Ministero dell’Interno (dal 2001 al 2006) e la Presidenza della provincia di Trapani, sua città natale (dal 2006 al 2008).

“D’Alì – si legge nelle motivazioni della sentenza, confermata dalla Suprema Corte, con cui l’anno scorso era stato condannato in Appello – ha certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell’associazione mafiosa”: ciò può essere desunto “dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa nostra”. Oggetto di questa ricostruzione, un uomo che nel 1994 contribuì a fondare Forza Italia, creatura politica di Silvio Berlusconi, e che ha passato ben 24 anni di vita professionale a Palazzo Madama. Ma andiamo con ordine.

D’Alì mosse i primi passi come rampollo di una ricchissima famiglia di imprenditori trapanesi. Nel 1983 ereditò da suo zio la carica di amministratore delegato della Banca di Trapani, il più antico istituto di credito della Sicilia. Ed è proprio in quel periodo che, secondo i giudici, D’Alì cominciò a legarsi ad importanti personalità del mondo di Cosa Nostra, tra cui Matteo Messina Denaro, attualmente il più pericoloso latitante italiano, e il padre Francesco, che lavorava come campiere in un terreno di proprietà della sua famiglia. Nella sentenza di un precedente processo, in cui l’ex senatore fu assolto per i fatti successivi al 1994 e prescritto per quelli precedenti, sia in primo che in secondo grado, si evidenziava il ruolo giocato da D’Alì nella vendita fittizia di quel fondo, che Matteo Messina Denaro voleva donare a Totò Riina. Per evitare un possibile sequestro ai danni del padrino corleonese, Messina Denaro chiese infatti all’allora incensurato Francesco Geraci di acquistare formalmente il terreno da D’Alì: “È provato che Matteo Messina Denaro predispose e tradusse in atto un’operazione volta a far conseguire la titolarità del fondo sito in contrada Zangara a Francesco Geraci, nonostante reale proprietario ne fosse il Riina. Necessità di creare una provvista che potesse giustificare l’acquisto da parte dello stesso Francesco Geraci”. D’Alì, successivamente, restituì ai mafiosi i soldi ottenuti dall’acquisto fasullo. In tale cornice, per la Corte, l’ex  parlamentare agì in maniera “cosciente e volontaria, comprendendo che il proprio fatto era volto alla realizzazione dell’operazione architettata dai massimi esponenti di Cosa nostra e volendovi prestare il proprio contributo”. 

Nonostante lo spaccato emerso dalle carte, grazie alla prescrizione D’Alì evitò il peggio a livello giudiziario. Almeno fino al gennaio 2018, quando la Cassazione annullò l’assoluzione e ordinò un nuovo processo d’Appello. Esso è arrivato a compimento l’anno scorso, quando l’ex senatore è stato appunto condannato alla pena di sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa. “D’Alì ha manifestato la propria disponibilità verso (o vicinanza a) Cosa Nostra dai primi anni ’80 del secolo scorso fino agli inizi dell’anno 2006 – ha messo nero su bianco la Corte – e comunque non vi è prova di una condotta di desistenza dell’imputato incompatibile con la persistente disponibilità ad esercitare le proprie funzioni ed a spendere le proprie energie in favore del sodalizio mafioso”. Secondo i giudici, “D’Alì ha concluso nel 2001 (dopo una invero già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso) un patto (l’ennesimo) politico-mafioso con Cosa nostra, in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale che ha consentito all’imputato di essere nuovamente eletto al Senato”. Proprio quell’elezione costituì per il politico “il viatico per l’acquisizione dell’incarico di Sottosegretario al ministero dell’Interno” nell’allora governo Berlusconi. Ora, su questo processo è arrivato anche il timbro finale della Cassazione. E D’Alì si è dovuto costituire al carcere di Opera. Un altro tassello di un puzzle i cui contorni sono ormai ampiamente composti, provando – come ribadito dalle carte processuali sulla trattativa Stato-mafia – un legame tra Forza Italia e Cosa Nostra. [Stefano Baudino]

Il caso dell'ex parlamentare FI. Il calvario di Antonio D’Alì, sbattuto in cella dopo due assoluzioni. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

Se ti vota un “mafioso” automaticamente diventi mafioso. È quanto accaduto ad Antonio D’Alì, ex parlamentare di Forza Italia ed ex sottosegretario al Ministero dell’interno nel secondo governo Berlusconi. La sua storia giudiziaria è la seguente: assolto in primo e secondo grado. La Cassazione annulla e dispone un nuovo processo d’appello. Risultato? D’Alì viene condannato a sei anni di prigione per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Dopo la conferma ieri della sentenza della Corte d’appello di Palermo da parte della Cassazione, D’Alì si è costituito nel carcere milanese di Opera.

La vicenda processuale dell’ex senatore originario di Trapani, iniziata ad ottobre del 2011, è semplicemente surreale. A giugno del 2013 i pm palermitani, ritenendo che la sua prima elezione in Parlamento nel 1994 fosse stata “appoggiata elettoralmente dall’associazione mafiosa”, in particolare dal super boss Matteo Messina Denaro, avevano chiesto nei suoi confronti la condanna a sette anni e quattro mesi nel procedimento con rito abbreviato. Il gup lo aveva assolto per i fatti successivi al 1994 dichiarando prescritti quelli precedenti. La sentenza, come detto, era confermata tre anni dopo in Corte d’Appello.

Per i giudici non era stato provato che D’Alì continuò ad avere dei legami con Cosa nostra, dopo la sua entrata in Senato. La condotta dell’imputato non può “essere significativamente assunta come sintomatica della volontà di permanere, sia pure come extraneus, nell’associazione mafiosa, fornendo un contributo al rafforzamento della stessa”, avevano scritto i giudici nelle motivazioni della sentenza d’Appello. A D’Ali, in particolare, veniva contestata una compravendita di un terreno a dei familiari del superlatitante di Castelvetrano.

L’appello della Procura generale veniva accolto fino all’annullamento disposto dalla Cassazione a gennaio del 2018. Nel provvedimento la Suprema Corte aveva voluto sottolineare che le motivazioni dei giudici di secondo grado avevano “illogicamente e immotivatamente svalutato il sostegno elettorale di Cosa Nostra a D’Alì“.

Ad agosto 2019 la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani gli aveva imposto l’obbligo di dimora in città per tre anni sostenendo la sua “pericolosità sociale”, misura poi revocata a inizio 2021 dalla Corte d’Appello. A luglio del 2021 ecco arrivare la condanna a sei anni. Nella requisitoria dell’appello bis, chiedendo a sette anni e quattro mesi di carcere, il pg aveva definito D’Alì “il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”. E lo aveva accusato di aver “contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato”. L’ex parlamentare aveva sempre respinto tutte le contestazioni.

Nel processo si era fatto ricorso a numerosi collaboratori di giustizia, uno dei quali aveva raccontato che tutto il ‘cerchio magico’ di Messina Denaro era presente alla festa per la prima elezione al Senato di D’Alì, nel marzo 1994. Testimonianza ritenuta attendibile.

Per i pm, il senatore trapanese, oltre al superlatitante Matteo Messina Denaro, avrebbe avuto rapporti con i boss Vincenzo Virga e Francesco Pace, fin dai primi anni ’90, e avrebbe cercato fin dagli inizi l’appoggio elettorale dei clan. Ma, a parte i voti eventualmente presi dai mafiosi, non è dato sapere quale sia stata la contropartita.

L’appoggio elettorale eventualmente fornito a D’Alì da Cosa nostra in occasione delle elezioni al Senato del 1994, “in considerazione della preponderante vittoria delle forze politiche di centrodestra non assurge di per sé ad elemento sintomatico di un patto elettorale politico-mafioso”, avevano scritto i giudici nella prima assoluzione. “Le condotte oggetto di contestazione – continua – non risultano essere compiutamente comprovate per mancanza di adeguati e specifici riscontri, negli interventi fatti da D’Alì, nella sua veste istituzionale, successivamente al 1994 appare difficile ipotizzare che lo stesso abbia inteso avvantaggiare l’associazione mafiosa piuttosto che taluni imprenditori che soltanto in epoca successiva sono stati condannati per associazione mafiosa”. Forza Italia nel 1994 aveva fatto il pieno. D’Alì 54mila voti. Tutti, evidentemente, di mafiosi invece per i giudici del secondo processo che hanno disposto la condanna, ribaltando l’assoluzione. Paolo Comi

(ANSA il 12 dicembre 2022) - Il presunto boss della locale di 'ndrangheta di Pioltello (Milano) Cosimo Maiolo, tra i 10 arrestati nel blitz di oggi della Polizia, avrebbe fatto "campagna elettorale" nel 2021 a favore del candidato sindaco per il centrodestra della cittadina Claudio Fina (non eletto) organizzando "un banchetto elettorale" anche per "l'aspirante assessore all'urbanistica Marcello Menni" e "invitando" le comunità di albanesi e pakistani a "votare per Fina e Menni", anche loro accusati "in concorso" di coercizione elettorale con aggravante mafiosa. Emerge dall'ordinanza del gip di Milano Fabrizio Filice nell'inchiesta del pm Paolo Storari.

"La mafia? Sono del 1995, sono anni lontani”. Chi è Daniele De Martino, il neomelodico che canta contro il 41-bis ai detenuti per crimini di mafia. Redazione su Il Riformista il 12 Dicembre 2022

Il vero nome di Daniele De Martino è Agostino Galluzzo: è nato a Palermo nel 1995 e la sua casa discografica è la Seamusica. Ha sede a Catania e produce principalmente cantanti neomelodici. Il genere neomelodico deriva dalla canzone napoletana, ma è ormai molto popolare anche in molte città del sud anche in altre zone d’Italia.

De Martino è molto famoso e seguito sui social, e da qualche tempo è raccontato anche dai principali giornali italiani a causa dei testi delle sue canzoni che, come ha detto di recente il questore di Latina nel provvedimento con cui vietava un suo concerto in città, “veicolano messaggi espliciti contro i collaboratori di giustizia e sono espressione di solidarietà al sistema delle mafie”.

La canzone più recente di De Martino intitolata ‘Stanotte‘ sarebbe dedicata al 41-bis, la norma dell’ordinamento penitenziario che regola il carcere duro e che viene applicata ai detenuti per crimini di mafia con lo scopo dichiarato di impedire che possano comunicare con l’esterno. Il detenuto sottoposto a questo tipo di restrizioni deve essere isolato dagli altri, dormire in una cella singola e non può accedere agli spazi comuni. La cosiddetta ‘ora d’aria’, il momento in cui può uscire dalla cella e andare nel cortile, è limitata, e sono limitati anche i colloqui che avvengono attraverso un vetro divisorio.

Dal video della sua ultima hit De Martino interpreta un detenuto in regime di 41-bis. Si trova in una cella singola e scrive una lettera d’amore alla sua ragazza. Lo si vede da solo durante l’ora d’aria, mentre viene perquisito dalla polizia penitenziaria e poi dietro un vetro blindato nella sala dei colloqui. Nel video di ‘Comando io’, un altro suo successo, De Martino mette in scena la vendetta di un figlio appena uscito di prigione che deve regolare i conti con il nuovo boss che è anche l’assassino di suo padre.

Sui profili social del cantante non è raro trovare selfie con i boss. Tra i più noti: Francolino e Nino Spadaro. Il 28 agosto – come riporta Repubblica – ha cantato al matrimonio della figlia di un narcotrafficante vicino alla ’ndrangheta che si trova in carcere e ha anche omaggiato Emanuele Burgio, figlio del boss mafioso Filippo Burgio, ucciso a Palermo nel 2021 da tre persone dopo una lite per una precedenza. De Martino si è sempre difeso attaccando i giornalisti, spiegando che i selfie lui li fa “con tutti” perché è un cantante, e che “racconta le storie di tutti i giorni: oggi posso parlare d’amore, domani posso parlare di tradimenti, domani posso parlare di un avvocato o di un mafioso, poche volte l’ho fatto”.

Nel 2021 il questore di Palermo Leopoldo Laricchia l’ha ammonito a tenere “una condotta conforme alla legge” contestandogli “vicinanza ad ambienti malavitosi, non disdegnando di incontrare pregiudicati e pubblicando sui profili social, seguiti da numerosi utenti e in grado di influenzare le coscienze di molti giovani, messaggi contrari all’etica morale della società e di contestazione all’operato di esponenti del mondo civile e della lotta alla mafia”. Quando gli è stato chiesto che cos’è la mafia a Palermo ha detto: “Sono del 1995. Sono anni lontani”.

Natalia Aspesi per “il Venerdì di Repubblica” il 28 novembre 2022.

Questa autobiografia non sarebbe forse stata scritta se l'autore non avesse quel cognome, o per lo meno non l'avrebbe intitolata Fratelli. Ed è infatti soprattutto il rimpianto di anni in cui lui, Santo, e Gianni e Donatella erano una cosa sola di affetto, complicità, business, successo, denaro: erano i Versace, protagonisti dei grandi momenti di splendore, tra la metà dei 70 e la fine dei 90, nel tempo cupo di stragi fasciste, rivolte studentesche, Brigate Rosse, eroina e poi quel flagello dell'Aids che molto colpì proprio il regno felice della bella moda. 

I Versace hanno perduto Gianni 25 anni fa, assassinato misteriosamente a Miami davanti alla sua villa; Donatella forse da tempo si è allontanata da Gianni, non ha voluto collaborare al libro e neppure leggerlo, e lui, tra le tante fotografie che accompagnano il testo, ne ha scelta una sola in cui c'è anche lei, i tre fratelli insieme, reperto dell'incancellabile antica fratellanza. Forse rimossa, certo molto rimpianta.

La ferita tra fratello e sorella si è aperta nell'orrore della tragedia di Miami con quel testamento forse azzardato (secondo Santo redatto dopo uno dei loro tanti litigi ma che col tempo sarebbe stato corretto) che lasciava il 30 per cento di tutta quella ricchezza a Santo, il 20 a Donatella e il 50 alla di lei figlia Allegra, adorata dallo zio Gianni, una bambina allora di 11 anni, troppo fragile per sopportare quella morte e quel peso assurdo di responsabilità e denaro. «Questo significava che fino al 2004, quando Allegra avrebbe compiuto 18 anni, Donatella avrebbe avuto virtualmente in mano il 70 per cento della società... Era troppa pressione per tutti». 

Chi c'era ricorda a Milano il funerale in Duomo di un uomo, Gianni Versace, 50 anni, non solo celebre per il suo genio, ma anche molto amato per la sua gentilezza e generosità. Dietro le transenne la folla dei grandi eventi, davvero commossa, assisteva alla sfilata della celebrità il lutto, la principessa Diana, che poco più di un mese dopo sarebbe morta tra i rottami della macchina distrutta a Parigi, al braccio di Elton John in lacrime, e Carolyn Bessette, moglie di John Fitzgerald Kennedy Jr. che con lui sarebbe scomparsa in mare due anni dopo, e Sting con la moglie e i tanti colleghi compreso il grande rivale, Giorgio Armani, e quelle top model da lui inventate, donne grandi di vistosa bellezza, le donne degli uomini ricchi, che decoravano la Milano da bere, la bella vita craxiana.

Naturalmente si brontolò e Don Antonio Mazzi "scatenò" una polemica sul fatto che non si sarebbe dovuto concedere il Duomo per le esequie di un omosessuale...

Gianni era stato molto coraggioso a dichiarare pubblicamente di essere gay. Oggi si direbbe fare coming out. Lui lo fece senza giri di parole nel 1995, in un'intervista con il mensile della comunità gay americana The Advocate. Santo cita Richard Martin, curatore del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York: «Non c'è dubbio che l'identità gay di Gianni Versace sia parte integrante del suo lavoro come stilista».

Mentre lo stesso Gianni in un'intervista aveva detto: «Se un uomo commenta la bellezza maschile, per esempio di un divo del cinema, la gente penserà che è gay... ma per le nuove generazioni le cose sono già molto diverse, credo che tra qualche anno ci sentiremo tutti di commentare qualunque tipo di bellezza senza temere di essere etichettati in un modo o in un altro». Nel luglio 2011, Santo era ancora deputato del Popolo della Libertà, cooptato da Berlusconi nel 2008, «ci fu la discussione sul disegno di legge che avrebbe dovuto introdurre l'aggravante di omofobia nel codice penale. 

Venne affossato. Io mi ribellai. In aula fui l'unico deputato della maggioranza a farlo». Finì la legislatura nel gruppo misto. «Non mi sono più candidato. In conclusione è stata un'esperienza deludente». Ricorda un aneddoto a una cena da lui organizzata per gli industriali del settore moda, presente Berlusconi. Un invitato se ne va e al suo posto arriva una ragazzina, «ci viene detto che è un'amica delle figlie di Berlusconi che è una grande appassionata di moda. Il nome? Noemi Letizia. La rividi un anno dopo su tutti i giornali».

Ancora prima dell'assassinio di Gianni, si era cominciato a ipotizzare legami illegali dell'azienda. «Noi non avevamo nulla da nascondere. Siamo calabresi, non mafiosi. Nel 2010 in una trasmissione televisiva si parlava di un libro sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Nel libro c'erano palate di fango contro di noi... Gianni sarebbe stato ucciso all'interno di un ipotetico fantasmagorico scontro con gente che nessuno di noi ha ma incontrato né conosciuto. L'anno della morte di Gianni avevamo pagato centoquattro miliardi di lire di tasse. Non proprio un comportamento da azienda alla canna del gas che si rivolge alla 'ndrangheta».

Reggio Calabria, una famiglia per bene. Nonno materno Giovanni, calzolaio, anarchico mandato al confino dopo i moti dei Fasci Siciliani, papà Nino commerciante di carbone e poi di elettrodomestici, mamma Franca, tipica donna italiana d'epoca, sottomessa al patriarcato per poter comandare con pugno di ferro la famiglia, la sua gestione e il suo denaro. Tutti ubbidienti, in più lei sarta di lusso e di successo, 15 dipendenti, le signore di Reggio in fila per le sue toilette. Nascono Tinuccia, che morirà bambina, e poi Santo, e poi Gianni, e anni dopo Donatella. «Se qualcuno si aspetta che io in qualche modo attacchi mio fratello, o mia sorella, resterà deluso. Pur nelle incomprensioni e nelle difficoltà di alcuni momenti, il legame resta profondo e sincero». 

Santo si laurea in Economia e commercio a Messina, Donatella, molto studiosa, in Lingue a Firenze. Gianni ha già scelto altro; adolescente va a Parigi con la mamma «a comprare i cartoni di Dior, Chanel, Chloé» (così usava allora, le sarte italiane rifacevano il lusso parigino) e poi la convince ad aprire accanto alla sartoria una massima novità, la boutique di prêt-à-porter, chiamata Elle, diventandone il buyer, con immediato successo. 

Sono i primi anni 70, il made in Italy ancora non esiste, lo stilista è solo il collaboratore di produttori di abiti, il più noto è il meraviglioso Walter Albini che per primo oserà mettersi in proprio. Ma a Reggio Calabria c'è questo giovane compratore di gran gusto, perché non farlo salire al Nord? Ricorda Santo: «Per aiutare Gianni a realizzare il suo sogno prendo in mano la situazione...». Solo un paio d'anni dopo «cominciai a impostare la Gianni Versace a tavolino, a modo mio... investimmo una cifra che oggi fa ridere, venti milioni di lire, diecimila euro attuali...».

A Milano li raggiunse anche Donatella e iniziò per loro, ma anche per le tante celebrità del lusso italiano, un'epoca di meraviglie: persino per noi giornaliste che, dedicandoci alla moda, venivamo allora mal giudicate dai colleghi, ma in compenso avevamo accesso a ricevimenti stupendissimi, a cene fantasmagoriche, a sfilate sempre più pazze, a sederci accanto alle celebrità, e alle famose cose firmate, le borse e i cappottini che tutte le ragazze sognavano e che a noi venivano regalate.

Tra il 1981 e il 1986, i Versace comprarono l'antico palazzo Rizzoli di via Gesù, 4.281 metri coperti, un cortile di 600, un giardino di 900. I grandi saloni immediatamente adornati da arte neo-classica e reperti archeologici e opere della transavanguardia, mentre nella palazzina di New York si moltiplicavano i Picasso, seppur i meno epocali, e nella antica villa di Moltrasio brillavano barocchismi di ogni tipo. Ospiti i divi americani, le celebrità del rock, chiunque fosse giovane e gay: e in mezzo noi invisibili, col nostro flute di champagne al lume di mille candele, un po' stordite e certo grate. 

Pur di avere quel magnifico palazzo, io, dice Santo, «ero pronto a batterlo all'asta sino a 19 miliardi di lire». Gianni si fidava di lui così tanto che più di una volta gli chiese di «liquidare fidanzati che cominciavano a diventare molesti o che lui non sopportava più». Il lungo amore, sino alla morte, era stato per Antonio D'Amico, citato dal testamento ma escluso dall'azienda. 

Santo Versace ha 78 anni, due figli di primo letto e quattro nipoti, una bella sottile seconda moglie, Francesca, 25 anni di meno, che ha rinunciato alla sua professione di avvocato dopo essere stata dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri, ispettore di Finanza pubblica al ministero dell'Economia. Lui se ne vanta moltissimo e nel libro abbondano le foto della coppia. Lui ha abbandonato il mondo della moda e adesso si occupa di produzione cinematografica con la Minerva film e ha già vinto premi ai festival.

La Gianni Versace è stata venduta anni fa agli americani per due miliardi di dollari, e si chiama ormai solo Versace, un marchio che vuole dimenticare il suo creatore: si vende Versace anche su Instagram. Donatella continua ad essere il volto e la consulente creativa dell'azienda, Allegra si occupa delle campagne pubblicitarie con grande successo. Credo che sia suo il palazzo di via Gesù. Il solo estraneo a quello che è stato il regno che ha aiutato a nascere e crescere, è lui, Santo. Il dolore per essere stato cancellato, dall'azienda e forse dalla famiglia, gli ha dettato questi ricordi.

Schillaci: "Per tirarmi fuori dai guai il calcio si è preso gli anni migliori". Angelo Carotenuto su La Repubblica il 16 maggio 2016.

Le Notti Magiche, il gossip, ma anche la mafia degli anni '90 e un calcio di oggi che non riconosce. L'attaccante che infiammò i Mondiali italiani si racconta

SBUCÒ dal nulla e aveva gli occhi a palla. I gol in B col Messina lo portarono alla Juve. Un anno di Juve lo portò ai Mondiali. I Mondiali del '90 lo portarono in cima. Totò Schillaci è stato un lampo, fra presidenti discussi, arresti in famiglia, telefonate registrate dall'anti-mafia, il dolore per la droga di suo cugino Maurizio: lo racconta nell'autobiografia "Il gol è tutto", domani in libreria. "La gente pensa che esista solo il campo. Invece per resistere nel calcio bisogna accettare altre cose. Io le ho accettate. Se vuoi essere un personaggio, devi stare al gioco. La sincerità è un bene a cui si rinuncia. Perciò esiste il calciatorese, quella lingua in cui si parla e non si dice niente".

Che cosa non racconta un calciatore?

"Alla mia prima partita, nello spogliatoio del Messina, c'era un barattolino di perline rosse. Pastiglie di Micoren. Ognuno ne prendeva due, servivano a spezzare il fiato. Le presi anch'io, fidandomi dei medici".

Era il prezzo da pagare?

"La mia vita è stata difficile. Sono nato di sette mesi, i nonni mi scaldavano con bottiglie d'acqua calda. Abitavamo in via della Sfera 19. Un segno. La sfera era il pallone e il 19 la maglia ai Mondiali. Al Cep avevo cattive compagnie, ma il calcio mi distraeva, e per distrazione mi sono salvato. Non andavo volentieri a scuola, ma i pericoli so vederli".

La mafia?

"Gli anni '90 a Palermo sono stati terribili. Ho aperto tardi gli occhi. Pensavo a giocare, per me la mafia era una realtà locale. Il pizzo, il totonero, le bische. Finché una sera, in ritiro, Trapattoni si avvicina e mi fa: avete ucciso anche Falcone. Gli risposi: mister, ero con Baggio, chieda a lui cosa ho fatto. Non scherzava, l'aria era pesante. Ma andai a ripeterglielo quando lasciai la Juve: non l'ho ucciso io, né quei siciliani che non meritano pregiudizi. Non vengo da una famiglia benestante. Mio padre ci portava al mare a Mondello, al posto del salvagente avevo una camera d'aria per stare a galla. Ho fatto il panettiere, il gommista, l'ambulante, ho consegnato il vino, vendevo frutta. Volevo dei soldi in tasca, il calcio è stato la mia camera d'aria. Giocavo per ore col Super Tele, il pallone leggero. Nemmeno Pelé ci fa tre palleggi col Super Tele".

È più insidiosa la celebrità o la povertà?

"La povertà l'ho superata, la celebrità l'ho sofferta. Non volevo essere famoso, volevo giocare a pallone. La mia vita è cambiata senza che cambiassi io. Quando accettai l'offerta del Jubilo, ai giapponesi dissi: voi siete penultimi in classifica, io da bambino ero ultimo. Bersaglio dei bulli. Fra i 17 e i 34 anni niente è stato normale. Per tirarmi fuori dai guai, il calcio s'è preso i miei anni migliori".

Lei racconta di fughe dai ritiri e donne disponibili.

"Per un calciatore il sesso è facile. Cercavo attenzioni. A Torino sono stato discriminato. Offese, sfottò, le scritte sotto casa. Andai in crisi. Convertivo la rabbia in sesso. Ho tradito molto. Ma il tradimento è come una bibita gasata. Toglie la sete subito, poi hai di nuovo la gola secca".

Si pente di qualcosa?

"Sbagliai a minacciare Poli dicendogli: ti faccio sparare. Ma lui aveva sputato, il gesto più volgare. Chi ti vuole sparare, dai, non ti avverte. E mi pento di quella volta con Baggio. Leggevo certe cose su mia moglie Rita, ero furioso. Lui col piede muoveva il giornale: non darci importanza, ripeteva. E muoveva il giornale. Mi alzai e gli diedi una testata".

Fu difficile lasciare Rita Schillaci?

"Rita Bonaccorso, perché Schillaci? La Juve non voleva che ci separassimo. Portavo in campo i tormenti. Gossip, malignità. Tutti a telefonarmi quando Lentini ebbe l'incidente mentre andava da lei. Negli stadi insultavano. Non bastava terrone e mafioso, non bastava il coro "ruba le gomme". No: pure cornuto. In società non ne parlavano, ma le persone intelligenti accennano, fanno capire. Comprarono Vialli. Dovetti andar via. Ora sono cambiati i tempi, dopo Gianni Agnelli vedo che è cambiata pure la Juve. Sui capelli lunghi, sulla puntualità, sugli amori".

Alla Juve non piaceva nemmeno come parlava. Le diedero un'insegnante di italiano. Lei provò a portarla a letto.

"Non ero l'unico a non saper parlare. La maggior parte dei calciatori è ignorante. Guardate come sbagliamo gli investimenti. Una donna semplice come mia madre è stata sempre più brava di me a capire quali fossero le persone di cui non fidarsi".

Sbagliò a fidarsi pure della politica?

"Candidarmi a Palermo non fu una mia scelta. Vennero a chiedermelo persone a cui non potevo dire di no. Mi hanno convinto a portare voti a Forza Italia. Sono stato spesso usato come un gioiellino da esibire".

Perché oggi è fuori?

"Ho una scuola calcio a Palermo, spendo il mio nome per gli altri. Se avessi fatto l'allenatore, avrei ripreso la solita vita. Alberghi, aeroporti, stadi. Questo è. Ma preferisco vivere. Ora se vado a Parigi, la torre Eiffel la vedo".

E come sono i ragazzi italiani?

"Si fanno portare la borsa dalla mamma. Invece dovrebbero imparare a portare il peso delle responsabilità. Non sono abituati. Quando sbagliano, è sempre colpa degli altri".

Chi le piace nel calcio attuale?

"Ho conosciuto Maldini, Baresi, Tacconi, Bergomi. Non ce ne sono come loro. Vedo ragazzi irrispettosi, come irrispettose sono le società verso le loro bandiere. Il mio calcio non c'è più. Nel mio calcio potevi scommettere cinquemila lire con Gianni Brera se scriveva che non avrei segnato di testa. I suoi articoli dovevo farmeli spiegare, ma gli dimostrai che di testa facevo gol".

Cosa sanno i suoi figli delle notti magiche?

"Jessica s'è laureata senza far sapere di essere mia figlia. Mattia è all'università. Nicole vive in Svizzera con la madre. Sono stato assente ma gli ho consentito di studiare. Spero non sia stato un peso chiamarsi Schillaci, anche se qualche effetto negativo l'avranno provato. Io mi sono sempre raccomandato: se c'è chi sparla di me, non rispondete. Mai. Certe volte, la lingua migliore è il silenzio".

“Reato di parentela”: il sindaco vieta il bando ai familiari degli ’ndranghetisti. Il comune di Polistena, Calabria, esclude dalle borse lavoro i parenti conviventi dei condannati per reati di mafia.  Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 21 ottobre 2022.

Il lavoro in Comune sì, ma solo se non convivi con la famiglia sbagliata. Ha diviso il paese la decisione dell’amministrazione di Polistena – poche migliaia di abitanti nel cuore della piana di Gioia Tauro, in Calabria – di escludere una parte della cittadinanza dal bando pubblico per l’accesso a 40 borse lavoro dedicate alle fasce di popolazione più povere. Un bando comunale destinato ai cittadini fino ai 40 anni d’età a cui però è precluso l’accesso ai parenti conviventi dei condannati per reati di mafia.

Una sorta di esasperazione delle “white list” prefettizie che si usano per i contratti con la pubblica amministrazione ma che, in questa occasione, è disegnato su base familiare. Approfittando degli aumenti economici agli amministratori disposti con un uno degli ultimi decreti del Governo Draghi, l’amministrazione comunale guidata da Michele Tripodi ha pensato bene di investire quel surplus finanziario per sostenere un progetto di avviamento al lavoro in una delle zone d’Italia più colpite dalla disoccupazione. Centomila euro, in tre anni, che anziché rimpolpare i conti di sindaco e assessori saranno destinati al finanziamento dell’iniziativa: 400 euro al mese per sei mesi per ogni assegnatario del “posto”.

Per accedervi, oltre a certificare la mancanza di reddito, il candidato deve però dimostrare di non convivere con un parente che abbia riportato condanne per reati legati al 416 bis, l’associazione mafiosa. Un provvedimento “limite” che sembra teso a “spalmare” le responsabilità penali personali con il proprio nucleo familiare e che, in centri come quello del reggino, finisce per colpire una parte non trascurabile della popolazione. Lo stesso ex sindaco del paese – per dieci anni braccio destro dello stesso Tripodi in Comune – si era dimesso, pochi mesi dopo l’elezione a primo cittadino e senza mai essere stato sfiorato dalle indagini, a causa degli arresti eseguiti su richiesta della distrettuale dello Stretto che avevano coinvolto il suocero ed altri parenti da cui lo stesso politico aveva comunque preso le distanze.

L’iniziativa è stata annunciata con un video sui canali social del comune: «Il bando – dice Tripodi – è un’iniziativa che l’amministrazione comunale ha adottato innanzitutto per dare una risposta alla disoccupazione dilagante e al bisogno sociale che c’è, in un momento in cui la crisi economica ci sta travolgendo». Ma è nei requisiti per l’accesso alle borse lavoro che le cose non tornano. Il candidato infatti, oltre a non avere riportato alcuna condanna penale, ad essere senza lavoro e dichiarare un reddito basso, deve anche «non avere, all’interno del proprio nucleo familiare, persone condannate per il delitto di cui all’articolo 416 bis». Una discriminante – quella del “casellario familiare” pulito – che ha fatto andare su tutte le furie le opposizioni in consiglio. «Si materializza lo squallore culturale dell’antimafia da fumetto – tuona sui social il capogruppo d’opposizione Francesco Pisano –. La mafia si sconfigge con gli esempi, con la cultura e con l’inclusione che strappi attraverso percorsi lavorativi come in questo caso, eventuali “affiliazioni” e culture contrarie alla convivenza civile. La responsabilità penale è personale e nessuno deve essere colpevolizzato per colpe altrui».

E mentre la polemica sul bando per il lavoro che non c’è che esclude i parenti dei condannati per mafia cresce, coinvolgendo anche la terza opposizione in consiglio ed allargandosi ai cittadini, il sindaco orgogliosamente comunista di Polistena difende le proprie scelte. «Dal bando sono esclusi coloro che convivono con persone che hanno condanne – rincara Tripodi ai microfoni di LacNews24 –. Dalle nostre parti questo fatto è indice di più di un sospetto, perché se una persona vuole può prendere le distanze. Chi non accetta quel modo di vivere se ne va da un’altra parte. Queste persone – conclude il sindaco – abbiano la bontà, troveranno sistemazione da un’altra parte ma non al Comune di Polistena».

Mafia, operazione Dda in Basilicata: arrestato consigliere FI, 39 indagati tra loro anche Bardi e 2 assessori. Tra le accuse: «Nel 2020 saltavano file per sottoporsi a tampone Covid».  

A Potenza e in diversi comuni della provincia. Illeciti in settore sanitario, perquisizioni all’ospedale San Carlo. Oltre 100 indagati. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 ottobre 2022. 

Il capogruppo di Forza Italia in Regione Basilicata, Francesco Piro, è stato arrestato nell'ambito di un'operazione della Dda di Potenza, condotta da Polizia e Carabinieri, che riguarda il settore della sanità lucana. Coinvolti uomini politici e amministratori della Regione Basilicata. Un altro provvedimento cautelare, non l'arresto, ma - secondo quanto è stato possibile apprendere - un divieto di dimora - è stato notificato all'assessore regionale all'agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia). Perquisizioni sono in corso alla Regione Basilicata e all'ospedale San Carlo di Potenza, il cui direttore generale Giuseppe Spera risulta essere coinvolto nell'inchiesta.

Anche l’ex assessore alla Sanità della Regione Basilicata, Rocco Leone, attuale consigliere regionale di Fratelli d’Italia, è coinvolto nell’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza. Nei confronti di Leone il gip di Potenza Salvatore Pignata ha disposto l’obbligo di dimora.

Dda: «Capogruppo FI Basilicata aveva relazioni con i clan»

Il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale della Basilicata, Francesco Piro, arrestato stamani, aveva «relazioni con esponenti della locale criminalità organizzata». Secondo la Dda di Potenza, «non di rado per raggiungere proprie finalità personali, politiche ed elettorali, e a scopo intimidatorio, ostentava ai suoi interlocutori i suoi asseriti collegamenti con contesti criminali calabresi».

Oltre 100 gli indagati

Sono oltre cento gli indagati nell’ambito dell’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Potenza sulla sanità lucana che stamani ha portato a diverse misure cautelari. Secondo quanto si è finora appreso, un’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata notificata stamani al capogruppo di Forza Italia nel Consiglio regionale della Basilicata, Francesco Piro, arrestato a Lagonegro (Potenza). Proprio la costruzione del nuovo ospedale di Lagonegro, nell’area sud della regione, sarebbe al centro dell’inchiesta che vede coinvolti diversi uomini politici e amministratori lucani. Tra questi l’attuale assessore regionale all’agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia), nei cui confronti è stato disposto un divieto dimora a Potenza e l’ex assessore lucano alla sanità, Rocco Leone (attualmente consigliere regionale di Fratelli d’Italia) a cui è stato notificato l’obbligo di dimora a Policoro (Matera). Tra le persone coinvolte anche il direttore generale dell’ospedale San Carlo di Potenza, Giuseppe Spera.

Il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, non ha subito la perquisizione dell’abitazione nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità della Dda di Potenza, ma ha solo consegnato agli investigatori il telefono cellulare. Lo si è appreso da fonti della giunta. La perquisizione riguarda l’ufficio di Bardi, dove gli investigatori si trovano in questo momento: sono stati acquisiti i device in uso a Bardi, che non sarebbe interessato da alcuna misura cautelare.

«Si va avanti in un momento di crisi senza precedenti": lo ha detto il presidente della giunta regionale della Basilicata, Vito Bardi, indagato nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità in Basilicata. «Sono come sempre disponibile a collaborare con gli inquirenti per chiarire ogni aspetto», ha aggiunto Bardi. Fonti vicine al governatore lucano hanno inoltre sottolineato che le delibere oggetto dell’inchiesta «sono atti pubblici, approvate senza secondi fini». Per quanto riguarda i tamponi, Bardi ha sottolineato di «non aver ricevuto alcun favore».

Nell’inchiesta sulla sanità lucana, oltre al presidente della giunta regionale, Vito Bardi, sono indagati anche gli assessori Francesco Fanelli (ex all’agricoltura, ora alla sanità) e Donatella Merra (infrastrutture), entrambi della Lega. L’operazione ha portato in carcere il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale lucano, Francesco Piro (candidato alle Politiche del 25 settembre scorso), mentre è agli arresti domiciliari il sindaco di Lagonegro (Potenza), Maria Di Lascio.

Gianni Rosa, eletto al Senato con Fratelli d’Italia alle Politiche dello scorso 25 settembre, è tra gli indagati dell’inchiesta sulla sanità lucana coordinata dalla Dda di Potenza. Rosa è stato assessore all’ambiente della Regione Basilicata dalla primavera del 2019 allo scorso mese di febbraio.

Tra le accuse al presidente Bardi e ad alcuni assessori, anche quella di essersi fatto sottoporre a tampone covid, nel 2020, saltando le file: «In seguito all’impossessamento indebito - secondo l’accusa -somministravano tamponi persone amiche asintomatiche che ne facevano espressa richiesta e che peraltro ricoprivano funzioni istituzionali di appartenenti a consessi amministrativi della Regione Basilicata e che più di qualsiasi altro cittadino dovevano essere consapevoli della destinazione non privatistica ma pubblica dei beni in questione producendo un danno al patrimonio della pubblica amministrazione quantificato 77 euro ciascuno per un importo totale pari a 1936 euro».

Ai domiciliari il sindaco di Lagonegro: sospeso

Nell’inchiesta sulla sanità lucana, oltre al presidente della giunta regionale, Vito Bardi, sono indagati anche gli assessori Francesco Fanelli (ex all’agricoltura, ora alla sanità) e Donatella Merra (infrastrutture), entrambi della Lega. L’operazione ha portato in carcere il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale lucano, Francesco Piro (candidato alle Politiche del 25 settembre scorso), mentre è agli arresti domiciliari il sindaco di Lagonegro (Potenza), Maria Di Lascio.

Le altre misure cautelari riguardano l’assessore lucano all’agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia), a cui è stato notificato l’obbligo di dimora. Provvedimento analogo per l’ex assessore alla sanità, Rocco Leone (attuale consigliere regionale di Fratelli d’Italia). Il divieto di dimora nel capoluogo lucano e la misura interdittiva all’esercizio di funzioni pubbliche è stato notificato a Giuseppe Spera, direttore generale dell’azienda ospedaliera di Potenza. I reati ipotizzati, a vario titolo, sono quelli di induzione indebita, corruzione, tentata concussione e altri reati contro la pubblica amministrazione.

Il prefetto di Potenza, Michele Campanaro, ha firmato il provvedimento «di accertamento della sospensione di diritto del sindaco del Comune di Lagonegro, Maria Di Lascio», da stamani agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità lucana. Il provvedimento - è spiegato in un comunicato diffuso dalla Prefettura potentina - è stato adottato «ai sensi della legge Severino»

Punito chi non sosteneva il candidato di Forza Italia

Il sindaco di Lagonegro (Potenza), Maria Di Lascio - agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità lucana - aveva chiesto ai gestori della telefonia mobile nella sua zona di disattivare i ponti radio «per impedire» che i «non sostenitori» di Francesco Piro - candidato di Forza Italia al Senato il 25 settembre scorso, in carcere da stamani - potessero usare i telefoni cellulari. La stessa Di Lascio - secondo la Direzione distrettuale antimafia di Potenza - aveva deciso di «punire» un altro non sostenitore di Piro, impedendogli di accedere «alle condotte idriche» a servizio di alcuni terreni.

Filone indagini su pacchetti di voti

Tra i filoni dell’indagine della Dda lucana sulla sanità vi è anche quello sulla promessa di "pacchetti di voti» ottenuti da alcuni indagati per le elezioni comunali di Lagonegro nel 2020, poi vinte dall’attuale sindaco Maria Di Lascio, da stamani agli arresti domiciliari.

In particolare, secondo l’accusa, gli indagati - tra i quali il capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Francesco Piro, da stamani in carcere - hanno ottenuto la promessa dei voti in cambio di «vari favoritismi» in riferimento «al loro pubblico ufficio», come trasferimenti, promozioni, assunzioni e affidamenti di servizi pubblici.

I commenti 

La vicenda giudiziaria che ha portato all’arresto del capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Francesco Piro, e all’iscrizione nel registro degli indagati, tra gli altri, del presidente della Regione Basilicata Vito Bardi, oltre a diversi amministratori regionali, è stata commentata in Basilicata da uomini politici e rappresentanti sindacali.

«Un profondo gesto di responsabilità a Bardi» è stato chiesto dai tre consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, Gianni Perrino, Carmela Carlucci e Gianni Leggieri: «È difficile comprendere come l’esecutivo possa proseguire con la necessaria serenità il suo cammino, quando la quasi totalità dei suoi componenti è coinvolta in questa indagine», hanno aggiunto. «Il presidente Bardi, proprio per il ruolo che riveste e per quelli che ha rivestito in passato, da servitore dello Stato - hanno concluso - dovrebbe mettere fine a questa legislatura e ridare al più presto la parola ai cittadini lucani».

«La vicenda giudiziaria preoccupa sia per il contesto nella quale è maturata che per il merito», ha detto il capogruppo del Pd in consiglio regionale, Roberto Cifarelli. «Non è questo il momento né della strumentalizzazione e né delle speculazioni politiche, seppure risulta difficile per Bardi mettere la testa sotto la sabbia sia per la portata politica dell’accaduto e sia perché l’agibilità stessa di questa legislatura risulta fortemente compromessa», ha aggiunto.

Il segretario regionale del Pd, Raffaele La Regina, evidenziando come il quadro dalle indagini sia «inquietante e drammatico», ha twittato che «si tratta di accuse preoccupanti che coinvolgono la sfera istituzionale del centrodestra lucano che governa la Regione e siede in Parlamento. Accuse che, se confermate apriranno una voragine politica dalla quale si uscirà solo facendo fronte comune fra le migliori energie civili e politiche di questo territorio».

«L'operazione disvela un sistema clientelare e affaristico figlio di quella occupazione delle istituzioni pubbliche che è diventata ormai una prassi in questa Regione», ha sottolineato il segretario generale della Cgil Basilicata, Angelo Summa. "Siamo stati gli unici a denunciare, anche con un esposto alla Corte dei Conti, l’adozione del regolamento sull'ordinamento amministrativo della Giunta regionale. Un regolamento - ha proseguito - che sancisce di fatto una organizzazione tutta incentrata sul pieno controllo da parte del presidente Bardi degli uffici e delle direzioni dipartimentali fino a svuotare anche l’ufficio legale. E questo è l’epilogo di una maggioranza che ha pensato che governare significa occupare».

«Ancora una volta la sanità lucana finisce nel mirino della magistratura - ha commentato il segretario generale della Cisl Basilicata, Vincenzo Cavallo - segno che ci sono problemi strutturali che la politica non ha saputo o voluto risolvere. E' di tutta evidenza che la sanità lucana, anche in ragione dei cospicui investimenti previsti dal Pnrr, necessita di una profonda opera riformatrice e che assicuri piena trasparenza. Se non è in grado di farlo la politica regionale - ha concluso - si prenda in considerazione anche l’ipotesi del commissariamento».

E il segretario regionale della Uil, Vincenzo Tortorelli, chiede «prima di tutto di garantire il diritto alla salute dei cittadini, soprattutto nel Lagonegrese». «Raccogliamo il diffuso sentimento di sconcerto per il quadro che la magistratura delinea - ha aggiunto - al sindacato spetta rilanciare l’esigenza di affermare i principi di legalità e rispetto della legge specie nella gestione di un settore come la sanità che va sottratto ad ogni interesse di parte».

Per i consiglieri regionali di Italia Viva, Mario Polese e Luca Braia, «quello che sta accadendo in queste ore nei palazzi della politica lucana sta avendo una eco mediatica molto forte. Da parte nostra nessuna volontà di strumentalizzare per fini politici. Siamo convintamente garantisti e non barattiamo il nostro modo di essere, e di interpretare la politica, a seconda delle stagioni o delle casacche politiche. Per questo, ribadendo massima fiducia nel lavoro della magistratura auguriamo agli esponenti politici, coinvolti di poter dimostrare la piena estraneità dai fatti per i quali sono indagati. Allo stesso tempo - hanno aggiunto - esiste una questione politica che non può essere taciuta. Le indagini coinvolgono, a vari livelli, la gran parte del Governo regionale, compreso il presidente Vito Bardi. Al netto delle vicende giudiziarie che seguiranno il loro corso, c'è da garantire il perfetto funzionamento del massimo ente regionale. Per questo confidiamo che il presidente Bardi faccia chiarezza al più presto per il bene della Basilicata e dei lucani. Sarebbe grave per tutti - hanno concluso Polese e Braia - "sospendere" l’attività politica che invece deve continuare a garantire il massimo dell’efficienza al fine di dare le risposte che la comunità lucana attende».

Minacce con la pistola. Il pentito: «Mi chiese di eliminare un concorrente». Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Ottobre 2022.

«È vivo per miracolo perché io stavo… mio suocero eh! Io e mio… Lo abbiamo fatto mettere in ginocchio con la pistola in testa». Aveva due volti Francesco Piro, il capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale lucano finito in carcere nell’inchiesta dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza. Uno alla luce del sole, l’altro - più oscuro - da retrobottega della politica.

Ufficialmente è un imprenditore di 46 anni con una laurea in ingegneria e un’esperienza ultra decennale in politica...

Mafia, operazione Dda in Basilicata: arrestato consigliere FI, 39 indagati tra loro anche Bardi e 2 assessori. Tra le accuse: «Nel 2020 saltavano file per sottoporsi a tampone Covid»

A Potenza e in diversi comuni della provincia. Illeciti in settore sanitario, perquisizioni all’ospedale San Carlo. Oltre 100 indagati

LUNEDI' L'INTERROGATORIO DI GARANZIA

E’ stato fissato per le ore 10.30 di lunedì prossimo, 10 ottobre, nel carcere di Potenza l'interrogatorio di garanzia di Francesco Piro, l’ormai ex capogruppo di Forza Italia nel Consiglio regionale della Basilicata, arrestato ieri nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità lucana coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia potentina. Lo ha reso noto all’ANSA il difensore di Piro, l'avvocato Sergio Lapenna, il quale ieri ha protocollato le dimissioni dall’assemblea lucana.

Ieri inoltre è stata arrestata e posta ai domiciliari Maria Di Lascio, dal 2020 sindaco di Lagonegro (Potenza), la città di Piro. Le altre misure cautelari riguardano l’assessore lucano all’agricoltura, Francesco Cupparo (Forza Italia), a cui è stato notificato l’obbligo di dimora a Francavilla in Sinni (Potenza). Provvedimento analogo, a Policoro (Matera) per l’ex assessore alla sanità, Rocco Leone (attuale consigliere regionale di Fratelli d’Italia). Divieto di dimora nel capoluogo lucano e la misura interdittiva all’esercizio di funzioni pubbliche per Giuseppe Spera, direttore generale dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza.

Tra gli indagati vi sono anche il presidente della Regione, Vito Bardi, due assessori della giunta lucana di centrodestra, Francesco Fanelli (sanità) e Donatella Merra (infrastrutture), entrambi della Lega, e il neo eletto senatore di Fratelli d’Italia Gianni Rosa, coinvolto nell’inchiesta per la sua attività di assessore lucano all’ambiente, carica ricoperta dal maggio 2019 al febbraio scorso.

Estratto dell’articolo di Dario Del Porto per “la Repubblica” l'8 ottobre 2022.

C'è una frase che spiega molte cose dell'inchiesta che scuote la Basilicata e la giunta regionale di centrodestra guidata da Vito Bardi: «Prima vedere cammello», dice l'influente capogruppo di Forza Italia Francesco Piro trattando l'adesione di una candidatura alle Comunali di Lagonegro del 2020, appuntamento amministrativo trasformato in un suk di «ingerenze illecite, favoritismi nelle nomine, trasferimenti, assunzioni in sanità o società» pur di far eleggere sindaca Maria Di Lascio.

Ora Piro è in carcere e Di Lascio ai domiciliari, ma il terremoto giudiziario fa tremare tutto il sistema di potere della destra lucana, mentre ombre si affacciano sulla gestione della sanità e sull'affare da 70 milioni per il nuovo ospedale di Lagonegro. Il governatore Bardi è sotto inchiesta, i suoi uffici in Regione sono stati perquisiti. 

[…] Nelle carte, Piro appare come un politico spregiudicato, che alludeva ai natali calabresi della moglie per vantare relazioni la criminalità organizzata: «È di Rosarno. Sanno da dove arriva...». A settembre, Piro correva per il Senato e la sindaca Di Lascio aveva addirittura pensato di far oscurare il segnale del cellulare in una zona dove gli elettori non volevano sostenerlo: un disservizio creato ad hoc per poi risolvere il problema e accreditarsi. Ma il tecnico interpellato si rifiuta: «Non sospendiamo niente, non sono elementi da utilizzare in campagna elettorale».

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” l'8 ottobre 2022.  

Tra l'estate e l'autunno del 2020, quando l'Italia intera, ma soprattutto il Mezzogiorno, aveva già dovuto fare tragicamente i conti con una sanità disastrata e inadeguata ad affrontare una emergenza come la pandemia da Covid 19, in Basilicata un gruppo di amministratori locali utilizzava quella sanità come terreno sul quale scambiare favori politico-elettorali. Voti in cambio di assunzioni, trasferimenti, incarichi. 

È questo ciò che emerge dalla lettura delle 375 pagine dell'ordinanza con la quale il gip di Potenza ha parzialmente accolto le richieste della Procura disponendo l'arresto del capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale Francesco Piro e del sindaco di Lagonegro Maria Di Lascio.

Piro è al centro di quasi tutti gli episodi oggetto di indagine. È uno che lascia intendere di avere amicizie nella criminalità organizzata calabrese. In una intercettazione lo si sente dire a un amico: «Mia moglie è di Rosarno, io basta che mando un messaggio: "Potete venire". Poi me ne vado in galera come Cristo comanda». È lui il principale sponsor della lista Insieme con Maria Di Lascio , e si impegna per costruirle una squadra vincente. Lo dice in una conversazione del 10 agosto intercettata dagli inquirenti. «In questo momento per me è primario Lagonegro. 

Dal 21 settembre (il giorno successivo alle elezioni comunali del 2020, ndr ) e per i prossimi cinque anni non me ne fotterà più niente».

L'attenzione per le sorti politiche della cittadina in cima alla Valle del Noce hanno un motivo preciso: «Oltre alla gestione dei posti in sanità, emergono gli interessi relativi al progetto per la realizzazione del nuovo ospedale di Lagonegro, con annesse questioni dell'affidamento dei lavori, gestione del bar, esproprio dei terreni per la realizzazione del parcheggio», scrive il gip. 

E aggiunge: «Risulta dalle indagini che le condotte compendiate nei capi di imputazione non costituiscono episodi isolati e relativi a una situazione contingente (ossia l'elezione del sindaco di Lagonegro nel 2020) ma al contrario sono manifestazione di un sistema, di un modus operandi strutturale da parte dei politici coinvolti. Per convincere ogni possibile candidato c'è sempre una offerta mirata.

All'ortopedico Luigi Alagia, per esempio, Piro prospetta il primariato dell'unità operativa dell'ospedale di Lagonegro. E sa di poter contare sull'appoggio del direttore generale dell'Azienda ospedaliera, Giuseppe Spera, che ha preso il posto di Massimo Barresi, manager non allineato e fatto fuori dopo una guerra di carte bollate sulla quale lo stesso Piro interviene cercando di condizionare il lavoro dell'avvocato della Regione che assiste Barresi. E poi c'è il presidente della giunta regionale Vito Bardi. 

Una raccomandazione in favore di un aspirante finanziere (Bardi fu vicecomandante generale), un ruolo nel siluramento di Barresi e quattro tamponi molecolari in un mese, tra marzo e aprile 2020 senza alcun sintomo di Covid. Stessa cosa anche assessori e manager della sanità. «Come fossero beni in loro privata disponibilità - scrive il gip - mentre si trattava di beni pubblici disponibili sul territorio nazionale e in Basilicata in misura ridotta e in numero limitato e contingentato».

Indagato Vito Bardi, presidente della Basilicata. Lui: «Fiducia nella magistratura». Bardi è indagato nell'ambito di un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Potenza che riguarda la sanità. Il Dubbio il 7 ottobre 2022.

Vito Bardi, presidente della Basilicata, è indagato nell’ambito di un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Potenza.

«La mia volontà di andare avanti nel governo della Basilicata non è nemmeno in discussione», ha detto Bardi. «Sono sereno e ho un lavoro da portare a termine nell’esclusivo interesse dei lucani».

Uno dei filoni principali d’indagine è quello legato alla realizzazione dell’ospedale di Lagonegro, in provincia di Potenza.

Tra le carte dell’inchiesta anche la gestione dell’emergenza Covid nella fase iniziale della pandemia, a marzo del 2020.

Il capogruppo di Forza Italia in Regione, Francesco Piro, e la sindaca di Lagonegro Maria Di Lascio, dello stesso partito, sono stati arrestati.

Piro è in carcere, Di Lascio ai domiciliari. Obblighi di dimora nei loro Comuni per Francesco Cupparo (Fi), e Rocco Luigi Leone (FdI).

Divieto di dimora a Potenza e interdittiva all’esercizio di funzioni pubbliche per Giuseppe Spera, ex direttore amministrativo dell’Asp di Potenza e attuale direttore generale dell’azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza.

«Voglio prima di tutto ribadire la mia disponibilità verso le forze dell’ordine e la magistratura cui darò la massima collaborazione per fare chiarezza», ha detto Bardi dicendosi estraneo ai fatti contestati.

«Voglio infine sottolineare un fatto: la mia vita è sempre stata improntata alla legalità e al rispetto delle regole. È la mia storia personale», ha aggiunto.

Sulla vicenda si è espresso anche il dem Enzo Amendola, lucano. «Esprimo fiducia nella magistratura e ribadisco il principio di presunzione di innocenza degli indagati», ha detto.

Aggiungendo però che «non si può non rilevare che dalle indagini della Dda emergono tratti preoccupanti ed estranei alla cultura lucana, sui quali è necessario fare massima luce».

Ha detto la sua anche Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia. «E bravi questi amministratori – ha scritto su Facebook – rubare sulla sanità pubblica dovrebbe prevedere pene particolarmente severe e  l’interdizione perpetua da ruoli pubblici».

La social mafia tra champagne, lusso e pistole: la vida loca dei rampolli dei boss all’ombra del Duomo. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022

Come vip e influencer, gli eredi Fidanzati, Papalia, Casoppero ostentano profili pubblici. Oro, argento e sciabolate nei privé in discoteca, pose da gangster da Ibiza a Mykonos. E riappaiono i volti sorridenti di boss in carcere da più di 40 anni 

Bottiglie di champagne «sciabolate» con il Rolex. Notti nei privé delle discoteche, come vip e calciatori. Mercedes, Maserati, Bmw, borse e scarpe Louis Vuitton, Balenciaga, Gucci. È la vida loca dei rampolli di mafia all’ombra del Duomo. Il lusso esibito e sfacciato. Anche se lo stipendio ufficiale è quello di un bidello. Nel mondo social la ‘ndrangheta non piange miseria e sfoggia le sue ricchezze, lo sfarzo, i suoi rich kids. È l’altra faccia della ’ndrangheta, quella che nelle inchieste maneggia fatture e crediti Iva. Cosche imprenditrici, mafia sotterranea, mimetismo e penetrazione silenziosa del tessuto economico.

La social mafia

Ma nel metaverso c’è tutto il resto. Compresi i volti sorridenti di boss murati in carcere da più di 40 anni registrati durante i colloqui in videochat ai tempi del Covid e rilanciati ossessivamente sui social. Così che tutti vedano questi uomini d’onore non scalfiti dalla galera, dalla repressione dello Stato. Come quel don Micu Papalia, in cella dal 1978, e considerato una sorta di Papa dalla ‘ndrangheta di tutto il mondo. O come suo fratello Antonio, ergastolano dai tempi della maxi inchiesta Nord Sud degli anni Novanta, che sorride e scherza nei video caricati su TikTok da nipoti così giovani che non lo hanno mai visto dal vivo.

E poi ancora matrimoni, battesimi, diciottesimi e la moda del momento, il gender reveal party, festa in cui si scopre il sesso del nascituro. Pranzi di gala in minuscoli paesi d’Aspromonte senza fognature ma dove si festeggia tra ori, posate d’argento e abiti da fare invidia alla principessa Sissi. Con i cantanti neomelodici, colonna sonora di sfarzosi ricevimenti o di post dove si mostrano i parenti detenuti circondati da cuori e baci. Su tutti c’è Niko Pandetta, nipote del padrino catanese di Cosa nostra Turi Cappello, che canta «pistole nella Fendi, maresciallo non ci prendi» e che s’è visto bloccare concerti dal vivo dalle prefetture di mezza Italia.

È il volto più nascosto e al tempo stesso sfacciato della mafia a Milano. Clan che s’adeguano ai tempi e sbarcano sui social. Sembrano i video dei rapper che fanno impazzire le classifiche di Spotify, ma qui le pistole sono vere e i cognomi hanno fatto la storia più nera del crimine organizzato in Italia. Per mesi, in alcuni casi per anni, abbiamo guardato dal buco della serratura i profili virtuali di condannati per mafia e dei loro più stretti familiari. Abbiamo cercato di capire chi sono e come vivono i rampolli della ‘ndrangheta in Lombardia. E soprattutto cosa li ha portati a sbarcare su TikTok, per quale motivo i figli di un’organizzazione segreta fondata sull’omertà scelgano oggi di esporre la loro vita sui social con profili pubblici, come cantanti e influencer.

Palestra, vacanze e Cosa Nostra

Il viaggio nella Social mafia inizia dal nipote di una delle dinastie più importanti della cupola palermitana. Si chiama Gaetano Fidanzati, come il nonno, scomparso nel 2013 dopo anni di latitanze e arresti. Don Tanino venne inquisito da Falcone e Borsellino nel Maxiprocesso a Cosa nostra. Gaetano jr, 31 anni, era poco più che un neonato quando nel ’92 la Commissione provinciale di Totò Riina faceva saltare in aria i magistrati del pool di Palermo. Ma è cresciuto in fretta a Milano, con qualche intemperanza notturna e con il nome finito in più di un’inchiesta antidroga. Come l’indagine Old story eden dove viene accusato di fare il mediatore per un traffico di stupefacenti. Oggi Fidanzati jr sfoggia un fisico da atleta, si professa personal trainer e su Instagram dispensa consigli sulla buona alimentazione. È molto conosciuto, Gaetano Fidanzati specie nella Milano di notte. Sui social le immagini di spiagge incantevoli e aperitivi a bordo piscina. L’itinerario delle vacanze tocca Mykonos, Naxos, Parigi, Maiorca, Formentera, Ibiza, l’amata Sicilia, la Sardegna. È uno che ce l’ha fatta, il nipote di don Tanino.

Locali e striscioni in curva

Milano, Quarto Oggiaro. Gli eredi delle famiglie di malavita decapitate dalle maxi inchieste degli anni Novanta sono cresciuti. Sui social si bullano in pose da gangster, immagini di Scarface e l’ossessione per i neomelodici napoletani. C’è il video di una festa di compleanno in un ristorante. Le immagini sono girate con cura, il montaggio è opera di un professionista. La telecamera indugia su vestiti firmati, gioielli, orologi, belle auto e tavola imbandita. In primo piano i «vecchi» usciti di galera, elegantissimi e impeccabili. Altro album di famiglia. C’è il figlio di un boss ergastolano. In una foto da ragazzo impugna una pistola insieme agli amici, in un’altra c’è lo striscione che la Curva sud del Milan gli ha dedicato anni fa: «Sei mesi passano in fretta, Bruno Quarto ti aspetta». Oggi le immagini sono quelle all’ingresso dell’Old Fashion e delle vacanze. Più a Nord, ai confini con il territorio comasco, c’è Ludovico Muscatello, nipote del boss Salvatore, uno dei più vecchi padrini della ‘ndrangheta al Nord, morto nel 2019. Sui social Ludovico sfoggia la vita di un ragazzo affermato: locali, la famiglia, amici, vacanze. Nel 2015 era rimasto ferito in un agguato a colpi di pistola ordito da una cosca rivale, i potenti Morabito di Africo per il controllo dei locali notturni di Cantù. Sui social le foto che lo ritraggono in carcere durante una partita di calcio: «Un leone, seppur in gabbia, rimane un leone».

Ostriche, gamberi e i volti dei padrini

Discoteca Tocqueville, cuore della movida di corso Como. I camerieri portano nel privé cestelli di ghiaccio e bottiglie di Moët & Chandon Nectar impérial rosé. Un ragazzo «sciabola» bottiglie usando un Rolex, gli amici riprendono estasiati con i cellulari. Il video rimbalza su TikTok. L’account è del figlio di un boss della ‘ndrangheta arrestato negli anni Novanta a Corsico. Altro video, discoteca Fellini. Al tavolo arrivano bottiglie di champagne accompagnate da una fontana di fuochi d’artificio. Poi ristoranti con gamberi e ostriche. Lavora come collaboratore scolastico nell’hinterland di Milano, soldi però sembrano girarne parecchi. Nello stesso profilo c’è il volto sorridente dello zio Domenico Papalia. Settantasette anni, Micu Papalia è considerato dai magistrati uno dei nomi più influenti negli assetti delle cosche calabresi. Per i suoi familiari è invece solo «un anziano malato», «ingiustamente recluso nonostante un tumore alla prostata». Grazie al sistema dei colloqui in carcere in via telematica nel corso della pandemia, oggi il viso sorridente del boss riempie le bacheche dei ragazzi: «Grande uomo», «Una grande persona», «Una presta libertà, leone», «Grandi Papalia persone garbate per bene e di buon cuore», il tenore dei commenti. Ci sono video con gli appelli per la sua liberazione. La storia di «una ingiusta detenzione per vendetta dello Stato». Uno dei pronipoti gli ha pure dedicato una canzone finita su Youtube: «I Papalia non su’ delinquenti ma sunu cristianeri comu tanti». Il video del boss è accompagnato dalla scritta «combatteremo e sorrideremo contro tutti». È come se i social avessero aperto le porte del carcere all’esterno. I boss sanguinari detenuti da anni tornano ad essere visibili a tutti. Non mostrano le loro sofferenze, sono invecchiati ma vivi e soprattutto ci sono ancora. C’è anche Saverio Trimboli, detto Savetta, altro padrino calabrese, condannato a vent’anni per l’omicidio del rivale Pasqualino Marando. Le foto con cuori, baci e sorrisi.

Carrozze, cavalli e ricevimenti

A completare la triade dei Papalia c’è Rocco, il boss che ha riconquistato la libertà nel 2017. La sua foto è ritratta insieme a quella dei fratelli Domenico e Antonio: «ingiustamente accusati». In Rete compare la prima immagine viene scattata il 4 giugno di cinque anni fa all’uscita dal carcere di Secondigliano. Ha una polo a righe, un borsone a tracolla, parla al telefono e sorride con un ghigno. La fotografia viene postata sui social da una parente, fa il giro di Facebook in poche ore. Oggi, nei video che compaiono su TikTok, il boss Rocco Papalia è un nonno che scherza suonando il flauto per i pronipoti. C’è anche Salvatore Barbaro, il genero. Nelle immagini «rubate» durante i colloqui via webcam, oppure in posa con marsupio di Gucci a tracolla davanti a una Maserati. Sui social finiscono le riprese del matrimonio celebrato a Buccinasco: carrozza trainata dai cavalli, in cielo palloncini a forma di cuore, lui con un vistoso smoking Philipp Plein (con etichetta in vista) accompagna la figlia all’altare, poi il grande ricevimento al Green park di Borgarello, Pavia. In un video una delle giovani nipoti di famiglia scherza sulle origini: «Barbaro, mi è familiare il tuo cognome». Sullo schermo la cartina della Calabria e la foto del padre boss.

Il controllo dei gruppi Facebook

Il caso esplode nel 2019. Il gruppo Facebook della cittadina di Lonate Pozzolo, alle porte di Malpensa, «Sei di Lonate Pozzolo se...» usato dagli abitanti per scambiarsi informazioni, notizie, opinioni passa nelle mani dei parenti del boss Cataldo Casoppero, arrestato il 4 luglio per mafia e condannato a 14 anni in secondo grado. A decidere cosa può essere pubblicato e cosa no, nel ruolo di amministratore, c’è il figlio del boss, la sua compagna, e alcune persone a lui vicine. I post si riempiono di attacchi alla sindaca Nadia Rosa e alla magistratura. Spariscono le notizie sull’inchiesta «Krimisa» che ha portato in cella i nuovi vertici della ‘ndrangheta. Polemiche, liti, attacchi frontali culminano nella sceneggiata del figlio del boss a un evento pubblico antimafia con Alessandra Dolci, procuratore aggiunto che coordina la Dda di Milano. Casoppero jr si alza e pone una domanda polemica al magistrato. L’accusa è sempre la stessa: gli investigatori colpiscono brava gente lasciando liberi i colpevoli. L’aula rumoreggia. Ma dalle ultime file c’è chi applaude e non nasconde il proprio sostegno al figlio del boss. La mutazione è compiuta, il virtuale è diventato reale.

MELITO PORTO SALVO – AVETRANA. IL FILO CONTINUO DEL LINCIAGGIO DI UNA COMUNITA’.

“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”

Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo.

Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità.

Il commento del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha scritto “Reggio e La Calabria, quello che non si osa dire” e “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese”.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero.

E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo.

E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità.

Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina.

Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’.

Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”.

Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolo’ Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società’ civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”.

L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto.

Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra?

Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”

Se questi son giornalisti… “Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa”. Goffredo Buccini 13 settembre 2017 Corriere della Sera.

Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.

Specchia. Noemi Durini e Lucio Marzo. Un film già visto, come Sarah Scazzi.

Lucio Marzo, fidanzato di Noemi, ha confessato ed ha fatto trovare il corpo.

Per il delitto di Sarah Scazzi, Michele Misseri, reo confesso, anch’egli ha fatto trovare il corpo, ma non è stato condannato per l’omicidio.

Chi sarà condannato per il delitto di Noemi Durini?

A Specchia, come ad Avetrana, si aspettavano i giornalisti con le palle, ma son arrivati solo…i coglioni.

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi. Lettera al Direttore. Se questa è antimafia…di Antonio Giangrande*

In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale.

Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposti a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate.

L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione?

E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile?

E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi?

La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere.

La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…

Allora niente è mafia.

E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

*Antonio Giangrande ha scritto dei saggi sulla Mafia. (Mafiopoli; La Mafia dell’Antimafia; Castopoli; Massoneriopoli; Impunitopoli.)

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.

Capire di dover capire significa non muoversi a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.

Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.

Imparare ad imparare significa creare un percorso.

Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.

Art. 21 della Costituzione: diritto di manifestare il proprio pensiero. Diritto di critica e di cronaca; diritto di informare ed essere informati. C'è qualcuno che crede, invece, che sia diritto al villipendio e alla diffamazione, nascondendosi dietro l'anonimato. Più io cerco di cancellare questi pseudo amici infiltrati per fare propaganda politica, più loro si moltiplicano.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.

"Sono nata Badalamenti", il libro di Maria sull'appassionata lotta a Cosa nostra. Maria Badalamenti - figlia di Silvio, ucciso dalla Mafia in un giorno di giugno - è l'autrice di un libro denso di memorie del padre e della sua lotta alla mafia.

Nota - Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di PalermoToday

Tanti ricordi della sua vita in cui la morte di suo padre ucciso mentre andava a lavorare sembra segnare la cesura tra un’infanzia spensierata e la consapevole maturità. Da allora Maria e la sua famiglia tutta al femminile dedica la sua quotidiana battaglia alla verità e alla legalità, in un percorso onesto che già Silvio Badalamenti aveva imboccato. Pagine appassionate in un libro che pare quasi un diario tramandato al lettore per fargli conoscere come sono andate le cose.

Il libro si apre con il fatto principale attorno a cui ruota ogni vicenda. Silvio Badalamenti, nipote del boss don Tano, unico esponente della famiglia non affiliato a “Cosa nostra”, viene ucciso mentre sta andando a piedi a lavorare, nel 1983, da un commando mafioso: quando i corleonesi vincono la guerra di mafia, Badalamenti diventa un nemico da abbattere. Tano si rifugia in Sudamerica e poi negli Stati Uniti, dove mette in piedi la “Pizza Connection”. Gli uomini di Riina fanno terra bruciata attorno al loro storico nemico. Il libro è il racconto di quel periodo, di quella famiglia conosciuta in tutto il mondo. E c’è poi un cognome, Badalamenti, così pesante da portare: in Sicilia, in Brasile, in Inghilterra. Il racconto di Maria è nel nome del padre, della sua onestà, per ridare dignità alla sua storia, ma è anche, soprattutto, il grido di una donna che è voluta tornare in Sicilia e restarci, per viverci a testa alta, senza paura. 

E' la mattina del 2 giugno 1983, un dolce sole riscalda una limpida giornata di inizio estate; un uomo si avvia, come tutte le mattine, a piedi verso l’ufficio. Vive solo del suo lavoro che svolge con onestà e passione. È una persona brillante, dall’elegante portamento, stringe al petto l’agenda e alcuni documenti di lavoro e ha un’espressione felice, un dolce e scanzonato sorriso. 

L’Autrice  

Maria Badalamenti nasce a Palermo nel 1973 e vive un'infanzia felice a Marsala, in una famiglia comune, ma porta un cognome pesante: è parente del famigerato boss della mafia Gaetano Badalamenti. Il 2 giugno del 1983, Silvio Badalamenti, il padre di Maria, viene assassinato dalla mafia. La bambina ha solo nove anni e, da quel giorno, la vita sua e della sua famiglia è travolta da un crudele destino. Tre donne sole che si trasferiscono a Palermo, in un mondo che le guarda con pregiudizio e disprezzo perché hanno quel cognome che evoca malaffare, criminalità. La sfida più difficile che Maria ha affrontato, dopo quel violento e prematuro strappo dall'abbraccio paterno, è stata questa mortificazione sociale artatamente costruita per distruggere ogni suo progetto di vita personale, lavorativo, economico e, persino, affettivo. Ma lei è più forte del pregiudizio: si rialza, si diploma, si laurea e dà alla luce una splendida figlia che considera il suo più grande successo. Sono nata Badalamenti, romanzo autobiografico, è la sua prima opera letteraria. 

Sono nata Badalamenti. La vera storia di un uomo per bene. Recensione unilibro.it.

Sono nata Badalamenti. La vera storia di un uomo per bene: Silvio Badalamenti, nipote del boss don Tano, unico esponente della famiglia non affiliato a "Cosa nostra", viene ucciso mentre sta andando a piedi a lavorare, nel 1983, da un commando mafioso: quando i corleonesi vincono la guerra di mafia, Badalamenti diventa un nemico da abbattere. Tano si rifugia in Sudamerica e poi negli Stati Uniti, dove mette in piedi la "Pizza Connection". Gli uomini di Riina fanno terra bruciata attorno al loro storico nemico. Il libro è il racconto di quel periodo, di quella famiglia conosciuta in tutto il mondo. E c'è poi un cognome, Badalamenti, così pesante da portare: in Sicilia, in Brasile, in Inghilterra. Il racconto di Maria è nel nome del padre, della sua onestà, per ridare dignità alla sua storia, ma è anche, soprattutto, il grido di una donna che è voluta tornare in Sicilia e restarci, per viverci a testa alta, senza paura.

Silvio Badalamenti non era estraneo al contesto mafioso dello zio Tano. Salvo Vitale su antimafiaduemila.com l'01 Luglio 2022.

Respinta l’istanza di risarcimento inoltrata dalla famiglia

E’ una battaglia che i familiari di Silvio Badalamenti e soprattutto la moglie Gabriella Ruffino, portano avanti da quasi cinquant’anni, ovvero che il loro parente nulla avrebbe avuto a che fare con il mondo della mafia, né, tantomeno, con la figura di suo zio Gaetano Badalamenti, uno dei più grandi boss di Cosa Nostra, condannato per l’omicidio di Peppino Impastato. Poco tempo dopo la morte del marito, la vedova scrisse un’appassionata lettera al Giornale di Sicilia sostenendo l’integrità morale del marito. Qualche anno più tardi, nel 2002, pubblicò, con la casa editrice Sellerio, un libro, “Come l’oleandro”, una sorta di romanzata autobiografia in cui si raccontano le vicende, le avventure, le espressioni di una cultura, in parte popolare, in parte mafiosa, in parte arcaica, ma anche le intuite crudeltà di Faro Badalamenti, una immaginaria e cavalleresca figura nella quale non è difficile intravedere l’ombra dello zio Tano, “il dolce profumo del venefico oleandro”. Anche una delle due figlie di Silvio, Maria, ha raccontato della sua vita e delle sue scelte, opposte a quelle di Don Tano, in un libro dal titolo: “Sono nata Badalamenti”, sostenendo: “Porto il cognome Badalamenti, ma disprezzo quello zio boss”. Si può trovare su YouTube un’intervista di Salvo Palazzolo su La Repubblica del 12.06.2018 e si può leggere nello stesso libro l’ammirazione di Maria per il padre, che, a suo dire, aveva tagliato i ponti e i legami con lo zio e scelto una vita onesta. Citato anche Giovanni Falcone che, dopo aver disposto l’arresto di Silvio, ne firmò la scarcerazione dopo averlo interrogato, invitandolo, a dire della figlia, ad allontanarsi dalla Sicilia. 

Una richiesta non accolta

La richiesta della vedova e delle due figlie di Silvio B. di accedere ai benefici economici previsti dalla legge a favore dei familiari superstiti delle vittime della criminalità organizzata di stampo mafioso, presso il Ministero degli Interni, era già stata respinta in prima istanza e in Appello, nel 2015, sino all’attuale sentenza della Cassazione, che chiude la vicenda, non essendo stato riscontrato il requisito della “estraneità della vittima, al tempo dell’evento, ad ambienti e rapporti delinquenziali e, nella specie, al contesto mafioso». La sentenza richiama quella della Corte di Assise di Trapani relativa all’omicidio di Badalamenti e ai suoi “ignoti” autori, nella quale si citava «il radicato rapporto di fiducia» della vittima con suo zio, il boss Badalamenti, “fondato su presupposti non esclusivamente basati sul mero vincolo di sangue» e si riferivano le «condizioni di vita e professionali» di Silvio Badalamenti, «responsabile dell’esattoria comunale di Marsala, facente capo ai noti esponenti mafiosi Antonino e Ignazio Salvo, legati da stabili vincoli di affari con Gaetano Badalamenti». 

La “guerra di mafia” a Cinisi e dintorni

Silvio B. venne ucciso a durante la guerra di mafia che i Corleonesi, alla fine degli anni ’70 scatenarono contro quelli che Mario Francese chiamava “i guanti di velluto”, ovvero la cosca dei badalamentiani, legata in stretti rapporti d’affari con Spatola, Inzerillo, Bontade, i Rimi di Alcamo e, Leonardo Greco di Bagheria, Cosimo Di Cristina, Tommaso Buscetta ed altri elementi di spicco della vecchia generazione di mafia, interamente cancellata dalla violenza e dalla spietatezza dei Corleonesi di Leggio, Reina, Bagarella, Provenzano, e altri boss di provincia e di città, come i Greco di Croceverde, i Brusca di San Giuseppe Jato, Nenè Geraci capo della cosca dei Partinicesi. Sulle strade della Sicilia Occidentale nel triennio 1980-1983 i morti furono più di duecento, ma nella sola Cinisi e zone limitrofe si contarono una trentina di caduti, quasi tutti dell’esercito di don Tano, che già, dal 1978, anno in cui era stato “posato” da capo della “Commissione”, ed in cui era stato ucciso Peppino Impastato, era scomparso. Ricomparve l’8 aprile 1984, quando venne arrestato a Madrid, assieme al figlio Vito e al nipote Pietro Alfano, a seguito di una complessa operazione internazionale, la “Pizza Connection”, un colossale traffico di droga. L’arresto di Badalamenti mise fine a un’epoca in cui, malgrado tutte le violenze, tra le istituzioni, le forze dell’ordine e il mondo politico c’era una sorta di continuo e in gran parte pacifico scambio di favori, di affari, di voti, di denaro, di carriere. 

L’ombra dei Salvo

E’ in questo contesto che venne ucciso a Marsala, Silvio Badalamenti, responsabile della locale esattoria comunale e collettore di imposte dirette per la zona di Marsala e per altri comuni delle provincie di Palermo, Agrigento e Caltanisetta, dopo avere lavorato, dal 1969 al 1977 presso l’agenzia di Castellammare del Golfo.. Marsala è a due passi da Salemi, il regno dei due cugini Ignazio e Nino Salvo, esponenti di punta della D.C. siciliana, “legati da stabili vincoli di affari con i boss”, in particolare a Gaetano Badalamenti, “grandi esattori” attraverso la SA.RI, delle imposte di tutta la Sicilia, grazie a un incarico dato dalla Regione e costantemente rinnovato. Scrive la sentenza: «le pregresse esperienze giudiziarie e altri stretti rapporti con esponenti mafiosi di primissimo rilievo, erano tutti elementi, per la Corte di merito, univocamente orientati a certificare la sostanziale contiguità di Silvio Badalamenti ad ambienti mafiosi o quantomeno ad ingenerare il forte sospetto della sua non estraneità al contesto criminoso nel quale era maturato il delitto, circostanze entrambe ostative al conseguimento, da parte degli eredi, del beneficio economico rivendicato». Secondo i giudici “non basta la sola incensuratezza della vittima o la non affiliazione a una cosca, ma occorre che «vi sia la completa estraneità ad ambienti delinquenziali mafiosi, intesi in senso ampio e in modo particolarmente rigoroso laddove per vincoli, e ragioni familiari, la frequentazione di quegli ambienti sia naturalmente assidua». 

La macchina di don Tano

Al momento della sua uccisione Silvio Badalamenti aveva addosso un assegno di sei milioni di lire, sulla Cassa Centrale di Risparmio, rilasciato da Rosalia Benedetto quale prezzo di una autovettura SAAB 900 TURBO venduta, tramite il Badalamenti, al Direttore della Esattoria di Trapani, Sig. Trapani, il quale dopo qualche giorno si era detto insoddisfatto dell'acquisto ed aveva richiesto la restituzione della somma pagata. Ma la vicenda più interessante è quella legata alla macchina di Don Tano, come viene fuori dalle indagini della squadra Mobile: Il 13 marzo 1982, i carabinieri di Montagnana (Padova) trovarono nella officina di De Putti Renzo, in riparazione, una autovettura "Alfetta 2000" targata PA-539233, blindata, intestata a Badalamenti Gaetano, ma in uso a Badalamenti Silvio che, interrogato, dichiarò di aver avuto in prestito la vettura dalla zia anche perché trovasse qualcuno disposto ad acquistarla. Dichiarava altresì di trovarsi in Veneto da solo per cure mediche. A Padova Silvio B. aveva preso contatto con Catarinicchia Alfonso - impiegato presso la Prefettura di tale centro, palermitano di origine, amico della famiglia Badalamenti conosciuta a Cinisi ove si recava ogni estate in vacanza – affinche lo accompagnasse da uno specialista per una visita e, nello stesso tempo perché gli indicasse un meccanico presso il quale fare eseguire alcune riparazioni all’Alfetta blindata che lo aveva portato a Padova. Qui vicino i carabinieri avevano sequestrato l’auto blindata, mentre Silvio si spostava a Macherio, tra Monza e la Brianza, presso la casa del magistrato Cusumano Antonino, la cui moglie era sorella della moglie del Badalamenti. Dall’interrogatorio del giudice Cusumano veniva fuori che Silvio era in affettuosi rapporti con il giudice, che, ogni qualvolta si recava al Nord per lavoro, veniva a trovarlo, che dopo l’omicidio di Giacomo Impastato (15.01.1982 ), imparentato con Gaetano Badalamenti, egli aveva pregato Silvio di trasferirsi a casa sua, a Milano, ed egli, dopo essersi dichiarato tranquillo, perchè diceva di non avere alcun rapporto con lo zio, verso la fine di gennaio del 1982, aveva accettato l’offerta, portando con se' moglie e figli, ed era rimasto a casa sua sino alla fine di maggio, recandosi spesso a Firenze presso la sede della SA.RI. sempre per esigenze del suo lavoro: erano arrivato a Milano con la moglie, verso i primi di ottobre del 1981, a bordo di una Alfetta 2000 blindata e si erano trattenuti circa quattro giorni, recandosi anche a Brescia. L’auto era stata lasciata, parcheggiata, presso il cancello della sua casa ed era stata ritirata, un mese dopo, dal fratello di Silvio, Salvatore Badalamenti, in compagnia di uno o due persone, ed allo stesso aveva consegnato le chiavi dell'auto; secondo il giudice ad accompagnare il cognato poteva essere stato Ninni Di Giuseppe, nipote acquisito di Gaetano Badalamenti. Evidentemente, secondo il giudice Cusimano i familiari di Silvio pensavano che anche lui avrebbe potuto essere un bersaglio dei killers mafiosi, sia che egli detenesse la vettura dello zio per venderla, sia che durante i suoi viaggi al Nord andasse ad incontrare lo zio, segnalato proprio in quel periodo in detta zona della provincia lombarda. 

L’arresto, il rilascio, l’agguato

Dopo l’arresto e l’interrogatorio Silvio, aveva dichiarato di temere per la propria vita e di essersi allontanato da Marsala consumando due mesi e mezzo di ferie non godute più altri due mesi di congedo per malattia, era stato rilasciato ed era tornato a Marsala dove, si legge nel rapporto, “veniva raggiunto dai killers i quali non avrebbero mai potuto permettere che rimanesse in circolazione, dati gli obbiettivi aiuti che poteva dare allo zio, come dimostrato, tra l'altro, dalle vicende della auto blindata".

Nel rapporto della Squadra Mobile di Palermo, (22.8.84) si riporta l’interrogatorio di Pellerito Maria - madre della vittima e cognata di Gaetano Badalamenti per averne sposato il fratello Giuseppe - la quale aveva dichiarato che il figlio Silvio raramente si incontrava con il predetto zio, ma si prende nota anche di un esposto anonimo, con il quale Rimi Natale e Badalamenti Gaetano venivano indicati quali mandanti dell'omicidio di Silvio Badalamenti, ritenuto destituito di fondamento dato che, perché nella guerra di mafia il clan dei Badalamenti era stato preso di mira dalle cosche vincenti con la eliminazione di molti dei suoi componenti.

La vittima, proprio per l'appartenenza al nucleo familiare dei Badalamenti, era stata inserita dagli inquirenti nella associazione mafiosa ed era stata raggiunta dall'ordine di cattura emesso il 26.7.82 dalla Procura della Repubblica di Palermo, nonché dai mandati di cattura n. 343 del 17.8.82 e n. 237 del 31.5.83. Aveva 38 anni, quando il due giugno 1983, a Marsala, era appena uscito di casa e venne freddato da un killer in via Mazzini, al civico n. 22. La moglie sentì i colpi di pistola dalla sua casa. Diverse notizie sono state ricavate dal sito “Domani” in un articolo del 2 aprile 2021, che riporta atti del maxiprocesso.

Una disputa inutile

Tra la famiglia Ruffino-Badalamenti e quella di Giovanni Impastato da tempo si trascina, specialmente su Facebook una querelle degna di miglior causa. Il 5 dicembre 2021, visibilmente irritata da frasi ingiuriose, amplificate, fra l’altro, dai commenti, in siciliano si dice “di cu si ci abbagna u pani”, cioè di chi vi inzuppa il pane, categoria di cui Cinisi è piena, Felicetta Vitale, moglie di Giovanni Impastato, ha scritto questa lettera, dalla quale si può facilmente ricavare il livello dello scontro e delle accuse, quasi a testimoniare la permanenza di ferite che, a distanza di quasi 50 anni, non si sono mai sanate. Non riporto le accuse di Maria Badalamenti, che sono fra l’altro bene evidenziate nel testo:

“Cari amici e compagni di fb dopo l'ennesima provocazione della nuova paladina antimafia di Cinisi Maria Badalamenti che augura malattie e disgrazie agli Impastato per vivere tranquilla, non posso non intervenire. Chi è Maria Badalamenti? È la figlia di Silvio Badalamenti nipote di don Tano e nipote del mafioso Salvatore Badalamenti fratello di Silvio. Per chi non lo ricordasse Salvatore era il proprietario dell'immobile confiscato dove attualmente ha sede la polizia municipale di Cinisi. Da quando lo stato ha negato l'attestato di vittima di mafia per il padre e non avendo il nostro supporto (famiglia Impastato, Casa Memoria associazione compagni di Peppino e CSD di Palermo) la signora Badalamenti fa come la volpe con l'uva, diventiamo i suoi nemici. Ci definisce "allegra comitiva tra mafia e massoneria, mafiosa antimafia e vermi di cadavere" e che ci siamo costruiti la carriera attaccando 3 donne piccole e indifese, (soffre di mania di persecuzione), non abbiamo mai speso una parola né una frase su lei nè su suo padre. Silvio Badalamenti era un dipendente della SA-RI (esattoria) dei fratelli Salvo vicini a Bontade a don Tano. (È entrato per concorso?) In un video la signora dichiara che i suoi genitori quando si sono sposati per dissociarsi da don Tano non lo invitano al matrimonio, non è perché in quel momento don Tano si trova al fresco all'Ucciardone, perché non mi spiego la presenza di Silvio davanti casa di don Tano quando questo ritorna a Cinisi da Padreterno: una volta lo scambiai per Vito perché fisicamente si somigliavano. Mi domando, se Silvio si dissocia a da don Tano, perché gli ha fatto il favore di portare l'alfa 2000 blindata a Macherio per consegnarla al fratello Salvatore che è andato a ritirarla con Ninni Di Giuseppe. L'attacco alla famiglia Impastato continua denigrando Luisa prendendola per ignorante senza cultura che ha solo la terza media ecc.. (non sa che Luisa era prossima alla laurea in lettere e non ha preso la laurea per motivi personali) in ogni modo per portare avanti la propria testimonianza non c'è bisogno di laurea, dovresti vergognarti. A Luisa muove continuamente l'accusa che ha rapporti con la figlia ricchissima di don Tano, ma che io sappia don Tano aveva due figli maschi Vito e Leonardo: Maria fai uno scoop facci una sorpresa rivela chi è. La nuova paladina antimafia ha atteggiamenti che di antimafia hanno ben poco anzi sembra che la mafia è innata in lei: ecco come si rivolge ad Umberto Santino Presidente del CSD, che io amo e stimo assieme ad Anna: "Volevo dire a maialino Umbi baffo, satanasso e basso che finito con due mongospastici (Giovanni e Luisa) comincio con lui e la vecchia (Anna Puglisi) e la verità supposta in quel posto ti deve finire!! Mostro vi faccio vedere io una che vi fa nuovi”. Un'altra accusa che ci muove è il pregiudizio che noi avremmo sul nome Badalamenti: la solita mania di persecuzione: abbiamo tanti amici e parenti Badalamenti e non ci poniamo il problema. Ai nostri compaesani che non dimostrano dissenso nei nostri confronti "Cinisarazza, brutti criminali, orrendi e volgari, cafoni e ignoranti, buzzurri e pezzenti." Ovviamente da una che ha tutto bello che è colta, che ha villa con piscina che possiede 10 Rolex non mi aspettavo un linguaggio del genere. Maria sei una sorpresa. Una nostra amica di fb che, alla ennesima volta che gli Impastato la perseguitano (sempre mania di persecuzione) gli suggerisce di rivolgersi agli organi inquirenti, la signora risponde che già si è rivolta a procure a società e potenti mafiosi..al che mi viene un dubbio, che ci sia il suo zampino nell'esposto anonimo arrivato in procura sull'irregolarità della nostra impresa sul territorio di Carini. Come mai Carini dopo quasi sessanta anni scopre che l'impresa Impastato opera abusivamente su un territorio non di appartenenza? Di Veca non posso parlare perché c è un procedimento in corso fate una bella coppia siete fatti della stessa pasta. Io preferisco l'amicizia di persone perbene. In ultimo va dicendo che a noi arrivano soldi tanti soldi tantissimi soldi, ebbene voglio fare una confidenza alla signora Badalamenti con tutti questi soldi abbiamo comprato su suo suggerimento la discoteca "New Kennedy" di Alcamo e stiamo organizzando il veglione di Capodanno, alla consolle ci saranno Giovanni e Luisa Impastato. Sei invitata non mancare".

Se Felicetta, che io conosco come una donna mite e riservata, sia arrivata a un livello di esasperazione da causare questo tipo di risposta, vuol dire che, attraverso i social Maria Badalamenti ha portato avanti una feroce campagna di accuse, soprattutto nei confronti di quella che per lei è un’antimafia di facciata che usufruisce di finanziamenti pubblici edi protezioni istituzionali. Personalmente, ogni volta che mi trovo davanti a questi violenti scontri che caratterizzano il variegato mondo dell’antimafia, e che ho provato anche sulla mia pelle per altre ragioni, provo molta amarezza e penso che tante forze così agguerrite andrebbero rivolte a combattere insieme il vero nemico, che è la mafia, non chi, con tutti i suoi limiti e con le sue cicatrici interne la mafia la combatte.E’ qualcosa che dico alle due famiglie private di un loro congiunto per opera di criminali mafiosi: “Unire le forze della Sicilia migliore, Organizzare assieme la vera antimafia per cambiare la Sicilia: che sogno!

Un’ultima nota che riguarda il casolare che, per quanto confiscato e restaurato, secondo la Corte d’Appello di Palermo andrebbe riconsegnato a Leonardo Badalamenti, figlio di don Tano: l’udienza definitiva è stata rinviata al 14 luglio.

"Porto il cognome Badalamenti ma disprezzo quello zio boss". Salvo Palazzolo su La Repubblica.it il 12 gennaio 2018

Di che cosa stiamo parlando

Silvio Badalamenti, figlio di un fratello del boss Gaetano Badalamenti, era il direttore delle esattorie di Marsala, fu assassinato il 2 giugno 1983, mentre andava al lavoro. Sua figlia Maria ha scritto un libro in cui racconta la storia della famiglia e la scelta del padre di stare lontano dai parenti coinvolti in vicende di mafia. Una storia che riporta agli anni bui della Sicilia, ma per molti aspetti è una storia ancora attuale, che ha ancora Cinisi come palcoscenico.

Ha scoperto la mafia una mattina d'estate, a un pranzo di famiglia.

«Avevo sei anni ed ero felice di giocare in quella bellissima villa antica – racconta – poi mi accorsi di don Tano, era seduto a capotavola, tutti lo ossequiavano. Tutti tranne me e mio padre che se ne stava in disparte, gli tirarono un gavettone. E io, per vendetta, lanciai addosso a don Tano una tazzina di caffè bollente». Da quel giorno, don Gaetano Badalamenti, il capo della Cupola mafiosa che qualche tempo dopo ordinò la morte del giovane Peppino Impastato, iniziò a chiamare quella bambina con un ghigno di disprezzo. «A sirbaggia, mi aveva soprannominata. La selvaggia».

La donna che parla porta lo stesso cognome di don Tano. Si chiama Maria, è la pronipote del capomafia di Cinisi morto nel 2004, in un carcere americano.

«Ho sempre disprezzato quell'uomo e tutto ciò che ha rappresentato», dice. Adesso, l'ha anche messo nero su bianco in un libro ("Sono nata Badalamenti", Dm edizioni) perché vuole ridare giustizia a suo padre Silvio, figlio di un fratello del capomafia, venne ucciso nel 1983, proprio per quel cognome che in Sicilia vuol dire mafia, affari e sangue. A quel tempo, invece, don Tano era stato ormai bandito dai nuovi signori di Cosa nostra, Riina e Provenzano, i suoi fedelissimi rimasti in vita e tutti i parenti erano fuggiti lontano dalla Sicilia. «Mio padre no – racconta Maria – lui era diverso da loro, mio padre non era un mafioso.

Aveva studiato al Gonzaga, la migliore scuola di Palermo, si era laureato, era diventato il direttore delle esattorie di Marsala, niente a che fare con le esattorie dei cugini Salvo. E continuava ad andare al lavoro, lo uccisero prima che entrasse in ufficio».

Silvio Badalamenti portava un cognome pesante. «Restando in Sicilia aveva detto il suo no alla mafia. Ai Corleonesi che odiavano i Badalamenti, ma anche ai suoi stessi parenti, che lui cercava di tenere sempre a distanza». Poi, però, anche Silvio Badalamenti era finito in un blitz contro il clan di Cinisi, con l'accusa di aver portato l'auto blindata di don Tano da Palermo a Milano. «Ma dopo averlo interrogato, Falcone lo scarcerò subito», racconta Maria, che adesso ritiene di aver trovato nuove prove per raccontare la vera storia di quel viaggio con l'auto blindata del capomafia, e le nuove prove le ha consegnate ai carabinieri. «Non era un favore a Badalamenti», dice. E di più non vuole aggiungere, al momento. In quei giorni difficili, Falcone disse al padre di Maria: «Se ne vada dalla Sicilia». «Mio padre gli rispose: "Ma io vivo del mio lavoro, dove vado?"». Fu ucciso la mattina del 2 giugno 1983. «"Era un galantuomo", disse Falcone al colonnello Nicolò Gebbia, che fece le prime indagini. Gli disse: "Aveva la sfortuna di questa nemesi storica, di portare il cognome Badalamenti"».

Eppure, al processo per la morte di Peppino Impastato, il pentito Angelo Siino ha raccontato di aver saputo da «Silvio Badalamenti, un mio conoscente» notizie sull'ordine di morte lanciato da don Tano: «Mi disse che con le sue trasmissioni radiofoniche aveva offeso Badalamenti». Racconta Maria: «Il figlio di Siino era mio ero compagno di liceo, un giorno mi sussurrò: "Mio padre conosce tuo padre Salvatore". Gli dissi: "Ti sbagli, mio padre si chiama Silvio, ed è morto da tempo. Lui chiese a suo padre e tornò dicendomi, hai ragione, non si conoscono». Salvatore è il fratello di Silvio, che è stato condannato per mafia.

Sono i Badalamenti il cuore del lungo racconto di Maria, il suo destino. «C'è un filo rosso che lega passato e presente», dice.

«La vera ricchezza di don Tano stava nei suoi segreti, attorno alle relazioni inconfessabili che intratteneva, con il mondo della politica, delle istituzioni, dell'economia. Segreti che oggi, probabilmente, conservano i suoi figli, di cui non si ha più traccia». L'inchiesta su Leonardo Badalamenti, arrestato in Brasile, per aver gestito operazioni con bond venezuelani per un miliardo di dollari, si è chiusa con un nulla di fatto. Ora, la pronipote di don Tano denuncia che a Cinisi sono tornati i perdenti di un tempo. «Con i loro soldi, con i loro affari, accolti da un rinnovato consenso sociale – dice Maria Badalamenti – basta guardare su Facebook quanti like ottengono. E per quel no di mio padre ci hanno tolto l'eredità, ci fanno una guerra silenziosa. Ma io non ho paura e vado avanti».

Cognome pesante Maria Badalamenti è figlia del nipote del capomafia che volle la morte di Peppino Impastato. Salvo Palazzolo 12 gennaio 2018

MARIA BADALAMENTI. La figlia di Silvio, ucciso dalla mafia, non ha paura dei boss (Italia sì). Morgan K. Barraco su ilsussidiario.net il 27 ottobre 2018. 

Maria Badalamenti, figlia di Silvio, ucciso dalla mafia, sarà ospite a Italia sì oggi pomeriggio, su Rai 1. La donna non ha paura dei boss e lo dice apertamente

Ucciso per un cognome: Silvio Badalamenti ha pagato caro il suo collegamento con il boss mafioso Gaetano. Uno zio conosciuto per il suo ruolo nella mafia e da cui il direttore delle esattorie di Marsala ha preso le distanze da sempre. La figlia di Silvio Badalamenti, Maria, ne parla nel libro “Sono nata Badalamenti”, pubblicato con DM Edizioni, una raccolta di memorie in cui spiega perché il padre ha deciso di stare alla larga da tutti i parenti coinvolti con Cosa Nostra. Una storia che ci riporta indietro a prima degli anni Ottanta e dell’uccisione dell’imprenditore, fino a quella Cinisi inginocchiata di fronte a un clan sempre più spietato. Maria Badalamenti ne parlerà a Italia sì oggi pomeriggio, su Rai 1. Ripercorrerà ancora una volta quel primo incontro con don Tano, il prozio venerato da tutta la famiglia e che Silvio guarderà sempre con sospetto.

MARIA BADALAMENTI E LO ZIO GAETANO

Non ci sarà mai un legame affettuoso anche fra Maria e il boss Gaetano, per via di una tazzina di caffè bollente che, bambina, gli tirerà addosso per vendicarsi di un gavettone fatto al padre. Per don Tano quella piccola di soli sei anni diventerà anche per gli anni a venire “a sirbaggia”, la selvaggia. “Lui era diverso da loro”, riferisce a La Repubblica, “mio padre non era un mafioso”. L’intera esistenza di Silvio Badalamenti dimostra infatti come fin dalla giovane età non vorrà far parte di quella famiglia mafiosa. Studia, si laurea, diventa direttore delle esattorie e mette su famiglia. Casa e lavoro, ma lo uccideranno proprio per quel cognome così pesante che attirerà i Corleonesi.  Esiste un unico filo conduttore fra Maria Badalamenti e il padre Silvio, ucciso dalla mafia nel giugno dell’83. Il loro grido di battaglia è quel no detto alla mafia che li unisce ancora oggi, a distanza di trent’anni dal delitto ordinato forse dallo stesso Gaetano Badalamenti, boss mafioso.

LA MORTE DEL PADRE SILVIO

Ufficialmente in realtà saranno i Corleonesi a mettersi sulle tracce dell’imprenditore di Marsala e a vendicare il loro diritto a controllare Cinisi senza le incursioni del clan rivale. Anche Silvio Badalamenti finirà nel mirino della giustizia, con un blitz ordinato da Giovanni Falcone che sospetta possa essere un affiliato della mafia. La sua colpa è infatti aver guidato l’auto blindata di don Tano da Palermo fino a Milano. “Se ne vada dalla Sicilia”, gli dirà alla fine Falcone dopo aver appurato l’innocenza dell’imprenditore. Il Magistrato intuiva la pericolosità di quella parentela. Fin quando Silvio fosse rimasto in Sicilia, avrebbe corso lo stesso rischio del resto della famiglia, nonostante la sua lotta silenziosa contro la mafia. La stessa che poi il clan sopravvissuto alla morte di don Tano continuerà a fare a Maria e ai suoi familiari. “Non ho paura e vado avanti”, dice a La Repubblica convinta che ancora oggi il clan sia ossequiato a Cinisi. 

“Sono nata Badalamenti” Storia di una lotta coraggiosa (Mattino della Domenica 18.07.2021). Stefano Piazzas il 18 Luglio 2021 su confessioni-elvetiche.ch.  

Fa già caldo a Marsala la mattina del 2 giugno 1983 e un uomo cammina a passo spedito: si chiama Silvio Badalamenti ed è diretto verso l’esattoria dove lavora e non vuole fare tardi. È tranquillo perché nonostante il cognome che porta e che pesa come un macigno non ha nulla a che vedere con la mafia e con il male. È un padre affettuoso e un uomo gentile ma per lui è l’ultimo giorno della sua vita perché in quell’ufficio non ci arriverà mai; improvvisamente degli uomini lo affiancano e lo ammazzano al centro di una piazza di Marsala. Il male arriva e sommerge tutto, restano solo le lacrime di chi lo piange mentre a distanza chi ne ha decretato la morte festeggia magari durante un osceno banchetto. Chi sono? Sono i mafiosi corleonesi guidati da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (entrambi deceduti) che spazzano via tutti i loro avversari trasformando la Sicilia in un teatro di guerra dove trovano la morte magistrati, poliziotti, carabinieri, mafiosi veri e presunti, donne, bambini, parenti o supposti tali. È un massacro che annichilisce lo Stato che in Sicilia è marcio nelle sua fondamenta e che per questo fatica a reagire.

Chi è stato? Chi sono gli esecutori materiali? Da dove sono arrivati coloro che hanno ucciso Silvio Badalamenti senza pietà in pieno giorno strappandolo alla sua famiglia? Nessuno vede niente ed è la solita litania; “Guardi Dottore, non ho visto nulla ero girato dall’altra parte”– oppure – “ero appena andata via”. Storie di omertà e di paura, quella vera che ti fa asciugare la bocca. Silvio Badalamenti è li steso a terra e nemmeno il tempo di piangerlo che iniziano a girare (ad arte) le voci di coloro che dicono che è morto per i legami con lo zio Don Gaetano Badalamenti all’epoca capo della cupola mafiosa. È un classico della mafia quello di sporcare la figura di chiunque e non importa se la vittima è ancora lì in una pozza di sangue e per un po’ il fango ricopre Silvio la moglie Gabriella e le due figlie, Gloria e Maria. Ci vuole un cercatore di verità come Giovanni Falcone, a sua volta vittima di calunnie anche da parte di suoi colleghi diretti da “quelle menti raffinatissime” che lo faranno uccidere sull’autostrada di Capaci (Palermo) il 23 maggio 1992, per ridare a Silvio Badalamenti e alla sua famiglia ciò che è loro. Quest’uomo gentile e perbene ucciso in una piazza di Marsala, anche secondo le preziose testimonianze di alcuni pentiti, con la mafia non c’entrava nulla, anzi, si era sempre tenuto ben lontano dalle attività criminali della famiglia Badalamenti e lo aveva fatto ben sapendo che questo avrebbe potuto costargli ma l’uomo che aveva la schiena dritta aveva deciso di restare a vivere e a lavorare nella sua terra. Un incosciente? No, Silvio era una persona perbene, un cittadino e padre modello e un lavoratore. Per conoscere la sua storia e quella della sua famiglia bisogna leggere il libro della figlia Maria “Sono nata Badalamenti” (Ed. David and Matthaus) presentato lo scorso 10 luglio alla VII edizione del Festival letterario AG Noir di Andora (Savona) ma leggerlo non ci basta e così decidiamo di andare ad incontrare questa donna orgogliosa, dal sorriso contagioso e dalla malinconia struggente. La accompagna la sorella Gloria, che si tiene lontano dai riflettori per scelta ma che è un tutt’uno con Maria e te ne accorgi subito da come la guarda e da come la protegge.

Perché è morto vostro padre?

Perché Salvatore Riina e i corleonesi nella loro strategia del terrore decisero di uccidere chiunque potesse anche solo lontanamente essere d’intralcio. Papà aveva capito cosa stava accadendo e nel 1983 per qualche mese, ci allontanammo dalla Sicilia ma poi ci disse “perché devo fuggire dalla mia terra come se fossi un mafioso, come se fossi un criminale? Io sono un uomo onesto” e così tornammo. 

Che cosa significa chiamarsi Badalamenti?

Sia io che mia sorella da bambine non ci accorgemmo di nulla essendo cresciute in un contesto completamente diverso da quello mafioso, poi nel tempo abbiamo dovuto fare i conti con il pregiudizio e l’ostilità della gente che ti giudica da un cognome nonostante tutti sappiano che noi con la mafia non abbiamo mai avuto nulla a che fare. Io stessa fatico ancora a capire come le persone si facciano guidare ancora dal pregiudizio che non è casuale.

In che senso, che cosa intendi?

Il pregiudizio verso di noi è stato costruito a tavolino e ne ho avuto conferma anche da collaboratori di giustizia con i quali ho parlato. Intorno al pregiudizio e all’isolamento costruito attorno a noi si sono fatti accordi, interessi politici e interessi mafiosi. Mio padre decise di rimanere in Sicilia nonostante in quegli anni si uccidesse chiunque portasse il cognome Badalamenti. E questa è una scelta che io voglio ribadire, perché è un NO, seppure vissuto nell’intimità della famiglia, che lui disse alla mafia. Al ricatto dei Corleonesi che lo volevano via dalla sua terra nonostante fosse estraneo agli affari mafiosi. Disse NO ai Badalamenti che gli chiedevano favori e che lo volevano coinvolgere nei loro sporchi affari. C’è un episodio che mi ha colpito ascoltandoti e del quale parli nel libro: a soli sei anni tirasti addosso e di proposito a Don Tano Badalamenti un caffè bollente. Perché? Eravamo in campagna non ricordo se in estate o in primavera e venimmo invitati a pranzo da Don Tano con il quale non ci si vedeva praticamente mai e con il quale la distanza era profonda, basti pensare che i testimoni di nozze di papà e mamma erano uomini delle Istituzioni. Mio padre aveva studiato dai gesuiti ed era laureato, non frequentava questi uomini lontani anni luce da lui. Nonostante questo andammo (e non ricordo il perché) a questo pranzo. Don Tano era lì seduto attorniato dai suoi uomini che ad un certo punto iniziarono a prendere in giro mio padre arrivando al punto di tirargli dell’acqua e non era per scherzo, era per disprezzo, era fatto per metterlo in ridicolo davanti a tutti ed io lo avvertii e fu così che andai dritta da Don Tano e gli tirai addosso il caffè che avevo preso per papà…Mentre i figli di Don Tano scorazzano a bordo di lussuose fuoriserie tu fai una gran fatica a tirare avanti e lotti ogni giorno contro il pregiudizio e le cattiverie gratuite delle quali sei vittima…Vedi, anche oggi ho avuto ho avuto una giornata amara. Amara di difficoltà economiche, di difficoltà di ogni tipo ma resto a Cinisi ( Palermo) perché ho questo animo per cui voglio alla fine avere ragione, perché so che ho ragione e quindi sono qui a lottare contro coloro che mi chiudono tutte le porte e mi fanno delle cattiverie come le recensioni negative, orrende e mortificanti sulle stanze del Bed & Breakfast del quale mi occupo. Tutte inventate e da questo non mi posso difendere perché è tutto organizzato. Poi arrivata a un certo punto non riesco più neanche a distinguere le cose che ti succedono per caso, quelle che accadono perché è giusto da quelle che ti fanno apposta. Sei così stanca e così provata che confondi la realtà con le paure. Ci vuole grande forza per sopportare tutto questo perché sembra di impazzire.

Chi può ridarti la serenità? Lo Stato?

Sì, ma anche l’opinione pubblica perché io sono qua, sono da sola a combattere e mi scontro io quotidianamente con le porte chiuse. E quindi è ora che si prenda atto che non è giusto, che non è corretto tutto questo, che io avevo solo 9 anni, noi eravamo solo due bambine, non c’entravamo niente. Poi per tutta la vita ci siamo sentite dire: “Questo lavoro no perché ti chiami Badalamenti, questo no perché ti chiami Badalamenti”. Io sono sopravvissuta, sono ancora viva dopo tanto dolore e tanta amarezza, però sono stanca veramente. È ora che mi venga restituita la mia dignità.

La storia di Maria Badalamenti è stata rilanciata sui media attraverso la diretta Facebook ne “Il salotto di Germana”, dove Maria ha dialogato con Germana Zuffanti (ideatrice dello spazio virtuale che durante la pandemia ha animato numerose presentazioni di libri) ed il noto giornalista del Tg1 Paolo Di Giannantonio.

Non c'è più religione...Assolto il figlio del boss, si chiama Polverino e il fatto non sussiste: assurdo vero? Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Luglio 2022. 

La nascita è un caso, ma è un gran bel caso e un cognome può essere una grande fortuna o una grande maledizione. Se nasci figlio di un boss allora la maledizione inizia alla nascita e poco conta ciò che fai e chi sei, il marchio è indelebile. Vincenzo Polverino, figlio del boss Giuseppe Polverino, detenuto da tempo, è stato assolto dall’accusa di intestazione fittizia di beni. Lo ha deciso il giudice del tribunale Napoli nord. Per lui i pm avevano chiesto una condanna a tre anni e sei mesi di reclusione. Polverino era a processo assieme ad altri presunti esponenti dello stesso clan. Siamo a Marano e la storia è quella di Vincenzo Polverino.

È nato figlio di un boss, mica l’ha deciso lui. Ci è nato e basta. È incensurato. Decide di aprire varie attività commerciali tra Marano e la zona flegrea: pub e macellerie per la precisione. Entra nel mirino della Procura, anzi, ci è nato. Il suo cognome lo precede, nasce attenzionato dai Pm. Così nel 2020 le sue attività vengono raggiunte da interdittiva antimafia, Polverino è costretto a chiudere una macelleria e un’hamburgheria a Marano. «Lascio dopo 5 anni meravigliosi, conscio che non posso cambiare il mio stato di famiglia. Ho combattuto invano contro il pregiudizio. Lascio tanti operai con le loro famiglie senza lavoro» scriveva sul suo profilo Facebook nell’annunciare la chiusura delle attività. Già… il pregiudizio.

«Per la giustizia Vincenzo Polverino è il “figlio di” e in quanto tale è votato a condurre determinate dinamiche di vita, non è così – commenta l’avvocato Giovanni Esposito Fariello, suo legale insieme con l’avvocato Raffaele Esposito – È estraneo a qualsiasi illecito. Era ed è incensurato». Eppure, è stato imputato in un processo salvo poi essere assolto perché il fatto non sussiste. «È un paese nel quale il profilo probatorio e l’investigazione per arrivare alla prova di responsabilità è evanescente, a Vincenzo Polverino sono stati contestati due episodi di trasferimento fraudolento di beni ma non sono emerse prove in questa direzione. Qual è invece l’ipotesi delittuosa? –  argomenta l’avvocato Esposito Fariello – La finalità, secondo l’accusa queste due attività erano finalizzate a eludere le disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale. Ma la verità è che in questo processo nessuno ha accertato come, quando e perché sia avvenuta questa intestazione fittizia di beni con quello scopo, quindi mancava la precondizione dell’imputazione. Questa assoluzione – conclude – dimostra che esiste ancora la giustizia perché i giudici hanno verificato l’inesistenza dei profili probatori».

La sentenza, infatti, dice: assoluzione perchè il fatto non sussiste (eh lo so che a molti sembrerà assurdo). Ma i fatti dicono anche tanto altro, raccontano di attività aperte e chiuse, di famiglie senza un lavoro e di un ragazzo che è incensurato e che ha provato a scrollarsi di dosso un cognome pesante, ingombrante, giudicante più dei giudici. Polverino sarà stato pure assolto dalla giustizia in un’aula di tribunale, ma noi saremo capaci di assolverlo mettendo da parte i pregiudizi? No. Perché siamo impregnati di giustizialismo e perché chi nasce lì e con quel cognome non potrà mai avere un’altra vita. È così o no? Sì, sarà così fino a quando si continuerà a mettere un marchio a fuoco alla nascita.

Sei figlio di, sei nipote di, sei nato lì. La bilancia è il simbolo della giustizia, ma l’ago non può essere rappresentato da un cognome. «Bisogna recuperare i fondamenti del diritto – conclude Esposito Fariello – nelle aule c’è scritto “la legge è uguale per tutti”. Bisognerebbe invertire la frase e scrivere “tutti sono uguali davanti alla legge” e per finire la frase non so se metterci un punto, un punto esclamativo o un punto interrogativo…».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Liberi di scegliere. Serve una legge per salvare i figli e i nipoti dei mafiosi dalla criminalità organizzata. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

Il 31 luglio del 2023 scadrà il protocollo che ha permesso a 100 minori e a 25 nuclei famigliari di uscire da un destino già segnato. Il magistrato Roberto Di Bella spiega a Linkiesta perché bisognerebbe cristallizzare questo aiuto in una norma: «I successi sarebbero più forti e duraturi se potessimo disporre di risorse per il reinserimento lavorativo dei ragazzi».

Il 19 luglio del 1992, il giorno in cui fu assassinato Paolo Borsellino insieme agli agenti della sua scorta, nell’anno dell’assalto terrorista di Cosa Nostra, è diventata una data indimenticabile e tragica. A marzo viene assassinato Salvo Lima, l’uomo di Cosa Nostra dentro le istituzioni, il proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia, ucciso per non aver mantenuto la promessa di aggiustamento del maxiprocesso istruito dal pool antimafia di Palermo che aveva seppellito i boss sotto una montagna di ergastoli; a maggio la strage di Capaci. 

«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur», aveva denunciato dieci anni prima il cardinale Salvatore Pappalardo, ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, citando la famosa locuzione di Tito Livio. Dieci anni dopo, risuonò come una biblica condanna contro i mafiosi l’invettiva straziante di Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti della scorta di Falcone: «Io vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio». Costretto a reagire dopo anni di codarda inerzia, di complicità, di sottovalutazione, lo Stato mise infine in campo una durissima reazione che sgominò i sanguinari corleonesi.

Il racconto di quel che allora vidi da cronista l’ho raccontato nell’ultimo numero di Linkiesta Magazine. Oggi voglio ricordare quella data attraverso una delle tante persone la cui vita cambiò in quei giorni: «Era il 17 luglio 1992. Non erano ancora passati due mesi dalla strage di Capaci e a Milano, cinque mesi prima, il 17 febbraio, l’arresto di Mario Chiesa aveva fatto franare il sistema politico italiano. In quel momento fare il magistrato non era una scelta come le altre, soprattutto per un ragazzo siciliano. Per anni attorno a noi si era combattuta una guerra. Non c’era ragazzo siciliano che non avesse sfiorato da vicino il rosario dei morti che aveva devastato la nostra isola», così racconta il giorno in cui diventò magistrato Roberto Di Bella, già presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, attualmente presidente di quello di Catania, nel libro scritto con Monica Zappelli “Liberi di scegliere” (Rizzoli), alla cui storia si ispira anche l’omonima fiction Rai interpretata da Alessandro Preziosi. 

Messinese, 59 anni, aspetto mite e fisico minuto da judoka, sposato con un figlio, Di Bella è impegnato in una sfida che sembrava impossibile, sottrarre al destino mafioso decine di ragazzi e ragazzi. Mi racconta: «Ho fatto tutta la mia carriera lavorativa al tribunale dei minori di Reggio Calabria che scelsi come sede quel 17 luglio del 1992. Sono arrivato nel 1993 e, dopo una parentesi fuori, sono tornato nel 2011 come presidente e mi sono trovato a dover giudicare i figli o fratelli minori di quelli che avevo giudicato negli anni ’90. Ma non era solo una mia sconfitta personale: era anche la sconfitta della giustizia e dello Stato che sembravano non poter cambiare un destino ineluttabile Ci domandavamo perché il tribunale intervenisse su genitori tossicodipendenti che non assicuravano il benessere dei minori allontanandoli provvisoriamente dall’ambiente familiare e non potessimo farlo per famiglie che inculcavano una vera e propria educazione criminale, esponendo i figli a una condizione di sofferenza. Voglio essere chiaro: nessuna pulizia etnica, né interventi preventivi: se il genitore mafioso tiene lontani i figli da quell’ambiente noi non interveniamo. Né vogliamo imporre ideologie, solo educare al rispetto delle leggi, al rispetto dell’altro. Non ho mai detto a nessuno di rinnegare il padre e la madre, ma di rinnegare la cultura criminale. Certo, all’inizio è stata dura, quando scrivevano che non esistono deportazioni a fin di bene, quando ci accostavano alle magistrature di stati totalitari, accusandoci di voler inculcare in questi ragazzi un’ideologia di Stato. Abbiamo attraversato la bufera isolandoci e concentrandoci sui singoli casi, poi i risultati positivi ci hanno aiutato a far comprendere che la nostra azione era rivolta al bene del minore».

«Vuol sapere qual è la chiave di tutto? – mi spiega Di Bella – È la sofferenza. Non solo quella procurata al di fuori della famiglia, ma quella causata ai figli, alle mogli, alle madri, a sé stessi. È il dolore di bambine e bambini cresciuti in notti insonni popolate da incubi in attesa di un’irruzione delle forze dell’ordine; condannati al Natale trascorso in un covo nascosto nel cuore della montagna; allevati, come dice un padre al figlio, per diventare Vangelo della ‘ndrangheta al posto suo; che devono imparare, anche questo l’ho sentito in un’intercettazione, a tagghiari ‘a purviri, cioè la droga; educati all’uso delle armi. Ci sono ragazzi che sputano in terra al passaggio di una volante, altri che si fanno tatuare sotto la pianta del piede la fiamma dei carabinieri, in modo da poterla calpestare costantemente. È capendo che dietro questi comportamenti spavaldi si cela spesso una sofferenza che abbiamo fatto breccia nel muro della ‘ndrangheta e salvato decine e decine di ragazzi, allontanandoli dalle famiglie mafiose e mostrando loro che c’è un altro destino possibile, che possono essere liberi di scegliere».

Le prime a recepire questo messaggio sono state le madri. Ecco il racconto che una di queste, devastata da un pianto irrefrenabile, fa davanti al giudice: «Sono la madre di R. di 15 anni…. Mio figlio pensa che andare in carcere sia un onore e pensa che può dargli rispetto, ma in realtà non sa cosa è il carcere e quello che potrebbe accadergli li dentro. La prego, mandi i miei figli lontano da Reggio Calabria». Questa esperienza che finora ha riguardato 100 minori e 25 nuclei familiari è affidata a un protocollo d’intesa siglato con la Cei, Libera, la Direzione nazionale antimafia e ben cinque ministeri (Giustizia, Interno, Istruzione, Difesa, Pari Opportunità). 

Per una vera e propria strategia di recupero secondo Di Bella serve che «quanto previsto nei protocolli che abbiamo stilato sia cristallizzato in una normativa nazionale, con risorse da destinare alla formazione degli operatori, all’assistenza alle famiglie, al problema del lavoro. I successi sarebbero più forti e duraturi se potessimo disporre di risorse per il reinserimento lavorativo dei ragazzi. Penso a una specie di Piano Marshall per i giovani che vogliono uscire dalla criminalità, e dobbiamo aiutare le donne che, pur senza voler diventare collaboratrici di giustizia, vogliono comunque allontanarsi e allontanare i figli dal sistema criminale». 

Il protocollo scade il 31 luglio dell’anno prossimo e attualmente è finanziato solo dalla Conferenza episcopale italiana. La sottosegretaria al sud Dalia Nesci ha presentato una proposta di legge affinché il protocollo diventi una legge.

Anche a Catania ci sono molti minori utilizzati come carne da macello. E anche qui Di Bella immagina una sorta di Erasmus della legalità per i minori utilizzati dalla mafia: «Con la prefettura abbiamo creato un osservatorio sulla criminalità giovanile. Abbiamo già emesso oltre venti provvedimenti di allontanamento dalle famiglie, ma occorre intervenire con strumenti diversi anche sull’evasione scolastica che qui è altissima: se non vanno a scuola i ragazzi stanno per strada dove nei quartieri poveri e degradati sono facile preda della criminalità. Si sta aprendo una breccia psicologica e culturale importante». 

Ecco cosa gli scrive un boss detenuto al 41 bis, parlando del figlio: «Quando viene a trovarmi in carcere mi considera un mito. Ma io non sono un mito, la mia vita è stata un fallimento, non voglio che mio figlio faccia la mia stessa vita, lo tenga lontano da quel maledetto quartiere». 

Dice Di Bella: «Ho trovato spesso riflessioni intense e un grumo di umanità che non mi aspettavo di trovare. Noi possiamo giudicare i loro comportamenti dal punto di vista penale, ma cosa li spinga a tali scelte lo sa solo Dio». 

Credo che questa idea di giustizia, attenta all’umanità delle persone, priva di ansie giustizialiste, sia molto vicina all’idea che ne aveva Paolo Borsellino, che aveva gestito con paterna attenzione e umanità la vicenda di Rita Atria, una giovane che aveva denunciato la famiglia mafiosa e che si uccise dopo la morte del giudice.

(ANSA il 7 Dicembre 2022) - "Sono un uomo libero e non starò mai zitto per compiacere il potere o avere in cambio qualche favore. Continuerò a dire sempre quello che penso". In un'intervista esclusiva a "Il Lametino.it", il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, parla a tutto campo del suo futuro prossimo - non appena scadrà il mandato alla guida della Dda del capoluogo di regione - si sofferma sulla storia criminale della Calabria, sul valore anche simbolico della nuova sede degli uffici giudiziari di Catanzaro e - tra gli altri argomenti - sull'evoluzione del processo Rinascita Scott in corso nell'aula bunker di Lamezia Terme.

"Potrei stare a Catanzaro fino al 16 maggio 2024 - spiega al 'Lametino.it' - dal 17 in questa procura tornerei sostituto procuratore dell'ordinaria, quindi non per reati di mafia. Devo per forza trovare per quella data un posto in cui poter continuare a fare il procuratore della Repubblica e che anche sul piano motivazionale rappresenti per me una sfida. Ho fatto domanda per la procura di Napoli e vedremo cosa pensa di me il Csm, in ogni caso si deciderà a febbraio 2023. Si è liberata la procura generale di Roma e farò domanda anche per quella".

"Altrimenti, se per il Csm e la politica non vado bene per nessuna delle due postazioni, aggiunge - potrei andare in pensione e continuare a scrivere libri, a dire la mia. In realtà posso fare tante cose. C'è gente che può fare solo un mestiere, io almeno tre o quattro. Sono un bravo organizzatore, ho una grande manualità. Da bambino, nel mio paese (Gerace, ndr) sono andato a bottega - questa era la tradizione - e da quando avevo cinque anni ho iniziato a lavorare: ho imparato a fare il calzolaio, il panettiere, il falegname, il meccanico, a coltivare l'orto.

Una cosa sia chiara sempre: sono sotto scorta dall'aprile 1989, più passano gli anni e minore è la mia libertà fisica, anche per percorrere 10 metri devo parlarne con la scorta ma nella mia testa resto un uomo libero, assai libero. Non ho padroni e continuerò a dire quello penso e se non lo dico è perché non lo posso dimostrare, ma di certo non starò in silenzio per avere incarichi. Sono libero e sono geloso di questa mia libertà. Molti non parlano per codardia o opportunismo rispetto al potere del momento. Non io".

Urge la riforma Nordio. Ecco le intercettazioni taroccate da Gratteri e le troppe persone innocenti arrestate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 8 Dicembre 2022.

Sono quei casi che un profano potrebbe ritenere rarissimi. Non sono rarissimi. Specialmente non lo sono a Catanzaro. Cosa è successo? Che un signore che si chiama Francesco Pannace, di 35 anni, è stato condannato all’ergastolo perché ritenuto colpevole di un omicidio. Anche particolarmente ignobile. Aveva freddato con la pistola – secondo l’accusa e la Corte – un padre di famiglia che teneva per mano il figlioletto di sei anni. A incastrarlo alcune testimonianze dei pentiti, che però erano in contrasto una con l’altra, e dunque non potevano provare nulla, ma soprattutto una intercettazione, presentata dall’accusa, che era stata interpretata come una specie di confessione.

Pannace avrebbe detto a un amico: “Hai saputo? Mi hanno incastrato per l’omicidio Polito”. Per la verità non sembra una frase così chiara, ma alla Procura di Gratteri e alla Corte era sembrata chiara e inequivocabile. Al processo d’appello però gli avvocati hanno chiesto che si ascoltasse l’originale dell’intercettazione. E si è scoperto che nella trascrizione era stato tagliato un pezzo della frase. Pannace diceva: “Hai saputo cosa si dice in giro?”. Cioè semplicemente riferiva delle voci contro di lui che poi erano le voci che portarono alla sua incriminazione. Nessuna confessione. Anzi. I giudici della Corte d’appello non hanno avuto dubbi e lo hanno assolto.

Dicevamo che taroccare le intercettazioni a Catanzaro non è una cosa rarissima. Recentemente è emersa l’intercettazione taroccata con la quale due anni fa fu incastrato- appunto: incastrato, che non vuol dire “scoperto” – l’avvocato Pittelli. Era la voce di una signora che diceva al marito, considerato dall’accusa un mafioso: “qui abita l’avvocato Pittelli. È mafioso”. Più che sufficiente questa affermazione per spiccare il mandato di cattura. Poi l’intercettazione è stata ascoltata. Era diversa. La moglie chiedeva al marito: “Ma è mafioso?”, col punto interrogativo. Il marito rispondeva: “No: è avvocato”.

Lo show di Gratteri da Lilli Gruber, le bufale del pm: “Io garantista, tra i miei arresti non ce ne è uno infondato”

Pensateci un po’ a questi episodi. Ieri Gratteri ha dichiarato a un giornale che nessuno mai lo farà tacere perché lui è un uomo libero. Va bene: nessuno lo farà tacere. Il problema è se qualcuno gli impedirà di arrestare troppa gente innocente. Che non è libera perché lui, per sbaglio, li ha messi in cella. Magari ci penserà Nordio, se rispetterà la parola e riformerà drasticamente le intercettazioni. Speriamo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Gli agenti invocano “Gratteri al Dap”, ma il governo vuole Riello. Il Sappe “sceglie” il procuratore di Catanzaro facendo il tifo come allo stadio. Ma il rischio è di mettere in ombra Nordio. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 novembre 2022.

Nicola Gratteri, Luigi Riello, o ancora Carlo Renoldi. La partita del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), uno degli incarichi più importanti (e remunerati) della pubblica amministrazione, si giocherà molto probabilmente su questi tre nomi, tutti di magistrati. La procedura prevede che la proposta venga formulata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per poi essere ratificata dal Consiglio dei ministri. Sul nome del procuratore di Catanzaro c’è stato in questi giorni l’endorsement dei sindacati della polizia penitenziaria.

Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) a tal proposito ha pubblicato un lungo articolo sulla propria rivista online, poliziapenitenziaria.it, dal titolo particolarmente esplicito: “Gratteri, Gratteri, Gratteri”. Richiamandosi alla torcida degli stadi, i sindacati di polizia stanno facendo apertamente il tifo per il magistrato che in passato Matteo Renzi, prima di essere stoppato, avrebbe voluto come Guardasigilli nel suo governo. «Non siamo mai entrati (e mai vogliamo entrarci) nell’agone politico italiano ma per il bene e a salvaguardia della polizia penitenziaria che rappresentiamo saremmo i primi ad alzarci in piedi sugli spalti dello Stadio Penitenziario e gridare in coro: Gratteri! Gratteri! Gratteri», scrivono i dirigenti del Sappe.

La liason fra Gratteri e la polizia penitenziaria è nota da tempo. Sul sistema carcerario il procuratore ha le idee molto chiare. Intervenendo ieri a Milano ad una manifestazione letteraria svoltasi all’interno proprio del carcere di San Vittore, Gratteri ha illustrato le sue proposte, ad esempio «mettere ai domiciliari i detenuti tossicodipendenti, con percorsi di terapia», facendo poi «una formazione adeguata agli agenti». La polizia penitenziaria, per Gratteri, necessita di una profonda riorganizzazione. Pur essendo una della quattro forze di polizia nazionali (erano cinque prima dello scioglimento del corpo forestale dello Stato, secondo il procuratore calabrese è di «Serie C» , gettata in uno stato di «depressione e frustrazione» dalle istituzioni che non se ne curano. A cominciare dalle scuole di formazione: «Nelle scuole ci deve andare gente che sul campo ha dimostrato di saper fare qualcosa, non gli amici degli amici. Altrimenti le lezioni diventano una passerella e i ragazzi non imparano nulla».

Il procuratore ha, ovviamente, anche la ricetta per risolvere il sovraffollamento nelle carceri: «La costruzione di nuove strutture detentive o l’ampliamento di quelle esistenti». Una idea da sempre sostenuta dalla Lega e da Fratelli d’Italia con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Una proposta, pur utilizzando i fondi del Pnrr, allo stato però difficilmente realizzabile. Sono anni, infatti, che in Italia non si costruisce un’opera pubblica. Le normative, ad iniziare dal codice degli appalti, con il prevedibile strascico di contenzioni amministrativi, rendono impossibile porre in essere opere del genere in tempi relativamente brevi. Le uniche opere pubbliche, infatti, vengono realizzate quando si sospendono le procedure di legge e si nomina, come per il ponte di Genova, un commissario. Ma sul punto serve una volontà politica forte. Gratteri, comunque, ha incassato anche l’appoggio della segretaria nazionale dell’Associazione dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria, Daniela Caputo, secondo cui serve «un capo per il nostro corpo operativo, unico tra le forze dell’ordine a non averlo. Un problema non più rinviabile, come hanno dimostrato le rivolte carcerarie del 2020. Il sistema di prevenzione penitenziario è parte integrante dell’ordine pubblico ed è giusto che abbia un vertice a regolarlo e organizzarlo».

L’outsider della contesa potrebbe allora essere Riello, procuratore generale di Napoli, recentemente “scottato” dalla mancata nomina a procuratore generale della Cassazione. Riello, in un duro articolo, aveva recentemente criticato il Consiglio superiore della magistratura. Una presa di posizione che potrebbe agevolarlo nel trovare sponda nell’attuale maggioranza che non ha mai lesinato critiche verso l’attuale gestione di Palazzo dei Marescialli post Luca Palamara. Per Renoldi, invece, l’eventuale conferma andrebbe letta nel segno della continuità, essendo stato scelto dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia con cui Nordio ha sempre avuto un buon rapporto. Tornado, comunque, a Gratteri, la sua scelta non potrebbe non mettere in “difficolta” lo stesso Nordio. La forte personalità del procuratore, molto mediatica e che non ha bisogno di comunicatori, metterebbe sicuramente in ombra il ministro. Con conseguenze facilmente immaginabili.

L'amministrazione penitenziaria merita ben altro. Gratteri non può andare al Dap, non si affidano le carceri a chi ha fatto inchieste show senza costrutto. Otello Lupacchini su Il Riformista il 18 Novembre 2022 

A fronte dei rumors raccolti e rilanciati da il Riformista, circa le grandi manovre in corso per insediare il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, mi sorge spontanea la domanda, considerata la vocazione di «Rattenfänger» o «ciaparat» che dir si voglia, confessata ore rotundo dall’odierno procuratore della Repubblica di Catanzaro, se sia assurta, fra le altre, a irrinunciabile «priorità» del Gabinetto Meloni, anche la «derattizzazione» degli Istituti di pena della nostra amata Patria.

Il pretesto per avanzare un simile interrogativo mi è offerto dalla lettura di un passo delle Memorie dell’architetto Andreï Mikhaïlovitch Dostoevskï, fratello del più noto Fëdor, relativo a una delle brutte «sorprese» riservategli dalla cella in cui era stato rinchiuso dopo una giornata e parte della notte trascorse nella «terza sezione» degli uffici della polizia moscovita, a seguito dell’arresto per motivi politici patito il 23 aprile del 1849, «Non appena si fece buio, e mi portarono il lumino», racconta, infatti, Andreï Mikhaïlovitch, «piano piano cominciarono a comparire dei ratti di dimensioni enormi (…). Talora ce n’erano dieci alla volta e io, temendo che si arrampicassero nella mia cuccetta, non dormivo, fino all’alba. Non riuscivo a capire da dove saltassero fuori (…). Alla luce del giorno non si vedevano. Ma bisogna pur dire che era fine aprile e inizio maggio faceva giorno presto, l’avevo, il tempo per dormire. Oltretutto, dormivo sempre anche di pomeriggio, dopo pranzo». Non mi nascondo il rischio che qualcuno dei tanti, per dirla con Friedrich Nietzsche (Götzen-Dämmerung, 1889), «fari nel mare dell’assurdo», magari un Maitre ein Stifter dell’«io sto con…», incistati da grassi parassiti nelle Istituzioni, «mito impossibile», d’«esaltazione che si toglie la sottana», potrebbe muovermi la resistibile obiezione che n’è passato di tempo da quando l’architetto Dostoevskï era ospite non di un carcere di questa Nazione, ma di una prigione della Russia zarista, potrebbe muovermi l’accusa, è già successo, del resto, di essere «sarcastico». Poco male. Conservare la propria allegria in mezzo a faccende oscure e oltremodo gravide di responsabilità, non è artificio da poco, ma del resto cos’è più necessario dell’allegria?

Com’è ovvio che sia, il dottor Carlo Nordio, che anche in virtù della sua generalmente riconosciuta cultura garantista è stato insediato al vertice del ministero della Giustizia, certamente, sempre che addirittura non l’abbia già fatto, smentirà sdegnosamente, non solo a parole, naturalmente, ma soprattutto con i fatti, la notizia diffusa da il Riformista. A meno che non voglia «perdere la faccia». L’Os aureum di Gerace, infatti, non perde occasione, nella sua bulimia mediatica nota lippis et tonsoribus, di ostentare l’allergia per la Costituzione, la fedeltà alla quale, nell’ambito della legislazione penale, è specchio dell’autentica democraticità dello Stato: a prescindere dal suo retorico pessimismo come rigurgito del pranzo sui futuribili in generale del processo penale e specialmente dei «maxiprocessi», per effetto dell’entrata in vigore della pur timidissima riforma Cartabia, aliena gli è l’idea stessa che teoria generale del reato e funzione della pena non siano due momenti concettuali distinti, posto che dal fine costituzionalmente attribuito alla pena può derivare una connotazione globale e sostanziale dello stesso illecito penale; è altresì fuori dai suoi orizzonti culturali il «nuovo volto» del reato, quale risulta dalla combinazione dei principi desumibili soprattutto, ma non solo, dagli articoli 2, 3, 13, 24, 25 e 27 della Costituzione, come fatto previsto in forma tassativa dalla legge, di realizzazione esclusiva dell’agente o in ogni caso al medesimo riconducibile tramite un atteggiamento colpevole (doloso o colposo), idoneo a offendere un valore costituzionalmente significativo, minacciato con una pena proporzionata anche alla significatività del valore tutelato e strutturalmente caratterizzato dal teleologismo costituzionalmente attribuito alla sanzione penale e, infine, intollerante rispetto ad ogni articolazione probatoria che faccia in qualche modo ricadere sull’imputato l’onere della prova o il rischio della mancata allegazione di elementi di ordine positivo che ne caratterizzano la struttura; al fondo di ogni suo discorso è dato leggere, del resto, il messaggio che tolti lui e quelli che la pensano come lui l’ordine decade a caos, la convinzione, cioè, ch’egli e quelli come lui stiano adempiendo a una sorta di missione salvifica: il male pullula nel mondo, dunque va represso, la scimitarra della giustizia non ha guaine, incombe continuamente.

Sintomatico di tutto questo è l’ossessivo susseguirsi, del resto, di «massicce operazioni» o «grandi retate» o «mega blitz» anti-’ndrangheta, con decine e decine, se non addirittura centinaia di arresti, abbattentisi sulla Calabria, per iniziativa della direzione distrettuale antimafia della quale l’Os aureum è a capo; blitz, operazioni e retate che, per dirla con Boncompagno da Signa, «evanescunt sicut umbra lunatica»: dopo le roboanti conferenze stampa promozionali, ben presto esse vengono irrimediabilmente ridimensionate, se non addirittura travolte e totalmente vanificate, nei procedimenti incidentali de libertate, quali riesame e Cassazione, e nei dibattimenti davanti ai tribunali o alle Corti d’assise o alle Corti d’appello o alla Corte di cassazione, le motivazioni dei cui provvedimenti evidenziano, in inquietante sintesi, l’incontenibile pulsione che prova il titolare della funzione d’accusa a punire, purtroppo, senza legge, senza verità, senza colpa. Pur non essendovi evidenza alcuna che il ministro Carlo Nordio sia in qualche modo disponibile a «perdere la faccia» chiamando il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la vulgata, alimentata dal continuo rincorrersi di voci correnti nel pubblico, vedrebbe un bizzarro sodalizio, quello che chiamerò M.U.F., esercitare fortissime pressioni sia sul Governo sia sulle Opposizioni, per favorire la nomina dell’Os aureum di Gerace.

Pur in mancanza di evidenze in tal senso, non è tuttavia temerario intravvedere, sulla scorta dell’id quod plerumque accidit – si chiama, questa, «prova critica» – quale possa esserne il fondamento, non perdendo di vista né i posizionamenti politici dei membri del M.U.F. né l’influenza che ognuno di essi può avere, e su chi, per le funzioni da essi, sia precedentemente sia attualmente, svolte. Ma altri sono gli indici rilevanti dai quali non si può prescindere. La prigione, come evidenziato dalla letteratura scientifica e constatato, anche da me, nella pratica quotidiana, è di sicuro la più efficace e la più feconda fra tutte le istituzioni che producono illegalismi. Dalle carceri si esce quasi sempre più delinquenti di quando vi si è entrati: per via degli effetti del disinserimento sociale, dell’esistenza del casellario giudiziale, del formarsi di sodalizi delinquenteschi e di tant’altro. Il funzionamento interno delle prigioni, inoltre, è possibile solo a prezzo di un gioco di illegalismi, al tempo stesso molteplici e complessi: i regolamenti interni sono sempre assolutamente contrari alle leggi fondamentali che, nel resto della società, garantiscono i diritti umani; la galera è luogo di violenza fisica e sessuale esercitata sui detenuti, dai detenuti e dagli agenti di custodia; è luogo di commerci incessante e, ovviamente, illegale, tra detenuti, detenuti e agenti di custodia, tra questi e il mondo esterno; è, altresì, un luogo in cui l’amministrazione pratica quotidianamente l’illegalismo, fosse anche solo per coprire agli occhi della giustizia e dell’amministrazione superiore, da un lato, e dell’opinione pubblica, dall’altro, tutti gli illegalismi che si producono al suo interno; è finalmente un luogo di cui gli apparati polizieschi si servono per reclutare la loro manovalanza, i loro informatori, i loro scagnozzi, all’occorrenza i loro assassini e ricattatori.

La sempre maggiore consapevolezza che tra le tante priorità vi sia anche quella del carcere, grave e incivile situazione, indegna perché offende innanzitutto la dignità, a cui si accompagnano la richiesta, dai pulpiti più autorevoli, di riconsiderare il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena e la stigmatizzazione del fatto che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, negando l’affettività, privando dello spazio e annullando il tempo, che cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, vanno di pari passo con la progressiva perdita d’utilità del ruolo della prigione, quale macchina per la fabbricazione dei delinquenti in vista della diffusione e del controllo degli illegalismi. I grandi traffici di armi, di droga di valuta sfuggono, infatti, sempre più alla competenza di un ambiente di delinquenti tradizionali, che magari erano dei bravi ragazzi, ma forse incapaci, perché formatisi in galera, di diventare i grandi trafficanti internazionali di cui c’è bisogno ora. Qui, tuttavia, si profila prepotente un altro interrogativo: è concepibile un potere che non ami l’illegalismo, che non abbia bisogno di possedere gli illegalismi, controllarli e mantenersi saldo se non mediante il loro esercizio? La risposta, com’è ovvio è negativa, la domanda va dunque elusa. E chi, meglio dell’Os aureum di Gerace, o simili, al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, potrebbe compiere l’esorcismo? Ecco perché, paradossalmente, ma anche con buona pace di tutti, in nome della ragion di Stato, le chances di Nicola Gratteri potrebbero essere, nonostante tutto, molto concrete.

Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il blitz Reset, Gratteri: «La più estesa indagine su Cosenza». ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2022.

Con 202 arresti (blitz Reset), la Dda di Catanzaro guidata dal procuratore Nicola Gratteri ha smantellato il “Sistema Cosenza”, sgominando una confederazione di sette famiglie di ‘ndrangheta e nella rete è finito pure il sindaco della vicina Rende nonché presidente dell’Anci Calabria, Marcello Manna, noto avvocato penalista, accusato di voto di scambio politico-mafioso.

Operazione “Reset”, l’hanno chiamata. «Forse è la più estesa indagine su Cosenza e riguarda un’associazione mafiosa, un’associazione finalizzata al traffico di droga e tutti reati fine caratteristici della criminalità organizzata, quindi estorsioni, usura e anche rapporti con la pubblica amministrazione. Sono indagati anche tre professionisti», ha spiegato Gratteri nel corso di una conferenza stampa durante la quale ha fornito notizie assai scarne, facendo riferimento alle nuove norme sulla presunzione d’innocenza.

«La stampa ha potere – ha detto ai giornalisti – chiedete ai vostri editori di dire ai politici di cambiare la legge, ma finché non cambia non intendo essere né indagato né sottoposto a procedimento disciplinare».

OPERAZIONE RESET A COSENZA, CON GRATTERI UN’AZIONE INTERFORZE

Un’inchiesta interforze – soltanto gli operatori della polizia di Stato impiegati sono stati 600, ma la collaborazione con centinaia di carabinieri e finanzieri è stata strettissima – che ha ricostruito un romanzo criminale cosentino, tra controllo delle piazze di spaccio, racket, usura e gestione del gaming, che andava avanti da 20 anni ma, soprattutto, avrebbe svelato il patto col clan D’Ambrosio stretto da Manna per essere eletto sindaco di Rende. Il pool antimafia guidato dal procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla (e composto, inoltre, dai pm Vito Valerio e Corrado Cubellotti) è partito dalle dichiarazioni del pentito Adolfo Foggetti, che «costituiscono un ulteriore elemento a fondamento della sussistenza delle esigenze cautelari, evocando contatti duraturi nel tempo con la criminalità organizzata cosentina» e si riferiscono alla campagna elettorale per le Comunali del 2014.

«Tutti gli appartenenti al clan federato Rango-Zingari e Lanzino-Ruà – afferma il collaboratore di giustizia – si sono mobilitati per fare la campagna elettorale all’avvocato Manna, ad eccezione di Maurizio Rango, il quale da me interpellato e richiesto sul punto ebbe a riferirmi che i suoi familiari e/o parenti residenti in Rende erano particolarmente legati a Principe». Il riferimento è all’ex sindaco Sandro Principe che, è il caso di precisarlo, è stato però assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa nel processo “Sistema Rende”. Foggetti rievoca il sostegno, a suo dire, offerto al penalista e dice che sarebbe stato anche ringraziato da Manna in persona per l’apporto elettorale.

RESET A COSENZA, IL PESO DELLE INTERCETTAZIONI NELL’INCHIESTA DI GRATTERI

Il resto lo hanno fatto le intercettazioni dalle quali emergerebbe «la sussistenza di un rapporto tra Massimo D’Ambrosio e Pino Munno, assessore (ai lavori pubblici, manutenzioni, e rapporti con la Rende Servizi srl, e benessere animali) del Comune di Rende già nel 2014». Le accuse, però si riferiscono alle elezioni del 2019. Secondo la Dda, Massimo D’Ambrosio si sarebbe adoperato per far eleggere i due amministratori rendesi coinvolti (anche Munno si trova ai domiciliari) e, in particolare, avrebbe contattato «diverse volte» Munno «per chiedergli di risolvere problemi di manutenzione delle strade e/o dei palazzi, rivolgendo tali richieste con tono estremamente confidenziale, e avendo sempre risposte affermative da parte del politico».

LEGGI ANCHE: Sistema Cosenza, il gip: «Francesco De Cicco collegato alle cosche»

L’assessore, stando a un’intercettazione captata nel maggio 2019, è uno che «non chiude mai la porta» e il clan, anziché limitarsi a incassare i “classici 100 euro a voto” («ho rifiutato cento euro a voto»), avrebbe individuato «il tornaconto in altre “utilità”». Dando una «buona mano quartiere di competenza, ossia il Cep (“io voglio guardarmi un poco la Cep … mi interessa là a me”), D’Ambrosio può affermare al telefono che «noi il nostro dovere lo abbiamo fatto». Alla base del presunto accordo ci sarebbe stata la gestione del palazzetto dello sport, tanto che D’Ambrosio avrebbe atteso l’esito della competizione: «vediamo il risultato e poi partiamo subito all’arrembaggio».

SETTE GRUPPI CHE SI SPARTISCONO IL TERRITORIO

Ma è soltanto un capitolo del più vasto romanzo criminale scritto e riscritto da sette gruppi che si spartirebbero, finita la stagione delle guerre, gli affari illeciti nella città bruzia. Uno dei più lucrosi era quello delle sale giochi e delle scommesse. Monopolio dei clan.

Un business ripercorso dai collaboratori di giustizia che all’unisono hanno inguaiato l’assessore ai Lavori pubblici del Comune di Cosenza, Francesco De Cicco, anche lui ai domiciliari (e peraltro ex consigliere comunale) ritenuto «un anello del sistema» dai pentiti e accusato di intestazione fittizia, con aggravante mafiosa, del Popily Street, circolo ricreativo che si occupa di scommesse e videogiochi, ma considerato anche un “collaboratore” nell’ambito dell’associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita del gaming.

Non solo tentacoli sui giochi. La Dda di Catanzaro ha ridisegnato la geografia criminale del territorio cosentino, individuando sette gruppi facenti capo alla cosiddetta “Confederazione”, al cui vertice troviamo Francesco Patitucci (già reggente per conto di Ettore Lanzino). Accanto troviamo il gruppo Porcaro: anch’esso operante a Cosenza, con ruolo apicale rivestito da Roberto Porcaro; e ancora il gruppo degli Abbruzzese, la famiglia “Banana” e quella degli «altri Zingari».

A Roggiano Gravina la supremazia sarebbe della famiglia Presta, infine, troviamo i gruppi Di Puppo e quello capeggiato dai D’Ambrosio, il cui core business sarebbero le estorsioni. Un “sistema” raccontato nei dettagli dai pentiti. Secondo i collaboratori i proventi delle attività illecite confluivano nella bacinella comune. Da quì venivano suddivisi tra i gruppi degli “Zingari” e quelli degli “Italiani”. Le regole sono le regole. «Ogni spacciatore che “lavora” a Cosenza è vincolato con uno dei gruppi che fa parte del “Sistema”».

RESET A COSENZA, GRATTERI BLOCCA UNA PIOVRA DIFFUSA IN TUTTO IL TERRITORIO

Una piovra capillare, che avviluppava anche il mondo degli spettacoli. Ai domiciliari, per illecita concorrenza con l’aggravante mafiosa, anche il promoter Francesco Occhiuzzi per la scelta di una ditta di security ritenuta vicina al clan Muto di Cetraro, quella riconducibile a Giuseppe Caputo. I tentacoli stavolta erano, sempre secondo la Dda di Catanzaro, sull’edizione 2019 della kermesse “Moda Mare”.

Ma le mani dei clan si erano allungate anche sui fondi del progetto “Resto al Sud” erogati da Invitalia spa: nei guai, per truffa aggravata, uno dei commercialisti più in vista a Cosenza, Andrea Mazzei, finito in carcere per una pratica di finanziamento in favore di personaggi delle cosche e basata su fatture false. I colletti bianchi coinvolti sono diversi. All’avvocato Paolo Pisani i giudici hanno applicato la misura cautelare del divieto di esercitare la pratica forense per la durata di un anno. E i beni sequestrati dai finanzieri dello Scico e da quelli del Gico di Catanzaro ammontano complessivamente a 72 milioni: i sigilli sono scattati anche su uno yacht e a un aeromobile ultraleggero.

Blitz di Cosenza, parte del Pd attacca Gratteri: «Vuole seguire la legge o essere la legge?» ENRICA RIERA su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2022.

Parte del Pd attacca Gratteri. È successo questa mattina, in un noto hotel del centro città, durante la presentazione dei candidati dem alle politiche del prossimo 25 settembre. La prima a “sferrare” il colpo è la parlamentare uscente, in corsa nel collegio plurinominale della Camera in Calabria, Enza Bruno Bossio che, nel suo intervento, attacca per l’appunto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

«Giovedì, a seguito del blitz coordinato dalla Dda (l’Operazione Reset meglio nota come Sistema Cosenza, che ha portato a eseguire misure cautelari nei confronti di 202 persone, ndr), tutta la politica ha applaudito al procuratore. Certo – dice la deputata democrat -, chi non è contro la mafia. Ma leggere sui quotidiani titoli come “Sgominate le cosche” con a corredo le foto di tre politici significa ledere diritti, nonché la capacità di amministrare».

«A questo proposito – aggiunge Bruno Bossio – mi piace sottolineare quanto ripotato da “Il Foglio”: Gratteri dapprima ha convocato una conferenza stampa per spiegare i dettagli dell’operazione, poi l’ha sconvocata a causa della legge di Enrico Costa di Azione sulla presunzione di innocenza, attaccandola, e poi l’ha nuovamente convocata, dando contro al mondo politico. Io mi chiedo – continua – se Gratteri voglia seguire la legge o essere la legge. Perché, diciamolo, anche la mafia vuole essere la legge; mentre il Pd, che è contro le cosche, vuole difendere lo stato di diritto».

CRITICHE ANCHE DA PARTE DELLA CANDIDATA FRANCESCA DORATO

Scrosciante l’applauso in sala. «Emozionata», si dice, invece, la candidata del Pd Francesca Dorato al Senato nell’uninominale. Dopo l’intervento in cui Enza Bruno Bossio attacca Gratteri, infatti, il consigliere comunale di Castrovillari dice: «La magistratura dovrebbe essere un organo terzo. Noi non possiamo consentire ai giudici di creare precedenti che diventino legge, quando legge non sono». Sulla vicenda, e più in particolare, sulle dichiarazioni del presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra relative alla possibilità di costituire commissioni d’accesso nei Comuni di Cosenza e Rende, interviene anche Gianni Papasso, candidato, in quota Psi, al collegio uninominale Corigliano-Rossano della Camera.

«Cosenza – dice – non può essere un’altra Cassano. Quando ho letto le dichiarazioni di Morra, ho subito chiamato Franz». E Franz non può che essere Franz Caruso, sindaco socialista della città bruzia, pure presente all’appuntamento. «Certi soggetti politici – dichiara il primo cittadino –, che non hanno prestigio personale, vorrebbero verificare la situazione del Comune che amministro (uno dei suoi assessori, Francesco De Cicco, è ai domiciliari a seguito dell’Operazione Reset, ndr). Ebbene – chiosa Caruso – io a Morra, la cui carica per fortuna durerà poco, consiglio di guardare alla sua situazione “interna”, perché nella casa comunale cosentina c’è esclusivamente legalità».

In platea, seduta in fondo, c’è pure il neo vicesindaco dell’amministrazione di Rende Annamaria Artese (il cui fratello Ariosto è stato arrestato nell’ambito dell’operazione Reset). Il vicesindaco, che si trova a operare senza un sindaco e un assessore (Marcello Manna e Pino Munno sono appunto ai domiciliari a seguito del blitz), indossa occhiali scuri; in un primo momento dice che sì, rilascerà una dichiarazione alla stampa, ma poi ci ripensa. È accomodata troppo lontano dalle prime file per dire con certezza se, quando il Pd attacca Gratteri, applauda o meno.

GLI ATTACCHI A COSENZA DELLE CANDIDATE PD IN CONTRASTO CON LA NOTA A SOSTEGNO DI GRATTERI

A ogni modo, gli interventi in questione – quello della Bruno Bossio che attacca Gratteri nella specie – quasi contraddicono la nota che il Partito democratico della Calabria ha diramato a seguito dell’operazione della Dda di Catanzaro. «Il Partito democratico, pur certo che saranno le sedi opportune a poter esprimere una qualsiasi sentenza e rispettando la presunzione di non colpevolezza, esprime massimo apprezzamento per l’immane lavoro messo in campo dal procuratore Nicola Gratteri», recitava, non a caso, la nota.

A COSENZA PARTE DEL PD ATTACCA GRATTERI, IRTO GLISSA SULL’ARGOMENTO POI PRECISA

Nicola Irto, Vittorio Pecoraro e Maria Locanto alla conferenza stampa durante la quale Enza Bruno Bossio attacca Gratteri

Durante la presentazione dei candidati, glissa sul punto giustizia il segretario regionale del partito, Nicola Irto, candidato come capolista al Senato nel plurinominale. A domanda precisa («Perché è stato l’unico a non intervenire sulla questione?»), risponde che «non è vero, anche altri non sono intervenuti». Sollecitato, dunque, a commentare il blitz, ricorda, in maniera al quanto infastidita, che l’appuntamento di oggi «riguarda la presentazione dei candidati, non altre considerazioni». Considerazioni che, tuttavia, tutti i presenti, iscritti e simpatizzanti di casa democrat, fanno prima e dopo, a margine e sottovoce, dell’evento.

LA PRECISAZIONE DI NICOLA IRTO E VITTORIO PECORARO

A seguito della pubblicazione di questo articolo, arriva una nota firmata da Nicola Irto e Nico Stumpo, candidati capolista al Senato e alla Camera per il Partito democratico, che ribadiscono la posizione del Pd subito dopo gli arresti di Cosenza e «smentisce categoricamente qualsiasi attacco al procuratore Nicola Gratteri e agli uomini di Stato che in questa operazione sono stati impegnati a tutela della legge». «L’interpretazione riportata dal Quotidiano del Sud è assolutamente distante da quella che è la posizione del Partito Democratico, unica forza politica ad aver espresso apprezzamento proprio per l’operato del procuratore Gratteri», conclude la nota.

«La discussione di oggi non ha mai inteso essere un attacco ai magistrati inquirenti. Uno dei miei primi atti da Segretario provinciale è stato mandare una lettera alla Procura di Cosenza per esprimere apprezzamento nella comune battaglia per la legalità. Il Partito democratico nella provincia di Cosenza è presidio di rispetto della legge e svolge costantemente sul territorio un’attività di contrasto alla criminalità organizzata. Noi siamo nettamente contro tutte le mafie per vocazione e missione.» scrive, invece, sempre dopo la pubblicazione dell’articolo del “Quotidiano del Sud”, Vittorio Pecoraro, segretario del Pd Cosenza.

Pecoraro poi aggiunge «Nella lunga articolata e dettagliata discussione di oggi, si sono rinnovati gli auspici di questa lotta alla criminalità organizzata senza quartiere, sempre all’insegna dei mezzi della Costituzione e del giusto processo. In relazione ai fatti di Rende, non è mia prassi commentare attività di indagine e ordinanze su misure cautelari, ma rinnovo sentimenti di forte fiducia nella giustizia anche all’insegna della rapidità del giudizio»,

Confermiamo, a ogni modo, le dichiarazioni espresse pubblicamente dalle candidate democrat Enza Bruno Bossio e Francesca Dorato, nonché tutte le altre riportate. 

In Calabria il “Minotauro” dell’antimafia ha bisogno sempre di nuove vittime. La strategia messa in campo in questi anni da noti procuratori antimafia è fallita: per ogni innocente arrestato la ’ndrangheta conquista mille simpatizzanti. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 04 settembre 2022

Il contesto: un centinaio di aderenti a ‘Nessuno tocchi Caino’ sono in sciopero della fame per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla diffusa pratica di pena di morte tramite suicidio in carcere. Di questi il 30% era in attesa di giudizio. Sappiamo inoltre che le carceri calabresi sono in pessimo stato e che al loro interno, l’unica autorità riconosciuta è la ndrangheta.

Infine è noto a tutti che la Calabria è la prima regione d’Italia per indennizzi a persone innocenti finite in carcere. In tale contesto la procura di Catanzaro guidata dal dottor Gratteri dà un’ulteriore pennellata al quadro già molto angosciante arrestando quasi 200 persone. Tra questi il sindaco della città di Rende, nonché presidente dell’Anci Calabria.

In questo tipo di inchieste un politico importante non deve mai mancare pena il calo di attenzione da parte dell’opinione pubblica. La nuova maxi retata avviene in un momento in cui ‘ Rinascita scott’ si trascina e agonizza tra stanchezza e noia. L’avvocato Pittelli continua ad essere detenuto ma è difficile sfuggire alla sensazione che i motivi della sua detenzione abbiano poco da fare con il processo. Tra l’altro Rinascita Scott, un piccolo processo di provincia gonfiato artificialmente, per impressionare l’opinione pubblica, rischia di saltare nella sua interezza.

A questo punto la strategia è quasi obbligata. Bisogna rilanciare e magari alzare la posta. Spostare la discussione da Pittelli al sindaco Manna e ad altri politici oggi coinvolti. Dai Mancuso alla cosca degli zingari e via dicendo. Sia chiaro noi non facciamo indagini e non sapremmo farle. Non è questo il nostro mestiere quindi non siamo innocentisti e tanto meno colpevolisti.

Continuiamo a credere nella presunzione di innocenza ed alla necessità di non ferire a morte una persona quando non ricorrono le condizioni indispensabili per l’emissione d’un mandato di cattura. E di abusi, in Calabria, in questi ultimi trent’anni ne sono stati fatti a migliaia senza mai una pur timida autocritica da parte dei responsabili.

Il risultato è che in Calabria la campagna elettorale è stata aperta da un colpo di fucile contro la segreteria di un parlamentare mentre lo stesso si trovava nei locali e oggi, in piena campagna elettorale, si registra l’ennesima retata che di fatto sposta l’attenzione dell’opinione pubblica dal floscio e moscio dibattito ‘ politico’ alla attività dell’antimafia. Avvantaggiando di fatto i candidati duri e puri.

Una sola certezza: la strategia messa in campo in questi anni da noti procuratori antimafia è fallita. È iniziata tanti anni fa sull’esempio di quanto succedeva a Palermo dove magistrati eroici scrivevano la storia facendo luce, almeno parzialmente, sui rapporti oscuri tra mafia e Stato (centrale e periferico), su centinaia di omicidi, di estorsioni e di ricatti mentre in Calabria da ‘ Stilaro’ a ‘Mandamento Jonico’ a ‘Marine’ e via dicendo ogni ‘retata’ corrispondeva ad una acclarata strage di innocenti. E per ogni innocente arrestato la ’ndrangheta conquista mille simpatizzanti. Così ancora oggi la ’ndrangheta è protagonista e il ‘Minotauro’ dell’antimafia pretende sempre nuove vittime innocenti per mantenersi in vita.

«La ‘ndrangheta si presenta nelle vesti di un avvocato», rivolta della Camera Penale di Cosenza contro Morra. I penalisti cosentini esprimono dissenso verso il senatore dopo le sue parole all'indomani del blitz della Dda di Catanzaro coordinata da Nicola Gratteri. Il Dubbio il 3 settembre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo dalla Camera Penale di Cosenza

Il Consiglio direttivo della Camera penale di Cosenza “Avvocato Fausto Gullo”, all’unanimità premesso che il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Senatore della Repubblica, Nicola Morra, ha così pubblicamente presentato, mediante canali social-network, il recente provvedimento giudiziario con cui il Gip del Tribunale di Catanzaro ha applicato numerose misure cautelari personali e reali: “Qui (a Cosenza) è pieno di ‘ndrangheta; però è una ndrangheta con il colletto abbottonato, con la cravatta, che si presenta nelle vesti di un avvocato, nelle vesti di un imprenditore, nelle vesti di un amministratore pubblico ..”, relegando, ad un mero inciso, la precisazione secondo cui  “in attesa” (e non in assenza) “di sentenza definitiva nessuno è condannato quindi si tratta pur sempre di soggetti su cui bisogna lavorare con la presunzione di innocenza”».

«Considerato che il contenuto perentorio delle suddette affermazioni – che rendono l’inciso “garantista” di sola forma – si traduce in un vero e proprio “verdetto” di condanna nel merito delle ipotesi di reato, emesso da un Rappresentante delle Istituzioni, ancor prima che gli indagati abbiano potuto esercitare compiutamente, correttamente e tempestivamente il diritto di difesa dinanzi agli Organi di giurisdizione preposti al controllo di merito e legittimità del provvedimento coercitivo; rilevato che tale fatto costituisce un vero e proprio “corto circuito Istituzionale-Giudiziario” poiché in grado di depotenziare o – peggio – fare detonare la regola di civiltà giuridica della “presunzione di non colpevolezza”, tesa alla tutela dei diritti delle persone coinvolte nel procedimento penale e – ancor più – rivolta alla salvaguardia della funzione giurisdizionale, onde rendere effettivamente libero il convincimento della Magistratura giudicante da ogni forma di interferenza e suggestione, anche e soprattutto di rango istituzionale come nel caso di specie, che sono e devono restare estranee al “giusto processo”; rilevato, ancor più, che l’espressione “è una ndrangheta … che si presenta nelle vesti di un avvocato” intacca, mediante l’inaccettabile accostamento “ndrangheta-avvocato”, l’effettività del diritto di difesa degli Avvocati indagati nel detto procedimento e ne dileggia la funzione costituzionale; ritenuto di rivendicare, con forza e determinazione, la funzione di “sentinella delle garanzie dei diritti” da parte dei penalisti cosentini, nei termini impressi nello Statuto della Camera penale “Avvocato Fausto Gullo” per la più efficace attuazione della giustizia penale, che deve essere tenuta al riparo dal pensiero “illiberale che imperversa nel nostro Paese, sempre più proclive ad assimilare l’indagato al reo”»

Così, la Camera Penale di Cosenza «delibera di esprimere ferma e incondizionata SOLIDARIETÀ agli Avvocati penalisti del Foro cosentino, Marcello Manna e Paolo Pisani, che da decenni difendono con probità, decoro, diligenza e competenza “i diritti degli ultimi” e le cui Toghe sono intrise dei valori dell’Avvocatura come vocazione ancor prima che professione, certi che i preposti Organi di giustizia ne accerteranno la estraneità da qualsiasi condotta loro ascritta; delibera con riguardo all’intervento pubblico del Senatore e Presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra e alla correlata preoccupazione che il contenuto dello stesso possa costituire una interferenza “Istituzionale” idonea a condizionare l’attività giurisdizionale, lo STATO DI AGITAZIONE dei penalisti della Camera penale di Cosenza, riservando, nelle prossime ore, la fissazione, d’urgenza, dell’Assemblea degli iscritti. Il presente deliberato è trasmesso al Ministro della Giustizia, al Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane e ai Componenti del Coordinamento delle Camere penali della Regione Calabria.

Il garante: "Come è possibile eseguire blitz senza verificare posti disponibili". Gratteri arresta tutti ma in carcere non ci sono posti: “Scaricati in cella, anche 12 nella stessa stanza”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 2 Settembre 2022. 

Tutti in carcere anche se non ci sono posti disponibili. Ma vuoi mettere il clamore mediatico di un blitz che coinvolge 254 persone indagate di cui 139 da spedire in carcere, 51 ai domiciliari e 11 da sottoporre all’obbligo di dimora? Per di più il primo settembre, dopo l’estate e con l’attenzione dell’opinione pubblica che è tornata alla vita di tutti i giorni. Dopo il maxi blitz contro le presunte ndrine di Cosenza, che ha coinvolto anche il sindaco di Rende e due assessori, arriva la denuncia del garante dei detenuti perché, dopo la retata richiesta dalla Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri (tra l’altro in corsa per la procura di Napoli) e avallata dal gip, non ci sono celle disponibili in carcere.

E’ caos infatti nella casa circondariale di Vibo Valentia. Secondo l’allarme lanciato dal garante campano Samuele Ciambriello (che interviene sulla situazione dell’istituto penitenziario calabrese essendo la regione ancora priva del Garante), “nella giornata di ieri è stato allertato da diversi familiari di detenuti campani, attualmente ristretti nella Casa circondariale di Vibo Valentia, per sovraffollamento della struttura penitenziaria. I loro parenti ristretti hanno lamentato di trovarsi, da ieri mattina, in celle con dieci e dodici compagni, a seguito dell’operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, scattata alle luci dell’alba di ieri nella provincia di Cosenza”.

Detenuti ammassati come sardine e poco importa se la situazione nelle carceri è ulteriormente degenerata con il periodo estivo, dove è stato registrato un picco di suicidi (una sessantina dall’inizio del 2022) e dove l’aria è letteralmente irrespirabile in celle tanto piccole quanto sempre più affollate di esseri umani.

“Sono preoccupato – dice Ciambriello – per quello che sta succedendo nel carcere di Vibo Valentia. Comprendo, in parte, i motivi e le pulsioni che spingono un giudice a firmare un’ordinanza di misura cautelare in carcere per 200 persone, ma mi chiedo come sia possibile che, prima di eseguire questi blitz, non si verifichino le disponibilità negli istituti penitenziari.. E’ impensabile – aggiunge – che vengano prelevati di notte dalle loro case e poi ‘scaricati’ in carceri non adeguati ad accoglierli”.

“Mi sto occupando di questa vicenda – prosegue – perché in Calabria sono tanti i detenuti di origine campana e anche perché è l’unica regione d’Italia che ancora non ha eletto il Garante dei detenuti. C’è un punto all’ordine del giorno del Consiglio regionale che viene puntualmente rinviato. Sono detenuti doppiamente dimenticati. Per quanto tempo ancora dovranno vivere questa ‘doppia reclusione’? Mi auguro – conclude – che, non solo al più presto vengano adottate misure che ristabiliscano serenità nel carcere di Vibo Valentia, ma soprattutto che la Regione si decida a garantire ai ‘diversamente liberi’ un organo di garanzia, che si occupi delle loro problematiche quotidiane”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

L'incredibile storia. “Maria Rosaria Ceglie è innocente”, ennesimo flop dell’infallibile Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

Questa è la storia di Maria Rosaria Ceglie, funzionaria Invitalia, incensurata. Il procuratore Gratteri aveva fatto lo spiritoso, due mesi fa, annunciando dopo il blitz nel cosentino, “questa notte sono stati raggiunti da ordinanza di custodia cautelare 202 presunti innocenti”. Chissà se gli era venuto il dubbio che qualcuno innocente lo fosse davvero, a prescindere dal principio costituzionale. Non parliamo soltanto dei “pesci grossi”, quelli il cui arresto garantisce qualche titolo sui giornali nazionali.

In questo caso il sindaco di Rende, Marcello Manna, nei cui confronti il tribunale del riesame, nell’ordinanza di annullamento della custodia cautelare, ribalta la patente di ”mafioso” trasformandola in “antimafioso”, cioè uno che le cosche le ha sempre combattute. È andando a spigolare negli atti processuali, e soprattutto nelle singole storie, che si scoprono le più clamorose sciatterie e superficialità degli investigatori, la faciloneria con cui si maneggiano strumenti delicati come le intercettazioni, le deduzioni arbitrarie sulle vite comuni, quelle delle persone per bene in cui gli investigatori si imbattono per caso. Impressionante è il cinismo con cui queste normali storie di vita vengono anche buttate in pasto alla gogna di organi di stampa non sempre attenti e rispettosi.

Maria Rosaria Ceglie è una funzionaria presso Invitalia, l’Agenzia per lo sviluppo del ministero dell’Economia che promuove progetti di finanziamento per le imprese. Una persona per bene, normale, incensurata. Viene intercettata in diverse occasioni, mentre parla, spesso scherzando, al telefono o di persona con il suo amico Andrea Mazzei, che è stato molti anni prima, tra il 2004 e il 2005, suo fidanzato. I due hanno un rapporto affettuoso, lui le parla dei suoi progetti, lei dà qualche consiglio sulle procedure necessarie per ottenere i finanziamenti. E questa è una parte delle conversazioni. Poi c’è quella più personale. I due sono in auto, a Roma, vanno verso il quartiere dei Parioli, lui insiste per presentarle la nuova fidanzata, lei non ne ha voglia, lui le spiega che proprio in quella zona prestigiosa della città ha “sistemato” l’amica in un appartamento di cui paga lui stesso l’affitto di 850 euro al mese.

Accidenti, scherza la giovane donna, allora potresti pagare anche la rata del mio mutuo, visto che te la cavi così bene economicamente. Poi c’è un altro siparietto in cui la ex e l’attuale fidanzata dell’uomo vanno insieme a fare shopping, Maria Rosaria acquista una borsa, aveva anche visto un anellino che le piaceva, ma aveva rinunciato, era sufficiente la borsa. E finisce che l’anellino glielo regala lui. Valore? 150 euro. Il prezzo della corruzione, secondo la Dda di Nicola Gratteri. Così, mentre Andrea Mazzei finisce in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, tra i 202 della retata del primo settembre è inserita anche Maria Rosaria Ceglie, ai domiciliari con l’accusa di corruzione. Corrotta da un mafioso, e quindi finanziatrice della ‘ndrangheta tramite pubblici concorsi. Scaraventata sui giornali come pubblico ufficiale al servizio delle cosche. Non c’è bisogno di contestare il 416 bis, per dare la patente di mafioso. Quando sei arrestato in un blitz di ‘ndrangheta, c’è poco da fare, sei dentro al pentolone dei reprobi.

Ma esistono i giudici, anche in Calabria. Così la dottoressa Ceglie passa dai domiciliari all’obbligo di dimora. Poi arriva il tribunale del riesame di Catanzaro, seconda sezione, presidente Santoemma. E il quadro si capovolge. La funzionaria non si è mai occupata del progetto “Resto al sud”, cui era interessato il suo ex fidanzato. Le informazioni che ha dato su alcune modifiche normative in itinere erano già state pubblicate dalla Gazzetta Ufficiale in epoca precedente a quella degli incontri “in captazione” con Mazzei. Il tono confidenziale (tesoro, amò) tra i due che secondo l’accusa era improprio, aveva spiegazione solo in un rapporto affettivo tra due ex fidanzati rimasti amici.

Il contesto scherzoso, poi, come quello in cui è inserita la battuta sul mutuo della casa da pagare. E l’anellino da 150 euro che corruzione è, visto che di fronte al regalo la ragazza apostrofa l’amico con espressioni del tipo “ma sei matto”? E visto anche che “deve registrarsi l’assenza di riferimenti all’impegno della Ceglie nel fornire informazioni riservate o privilegiate al Mazzei”. E visto anche che l’uomo, mentre parlava con l’attuale fidanzata, riferendosi all’amica, aveva detto di esserle riconoscente e precisava “non mi ha mai chiesto nulla”. Della lezione di diritto che i giudici del riesame impartiscono ai colleghi della procura e dell’ufficio del gip non avrebbe dovuto esserci bisogno, in situazioni di normale amministrazione della giustizia. Ma c’è anche quella.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislazione.

In arresto anche il sindaco di Rende. Maxi Gratteri, blitz elettorale: manette a valanga e show con i media. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Settembre 2022 

Da ieri mattina il sindaco di Rende Marcello Manna, l’assessore della sua giunta Pino Munno e l’omologo del Comune di Cosenza Francesco De Cicco sono agli arresti domiciliari. In buona compagnia di circa 200 persone accusate di essere mafiose. Benvenuto, primo blitz di campagna elettorale! Come si sentirebbe, il cittadino Nicola Gratteri, qualora fosse candidato, in qualunque lista, alle elezioni politiche del 25 settembre (ma sappiamo che non lo è perché non ci tiene), e vedesse cadere nel bel mezzo della competizione politica, la bomba che la Dda di Catanzaro ha innescato e un giudice fatto esplodere?

Non stiamo parlando di “orologeria politica”, ma di una deflagrazione che ha portato 139 persone in carcere, 51 agli arresti domiciliari e 12 con l’obbligo di dimora in esecuzione di un provvedimento firmato dal gip Alfredo Ferraro che porta la data del 2 agosto. Cioè il giorno in cui il suo ufficio ha trasmesso per l’esecuzione dei provvedimenti un documento di 533 pagine, un decimo di quelle che il procuratore Gratteri gli aveva inviato il 14 dicembre di un anno fa, pagine arricchite con integrazioni a marzo, maggio a giugno di quest’anno. Prima di entrare nel merito, perché guai se nelle maxi-inchieste non c’è, come in questo caso, almeno un sindaco accompagnato da un paio di assessori, osserviamo le date e i tempi della giustizia italiana. Il pubblico ministero manda il malloppo di cinquemila pagine con tutte le richieste nel dicembre 2021. Un documento “aperto”, però, perché lo stesso pm si riserva di centellinare l’accusa con piccole integrazioni. Perché magari arriva un nuovo “pentito” o una nuova intercettazione.

Tanto sappiamo che le indagini sono fatte così: o c’è lo spione o c’è la spiata. Mai che si leggano i bilanci delle società o delle amministrazioni, per scovare le magagne, tanto per dirne una. Quindi il giudice ha avuto più o meno un anno per studiare le carte del procuratore, e poi ha deciso il 2 agosto. Era proprio necessario fare la retata il primo settembre? E perché non il primo ottobre? Ma c’è sempre fretta, perché dalla malattia del Maxi, cui il procuratore Gratteri pare affezionato, gli investigatori non sono ancora guariti. Come da quella della conferenza stampa, ieri prima convocata poi cancellata poi in qualche modo tenuta. Ma la ministra Cartabia e il Parlamento non avevano consentito solo i comunicati del capo della procura? Unico dato positivo, si ritorna finalmente alla buona vecchia intitolazione “Abate più…”.

Casualmente un Abate c’è anche in questa inchiesta, ed è un Fabrizio a guidarne altri 253, il numero degli indagati. Ma il gip è costretto a ricordare i nomi delle precedenti inchieste che il buon Gratteri ha voluto unificare, e allora possiamo anche divertirci: Garden, Missing, Squarcio, Tamburo, Twister, Terminator 2, Terminator 4, Anaconda, Magnete, Telesis, Vulpes, Acheruntia, Nuova Famiglia, Doomsday, Drugstore, Apocalisse, Job center, Testa del serpente, Ouverture. Complimenti per la fantasia, e speriamo che siano stati gli ultimi colpi di coda, la legge sui diritti degli indagati non consente più neppure di giocherellare con le parole sulla pelle degli innocenti. L’inchiesta, come tutti i maxi che si rispettano, ha molte teste. La più rilevante dovrebbe essere quella del narcotraffico, cui sappiamo si dedica ancora abbondantemente, e non solo in Calabria ma prevalentemente nelle regioni del nord, la mafia chiamata ‘ndrangheta, forse l’unica ormai sopravvissuta. Ma potremmo scommettere sui titoli di giornali e tv, perché il boccone grosso è invece un altro, anzi altri tre.

Uno è un avvocato penalista, e chissà perché, il fatto ci ricorda qualcun altro, sempre qui in Calabria, che si chiama Giancarlo Pittelli e che languisce, nonostante l’età e le condizioni psico-fisiche, chiuso in casa, inseguito però dalla perentoria richiesta di Nicola Gratteri perché un giudice lo sbatta di nuovo in uno di quei luoghi di delizia dove dall’inizio dell’anno sessanta persone si sono tolte la vita. L’avvocato si chiama Marcello Manna, e nel maggio del 2019 è stato eletto sindaco della cittadina del cosentino, dopo aver svolto la sua brava campagna elettorale. Quella che, non se la prenda procuratore, avrebbe svolto anche lei qualora fosse stato (ma lei non lo voleva) candidato da un qualunque partito. Magari quello di Matteo Renzi, visto che l’ex premier l’avrebbe voluto al suo fianco nella veste di ministro di giustizia.

Ora, veda, le campagne elettorali sono cose complicate. È molto difficile per esempio, tranne che per Giuseppe Conte, entusiasta della retata, riuscire a fare l’analisi del sangue e tutti quelli che ti stanno vicini, che partecipano ai tuoi appuntamenti, che ti promettono voti. E poi magari dicono tra loro al telefono che tu hai detto al suocero della sorella (testuale) di un tizio che ha una tabaccheria, che il comune di Rende con te sindaco andrà da lui a comprare le marche da bollo. Al fianco del sindaco, nel comune destino di arresti domiciliari, l’assessore ai lavori pubblici (ruolo pericolosissimo, meglio delegarlo a un magistrato o un poliziotto) Pino Munno e quello alla manutenzione e decoro della città di Cosenza, Francesco De Cicco. La base di tutte le imputazioni, quella che consente intercettazioni e arresti, è sempre il reato associativo, in questo caso non solo di stampo mafioso, ma anche finalizzato al voto di scambio. Ora, non conoscendo noi personalmente questi amministratori indagati, e sapendo solo che sono, come tutti gli altri, innocenti secondo la Costituzione, possiamo solo fare qualche riflessione sulle procedure.

È vero, il giudice Ferraro, nell’introduzione dell’ordinanza, premette, con una certa abilità, di avere un’interpretazione delle sentenze della cassazione sulla custodia cautelare diversa da altri suoi colleghi. Non dice quindi che si limiterà ad aggiungere una propria “creatività” alla pedissequa trasposizione degli atti raccolti dalla Dda. Ma con puntiglio precisa che procederà a un’ “autonoma valutazione” di ogni indizio. Ma non sfugge alla storia. E la storia ci dice che, colpevoli o innocenti che saranno, alla fine, questi indagati, una cosa è quasi certa, o forse certissima. Cioè che prima o poi il reato associativo cadrà, soprattutto nell’aggravante di mafia. O vogliamo tirarla avanti nei secoli la tiritera del concorso esterno? Diciamoci la verità: sotto sotto non c’è la speranza di qualche dimissione? E non saranno gli stessi partiti magari a suggerirlo “per ragioni di opportunità”?

Il procuratore Gratteri ieri mordeva il freno, con la conferenza stampa che entrava e usciva dalle agenzie. Prima ha lasciato uscire dalla bocca tutte le maiuscole possibili: “Forse è la più estesa indagine su Cosenza e riguarda un’associazione mafiosa, un’associazione finalizzata al traffico di droga e tutti i reati-fine caratteristici della criminalità organizzata, quindi estorsioni, usura e anche rapporti con la pubblica amministrazione. Sono indagati anche tre professionisti”. Avvocati o amministratori, dunque? Eccoci qua, ecco come si mette in pratica la difesa della non colpevolezza dell’indagato.

Sintesi finale: la Dda di Catanzaro si è messa alla testa di squadre di carabinieri, agenti di polizia e guardie di finanza, che hanno cucito con ago e filo tutte le inchieste con quei bei nomi del passato, e hanno individuato una sorta di consorzio che unificava anche i profitti, in una “bacinella comune” di gruppi che un tempo si erano fatti la guerra nel cosentino. Gruppi di fuoco che però in qualche intercettazione sembrano a volte dei poveracci. Come quando uno dice “Ti piglio a calci davanti a tua moglie e tua madre…e pure davanti ai carabinieri ti schiatto di palate”. Sicuramente il tono non è rassicurante. Ma per la serietà dell’inchiesta, speriamo che la ferocia di questi mafiosi non si limiti a minacce di questo genere. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Dopo il super blitz di Cosenza, si contano i danni...Fame di fama, Gratteri show: quasi 200 arresti ma il carcere è in overbooking, solo posto in piedi. Francesca Sabella su Il Riformista il 3 Settembre 2022 

Lo sentite anche voi il tintinnio delle manette? Sì, c’è Gratteri. Ma c’è anche una notizia: non ci sono più posti in carcere. Uno show costruito ad arte, una pioggia di arresti, quasi duecento le manette strette intorno ai polsi dei pericolosi “mafiosi” che Nicola Gratteri, a capo della procura di Catanzaro, ha stanato con un tempismo da Oscar. Ovvero, appena rientrati dalla pausa estiva, ora che l’opinione pubblica ha riposto sdraio e ombrellone ed è di nuovo attenta a cosa accade e soprattutto a due settimane dallo scadere dei termini per presentare la domanda come procuratore di Napoli. (Sì, perché dopo essere stato battuto da Giovanni Melillo all’Antimafia nazionale, ora vuole la guida della procura napoletana).

Ma si sa, ognuno fa la campagna elettorale con i mezzi che ha, Gratteri nella sua borsa ha manette, show e conferenze stampa da divo. Non c’è che dire, fa le cose in grande. Questo bisogna riconoscerglielo. E allora, dicevamo, cosa ha fatto Gratteri? Niente che non abbia già fatto. Ha svegliato Cosenza con duecento arresti. Chiamiamo le cose con il loro nome così da non offendere nessuno: ha messo in atto un maxi blitz! Il sindaco di Rende Marcello Manna, l’assessore della sua giunta Pino Munno e l’omologo del Comune di Cosenza Francesco De Cicco sono agli arresti domiciliari. Con loro ci sono circa 200 persone accusate di essere mafiose. E ancora: 139 persone in carcere, 51 agli arresti domiciliari e 12 con l’obbligo di dimora in esecuzione di un provvedimento firmato dal gip Alfredo Ferraro che porta la data del 2 agosto ed è stato eseguito il primo settembre.

Resta da capire che nome di fantasia attribuirà a questa nuova e grande inchiesta e visti i precedenti (Garden, Missing, Squarcio, Tamburo, Twister, Terminator 2, Terminator 4, Anaconda, Magnete, Telesis, Vulpes, Acheruntia, Nuova Famiglia, Doomsday, Drugstore, Apocalisse, Job center, Testa del serpente, Ouverture) ci sarà da divertirsi. Si fa per dire di fronte a questa smania di arrestare con tanto di “Siete tutti mafiosi”, della serie: per il momento lo dico, poi si vede se è vero. Davanti a questa fame di fama, a questa voglia di fare show mediatici, di sbattere in prima pagina i cattivi, c’è da piangere. E da piangere dovrebbe venire anche al ministro della Giustizia Marta Cartabia che aveva promesso di occuparsi di carcere, dei diritti di indagati e detenuti. Benissimo, c’è una notizia: i duecento arrestati rimangono in piedi, non ci sono posti. Nel penitenziario di Vibo Valentia, perché le carceri scoppiano. E sono anni che lo scriviamo: scoppiano!

A denunciare la mancanza di posti per i neo arrestati, per i mafiosi di Gratteri, è il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: «Sono preoccupato per quello che sta succedendo nel carcere di Vibo Valentia. Comprendo, in parte, i motivi e le pulsioni che spingono un giudice a firmare un’ordinanza di misura cautelare in carcere per 200 persone, ma mi chiedo come sia possibile che, prima di eseguire questi blitz, non si verifichino le disponibilità negli istituti penitenziari – e ce lo chiediamo anche noi – È impensabile che vengano prelevati di notte dalle loro case e poi ‘scaricati’ in carceri non adeguati ad accoglierli. Sono stato allertato da diversi familiari di detenuti campani, attualmente ristretti nella Casa circondariale di Vibo Valentia, per sovraffollamento della struttura penitenziaria. I loro parenti ristretti – denuncia il garante – hanno lamentato di trovarsi, da ieri mattina, in celle con dieci e dodici compagni, a seguito dell’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, scattata alle luci dell’alba di ieri nella provincia di Cosenza. Mi sto occupando di questa vicenda – conclude – perché in Calabria sono tanti i detenuti di origine campana e anche perché è l’unica regione d’Italia che ancora non ha eletto il garante dei detenuti».

Capite che le carceri sono diventate discariche sociali? Sono enormi scatole di cemento nelle quali rinchiudere le persone che sbagliano per davvero o perché fa comodo al giudice di turno o al procuratore che deve fare carriera dire così. Capite che allora la scritta Palazzo di Giustizia non ha senso di esistere? Chiamiamolo Palazzo della Legge dove ognuno la interpreta secondo i propri bisogni del momento.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La retata a Cosenza contro cosche e politici. Gratteri, solo maxi blitz (190 arresti) e appello contro il garantismo: “Dite ai vostri editori di convincere i politici”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Settembre 2022

Una retata che ha coinvolto 254 persone: 139 finite in carcere, 51 ai domiciliari, 11 sottoposte all’obbligo di dimora e divieto di esercizio della professione e altre 52 indagate a piede libero. Sono i numeri del blitz avvenuto tra Cosenza e provincia e disposto dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Un’operazione scattata all’alba del primo settembre, una data probabilmente scelta non a caso dopo il periodo estivo di agosto, e che ha coinvolto polizia, carabinieri e guardia di finanza perché “un’inchiesta del genere non poteva farla una sola forza, visto che ognuno di loro già lavorava sulle famiglie di ‘ndrangheta, sul territorio”. Solo la polizia ha utilizzato circa 600 uomini per il blitz.

Una operazione di dimensioni simili a quella del dicembre del 2019, quando prima delle festività natalizie lo stesso Gratteri ottenne il via libera del Gip che dispose un’ordinanza, denominata Rinascita Scott, nei confronti di ben 334 presunti ndranghetisti. L’obiettivo da anni resta quello non di colpire i singoli gruppi malavitosi ma più organizzazioni insieme, confederate tra loro. Mission che spesso porta a operazioni sempre più mediatiche dove nella rete dei pm cadono anche persone che con la malavita non hanno nulla a che fare. Ma questo, così come già dimostrato dal Riesame o dal gup in Rinascita Scott, verrà stabilito successivamente.

Questa volta nel mirino di Gratteri sono finite le presunte cosche del Cosentino ed esponenti di primo piano della politica locale tra cui il sindaco di Rende, l’avvocato Marcello Manna, presidente anche di Anci Calabria, oltre all’assessore (sempre del comune di Rende) Giuseppe Munno e all’assessore dell’amministrazione di Cosenza Francesco Di Cicco. Molteplici i capi d’accusa per la maggior parte dei destinatari dei provvedimenti, quasi tutti appartenenti alla malavita cosentina sia di etnia nomade che italiana, tra cui associazione di tipo ‘ndranghetistico finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, a commettere delitti inerenti all’organizzazione illecita dell’attività di giochi – anche d’azzardo – e di scommesse, delitti di riciclaggio, auto-riciclaggio e trasferimento fraudolento di beni e valori, nonché in ordine ad altri numerosi delitti, anche aggravati dalle modalità e finalità mafiose.

In conferenza stampa, Gratteri non è entrato nei dettagli dell’inchiesta e ha invitato gli editori a cambiare la legge sul garantismo, quella che tutela i diritti degli indagati (da ritenersi presunti innocenti in considerazione dell’attuale fase del procedimento – indagini preliminari – fino a un definitivo accertamento di colpevolezza con sentenza irrevocabile). Per il capo della procura di Catanzaro (che sognava l’Antimafia nazionale) bisogna “sensibilizzare i politici a cambiare la legge vigente” sull’impossibilità di “fornire dettagli sull’operazione anti-ndrangheta di stanotte a Cosenza e nell’hinterland, tantomeno confermare la fuga di notizie sul coinvolgimento di politici. Ma la stampa è potente…”. Poi ha stuzzicato l’ordine dei giornalisti e il sindacato: “Non ricordo sollevazioni quando è stata approvata la legge in questione il risultato oggi è questo”. “Finché non cambia non intendo essere né indagato né sottoposto a procedimento disciplinare” chiarisce.

Sulla maxi retata aggiunge: “E’ una inchiesta di livello superiore questa odierna perché a Cosenza avevano concertato una confederazione criminale unitaria che messi da parte gli screzi operava in modo congiunto e riconosciuto verso tutti”. Le investigazioni si sono sviluppate attraverso un’imponente attività di indagine di tipo tradizionale, consistente in attività tecniche, servizi sul territorio, riscontri “sul campo”, con una parallela poderosa attività di acquisizione e analisi di dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, corroborati dai relativi riscontri, oltre alla acquisizione di plurime emergenze di altri procedimenti penali.

La gravità indiziaria ha riguardato l’attuale operatività delle organizzazioni criminali nell’area cosentina, passate attraverso una importante rimodulazione degli equilibri sul territorio, curata dai “nuovi” presunti capi e gregari, legati al “nucleo stabile” degli storici esponenti dei gruppi criminali. Si tratta in particolare di gravi elementi indiziari circa l’attuale assetto dell’organizzazione criminale di ‘ndrangheta di Cosenza e del suo hinterland, articolata in diversi gruppi organicamente confederati, e tutti riconducibili ad una struttura di vertice, nello specifico riconducibili ai due principali gruppi, il clan degli italiani, nelle sue varie componenti, e il clan degli zingari, anch’esso con varie articolazioni, nell’assetto rideterminatosi a seguito delle complesse e altalenanti dinamiche relazionali tra gli stessi, nonché delle numerose vicende giudiziarie, con i relativi diversificati esiti, che li hanno interessati.

Contestualmente è stato eseguito, a cura dei Finanzieri GICO del Comando Provinciale di Catanzaro e lo SCICO di Roma, il sequestro preventivo d’urgenza disposto dal pm, che dovrà essere sottoposto al vaglio del Giudice per le Indagini Preliminari, di beni immobili, aziende, società, beni mobili registrati, riconducibili a numerosi indagati, per un valore stimato in oltre 72 milioni di euro, e consistenti, tra l’altro, in 78 fabbricati, tra i quali 5 ville, 44 terreni, per un’estensione complessiva di 26 ettari, in vari comuni della provincia di Cosenza, 57 quote di partecipazioni in attività produttive e commerciali al dettaglio e all’ingrosso in diversi settori (ristorazione con somministrazione, bar, abbigliamento produzione energia elettrica, agricoltura, lavanderie e lavanderie industriali, servizi nel settore dello spettacolo, noleggio attrezzature per spettacoli ed eventi, formazione culturale, edile), 39 complessi aziendali, anche di imprese del settore del c.d. “gaming” (scommesse on-line e sale giochi e biliardo), 20 ditte individuali attive nei vari settori delle attività produttive e commerciali (ristorazione, strutture turistiche e ricettive, agricoltura, bar, supporto rappresentazioni artistiche, intermediazione finanziaria), 7 associazioni non riconosciute, impegnate prevalentemente in ambito sportivo-ricreativo, uno Yacht, un aeromobile ultraleggero, un natante, 70 autovetture, 7 motoveicoli. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Caro Renzi, venga in Calabria a scoprire casi di malagiustizia più gravi del suo. Certo, nella vicenda dell’ex premier le garanzie costituzionali vacillano. Ma è nulla se si pensa ai tanti innocenti finiti in manette e poi assolti di una terra a diritti zero. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 15 luglio 2022.

«Ci sono dati che di fatto vi faranno pensare. Hanno arrestato i miei genitori con un provvedimento subito annullato, hanno sequestrato i telefoni dei miei amici non indagati, hanno cambiato nomi nei documenti ufficiali per indagare sulle persone a me vicine, hanno scritto il falso in centinaia di articoli, hanno pubblicato lettere privatissime tra me e mio padre, mi hanno fotografato negli autogrill e mentre uscivo dal bagno di un aereo, hanno controllato e pubblicato tutte le voci del mio estratto conto, hanno violato la Costituzione per controllare i mie messaggi di Whatsapp …» e per far tutto ciò «hanno coinvolto strutture dei servizi di intelligence non solo italiani».

A scrivere le cose che avete appena letto è stato Matteo Renzi ex presidente del Consiglio dei ministri ed attuale senatore e a commettere una lunga serie di reati nei suoi confronti sarebbero stati magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, pubblici funzionari. Sullo sfondo si intravedono alcuni politici ma giocano la partita solo di rimessa dal momento che il pallone è sempre in possesso di forze oscure (ma non tanto) che operano all’interno dello Stato. Non sono mai, (ma proprio mai), stato “renziano” ma mano che la matassa si dipana mi pare evidente che le accuse mosse contro il senatore fiorentino saranno difficilmente sostenibili in un giusto processo. Sarà il tempo a farci capire meglio le cose ma è certo che nel suo libro Renzi, fa intravedere con chiarezza la febbrile attività di un sistema inquirente che opera nel “cuore” dello Stato e conta sul sostegno attivo di parte importante degli organi di informazione di massa. Nel libro si delinea un tentativo di “linciaggio” mediatico contro un uomo che ha ricoperto e ricopre incarichi di primissimo piano, dei suoi familiari e dei suoi amici personali e politici.

Una trama che ha come colonna sonora il lugubre rumore di manette e un continuo agitar del “cappio”. Gli “associati” pur avendo giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, non avrebbero esitato un attimo a violare le leggi di cui avrebbero dovuto essere custodi mettendo così in pericolo la libertà e la sicurezza dei cittadini e la legittimità dello Stato.

Ci troviamo in presenza di un libro inquietante perché, dopo la lettura, è impossibile non domandarsi cosa potrebbe succedere ( anzi, cosa succede) a un normale cittadino che dovesse capitare nel mirino di coloro che detengono il potere reale in Italia viste le cose successe ad un ex capo del governo della Repubblica che dispone intanto dell’immunità parlamentare e quindi di amicizie, denaro e che forse potrebbe contare su un circuito di potere alternativo rispetto a quello che ha tentato di fargli scacco matto. In qualche modo, penso di sapere quello che succede alle tantissime persone che capitano dentro il tritacarne kafkiano che è la “giustizia” in Italia e per come riesco da oltre quarant’anni cerco di raccontare le loro storie, in particolare di coloro che abitano in una terra a zero democrazia come la Calabria. Parlo dei superstiti delle tante tempeste giudiziarie che hanno sconvolto molte vite di innocenti segnandoli per sempre.

Se potessi vorrei invitare il senatore Renzi in Calabria. Potrei fargli conoscere “casi” rispetto ai quali quanto successo a Lui è acqua fresca. Avrei una sola difficoltà: non potrei farlo parlare con i morti di crepacuore per non aver avuto giustizia. Morti che si aggiungono ad altri morti per mano mafiosa. In mezzo un popolo che deve abbassare la testa agli uni e agli altri e ci vuole molto coraggio ad alzare la testa.

Nel libro di Renzi non mi sembra che costoro abbiano avuto spazio. Comprendo perfettamente che l’autore non avrebbe potuto conoscere i singoli casi ma il segretario nazionale del Partito democratico, anche bendandosi gli occhi, avrebbe potuto e dovuto conoscere la particolare situazione della Calabria: le somme spese dallo Stato per ingiusta detenzione, la pesca con le reti a strascico in cui restano impigliati soprattutto gli innocenti, le sfilate in manette di persone successivamente assolte, le intercettazioni telefoniche di massa, la “vendetta” praticata con gli strumenti della giustizia, la paura che terrorizza la gente obbligandoli al silenzio sia rispetto ad una certa antimafia che alla mafia.

Evidentemente gli è sfuggita o i suoi amici calabresi non hanno avuto interesse a fargliela conoscere e questo lo porta a commettere altri errori. Per esempio Egli spara ad alzo zero e con molta precisione sui magistrati che hanno indagato Lui, i suoi genitori e i suoi amici ma il problema non è il nome del giudice. Si chiami Creazzo, Gratteri, Davigo o Di Matteo. I nomi sono passati e passano ma le storture restano, quindi Il problema vero è che la classe politica complice una legge elettorale truffa e una dirigenza golpista – non è davvero legittimata dal consenso, per cui alcuni magistrati si sono sentiti autorizzati a operare fuori e contro le leggi e la Costituzione. Costoro sono intoccabili, non pagano per i loro errori, impongono il silenzio stampa sulle loro stesse vittime, trovano complicità e protezione negli altri poteri dello Stato.

A questo punto Renzi deve scegliere se comportarsi da Nume offeso che cova una sua personale vendetta per “l’onta ricevuta”, oppure vuole essere un leader che, capace di autocritica rispetto alla sua stessa esperienza politica e governativa, intende battersi per il rispetto della Costituzione. In quest’ultimo caso gli rinnovo l’invito: “scenda” in Calabria ma non cerchi sempre le stesse persone e solo così potrà scoprire di ‘ che lacrime gronda e di che sangue’ lo scettro dei detentori del potere.

Tallini: «Nessuna prova contro di me. Ma la Dda di Catanzaro fa ricorso». Il Dubbio il 5 luglio 2022.  

L'ex presidente del Consiglio regionale della Calabria in primo grado è stato assolto. Ora Gratteri propone appello. «Da amministratore ho sempre combattuto le organizzazioni criminali»

«Sono pronto a dimostrare la mia totale estraneità alle accuse ipotizzate dalla Procura anche davanti alla Corte d’Appello, così come già avvenuto davanti al Tribunale del Riesame, alla Cassazione e al Gup». Così in una nota Mimmo Tallini, dopo che la Dda Catanzaro ha presentato appello contro l’assoluzione dell’ex presidente del Consiglio regionale accusato di concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta “Farmabusiness” scaturita dall’operazione che nel novembre del 2020 fece luce sugli interessi della cosca Grande Aracri di Cutro (Crotone) intorno a una società finalizzata alla distribuzione di prodotti farmaceutici.

«Il ricorso in appello della Procura non mi sorprende – osserva Tallini -, anzi era ampiamente previsto e non intacca la mia serenità e la mia fiducia nella magistratura. Tre fasi di giudizio terzi – il Riesame, la Cassazione e il Gup – hanno stabilito l’assoluta insussistenza di prove e di indizi a mio carico, certificando la mia completa estraneità a fatti criminali o illegali. In particolare, con la sentenza di primo grado sono stato totalmente assolto, con formula ampia, dalle accuse formulate dalla Procura».

«Affronterò a testa alta anche il processo d’appello – sottolinea Tallini -, con la forza di chi ha servito le istituzioni sempre con umiltà e correttezza e nella sua lunga storia politica e amministrativa ha sempre contrastato con fermezza i fenomeni criminali che rappresentano un grave ostacolo alla crescita e allo sviluppo della nostra terra». «Ho sempre onorato le istituzioni dove il consenso popolare mi ha voluto – conclude Tallini – e non ho mai tradito la fiducia che tantissimi calabresi hanno nutrito verso di me».

CAMBIAMENTI TROPPO LENTI. I parenti del mafioso intimano il silenzio al giornalista siciliano Josè Trovato. Ma lui denuncia. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 28 giugno 2022

Nel 2005 ha scritto di Rosario Mauceri, oggi condannato all’ergastolo per omicidio. Il mafioso gli aveva chiesto il silenzio: «Non mi sono lasciato intimidire». Dopo le minacce trapelate dal carcere, ancora anni dopo, la famiglia ha intimato al giornalista di tacere sotto un post di Facebook

Nel 2005 ha scritto per la prima volta di Rosario Mauceri, il rappresentante di Cosa Nostra a Enna oggi condannato all’ergastolo per aver ucciso due persone, e quasi vent’anni dopo, la famiglia ha intimato ancora una volta al giornalista Josè Trovato di tacere. La terza richiesta di silenzio ricevuta negli anni, ma lui ha denunciato ancora una volta: «E sono combattuto se andare a farne un’altra», dice a Domani, visto che l’attacco social è stato ripetuto dopo la notizia del post del sindacato dei giornalisti che gli esprimeva solidarietà.

TRE VOLTE

Questo è solo l’ultimo capitolo di una vicenda partita quando «tutti sapevano che l’assassino era lui, ma ancora non era stato condannato in via definitiva». Trovato era un cronista poco più che ventenne «e raccontavo la mafia a Enna quando tutti dicevano che non c’era». Nel 1999 il mafioso, originario anche lui di Leonforte, aveva ucciso Filippo Musica ed Elisa Valenti: «Musica  – racconta Trovato – veniva visto come un rivale perché voleva gestire affari legali pur non facendo parte di Cosa Nostra, mentre Elisa Valenti era solo la sua fidanzata». Così ha iniziato a scrivere di quello che stava accadendo e del mafioso.

La prima volta è stato lo stesso Mauceri ad avvicinarlo. «Nel 2005 mi ha avvicinato, ha preso una copia del giornale di Sicilia e mi ha detto, “la devi smettere di scrivere di me”. Avevo 26 anni e non capendo il tono, ho chiamato la polizia». Trovato ha scritto di lui ancora una volta la settimana stessa: «Non mi sarei lasciato intimidire».

La sorpresa arriverà quattro anni dopo, quando il giornalista ha scoperto che dal carcere Mauceri voleva passare ai fatti: «Il 3 febbraio del 2009 sono stato convocato dal questore di Enna, e dietro la porta ho trovato il comandante provinciale dei carabinieri. Dal carcere, mi hanno riferito, aveva messo in moto qualcosa “per farmi saltare la testa”, ma il detenuto che era venuto a saperlo stava collaborando ed è emerso il disegno. Lo ricordo con precisione perché è accaduto una settimana prima che nascesse mio figlio».

Da allora passiamo al 2022. Il 27 giugno Trovato ha sporto una formale denuncia al commissariato di polizia di Leonforte contro i responsabili dei profili di Facebook che hanno scritto contro di lui: «I figli di Mauceri». In un post sul suo profilo, il giornalista annunciava la prossima presentazione a Leonforte del suo libro dal titolo Mafia 2.0-21, con un commento: “Nel corso della serata parlerò della presenza dei parenti dei mafiosi dei social: un bestiario che non smetterà di stupirmi”. Non si riferiva nemmeno a loro. Ma è stato apostrofato come “giornalista da strapazzo” e “ridicolo”, e uno dei figli del malvivente, con tono apparentemente amichevole, lo ha invitato a «smettere di parlare di suo padre». 

IL SINDACATO

Il sindacato dei giornalisti si è schierato con lui immediatamente: «Terza intimidazione per il collega ennese Josè Trovato, componente del Gruppo cronisti siciliani di Assostampa Sicilia, da parte di una famiglia mafiosa» e ha espresso «solidarietà e stima al collega, invitandolo a proseguire la sua testimonianza professionale con coraggio e perseveranza».

Adesso sarà la magistratura a stabilire se questa richiesta, proveniente dal figlio di un mafioso e assassino, integri o meno una specifica fattispecie di reato: «Ciò che riteniamo non si possa far passare in silenzio è il messaggio che un giornalista possa essere aggredito verbalmente sui social dai parenti di un mafioso, nel tentativo di ridurlo al silenzio», dicono Roberto Ginex, segretario di Assostampa Sicilia, Claudia Brunetto, segretaria regionale del Gruppo cronisti, e Gianfranco Gravina, vicesegretario di Assostampa Enna.

I familiari di Mauceri hanno ricondiviso la notizia dicendo che è «tutto falso», e Trovato sta decidendo se è il caso di tornare al commissariato. 

UN LENTO CAMBIAMENTO 

Il giornalista ricorda che uno dei figli ha usato sostanzialmente le stesse parole che il padre gli rivolse 17 anni fa e gli ha chiesto di non occuparsi di lui.

«Sono passati tutti questi anni – dice il giornalista a Domani -, ma l’opinione è questa. Basta dire a qualcuno di non scrivere». Racconti che sembrano appartenere a un’altra epoca, atteggiamenti ancora più stridenti perché nati sui social.

«Si sta prendendo consapevolezza, c’è un risveglio da parte di Enna. C’è un impegno forte da parte della società civile, oggi i comuni si costituiscono parte civile. Cominciano a invitarmi nelle scuole, ma alla fine per certi aspetti i cambiamenti sono lenti». Allo stesso modo, le reazioni di segno contrario, non per forza sono un segnale negativo: «Probabilmente sono reazioni al fatto che la musica sta cambiando».

Il giornalista è anche presidente della pro loco di Leonforte e il 30 giugno «a più di vent’anni dall’omicidio scopriremo un quadro che ritrae Elisa Valenti, una delle due vittime. Valenti era solo la fidanzata di Musica, e il ministero dell’Interno l’ha riconosciuta vittima incolpevole di mafia». Un riconoscimento che adesso il comune vorrebbe trasformare nell’intitolazione alla donna di una via o una piazza: «Ma il nulla osta dalla prefettura continua a non arrivare» 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Ucciso dai Corleonesi, alla famiglia del nipote di Badalamenti niente fondi: «Non estraneo alla mafia». Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.

Moglie e figlie di Silvio Badalamenti, che fu ucciso nel 1983 a Marsala, si appellavano alla legge per le vittime di mafia. La Cassazione dice no e respinge le richieste della vedova: «Radicato rapporto di fiducia con lo zio»

Gaetano Badalamenti collegato con un’aula bunker

Fu assassinato a Marsala il 2 giugno del 1983, ma la Corte di Cassazione non crede all’estraneità alla mafia di Silvio Badalamenti, nipote del più noto Tano Badalamenti, il «toro seduto» di Cinisi, tra i boss schiacciati dalla guerra con i Corleonesi di Totò Riina. Per la moglie e le figlie del nipote di Tano niente benefici, quindi, in base alla legge in favore dei familiari superstiti delle vittime di mafia

La Cassazione ha respinto il ricorso della vedova, contro la decisione della Corte di Appello di Palermo che nel 2015 aveva negato il diritto ad accedere al fondo assistenziale istituito dal ministero dell’Interno. Secondo la Cassazione manca il requisito della «estraneità della vittima, al tempo dell’evento, ad ambienti e rapporti delinquenziali e, nella specie, al contesto mafioso».

Ricordano in proposito i giudici che la sentenza della Corte di Assise di Trapani a carico degli autori dell’omicidio di Silvio Badalamenti evidenziava «il radicato rapporto di fiducia» della vittima con suo zio, il boss Badalamenti, «fondato su presupposti non esclusivamente basati sul mero vincolo di sangue». La stessa sentenza sottolineava inoltre le «condizioni di vita e professionali» di Silvio Badalamenti quale «responsabile dell’esattoria comunale di Marsala, facente capo ai noti esponenti mafiosi Antonino e Ignazio Salvo, legati da stabili vincoli di affari coni boss».

Silvio Badalamenti era stato sicuramente ucciso dalla mafia, sembra rilevare la Cassazione, ma nell’ambito di una guerra alla quale aveva preso parte, o alla quale non era del tutto estraneo. Nel confermare il no all’accesso al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di reati di tipo mafioso, i giudici ricordano che non è sufficiente la sola incensuratezza della vittima o la non affiliazione a una cosca, ma che «vi sia la completa estraneità ad ambienti delinquenziali mafiosi, intesi in senso ampio e in modo particolarmente rigoroso laddove per vincoli, e ragioni familiari, la frequentazione di quegli ambienti sia naturalmente assidua».

Gaetano «Tano» Badalamenti fu arrestato nel novembre 1984 a Madrid ed estradato negli Stati Uniti dove fu condannato a 45 anni di carcere: morì nel 2004, a 80 anni. In Italia fu condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio del giornalista Peppino Impastato, il 9 maggio 1978 a Cinisi, dove viveva.

“Classi pericolose”, non solo mafiosi, narcotrafficanti e ladri. ENZO CICONTE, storico, su Il Domani il 20 giugno 2022

Chi dovesse oggi parlare di classi pericolose, si troverebbe nell’imbarazzo di dover scegliere tra mafiosi, narcotrafficanti, ladri, rapinatori. La scelta è molto ampia e, volendo, potrebbe includere altri soggetti o categorie. Le classi pericolose, però, non sono una categoria immobile nel tempo...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.

Chi dovesse oggi parlare di classi pericolose, si troverebbe nell’imbarazzo di dover scegliere tra mafiosi, narcotrafficanti, ladri, rapinatori. La scelta è molto ampia e, volendo, potrebbe includere altri soggetti o categorie.

Le classi pericolose, però, non sono una categoria immobile nel tempo perché hanno subito variazioni con il trascorrere dei secoli e via via si sono trasformate profondamente agli occhi di chi deteneva il potere e quindi ne determinava la pericolosità. Se gettiamo uno sguardo anche rapido a quello che è successo nei secoli passati ci accorgiamo come la nozione delle classi pericolose abbia subito delle trasformazioni a volte lente e a volte molto rapide; soprattutto ci accorgeremmo come dal Cinquecento fino ai giorni nostri si possono rintracciare non solo linee di evoluzione ma soprattutto di sconcertante continuità.

Prendiamo in considerazione la figura emblematica del povero; con essa possiamo cogliere al meglio queste modificazioni. Ad esempio, soprattutto dopo il Medioevo, il povero, che veniva considerato come il lasciapassare per il ricco di poter schiudere le porte del Paradiso facendo l’elemosina, si trasforma in una figura ambigua, oscura, persino pericolosa.

La società via via si trasforma sotto l’impulso di una borghesia che trionfa sulle altre classi sociali imponendo una nuova cultura e un diverso stile di vita, pretendendo il decoro delle città e dei comportamenti delle persone che le abitano, difendendo con ogni mezzo la proprietà e la sicurezza. L’idea che i poveri, i vagabondi e gli stranieri, e più di recente i contadini e gli operai, siano un pericolo sociale diventa pratica di governo, si trasforma in leggi, decreti, ordinanze, seleziona i soggetti che devono essere sorvegliati e, quando è il caso, messi al bando o rinchiusi lontano dal consesso civile.

Sembrano novità, tutte queste iniziative prese in molte parti del nostro paese, e invece sono molto an­tiche e sono il segno più evidente del fallimento storico di politiche rivolte a nascondere, eliminare dalla visuale, reprimere, rinchiudere mar­ginali, scarti, reietti della società, con l’illusione che così facendo il problema si risolva. Poveri e stranieri hanno subito la stessa sorte.

Essi sono stati considerati pericolosi e criminali anche quando non hanno fatto nulla per violare la legge, perché si è affermata nel corso degli anni la tendenza a definire in termini criminali problemi che hanno una forte connotazione sociale. Per questo tutte le politiche repressive a loro danno si sono rivelate un clamoroso fallimento. 

ENZO CICONTE, storico. Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Fra i suoi libri, Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza).

Mafia: in Italia due arresti al giorno e 4.300 in sei anni. Ma a finire sotto accusa è sempre l’Antimafia. È il numero di affiliati di Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta e criminalità pugliese spediti in carcere solo dai Carabinieri. Ma il governo non parla più di questa piaga. E gli avvocati-deputati propongono di limitare le confische dei patrimoni mafiosi. Paolo Biondani su L'Espresso il 10 giugno 2022.

Da anni la parola mafia sembra scomparsa dal vocabolario di governo. Se ne parla negli anniversari, alle commemorazioni degli eroi nazionali assassinati, ma come un problema del passato, un cancro che sarebbe stato debellato dopo la morte dei giudici Falcone e Borsellino, con l'inizio della riscossa dello Stato. Un'emergenza di trent'anni fa, sparita dall'agenda degli attuali ministri. Al punto che oggi in Parlamento importanti esponenti della maggioranza ormai pianificano la grande contro-riforma.

Riccardo Arena per “La Stampa” l'11 giugno 2022.  

Due arresti a distanza di 48 ore nella coalizione che candida l'ex rettore Roberto Lagalla a sindaco di Palermo: dopo il caso di Pietro Polizzi nelle fila di Forza Italia, a finire in carcere ieri è stato un esponente di Fratelli d'Italia, Francesco Lombardo, inserito nella lista che corre per il Consiglio comunale. 

Anche lui è accusato di voto di scambio politico-mafioso, per avere chiesto preferenze a Vincenzo Vella, boss di corso dei Mille temporaneamente fuori dalle patrie galere. Sembra un arresto-fotocopia di quello di Pietro Polizzi, candidato nella lista di Forza Italia, fermato mercoledì con un altro capomafia, Agostino Sansone, tra l'altro fratello del padrone della lussuosa villa in cui abitava Totò Riina. Di nuovo si scatena il putiferio, quando ormai mancano poche ore all'apertura delle urne che, a Palermo, decideranno chi sarà il successore dell'eterno Leoluca Orlando.

Nel suk elettorale del capoluogo siciliano, in una campagna segnata da polemiche e veleni sul ruolo di Cosa nostra, a partire dal ruolo svolto da Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro, il centrodestra aveva avuto un attimo di respiro ieri mattina, dopo che su La Stampa era stata pubblicata la storia di Nicola Piranio. Lui, figlio di Biagio detto Gino, è candidato alla VI Circoscrizione con la lista Progetto Palermo, diretta emanazione del candidato sindaco di centrosinistra, Franco Miceli: il padre però è in carcere da maggio 2020, manco a dirlo, con l'accusa di mafia.

Piranio, visto il clamore, si era affrettato a rendere pubblica la propria abiura rispetto al genitore, «con cui non ho rapporti da vent' anni». Poi, da caporalmaggiore dell'Esercito, si era definito uomo dello Stato e lontano dalla mafia: insomma, ce n'era quanto bastava perché l'aspirante primo cittadino Miceli lo definisse un novello Peppino Impastato, il militante di Democrazia proletaria ucciso nel 1978, figlio a sua volta di un mafioso di Cinisi.

Lagalla e i suoi avevano replicato facile, evocando il doppiopesismo della sinistra, implacabile con i nemici e indulgente con i propri uomini e donne. Poi però nel pomeriggio è piombato il nuovo arresto, a complicare la corsa di Lagalla verso Palazzo delle Aquile.

Francesco Lombardo era vicepresidente del Consiglio comunale di Villabate, un paesone dell'hinterland, e per tentare la scalata a Sala delle Lapidi si era dimesso. Poi era andato da Vella: fuori per un cavillo nonostante una pesante condanna, il mafioso era ovviamente monitorato dalla Squadra mobile, così come Agostino Sansone nel caso di Polizzi. La notizia dei nuovi arresti è stata diffusa poco prima che Lagalla, nella multisala Politeama, facesse l'ultimo appello prima del silenzio pre-elettorale: imbarazzato, colpito, dice che si dimetterà «da sindaco se emergeranno nomi di impresentabili dall'indagine dell'Antimafia e i partiti non li faranno dimettere».

Con lui ci sono Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa: «La magistratura - dice l'esponente meloniano - avrebbe potuto aspettare qualche giorno in più vista la vicinanza con il voto, ma i pm avranno avuto esigenze cautelari, magari». Esigenze consistenti nella necessità di fermare il patto elettorale politico-mafioso. Quello che appare come un assist giudiziario al centrosinistra viene sfruttato al volo: «Lagalla si ritiri», dice il vicesegretario nazionale del Pd Giuseppe Provenzano. E Giuseppe Conte: «Noi incontriamo la gente che non arriva a fine mese, loro i mafiosi». Lagalla ovviamente resta in lizza, però il conto è pesante.

Alessandro Di Matteo per "La Stampa" l'11 giugno 2022.  

Sono 18 gli "impresentabili" alle elezioni comunali, secondo le verifiche della commissione parlamentare Antimafia e ben 10 sono candidati in liste civiche. È questo il risultato dei controlli su 19.782 candidature annunciato da Nicola Morra, ex M5s, presidente della commissione. Tra i partiti il record negativo spetta a Forza Italia (4 impresentabili), poi ci sono Fdi, Pd, Noi con l'Italia e Cambiamo con Toti, con un nome ciascuno.

Sono candidati bocciati in base al codice di autoregolamentazione, ma ai quali non viene impedito di presentarsi alle elezioni: si tratta perlopiù di persone che hanno processi in corso, ma non ancora sentenze definitive, per reati come corruzione, riciclaggio, concussione, traffico di rifiuti e via dicendo. Un bilancio che Morra commenta parlando di «situazioni imbarazzanti» e di «numero cospicuo», sottolineando che c'è stato un «aumento del 65%» rispetto alla volta precedente. Ma con numeri così piccoli è abbastanza poco significativa la variazione percentuale.

Semmai è significativo che rapportando il dato sul totale dei controlli si ottiene che risultano "impresentabili" lo 0, 09% dei candidati esaminati.

Tra le città è Palermo a contare il maggior numero di "bocciati", in tutto 4, seguita da Frosinone con 3, 2 a Mondragone (Caserta) e 2 in provincia di Cosenza. Un "impresentabile" anche a Ciampino (Roma), uno a Gorizia, uno a Barletta, uno a Verona, uno a Piacenza, uno ad Ardea (Roma) e uno a Taranto.

A Frosinone, in particolare, è finito nella lista addirittura un candidato sindaco, Mauro Vicano, che si presenta con la lista "Per Frosinone se vuoi si fa": nei suoi confronti, sottolinea la commissione, risulta emesso un decreto che dispone il giudizio per «attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti». «Mai nascosto il procedimento, sono sicuro che ne uscirò estraneo» commenta Vicano. A Palermo, invece, c'è Francesco La Mantia ("Noi con l'Italia"), condannato in primo e secondo grado con un giudizio poi annullato dalla Cassazione, che ha rinviato tutto alla Corte d'appello, che parla di «un errore clamoroso».

Sempre a Palermo, Salvatore Lentini di "Alleanza per Palermo", rinviato a giudizio per tentata concussione. E proprio nel capoluogo siciliano ci sono Giuseppe Milazzo, Fdi, rinviato a giudizio per concussione, e Giuseppe Lupo, Pd, anche lui a processo per corruzione. «Non ho nulla da vergognarmi - dice Milazzo -. È vergognoso essere in una lista definita di impresentabili senza mai essere stato condannato in primo grado». Franco Mirabelli, Pd, membro della commissione Antimafia assicura «pieno sostegno a Lupo: non può esserci un automatismo che porta a cancellare la credibilità di una figura come lui».

Morra se la prende con i partiti: «Ci saremmo aspettati ben più collaborazione, non hanno facilitato queste verifiche. Ci siamo dovuti affidare al duro lavoro degli uffici giudiziari». Giuseppe Brescia, M5s, è contento: «Non ci sono nomi del Movimento 5 Stelle tra i 18 impresentabili». Lo stesso dice Gennaro Migliore, Iv: «Mi fa piacere che non c'è nessuno di Iv. Vuol dire che basta essere più attenti»

C'è anche un candidato sindaco a Frosinone. Elezioni, l’Antimafia di Morra dà “patenti di legalità”: 18 gli “impresentabili” candidati. Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Giugno 2022. 

La Commissione parlamentare antimafia torna, come in ogni appuntamento elettorale, a dare “patenti di legalità”. Secondo l’ex grillino Nicola Morra sono 18 i candidati alle elezioni amministrative di domenica “impresentabili” secondo il codice di autoregolamentazione dei partiti e la legge Severino, su un totale di 19mila candidati presi in considerazione dalla Commissione.

Un numero che arriva con una premessa, ha spiegato lo stesso Morra, ovvero che “sono arrivate delle note di rettifica anche nel pomeriggio e che provvederemo a rettificare i giudizi di impresentabilità anche lunedì”.

Il caso più particolare arriva di Frosinone, dove viene giudicato “impresentabile” addirittura il candidato sindaco Mauro Vicano, per la lista ” Per Frosinone se vuoi si fa”. “È stato mandato a giudizio per traffico illecito di rifiuti“, ha spiegato il presidente della commissione antimafia Morra.

Questi nel dettaglio i nomi dei cosiddetti “impresentabili”: Acri (Cosenza): Luigi Maiorano, lista “Pino Capalbio Sindaco”; Barletta: Antonio Comitangelo, “Forza Italia Berlusconi per Cannito”; Belvedere Marittimo (Cosenza): Carmelina Carrozzino, lista “Niti per Belvedere” che sostiene il candidato sindaco Filicetti; Ciampino (Roma): Ernesto Garofano, lista “Ideale per Ciampino” che sostiene il candidato sindaco Colella; Frosinone: Patrizia Giannoccoli, lista “Frosinone capoluogo” che sostiene il candidato sindaco Mastrangeli; Frosinone: Giuseppe Patrizi, lista “Piattaforma civica ecologistica” che sostiene il candidato sindaco Marzi; Frosinone: Mauro Vicano, candidato sindaco per la lista “Per Frosinone se vuoi si fa”; Gorizia: Silvana Romano, “Forza Italia Berlusconi per Ziberna”; Mondragone (Caserta): Patrizia Barbato, lista “Città futura” che sostiene il candidato sindaco Lavagna; Mondragone (Caserta): Antonio Valenza, “Forza Italia”, che sostiene il candidato sindaco Pagliaro; Palermo: Francesco La Mantia, “Noi con l’Italia- Noi di centro- Mastella” che sostiene il candidato sindaco Lodato; Palermo: Salvatore Lentini, “Alleanza per Palermo- Movimento di iniziativa popolare”., che sostiene il candidato sindaco Lagalla; Palermo: Giuseppe Lupo, Partito democratico, che sostiene il candidato sindaco Miceli

Il caso Palermo

A Palermo gli “impresentabili” sono Totò Lentini, Giuseppe Milazzo e Francesco La Mantia per il centrodestra; Giuseppe Lupo per il Pd. Elezioni a Palermo già scottate dal doppio arresto in pochi giorni di due candidati consiglieri: Pietro Polizzi, di Forza Italia, e Francesco Lombardo, di Fratelli d’Italia. 

Proprio rispetto a queste due vicende, Morra ha sottolineato che i due candidati arrestati “sarebbero stati presentabilissimi ai sensi del Codice Bindi di autoregolamentazione e della legge Severino. Il mio invito agli elettori è pertanto a usare la massima attenzione al momento del voto”.

Il richiamo ai partiti

Morra ha duramente richiamato i partiti, evidenziano che la Commissione “si sarebbe aspettata ben più collaborazione dai partiti che non hanno facilitato queste verifiche, in quanto avrebbero potuto inviare prima gli elenchi dei candidati e darci il tempo utile per fare le verifiche in tempi ragionevoli. Ci siamo dovuti affidare al duro lavoro degli uffici giudiziari, che seppur con organici spesso deficitari sono riusciti ad inviarci i nominativi con non poche difficoltà. Successivamente la Procura Nazionale Antimafia ha fatto un ulteriore lavoro in tempi assai celeri, lasciandoci infine l’onere di approfondire e perfezionare tutte le verifiche per offrire ai cittadini la possibilità di scegliere con consapevolezza”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Attilio Bolzoni per editorialedomani.it il 29 settembre 2022.

Tutto è cominciato al Grand Hotel et des Palmes e tutto è finito lì, fra i velluti e gli specchi dei suo saloni dove a inizio estate Marcello Dell'Utri ha benedetto Roberto La Galla sindaco di Palermo e dove ieri Renato Schifani ha ringraziato giustamente chi doveva ringraziare. 

Con meticolosa precisione: Totò Cuffaro, Raffaele Lombardo, Saverio Romano, la trimurti che lo ha portato a diventare il governatore della Sicilia. Un bell’ambientino. Qualcuno condannato per reati di mafia e altri che se la sono cavata per il rotto della cuffia, compreso lui stesso, Schifani, graziato per le sue pericolose frequentazioni criminali ma nell'isola ormai meglio noto come “il professore Scaglione”, misterioso personaggio che compare con quel nome in codice nei diari di un agente segreto.

Il primo pensiero dell’ex senatore Renato Schifani, dell’ex presidente di Palazzo Madama Renato Schifani, dell’attuale “professore Scaglione” e dell’attuale presidente della Sicilia o anche dell’attuale imputato Renato Schifani è andato agli amici. 

Essere "un amico” in Sicilia può assumere i significati più disparati e insoliti per altri luoghi (lascio alla vostra immaginazione, io mi astengo) ma c'è anche un proverbio popolare che dice: “Amico e guardati”. Stai attento.

L’imputato Schifani deve stare attento agli amici con “certificato” che lo circondano e agli altri che stanno nei paraggi, l’imputato Schifani deve stare attento anche al suo processo di Caltanissetta dove è alla sbarra per associazione a delinquere e con l’accusa di avere veicolato notizie segrete per salvare dal carcere l’ex presidente di Confindustria Antonello Montante.

Sicuramente si sarà fatto i suoi conti prima di candidarsi, sicuramente avrà ricevuto assicurazioni e garanzie, sicuramente avrà intuito che quel processo di Caltanissetta esasperatamente lento finirà in prescrizione. Ma le variabili non è che si possono sempre prevedere. In Sicilia, più che altrove, gli imprevisti sono in agguato. Vedremo cosa riserverà Renato Schifani ai siciliani e cosa il destino riserverà a lui. 

Con la sua trionfale elezione (il 42 per cento dei voti, secondo l’ex sindaco di Messina Cateno De Luca che dal niente ha raccolto un sorprendente 24,5 di consensi) il cerchio si è chiuso. A giugno Palermo nelle mani di una creatura di Totò Cuffaro, a settembre la Regione nelle sue mani. Dalle amministrative della capitale e dalle regionali esce una verità incontestabile: i padroni dell'isola di trent’anni fa sono padroni anche oggi

È una classe dirigente che non si è mai arresa e che, con molta intelligenza ed esperienza, ha seguito alla lettera lo spirito di un altro detto siciliano: “Càlati juncu ca passa la china”, piegati giunco fino a quando la piena non passa. Altra versione con medesimo significato: “Quando tira vento fatti canna”.

Cosa che hanno fatto tutti i vincitori delle consultazioni elettorali estate-autunno 2022, dopo gli anni infami che avevano passato nelle carceri di Rebibbia e di Parma o nei lunghi corridoi della procura della repubblica di Palermo insieme ai loro avvocati. Sono stati pazienti, astuti, raffinati calcolatori.

Quando la piena è passata, quando il ricordo delle stragi del 1992 era sempre più lontano, quando la magistratura si è mostrata sempre più sensibile a colpire i macellai di Cosa Nostra e sempre meno gli abitanti dei palazzi loro sono tornati. E si sono ripresi ciò che hanno sempre considerato una proprietà privata: Palermo e la Sicilia.

Ciascuno con il suo stile e con il suo passato, perché il profilo del sindaco La Galla è uno e quello di Schifani un altro. Ma si vogliono comunque molto bene. Amici. Tutti però, hanno rispolverato – fuori tempo massimo? – la loro ricetta antimafia.

Il sindaco di Palermo in questi mesi è sembrato un piccione viaggiatore, sempre in volo ogni giorno a farsi il segno della croce davanti alle tante lapidi della città, un mazzo di fiori per far dimenticare che il 23 maggio, giorno dell’anniversario dell’uccisione di Giovanni Falcone, il sindaco di Palermo – lui – non c’era.

Il nuovo governatore della Sicilia, che già all'apertura della campagna elettorale aveva suscitato ilarità con una battuta effervescente («Forza Italia è il partito che più di altri si è battuto contro la mafia e che ha avuto il coraggio di fare approvare leggi contro la criminalità») neanche due ore dopo la certezza della sua incoronazione a Palazzo d’Orlèans si è presentato ai giornalisti dichiarando: «Istituirò una conferenza di servizi, composta da uomini dello stato, come ex magistrati, possibilmente non siciliani, per darci una mano contro le infiltrazioni mafiose nel Piano nazionale di resistenza e resilienza».

Possibilmente non siciliani? E di dove? Svizzeri, ugandesi, canadesi, cecoslovacchi? «Devono però essere estranei al nostro territorio, noi non ci vogliamo sottrarre alle verifiche», ha aggiunto per ribadire che pm siciliani fra i piedi non ne vuole avere. Magnifico. I magistrati li sceglierà lui per controllare quello che fa lui. Cominciamo bene. La parolina magica Schifani l'ha pronunciata: Pnrr. È il piatto ricco che sta scatenando gli appetiti di tutti.

Questi maggiorenti siciliani che hanno riconquistato la Sicilia si portano sulla pelle un marchio o un nomea tutta speciale. È difficile che possano cancellare l'una e l'altra, anche con quel 42 per cento di voti, comunque nulla di paragonabile al famoso 61 a 0 del 2001 quando Forza Italia espugnò tutti i collegi siciliani lasciando a secco gli avversari. 

Oggi Forza Italia è nell’isola solo il quinto partito. Particolare curioso: nella Sicilia che tanto ha dato a Berlusconi, Renato Schifani è il primo governatore di Forza Italia.

Che dicono oggi gli altri della trimurti? Totò Cuffaro, capo della Nuova democrazia cristiana, quello che aveva giurato – appena uscito dal carcere dopo cinque anni di pena per concorso esterno in associazione mafiosa – che sarebbe andato in Africa ad aiutare i bambini orfani del Burundi, ha preferito parlare di sé stesso in terza persona: «Cuffaro è tornato. Chiedetevi il perché abbiamo avuto il sette per cento. Non è colpa mia se la gente vota Cuffaro e non il Pd. Vuol dire che la nostra proposta è convincente e c’è bisogno di noi».

Saverio Romano, ex ministro dell’Agricoltura originario del comune palermitano di Belmonte Mezzagno, rieletto alla Camera nel collegio di Bagheria, al momento è in silenzio stampa. Raffaele Lombardo, ex governatore della Sicilia da qualche mese sopravvissuto a una delicata inchiesta antimafia, se la prende con i sondaggisti e obliquamente con Cateno De Luca che nelle ultime settimane gliene ha dette di tutti i colori a lui e ai suoi coimputati nell'indagine di Catania dove era stato trascinato.

Per capire un po’ di più cosa è accaduto in Sicilia in queste elezioni fermiamoci un attimo su Lombardo. Lo ha ringraziato Renato Schifani per l’apporto alla sua elezione ma, sino a un mese fa, insieme a lui voleva tentare la scalata alla regione la candidata del centrosinistra Caterina Chinnici.

Di Lombardo era stata assessore per quattro anni dal 2008 al 2012, un governo double face, magistrati (come la Chinnici) e fedelissimi del famigerato Montante, un gioco degli specchi. Quindi: Lombardo va bene all'imputato Schifani e andava bene a Chinnici, era ed è buono per il rappresentante di Forza Italia che frequentava gentaglia di mafia quando esercitava la professione di avvocato ed era ed è buono per la giudice figlia del consigliere istruttore Rocco Chinnici che la mafia ha fatto saltare in aria il 29 luglio del 1983.

Chiamiamola confusione per mantenerci in equilibrio (forzato), ma com’è possibile che non ci sia distanza intorno a Lombardo fra Renato Schifani e Caterina Chinnici? Senza fare salti mortali una risposta netta ce la serve il risultato del Pd in Sicilia: 12,7 per cento.

Un disastro, il peggior risultato elettorale di sempre. Pare che fra il 25 e il 26 settembre il Pd non abbia aperto neanche il suo comitato elettorale per seguire ora dopo ora lo spoglio. Il segretario regionale Anthony Barbagallo era nel suo paese, Pedara, in provincia di Catania. Caterina Chinnici a casa sua, a Caltanissetta.

Un ultimo dato per addentrarci ancora di più nella realtà della Sicilia. Riguarda i Cinque stelle, ancora il primo partito in Sicilia ma solo alle elezioni politiche: intorno al 30 per cento. Alle regionali però il movimento di Conte è al quarto posto e, soprattutto, al 15 per cento. La metà dei voti.

Per finire ecco l'omaggio del sindaco di Palermo Roberto La Galla al nuovo governatore: «Le mie congratulazioni vanno all’amico Renato Schifani, al quale rinnovo tutta la mia stima e che, potendo contare su una lunga esperienza politica e istituzionale, sarà certamente un eccellente presidente della regione e un’autorevole guida per la Sicilia». Les jeux sont faits.

La riconquista della Sicilia di Renato Schifani e quei complimenti di Riina. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 agosto 2022

I vecchi padroni si stanno riprendendo la “loro” Sicilia. A Palermo governa da due mesi l'ex magnifico rettore Roberto Lagalla, creatura politica dell'ex governatore Totò Cuffaro

La regione rischia di finire nelle mani di questo ex sconosciuto avvocato con un passato di frequentazioni davvero poco raccomandabili

Tutti contenti nel centrodestra, tutti zitti (come sempre) a sinistra. Tante le accusa che pesano sulll’ex presidente del Senato. Intercettato in carcere, Riina disse di lui: “È una mente”

Ma come lo dovremo chiamare se il 25 settembre diventerà governatore della Sicilia? Renato Schifani o “Mastro”, come veniva citato in codice nel diario di un agente dei servizi segreti coinvolto nell'indecente vicenda Montante? Renato Schifani o “Professore Scaglione”, come lo menzionavano alcuni personaggi di un maleodorante sottobosco politico e spionistico sempre finiti nell'inchiesta giudiziaria sulle criminali scorribande dell'ex vicepresidente di Confindustria?

Mai menzionato con il suo nome, mai una volta. In versione più o meno criptata, è possibile che Renato Schifani (così è registrato all'anagrafe) ce lo ritroveremo sulla poltrona più alta di Palazzo d'Orléans, la sontuosa settecentesca sede della regione siciliana. Almeno se il centrodestra resisterà all'annunciata valanga di Cateno De Luca, l’ex sindaco di Messina, il Masaniello siculo che sta raccogliendo promesse di voto e candidati in ogni comune dell'isola.

LA RICONQUISTA DELLA SICILIA

Come era ampiamente previsto, in questa primavera-estate del 2022 i vecchi padroni si stanno riprendendo la “loro” Sicilia. A Palermo governa da due mesi l'ex magnifico rettore Roberto Lagalla, creatura politica dell'ex governatore Totò Cuffaro che - insieme al senatore Marcello Dell'Utri - gli ha consegnato le chiavi del Comune. Per sponsor due condannati per reati di mafia. La regione finirà nelle mani di questo ex sconosciuto avvocato con un passato di frequentazioni davvero poco raccomandabili e che, grazie a Berlusconi è diventato presidente del Senato nel XVI legislatura.

Sembra che i giochi siano fatti anche in Sicilia. Sino all'ultimo, il suo compagno di partito Gianfranco Micciché aveva puntato sull’ex ministra Stefania Prestigiacomo, sua amica da sempre. Ma alla fine, nella rissa che si stava scatenando con Fratelli d'Italia e Lega, Micciché ha preferito cedere su Schifani pur di non rivedere a Palazzo d'Orlèans l’odiatissimo governatore uscente Nello Musumeci.

Tutti contenti o quasi nel centrodestra in Sicilia, tutti zitti (come sempre) nel centrosinistra. E, insieme, fanno finta di niente sull'accusa per associazione a delinquere e violazione di segreto che pesa sulla testa del "professore Scaglione”. E' uno degli imputati a Caltanissetta del processo Montante, sospettato con l'ex capo dei servizi segreti Arturo Esposito e con il tributarista Angelo Cuva di avere veicolato informazioni riservate proprio su Calogero Antonio Montante detto Antonello. L'inchiesta sull'ex vicepresidente di Confindustria era appena all'inizio e c'era un “mondo” che si dava gran da fare per cattura notizie sull'indagine, in quel "mondo” c'era anche l'ex presidente del Senato che oggi si vuole fare incoronare governatore della Sicilia.

RECUPERO CREDITI

Fedelissimo di Berlusconi fin dalla prima ora, un paio d'anni con Angelino Alfano nel Nuovo Centro Destra e poi il ritorno ad Arcore. Prima della sua straordinaria avventura politica era “Il Principe del Foro dei recuperi crediti” (battuta velenosissima di Filippo Mancuso, ex procuratore generale della Cassazione e ministro della Giustizia nel governo di Lamberto Dini nel 1995) per la sua attività palermitana di civilista esperto in diritto amministrativo, attività che Schifani era costretto a svolgere in un ambiente assai difficile che lo portava ad avere pericolosi contatti. E, proprio per queste relazioni sul confine, fu iscritto nel registro degli indagati per concorso esterno. Anche in quell'occasione, destino beffardo, i magistrati non usarono il suo nome ma un altro per iniziare le indagini nei suoi confronti: “Schioperatu”.

L’ARCHIVIAZIONE PER MAFIA

Due anni di investigazioni e poi l'archiviazione: «Sono emerse talune relazioni con personaggi inseriti nell’ambiente mafioso o vicini a detto ambiente nel periodo in cui lo Schifani era attivamente impegnato nella sua attività di avvocato» che però “non assumono un livello probatorio minimo per sostenere un’accusa in giudizio tanto più che, a prescindere dalla consapevolezza dell’indagato dell’effettiva caratura mafiosa dei suoi interlocutori, tali condotte si collocano per lo più in un periodo ormai lontano nel tempo fatti per i quali opererebbe, in ogni caso, la prescrizione”.

I rapporti c’erano ma troppo lontani nel tempo: l'inizio degli Anni Novanta, appena prima della fondazione di Forza Italia. Il profilo del personaggio è questo, né più né meno. Se n'è accorto persino il vecchio Totò Riina. In uno dei suoi sproloqui nel carcere di Opera intercettati da una microspia, il capo dei capi ha manifestato la sua stima: «Renato Schifani è una mente». E se l'ha detto lui, significherà pur qualcosa o no?

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

DOPO LE ELEZIONI COMUNALI. Palermo, il sindaco Roberto Lagalla sembra la fotocopia di Totò Cuffaro. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 23 giugno 2022

Giochi di prestigio. Si prende l'appoggio di Cuffaro e gli endorsement di Dell'Utri, fa il pieno anche nei quartieri - Uditore e Brancaccio - dove hanno pizzicato i due candidati catturati per voto di scambio e poi il 21 giugno, primo atto ufficiale da sindaco, va a deporre una corona di fiori al monumento dei caduti contro la mafia,

Nel  momento della proclamazione ufficiale  ha invocato la Santuzza, la patrona di Palermo: «Santa Rosalia aiutaci tu».

Assessori e vicesindaco, una partita che s’incastra con lo scenario delle elezioni regionali d'autunno, lo scontro fra Gianfranco Micciché e l'attuale governatore Nello Musumeci, il duello fra la Meloni e Salvini a Roma.

I gatti neri saranno d'ora in avanti l'incubo degli autisti del comune di Palermo, come per anni lo sono stati per quelli della regione siciliana quando lui era assessore alla Sanità e poi anche all'Istruzione. Se ce n'è uno che taglia la strada, di gatto nero, non si passa. Si torna indietro, a costo di infilarsi nel traffico infernale e rifare il giro della città.

Così, per scaramanzia, “il professore” non si è messo addosso la fascia tricolore nemmeno la mattina di venerdì 17 giugno come prevedeva il protocollo e ha preferito rimandare la cerimonia a lunedì 20.

Tanto cambiava poco: giorno più o giorno meno l'ex magnifico rettore Roberto Lagalla era ormai diventato il nuovo re di Palermo. Essenza pura di borghesia palermitana, allievo del collegio gesuitico del Gonzaga - la scuola che sforna da sempre le classi dirigenti della capitale della Sicilia - è un vecchio democristiano che può essere indicato senza timore di smentita una “creatura” politica dell'ex governatore Totò Cuffaro.

LA CONTINUITÀ NELLA DIVERSITÀ

È la continuità nella diversità, un gioco di parole che non disorienta più di tanto i siciliani ma al contrario esalta l'orgoglio degli ispiratori dell'”operazione” che ha trionfalmente scaraventato a Palazzo delle Aquile questo medico specialista in radiologia e radioterapia nonostante il disturbo di certe voci, compresi imbarazzanti legami familiari acquisiti - da parte di moglie - che l'interessato definisce «parentele prive di qualsivoglia frequentazione». C'è da credergli. Come c'è da prendere atto che la sua conquista del comune è stata più facile del previsto: Palermo aveva bisogno di Lagalla e Lagalla aveva bisogno di Palermo. Semmai il difficile viene ora.

Con più di mille bare accatastate al cimitero dei Rotoli che buttano veleni e a volte pure scoppiano per il gran caldo, con centonovantamila tonnellate di rifiuti che ristagnano e imputridiscono nella spaventosa discarica di Bellolampo, nel solenne momento della proclamazione ufficiale il neo sindaco non poteva fare altro che invocare la Santuzza, la patrona di Palermo: «Santa Rosalia aiutaci tu».

Dopo il sostegno spericolato del vecchio amico Totò e il versetto satanico pronunciato in suo favore dal senatore Marcello Dell'Utri, l'ex magnifico rettore cerca anche soccorso divino.

Si porta appresso il peso di quasi centomila voti (esattamente 98.574) conquistati al primo turno con il 47,68 per cento dei consensi, voti però che sarebbero stati sicuramente di più se in piena campagna elettorale non avessero arrestato due candidati del centrodestra per patti mafiosi, e se la partita allo stadio della Favorita per la promozione in B della squadra di calcio l'avessero anticipata o posticipata.

La diserzione dei presidenti di seggio ha danneggiato lui e soltanto lui. Veleggiava intorno al 57 o al 58 per cento, nell'ultima settimana qualche gatto nero gli ha attraversato la strada a tradimento.

VOTI DI MAFIA E VITTIME DI MAFIA

Per Palermo comunque è cominciata una nuova era dopo ventuno anni di Leoluca Orlando, città perduta e rinata e che mai avrebbe immaginato di tornare al punto di partenza.

Definirla una svolta epocale non è retorica, Roberto Lagalla incarna in tutto e per tutto il passato, è un vestito nuovo infilato sopra un vestito di trenta, quarant'anni fa. Giochi di prestigio.

Lui che si prende l'appoggio di Cuffaro e gli endorsement di Dell'Utri, che fa il pieno anche nei quartieri - Uditore e Brancaccio - dove hanno pizzicato i due candidati catturati per voto di scambio e poi il 21 giugno, primo atto ufficiale da sindaco, va a deporre una corona di fiori al monumento dei caduti contro la mafia, un pezzo di ferro arrugginito in piazza XIII Vittime, scultura detestata dai palermitani per la sua astrazione e anche la sua bruttezza.

Ma poco importa l'arte, conta piuttosto il doppio passo di Lagalla: «La mia presenza qui credo che sia doverosa. Spero serva a chiudere definitivamente un capitolo che ha avvelenato dolorosamente la campagna elettorale, ora è il tempo dei fatti e di dimostrare tensione civile».

È partita una piccola contestazione dei ragazzi del collettivo Our Voice e tutto è finito lì. Roberto Lagalla si presenta candidamente come la fotocopia di Totò Cuffaro. Prende i voti dai condannati di mafia e onora le vittime di mafia.

Preciso come a Totò che, appena indagato per reati di mafia, ha fatto coprire i muri delle città e dei paesi dell'isola con manifesti dove c'era scritto “la mafia fa schifo”. Il copione è sempre lo stesso, è il gioco delle tre carte.

GLI ASSESSORI E IL VICESINDACO 

Da qualche giorno un tam tam riporta che, una volta sindaco, l'ex magnifico rettore non avrebbe intenzione di nominare nella sua giunta assessori vicini a Cuffaro (la sua lista ha superato lo sbarramento del 5 per cento e la sua Nuova Democrazia Cristiana può contare su 3 consiglieri), un tentativo per prendere distanza dallo sponsor che ha marchiato la sua campagna elettorale. Vero? Falso? È solo un magheggio: assessori o non assessori Cuffaro è lì accanto al “professore”.

Lui promette un governo della città di “alto profilo”, al Bilancio e all'Urbanistica andranno due tecnici, per il resto è tutto in ballo. Tantissimi nomi per pochissimi posti.

Il centrodestra che intorno a Lagalla si era riunito adesso intorno Lagalla si divide nella spartizione delle poltrone.

Le voci parlano di Rosi Pennino alle Attività Sociali e Ottavio Zacco per Forza Italia che nella sua lista è stato il primo degli eletti, di Giuseppe Milazzo per Fratelli d'Italia, un assessorato toccherebbe pure alla Lega che è entrata in consiglio comunale con tre dei suoi con il simbolo Prima l'Italia.

Il vero problema però è la scelta del vicesindaco, visto che i due pretendenti erano entrambi candidati come numeri uno. Si sono clamorosamente ritirati in piena campagna elettorale, quando le loro facce erano ancora su tutti i cartelloni.

Uno è Franco Cascio, lanciato personalmente da Gianfranco Micciché. L'altra è Carolina Varchi, voluta fortemente da Giorgia Meloni che poi si è riconvertita su Lagalla. Chi dei due aspiranti sindaci farà il vice?

L’INCASTRO CON LE ELEZIONI REGIONALI

È una partita palermitana che s'incastra con lo scenario delle elezioni regionali d'autunno, lo scontro fra Gianfranco Micciché e l'attuale governatore Nello Musumeci, il duello fra la Meloni e Salvini a Roma.

Se fino a qualche giorno fa la ricandidatura di Musumeci sembrava molto probabile (a maggio è andato a genuflettersi anche davanti a Marcello Dell'Utri, che riceveva nei saloni del Grand Hotel et des Palmes), oggi è lo stesso governatore che annuncia «di togliere il disturbo».

Ci sono troppe spaccature sul suo nome. Per vincere sicuri nel centrodestra dovranno virare su un altro candidato, il favorito si dice che sia Raffaele Stancanelli. Attualmente eurodeputato è stato sindaco di Catania dal 2008 al 2013, fra i fondatori con Musumeci di Diventerà Bellissima è passato poi con Fratelli d'Italia. Punta su di lui anche un personaggio politico che ha ancora potere più di come sembra, l'ex governatore Raffaele Lombardo, dietro le quinte sempre decisivo nelle grandi scelte della regione.

L'individuazione del candidato perfetto è obbligata per il centrodestra, altrimenti rischia di perdere. Perché sulla Sicilia si sta abbattendo una nuova tempesta che ha origine a Messina.

È il fenomeno Cateno De Luca, ex sindaco della città sullo Stretto che si è dimesso da primo cittadino, imponendo al suo posto lo sconosciuto funzionario comunale Federico Basile che al primo turno ha sbaragliato gli avversari con quasi il 45 per cento dei voti. Cateno De Luca, già al parlamento siciliano con il Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, sta tentando la scalata a governatore.

IL “MASANIELLO” MESSINESE

Ex sindaco anche di due piccoli comuni della provincia messinese, Fiumedinisi e Santa Teresa di Riva, coinvolto in alcune inchieste giudiziarie dalle quali è uscito senza macchia, De Luca è una sorta di "Masaniello” siciliano protagonista di clamorose proteste e pittoresche esibizioni.

Come quella volta che si gli promisero un posto nella commissione Bilancio dell'Assemblea regionale e poi non lo ottenne, così chiamò i giornalisti e iniziò a fare uno striptease davanti alle telecamere. Restò completamente nudo, le parti intime avvolte da una bandiera giallo-rossa della Trinacria, in una mano la Bibbia e nell'altra un Pinocchio di legno.

Dal centrodestra hanno provato a blandirlo ma lui ha risposto: «Non mi interessano i compromessi, la proposta della mia Sicilia Vera e il nostro progetto politico non possono essere barattati». Volenti o nolenti tutti devono misurarsi con “Scateno De Luca” e la sua potenza elettorale.

È questa l'aria che tira in Sicilia. Gli amici di Totò Cuffaro già piazzati a Palermo per l'estate, il variopinto mondo del politico spogliarellista all'assalto del resto dell'isola in autunno.

Il ritorno di Vasa-vasa. Report Rai PUNTATA DEL 20/06/2022 di Luca Bertazzoni. Collaborazione di Edoardo Garibaldi

Gli ultimi giorni di campagna elettorale a Palermo con gli arresti per scambio elettorale. 
Alla vigilia delle elezioni per il sindaco di Palermo, sono scesi in campo schierandosi a favore del candidato di centrodestra Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, condannati in via definitiva il primo per favoreggiamento verso esponenti mafiosi e il secondo per concorso esterno in associazione mafiosa. L'inchiesta racconterà gli ultimi giorni di campagna elettorale a Palermo con gli arresti per scambio elettorale politico-mafioso a poche ore dal voto.

IL RITORNO DI VASA VASA di Luca Bertazzoni Collaborazione di Edoardo Garibaldi Immagini di Cristiano Forti Ricerca immagini di Alessia Pelagaggi Montaggio di Igor Ceselli

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A due giorni dal voto per l’elezione del sindaco di Palermo, il compleanno di una candidata al consiglio comunale diventa una passerella per l’ex governatore della Sicilia Toto’ Cuffaro. Detto vasa-vasa.

LUCA BERTAZZONI Ma ci credete al ritorno di Cuffaro, dico?

UOMO Almeno speriamo. È una degna persona.

LUCA BERTAZZONI Però qua c’è una condanna definitiva di Cuffaro.

UOMO Sì, praticamente è definitiva, finita.

LUCA BERTAZZONI Quindi è legittimo questo ritorno in politica?

UOMO Però ritornerà e non farà mai gli stessi errori, penso.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pensa o spera, vabbè comunque… Roberto Lagalla, ex rettore dell’Università di Palermo, si è aggiudicato le elezioni, è diventato sindaco di Palermo con il 47,6 percento dei consensi. Questo perché la legge siciliana consente di evitare il ballottaggio se superi il 40 percento. Ha raccolto l’eredità di Leoluca Orlando. Ma la notizia di queste elezioni siciliane è l’ascesa e il ritorno in campo di Totò Cuffaro, l’ex governatore, che per l’occasione ha anche rispolverato l’usato garantito: il simbolo della Democrazia Cristiana. Ora qualcuno lo definisce anche il padre nobile della candidatura di Roberto Lagalla. Ma non è stato il solo a dispensare consigli e ha anche benedetto la candidatura di Lagalla, Marcello Dell’Utri, dopo aver scontato la sua condanna per concorso esterno alla mafia. Ora a chi chiede a Cuffaro: ma che cosa hai chiesto in cambio dell'appoggio elettorale a Lagalla, lui dice: “nulla, l’ho fatto per gli altri”. Dice di aver imparato dalla sua condanna per aver favorito la mafia, i suoi errori, insomma si è pentito e vuole essere un buon esempio. Ora però di fronte a uno che si pente, ce ne se sono altri però che la dritta via la smarriscono. Il nostro Luca Bertazzoni.

VIDEO AMATORIALE È tornata la Democrazia Cristiana, votiamo Democrazia Cristiana con Toto’ Cuffaro!

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo aver scontato una condanna definitiva a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia, Cuffaro torna in campo e sceglie l’usato sicuro: la Democrazia Cristiana.

LUCA BERTAZZONI Fa strano trovarsi qui. È un ritorno al passato?

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Può darsi che l’insieme di Cuffaro e della Democrazia Cristiana funzioni ancora.

LUCA BERTAZZONI La notizia è che quindi lei porta ancora voti, insomma, se sta qua.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Se il test andrà bene noi con la Democrazia Cristiana vogliamo partecipare alla costruzione di un “rassemblament” di centro.

LUCA BERTAZZONI Che comprende?

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Forza Italia, Italia Viva. Io penso che in questa area moderata e centrista uno di quelli che potrebbe aspirare ad avere una leadership è certamente Matteo Renzi, penso che ne abbia le qualità.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il tentativo di costruire un’area di centro più estesa in Sicilia nasce da una cena. A ottobre Matteo Renzi invita all’enoteca Pinchiorri di Firenze il coordinatore di Forza Italia in Sicilia, Gianfranco Miccichè. Sui giornali si inizia a parlare di “Forza Italia Viva”, il laboratorio siciliano per le amministrative e le regionali che potrebbe portare ad un accordo su scala nazionale. Ma un mese dopo dal palco della Leopolda Matteo Renzi lancia la candidatura di Davide Faraone a sindaco di Palermo.

MATTEO RENZI - LEOPOLDA 21 NOVEMBRE 2021 Caro Davide, Palermo ha bisogno di te e noi siamo convinti che la tua candidatura a sindaco di Palermo non sarà figlia di un “accordicchio” con qualche forza politica, ma sarà una candidatura che parla alla città di Palermo. Noi a Palermo non stiamo con Miccichè, stiamo con Davide Faraone che è una cosa diversa.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ad aprile però Faraone annuncia il suo ritiro dalla corsa a sindaco di Palermo e il suo sostegno a Roberto Lagalla, all’epoca appoggiato solo da Fratelli d’Italia, Udc e dalla Democrazia Cristiana di Cuffaro.

LUCA BERTAZZONI A una domanda su di lei come padre nobile della Democrazia Cristiana, Lagalla ha risposto: “né padre, né nobile”.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 A me non offendono quelli che hanno detto delle cose bruttissime nei miei confronti, figuratevi se mi offendo per una cosa che condivido: non sono né padre e neppure nobile.

LUCA BERTAZZONI Miccichè puntava su Cascio, arriva poi Dell’Utri che fa capire che vuole spingere per Lagalla, poi lei dà il suo ok definitivo e passa Lagalla.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Io credo che Dell’Utri sulla vicenda di Lagalla abbia influito meno di niente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In realtà l’ombra di Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, è arrivata fino in Sicilia. A fine marzo, nel centralissimo hotel delle Palme di Palermo, l’ex senatore di Forza Italia ha ricevuto tutti i big del partito per trovare una quadra sulla candidatura di Lagalla.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Si è permesso di dire Lagalla era il migliore candidato possibile. Ma questo non credo che sia una grande scoperta di Dell’Utri.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E quando il centrodestra converge compatto sull’ex rettore dell’università di Palermo, Matteo Renzi annuncia che Italia Viva non lo sosterrà. Ma i vertici locali del partito sconfessano il capo e continuano ad appoggiare Lagalla.

GIORGIO MOTTOLA Voi a Palermo appoggiate Lagalla, Italia Viva appoggia Lagalla?

MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 E stai dicendo l’ennesima cazzata perché ho detto in tutta la campagna elettorale che se vince Lagalla siamo all’opposizione. Sai benissimo che ti ho già detto in 17 lingue, testuale detto in tutti i giornali, se vince Lagalla noi siamo all’opposizione, che vuol dire…

GIORGIO MOTTOLA Mah e Dario Chinnici?

MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 …non sosteniamo Lagalla…chi sostiene Lagalla non è Italia Viva… ora c’ho soltanto una alternativa visto che è sabato alle 20, ti faccio un disegnino, però capitelo questo.

GIORGIO MOTTOLA Però nel disegnino ci fa rientrare anche Dario Chinnici e Toni Costumati.

MATTEO RENZI - - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Chi è Costumati?

 GIORGIO MOTTOLA Che sono rispettivamente il segretario di Italia Viva di Palermo…

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Dario è l’ex capogruppo di coso…

 GIORGIO MOTTOLA Di Italia Viva, e il segretario di Italia Viva, Toni Costumati, non si è dimesso, lei non ha chiesto le dimissioni…

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2014-2016 Ti ho detto chi sta con Lagalla non è Italia viva.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Toni Costumati e Dario Chinnici ad oggi risultano ancora dentro Italia Viva ed il secondo è stato eletto nel Consiglio Comunale con “Lavoriamo per Palermo”, una lista civica a fianco del centro destra e di Toto’ Cuffaro.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Io sono uscito dal carcere sette anni fa, dopo aver fatto 1768 giorni tutti per intero. So di aver pagato il mio conto con la giustizia, credo di avere tutta la possibilità di tornare, da uomo libero, a coltivare le mie passioni.

LUCA BERTAZZONI La politica quindi.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 So che non potrò candidarmi mai più, quindi io faccio una cosa per gli altri.

LUCA BERTAZZONI Però le volevo chiedere come mai un condannato in via definitiva, no, per favoreggiamento alla mafia decide alla fine di fondare un partito. Cosa trasmette lei ai suoi giovani?

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Trasmetto una cosa semplicissima. Dico loro: “volete essere dei buoni dirigenti politici? Fate esattamente il contrario di quello che ho fatto io”. Loro devono comportarsi con grande rigore morale - quello che io purtroppo nel passato non ho avuto. Non devono dare prebende, non devono fare scambio elettorale, non devono fare clientele.

LUCA BERTAZZONI Quello che ha fatto lei.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Quello che ho fatto io, del quale sono assolutamente pentito.

LUCA BERTAZZONI Però io mi ricordo all’epoca, ci siamo incontrati nel corso degli anni, che lei difendeva quel modo di fare politica. Perché io ora dovrei crederle?

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Tu puoi non credermi, non dico che devi credermi.

LUCA BERTAZZONI Perché “la mafia ci fa schifo”?

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Ho sempre detto che la mafia fa schifo. La mafia è un cancro terribile che si infiltra dappertutto e in tutti i partiti, certamente non in un partito.

LUCA BERTAZZONI Lo dice lei che è stato condannato per favoreggiamento.

TOTO’ CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001 - 2008 Lo dico io che sono stato condannato e quindi vi assicuro che la mafia fa schifo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure, la mafia è entrata a piedi uniti nella campagna elettorale a Palermo. Il 28 maggio scorso Francesco Lombardo, candidato di Fratelli d’Italia, è andato a cercare i voti di “cosa nostra” dal boss Vincenzo Vella, mafioso del quartiere Brancaccio.

RICOSTRUZIONE INTERCETTAZIONE AMBIENTALE 28 MAGGIO 2021 FRANCESCO LOMBARDO - CANDIDATO FDI AL CONSIGLIO COMUNALE DI PALERMO Se salgo io, io sono in commissione urbanistica. Hai capito che appena qua c’è un problema io salto e tu mi chiami.

VINCENZO VELLA Sì, il suolo pubblico te lo puoi sbrigare?

FRANCESCO LOMBARDO - CANDIDATO FDI AL CONSIGLIO COMUNALE DI PALERMO E certo! Non mi sono messo sempre a disposizione con voialtri a prescindere dalla politica?

VINCENZO VELLA I voti nostri tutti li prendi! Quanti ce ne vogliono?

FRANCESCO LOMBARDO - CANDIDATO FDI AL CONSIGLIO COMUNALE DI PALERMO Ce ne vogliono da 1300 a 1400.

VINCENZO VELLA Li prendi! Ciao “Sangu”.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Entrambi sono stati arrestati per scambio elettorale politico-mafioso. Stessa sorte per il candidato di Forza Italia Pietro Polizzi che ha incontrato in piena campagna elettorale il costruttore mafioso, Agostino Sansone. In diversi atti processuali, Sansone è stato indicato come assiduo frequentatore dell'abitazione di Toto’ Riina negli anni della sua latitanza. Anche perché erano vicini di casa: la villa dove hanno arrestato Sansone è attaccata a quella dove Riina si è nascosto per evitare l’arresto e che oggi è diventata una caserma dei carabinieri. Nell’incontro il candidato di Forza Italia Pietro Polizzi rassicurava il boss mafioso con queste parole: “se sono potente io...siete potenti voialtri”.

LUCA BERTAZZONI Stiamo raccontando la storia di Pietro Polizzi.

UOMO Non mi interessa.

LUCA BERTAZZONI Siccome gli incontri con il presunto mafioso avvenivano qui, volevo capire…

UOMO Ma io sono della borgata e non conosco nessuno.

LUCA BERTAZZONI Non lo conosce questo Pietro Polizzi?

UOMO 2 No, no.

LUCA BERTAZZONI Ci stiamo occupando dell’arresto del candidato di Forza Italia.

UOMO 2 Non lo conosco.

LUCA BERTAZZONI Ma stava qui.

UOMO 2 Non lo conosco.

UOMO 3 Perché non cancella la fotografia?

LUCA BERTAZZONI Ok, scusi.

UOMO 3 Ma come si permette? Chi cazzo siete per fotografare i cristiani?

LUCA BERTAZZONI Se lei ce lo dice non la fotografiamo.

UOMO 3 Adesso ti prendo la telecamera e te la rompo tutta.

LUCA BERTAZZONI Polizzi qua lo ha visto?

UOMO 4 Sì, certo.

LUCA BERTAZZONI Con questo Sansone?

UOMO 4 No. LUCA BERTAZZONI Sansone era un mafioso.

UOMO 4 Non lo so, Sansone…ci sono Sansone che sono tutti di qua, della zona. Chi era tra tutti…

LUCA BERTAZZONI Agostino Sansone, condannato per mafia.

UOMO 4 Non lo conosco.

LUCA BERTAZZONI Perché l’incontro è stato qua con il boss mafioso.

UOMO 4 Non mi interessa l’incontro, non incontro, queste cose le sa lei, io non lo so.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La notizia degli arresti per mafia è arrivata proprio nel giorno di chiusura della campagna elettorale di Roberto Lagalla.

LUCA BERTAZZONI È di pochi minuti fa la notizia di un arresto, e siamo al secondo in tre giorni, di un candidato al consiglio comunale della sua coalizione, per scambio elettorale politicomafioso. Possibile che la mafia non riesca ad uscire da questa competizione elettorale?

ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO La cosa più assurda è che è la politica che cerca la mafia, come in questo caso. La cosa indicibile e ovviamente non solo non prevedibile, ma non controllabile da parte di nessuno, se non dalla magistratura che bene ha fatto a proporre l’arresto.

LUCA BERTAZZONI Però i candidati li scegliete voi.

ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Ehi, come stai?

LUCA BERTAZZONI - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO La sua candidatura è stata avallata da Cuffaro e da Dell’Utri.

ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Assolutamente no.

LUCA BERTAZZONI Hanno dato il loro ok. Volevo capire, siccome sono stati condannati entrambi per mafia. Senza mettere le mani addosso però, ok? 10 GIUGNO 2022

GIANFRANCO MICCICHE’ - CHIUSURA CAMPAGNA ELETTORALE PALERMO È un mondo oggi dove veramente non ha più spazio la mafia, non ha più motivo di esistere e siccome stanno arrivando questi quattrini del Pnrr, non c’è dubbio che il mondo intero ci guarda, e questi due episodi purtroppo sfavoriscono questa cosa, ci guarda con l’attenzione di chi dice: “vediamo che sanno fare, vediamo che fanno questi, vediamo quanto la mafia rientrerà in gioco con questi qua”. La mafia non deve rientrare in gioco, perché non esiste.

ROBERTO LAGALLA - CHIUSURA CAMPAGNA ELETTORALE PALERMO 10 GIUGNO 2022 Noi i voti dei mafiosi non li vogliamo, non li vogliamo!

LUCA BERTAZZONI Volevo capire se può dirci, anche alla luce di quello che sostiene dentro, che i voti di Dell’Utri e Cuffaro lei non li vuole.

ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Guardi io non ho contatti diretti né Cuffaro è impegnato direttamente in questa campagna elettorale.

LUCA BERTAZZONI Quindi non li vuole siccome sono due persone che sono state condannate in via definitiva per mafia?

ROBERTO LAGALLA - SINDACO ELETTO COMUNE DI PALERMO Non voglio i voti di Dell’Utri, non voglio i voti di Cuffaro, non voglio i voti di nessun altro se dovessero essere voti mafiosi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lagalla aveva nella sua coalizione la Democrazia Cristiana di Totò Cuffaro che ha capitalizzato i voti e ha il 5,5 percento dei consensi e ha anche piazzato tre candidati nel Consiglio Comunale. Poi una domanda: che fine hanno fatto i voti che i clan avevano promesso ai candidati della coalizione di centrodestra che sono stati arrestati? Le elezioni in Sicilia da sempre rappresentano la metafora della lotta fra il bene e il male che è anche difficile distinguerli perché si camuffano. In questo caso, poi sono stati i politici a chiedere i voti alla mafia ma se lo fanno è perché c’è la consapevolezza che i clan controllano fette di un intero territorio. Ora, il rigore morale che tanto invoca Cuffaro, sarà sufficiente come antidoto quando da una parte c’è invece la fame? Come fai a contrastare l’unico che ti viene incontro magari chiedendoti in cambio l’anima? Anima che potrebbe coincidere con i 198 milioni del Pnrr destinati alle 57 opere della città metropolitana di Palermo. Bisogna tenere alto il monito di Totò Cuffaro ai nuovi politici, ai quali dice: niente prebende, niente scambio elettorale fra mafia e politica e niente clientelismi. 

La “nuova” Dc di Totò Cuffaro entra in consiglio comunale a Palermo. Antonio Fraschilla su La Repubblica il 14 Giugno 2022.

L’ex governatore con la sua lista supera lo sbarramento ed elegge tre consiglieri. E intanto l’ex senatore Marcello Dell’Utri gongola per la vittoria di Lagalla da lui lanciato: «Ho illuminato alcune menti offuscate».

Erano stati al centro del dibattito sulla questione morale, entrambi fondamentali per lanciare la candidatura dell’ex rettore Roberto Lagalla quando Forza Italia e Lega minacciavano di andare su altri nomi. E adesso si godono entrambi la vittoria: Salvatore Cuffaro eleggendo tre consiglieri comunali con la sua “nuova” Democrazia cristiana, tra i quali il suo pupillo di Ballarò, il dipendente della società comunale degli ex precari Salvatore Imperiale; l’ex senatore Marcello Dell’Utri rivendicando con orgoglio la sua scelta contro il volere di Gianfranco Micciché e, come al solito, lanciando messaggi a tutto il suo mondo facendo capire che è tornato, eccome, nell’agone. 

L’ex rettore Roberto Lagalla, che in campagna elettorale non è andato alle celebrazioni per i trent’anni della Strage di Capaci perché travolto dalle polemiche per gli endorsement dei due condannati per fatti di mafia, incassa quasi il 50 per cento dei consensi contro lo sfidante del centrosinistra Franco Miceli che si ferma sotto il 30. La lista di Cuffaro supera lo sbarramento del 5 per cento, arrivando al 5,6 ed eleggendo tre consiglieri, lo stesso numero degli eletti della Lega. E Cuffaro festeggia, lui che aveva detto che si sarebbe ritirato definitivamente se la lista non avesse superato la soglia minima. Nessun pericolo, Cuffaro è tornato e adesso rivendicherà, considerando il suo apporto quasi fondamentale per la vittoria di Lagalla, assessori e posti nel sottogoverno comunale delle società partecipate. Anche se ufficialmente dice: «Forse ho creato un danno a Lagalla con il mio ritorno in politica».

Gongola anche Dell’Utri che parla all’Adnkronos lanciando messaggi e “metamessaggi” e critica L’Espresso: «Sono molto contento che Roberto Lagalla sia stato eletto sindaco di Palermo, ma era scontato. Era il candidato di maggior peso. Ma ci tengo a sottolineare che io non c'entro nulla con la sua candidatura. Avevo semplicemente espresso un mio parere dicendo che l'ex rettore era il candidato più indicato. Era il parere di un semplice cittadino Invece, sono stato massacrato. Ma quale “ombra di Dell’Utri"? Semmai l'ombra di Dell'Utri ha illuminato le menti offuscate... Hanno veramente esagerato, ormai sono abituato ma ritengo sia ingiusto dire tutte quelle cose, compresa la copertina dell’Espresso».

Poi bacchetta il suo ex delfino Micciché: «Avevano candidato altri personaggi che non si possono proprio paragonare con Lagalla - prosegue Dell'Utri - Si diceva che Lagalla non era di Forza Italia ma chi se ne frega! I partiti vogliono il meglio, la politica è la scelta dei migliori. In questo caso di Lagalla. Forse Miccichè ha dimenticato certi principi…». 

Cuffaro e Dell’Utri guardano adesso avanti: alle prossime elezioni regionali, dove diranno la loro e puntano, al momento, sul governatore uscente Nello Musumeci. Che, manco a dirlo, Micciché non vuole assolutamente. Chi avrà la meglio? Palermo in parte dà la risposta più probabile: quando l’ex senatore e l’ex governatore sussurrano qualcosa, in Sicilia conta. Eccome.

Ottavio Cappellani per mowmag.com il 15 giugno 2022.

E niente, il centrodestra, in Sicilia, sa come fare campagna elettorale. E’ stato un colpo di genio – tutta la mia ammirazione per il loro spin doctor – farsene arrestare due per voto di scambio con la mafia: Pietro Polizzi, di Forza Italia, che chiedeva voti al boss Gaetano Sansone, della famigghia facente capo a Totò Riina e Francesco Lombardo, di Fratelli d’Italia (l’Italia s’è desta) che traccheggiava con Vincenzo Vella, boss di Brancaccio, già tre volte arrestato. 

Copertura mediatica eccezionale, in modo da fare sapere a tutta la mafia per chi votare. 

Non c’è niente da fare: è stato un colpo di genio. Perché l’endorsement di Cuffaro e Dell’Utri per Lagalla, si era capito subito, non era abbastanza, ci voleva una qualche forma di sprint: un arresto sarebbe stato ottimo, due è una pacchia.

E’inutile, sta minchia di centrosinistra non ce la può fare, in Sicilia, con la parentopoli di Cancelleri, con le indubbie, ma non sfruttate, parentele mafiose, con questa etica morale che vuole rinunciare ai voti della mafia senza rendersi conto che in democrazia “i voti non olet”. 

Che senso ha traccheggiare con la mafia se poi non la sfrutti in campagna elettorale? Voglio dire: io, se fossi mafioso, mi offenderei.

Ma meno male che c’è la stampa di centrosinistra, che tace molto e sempre quando i mafiosi sono vicini al Pd e urla e strilla quando sono vicini al centrodestra (la cosa comica è che spesso si tratta degli stessi individui). 

Perché il centrosinistra, da sempre, in Sicilia, con la mafia, ha questo atteggiamento: se siete con noi un po’ vi ripulite, come se la mafia volesse a tutti costi ripulirsi, o accettare consigli da chi ritiene la mafia un “guilty pleasure”.

Perché la mafia dovrebbe farsi trattare da amante nascosta? Perché dovrebbe accettare di farsi portare a cena in ristoranti scogniti di periferia? Non ha forse diritto, la mafia, di aspirare a un matrimonio? Possiamo condannare la sua voglia di andare a braccetto con il potere politico alla luce del sole? Il centrosinistra si comporta da marito che non vuole lasciare la moglie, si comporta da pavido maschilista ipocrita.

Evviva il centrodestra, che coraggioso e sfacciato, non solo accetta endorsement di chi ha pagato il proprio conto con la giustizia e adesso è un libero cittadino (ma non “pentito”, ci mancherebbe quest’infamia), ma si fa anche arrestare un paio dei suoi per collusione con la mafia. 

Fossi mafioso voterei per loro, non c’è dubbio. Sono persone serie. Non come quei quaqquaraqqua del centrosinistra che fottono con la mafia e poi fanno finta di non conoscerla.

La mafia e il passato che pesa. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.

Il voto a Palermo: grava la mancata elaborazione da parte degli ex democristiani della lunga stagione di intensi rapporti tra una parte potentissima della Dc e la malavita organizzata.  

La festicciola per l’elezione a sindaco di Palermo, l’ex rettore d’università Roberto Lagalla ha deciso di farla in un famoso hotel a cinque stelle del quartiere Brancaccio, il San Paolo Palace, sequestrato una trentina d’anni fa a Giovanni Ienna, prestanome di uno dei fratelli Graviano. Oggi quell’albergo è (ben) gestito dall’Agenzia dei beni confiscati alla mafia. Niente da rimproverare perciò al primo cittadino palermitano in merito al luogo scelto per l’autocelebrazione. Né — anche se questo è ben più grave — gli si può imputare di aver avuto tra i compagni di strada qualche arrestato dell’ultima ora e qualche «impresentabile» («neanche li conoscevo», si è difeso). Anche se quel titolo, «Die Mafia lebt» (la mafia è viva) che campeggia sulla prima pagina della Süddeutsche Zeitung, suona come un avvertimento che viene da oltre confine: ci risiamo, l’esperienza amministrativa di Lagalla verrà giudicata, giorno per giorno, anche (e, forse, soprattutto) alla luce delle possibili commistioni tra la nuova giunta e Cosa nostra.

Sulla sua persona, ad oggi del tutto immacolata, grava però la mancata elaborazione da parte degli ex democristiani della lunga stagione di intensi rapporti tra una parte potentissima della Dc e la malavita organizzata. In che senso? Complice la scandalosa sentenza double face per Giulio Andreotti. Che ha consentito ad alcuni di considerare l’ex presidente del Consiglio come una vittima di Cosa nostra, ad altri alla stregua di un conclamato mafioso.

Anche per via di questa sentenza, gli ex o postdemocristiani hanno pensato di cavarsela gettando su Vito Ciancimino tutte le colpe di quella stagione. Sicché, con i loro eredi, si sono ripresentati sulla scena politica, perfino con formazioni intestate a quello che fu in tutta Italia il partito di maggioranza relativa. Neanche una condanna definitiva — come è accaduto nel caso di Totò Cuffaro — li ha dissuasi dall’impresa. Come se non avessero percepito il significato autentico e profondo del successo proprio a Palermo o sulla scena nazionale di Leoluca Orlando e Sergio Mattarella.

Con questo non vogliamo dire che in Sicilia solo Orlando e Mattarella siano ex democristiani degni di rappresentare la parte buona di quello che fu il loro partito. Né dimenticare i nomi degli esponenti Dc che furono vittime di mafia. E neanche quelli di uomini come Calogero Mannino che subirono anni e anni di processi prima di essere assolti con sentenze definitive. Sia chiaro, anche, che non consideriamo quella della Dc siciliana come una storia criminale. Pensiamo però che chi partecipò all’esperienza democristiana di quegli anni debba fare un ulteriore sforzo per chiarire ai successori (che militano in prevalenza nel centrodestra) cosa rese possibile le commistioni di cui si è detto. Commistioni che non furono affatto marginali e andarono ben al di là del caso Ciancimino.

Una personalità di spicco di quello che fu l’entourage andreottiano, l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino, ha appena dato alle stampe un pregevole volumetto, «Il grande inganno» (Lindau) che si presenta come una «controstoria della Seconda repubblica». Seconda repubblica di cui Pomicino non è stato e, a maggior ragione, non è oggi un grande estimatore. Il libro spiega in modo convincente perché la cosiddetta Prima repubblica andò in crisi ed è zeppo di notazioni sottilmente autocritiche. Tranne che per la parte che riguarda la Sicilia. Qui, anche se non si ricorre alla parola «complotto», sembra che tutte le disavventure in cui precipitò la parte prevalente della Dc isolana sia riconducibile all’attività di due «nemici» della causa democristiana: Gianni De Gennaro e Luciano Violante. Per il resto, tutti assolti eccezion fatta per il solito Ciancimino («espulso nel 1983», si precisa più volte, «per opera proprio di Calogero Mannino»).

Troppo poco, onorevole Pomicino. E soprattutto sono le stesse cose che lei pensava e scriveva dieci, venti, trenta anni fa. Come è possibile riproporre in sede di «controstoria» quel che già si percepiva ai tempi in cui i fatti accadevano? Ci sarà pure qualcosa di sostanziale che riguarda i suoi amici di un tempo su cui lei è stato costretto a ricredersi. Non basta dire: «fummo ingenui a credere che...». Né si può pretendere l’assoluzione (parliamo di quella della Storia, beninteso) perché anche gli avversari ne fecero di cotte e di crude.

Il buon Lagalla oggi è circondato da suoi eredi. Veri o supposti che siano. Lasciamo stare i rilievi che ora gli muovono i perdenti di domenica scorsa. Fanno anch’essi parte dell’autoassoluzione che di norma (e non solo in Sicilia) tendono a darsi gli sconfitti. Ma diamo per certo che da oggi in poi il neosindaco non potrà più dire che non sapeva di qualcuno dei suoi eventualmente scoperto a trafficare con qualche malfattore. Meglio che dedichi un’importante parte del suo tempo a conoscere uno ad uno i suoi collaboratori e si faccia un’idea (oltre a quella che dovrà farsi l’Osservatorio sulla legalità) di dove vanno a finire i fondi che erogherà. Poi, nel tempo che gli rimane, studi a fondo la storia della Dc siciliana nel trentennio che va dai Sessanta ai Novanta del secolo scorso. Troverà un grandissimo campionario di facilonerie, omissioni e clamorosi sbagli che misero nei guai, portandoli sul confine del crimine, molti suoi predecessori. 

I protagonisti della bufala sulla trattativa. Totò Riina e Forza Italia, a Travaglio brucia ancora Berlusconi e ignora che Polizzi ha militato in tutti i partiti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Giugno 2022. 

Un simbolico filo rosso in quel di Palermo, dove la successione agli eterni ventidue anni di governo della città di Leoluca Orlando, che ha riacceso i riflettori su mafia, antimafia e mafia dell’antimafia, pare aver fatto ritrovare insieme Alfredo Montalto e Roberto Scarpinato. Cioè il presidente della corte d’assise che aveva condannato tutti gli imputati del processo “Trattativa Stato-mafia” e scritto una sentenza di 5.000 pagine che sarà clamorosamente sconfessata due anni dopo nel processo d’appello. Proprio quello in cui un altro prestigioso magistrato, il procuratore generale Roberto Scarpinato, che rappresentava l’accusa, subiva la sconfitta più bruciante della sua carriera.

Quel patto maledetto e infamante tra i rappresentanti dello Stato, i politici e i militari da una parte, e gli uomini di Cosa Nostra dall’altra non ci fu, fu solo fantasia, dissero i giudici. E il procuratore Scarpinato, che all’ipotesi contraria aveva dedicato gran parte della sua vita professionale, finì per andare in pensione con questo grumo doloroso in mezzo al petto. Ma non rassegnato, come anche la storia palermitana di questi giorni insegna. E il suo collega (perché qui da noi i giudici e gli avvocati dell’accusa continuano a stare sulla stessa barca) Montalto è intanto passato dalle aule di tribunale a un altro ruolo, nominato dal Csm a capo dei gip di Palermo nel 2020, prima ancora della sentenza d’appello per il “processo trattativa”. Certo, Palermo è piccola, e ci si ritrova un po’ tutti, soprattutto in quel mondo così ben raccontato da fronti opposti da Sciascia e Pasolini. E in quel mondo in cui è feroce il gioco del chi c’era e chi non c’era, a cavallo dei trentennali della strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ecco il filo rosso del “processo trattativa” congiungere metaforicamente il capo dei gip che arresta per voto di scambio politico-mafioso un candidato del centrodestra, e l’ex pg pensionato che arringa una folla di duemila palermitani con una lectio magistralis proprio su mafia e politica.

A volte ritornano. E non stiamo parlando di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, cui non viene perdonato il fatto di non accontentarsi di essere fantasmi del passato. E soprattutto il fatto di essere vivi, di poter avere relazioni, addirittura parlare e agire la vita politica. Palermo, e non solo, pullula di signori virtuosi che mai voterebbero nelle urne per il ripristino della pena di morte, ma che nei fatti vorrebbero la sparizione fisica di certe persone condannate (non si sa quanto giustamente), per l’evanescenza di aver appoggiato da fuori la mafia, pur dopo che hanno scontata la pena. Alla faccia della Costituzione e del suo articolo 27. Roberto Scarpinato è tornato a parlare con il refrain di sempre, quaranta minuti di denuncia antimafia, e dice di vedere l’orologio spostarsi all’indietro, senza rendersi conto di essere lui a far girare al contrario le lancette. È pur vero che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta, ma quando è rotto non c’è molto da fare. Un po’ come quando si è perso il treno. Perché, dal momento che una sentenza ha ormai seppellito tutte le tesi del complotto tra lo Stato e la mafia e dei mandanti occulti delle stragi, continuare a insistere su depistaggi e settori deviati di servizi e massoneria e pezzi della destra eversiva? Non è bastato aver sconfitto sul piano militare e nelle aule di tribunale la faccia feroce della mafia?

Evidentemente non basta. Ed ecco il nuovo nemico, l’abolizione dell’ergastolo ostativo, voluta dalla Cedu e dalla Corte Costituzionale, e un pochino anche dal Parlamento. Ecco l’immobilità delle famose lancette dell’orologio: “Lo Stato rinuncia a conoscere la verità sui mandanti occulti delle stragi, di cui sono depositari una quindicina di boss, che con questa riforma non avranno motivo di collaborare”. Il dubbio che forse questi quindici non abbiano niente più da dire, o da aggiungere alla valanga di dichiarazioni già registrate da una serie di boss di rango prontamente “pentiti” dopo l’arresto, non sfiora mai la fronte di chi vive di certezze anche quando la storia le ha già sconfessate. E c’è da sperare, anche se pare un po’ paradossale, che all’altro capo del filo rosso, quelle tenuto tra le mani del giudice Montalto, ci sia la certezza di aver fatto la cosa giusta, con l’arresto di Pietro Polizzi, candidato al Comune di Palermo e recordman di preferenze (pare un migliaio, e non sono poche) e anche di spostamenti elettorali. Li ricorda La Stampa, ma non Il Fatto, chissà perché.

Meglio mettere il faccione di Totò Riina davanti alla bandiera di Forza Italia (ancora ti brucia eh Marcolino, quella sedia pulita con il fazzoletto da Berlusconi?) e distrarre l’attenzione. Ricapitoliamo la carriera di Polizzi: democristiano dell’Udc, poi candidato in una lista di sostegno a Leoluca Orlando nel 2017, poi renziano e infine approdato a Forza Italia. Cose che capitano, nelle situazioni politiche locali. Strano però che nel 2017 nessun gip (ma il dottor Montalto faceva un altro mestiere e si occupava della “trattativa”) abbia mai avuto il sospetto che questo portatore di voti ne accettasse anche qualcuno “sporco”. E’ capitato ora, e se i sospetti, derivati da un’intercettazione, hanno qualche consistenza, bene ha fatto il giudice ad attivarsi per prevenire la commissione di un reato, cioè lo scambio tra i voti che gli avrebbe portato il costruttore Agostino Sansone (fratello di colui che ospitava Totò Riina quando fu arrestato nel 1993) e la promessa di favori. Che, a occhio, dovrebbero essere un po’ più concreti di quel che si intuisce dalla frase, ripetuta due volte, e intercettata il 10 maggio scorso, dal candidato Polizzi: “Se sono potente io, siete potenti voialtri”.

Parole che possono voler dire molto, o niente. Che il gip ha ritenuto premessa di comportamenti che giustificavano l’arresto, “ineluttabile e urgente per scongiurare il pericolo che il diritto-dovere di voto sia trasfigurato in merce di scambio assoggettata al condizionamento e all’intimidazione del potere mafioso”. E ancora siamo nel campo delle ipotesi su quel che avrebbe potuto accadere, ma di cui probabilmente non si saprà mai se sarebbe poi accaduto. Ma che intanto hanno prodotto arresti e seminato panico da una parte, il centrodestra (ma non pare particolarmente imbarazzato il candidato professor Roberto Lagalla), e sogghigni di soddisfazione dall’altra (anche se non ha particolarmente infierito il rivale Franco Miceli). Domenica si vota, a Palermo. La città in cui dovrebbe essere più urgente smaltire le 170mila tonnellate di rifiuti e seppellire le 1.200 bare, eredità dell’ultima amministrazione Orlando, che non continuare a tessere il logoro filo rosso del circuito infinito di mafia-antimafia-mafia dell’antimafia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

IL CANDIDATO A SINDACO DELLA DESTRA. Lagalla candidato a Palermo e il parente boss della mafia di Agrigento. ATTILIO BOLZONI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 21 maggio 2022.

Un personaggio politico che si candida a diventare sindaco di Palermo ha il dovere di informare gli elettori dei suoi legami familiari con esponenti mafiosi o può far finta di niente?

Roberto Lagalla avrebbe fatto meglio a svelare, ad inizio di campagna elettorale, che sua moglie Maria Paola è la nipote di Antonio Ferro, quello che fu il patriarca di un clan di Canicattì legato da una parte ai Corleonesi di Bernardo Provenzano e dall'altra ai catanesi di Benedetto Santapaola?

«Non ho mai avuto rapporti e frequentazioni con la famiglia di mia moglie», dice Lagalla a Domani nell’intervista che pubblichiamo integralmente. ATTILIO BOLZONI E GIOVANNI TIZIAN

«La questione morale in Italia è morta. E la resuscitiamo solo negli anniversari». Claudio Fava su su L'Espresso il 7 Giugno 2022.  

Ridotta a commemorazione inoffensiva, ormai è quasi un fastidio anche solo il suo essere evocata. E quanto avviene in Sicilia ne è la dimostrazione.

La questione morale in Italia è morta. Seppellita dalla liturgia inoffensiva delle commemorazioni, ridotta a questione giudiziaria, considerata superflua come una porcellana di Capodimonte. Parlarne in una campagna elettorale (a Palermo, ad esempio) viene considerato un errore di ortografia, un andar fuori tema perché «ben altri» sono i nodi politici, le emergenze sociali, le miserie amministrative. Pretenderne una pubblica e pacata riflessione è un’ingenuità da anime candide: con gli eserciti in armi in Europa, il rischio di un impazzimento nucleare, il rapido declino delle riserve energetiche, lo spettro di nuove povertà sociali vogliamo davvero perder tempo a trastullarci con la questione morale?

Io la penso diversamente. Nel senso che credo che lo spirito di un Paese sia anzitutto espressione della sua condizione morale, del senso comune prevalente, della misura di decenza civile che abbiamo conservato nei nostri comportamenti sociali. In questo senso la vicenda siciliana è paradigmatica. Le strizzate d’occhio di dirigenti del centrodestra ad alcuni condannati (in via definitiva) per reati di mafia svelano il segno di una pubblica ignavia, la sciatteria morale di chi vuol fare della politica solo ricerca esasperata del consenso, piegando a questa ricerca, a questo consenso, ogni principio di opportunità morale.

Eppure, quelle strizzate d’occhio sono state lette con superficialità: come si permettono quei condannati per mafia a immaginare nuovi partiti, a proporre candidati ed alleanze? Un ragionamento un po’ rozzo, se mi è consentito: essere interdetti in via perpetua dai pubblici uffici vuol dire non poter più votare né candidarsi ad alcuna carica pubblica. La gogna, l’esilio, il pubblico ludibrio non sono pene accessorie previste dai nostri codici. Ed aver scontato interamente la propria condanna pretende, comunque, umano rispetto, non l’insulto.

Per cui, a mio giudizio non sono Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri (peraltro, in condizioni affatto assimilabili: l’uno colpevole di favoreggiamento e pubblicamente pentito; l’altro condannato per sodalizio mafioso e pubblicamente muto) ad aver offeso la questione morale. L’hanno fatto i loro illustrissimi frequentatori, coloro che andavano all’Hotel delle Palme per chiedere al senatore Dell’Utri la sua benedizione. Il presidente della Regione Siciliana Musumeci, in pellegrinaggio dal suddetto Dell’Utri per ottenere una intercessione telefonica con il Cavaliere, nei brevi minuti di quel siparietto palermitano ha rilegittimato politicamente un condannato in via definitiva per mafia, gli ha attribuito un ruolo politico, una capacità di intermediazione, un potere d’arbitrato.

Ma il gesto disinvolto del presidente Musumeci è parafrasi d’un pensiero diffuso: l’idea che in politica non vi sia più spazio per alcuna questione morale, a meno che non la reclamino i tribunali della repubblica a suon di sentenze. Tracciare la linea delle palme, per distinguere ciò che sta sotto da ciò che sta sopra, è tornato ad essere compito dei giudici. Non per loro vocazione ma per nostra rassegnazione. S’è ormai smarrita l’idea di un sentimento morale che non parli il linguaggio delle sentenze ma quello dei comportamenti, che interroghi i diritti e non i reati. Alla questione morale resta la consolazione di essere evocata nei trentennali e di prendersi un applauso in prestito prima di essere nuovamente riposta sotto vetro, in attesa della prossima celebrazione, del prossimo atto di dolore.

SOSTENITORI IMBARAZZANTI. Palermo, la mafia e un candidato sindaco già prigioniero del passato. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 12 maggio 2022

Ma non prova neanche un po' di vergogna l'ex  rettore di Palermo Roberto Lagalla a farsi sostenere nella sua corsa a sindaco da Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro, due uomini politici condannati per reati di mafia?

Ma non prova neanche un po' di vergogna l'ex magnifico rettore dell'università di Palermo Roberto Lagalla a farsi sostenere da due personaggi così, candidato sindaco per indicazione comune di Marcello Dell'Utri e Salvatore “Totò” Cuffaro? Non gli passa per la mente nemmeno un solo cattivo pensiero che a piazzarlo lì, se sarà eletto, contribuiranno due uomini politici condannati per reati di mafia?

Della vicenda, noi di Domani, ce ne siamo occupati il 19 marzo scorso ma vogliamo tornarci perché il “caso Palermo” sta facendo affiorare umori e odori che ci trasportano nel passato più buio della città. Anche perché il nuovo sindaco, dopo l'era di Leoluca Orlando, si insedierà a Palazzo delle Aquile proprio a cavallo fra la strage Falcone e la strage Borsellino che verranno ricordate in pompa magna a trent'anni di distanza.

Ora, immaginiamoci questa scena. Sono le 16.59 di martedì 19 luglio 2022 e in via Mariano D'Amelio, luogo del massacro dove hanno fatto saltare in aria il procuratore, cala un minuto di silenzio e sul palco sale, per portare il saluto di Palermo, il primo cittadino Roberto Lagalla fasciato nel tricolore che gli hanno messo addosso anche l'ex governatore condannato per favoreggiamento alla mafia e il senatore condannato per concorso esterno. Come potrebbe reagire il popolo dell'antimafia raccolto in via D'Amelio non lo sappiamo, sappiamo però che è uno spettacolo che non vorremmo mai vedere.

In questo affaire palermitano si è parlato tanto di Cuffaro e di Dell'Utri che si sono rituffati nell'arena politica. E' vero che la Costituzione riconosce a entrambi il diritto di esprimere liberamente le loro idee politiche dopo avere scontato la pena, ma il punto è un altro: e riguarda soprattutto il candidato sindaco. Cuffaro continua a fare Cuffaro e Dell'Utri continua a fare Dell'Utri, l'anomalia vera è rappresentata dall'ex magnifico rettore che finge di ignorare chi gli sta portando aiuto elettorale e consensi. Ed è molto grave per chi si appresta a governare Palermo, La Galla non si libererà facilmente di queste ombre semmai il 13 giugno dovesse davvero diventare sindaco. 

E’ TORNATO IL MEDIOEVO O QUALCOS’ALTRO?

Ma l'ex magnifico sembra vivere in un mondo tutto suo, lontano, inafferrabile. Si chiede: «Perché dovrei scandalizzarmi?». Dice: «Io sto chiedendo agli elettori un voto su di me, sulla mia storia e sulla mia persona. Io sono il candidato di una coalizione larga dove c’è una forza che trova in Totò Cuffaro il suo riferimento e ci sono dei candidati, con le loro storie, legittimamente titolati e in campo. Perché dovrei rifiutarli?». Spiega: «Marcello Dell’Utri ha semplicemente espresso un giudizio positivo su di me. Se qualcuno ritiene davvero che un uomo non sia libero di dire come la pensa, allora stiamo dicendo che è tornato il Medioevo».

Non, non è tornato il Medioevo. E' tornato un antico sistema di potere che vuole riprendersi Palermo. Dopo anni e anni di un faticoso e doloroso percorso che sembrava aver trascinato la città fuori dalla palude, che puntava al cambiamento, strada difficile ma in qualche modo tracciata. E invece rieccoli.

Il candidato Roberto La Galla, laureato in Medicina e Chirurgia nel 1979, specialista in radiologia diagnostica e radioterapia oncologica dal 1983, ordinario di “diagnostica per immagini e radioterapia” all'università di Palermo, autore di oltre 450 pubblicazioni scientifiche, ha un ambizioso programma per i suoi primi giorni da sindaco. Dieci “rivoluzioni” per Palermo. Rifiuti, mobilità, ambiente, partecipate, coste, inquinamento, grandi eventi. Dovrebbe aggiungere un altro punto che ha dimenticato: mafia. Ma forse non l'ha dimenticato, forse i suoi supporter eccellenti non gradirebbero sconfinamenti in un quel territorio.

Su ciò che sta accadendo a Palermo in questa campagna per il nuovo sindaco già un mese aveva avuto uno sfogo il procuratore generale di Agrigento Luigi Patronaggio, due giorni fa è stato Alfredo Morvillo (il fratello di Francesca, la moglie di Giovanni Falcone) a denunciare coloro che "strizzano l'occhio” ai condannati per mafia e, ieri, l'ex giudice del pool antimafia Giuseppe Di Lello ha aggiunto «che sembra di essere tornati a trent'anni fa come se nulla fosse successo».

Roberto la Galla va dritto per la sua strada: «Non ho niente da nascondere, non c’è niente da nascondere. Il problema non esiste, se non per la macchina del fango che si sta agitando in queste ore». La chiama – prorpio così – macchina del fango. L'ex magnifico rettore sembra già prigioniero prima dello spoglio elettorale.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Questione amorale: L’Espresso in edicola e online da domenica 5 giugno.

Cuffaro, Dell’Utri e il volto peggiore della politica. Le armi vietate usate dai russi contro i civili in Ucraina. La corsa a ostacoli per lo “ius scholae”. Ecco cosa trovate sul numero in arrivo. E gli articoli in anteprima per gli abbonati digitali. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 3 giugno 2022.

Nero, rosso, bianco: solo tre colori per la copertina del nuovo numero de L’Espresso. Ai lati, due mezze facce grigie, in bianco e nero. A destra Marcello Dell’Utri, a sinistra Totò Cuffaro. In mezzo il titolo: “Questione amorale”. Perché è indegno di un paese civile che due persone che hanno alle spalle condanne per mafia siano decisive per le elezioni regionali in Sicilia. Uno scandalo che mostra l’inadeguatezza politica dell’intero Paese.

Ci eravamo illusi che la classe politica potesse riformarsi da sola, denuncia Massimo Cacciari. E invece il Palazzo non ammette nessun argine morale, aggiunge Lirio Abbate nel suo editoriale.

Un Eugenio Scalfari d’epoca ci ricorda quando a denunciare la “questione morale” era stato Enrico Berlinguer. Oggi l’allarme parte dalla Sicilia: a ricostruire la storia dell’appoggio degli “impresentabili” al candidato della destra è Antonio Fraschilla, accompagnato dai commenti di Claudio Fava e di Enrico Letta. Susanna Turco ricompone il puzzle delle fantasiose alleanze nei mille comuni che vanno alle amministrative.

Quell’argine morale che i politici non fissano. Lirio Abbate su L'Espresso il 3 giugno 2022.

La delega in bianco alla magistratura non ha innalzato una diga. L’idea di abolire la Severino ne è una prova. E intanto condannati per reati di mafia ispirano le scelte di una classe dirigente che ha la pretesa di presentarsi come nuova.

Sulla questione amorale si ripropone il vecchio tema del rapporto fra etica e politica. Vecchio tema e sempre nuovo, perché non vi è questione morale in qualsiasi campo venga proposta che abbia mai trovato una soluzione definitiva.

Si parla abitualmente di un’etica dei rapporti economici, o, com’è accaduto spesso in questi anni, del mercato, di un’etica sessuale, di un’etica medica, di un’etica sportiva e via dicendo.

Il ritorno degli impresentabili: le trame di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri per riprendere il potere. Condannati per reati di mafia, sono big sponsor del candidato sindaco di Palermo Roberto Lagalla. I due fanno asse e puntano a riprendersi anche la Regione. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 3 giugno 2022.

Uno è sfacciato e ama i bagni di folla. L’altro invece si muove da sempre dietro le quinte, al massimo qualche battuta, e non si fa vedere certo nelle piazze, bensì nei saloni affrescati di qualche hotel esclusivo. In fondo sono sempre gli stessi e non sono cambiati nemmeno dopo le condanne per fatti legati alla mafia, gli scandali e le cattive amicizie mai rinnegate, né prima né durante né dopo il carcere.

Dai comunisti ai no vax fino ad Antonio Ingroia: la strana alleanza rossobruna di Francesca Donato. La candidata sindaca ed ex leghista ha appena incassato l‘endorsement di Rizzo e anche dell’ex magistrato antimafia. E ha guidato la protesta contro il ministro Speranza che teneva un comizio in città. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 3 giugno 2022.

Se qualcuno è curioso di sapere quanto pesa davvero elettoralmente l’alleanza rossobruna che si è saldata sui social soprattutto a favore di Putin sulla guerra in Ucraina, o contro l’obbligo vaccinale durante la pandemia, ha trovato il suo laboratorio politico a Palermo. E in particolare il 12 giugno potrà concentrarsi sul risultato elettorale della candidata sindaco Francesca Donato, l’ex leghista e pasionaria di destra nota in Parlamento per le sue sparate contro i migranti (chiamati sempre “clandestini”), contro l’obbligo vaccinale e la “dittatura” sanitaria, o contro le sanzioni a Vladimir Putin e le certezze dell’Occidente sui massacri di Bucha. Donato, oltre che su un drappello di ex grillini confluiti in Alternativa, può contare sul sostegno dell’ex magistrato antimafia e fondatore di Azione civile Antonio Ingroia, nonché sostenitore dell’ex governo regionale di centrosinistra di Rosario Crocetta e anche su quello del segretario del Partito Comunista Marco Rizzo.

Proprio quest’ultimo ha appena annunciato il suo appoggio a Donato: «A Palermo voterei senza esitazione per Francesca Donato, una donna dalla parte del popolo e della Costituzione. Palermo è una città che è stata spesso umiliata dalla grande finanza, dalla politica, da questi poteri che hanno visto nella mafia la possibilità di piegare la resistenza dei cittadini. In questa città però c’è una donna candidata, Francesca Donato, che ho avuto modo di apprezzare per il suo lavoro controcorrente al parlamento europeo e per il suo essere dalla parte del popolo sui temi principali della Costituzione italiana sempre più calpestati: il tema del lavoro e della disoccupazione, i temi della libertà schiacciate e i temi della pace e della guerra». «Il 12 di giugno i palermitani votando Francesca Donato hanno la possibilità di dare un segnale alla grande finanza e al governo del banchiere Draghi che non fa gli interessi del popolo italiano». conclude Rizzo.

Nei giorni precedenti per la Donato si era schierato Ingroia, che vuole con lei «costruire un'opposizione trasversale al sistema oggi rappresentato dal Governo Draghi» perché «siamo in una fase di emergenza costituzionale e di compressione dei diritti democratici, sociali e civili, con una mortificazione del Parlamento quasi senza precedenti».

Al fianco della Donato si erano già schierati anche gli ex grillini di Alternativa guidati dal deputato Pino Cabras: «Ho portato il sostegno mio e di Alternativa a Francesca Donato, una candidata che può cambiare le sorti di Palermo grazie alla sua esperienza politica di questi anni, che è stata sempre incentrata sulla difesa delle persone abbandonate dallo Stato e sul tentativo di ricostruire legami sociali e politici laddove il governo ha fomentato divisioni assurde e nuove sofferenze. La corsa a sindaco di Palermo dell’europarlamentare indipendente ha moltissimi punti di contatto con la nostra azione».

Donato aveva già dalla sua parte il consenso dei no vax, lei che ha condotto “battaglie” al Parlamento Europeo contro i provvedimenti presi per l’obbligo vaccinale in Italia. Ma piace molto anche ai no euro e, chiaramente, anche a chi di fronte alla guerra in Ucraina non vuole fermare l’avanzata di Putin e anzi mette in dubbio quello che i media raccontano stia accadendo: ha fatto discutere il suo intervento a Bruxelles sui massacri di Bucha commessi dalle truppe russe ha sostenuto che «l’Ue non è imparziale» nel verificare quanto accaduto.

Un bel tipo, insomma, che porta avanti istanze di destra estrema, e che qualche giorno fa a Palermo, durante un comizio del ministro Speranza, ha guidato la protesta di un vasto popolo che comprendeva no vax, no euro e tanti rappresentanti del movimento di Paragone, Italexit, che però formalmente sostiene un altro candidato sindaco, Ciro Lo Monte. Ma la base elettorale nella quale pescano è la stessa.

 Francesca Donato, dai gilet ai No Vax, chi è la sovranista che ha abbandonato Matteo Salvini. Anti euro, anti Mes, contro il Green Pass: una carriera a cavallo della pancia del Paese. Sara Dellabella su L'Espresso il 21 settembre 2021.

I ben informati sapevano che l'addio di Francesca Donato alla Lega era nell'aria già da un po' e quindi nessuno perderà il sonno alla notizia. Ma d'altronde la leghista del sud, anconetana di nascita, ma palermitana d'adozione, eletta all'Europarlamento nel 2019 con oltre 28 mila preferenze alla Lega non era arrivata per militanza quanto per le sue posizioni anti euro, in voga qualche anno fa e utili per la costruzione di un partito sovranista, come l'aveva immaginato un Salvini barricadero pronto a scalare i sondaggi. Insieme a lei, per la missione, il segretario del Carroccio aveva arruolato, anche Alberto Bagnai, Antonio Rinaldi e Claudio Borghi. Ma dove li ha trovati?

I quattro esponenti anti euro, nel 2013, erano stati protagonisti di una conferenza stampa organizzata dall'ex eurodeputato Magdi Cristiano Allam, proprio nelle sale del Parlamento Ue, per un pomeriggio in cui si spiegava con dovizia di particolari perché l'euro rappresentasse una fregatura per l'Italia e che bene avremmo fatto ad abbandonare la moneta unica. Della conferenza solo qualche agenzia diede notizia e i protagonisti tornarono nel dimenticatoio.  

Qualche anno più tardi, tutti sono stati imbarcati dalla Lega di Matteo Salvini, sempre più impegnato a scalare i consensi all'interno del centrodestra. Da quel convegno fino all'elezione, la Donato ha costruito la sua immagine politica come presidente di Eurexit a colpi di ospitate tv e video postati su Facebook, diventando la voce dei sovranisti ante - litteram. 

Il progetto Eurexit, si legge nel sito, nasce "con lo scopo di portare all'attenzione dell'opinione pubblica i problemi derivanti dalla partecipazione dell'Italia all'Unione Europea (UE) e all'adozione della moneta unica (l’euro), sia attraverso un'opera di divulgazione e informazione, sia attraverso la predisposizione di progetti di riforma dell’UE e/o dell’Eurozona". Negli anni l'abbiamo vista accanto ai Gilet Gialli, il movimento di protesta nato sui social network contro il caro carburante che nel 2018 ha messo a ferro e fuoco la Francia. Proteste che causarono 15 morti, 3mila feriti e 5mila persone arrestate per i disordini. 

Insomma, dove la pancia del popolo ribolle, la Donato c'è. Negli ultimi anni, ha cavalcato qualunque battaglia che fosse preceduta da un "NO", così da ultimo, sbattendo le porte di via Bellerio ha promesso di diventare "il punto di riferimento dei no vax". Ha un canale Telegram "Francesca Donato - Liberi di pensare" dove conta 3,4 mila iscritti che usa per diffondere notizie "alternative" sull'efficacia dei vaccini. Una militanza la sua che spesso la espone a gaffe e cadute di stile. Ultimamente ha deriso la famiglia di un medico morto per Covid seppure vaccinato, ma alla replica dei familiari è rimasta in silenzio. Non molto tempo prima, la nostra sovranista aveva accostato la frase "il vaccino rende liberi" al motto nazista "arbeit macht frei", bollata dall'Auschwitz memorial come «Declino morale e intellettuale». Come dargli torto? 

Nel 2020 in pieno lockdown ha inscenato in diretta streaming la rivolta dei clacson contro le bugie del Mes. Protesta che dopo 4 minuti è stata interrotta dall'arrivo della Polizia 

Ma nulla sembra fermare Francesca Donato. Qualche giorno fa ha definito il decreto Green Pass "la tomba della rappresentatività democratica" e oggi, in rotta di collisione con una Lega troppo filo governativa, promette di diventare la nuova leader "di lotta" e di rappresentare "la minoranza degli italiani etichettati come 'no-vax', gravemente discriminati e attaccati nel nostro Paese, e di tutti coloro che credono ancora nei valori della nostra Costituzione repubblicana, che pongono al centro il rispetto dei diritti umani per tutti i cittadini". 

Qualcuno vede in questo addio i primi segni di cedimento della leadership di Matteo Salvini, che a forza di esercitare la politica dei due forni sta rischiando la bruciatura a favore dell'ala moderata del partito rappresentata da Giancarlo Giorgetti e Massimiliano Fedriga. Il doppio gioco di essere fuori e dentro il governo sta erodendo il consenso conquistato selfie dopo selfie, felpa dopo felpa, soprattutto tra l'ala più arrabbiata degli elettori leghisti, quelli a cui oggi strizza l'occhio Giorgia Meloni. I no vax però possono stare tranquilli, ora c'è Francesca Donato a difenderli e probabilmente ne arriveranno altri dalle fila della Lega, sempre più un partito sull'orlo di crisi di nervi. 

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.

Totò Cuffaro si costituisce ed entra nel penitenziario di Rebibbia all’ora di pranzo del 22 gennaio 2011. Il borsone gliel’ha preparato sua moglie, Giacoma Chiarelli. Dentro ci sono due libri (La fattoria degli animali di George Orwell e un romanzo di George Simenon, Il ranch della giumenta perduta). 

Poi un maglione di cachemire. Il necessaire con lo spazzolino, il dentifricio, la schiuma da barba. Gli occhiali di ricambio. Lui infila anche una copia del Vangelo di Matteo. «E lei, che mi accompagna sempre» (un’immagine della Madonna palermitana di Santa Rosalia). È molto devoto. Quattro ore prima era a mani giunte, in ginocchio, nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva, vicino alla sua abitazione romana: aspettava la sentenza della Cassazione.

Un rosario inutile. Alle 12,50 arriva la telefonata dell’avvocato: la condanna è a 7 anni di reclusione per «favoreggiamento» verso persone appartenenti a Cosa Nostra. Ex senatore, ex governatore della Sicilia, ex potente: ora piange, chiede un bicchiere d’acqua. Lo aiutano a infilarsi il cappotto stretto sui cento chili tondi sfoggiati per tutta la carriera politica («Trasmetto allegria: dimagrissi, perderei voti»), sempre sostenuto da feroce ambizione, da simpatia contagiosa (baciava chiunque, inevitabile il soprannome di “Totò vasa vasa”) e da formidabile arroganza (dopo la sentenza di primo grado, ai dipendenti della Regione Sicilia offrì un vassoio di cannoli).

Cuffaro resta in cella 1688 giorni: lo scarcerano in anticipo nel dicembre 2015; due anni dopo si laurea in Giurisprudenza (meglio conoscere un po’ di codice penale); nel 2018, al Vinitaly di Verona, presenta i suoi vini (tenuta Cuffaro, 70 ettari); nel 2020 si iscrive alla Democrazia Cristiana Nuova; adesso lancia e sostiene Roberto Lagalla, candidato per il centrodestra a sindaco di Palermo, che sfida il candidato del centrosinistra Franco Miceli, presidente nazionale dell’Ordine degli Architetti. 

Lagalla è però sponsorizzato anche da Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per «concorso esterno in associazione mafiosa» (4 scontati in carcere e gli altri ai domiciliari). «Totò vasa vasa», in piena campagna elettorale, dal palco del Politeama ha così ritenuto di dover urlare alla folla: «Gridate con me: la mafia fa schifo!». Poi ha aggiunto: «Comunque il problema dei palermitani, sia chiaro, è il traffico» 

Il caso dell'ex presidente della Sicilia. Totò Cuffaro esce dal carcere, ma resta ancora prigioniero. Sergio D'Elia su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

Voglio parlare di Totò Cuffaro, del giudicabile, impresentabile, irredimibile ex presidente della Regione Sicilia. Perfetto e perenne tipo d’autore, di lui non si dice che reato abbia fatto, contro di lui si continua a “fare giustizia”. Pagato il suo debito con la società, non si può presentare in società, perché un marchio di infamia con la scritta indelebile “non cambierai mai” rimane impresso sulla sua pelle. Ha scontato la sua pena fino all’ultimo giorno, ma per lui non vi può essere redenzione, il suo fine pena è mai.

È stato condannato a essere un reo per sempre, non come Caino a cui pure, in un altro senso dell’errare, è accaduto di attraversare terre desolate e da radice del male divenire padre fecondo di nuove discendenze e beato costruttore di città. La sua colpa? Quella di voler continuare a fare politica. In terra di mafia e con lo scudo crociato. Eppure, nella corsa elettorale al Comune di Palermo, Totò Cuffaro non concorre di persona. Il suo è un concorso esterno, non in un’associazione di stampo mafioso, reato che non esiste nei codici, che è di stampo giudiziario, che è stato inventato nei tribunali e per il quale Cuffaro non è mai stato condannato, ma in un’associazione politica denominata “democrazia cristiana”. Per questo, in questi giorni, è stato messo in croce, criminalizzato e processato sulla pubblica piazza perché “da fuori” ispira, dirige, condiziona i giochi della politica dei partiti e del potere mafioso sulla città.

In Italia, a partire almeno dagli anni 90, è avvenuto un capovolgimento totale di principi e regole dello stato di diritto, del giusto processo e della giusta detenzione, se giusta può essere mai definita la pratica barbara di chiudere in gabbia una persona. È accaduto che il tribunale sia ormai divenuto un carcere e il carcere un tribunale. Accade che ti fanno espiare una pena in attesa del giudizio e continuano a giudicarti anche durante l’espiazione della pena. In tribunale non entra il reato, il fatto di reato, entra l’uomo, il tipo d’autore. Viceversa, in carcere entra il reato, mentre l’uomo resta fuori; il reato, poi, è sempre ostativo e la pena infinita. Per Totò Cuffaro, il diritto è stato capovolto dalla parte del torto oltre ogni umana percezione dello spazio e del tempo. Il condannato rimane colpevole anche fuori dal luogo del delitto e del castigo, anche dopo la fine del processo e della pena.

Totò Cuffaro sta subendo un processo per un reato che non gli è mai stato contestato e sta scontando un ergastolo che non gli è stato mai comminato. Cuffaro ha onorato la sentenza che lo ha condannato, ha scontato la sua pena tutta d’un fiato, con dignità e senza tregua, senza un attimo di respiro, senza un giorno di ristoro, senza un atto di condono. Gli è stata negata persino la minima manifestazione di umana, cristiana pietà di una visita a casa della madre anziana e in gravi condizioni di salute. Il “fine pena mai” è terribile e inumano per chi è stato condannato all’ergastolo, è particolarmente odioso quando viene applicato vita natural durante anche a chi all’ergastolo non è mai stato condannato. Racconto la storia di Cuffaro perché è la storia di un detenuto noto che ci deve far riflettere sul destino di migliaia di “detenuti ignoti” che, una volta espiata la pena, sono costretti alla clandestinità dei rapporti sociali, sono indotti a vergognarsi di essere stati carcerati, sono marchiati a vita per il loro passato.

Hanno scontato per intero la loro pena? Anche se è stata lieve, su di loro continua a pesare il fatto di essere stati “carcerati”. Non hanno diritto a un reinserimento sociale pieno e incondizionato. Sono interdetti da diritti civili e politici fondamentali: di parola, di opinione, di associazione, di partecipazione alla vita sociale. Uscito dal luogo deputato per la pena alla fine del tempo stabilito dal giudizio, in realtà, Cuffaro dal carcere non è mai uscito e rimane sempre uno in attesa di giudizio: prigioniero è stato nel passato, prigioniero rimane nel presente, prigioniero sarà per il futuro. Per il solo fatto di essere stato processato, condannato, carcerato. Allora, se io devo scegliere di chi fidarmi, mi fido più di un condannato che non di un innocente. Perché del condannato so tutto, cosa ha fatto, cosa non ha fatto. Dell’innocente non so nulla. È, come si dice, “innocente fino a prova contraria”, anche fino alla prova del contrario di ciò che appare. Del condannato, invece, sono certo: è un “colpevole fino a prova contraria”, che può essere la prova della sua innocenza, della sua estraneità al reato, ma anche, meglio, la prova della innocenza ritrovata, della sua diversità rispetto al tempo del reato.

Io ho conosciuto il condannato Cuffaro quando era detenuto a Rebibbia. Con Marco Pannella e Rita Bernardini lo andavamo trovare, lui e i suoi compagni di sventura, la notte di San Silvestro per augurare, allo scoccare della mezzanotte, un buon anno, diverso da quello appena passato. Il carcere è il luogo della pena, ma anche il momento della verità, della conoscenza della persona, della scoperta del suo essere autentico. Lì, nel luogo di privazione della libertà e del potere, ho conosciuto e stimato Cuffaro nella sua nuda identità, per la sua grande umanità e la sua infinita bontà. Quando era a Rebibbia, detenuto, colpevole, condannato. Credo di non averlo mai incontrato quando era libero, innocente e potente governatore di regione. Io mi fido di Totò Cuffaro perché è stato detenuto a Rebibbia e, oggi, lo difendo da chi lo considera ancora un detenuto. Lo difendo, innanzitutto, dai sepolcri imbiancati, da coloro che lo hanno conosciuto, frequentato e votato quando era innocente come un angelo e potente come un imperatore.

Mentre, oggi, caduto dall’alto dei cieli e finito all’inferno della condizione umana, lo condannano – senza processo e senza pena – all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, e gli negano finanche il diritto di parola, il diritto di associazione, il diritto di aggregazione e di partecipazione alla vita politica democratica. Io difendo l’umanità di Totò Cuffaro, i suoi diritti umani, civili e politici, e indico il suo vissuto come un esempio che plasticamente descrive e, nello stesso tempo, invoca il superamento della realtà, che fa letteralmente pena, di uno Stato anti-Diritto, anti-Costituzione, anti-Convenzione europea sui diritti umani. Chiunque l’abbia detto – Voltaire, Tolstoj o Dostoevskij – non basta più dire che la civiltà di un Paese si misura entrando nelle carceri. Occorre dire che la si misura uscendo dalle carceri, da un sistema di giustizia penale che pregiudica anche dopo il giudizio, che condanna oltre ogni punizione e imprigiona anche fuori dal muro di cinta del luogo di detenzione. Sergio D'Elia

Manifesti anonimi contro il Centrodestra, “Chi li ha affissi è un mascalzone”. INDAGA LA DIGOS. Redazione il 20/05/2022 su blogsicilia.it.

“Manifesti provocatori e offensivi, chi li ha affissi è portatore sano di ignoranza”. E’ la reazione di Roberto Lagalla dopo che questa notte a Palermo sono comparsi dei manifesti  con la scritta “Democrazia Collusa” e il logo della Democrazia Cristiane e con la Forza Italia che è diventata “Forza Mafia”. Sul caso indaga la Digos. 

La reazione di Lagalla,

​“Comprendo le esigenze di copione elettorale del candidato di quella sinistra a cui faceva riferimento quell’antimafia di facciata oggi alla sbarra. Piuttosto che prendere le distanze dai vandali che hanno imbrattato la nostra città, denunciando le volgari illazioni contenute nei manifesti, si diletta ad additarmi come male assoluto di Palermo. L’ennesima caduta di stile da parte di chi, privo di contenuti e idee, tenta di delegittimare l’avversario politico pur di ottenere un briciolo di visibilità. Chi ha affisso quei manifesti offensivi e denigratori è un mascalzone, un provocatore, un portatore sano d’ignoranza. Vergogna”. Lo ha detto il  candidato sindaco di Palermo del centrodestra Roberto Lagalla. 

I manifesti spuntati in centro

“Make mafia great again” con il logo della democrazia Cristiana che diventa “Democrazia collusa”. “Forza mafia” che richiama il logo del partito di Berlusconi. Il centro di Palermo si risveglia tappezzato di manifesti che prendono di mira il partito di Totò Cuffaro, la democrazia Cristiana Nuova, e Forza Italia.

Clima sempre più pesante a Palermo

Si fa sempre più pungente il clima della campagna elettorale a Palermo condita da aspre polemiche. E si ripresenta così il tema degli appoggi che fanno storcere il naso tra mancati inviti ai candidati sindaci alle celebrazioni per il trentennale delle stragi e botta e risposta più o meno violenti dagli schieramenti che sono scesi in campo per le amministrative palermitane. Politica e mafia, insomma, è il tema che infiamma la dialettica politica di queste settimane a Palermo.

Mario Di Caro per “la Repubblica” il 26 maggio 2022.

Macché eminenze grigie fuori dal tempo, macché ritorno al passato: per Franco Maresco, regista bastian contrario, il fatto che a Palermo, come denunciato d Maria Falcone e da Pif sul palco di "Repubblica". 

Ricompaiano due "suggeritori" della politica come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri, due condannati per mafia capaci di indicare al centrodestra la scelta del candidato sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, non è certo un ritorno indietro negli anni bui della città. «Io in questa situazione ci vedo continuità nel tempo - dice Maresco - Semmai l'illusione è che in tutti questi anni ci sia stata una discontinuità».

Palermo e la Sicilia non hanno fatto passi avanti nel cammino antimafia dopo le stragi del '92?

«Dopo il '92, se togliamo quella ripartenza della società civile fondata su uno stato d'animo, sullo choc delle stragi, c'è stato l'avvento del partito di Berlusconi e Dell'Utri.

Forza Italia è nata qui a Palermo, in corso dei Mille, Quindi abbiamo avuto, semmai, una continuità impressionante lungo tutti questi anni, a partire dall'isolamento di quei magistrati che invitavano a non abbassare la guardia e che denunciavano una serie di deviazioni, anche in seno all'antimafia. Il paradosso è che non siamo mai andati oltre quegli anni cosiddetti bui, c'è stata sola una cesura drammatica con quei due giudici che sono saltati in aria».

E la rivolta antimafia post stragi?

«Un'azione c'è stata ma evidentemente non ha fatto niente. Chiediamoci perché qui , per l'anniversario delle stragi, arrivano le navi della legalità, le più alte cariche dello Stato, ma i giudici continuano a dire che ci sono insabbiamenti, trattative. depistaggi. E il problema non è solo il centrodestra». 

Ci sono colpe anche nel centrosinistra?

«Già ai tempi di Cuffaro presidente c'era una certa disinvoltura da parte della sinistra, sono state legittimate certe situazioni, non c'è stata una presa di distanza. Quindi non mi stupiscono i "suggerimenti" di Cuffaro e Dell'Utri, fanno il loro mestiere. Io ero ragazzo quando frequentavo la sede del Pci a Palermo e ricordo già allora l'isolamento di Pio la Torre».

Insomma, per lei Palermo non sta tornando indietro verso il suo passato peggiore?

«Non credo che si possa tornare indietro in un'epoca spaccata dalla guerra e dalla pandemia che trasforma il panorama geopolitico. Nessuno pensava che potesse esserci una nuova guerra nel cuore dell'Europa: evidentemente sono cadute delle barriere oltre le quali non si andava per un credo morale. 

Che ci sia un ritorno degli intrighi politici non mi pare: semplicemente ormai tutto è possibile perché non ci sono confini perché viviamo una realtà in cui le cose non hanno permanenza, senza più punti cardinali. Oggi un ragazzo di vent' anni pensa a come cambierà la sua vita con il virus, se la sua città sarà bombardata».

Il ritorno da protagonisti dei condannati per mafia significa che l'amministrazione di Leoluca Orlando non è riuscita a consolidare nei fatti un'idea nuova di Palermo, della politica e della cosa pubblica? Possibile?

«Quella di Leoluca Orlando è una parabola tristissima, quella di uno che ha cominciato alla grande, perché gli va dato atto che è stato capace di rompere con la vecchia Dc, ma che chiude quest' ultimo mandato alla deriva , e le sue responsabilità sono tante. È un'uscita di scena che non corrisponde al suo ingresso nella politica e nella società siciliana». 

Insomma, è il teorema del suo film "Belluscone" quando dimostrò con le interviste sul campo che nelle periferie palermitane Falcone e Borsellino sono vissuti ancora come nemici e la coscienza antimafia lì non è mai attecchita?

«Sarebbe inelegante dire "io l'avevo detto". 'Belluscone' era un viaggio nelle periferie in cui il Cavaliere era celebrato. Le periferie sono sempre state in mano alla mafia ma dopo l'uscita di 'Belluscone' tante persone mi hanno chiamato per dirmi "sono inorridito" come se invece di vivere nella stessa città fossero stati su un altro pianeta». 

Lagalla: “La sinistra ha attivato la macchina del fango”. La nota del candidato del centrodestra. Redazione livesicilia.it  il 13 maggio 2022.

“Se la sinistra ha scelto di affrontare la campagna elettorale di Palermo attivando la macchina del fango, evidentemente è a corto di argomenti. Non intendo percorrere alcun sentiero dialettico che mi porti lontano dai problemi reali della città. Sarebbe facile fare riferimento alla campagna del 2017, quando Ferrandelli difendeva fra i suoi alleati proprio Totò Cuffaro, evidentemente amico comune. Oppure dovrei andare a fondo della vacuità della campagna di Miceli e rammentare di quando il Pd cercava il campo largo coni centristi. In questo caso, se si fosse realizzata, sarebbe forse stata una coalizione meno maleodorante?”. Così, in una nota, Roberto Lagalla, candidato della coalizione di centrodestra al Comune di Palermo.

E continua: “La mafia è un virus mutante, infido, è un fenomeno sociale complesso, guai a cadere nella tentazione delle facili generalizzazioni e dei luoghi comuni. Chi lo fa, vuole solo nascondere sotto il tappeto dell’antimafia parolaia tutta la polvere che soffoca la nostra città, da troppo tempo in mano alla sinistra. Parlano per me le attività e le iniziative portate avanti in questi anni e le coerenti posizioni assunte durante tutta una vita di lavoro e di impegno civile. Premesso che il contrasto alle mafie è ad ogni forma di illiceità costituisce un prerequisito essenziale per ogni buona amministrazione sarà facile verificare, nei quotidiani comportamenti, come non vi sia nessun pactum sceleris o forma di ispirazione a soggetti che abbiano avuto condotte men che corrette ed irreprensibili. Sono e sarò garante di una coalizione che, lontana da ogni diversa motivazione o tentazione, intende sposare gli interessi legittimi e le aspettative delle donne e degli uomini onesti di Palermo”.

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 24 maggio 2022.

Nel giorno in cui il Capo dello Stato, i ministri del governo Draghi, i vertici dei nostri apparati di sicurezza si sono inchinati a Palermo nel ricordo della strage di Capaci, Roberto Lagalla, candidato sindaco del centrodestra, ha deciso di disertare il palco del Foro Italico (spazio urbano sottratto alle mafie dalla resilienza civile e politica della parte migliore della città) per ragioni di "opportunità". 

"Per evitare - testuale - che qualche facinoroso, sensibile al fascino di certe feroci parole, potesse macchiare uno dei momenti simbolici più importanti della città con potenziali violenze". Le "feroci parole" - ha aggiunto Roberto Lagalla - sarebbero quelle pronunciate da Pif, nel pomeriggio di domenica, durante l'iniziativa di Repubblica dedicata alla memoria delle stragi. I "facinorosi" sarebbero quanti, domenica, a quelle parole hanno applaudito e - si fa intendere - il giorno successivo (ieri) sarebbero potuti passare a vie di fatto "violente".

Lagalla ha ragione. Le parole hanno grande importanza. Per chi le pronuncia o evita di pronunciarle, per chi le ascolta e per chi decide di manipolarle trasformandole in un atto politico ad alto valore simbolico. E non solo. Domenica, dal palco di Repubblica, Maria Falcone, prima, e Pif, poi, avevano posto, con modi e lessico evidentemente diversi, un identico interrogativo. 

Che, all'osso, suona così: è possibile che, a trent' anni da Capaci e via D'Amelio, un candidato sindaco - nel caso di specie Roberto Lagalla - debba essere la risultante politica di un "lodo" che ha visto come suoi architetti e azionisti politici Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri, entrambi condannati in via definitiva e reduci dall'aver scontato pene detentive per reati di mafia? È irragionevole pretendere da un centrodestra moderno, costituzionale, che si sottragga all'abbraccio di antiche consorterie e di una cultura politica che sono state l'acqua in cui hanno nuotato e sono cresciuti i peggiori pescecani della storia palermitana?

È eccentrico o minaccioso chiedere che a trent' anni da Capaci e via D'Amelio la città non venga riconsegnata al comune sentire di una classe dirigente isolana che, per quarant' anni, in sostanziale continuità, ha eletto Cosa Nostra a interlocutrice legittima, ad attore sociale ed economico dell'amministrazione cittadina? 

Detta altrimenti, la domanda politica posta da Repubblica a Lagalla è stata ed è: con quali pezzi di cittadinanza, di impresa, di classe dirigente, ha deciso di parlare il centrodestra a Palermo?

È una domanda semplice, in fondo, e a suo modo cruciale. Cui Lagalla, ieri, ha deciso appunto di rispondere con un atto politico. Lasciando vuota la sedia di un palco e di una platea dove lo Stato, nella sua massima espressione istituzionale, celebrava la memoria di Falcone e Borsellino al cospetto di uno spicchio di città - il quartiere della Kalsa - ad alta concentrazione mafiosa. 

Lagalla, medico ed ex rettore dell'Università di Palermo, nonché ex assessore regionale delle giunte Cuffaro e Musumeci, è infatti uomo troppo intelligente e colto per non comprendere come la sua assenza, e la giustificazione che ne ha fornito, siano la plastica rappresentazione di una postura politicamente opaca che, a queste latitudini, e non solo, ha un significato preciso.

E, dunque, la sua scelta ha una sola spiegazione possibile. Che il centrodestra che il 12 giugno andrà alle urne per eleggere il nuovo sindaco di Palermo non abbia la forza per emanciparsi. Che alla presenza, anche fisica, nel saldo perimetro rappresentato dallo Stato raccolto a Palermo in un ricordo che ha l'ambizione di diventare memoria condivisa e non partigiana, preferisca la scorciatoia esiziale di dichiararsi "vittima" di un processo alle intenzioni intentato dagli epigoni della "via giudiziaria all'antimafia" contro i "pacificatori" della guerra alla mafia.

Come se quella guerra fosse stata vinta. Come se a Palermo la battaglia quotidiana per i diritti non richieda la radicalità necessaria per distinguere il bianco dal nero e il nero dal grigio. La verità è che gli argomenti di Lagalla, la sua sedia vuota, hanno il sentore e la simbologia stantii di una paccottiglia che riporta indietro le lancette della discussione e del confronto su mafia e politica ad un altro secolo. Certificano il pessimo stato di salute politica del centrodestra e quanta strada ancora vada fatta per costruire una memoria che aiuti Palermo e il Paese intero a guardare avanti nella comune consapevolezza di ciò che è stato e non deve più tornare ad essere.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 24 Maggio 2022.

«Che doveva fare? Andare a farsi linciare?». Totò Cuffaro, leader della nuova Dc siciliana, difende il candidato sindaco di centrodestra Roberto Lagalla, che lunedì ha disertato la commemorazione di Falcone dopo le polemiche sui suoi sponsor, lo stesso Cuffaro e Dell'Utri, pregiudicati per reati di mafia. 

Lei avrebbe fatto altrettanto?

«Sì, per evitare contestazioni in un clima da gogna. Ma avrei fatto lunedì quello che Lagalla ha fatto ieri, andando da solo sotto l'albero Falcone».

Anche lei non ha partecipato alle commemorazioni.

«Ho pregato per Falcone da solo in chiesa. Non vado sotto un palco armato contro di me». 

Armato da chi?

«È un'aggressione scatenata da mass media e artisti di una certa sinistra giustizialista.

Una sceneggiata».

Sceneggiata ricordare le condanne dei mentori del probabile sindaco di Palermo?

«Lagalla non era il mio candidato, ho aderito per ultimo».

Era suo assessore.

«Quindici anni fa, prima di diventare rettore».

Dell'Utri ha spostato Forza Italia su di lui.

«Dell'Utri non è protagonista di niente. Ha solo detto una banalità, che è il candidato migliore. E a differenza di me, non ha peso elettorale».

Vi accomunano le sentenze.

«Io non ho il concorso esterno».

Favoreggiamento alla mafia, fa differenza?

«Non ho mica dato soldi o manovalanza alla mafia. Una notizia su un'indagine, avrei dato».

Che è arrivata a un boss. Per questo è un pregiudicato.

«In primo grado la condanna era senza aggravante mafiosa. Anche il procuratore della Cassazione era d'accordo». 

E il favoreggiamento semplice non vale?

«Un reato da nulla, se non c'è la mafia». 

Ma è normale guidare un partito con questo fardello, per giunta a Palermo?

«La Costituzione vale anche per me. Ho fatto i miei errori, mi sono costituito in carcere, ho scontato la pena senza giorni di permesso. Il giudice che me li ha negati li ha concessi a Brusca».

Brusca ha collaborato con lo Stato, lei no.

«Io non ho commesso 90 omicidi». 

Le resta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.

«Non mi posso candidare, ma nessuno può vietarmi di far risorgere la Dc con gli ideali e senza prebende».

 Sicuro? Niente prebende?

«Altri tempi». 

Oltre la legge, c'è l'opportunità.

«Nella coscienza di ciascuno. Ma quella del Pd non si sveglia nei Comuni in cui hanno bisogno di me per fare le liste». 

 Per Maria Falcone lei non è adamantino.

«In passato no. Ora sì».

 Sente leader nazionali?

«Ho ricevuto tante telefonate di solidarietà da Roma». 

Come vanno le elezioni?

«Lagalla vince al primo turno e la Dc supera il 5%».

E il fattore mafia?

«Ai palermitani interessano traffico, rifiuti e 1200 bare accatastate da un anno e mezzo senza degna sepoltura».

E poi che farà?

«Sono amareggiato, psicologicamente distrutto. Faccio le liste per le regionali, entro fine anno lascio e torno in Burundi a fare il medico».

Dalla kermesse dei pm alle polemiche su Lagalla. Show del partito dei Pm, ma Falcone direbbe: “Non in mio nome”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

“Non nel mio nome”, avrebbe detto Giovanni Falcone. Il magistrato assassinato da Cosa Nostra avrebbe avuto in orrore il fatto che, nelle celebrazioni del trentennale della sua morte, si accendessero, nel suo nome, guerre di religione con crociati pronti a uccidere invocando un qualche dio. Non avrebbe apprezzato, lui che ha sempre negato l’esistenza del terzo livello della mafia, quei professionisti dell’antimafia in toga –capostipite Nino Di Matteo- che raccoglievano applausi citando i nomi di Andreotti e Berlusconi.

E ancor meno si sarebbe entusiasmato, lui sempre così rispettoso nei confronti delle istituzioni, sull’uso politico che del suo nome veniva fatto, con la messa alla gogna del candidato non gradito. Già, perché a Palermo il 12 giugno si vota per la successione a Leoluca Orlando, che pareva eterno nella sua carica di sindaco. E ci sono i politici di sinistra, con tutto il loro entourage di giornalisti coccodé, che paiono impazzire all’idea di un possibile cambiamento di regime. In questo sciagurato caso, vorrà dire che al posto di un antimafioso ci sarà un mafioso. Lo dicono nel nome di Giovanni Falcone. Un incontro di magistrati “antimafia” si è svolto, quasi in competizione con le celebrazioni ufficiali del 23 maggio, al teatro Golden di Palermo su iniziativa della rivista “Antimafia duemila”. I nomi sono da parterre de roi: oltre al consigliere Di Matteo, il suo collega del Csm Sebastiano Ardita, e poi l’ex procuratore generale Roberto Scarpinato, il pm di Firenze Luca Tescaroli, titolare delle indagini sui presunti mandanti delle stragi del 1993, e il procuratore calabrese Giuseppe Lombardo, un altro “antimafia” doc per l’inchiesta sulle relazioni ‘Ndrangheta-Cosa nostra.

Non manca proprio nessuno. Sono uomini delle istituzioni e dovrebbero avere un moto d’orgoglio e allontanarsi subito da un cartello che li ha convocati sotto il titolo “Fuori la mafia dallo Stato”. Giovanni Falcone si sarebbe tenuto lontano da quel titolo e da quel teatro. Nulla da dire sul fatto che questo gruppo di magistrati abbia preferito disertare quello che Nino Di Matteo ha definito “lo sterile esercizio di una stucchevole retorica di Stato” e Scarpinato (che il quotidiano La Stampa nella cronaca definisce “commosso”) “una falconeide sedativa da corriere dei piccoli”. Applauso dunque a queste toghe così schive, che preferiscono ricordare lontano dai riflettori il loro collega assassinato dalla mafia. Però quel titolo “fuori la mafia dallo Stato”, da nessuno contestato, dice in modo esplicito che ancora oggi, non solo ai tempi di Ciancimino, le istituzioni (anche la magistratura?) sarebbero inquinate da complicità mafiose.

Vien da chiedersi quindi se questi procuratori ne siano veramente convinti e sulla base di quali elementi. O sono tutti pasoliniani dell’ “io so, ma non ho le prove”? Certo, non ci tranquillizza il ragionamento di Nino Di Matteo nei confronti del Parlamento e del Governo, impegnati nella “riforma Cartabia” sulla giustizia. Ma poco rispettoso anche verso la Corte Costituzionale e gli organismi di giustizia europei. “Falcone –ha detto, sempre nel suo nome- è stato tradito e ucciso da quelle istituzioni che in queste ore hanno partecipato al gran gioco delle finte commemorazioni e domani, tornate a Roma, riprenderanno a lavorare per smantellare pezzo dopo pezzo le leggi antimafia da lui ispirate, 41 bis ed ergastolo ostativo”. E “voteranno una riforma…”.

“Non nel mio nome!”. Questa volta lo griderebbe, Giovanni Falcone. Non solo per la mancanza di rispetto istituzionale, ma anche perché le leggi di cui parla il consigliere Di Matteo, in parte sono diverse dai principi da lui ispirati, e in altra parte sono state votate dopo la morte del giudice assassinato. La due giorni di celebrazioni che è alle nostre spalle ha lasciato sul terreno, come unica vera vittima, proprio il nome di Giovanni Falcone. Ma c’è stata anche una vittima collaterale, il povero professor Roberto Lagalla, stimatissimo rettore emerito dell’Università di Palermo ed ex assessore regionale, che pare avere come unica (quella vera) “colpa”, quella di essere il candidato del centro-destra al ruolo di sindaco come successore di Leoluca Orlando, cioè proprio di colui che accusò Falcone di nascondere nei cassetti le prove della mafiosità delle istituzioni, il terzo livello, insomma.

Dovrebbero ricordarsene gli uomini della sinistra, prima di avere la pretesa di fare gli esami del sangue sul tasso di mafiosità al candidato Lagalla a causa del sostegno politico manifestato nei suoi confronti da Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri. E dovrebbero apprezzare il fatto che uno stimatissimo giurista come Giovanni Fiandaca, che fu candidato del Pd alle europee, abbia ammonito che i due esponenti politici, avendo scontato la loro pena (Cuffaro per fiancheggiamento, e Dell’Utri per concorso esterno alla mafia) “hanno tutta la libertà di continuare a impegnarsi politicamente”. Non lo apprezzano per niente il direttore de La Stampa Massimo Giannini, che impegna due cronisti oltre alla propria prestigiosissima penna e la prima pagina del quotidiano per denunciare quella “sedia vuota” lasciata, nella manifestazione ufficiale, dal professor Lagalla, dopo che il giorno prima era stato redarguito da Maria Falcone ma poi insultato dal regista Pif e trattato come un mafioso. E lasciamo perdere il titolo de La notizia, che essendo la brutta copia del Fatto quotidiano deve spararla grossa per farsi ascoltare: “Se la mafia vive di segnali, il candidato del centrodestra a Palermo, non celebrando Falcone, gliene ha dato uno chiarissimo”. Non nel mio nome, per favore. Non nel nome di Falcone.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L'inchiesta già finita in polvere nel 2009. Dopo il flop “mafia” la procura di Roma ci riprova: ecco ‘ndrangheta capitale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Maggio 2022. 

Se a Roma non esiste Mafia Capitale, ci sarà almeno ‘Ndrangheta Capitale. Ci aveva già provato a dimostrarlo nel 2009 la Procura di Pignatone e Prestipino ed era andata male, dieci anni dopo, compreso il dissequestro del mitico Café de Paris. Ci riprovano oggi, inquirenti e forze dell’ordine, in coordinamento con la procura di Reggio Calabria con il sequestro di 24 società e 72 arresti, 43 nel Lazio e 35 in Calabria. Il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino ha guidato le indagini, mentre il suo ex capo e mentore Giuseppe Pignatone sostiene l’operazione con un editoriale su Repubblica dal titolo “Il contagio della ‘ndrangheta”.

Può essere che quest’operazione, apparentemente così brillante perché ha portato agli arresti di personaggi come Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro e alla scoperta dell’esistenza a Roma di una vera ‘ndrina calabrese, avrà il meritato successo, coronato da sentenze dei tre gradi di giudizio. Così si potrà cancellare l’onta delle decisioni di segno opposto del passato. Quella che ha negato l’esistenza della mafia a Roma e l’altra identica sulla presenza della ‘ndrangheta. Ma è proprio necessario dover comunicare al mondo che la capitale d’Italia, se proprio non è il centro nevralgico della mafia che fu di Riina e Provenzano, quanto meno è ‘Ndrangheta Capitale?

Certo, se esistesse già il fascicolo delle performance dei magistrati, qualche macchiolina il nome di Vincenzo Alvaro, considerato il capo della ‘ndrina romana, dovrebbe averla lasciata. Nei fascicoli dei pm e magari, se fosse possibile, anche nelle carriere di qualche giornalista. Non occorre essere di Roma e conoscere via Veneto per ricordare la storia gloriosa di quel Café de Paris frequentato negli anni cinquanta e sessanta da Frank Sinatra, Federico Fellini e Marcello Mastroianni. Quel luogo magico oggi non esiste più soprattutto a causa di un’indagine sballata della Procura di Roma. Era il 22 luglio del 2009 quando guardia di finanza e carabinieri del Ros posero sotto sequestro preventivo il bar, insieme ad altri centri commerciali, ristoranti e società varie, e misero le manette a una serie di persone, presunte affilate alla ‘ndrangheta. Nel mirino soprattutto l’imprenditore calabrese Vincenzo Alvaro, ritenuto il proprietario occulto del locale di via Veneto e il capo dell’infiltrazione mafiosa nell’economia della città.

Anche allora, proprio come oggi, apparvero titoloni allarmistici per la scoperta delle “mani”, o dei “tentacoli” della organizzazione mafiosa sulla capitale d’Italia. È impressionante come la storia giudiziaria di questo Paese, quella più strillata e valorizzata dai media, si ripeta come in una perversa catena di Sant’Antonio: retata-condanne in primo grado-assoluzioni in appello con conferma di cassazione. E il reato associativo di stampo mafioso, quello su cui tutto si era retto, sbriciolato. Anche quella volta è andata così. Intanto il numero degli imputati era stato già sfrondato in primo grado, con quattordici condanne su ventiquattro imputati. Ma la sentenza -siamo nel 2014- aveva consentito di far apprezzare ai giornali i “quarant’anni alla cosca degli Alvaro”, secondo la pessima abitudine di certi cronisti giudiziari di sommare gli anni di condanna. In realtà la pena inflitta a Vincenzo Alvaro, la più pesante, era stata di sette anni di carcere. Non proprio un peso da capomafia. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che aveva coordinato le indagini, aveva espresso soddisfazione per averci visto giusto, con i sequestri preventivi di tante imprese commerciali tra cui il Café de Paris, a «conferma significativa della presenza di questi spaccati criminali nelle pieghe dell’economia della città».

I tempi della giustizia sono lunghi, si sa, ma il sistema economico non aspetta, e un locale sequestrato nel frattempo muore. E così è stato. Anche se, tra il 2018 e il 2020, una serie di sentenze ha ribaltato l’inchiesta del 2009: dalla cassazione che ha stabilito l’inesistenza del “sistema Alvaro”, fino alla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha riconsegnato ai proprietari 102 beni sequestrati, tra cui il Café de Paris ad Alvaro, e infine la terza sezione d’appello di Roma, che fa cadere l’aggravante mafiosa e assolve tutti gli imputati. Un mucchio di polvere. Questa è la storia che nessun giornale racconta (un plauso a Mattia Feltri, l’unico ad averne fatto accenno). Naturalmente non è detto che l’abbaglio del 2009 e poi del 2014 debba ripetersi nel 2022 e negli anni successivi. Ma ci sarà qualche inquirente, o qualche giudice a rammaricarsi se nel frattempo quelle che erano fiorenti attività commerciali sono morte e qualche imprenditore è finito sul lastrico? Ci pensino gli entusiasti del blitz di oggi. Dal prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, al sindaco Roberto Gualtieri e al Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La finestra sulla Calabria. 'Ndrangheta in Trentino, il leghista a Morra: «Qui non siamo in Calabria». Il Quotidiano del Sud il 10 Maggio 2022.

“Grave che il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra si sia espresso in quei termini nei confronti del governatore Maurizio Fugatti: qui non siamo in Calabria, dove le radici e la diffusione dei fenomeni delinquenziali sono ben diversi”.

Così Roberto Paccher, consigliere della Lega in Regione Trentino Alto Adige, in merito alle affermazioni del senatore Morra a margine delle audizioni della Commissione parlamentare antimafia a Trento che ha esplicitato incredulo il fatto che Fugatti non avesse avuto sentore di infiltrazioni mafiose nel comune di Lona Lases, al centro del primo processo contro la ‘ndrangheta nel tessuto del porfido.

“Fino ad oggi, ferma restando la giusta necessità di tenere alta la guardia contro ogni tipo di criminalità, stiamo parlando di un caso ben delimitato in un comune della valle di Cembra – ha aggiunto Paccher –. Non mi pare che le istituzioni qui in Trentino si siano mai tirate indietro dal collaborare con qualunque soggetto impegnato in indagini con le forze dell’ordine, ad ogni livello”.

“Voler insinuare dubbi di questa portata, ammiccando ai cronisti senza per giunta alcun tipo di riscontro, non fa un bel servizio alla comunità e nemmeno all’importantissimo ruolo che il senatore Morra riveste”, ha concluso.

"Trentini onesti e calabresi mafiosi", la Lega del Nord diversa da quella del Sud. PARIDE LEPORACE Il Quotidiano del Sud l'11 Maggio 2022.

LONA-LASES è un Comune del Trentino di 872 anime che unisce il nome dei suoi due principali villaggi. Il prossimo 29 maggio alle elezioni municipali non si voterà perché nessuno ha voluto presentare liste e candidati. Esattamente come il 10 ottobre. Tutto questo perché hanno scoperto che la ‘ndrangheta si è infiltrata in questa terra che si ritiene immune dalla criminalità organizzata. Il sindaco di è dimesso e il commissario regna come un borgomastro.

Lona-Lases come San Luca in Calabria. Oscurati dalla scoperta del primo “locale” di Roma, le cronache si sono distratte dalla visita della Commissione antimafia e del suo presidente Nicola Morra in Trentino. Dopo le audizioni, il senatore calabrese non ha avuto mezze misure e in conferenza stampa ha dichiarato rispetto alla ‘ndrangheta sul presidente della Provincia in carica (il Trentino è regione a statuto speciale divisa in due province autonome): “Fugatti a precisa domanda ha affermato di non aver avuto il minimo sentore di ciò che stava accadendo. Ci si deve domandare se è difetto di intelligenza o altro. Da quanto abbiamo raccolto vi sono state testimonianze di reati spia nel settore del porfido degli anni Ottanta. Ma mentre qualcuno dormiva sonni irenici altri lavoravano per raggiungere altri scopi”.

Fugatti è l’uomo forte della Lega. Deputato e sottosegretario in passato. L’intemerata di Morra (che ha trascurato l’elemento di riservatezza delle audizioni) ha scatenato l’inferno nella politica trentina con nutrite verniciate di razzismo sui calabresi. Nel dibattito in consiglio provinciale si è distinto il consigliere leghista Alessandro Savoi che ha tuonato “Sono allibito dalle parole di Morra che viene dalla regione più mafiosa d’Italia ed è venuto qui in Trentino, portato dai grillini, per darci dei mafiosi. Non a caso i maggiori indagati nell’operazione Perfido sono calabresi e vengono proprio dalle zone dell’onorevole Morra, mentre i cembrani (gli abitanti della Val Cembra) sono gente onesta e per bene. Tornino a casa loro e si ricordino che al nord la mafia l’hanno portata i siciliani e i calabresi”.

Forse Savoi non sa che la Lega ha in Calabria uno sportello antindrangheta e lotta la criminalità ovunque esso sia. Ma questi sono i partiti di oggi. Tutto ruota attorno al porfido che si estrae nella valle. La magistratura ha scoperchiato la pentola proprio con l’operazione Perfido con 19 arresti, decine di indagati tra cui tre esponenti politici locali e sequestri per otto milioni di euro. E Morra, al netto delle disattenzioni istituzionali, sulla sostanza ha le sue ragioni considerato che nel 2017 il professore Nicola Tranfaglia già scriveva: “ll Trentino sembra non accorgersi di nulla. Le cosche gestiscono molti affari riuscendo a mimetizzarsi alla perfezione senza richiamare l’attenzione di nessuno”.

Eppure la Dia all’epoca aveva ricevuto ben 903 segnalazioni sulla presenza della ‘ndrangheta nel Trentino. Ma si deve ad un trentino, segretario comunale proprio di Lona Losas, che aveva segnalato ai magistrati come nelle cave di pietra girassero anche cocaina e sporchi affari. E al consigliere leghista andrebbe anche fatto leggere quello che ha scritto un laureato di sociologia della celebre facoltà di Trento, Alberto Marmiroli, che nella sua tesi su porfido e ‘ndrine smonta la tesi del Trentino felix sostenendo: “È una narrazione che piace molto perché fa sentire migliori di altri, calabresi, campani e siciliani. Come spiegano i medici, però, non si possono avere anticorpi di una malattia che non si ha mai avuto. E in Trentino ci sono ricchezza diffusa, attività tradizionali e piccoli Comuni, oltre a una popolazione con una scarsa percezione: sono dell’idea che il Trentino per un ‘ndranghetista sia il territorio perfetto”.

Il riscontro lo offre anche il collaboratore di giustizia, il calabrese Luigi Bonaventura che nelle sue trascrizioni ha detto a futura memoria: “Il Trentino sembra non accorgersi di nulla. Le cosche gestiscono molti affari riuscendo a mimetizzarsi alla perfezione senza richiamare l’attenzione di nessuno”.

Una questione solo calabrese? Non sembra proprio considerato che a Lona-Lases sono messi peggio di Platì.

NON È QUESTIONE DI MERIDIONALI. L’omertà è un prodotto tipico del Sud? Falso, ecco i documenti sui silenzi nordici. ENZO CICONTE, storico, su Il Domani il 16 marzo 2022

Era il 10 agosto 1867. Anni dopo nella ricorrenza del luttuoso anniversario, il 10 agosto 1904, il poeta Giovanni Pascoli prende carta e penna e scrive ad un altro orfano, Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era stato direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893.

I due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli: sono orfani di un padre assassinato. hanno cercato la verità senza trovarla, si sono scontrati con un muro di silenzio.

La conferma ci viene da alcune vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato. Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di Bologna nel maggio del 1889. Oppure a Torino, all’alba dell’Unità d’Italia.

ENZO CICONTE, storico. Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Fra i suoi libri, Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza).

Disabile dalla nascita, non riuscì a scappare. La storia di Antonio Landieri, vittima innocente della camorra: “Ucciso dai proiettili e dai giornali”. Rossella Grasso su Il Riformista il 4 Maggio 2022. 

Antonio Landieri aveva solo 25 anni quando una pioggia di proiettili piombò su di lui e i suoi amici mentre giocavano a biliardino sotto casa ai Sette palazzi di Scampia. Ci furono 5 feriti. Antonio che non poteva muoversi perché dalla nascita aveva tutto il lato destro paralizzato, non riuscì a mettersi al riparo e morì poco dopo essere arrivato in ospedale. Ma il dramma di Antonio e della sua famiglia non fu solo la morte. Antonio fu ucciso due volte: la prima dai colpi di pistola, la seconda dall’essere additato come criminale. Ma Antonio era solo un ragazzo che stava andando a mangiare una pizza. La sua “colpa”? Essere nato a Scampia. Era il 6 novembre 2004, i terribili anni della prima faida di camorra. Per essere iscritto nell’elenco delle vittime innocenti della criminalità ci sono voluti 12 anni. “Mio figlio è stato trattato come un criminale, non doveva succedere. Quello che è successo ad Antonio non voglio che succeda mai più. Dodici anni sono lunghi per avere una sentenza di vittima innocente”, ha detto Raffaella Landieri, mamma di Antonio.

Sono passati 18 anni da quando Antonio è stato ucciso.  La sua vicenda è esemplare di tanti pregiudizi ed errori che ancora marchiano un intero territorio. “Antonio che doveva andare a mangiare una pizza, non l’ha mai più mangiata – continua mamma Raffaella – Da allora è iniziato il nostro calvario. Perché abitiamo qui a Scampia non ci hanno fatto fare i funerali. Perché abitiamo a Scampia siamo tutti delinquenti, pusher. Ma Scampia non è questo. Ci sono tantissime associazioni e tante persone per bene che si sono ribellate alla malavita. Ma di noi questo non si parla mai. Di noi si continua solo a fare di tutta un’erba un fascio, come è successo ad Antonio”.

Mamma Raffaella ricorda perfettamente quegli istanti così dolorosi in cui suo figlio fu ucciso da un gruppo di fuoco dei Di Lauro in lotta contro gli scissionisti per il controllo del territorio. Antonio con quella vita non c’entrava nulla. Fu scambiato, insieme ai suoi cinque amici, per un gruppo di spacciatori del rione. “Stavo preparando un panettone perché ad Antonio piaceva tanto – ricorda – sentì gli spari giù al palazzo. Chiamai subito mio marito e corremmo giù. L’ascensore no arrivava mai, facemmo 11 piani di corsa a piedi. Appena usciti dal palazzo vedemmo un ragazzo, dal piede gli usciva un sacco di sangue. Ho visto mio figlio Giuseppe chino su Antonio. Ho preso in braccio Antonio, lui ha girato gli occhi all’insù”.

“Quella sera a sparare erano in cinque – racconta Enzo, il papà di Antonio – poi hanno avuto tutti la condanna all’ergastolo perché avevano in carico anche altri omicidi. Siamo stati 12 anni anche senza sapere chi fosse stato a sparare. Non ci hanno fatto fare nemmeno il funerale – continua – quando abbiamo portato la salma al cimitero c’erano le auto della polizia davanti e indietro a noi, solo noi genitori per l’ultimo saluto. Siamo stati trattati come camorristi”.

In un primo momento tutti dissero e i giornali scrissero, che Antonio era un narcotrafficante internazionale, che andava e veniva dalla Colombia, ma la mamma racconta che lui non aveva nemmeno il passaporto. “Poi ‘grazie’, diciamo così, a un pentito che ha raccontato come erano andate veramente le cose quella sera, finalmente Antonio ha avuto giustizia ed è stato dichiarato vittima innocente della camorra. Dodici lunghi anni dopo perché un pentito ha parlato e ha detto che Antonio non era l’obiettivo ma un’altra persona che camminava come mio figlio e aveva lo stesso giubbino”. Il 27 gennaio 2015 Antonio viene dichiarato vittima innocente della camorra, nel 2017 il primo processo. Poi nel 2018 si è concluso il processo di primo grado nei confronti dei responsabili dell’omicidio di Antonio. L’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria si è chiuso nel settembre 2021. Un tempo interminabile.

E intanto la famiglia ha vissuto il suo inferno. “Sono stati 12 anni di angoscia – continua Enzo – Abbiamo perso tutto, a partire dal lavoro. Mia figlia andava a scuola, andava molto bene e non ci è più voluta andare. La guardavano e dicevano: ‘ questa è la sorella di quello ucciso ai Sette palazzi’. Mio figlio era una promessa del calcio e non ha più voluto giocare. Persino mia suocera non è mai più salita a casa nostra”. Enzo e Raffaella raccontano che in quegli anni anche in tribunale erano sempre scortati dalla polizia. “Quando scoprì che uno di quelli che aveva sparato era più piccolo di Antonio, 20 anni, ho capito che quella era una tragedia nella tragedia: io avevo perso mio figlio ed ero condannata all’ergastolo del dolore, lui era un giovane che aveva perso tutto, anche i suoi figli. Due vite perse”, continua Raffaella.

Enzo e Raffaella non hanno mai mollato per dare giustizia al loro figlio. Hanno dovuto lottare con tutti e anche con i giornalisti. “’Hanno ucciso un pusher di Secondigliano, apparteneva a questo, a quell’altro’, scrivevano nei titoli. Le foto di mio figlio in mezzo a quelle dei criminali che lo hanno ucciso. Che tragedia. E poi quando chiedevano scusa usciva un articoletto piccolino”, dice ancora Enzo.

C’è anche un’altra questione che ha particolarmente ferito i Landieri: Gomorra, il best seller mondiale di Roberto Saviano. Uscito nel 2006, due anni dopo l’omicidio di Antonio, tra le sue pagine è finita anche la vicenda del ragazzo e dei suoi amici feriti. “Nel libro c’è scritto che Antonio ‘pare’ che gestisse una piazza di spaccio. Quante copie ha venduto quel libro in tutto il mondo? Tantissime. Una volta in una scuola di Ponticelli un ragazzo ci disse che aveva letto nel libro di Saviano che Antonio gestiva una piazza di spaccio e che non credeva alla nostra testimonianza di familiari di vittime innocenti della camorra”. Saviano tuttavia nel 2013 ha letto il nome di Antonio Landieri tra quelli delle vittime innocenti della camorra durante una manifestazione pubblica.

La dolorosa storia di Antonio Landieri è conosciuta in tutta Italia. Ed è una storia esemplare, purtroppo simile a tante altre che poi sono susseguite dopo. Il cugino Rosaio Esposito La Rossa, editore, l’ha raccontata in un libro dal titolo “Al di la della neve”. Ad Antonio hanno dedicato lo stadio comunale di Scampia, numerosi presidi di Libera in tutta Italia, il primo a Volvera nel 2010, poi a Teano e l’ultimo nel 2018 a Scampia. Una storia importante che non deve essere dimenticata.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Processi di mafia, professionalità più elevata per evitare errori. I tre giudici che compongono il collegio del processo "Rinascita Scott", secondo per importanza solamente al maxi processo di Palermo, non raggiungono insieme i dieci anni di servizio. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 agosto 2022.

«Bisogna evitare che in futuro si ripetano gli errori commessi nella celebrazione dei processi sulla strage in cui ha perso la vita Paolo Borsellino». È quanto ha affermato Antonio D’Amato, già procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere e attuale presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, in occasione dell’ultimo Plenum prima della pausa estiva. A trent’anni dall’eccidio di via D’Amelio e dal più grande depistaggio che la storia giudiziaria del Paese ricordi, il dibattito sulle stragi di mafia del 1992- 1993 è quanto mai attuale.

Nei giorni scorsi era intervenuto al riguardo il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, chiedendo «pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità» sulla morte di Borsellino. Melillo aveva poi sollecitato l’esigenza di elevare la professionalità dei magistrati che si occupano dei fenomeni mafiosi, in particolare per gli aspetti relativi alla «raccolta delle dichiarazioni del collaboratore».

Per rendere maggiormente efficace il contrasto alla criminalità organizzata ed evitare i tragici errori del passato, la soluzione proposta da D’Amato prevede una riscrittura del Regolamento interno del Csm con la reintroduzione della Commissione antimafia. I componenti di tale Commissione, oltre allo studio della normativa antimafia e al monitoraggio degli uffici impegnati nei processi di mafia, avrebbero «l’obbligo di recarsi presso i medesimi uffici giudiziari al fine di ascoltare i colleghi e i dirigenti».

La Commissione antimafia di Palazzo dei Marescialli, lavorando in sinergia con le altre Commissioni, potrebbe allora fornire elementi di conoscenza circa “situazioni di incompatibilità” che si possono venire a creare, senza trascurare quanto attiene ai requisiti per i magistrati che aspirano ad incarico direttivo e semidirettivo.

Valutando gli «assetti organizzativi degli uffici (giudicanti e requirenti)» si potrebbero far acquisire al Csm «elementi preziosi di valutazione così da contribuire a rendere le decisioni consiliari più “vicine” alle reali esigenze dell’ufficio giudiziario e dunque, più efficaci in un’ottica di sollecita ed efficiente gestione di indagini e processi per fatti di criminalità organizzata di tipo mafioso».

Con una attività così organizzata, puntualizza D’Amato, «sarebbe più facile prevenire il formarsi di situazioni “anomale” e “particolari” nelle quali si annidano, assai spesso, gli errori nella conduzione di indagini e di processi anche delicati, così da scongiurare il rischio che alcune delle criticità emerse in relazione a procedimenti anche delicatissimi per la storia del nostro Paese vengano reiterate».

L’altro aspetto da non sottovalutare è relativo invece all’attività di formazione permanente dei magistrati impegnati nel settore specifico della lotta alla criminalità organizzata ed al terrorismo. Per D’Amato è fondamentale una «incisiva opera di individuazione, in questa materia, delle linee guida sulla formazione da rendere alla Scuola superiore della magistratura ed una scelta più impegnata e trasparente dei formatori». È innegabile, infatti, che l’estrema delicatezza della materia necessiti di magistrati opportunamente formati e, possibilmente, d’esperienza.

Un auspicio che molte volte si scontra con la realtà degli uffici giudiziari del Sud caratterizzati da un fortissimo turn over. Tanto per fare un esempio i tre giudici che compongono il collegio del processo “Rinascita Scott“, secondo per importanza solamente al maxi processo di Palermo, non raggiungono insieme i dieci anni di servizio. 

«Giudici incompatibili»: scure sul processo Rinascita. La Corte d'Appello di Catanzaro ha accolto l'istanza di ricusazione presentata dai legali di un imputato. E ora l'intero processo rischia di ripartire da zero. Valentina Stella su Il Dubbio il 12 agosto 2022.

Colpo di scena al processo Rinascita Scott: la prima sezione penale della Corte d’Appello di Catanzaro ha infatti accolto la richiesta di ricusazione presentata dagli avvocati del presunto boss Giuseppe Antonio Accorinti, Francesco Sabatino e Daniela Marina Garisto, nei confronti dei giudici Brigida Cavasino e Gilda Romano, rispettivamente Presidente e componente del collegio giudicante.

Il motivo? I due magistrati, quali componenti del Collegio del Tribunale di Vibo Valentia, emettendo sentenza nell’ambito del processo denominato “operazione Nemea”, avevano di fatto valutato pure la posizione di Accorinti, «ricostruendo l’assetto strutturale e le modalità di funzionamento dell’associazione mafiosa operante sul territorio di Zungri con a capo I’Accorinti, specificando altresì la faida esistente tra le due fazioni criminali»; in tal modo «avevano anticipato la valutazione sul merito della colpevolezza dello stesso».

Una specie di anticipazione di giudizio nei confronti Accorinti che, non a caso, era stata segnalata dagli stessi giudici che avevano opportunamente presentato richiesta di astensione dal maxiprocesso Rinascita Scott, dopo il deposito delle motivazioni della sentenza Nemea, richiesta di astensione tuttavia respinta dal presidente del Tribunale di Vibo Valentia.

La Corte d’Appello si è pronunciata in sede di rinvio dopo un precedente annullamento ad opera della Cassazione di una precedente ordinanza di un’altra sezione di Corte d’Appello che aveva respinto l’istanza dei difensori. Per questi giudici catanzaresi l’istanza dei difensori invece risulta fondata. «Dirimente è accertare – si legge nel provvedimento – se la posizione di Accorinti sia stata oggetto di valutazione di merito nell’ambito del processo “Nemea”, così come ritiene la difesa. Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha peraltro chiarito che “anche una valutazione incidentale del merito della posizione del terzo può giustificare la ricusazione del giudice” (Cass. Pen. sez. I n. 25004/22)”. Pare dunque doversi concludere – proseguono i magistrati – che il giudice del processo “Nemea”” ha, di fatto, coinvolto nelle sue valutazioni anche Accorinti, presentandolo come “capo mafia” la cui presenza sul suo territorio il Leone Soriano non poteva tollerare».

Sempre la Corte d’Appello spiega che il Collegio che ha deciso il processo “Nemea” ha perciò «proceduto ad una valutazione incidentale di merito anche quanto alla posizione associativa dell’Accorinti e tanto vale a fondare l’incompatibilità della dott.ssa Brigida Cavasino e della dott.ssa Gilda Romano a giudicare Accorinti quale imputato nel processo “Rinascita-Scott” tra l’altro del reato di associazione mafiosa». Infine, «deve essere dichiarata l’inefficacia degli atti a contenuto probatorio compiuti dal collegio composto dagli stessi due magistrati a partire dalla data del 5 marzo 2021 (data del deposito della sentenza nel processo “Nemea”), non ravvisando profili di inefficacia negli ulteriori atti compiuti in particolare in materia cautelare». Cosa succede ora? La posizione di Accorinti verrà stralciata e sarà giudicato da altri giudici. Ma resta una questione: il capo di imputazione di Rinascita Scott riguarda un’associazione ndranghetista unitaria, un unico reato commesso da più persone in concorso. A ciò si aggiunge che, secondo la sentenza delle Sezioni Unite Gerbino, gli effetti della ricusazione potrebbero ricadere su tutti gli altri imputati. Quindi tutto da rifare anche per gli altri imputati? Prossima udienza: 2 settembre.

Gratteri: “La mafia ha i suoi giornali”. Se non è un’iperbole, vorremmo saperne di più. Clamorosa denuncia del procuratore di Catanzaro, che in un incontro con gli imprenditori vicentini ha parlato di opinione pubblica condizionata da testate di proprietà criminale. Due sono le cose: o l’allarme è immotivato, o lo stiamo incredibilmente sottovalutando. Errico Novi su Il Dubbio il 20 ottobre 2022.

Il potere controlla i media. Si sa. E poi, nell’altra metà campo, c’è l’indipendenza di noi giornalisti. Tra i due fattori, libertà e potere, c’è sempre una dialettica, dagli esiti variabili. Ma qualcosa cambierebbe nel momento in cui il potere che controlla tv e giornali fosse un potere criminale.

Ecco, c’è una differenza. Un conto è il condizionamento delle grandi banche, dei grandi interessi, inevitabilmente dotati delle risorse per comprare quotidiani e altri mezzi d’informazione. Ma se l’editore è la mafia o la ’ndrangheta, cambia parecchio. E pure in un Paese come il nostro, in cui l’intreccio oscuro degli interessi è una suggestione intramontabile, ancora non siamo arrivati al punto di trovare giornali finanziati dalla malavita. O meglio: non c’eravamo ancora arrivati.

Fino a un paio di giorni fa, quando Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, si è trovato a conferire davanti a una platea di imprenditori vicentini a Schio, radunati dal locale Lions club e, secondo il report del quotidiano “L’identità”, ha detto: “Se le mafie anziché acquistare aziende cominciano a comprare, o hanno già comprato, pezzi di giornali e televisioni, lo fanno per manipolare l’opinione pubblica. Vogliono indirizzare il pensiero della gente”. Ha quindi aggiunto: “Nel dibattito politico non si parla più di contrasto alla mafia. Non avverto più la tensione morale di un tempo”. Quasi a voler condividere l’idea che il fenomeno dell’editoria criminale già è avanzatissimo e produce i suoi devastanti effetti.

Nessuno, finora, ha reagito. E un po’ restiamo interdetti pure noi. Ci sono dunque colleghi, direttori, testate, al soldo delle mafie. Sono rimasti interdetti tutti, tanto che nessuno ha replicato, né dal mondo dell’informazione né da altre parti. Su una frase gravissima come quella di Gratteri potrebbe muoversi, oltre alle rappresentanze istituzionali e sindacali di noi giornalisti, anche la Procura nazionale antimafia, che coordina le informazioni investigative particolarmente quando provengono da uffici giudiziari diversi.

Certo c’è un’altra possibilità. E cioè che sulla gigantesca e finora sottostimata denuncia di Gratteri – la mafia ha i suoi giornali e le sue tv – continui il silenzio. Vorrebbe dire che si dà per scontata una cosa, a proposito del procuratore di Catanzaro: che in qualche caso può anche volutamente esasperare il grado dell’allarme. Può essere un modo per tenere alta la vigilanza sull’illegalità, sul diffondersi del crimine. Ma in questo caso siamo noi giornalisti, per una volta, ad avere il diritto di essere informati.

Di sapere se davvero alcuni di noi sono soldatini delle cosche, stipendiati da chi è passato dalle stragi agli investimenti. Se c’è qualcosa di concreto, in quella denuncia, non chiedeteci di indagare su noi stessi. Se c’è qualcosa di accertato (non di ipotizzabile, ma di accertato) fateci leggere le carte. Su una cosa del genere, anche Gratteri ne converrà, il decreto sulla presunzione d’innocenza non imporrebbe alcun divieto.

La Cassazione gli dà di nuovo ragione. Pittelli batte Gratteri 3-0, ora liberatelo! Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Ottobre 2022 

Che cosa potrebbero fare di più, i giudici di Cassazione, dopo che per ben tre volte hanno annullato i provvedimenti della magistratura di Catanzaro che ostinatamente tiene prigioniero ai domiciliari l’avvocato Giancarlo Pittelli? Le indicazioni dell’ultima sentenza, emessa nella serata di venerdì scorso, sono chiare, e il Tribunale della libertà del capoluogo calabrese non potrà che adeguarsi, e finalmente allora, si spera, l’ex parlamentare di Forza Italia potrà riavere la libertà.

Le accuse che tre anni fa portarono Pittelli in carcere, e poi ai domiciliari e poi ancora in carcere, dove il procuratore Gratteri lo vorrebbe ancora, e infine sempre prigioniero nella sua abitazione, sono state eliminate dalle sentenze della Cassazione come le foglie del carciofo. Una dopo l’altra, fino ad arrivare al cuore dell’ortaggio, che proprio cuore non è. Perché anche l’ultima imputazione, quella che tiene l’avvocato ancora con i polsi stretti nella custodia cautelare, è stata ormai demolita. È avvenuto in seguito alla presentazione di prove inequivocabili davanti ai giudici della Cassazione da parte del Presidente dell’Unione Camere penali Giandomenico Caiazza, che insieme agli avvocati Contestabile e Staiano assiste il collega catanzarese.

Potremmo aggiungere che quest’ultima “prova” presentata dai Pubblici ministeri avrebbe potuto finire da subito nella pattumiera, quella marroncina degli alimentari, insieme alle altre foglie esterne del carciofo, se le accuse che hanno riguardato Giancarlo Pittelli non fossero state così superficiali e sciatte. Come dimenticare il fatto che quando è capitato che, come si usa ancora al sud in segno di rispetto, alcuni personaggi dessero del “voi” all’avvocato, questo sia stato interpretato come sua complicità con la cosca mafiosa? Per non dire del fatto che qualche parola di gentilezza, qualche offerta di aiuto, magari per un bambino ricoverato in ospedale, sia stata scambiata per prova di sodalizio criminale. Tutti indizi che, secondo l’accusa, avrebbero rafforzato il quadro dell’appartenenza, sia pure con un ruolo “esterno”, dell’avvocato Pittelli alla cosca mafiosa.

Il cuore del carciofo porta il nome del “pentito” Mantella, e la “prova” in un’intercettazione ambientale. Una data, il 12 dicembre 2016. Pittelli è in auto con un certo signor Giamborino e parlano di quel collaboratore di giustizia. Commentano dei “sentito dire”, e l’avvocato Pittelli avrebbe rivelato al suo interlocutore che il collaboratore di giustizia avrebbe dichiarato ai magistrati un fatto che avrebbe incriminato il proprio fratello. Così i magistrati avevano dato per scontato che l’avvocato si fosse dato da fare per procurarsi in modo illegale dei verbali di interrogatorio secretati, e che avesse dei canali privilegiati per poter fare da trait-d’union con la cosca mafiosa e agevolarne l’attività criminale. La rivelazione di quella specifica dichiarazione del “pentito” sul fratello sarebbe la prova decisiva dell’attività di complice che l’avvocato Pittelli avrebbe svolto nei confronti della ‘ndrangheta.

A questo punto, domandiamoci perché i difensori del legale affermano senza ombra di dubbio che Pittelli è innocente. Perché sarebbe stato sufficiente controllare le date. A quella del 12 settembre 2016, giorno dell’intercettazione, il collaboratore di giustizia aveva già reso due interrogatori, in cui aveva parlato del fratello, effettivamente, ma solo per scagionarlo. Si parlava del prestito di un’auto, che era stata utilizzata per andare a compiere un omicidio. Mio fratello non ne sapeva niente, aveva detto Mantella. Se l’avvocato Pittelli avesse avuto accesso a quei verbali e avesse avuto l’intenzione di divulgarli per favorire la cosca e magari aiutare qualche mafioso a darsi alla latitanza, non avrebbe mai detto che il collaboratore di giustizia accusava il fratello, ma se mai al contrario che lo difendeva.

Se qualcuno, pubblico ministero o giudice avesse dimostrato più curiosità che pregiudizio, si sarebbe accorto del fatto che solo al terzo interrogatorio, cioè un mese e mezzo dopo rispetto al giorno in cui l’avvocato Pittelli fu intercettato mentre parlava con il suo assistito Giamborino, il “pentito” aveva detto che il fratello sapeva che i suoi amici stavano andando a compiere un omicidio. Lo aveva quindi accusato di complicità. Ma un mese e mezzo dopo. Dov’è quindi l’ “accesso indebito a atti omissati”? Dove è dunque finito quel quadro di “gravità indiziaria” per cui Giancarlo Pittelli deve continuare a essere prigioniero, oltre a tutto di un processo abbandonato dalla stessa procura e con due giudici su tre con la spada di Damocle delle ricusazioni?

Il processo Pittelli è tutto qui, nel cuore del carciofo. Ma è difficile dimenticare che, tra le foglie esterne del carciofo, quelle che ormai giacciono nella pattumiera marroncina degli alimentari, c’erano intercettazioni male interpretate se non manipolate, e anche l’accusa al legale di aver svelato altre notizie segrete, di cui in realtà avevano già parlato giornali e canali come Zoom. Ora la parola passa di nuovo al Tribunale della libertà di Catanzaro. Ma di foglie esterne da eliminare non ce ne sono più, è rimasto solo il cuore del carciofo. Insieme, si spera, a cuore e mente dei giudici che tengono nelle mani la vita di un imputato che, dopo tre anni di sofferenze, ha diritto a difendersi nel processo da uomo libero.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il pg della Cassazione demolisce l'imputazione. L’accusa sconfessa Gratteri: “Pittelli non è un mafioso”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Ottobre 2022 

Giancarlo Pittelli non è un mafioso. Lo dice lo stesso rappresentante dell’accusa. Perché il suo sarebbe stato un concorso esterno in associazione mafiosa “dai confini assai incerti”. Così incerti da non esistere se non, al massimo, come favoreggiamento. E’ lo stesso Procuratore generale della cassazione a demolire l’imputazione nei confronti dell’avvocato calabrese voluta da Nicola Gratteri, che lo ha fatto arrestare il 19 dicembre del 2019 e lo tiene ancora prigioniero ai domiciliari. E che lo vorrebbe addirittura rimandare in galera.

Sono ormai passati tre anni da quella notte del blitz con centinaia di arresti in Calabria, una vera retata che avrebbe dovuto far tremare i polsi non solo alle cosche della ‘ndrangheta, ma a quella famosa “zona grigia” di imprenditori e politici che avrebbe dovuto squassare l’intera classe dirigente della Regione. Le cose non sono andate proprio così, e se è vero che il procuratore Gratteri sognava di diventare il nuovo Falcone, la delusione è stata grande, e l’alto magistrato è rimasto con le pive nel sacco. Che cosa è rimasto infatti della Grande Retata? Polvere e (pochi) lapilli.

Prima di tutto perché i giudici di diversi gradi, dal tribunale del riesame fino alla cassazione, hanno restituito la libertà a moltissimi imputati.  Poi sono emersi, piano piano e uno dopo l’altro, una serie di errori procedurali. Perché dopo la prima ricusazione dei confronti della Presidente del tribunale di Vibo che inizialmente stava conducendo il processo, da parte della stessa Procura, le ricusazioni si sono susseguite per iniziativa di una serie di imputati nei confronti della nuova Presidente e di una delle due giudici laterali. Infine, e il fatto è clamoroso, l’aula bunker di Lamezia, fatta appositamente costruire per il processo “Rinascita Scott” e pubblicizzata per i turisti con diversi cartelli e segnaletiche stradali, in modo che chiunque vada in Calabria sappia che quello è il luogo in cui si annienterà la ‘ndrangheta, è perennemente vuota. Proprio pochi giorni fa, a firma del segretario Francesco Iacopino e del Presidente Valerio Murgano, la Camera Penale di Catanzaro ha lanciato un vero allarme.

Quello che era stato definito “il processo del secolo”, scrivono nel documento gli avvocati, è diventato solo un luogo in cui, invece di giudicare gli imputati secondo le regole della Costituzione e dello Stato di diritto, ci si limita a “sbrigare la pratica”, dimenticando che lì ci sono persone, innocenti secondo la Costituzione e non soggetti buttati in “centri di raccolta imputati”. E gli avvocati non sono comparse, obbligate a fare atto di presenza e a correre in affanno dai vari tribunali fino a quel luogo in mezzo al nulla per rincorrere i propri assistiti secondo il piacere delle toghe. Oltre a tutto toghe sempre più delegittimate dalla varie istanze di ricusazione. Una delle quali è stata presentata proprio da Giancarlo Pittelli.

Che fine ha fatto il suo “Rinascita Scott”, dottor Gratteri? Questa frase del Procuratore generale della Cassazione sui “confini incerti” del reato di concorso esterno in associazione mafiosa contestato al famoso avvocato calabrese, non le ricorda qualcosa? Altri tempi, e un altro alto magistrato, Otello Lupacchini, che parlò di “ombre lunari” e che lei riuscì a fare cacciare dalla magistratura. E il Csm che metro di misura ha usato nel paragonare i risultati tra l’attività professionale dell’uno e dell’altro procuratore? La desolazione vuota dell’aula bunker di Lamezia parla da sola. E intanto, ci spiace doverlo ricordare ancora, ma il procuratore Gratteri si è candidato all’Antimafia nazionale, alla Procura di Milano e ora a quella di Napoli. Lascia il campo, così, signor procuratore?

E l’avvocato Pittelli, colui nei cui confronti lei ha chiesto e ancora richiesto la detenzione cautelare in carcere, dopo tre anni, deve ancora essere rinchiuso per un’accusa “dai confini incerti”? Non possiamo dimenticare quel che lei aveva detto di lui, dopo gli arresti del 2019. Lei aveva sostenuto che il legale ed ex senatore della Repubblica, era la cinghia di trasmissione tra le cosche mafiose e la società civile, il mondo delle professioni, della politica e della massoneria. Esaminiamo allora, dai documenti dell’accusa e da quelli della difesa che ieri si sono fronteggiate davanti alla seconda sezione penale della cassazione, quali sono gli elementi di accusa che tengono Giancarlo Pittelli non solo imputato davanti a un tribunale composto da tre giudici di cui due ricusate, ma anche ancora vincolato alla detenzione domiciliare.

Impedito dal 2019 di svolgere una normale vita e una normale possibilità di difendersi nel processo. Di tutte le frattaglie che arricchivano il fascicolo del pubblico ministero tre anni fa, una sola accusa è rimasta, dopo aver separato il grano dal loglio. Il legale è sospettato di aver spifferato a un proprio assistito il contenuto di dichiarazioni rese al pubblico ministero da un coimputato “pentito” che, a quanto pare, si accingeva ad accusare persino i propri familiari, e in particolare il fratello. Notizie segrete, che l’avvocato Pittelli non avrebbe dovuto conoscere direttamente. Infatti ne aveva solo sentito parlare.

Perché quel giorno, la data del 12 settembre 2016 è sicura perché c’è un’intercettazione ambientale, ne avevano già parlato un giornale, il Quotidiano del sud, e un sito, Zoom 24. E addirittura le accuse al fratello saranno verbalizzate un mese dopo. Quindi Giancarlo Pittelli ha “millantato”, era stata la conclusione del tribunale di Catanzaro che aveva rigettato l’istanza dei suoi legali Caiazza e Staiano. Cioè si sarebbe vantato di qualcosa che non conosceva, ma comunque avrebbe inteso aiutare il suo assistito e di conseguenza la cosca di cui lui era il boss. La solita confusione tra imputato e difensore buttata lì dagli uomini delle procure e a volte dagli stessi giudici, non solo calabresi, di cui si lamentano costantemente gli avvocati e la Camere penali.

E’ così che siamo arrivati di nuovo in cassazione, dopo una sentenza che il 25 giugno del 2020 aveva sfrondato il testo dell’accusa da una serie di fatti che in nessun modo potevano essere qualificati come reati. E’ rimasto solo lo “spiffero”, ovvero la “millanteria”. Ma si tiene prigioniero un uomo per tre anni per un concorso “dai confini incerti?”. Sapendo anche che, qualora si fosse trattato, come ha suggerito il procuratore generale, di un semplice favoreggiamento, probabilmente le manette non sarebbero neppure state necessarie. Ma come si sarebbe potuto, in quel caso, se il principale imputato della famosa “area grigia” non era mafioso, celebrare il Maxiprocesso che avrebbe dovuto rendere il procuratore Gratteri più famoso di Falcone?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il 21 la Cassazione decide sulla misura cautelare. Giancarlo Pittelli è innocente, basta leggere le carte. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Ottobre 2022 

Ci sarà pure un giudice in Cassazione, che avrà voglia di leggere la memoria degli avvocati Caiazza e Staiano, il prossimo 21 ottobre. Se c’è, se quei giudici ci sono, non potranno che stabilire quanto sia infondata la detenzione di Giancarlo Pittelli. E saranno ormai quasi tre anni da quel 19 dicembre del 2019 in cui mezza Calabria fu squassata dal terremoto di quel blitz chiamato Rinascita Scott, poi sfociato in un processo che langue destinato alla morte nell’aula bunker di Lamezia, nei giorni scorsi persino simbolicamente allagata dalla pioggia che ha determinato la sospensione dell’udienza.

L’avvocato Pittelli è ancora prigioniero, mentre il suo processo rischia l’estinzione per il moltiplicarsi delle ricusazioni nei confronti dei giudici. E il principale artefice di quel blitz, il procuratore Nicola Gratteri, è tuttora affaccendato nella speranza di una promozione che lo porti lontano da Catanzaro e dai suoi flop. L’ultimo sono le numerose scarcerazioni dopo l’ultima retata nel cosentino. Se qualcuno ha la curiosità di capire perché l’avvocato Pittelli è accusato di aver “esternamente” sostenuto una cosca mafiosa intestata al suo principale protagonista, un certo Luigi Mancuso di cui il legale è stato difensore per tantissimi anni, la memoria degli avvocati Giandomenico Caiazza e Salvatore Staiano è perfetta per cogliere tutta la pretestuosità e illogicità dell’accusa. Punto di partenza è una sentenza della corte di cassazione del 25 giugno 2020. Sono passati sei mesi dall’arresto dell’avvocato calabrese, e ancora i giornali rimbombano di una serie di episodi e episodietti che dimostrerebbero il suo ruolo di “consiglieri” di mafia.

Avrebbe raccomandato la figlia del boss per un esame universitario, e poi un bambino per un intervento ospedaliero. E addirittura nella conversazione tra due mafiosi mentre passavano davanti a casa sua, al primo che non lo conosceva e chiedeva se lui fosse un mafioso, l’altro rispondeva: “No, è un avvocato”. La cassazione aveva spazzato via tutto ciò come non-reati. Solo un comportamento di Pittelli era rimasto nelle mani dell’accusa, il sospetto che il legale fosse a conoscenza di atti investigativi segreti sulle deposizioni del “pentito” Mantella e li avesse divulgati ai suoi assistiti, in questo modo favorendo la cosca mafiosa. Un punto per l’accusa del procuratore Gratteri che pareva di una certa consistenza. Ma va sottolineato che il processo nei confronti di Giancarlo Pittelli è tutto qui. Lo ha detto la cassazione, non dimentichiamolo. Ora, che cosa ci si aspetterebbe da giudici attenti e imparziali, come devono essere coloro che siedono in mezzo alla bilancia, nel caso in cui si dimostrasse, oltre a tutto con documenti alla mano, che quella “prova” non esiste?

L’immediata scarcerazione dell’imputato, prima di tutto. Avrebbero dovuto essere presi per mano, quei giudici del Tribunale della libertà di Catanzaro che si sono persi in un labirinto di fantasie e deduzioni, tralasciando l’esame dei documenti che scagionano in modo inoppugnabile l’avvocato Pittelli dall’aver rivelato notizia riservate e inedite ai suoi assistiti per aiutare la cosca Mancuso. “La carta canta”, avrebbe detto con soddisfazione l’ex pm Tonino Di Pietro. Invece le carte sono state ignorate. La narrazione della procura di Catanzaro parte da un fatto storico preciso e da una data, il 12 settembre 2016, e da un’intercettazione ambientale tra Pittelli e un certo signor Giamborino. La cosca sarebbe “in fibrillazione” per le deposizioni del “pentito” Mantella, quindi si rivolge al legale per capire che cosa ci sia scritto nelle parti dei verbali coperte da omissis. Ed ecco qui la frase incriminata, la pistola fumante che inchioda Pittelli mentre afferma: “dice che ha scritto una lettera alla mamma, lui…accusa il fratello”. Ecco la prova! L’imputato conosceva verbali segreti del “pentito”, li propalava e li usava per aiutare la cosca.

Peccato che. Peccato che, a quella data, quella dell’intercettazione, la notizia che il “pentito” Mantella avesse scritto una lettera alla madre e che accusasse i più stretti familiari fosse già stata pubblicata dal Quotidiano del sud e fosse stata già diffusa dal sito Zoom 24. Quanto all’accusa nei confronti del fratello, Mantella la farà verbalizzare solo nell’interrogatorio di un mese dopo. Non era neanche ancora una notizia, al massimo un’intuizione, visto che i giornali parlavano di “stretti parenti”. Di fronte a questi documenti inoppugnabili, che cosa ci si sarebbe dunque aspettato da parte del tribunale della libertà? Che anche per quei giudici la parola “libertà” avesse un significato vero. Invece era accaduto che la cultura avesse preso il posto della ragione. Così quei giudici avevano preferito recitare la favola di Esopo, poi ripresa da Fedro e La Fontaine, “il lupo e l’agnello”.

Caro Pittelli, avevano sancito, se anche non mi hai intorbidato l’acqua e non hai violato la legge rivelando a un mafioso atti giudiziari segreti, allora hai commesso un altro reato, quello di “millanteria”. Cioè hai imbrogliato i tuoi interlocutori mafiosi. In questo modo li hai comunque sostenuti, vantandoti di informazioni che in realtà non avevi. Di fronte a un tale paradosso, potranno i giudici di cassazione, che già una volta sono intervenuti a sfrondare i fronzoli accusatori grattereschi, non annullare l’ordinanza del tribunale di Catanzaro? Non potranno. Appuntamento al 21 ottobre. Sperando che nel frattempo le precarie condizioni psicologiche e fisiche di Giancarlo Pittelli non mostrino ulteriori crepe.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Anche l'avvocato ricusa i giudici. Rinascita Scott, il processo che non c’è e rischia di crollare come un castello di carta. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Settembre 2022 

Giancarlo Pittelli ha ricusato i suoi giudici. Due su tre, per la precisione, la presidente del tribunale Brigida Cavasino e una delle due laterali, Gilda Danila Romano. Non è il primo a farlo, e la cassazione e la corte d’appello a cascata sono state già abbastanza chiare al riguardo, le due magistrate non possono garantire l’imparzialità. Loro stesse hanno già ripetutamente richiesto di potersi astenere, ancora ieri in aula, ma il tribunale le tiene legate alla sedia. Benvenuti al “Rinascita Scott”, ormai diventato il processo che non c’è, quello in cui un imputato, l’avvocato Giancarlo Pittelli, che non è certo il più importante per la gravità del reato o per i fatti contestati, ma è ancora nel suo carcere casalingo, è accusato del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa.

Questo processo, è quello che avrebbe dovuto rendere il procuratore Gratteri pari per fama a Giovanni Falcone, quello che, in seguito al blitz del 19 dicembre 2019, tiene impegnati centinaia di imputati e almeno il doppio di avvocati e forze dell’ordine, in una mega dispendiosa aula bunker costruita appositamente a Lamezia e ormai perennemente semivuota. Con i giudici che cadono come birilli per le ricusazioni, mentre il procuratore Gratteri pare sempre impegnato altrove, a candidarsi, prima alla Direzione Nazionale Antimafia (e gli è andata male) e ora al vertice della procura di Napoli. Ma anche in qualche blitz di supporto, come l’ultimo nel cosentino, occasione di feroci polemiche con la ministra Cartabia, il premier Draghi e l’intero Parlamento, colpevole di aver approvato qualche timido provvedimento sulla presunzione di non colpevolezza. Cioè di un principio costituzionale, non di un piccolo colpo di Stato.

In questo clima quasi di abbandono, e di indifferenza nei confronti degli imputati e dei loro diritti, le due giudici incompatibili vengono strattonate e costrette a una presenza quasi solamente notarile, perché concretamente, come loro stesse sanno benissimo, non possono più giudicare una serie di imputati con la serenità dovuta e imposta anche dall’articolo 111 della Costituzione, che garantisce il giusto processo di fronte a un giudice imparziale. Perché le due non possono esserlo? Perché hanno già giudicato alcuni imputati in un processo connesso di nome “Nemea”. E perché la giurisprudenza sia della Corte Costituzionale che della Cassazione a sezioni riunite è molto chiara, soprattutto per quel che riguarda i reati “a concorso necessario”, sull’effetto trascinamento che ha la valutazione di un imputato anche sugli altri.

Il caso dell’avvocato Pittelli è chiarissimo, e gli argomenti usati dai difensori, gli avvocati Gian Domenico Caiazza (presidente dell’Unione Camere penali) e Salvatore Staiano, nell’istanza di ricusazione, molto approfonditi. La base di tutto è la recente ordinanza del 16 settembre della Corte d’appello di Catanzaro che, dopo il rinvio della cassazione, ha accolto l’istanza di ricusazione nei confronti delle due giudici avanzata dall’imputato Luigi Mancuso. Il quale, nella sentenza del processo “Nemea” nel cui collegio giudicante sedevano Brigida Cavasino e Gilda Danila Romano, era stato individuato come “soggetto apicale di una omonima cosca madre, operativa in tutta la provincia di Vibo Valentia”. Che cosa c’entra l’avvocato Pittelli con questa persona? C’entra moltissimo, perché la sua imputazione nasce proprio dal rapporto tra i due, che poi era quello tra difensore e assistito. Ma c’è di più. Nel provvedimento della Corte d’appello, viene ricordato come nell’imputazione di Luigi Mancuso viene esplicitato tra gli altri il suo fondamentale compito di “mantenere i rapporti con i colletti bianchi (professionisti, imprenditori, politici, appartenenti alla massoneria), quali Pittelli Giancarlo, di riferimento per la risoluzione dei problemi della organizzazione”.

Più chiaro di così, il legame processuale. Pittelli nel suo capo d’imputazione è accusato proprio di aver mantenuto costantemente rapporti con il capo di un’organizzazione mafiosa –definito tale proprio come ha scritto la sentenza “Nemea”– in un rapporto definito come “sinallagmatico”, cioè quello che determina obbligazioni tra le parti, “caratterizzato dalla perdurante e reciproca disponibilità a prestarsi ausilio”. Il ragionamento, in conclusione, è ben di più che deduttivo. Perché la corte d’appello di Catanzaro ha già stabilito, nell’ordinanza sulla ricusazione presentata dagli avvocati di Luigi Mancuso, che le due giudici si sono già pronunciate, con la sentenza “Nemea”, sul fatto che esista quella specifica associazione mafiosa e che Mancuso ne sia un capo, senza ombra di dubbio.

E lo ha stabilito usando indizi e prove esistenti anche nel “Rinascita Scott”. Processo in cui al fianco del boss, ma in funzione esterna, compare anche Giancarlo Pittelli, in rapporto confidenziale e strettissimo, “sinallagmatico” . Ruolo che l’avvocato calabrese non potrebbe svolgere se l’associazione non esistesse e se Luigi Mancuso non ne fosse il capo. Se tutto questo ragionamento ancora non convincesse i giudici della Corte d’appello di Catanzaro, ecco la corposa giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle sezioni unite della Cassazione a supportare l’impianto dell’istanza di ricusazione. Ne sono convinte, del resto, le stesse due giudici Cavasino e Romano. Quale è dunque il motivo vero che le tiene incollate loro malgrado alle poltrone in quell’aula? La paura che il castello di carta del processo disveli il castello di carta di tutta l’inchiesta.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il flop del procuratore di Catanzaro. Povero Gratteri, Rinascita Scott smontato come un Lego: il processo è tutto da rifare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

Povero procuratore Gratteri, se gli scoppiasse nelle mani la sua creatura, quel processone “Rinascita Scott” nato con il blitz del 19 dicembre 2019 e che avrebbe dovuto renderlo più famoso di Giovanni Falcone. Dopo la ricusazione della presidente Brigida Cavasino e di una delle due giudici laterali, Gilda Danila Romano, sancita da un’ordinanza della corte d’appello di Catanzaro in seguito all’iniziativa di un imputato, saranno nulli tutti gli atti compiuti dal tribunale a partire dal 5 marzo 2021. Per capire il perché di quella data occorre fare qualche passo indietro. Fino a quel blitz del 19 dicembre 2019 con 340 arrestati e 400 indagati, e alla pompa magna mediatica che lo aveva accompagnato. Con la conferenza stampa dello stesso procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che annunciava non solo di aver sgominato il vertice della ‘ndrangheta, ma anche e soprattutto di aver individuato e colpito quella zona grigia (quella in cui Falcone non ha mai creduto) che fungeva da cinghia di trasmissione tra i boss e la società civile. Poi in realtà tutto si riduceva all’arresto di un paio di legali, di cui uno gravemente malato. Ma i riflettori venivano puntati da subito sull’avvocato Giancarlo Pittelli, perché era un personaggio famoso anche come politico, essendo stato parlamentare. Ma le cose non andarono da subito come gli uomini della Dda avevano sperato. Tra giudici delle indagini preliminari, tribunali del riesame e corte di cassazione, molti provvedimenti erano presto evaporati. Ecco allora il secondo blitz dal nome “Imponimento”, che consentiva, dopo che era stata allestita una maxi-aula a Lametia, di imbastire infine il maxiprocesso, il primo in Calabria, a coronamento del sogno di smontare la regione e poi ricostruirla come fosse un Lego.

Il problema delle incompatibilità dei giudici viene posto da subito, fin dai primi giorni del processo. Ed è sorprendentemente proprio la Dda, cioè la procura “antimafia”, a fare la prima mossa, tirando il calcio dell’asino alla presidente del collegio Tiziana Macrì. Grande sorpresa ha accompagnato in quei giorni il gesto degli uomini di Gratteri, perché era stata presa di mira una giudice stimata da tutti, lontana dalle correnti sindacali e dai convegni in cui vanno a fare la ruota del pavone tanti magistrati. E soprattutto imparziale. Come vedremo nelle vicende che seguiranno, motivi di ricusazione nei confronti della presidente, come delle due giudici laterali, in realtà ci sarebbero stati, perché proprio quelle tre magistrate avevano costituito il collegio di un altro processo, chiamato “Nemea”, un ramo collaterale di “Rinascita Scott”, in cui erano anche presenti alcuni imputati di ambedue le inchieste. Si tratta proprio del processo che può far saltare in aria oggi tutta quanta l’operazione investigativa sulle cosche della ‘ndrangheta in Calabria.

Ma il fatto singolare è che l’azione della Dda aveva messo nel mirino solo la presidente Macrì. Tra l’altro la ricusazione era apparsa da subito poco fondata, anche se convalidata dalla corte d’appello di Catanzaro. La magistrata nel 2018 quando era giudice per le indagini preliminari aveva autorizzato la proroga di alcune intercettazioni, con una motivazione in cui si alludeva a all’organizzazione di stampo mafioso. Che è poi il vero collante su cui si fondano tutte quante le indagini della procura di Catanzaro. Era parso singolare questo argomento, anche perché la cassazione, con pronunciamenti costanti, ha sempre distinto tra la responsabilità del giudice che dispone l’autorizzazione a intercettare e quella di chi si limita a consentire una proroga. Perché la Dda non ha ricusato Tiziana Macrì in quanto presidente del tribunale che aveva emesso la sentenza del processo “Nemea”? Solo ora è chiaro: perché avrebbe dovuto ricusare anche le altre due giudici. Che evidentemente godevano di maggiore stima da parte della procura. Che cosa dobbiamo dunque pensare di questa differenza di trattamento? Certo, quel ramo laterale della mega-inchiesta del procuratore Gratteri non era andato proprio bene per l’accusa: sette condanne, ma anche otto assoluzioni. E tra l’altro, grazie a quella sentenza due degli assolti erano anche usciti definitivamente anche dal processo principale. E dei due che avevano scelto il rito immediato, solo uno era stato condannato. Cioè il cinquanta per cento di quel che aveva chiesto il rappresentante dell’accusa. Forse questa sconfitta del procuratore Gratteri era stata intestata alla sola presidente del collegio giudicante del processo “Nemea”?

Se torniamo a oggi, ritroviamo ancora lo stesso dibattimento, nato da un blitz dell’ 8 marzo 2019 contro il clan Soriano di Filandari , quasi una prova generale di quello con centinaia di arresti del 19 dicembre. Finito con un disastro per l’accusa perché, non solo il numero degli assolti superava quello dei condannati, ma anche perché a questi ultimi le pene erano tate dimezzate rispetto alle richieste. Se la presidente era Tiziana Macrì, la giudice inflessibile e imparziale in seguito ricusata dagli uomini dell’ “antimafia”, non dimentichiamo che le due giudici laterali erano Brigida Cavasino (che ha poi preso il posto della dottoressa Macrì alla presidenza del tribunale che giudica “Rinascita Scott”) e Gilda Danila Romano. Se fossero state ricusabili, lo sarebbero state tutte e tre. Invece la procura di Gratteri fece un’altra scelta, quasi un’operazione chirurgica. Incomprensibile, un anno e mezzo fa.

Ma hanno provveduto gli avvocati. Una decina. Ma uno è andato a segno, il difensore di Giuseppe Accorinti, considerato uno dei tre vertici della ‘ndrangheta vibonese. Il quale ha ricusato le due giudici del processo “Nemea” (Tiziana Macrì era ormai fuori gioco) davanti alla corte d’appello di Catanzaro, che ha in un primo momento respinto la richiesta. Ma poi la cassazione ha invece accolto l’istanza e deliberato un annullamento con rinvio, che è infine sfociato nell’accoglimento della ricusazione da parte di una seconda corte d’appello. Con decisioni ballerine, perché andrebbe anche ricordato il fatto che le due magistrate avevano presentato una richiesta di astensione, che era però stata respinta prima dal tribunale di Vibo Valentia e poi dall’appello di Catanzaro. Il risultato è che, con l’ultima decisione di due giorni fa, che avrà effetto immediato anche se la procura potrebbe presentare un altro ricorso in cassazione, saranno dichiarate inefficaci tutte le decisioni del tribunale a partire da 5 marzo 2021, cioè dal giorno in cui sono stati depositati gli atti del processo “Nemea”. Una catastrofe, per il “Rinascita Scott”, perché la decisione potrebbe avere effetti a cascata, con la possibilità di arrivare alla prescrizione e anche alla revoca delle misure cautelari per decorrenza dei termini.

La possibilità di una vera deflagrazione di tutto il processo è supportata da una recente decisione della cassazione a sezioni riunite (sentenza del 16 luglio 2020 numero 37207), la famosa “sentenza Gerbino”, dal nome di un imputato per associazione mafiosa e narcotraffico che aveva ricusato il suo gup il quale, nelle more della decisione, lo aveva rinviato a giudizio. Le sezioni riunite della cassazione, innovando anche rispetto a decisioni precedenti, aveva riscontrato nel magistrato “un difetto di capacità particolare a giudicare”, attribuendo la sanzione di nullità per mancanza di imparzialità del giudice anche ad atti che non avevano natura probatoria, allargando quindi il cerchio delle possibilità a tutti i provvedimenti giurisdizionali con valenza di decisione. Questioni di tecnica giuridica e processuale, che il procuratore Gratteri e i pm della Dda dovrebbero conoscere e su cui sarebbe stato bene avessero riflettuto, prima di compiere l’operazione chirurgica con cui avevano allontanato la giudice Tiziana Macrì, quella considerata inflessibile e imparziale. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Riprendono le udienze e non si trova un giudice. Rinascita Scott a rotoli, si sbriciola il sogno di Gratteri di diventare più famoso di Falcone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Settembre 2022 

Altro che soufflé che si sgonfia, qui nel forno lo troveranno carbonizzato, il processo, quando domani si riapriranno le porte dell’ormai tristissima e vuota aula bunker di Lamezia per riprendere le udienze del “Rinascita Scott”. Non sappiamo più, di questi tempi, se c’è ancora il famoso giudice a Berlino invocato dal mugnaio di Bertold Brecht, ma pare che non ce ne sia più nessuno a Vibo Valentia, dove di ricusazione in ricusazione non si sa più chi sia in grado di condurre il famoso Maxi che avrebbe dovuto rendere il procuratore Gratteri più famoso di Giovanni Falcone.

Lui stesso pare spingere lo sguardo sempre più lontano. Verso Cosenza, dove si è esibito con un nuovo blitz di duecento persone, e vedremo quante gliene resteranno, dopo i vari gradi di riesame e cassazione. E dove ha rischiato l’azione disciplinare per la nota di sarcasmo con cui ha detto che erano stati arrestati dei “presunti innocenti” di cui non poteva dire nomi né imputazioni. Mentre intanto qualcuno volantinava ai giornalisti l’intero documento dell’ordinanza del giudice. Un inciampo che potrebbe chiudergli le porte di Napoli, e la sua aspirazione a prendere il posto di Giovanni Melillo, al vertice della procura più affollata d’Italia. Ma intanto una lezione Nicola Gratteri dovrebbe averla imparata. Non tutti sono capaci di mettere in piedi un maxi-processo con centinaia di imputati. Anche perché il codice di procedura penale del 1989 dovrebbe andare in direzione opposta. E il procuratore può solo ringraziare gli interventi più conservatori (e nostalgici del sistema inquisitorio) della Corte Costituzionale, se è riuscito a mettere in piedi un baraccone che lega gli imputati tra loro solo sulla base del reato di associazione mafiosa. E che è stato già in parte demolito dai provvedimenti del tribunale del riesame e della cassazione.

La storia delle ricusazioni parte dall’iniziativa della stessa Dda, la procura antimafia di Catanzaro, che, quando il processo cominciò, sollevò l’incompatibilità della presidente Tiziana Macrì, la quale in passato in un procedimento “minore”, nella sua veste di gip, aveva autorizzato la proroga delle intercettazioni nei confronti di un imputato che riapparirà anche nel “Rinascita Scott”. La stessa giudice aveva in seguito presieduto collegi che avevano mandato assolti parecchi imputati fatti arrestare su impulso del procuratore Gratteri. Ma questo, sul piano formale, è secondario. Ed è vero che benché l’incompatibilità fosse dubbia, trattandosi solo di una proroga, probabilmente anche gli avvocati difensori l’avrebbero ricusata. Cosa che stanno facendo ora nei confronti di altre due giudici, la presidente e una laterale del collegio. Il patatrac che sta sbriciolando il maxiprocesso di Nicola Gratteri ha le impronte digitali della Corte d’appello di Catanzaro, che si è pronunciata nello scorso agosto in sede di rinvio sull’incompatibilità della presidente Brigida Cavasino e della giudice Gilda Romano. Le due magistrate, ha stabilito la corte, non possono essere imparziali nei confronti dell’imputato Giuseppe Accorinti perché hanno già espresso un giudizio su di lui nella sentenza del processo “Nemea-Rinascita Scott”. Loro stesse erano ben consce della situazione, tanto che nel marzo 2021 avevano presentato una richiesta di astensione dal maxiprocesso, che però era stata respinta sia dal presidente del tribunale di Vibo Valentia Di Matteo che dalla corte d’appello di Catanzaro.

Sembra la storia di due prigioniere, quella di queste due giudici. E noi, non conoscendo la situazione dei tribunali calabresi, ci domandiamo se non esistano a Vibo Valentia altri magistrati che non abbiamo mai messo la testa sulle carte del processone di Gratteri, oltre a loro. Perché la storia non finisce qui, purtroppo. Perché sia la decisione della cassazione del 12 gennaio che poi quella della corte d’appello del 10 agosto, accogliendo la richiesta di ricusazione dell’imputato Accorinti, hanno dichiarato l’inefficacia di una serie di atti. Si pone però subito un problema: la decisione non dovrebbe riguardare anche il giudizio su tutte le posizioni connesse, quindi altri imputati? Ah le problematiche dei maxiprocessi, dottor Gratteri! Poi la situazione si ingarbuglia perché alla ripresa del processo, pochi giorni fa, il tribunale ha disposto lo stralcio della posizione di Giuseppe Accorinti, e non avrebbe potuto farlo, senza aver prima sentito le parti. Quindi si è ricominciato daccapo. Molti difensori di diversi imputati hanno fatto notare che lo stralcio di una sola persona non risolverebbe il problema delle incompatibilità, in quanto il reato di associazione mafiosa, cioè il collante che tiene insieme tutto quanto il processo e che lega gli imputati l’uno all’altro, è un reato a “concorso necessario”. Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia, dunque.

Tutti inscindibili, come in una certa formula rituale di matrimonio latino. Tra l’altro, la principale imputazione nei confronti di Accorinti nel processo “Rinascita Scott” è quella di essere, insieme a Luigi Mancuso, Saverio Razionale e Rocco Anello, uno dei quattro capi della ‘ndrangheta del vibonese, che viene intesa come una struttura unitaria. Ancora una volta, cascano le braccia. Era proprio indispensabile mettere tutto insieme, vedere sempre il “disegno unico” e coltivare manie di grandezza invece di fare i singoli processi e magari cercare di vincerli? E di assestare qualche bel colpo processuale ai boss? Nel frattempo i pubblici ministeri della Dda di Catanzaro, che rappresentano l’accusa in aula, Antonio De Bernardo e Andrea Mancuso, vogliono mantenere le due giudici all’interno del collegio e andare avanti con il processo, dopo lo stralcio della sola posizione di Accorinti. Ma intanto –piccolo colpo di scena- sia la presidente Cavasino che la giudice Romano hanno presentato di nuovo richiesta di astensione, la prima solo nei confronti di tre imputati, l’altra verso tutti. Sarà di nuovo il presidente del tribunale Di Matteo a dover decidere. Ma insomma, domandiamo ancora, non ci sono altri giudici, in quel di Vibo Valentia? Pare ne esistano altri tre, escludendo anche la dottoressa Macrì già mandata al “sacrificio” dagli stessi uomini della procura.

Ma se qualcuno pensa che l’imbroglio sia di facile soluzione, non ha fatto i conti con gli i difensori degli altri imputati. Prendiamo per esempio la posizione di Luigi Mancuso, che sarebbe uno dei quattro importanti boss del Vibonese. La sua posizione è identica a quella di Accorinti, perché anche nel suo caso la cassazione ha rinviato a un’altra corte d’appello, che nei prossimi giorni non potrà che uniformare la propria decisione a quella dei colleghi, accogliendo le richieste di ricusazione nei confronti delle due giudici. Così si creerà un ulteriore garbuglio procedurale. Che riguarderà, a cascata, una serie di altri soggetti processuali. Tra gli altri anche Giancarlo Pittelli, che continua a essere in vinculis con un’accusa di concorso esterno basata sul fatto che avrebbe favorito proprio Mancuso attraverso la divulgazione di atti segreti, nella sua veste di avvocato. Se il tribunale del Maxi decidesse, come ha fatto di nuovo alla fine dell’ultima udienza rispetto a Giuseppe Accorinti, di stralciare la posizione di Luigi Mancuso (su cui una delle due giudici si è già astenuta) e di farlo processare da un altro collegio, per l’avvocato Pittelli verrebbe messo in scena il teatro dell’assurdo. Con chi avrebbe concorso esternamente nell’associazione mafiosa? Con uno che nel processo non c’è più? Qui le violazioni del codice di procedura si sommano e si sprecano. Certo che se il Csm, nonostante le birichinate dell’altro giorno, dovesse promuovere il dottor Gratteri e mandarlo a dirigere la procura di Napoli, sarebbe bella bollente la patata che rimarrebbe nelle mani del suo successore. Intanto vediamo che cosa succederà nella triste e vuota aula di Lametia domani mattina.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Arrestato da Gratteri e cacciato dall’Arma, il Tar: “Restituite il posto al colonnello Naselli”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Settembre 2022 

La Corte di Cassazione aveva smontato l’impianto accusatorio della Procura di Catanzaro ma per il Comando generale dell’Arma era ‘colpevole’ a prescindere. È quanto capitato al colonnello dei carabinieri Giorgio Naselli, ex comandante provinciale di Teramo, arrestato nell’ambito dell’inchiesta Rinascita Scott condotta dal procuratore Nicola Gratteri. Secondo le accuse, Naselli, quando era comandante del Reparto operativo di Catanzaro, avrebbe intrattenuto rapporti ‘illeciti’ con il parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, anch’egli arrestato nella maxi retata che portò in carcere alla vigilia di Natale del 2019 ben 330 persone.

Per Gratteri, Pittelli, dopo aver avuto da Naselli la notizia “segreta” di una interdittiva antimafia in arrivo ai danni di Rocco Delfino, un imprenditore del posto, l’avrebbe comunicata all’interessato. Pittelli, nel frattempo diventato avvocato proprio di Delfino, avrebbe quindi chiesto un favore a Naselli. La prova schiacciante dell’accordo fra i due sarebbe stata una intercettazione dove il colonnello rispondendo ad una domanda di Pittelli sulla situazione di Delfino spiega che è complicata e poi dice: “Eventualmente lasciamo decantare la pratica”. Da questa frase gli investigatori avevano dedotto che Naselli avesse promesso a Pittelli un rinvio sine die del provvedimento. Circostanza non vera in quanto il provvedimento in questione era stato eseguito esattamente sei giorni dopo la telefonata. I difensori del colonnello, gli avvocati Gennaro Lettieri e Giuseppe Fonte, si erano inizialmente rivolti al tribunale del riesame, ottenendo però la conferma del quadro accusatorio. Il successivo ricorso in Cassazione, a luglio del 2020, aveva invece avuto successo, smontato in radice tutte le accuse.

“L’aggravante agevolativa dell’attività mafiosa ha natura soggettiva e si applica al concorrente solo se da lui conosciuta”, avevano scritto i giudici di piazza Cavour. Una pronuncia che “non lascia scampo alla ipotesi accusatoria, definitivamente demolita”, commentò soddisfatto l’avvocato Lettieri. “Il colonnello Naselli – aggiunse – viene restituito alla libertà, con piena dignità ed immutato onore, che nessuno della nostra comunità, in realtà, aveva mai messo in dubbio. Naselli è stato ‘punito’ senza alcuna colpa e senza alcuna verità, sacrificando i valori di civiltà e di certezza del diritto” . “La giustizia in questo paese trionfa, ormai, soltanto dopo i suoi grandi fallimenti”, aveva poi concluso Lettieri. Nemmeno il tempo di festeggiare, però, che il Comando generale dell’Arma, in fretta e furia, aveva deciso di avviare nei confronti di Naselli un procedimento disciplinare di stato, finalizzato ad accertare se il colonnello avesse ancora i requisiti morali per potere continuare a prestare servizio nell’Arma.

Il responso della Commissione di disciplina, composta da cinque generali nominati personalmente dal numero uno dell’Arma, era stato impietoso: degradazione sul campo e congedo immediato.

Il motivo di un provvedimento così severo? Quello di “aver leso il prestigio ed il decoro dell’Arma”, la classica frase di stile buona per tutte le occasioni. Una decisione che, ovviamente, non era stata accettata da Naselli il quale, dalla sera alla mattina e con quattro figli a carico, si era trovato, sulla base delle imputazioni provvisorie di Gratteri, messo alla porta e senza stipendio. Forte della pronuncia della Cassazione, come nelle migliori tradizioni, ne era allora scaturito un contenzioso amministrativo fra Naselli ed il Comando generale dell’Arma che l’altro giorno ha avuto un esito positivo. I giudici amministrativi hanno, infatti, annullato il provvedimento di destituzione del colonnello.

“Diventa contraddittorio e sintomatico di istruttoria incompleta il fatto di non aver lasciato spazio a quanto nelle more delibato dalla suprema Corte di cassazione in merito ai fatti imputati”, si legge nella sentenza del Tar, secondo cui le contestazioni a Naselli sono “indubbiamente ridimensionate”. Strano modo di agire a viale Romania: gli ufficiali condannati per aver depistato e taroccato le indagini sulla morte di Stefano Cucchi sono tutti in servizio presso gli Stati maggiori dell’Arma, alcuni anche con incarichi di comando, mentre Naselli, senza nemmeno una sentenza di primo grado, si è ritrovato degradato a soldato semplice. Sarà stata l’influenza di Gratteri sul Comando generale? Paolo Comi

Rinascita Scott, Gratteri aveva chiesto di rimuovere il segreto di Stato. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 10 agosto 2022.

CACCURI – «Io sono contrario al segreto di Stato, ritengo che vada tolto se elementi di un’indagine servono per arrivare alla verità giudiziaria, per questo avevo chiesto di toglierlo per l’inchiesta Rinascita Scott. L’Italia è il Paese dei misteri e delle ombre. Il Paese in cui si continua a mantenere il segreto di Stato per 50 anni su cose su cui segreto di Stato non doveva esserci». Lo ha rivelato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, conversando con Pietro Comito sul suo ultimo libro scritto insieme allo storico Antonio Nicaso, “La Costituzione, attraverso le donne e gli uomini che l’hanno fatta”, nell’ambito dell’undicesima edizione del Premio Caccuri.

Si è parlato molto dell’inchiesta che nel dicembre 2019 portò all’arresto di oltre 330 persone (e sfociata in processi a carico di oltre 450 imputati) e che per la prima volta svelò in modo palese intrecci tra ‘ndrangheta, massoneria e politica, volti a pilotare appalti e affari in cambio di voti e a drenare soldi pubblici.

RINASCITA SCOTT E IL SEGRETO DI STATO

Un’inchiesta quella denominata Rinascita Scott che, evidentemente, è arrivata così in alto da incrociare il segreto di Stato, se Gratteri ha chiesto la desecretazione di atti da versare nel maxi procedimento. Proprio l’esistenza del segreto di Stato impedisce all’Autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzo, anche indiretto, delle notizie sottoposte al vincolo. Filoni dell’inchiesta Rinascita Scott potrebbero, dunque, riservare nuovi colpi di scena con la rimozione del segreto di Stato perché, forse, quegli intrecci tra ‘ndrangheta, massoneria e politica sono ancora più stretti.

Non a caso quando Comito, accennando alle sue origini vibonesi, ha parlato di «provincia liberata dopo l’operazione Rinascita», incentrata appunto contro le cosche vibonesi, Gratteri ha annunciato che la Dda da lui guidata «farà ancora tanto nel distretto di Catanzaro» ricordando che «la ‘ndrangheta più dura è quella delle province di Vibo e Crotone», i territori in cui «c’era bisogno di uno sforzo ulteriore».

«Dobbiamo fare di più ma abbiamo bisogno della gente, a cui non chiediamo di rischiare la vita e di sovraesporsi. Quando ci avete dato il filo di Arianna non vi abbiamo mai abbandonato», ha detto ancora il procuratore facendo riferimenti alla sua grande disponibilità all’ascolto. «Se volete venire a denunciare ci siamo. Ricevo anche persone che vengono dal Nord e dall’estero, che poi indirizzo ai magistrati competenti. I calabresi non sono omertosi, se non denunciano è perché non si fidano e lo Stato li ha spesso delusi o abbandonati».

DRAGHI

Ma sono stati tanti i temi scottanti toccati da Gratteri, che non ha risparmiato critiche al Governo e ha esordito presentandosi come il «trombato procuratore nazionale antimafia», con riferimento alla bocciatura da parte del Csm che tanto ha fatto discutere.

«In 15 mesi il capo del Governo non ha mai pronunciato la parola mafia, e quando l’ho rilevato dalla Gruber il giorno dopo ne ha parlato alla mostra della Dia a Milano che forse veniva presentata per la sedicesima volta. Ma noi dal punto di vista normativo vorremmo sapere cosa è stato fatto contro la mafia, perché credo sia stato fatto il contrario di quello che serviva». Il riferimento è al discorso di Draghi che, sul finire del maggio scorso, nella sede di Milano Dia, finalmente parlò della mafia d’affari del Nord, ma anche alla contestatissima riforma della Giustizia del ministro Cartabia. Strali sull’ipocrisia del potere che Gratteri ravvisa anche quando ai convegni gli esponenti della classe dirigente si rivolgono ai giovani che sono il “futuro”.

«Il futuro è di tutti, anche del novantenne che quando fa la spesa sceglie se andare nel negozio della persona perbene o dello ‘ndranghetista. Tu adulto e potente che dici che il futuro sono i giovani, cosa fai per il loro futuro, per evitare che quei giovani siano i futuri disoccupati?».

GRAMMATICA

Un fiume in piena, Gratteri, soffermatosi anche sul dilagare dell’uso dei social da parte dei giovani. «Non accedo a Facebook, ma Facebook mi serve a qualcosa perché mi basta guardarlo dieci minuti per capire il livello di ignoranza che c’è in giro. Ci sono perfino professionisti che fanno errori di grammatica. Durante il giorno – ha ammesso il procuratore – ne devo correggere tanti di errori di grammatica. Ai giovani dico che devono studiare, e ai genitori di fare i papà e le mamme. Sgridate i figli ogni tanto, mica si traumatizzano, io sono stato preso a bastonate e cinghiate e sono ancora qua», ha detto il procuratore suscitando ilarità.

E ancora: «siamo seri, se non fanno i compiti non facciamoli andare in palestra, altrimenti come fanno a superare un concorso se non sanno scrivere in lingua italiana».

DEPISTAGGI

Gratteri, incalzato sulla sua intensa attività pubblicistica, si è poi soffermato sulle figure di cui ha scritto che più lo hanno affascinato, da Pertini, «vero padre della Nazione», a Falcone, col quale ha respinto accostamenti anche se ha ricordato che quando si candidò a consigliere del Csm ottenne soltanto 50 voti su un bacino di 500.

Ma, soprattutto, si è dilungato su quello che anche i magistrati definiscono il più grande depistaggio della storia. «Nessuno si aspettava che Falcone sarebbe stato ucciso. Avrebbe potuto essere ucciso mentre era a Roma, invece Cosa Nostra volle fare spettacolo. Tutti sapevano, invece, che Borsellino sarebbe stato ucciso. In quei due mesi saliva e scendeva da Roma anche due volte a settimana. Non poteva indagare su Capaci perché competente era la Procura di Caltanisetta. Ma se uno va a Roma ci va per mangiare il gelato o il cannolo? A Palermo sono molto più buoni. Se va a Roma ci va per parlare con persone che ricoprono importanti ruoli istituzionali, e lui segnava tutti gli incontri nella sua agenda rossa. La vedova ci dice che da Roma tornava sempre più preoccupato. Chi ha l’agenda rossa ha il filo di Arianna che porta ai mandanti della strage di Capaci».

TAPPARELLE

Ha spirito di osservazione, Gratteri, come si deve a un magistrato tra i più acuti. E quando Ugo Floro e Roberta Marzullo, i conduttori della serata, gli hanno chiesto se avesse gradito il trailer del film su Giuseppe Letizia, il dodicenne misteriosamente morto dopo aver assistito all’uccisione del sindacalista Placido Rizzotto nel 1948 (un format per la tv da un’idea di Emanuele Bertucci e per la regia di Giulia Zanfino), il procuratore ha detto che gli è piaciuto. Ma ha chiesto di verificare se «all’epoca ci fossero tapparelle verdi» come quelle che ha scorto in un fotogramma.

La prima serata del premio letterario è scivolata con leggerezza e profondità, riservando chicche inedite, come i brani del cantautore Dalen, nome d’arte di Pierluigi Virelli che ha presentato il brano “Crotone” sul dramma dell’alluvione. Suggestiva la conversazione di Cataldo Calabretta con Alessandro Riello, il pm scrittore, sul suo esordio letterario, “Delitto in contropiede”. Strepitoso il concerto di Gegè Telesforo, che a un certo punto ha lasciato la scena alla meravigliosa, riccioluta vocalist Daniela Spalletta, accompagnata dal creativo pianista Domenico Sanna, per una perla come “Zahara”. Trame di jazz e melodia siciliana. E il linguaggio universale della musica si è intrecciato con le parole per aggiungere nuove pagine a una storia che il Premio Caccuri scrive da undici anni.

Tifa Gratteri, o stai coi boss: l’alternativa umilia l’Antimafia. Giusta la manifestazione di Milano in difesa del procuratore di Catanzaro. Meno l'idea che il suo "metodo" sia l'unico possibile, collusi gli altri. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'8 luglio 2022.  

Le Camere penali calabresi hanno dichiarato uno “sciopero” per il 14 e 15 luglio – due giorni di astensione dalle udienze – contro un’amministrazione della giustizia nella regione che considerano ormai lesiva dello stato di diritto. C’è un dato che è incontrovertibile: la Calabria detiene il record nazionale di persone dichiarate innocenti dopo gli arresti e il processo; record di errori giudiziari, insomma.

In alcuni casi, si è calcolato che meno del 20 percento degli arrestati sia stato poi considerato colpevole: su dieci, per dire, due colpevoli e otto innocenti – dopo anni di carcere duro. È un dato mostruoso. Né vale dire che proprio perché siamo in Calabria è normale che ci siano tanti processi per’’ndrangheta con tanti imputati: cos’è – arrestiamoli tutti, poi Dio riconoscerà gli innocenti? E a meno di pensare che tutti i giudici giudicanti, al contrario dei procuratori, siano al soldo della mafia, quello è un dato indicativo. Indicativo, cioè, di un “modo” di procedere – che è stato anche definito “pesca a strascico” – in cui si fanno operazioni “spettacolari” con grancassa mediatica, con centinaia di arresti, con abuso nell’applicazione e mantenimento delle misure cautelari, che però poi non reggono alla prova dei fatti e del giudizio. Ma quelle vite, e le comunità dove sono inserite, ne rimangono ferite a morte per sempre.

La lotta alla ’ndrangheta è una questione prioritaria, fondamentale, per la Calabria e per il paese tutto. E la mobilitazione civile – la stessa formazione di una cultura sociale – ne sono un importante complemento, forse anzi la vera speranza, insieme alle opportunità di creare lavoro per i giovani, per lo sradicamento di una piaga parassitaria che è economica oltre che sociale. Ma in nome della lotta alla ’ndrangheta è sbagliato, è controproducente, è immorale sacrificare vite civili. Ancora, a esempio di “distorsioni”: va sempre più manifestandosi una forte perplessità riguardo l’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati alla criminalità organizzata – al limite stesso della costituzionalità e in cui comunque è diventata marginale la valorizzazione imprenditoriale prevalendo piuttosto un modello di tipo assistenziale, spesso fallimentare. Non tutto è così, e ci sono splendidi esempi di valorizzazione e di “restituzione” alla società: ma, spesso, quest’azione di “complemento” a quella giudiziaria ha finito con il penalizzare attività economiche sane. Parliamo di imprenditori per bene, parliamo di posti di lavoro. Ancora, a esempio di “distorsioni”: lo scioglimento dei consigli comunali, spesso anche reiterato, ha assunto un carattere “moralizzatore” ma dove non ci sono mai prove di effettivi reati o di partecipazione associativa; il presunto “familismo amorale” antropologico dei calabresi è diventato una leva per scardinare: a volte bastava avere un cognato o uno zio o lo zio di un cognato che era stato coinvolto in processi per ’ndrangheta e “l’ambiente” non poteva che essere infettato.

La “zona grigia” è una categoria dello spirito, non può essere un principio di accusa, dove servono prove di reato. Ma è proprio questo il punto: in Calabria si vive sotto “presunzione di colpevolezza”. È come se il “principio di Davigo” riguardo la colpevolezza “a prescindere” dei politici – «Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove» – si applicasse a tutti i calabresi che non possono non essere ’ndranghetisti, e quelli che non vengono condannati è solo perché l’hanno fatta franca. Va da sé che gli avvocati sono considerati – quando va bene – un intralcio. Ieri l’altro, a Milano, città dove la ’ndrangheta ha esteso e radicato i suoi tentacoli, si è svolta una manifestazione, voluta da oltre 150 associazioni, di sostegno al giudice Gratteri – per delle minacce ricevute di recente.

È bello che delle persone si dichiarino pronte a proteggere il procuratore Gratteri – “Gratteri non si tocca”, gridavano tutti insieme. Ma è come se quelle persone lì manifestanti – che sventolano di nuovo le “agende rosse” – dichiarassero che per loro è meno importante lo stato di diritto e più importante che si combatta la ’ndrangheta con qualunque mezzo. Se qualche vita innocente ne rimane travolta e spezzata – sarà pure un sacrificio che si può compiere. Ma questo non è bello, per niente. Il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, era presente alla manifestazione. Il senatore Morra – che sembra la figurina del feroce Saladino del giustizialismo – ci aveva qualche tempo fa spiazzato dichiarando che: «Uno Stato forte si presenta con caratteristiche di giustizia e mai di vendetta; la volontà di far sentire i muscoli dello Stato su chi non può più reagire è accanimento». Sorprendente.

Va detto che era accaduto tra una infelice dichiarazione sulla povera Jole Santelli, governatore della Calabria, morta per cancro, e un altrettanto infelice blitz contro il centro vaccinale di Cosenza, dove si era presentato con la scorta a cui aveva chiesto di identificare tutto il personale sanitario presente, a suo dire “incapace di gestire la vaccinazione”. Ieri l’altro, a Milano, il senatore Morra si è lasciato andare contro il ministro Cartabia e la sua riforma – «demolita, distrutta, devastata dalle critiche di Gratteri» – lasciando intendere che a Cartabia, e al governo Draghi, la questione della lotta alla ’ndrangheta non interessi per nulla. Questo governo è per la “normalizzazione”, ovvero non vive la ’ndrangheta come “emergenza”, e perciò il suo operato è – ancora parole di Morra – Nc, non classificato. Che sono appunto – ellitticamente per un verso e più apertamente per un altro – le stesse identiche parole del procuratore Gratteri.

Gratteri non si tocca – ci mancherebbe. Ma questa “personalizzazione” tra Gratteri e la lotta alla ’ndrangheta non fa bene alla stessa lotta alla ’ndrangheta, dato che sembra che solo Gratteri, in questo paese, la faccia, e tutti gli altri – magistrati, forze di polizia, avvocati, imprenditori, insegnanti, professionisti, giornalisti, persone comuni – esclusi i manifestanti pro-Gratteri e il signor Morra in cerca di futuro politico, in alto e in basso, siano invece collusi. Che è una cosa che proprio non si può sentire.

"La mia vita distrutta da Gratteri". Antonio Velardo, una storia semplice. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Agosto 2022. 

Una storia semplice, come scriveva Sciascia. Quella di Antonio Velardo, imprenditore italoamericano, oggi poco più che quarantenne, si riassume in una storia sin troppo semplice, dopo tante peripezie. Avventure e disavventure. Successi, guai giudiziari. Accuse e assoluzioni. Nelle sue pieghe si annida quel virus tutto italiano – e forse ancor più calabrese – che unisce lo strapotere giudiziario a una diffusa cultura del sospetto. Ma raccontiamo questa storia con ordine.

Velardo, originario di Pompei – dove il padre ha una ditta edile – studia ingegneria in Inghilterra, si laurea a pieni voti. Dopo l’università vuole conquistare altre vette: quelle del cielo. E decide di prendere il brevetto di volo come pilota, negli Stati Uniti. Riesce anche lì. Si rende conto di quanto stia costando alla famiglia e vuole rendersi indipendente. Dopo lo choc dell’11 settembre però, per i piloti che vengono da fuori America, la strada si è fatta in salita. Ottiene la doppia cittadinanza ma non basta. Velardo parla bene le lingue: oltre all’italiano, l’inglese e lo spagnolo. Punta su altri settori. Sa di essere un abile venditore. Entra così nel business del real estate vacanziero, le proprietà immobiliari da vendere come seconda abitazione ai facoltosi inglesi e americani che vogliono conquistare un posto al Sole, prima alle Canarie e poi nel Mediterraneo. Empatia, ascolto e sense of business ne fanno in breve l’interlocutore preferito di decine di clienti. Poi, centinaia. Il denaro arriva, cresce l’ambizione. Bisogna smetterla di far arricchire altri intermediari, di portare acqua al mulino delle grandi agenzie. Velardo vuole mettersi in proprio. Insieme con il socio Henry Fitzsimons, irlandese, vola di fiera in fiera, di congresso in congresso, studia lo scenario delle case-vacanza. Vede che c’è una bellissima regione italiana dove un turismo internazionale di livello ancora manca, mentre il mare, le spiagge, i paesaggi sono tra i più belli al mondo. La Calabria. È l’uovo di Colombo, pensa. Non ci ha ancora provato nessuno, pensa. E insieme con il socio vanno per la prima volta a esplorare quell’angolo remoto (chissà perché) e ignorato (chissà perché) d’Europa. Quella punta di stivale da cui sembra calciato via il resto del mondo.

Mal gliene incolse, come stiamo per scoprire. I due soci, pratici del mondo anglosassone e di mercati americani, sperimentano gioie e dolori del Belpaese. Belli, i tramonti. Buona, la pizza. Ma la giungla normativa, le tasse e i balzelli pesano, e parecchio. E poi c’è la diffidenza della gente, delle autorità locali. La subcultura dell’eterno sospetto, la mentalità spesso chiusa della Calabria profonda. I due non si scoraggiano. L’obiettivo, aperta una Srl, è quello di costruire un residence sul mare con appartamenti di pregio e piscine, dove far arrivare una selezionata clientela internazionale. Inglesi e americani che avrebbero portato un turismo d’élite, pensate un po’, nel cuore della Calabria. Si affidano a uno studio legale e ai consulenti che trovano in zona. Siamo nel reggino. E tra tanti professionisti, tra qualche incoraggiamento, dopo le prime adesioni, incappano in qualche furbacchione e anche – com’è statisticamente facile – in qualcuno che sconfina nella criminalità organizzata. Comprano un terreno edificabile da un proprietario che poi scopriranno non essere uno stinco di santo. Un affiliato di una ‘ndrina locale, un ‘punciuto’. Storie di profondo Sud, dove non si distingue facilmente tra bene e male. Dove banche complici e opacità a tutti i livelli colgono i nostri impreparati. I lavori intanto sono iniziati e con quelli le richieste di denaro, sul posto, si moltiplicano. Nasce un tira e molla. Velardo e Fitzsimons capiscono di essere finiti in un covo di serpenti. Hanno inaugurato la loro struttura, Jewel of the Sea, un resort che rispetta gli standard di qualità cui puntavano. Ma il contesto è ostile. E la Ndrangheta, come uno squalo che fiuta la preda a distanza, inzia le sue danze. Arrivano prime richieste di denaro, offerte di “protezione”. E’ allora che Velardo decide di mettere tutto il capitale che ha al sicuro, in Svizzera. E dopo aver detto addio alla Calabria, e forse anche a un’Italia di cui faticano a capire le storture, ecco che li raggiunge una cartolina da Reggio Calabria. Arriva Nicola Gratteri con tutta la cavalleria. La Procura della Repubblica indaga Velardo che si trova negli Stati Uniti. In men che non si dica, viene spiccato un mandato di arresto nei suoi confronti. Il socio, Henry Fitzsimons, era a Capo Verde per dove lavorare a un altro resort. Prende un aereo per il Senegal e quando atterra a Dakar viene raggiunto dalla rogatoria e arrestato. Ha quasi 70 anni, ma poco importa: viene portato in un carcere senegalese e messo in cella con altre quaranta persone. La lotta quotidiana diventa per la sopravvivenza: si deve imporre sui detenuti più giovani per poter andare al bagno.

Era il 2011 quando due procure antimafia – quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro – lo avevano messo sotto intercettazione “perché sospettato di muovere capitali riconducibili alla ‘ndrangheta e all’IRA”, sintetizzano un po’ con l’accetta i giornalisti che ne scrivono. Gioverà riportare qui, senza indugi, che da tutte le accuse mossegli Velardo è poi risultato estraneo. Parliamo di tempi lunghi, comunque. Perché non si dice mai abbastanza quanto l’attesa sia, essa stessa, una pena accessoria. Devastante, talvolta. Dilaniante, sempre. Ma torniamo ai mandati di arresto internazionale: siamo nel 2014 e Velardo, dicevamo, si trova a Miami. Fa in tempo a telefonare a un avvocato per provare a capacitarsi di quello che sta succedendo. Interpol. Rogatoria. Arresto. Vocaboli fino ad allora sentiti solo nei film, per il giovane imprenditore. Che cade in un incubo senza capo né coda. Sotto choc, agisce d’impulso: lascia gli Stati Uniti salendo su un catamarano che prende il largo nella notte. Arriva dopo una navigazione senza mèta nel Belize, il piccolo stato centroamericano incastonato tra la provincia messicana di Cancùn e l’Honduras. Dove Velardo non conosce nessuno. “Sei un latitante”, gli fanno sapere dall’Italia. Lui che le mafie calabresi le aveva contrastate e combattute, si ritrova nel plot di un brutto remake del Padrino. Ricercato dall’Antimafia per essersi opposto al pizzo. E’ un mondo alla rovescia, quello in cui si ritrova Antonio. E lui che è stato sempre lineare, naviga seguendo l’Equatore. In Belize rimane una settimana. Dal Belize va nelle Bahamas. Poi nella Repubblica Domenicana. Guadagna tempo prezioso affinché i suoi legali possano contattare le autorità che indagano e iniziare a produrre le evidenze di una innocenza alla quale s’addossa l’onere della prova. Si muove per lui, in Italia, l’avvocato Aldo Labate, del foro di Reggio Calabria. Fa presente che non esistono indizi di colpevolezza: la Cassazione invia gli atti al Tribunale del Riesame che deve aver strabuzzato gli occhi, a leggere la vicenda. E ha revocato la misura cautelare. Revoca confermata dal Tribunale di Vibo Valentia. Velardo è libero e può difendersi: perché il paradosso delle nostre leggi è che garantiscono un diritto di difesa a metà, quando l’imputato va arrestato all’estero e non è messo nella condizione materiale di ricostruire i fatti e prendere in mano i documenti necessari a scagionarsi. Il processo in primo grado assolve Velardo per non aver commesso il fatto. La Procura rinuncia ad appellarsi. La vicenda giudiziaria si conclude così, come spesso accade: senza neanche tante scuse. Ci siamo sbagliati, lei è innocente. Arrivederci. Peccato che quei fatti rimangano lì come una ferita che non si rimargina. Nella vita professionale incidono, eccome. La comunità del business a stelle e strisce prende le distanze: che ne sanno, loro, di quante migliaia siano ogni anno le vittime di errori giudiziari in Italia? Le valutano, nei circoli che contano a New York, a Miami, a Los Angeles le statistiche che riportano il numero abnorme di archiviazioni e assoluzioni per le inchieste dell’Antimafia calabrese? Certo che no. La parola “criminal record” chiude già di per sé tutte le porte. E non parliamo della reputazione: i giornali online si scimmiottano. Copiano e incollano gli articoli l’uno dall’altro. Cercano di vendere sbandierando il mostro, poi dimenticano di aggiornare la notizia con la sua assoluzione. E quel mostro fa paura anche in Italia: esula troppo dagli schemi. Pretende di muoversi a passi svelti nel campo minato dell’edilizia calabrese, muove le mani senza paura per i fili che legano quel territorio. Non paga il pizzo. Non blandisce la politica. Non conosce nessun magistrato. Chi crede di essere? O meglio, chi è? E’ un uomo d’affari business che parla l’inglese meglio dell’italiano. Non ha santi in paradiso, eppure ha un discreto fatturato. Vende, sì. Sa vendere. Ma qualcosa dietro deve esserci. “A pensare male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, la massima andreottiana a certe latitudini vige come legge. E quando escono i leaks sul Credit Suisse, ecco che affiorano i suoi conti correnti: quelli nei quali ha provato a proteggere il capitale, legittimo, minacciato dai ricatti ndranghetisti. Ecco che ritorna la berlina. Riecco che Velardo torna carne da macello. “Riciclaggio di denaro”, dicono. E Google fa da cassa di risonanza. Il tam tam si ingigantisce. Nasce nel febbraio di quest’anno da una fonte anonima che fa avere a un consorzio di giornalisti una lunga lista di conti correnti sospetti. E in quelle liste c’è anche lui, il giovane Velardo. Eccolo, il gioco delle ombre che provano a prendere forma. Riciclaggio. Lui prova il contrario: capitale messo al riparo, risparmi salvaguardati. Derivanti da un lavoro più che pulito: meritorio. Alla luce del sole, in tutti i sensi: guadagni ricavati dall’attrazione di turismo e investimenti stranieri in Italia. Frutto di compravendite immobiliari registrate e di transizioni tracciate. Ce ne fossero, verrebbe da dire. Perché alla fine della fiera Velardo è un abile venditore con l’unica colpa di aver depositato il suo denaro in un conto corrente – come si nota, accessibile – in quella Svizzera che già dal marzo 2009 aveva abrogato il segreto bancario e permette alle autorità giudiziarie (e fiscali) italiane ed internazionali di guardarci dentro. Antonio Velardo non aspetta neanche il consiglio dei suoi avvocati: prende i suoi rendiconti e li spedisce, in allegato mail, a tutti gli indirizzi dei giornalisti che trova. “Vi prego di esaminare i miei movimenti bancari e di dirmi dove sarebbe il riciclaggio”, scrive loro. Naturalmente non otterrà risposte, ma epiteti. Accuse infamanti, con un danno reputazionale gratuito e incalcolabile. Che si protrae nel tempo, trascinandolo in un gorgo in cui gli schizzi di fango sembrano mossi ad arte, da un ventilatore piazzato non a caso. Lui si prende la briga di contattare le redazioni, una a una. Alcune leggono le carte e hanno la bontà di rimuovere i contenuti diffamatori, altri no. Le accuse fanno vendere. Come scriveva Leonardo Sciascia in Una storia semplice, quel che è sotto gli occhi di tutti è quello che si vuole far vedere. Ma non è detto che sia la realtà. Talvolta i “cattivi” sono buoni, e i “buoni” i veri cattivi. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Anm contro i penalisti calabresi: «Solidarietà ai magistrati». Il Dubbio il 17 luglio 2022. Il sindacato delle toghe reagisce alle critiche arrivate dalle Camere penali calabresi.

Solidarietà e «pieno sostegno ai magistrati calabresi» sono stati espressi dall’Associazione nazionale magistrati che, in una nota, stigmatizza quanto accaduto ieri a Lamezia Terme nel corso dell’incontro dal titolo “A tutela della libertà dei cittadini»” organizzato dal coordinamento delle Camere penali calabresi. «Si è parlato – sottolinea la Giunta Esecutiva Centrale dell’Anm – di una magistratura calabrese «soffocata dal metodo staliniano» e del processo Rinascita-Scott come «summa delle storture della malagiustizia», espressione addirittura di un «potere esercitato sulla società, sull’economia, sulla politica da un asse di ferro costituito da procure distrettuali, forze di polizia, informazione».

Per l’Anm «si tratta di affermazioni offensive, slegate da riferimenti concreti e prive di fondamento, che si traducono in un attacco indiscriminato e generico al difficile lavoro della magistratura calabrese, da sempre impegnata nella tutela della legalità e dei diritti dei cittadini».

Nel manifestare pieno sostegno ai colleghi calabresi, l’Anm «ribadisce la propria disponibilità al dialogo anche con le Camere penali, purchè nel rispetto dei reciproci ruoli, e ricordando come la tutela delle libertà dei cittadini sia assicurata proprio dall’azione di contrasto al crimine organizzato in territori angustiati dal fenomeno mafioso».

Il pm Musolino: «Le Camere penali sbagliano, non c’è una deriva autoritaria». Intervista al pm di Reggio Calabria, nonché segretario di Magistratura democratica. «Sono state rivolte accuse gravissime alla magistratura, volte a denigrare l’interlocutore con slogan privi di riscontro». Valentina Stella su Il Dubbio il 7 luglio 2022.

Stefano Musolino, pubblico ministero alla Procura di Reggio Calabria e Segretario di Magistratura democratica commenta al Dubbio il durissimo documento emanato da tutte le Camere penali calabresi per annunciare l’astensione di due giorni della prossima settimana.

I penalisti calabresi hanno lanciato un grido di allarme. Secondo loro ‘ l’andamento della giurisdizione nei Distretti giudiziari della Calabria segna un inarrestabile trend recessivo, con costante erosione dei principi fondamentali dello Stato di diritto e del garantismo penale’. Che ne pensa di questo quadro?

Credo che il documento rappresenti un’occasione persa, perché a fatti che meritano un approfondimento si associano fattoidi, slogan, e giudizi ingiusti e ingiustificati nei confronti della magistratura calabrese, esponendola al pubblico ludibrio. Tutto questo non agevola il confronto con l’avvocatura che pure come magistratura sosteniamo. Le faccio un esempio.

Prego.

Non so cosa avviene negli altri distretti, ma a Reggio Calabria ho partecipato personalmente a degli incontri per la formazione di protocolli di gestione delle udienze per venire incontro alle esigenze del foro, ai quali hanno partecipato anche le Camere penali e il Consiglio dell’Ordine. Da noi il confronto è sempre aperto: per questo siamo rimasti molto stupiti da questa modalità così faziosa e oppositiva di agire delle Camere penali. Come Magistratura democratica siamo stati gli unici a guardare in termini propositivi alla partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità e alcuni dei fatti segnalati possono essere significativi, se veri, a quello scopo. Tuttavia, presentare le questioni nei termini e nei modi scelti dal Coordinamento delle Camere Penali calabresi offre seri argomenti a chi sostiene che l’avvocatura è troppo faziosa e chiusa per svolgere adeguatamente quel ruolo.

I penalisti criticano aspramente la vicenda «degli “appelli cautelari”: l’Avvocatura ha appreso, accidentalmente, della illegittima corsia preferenziale riservata ( con circolare interna!) alle impugnazioni del requirente; una prassi “esclusiva” pensata e voluta dall’allora Presidente facente funzioni del Tribunale del Riesame di Catanzaro’.

Se fosse vero bisognerebbe intervenire. So per certo che a Reggio Calabria non è così e non riesco a immaginare una ragione per un trattamento differenziato della calendarizzazione degli appelli del pubblico ministero rispetto a quelli dei difensori. Questo è uno di quei fatti che, se veri, giustificano l’apertura di un tavolo di confronto e verifica.

Le Camere penali sostengono che la Calabria detiene il record di errori giudiziari ed ingiuste detenzioni. Questo è un fatto, non un fattoide.

Alcune Corti di Appello, come quella di Reggio Calabria, hanno alacremente lavorato su questi numeri. Nell’ultimo periodo hanno aggredito l’arretrato e consegnato i numeri relativi ai nostri distretti che poi vengono utilizzati per elaborare le statistiche nazionali. Per cui i numeri che leggiamo non riguardano un ristretto arco di tempo, ma più anni. Poi non c’è dubbio che fronteggiando la ‘ndrangheta abbiamo un numero di processi con imputati in custodia cautelare che non si registra in altri posti d’Italia.

Non dimentichiamo infine gli effetti prodotti da alcuni mutamenti giurisprudenziali come quello affermato, ad esempio, dalle Sezioni unite “Cavallo” che ha disposto il divieto di utilizzazione di intercettazioni disposte in procedimento diverso. E comunque questo è un altro tema su cui aprire un tavolo di confronto che noi non abbiamo mai negato. Anzi, alcuni di questi temi all’interno di Magistratura Democratica li abbiamo sollevati prima ancora delle Camere Penali.

Per i penalisti ‘ la deriva autoritaria non ha risparmiato neanche l’esecuzione penale’.

Attribuire alla magistratura l’avere determinato una deriva autoritaria è una accusa gravissima, volta a denigrare l’interlocutore con uno slogan privo di riscontro. Noi riteniamo che la critica ai provvedimenti giudiziari e ai comportamenti dei magistrati sia un fattore di arricchimento della nostra indipendenza ma non quando questa stessa critica è formulata in termini così spregiativi e faziosi.

Però a un detenuto di media sicurezza è stato impedito di vedere la madre morente. Intervenuto il decesso l’unica risposta è stata la videochiamata nella bara.

Non si può da un singolo caso, ove positivamente verificato, trarre un giudizio così squalificante per tutta la magistratura calabrese.

Gli avvocati denunciano altresì: ‘ stiamo assistendo a una mutagenesi del diritto penale ( il “più terribile dei poteri pubblici”), trasformato da argine alla pretesa punitiva dello Stato leviatano a strumento di “lotta sociale”, con conseguente arretramento della storia della civiltà giuridica nel nostro territorio’.

È un’altra espressione gravissima. A chi staremmo facendo la lotta sociale? E contro quale altra categoria? Siamo dinanzi all’ennesimo slogan fumoso che mi lascia davvero senza parole.

Un altro campo minato è il sistema della prevenzione che decide la morte aziendale delle imprese sane.

Credo che abbiamo ancora un problema, nonostante gli ultimi interventi legislativi, nella prevenzione cosiddetta amministrativa, parlo delle interdittive antimafia e dei provvedimenti di scioglimento dei Comuni. Mentre quella giurisdizionale funziona e funziona bene anche al fine di attenuare gli effetti deleteri di quella amministrativa, in particolare con l’istituto del controllo giudiziario volontario.

Area Dg ha chiesto al Csm una pratica a tutela per i magistrati calabresi. Si risolve così la situazione o rafforzando il dialogo tra avvocatura e magistratura.

Quella richiesta è sbagliata. A fronte di un errore della Camere penali si risponde con un altro errore che tende ancora una volta a creare contrapposizioni. Creare fazioni che si contrappongono non è il modo giusto per risolvere i problemi della giustizia calabrese. Il Csm invece dovrebbe farsi carico ad esempio delle reali disomogeneità tra il numero effettivo dei magistrati della magistratura requirente e quelli della giudicante. Questo punto è spiegato male nel documento dei penalisti ma è un segnale di allarme vero, perché incide sulla qualità del prodotto giurisdizionale, esponendo i Giudici dei distretti calabresi a carichi di lavoro e di responsabilità che non hanno paragoni nel confronto nazionale.

In nome dell’antimafia hanno massacrato lo Stato di diritto. I penalisti hanno ragione. La denuncia delle Camere penali è sacrosanta, la giusta lotta alla ’ndrangheta è diventata il pretesto per erodere i diritti. È una vera strategia della tensione. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 7 luglio 2022.

Le camere penali calabresi hanno proclamato l’astensione dal lavoro per il 14 e 15 luglio in quanto ritengono che in Calabria non ci sia la più possibilità di esercitare la professione di penalista essendo venuti meno i presupposti su cui si fonda uno Stato di diritto. Normalmente quando pensiamo ad uno Stato in cui non esistono più le garanzie fondamentali dei cittadini ci viene in mente il Cile di Pinochet, la dittatura argentina o, in tempi più recenti, la Turchia di Erdogan o la Russia di Putin. In Italia esistono certamente pericoli per la democrazia, provenienti soprattutto dallo strapotere di alcune corporazioni che operano all’interno dello Stato, ma, fortunatamente, al potere non ci sono i “colonnelli”. In Calabria non siamo ai colonnelli ma a qualcosa che se non è molto somiglia.

Andiamo con ordine. Trenta anni fa la ndrangheta era una organizzazione barbara e sanguinaria che si era appena lasciata alle spalle l’odiosa stagione dei sequestri di persona e che aveva messo a ferro e fuoco la Regione con le ricorrenti guerre di mafia. Era ancora solo una setta criminale odiata e sostanzialmente isolata in Calabria più che altrove. In quel momento storico lo Stato avrebbe potuto e dovuto circondarla e sradicarla dal territorio calabrese ed invece ci fu “chi” operando dall’interno dell’apparato statale riuscì a convincere tutti (o quasi) che per sconfiggere la ndrangheta sarebbe stato necessario sacrificare lo Stato di diritto. Iniziò la stagione della pesca con le reti a strascico. Tutte sostanzialmente fallite dopo lacrime, sangue e galera imposte a migliaia di cittadini innocenti.

Per i nuovi “strateghi” dell’antimafia importante non era sconfiggere la ndrangheta ma dare la sensazione che si stesse combattendo una titanica lotta di pochi eroi contro orde di assassini. In poco tempo si è allestito con sapiente regia un teatro: sirene spiegate nel cuore della notte, foto sui giornali, arresti di massa, attacco al cuore della democrazia elettiva con scioglimenti a catena dei consigli comunali e criminalizzando ogni voce critica con il “dire e non dire” e sostituendo le prove processuali con categorie impalpabili come l’appartenenza alla “zona grigia” o il “reato” di parentela o di amicizia. “Facimmu ammuinu” fu la parola d’ordine ed ammuino fu fatto. E fu un gioco da ragazzi persuadere i cittadini perbene ed in buona fede sulla necessità di scegliere tra “ndrangheta e barbarie” da una parte e “libertà, dignità giustizia” dall’altra.

Molti calabresi credettero nella buona fede degli antimafiosi di professione ed oggi si trovano a dover convivere con una ndrangheta cento volte più ricca e potente rispetto a trenta anni fa, e con un apparato repressivo tra i più oppressivi del Mediterraneo. Non ci credete? Due soli esempi: ieri s’è concluso il processo “bellu lavuru” che ha preso le mosse 15 anni fa tra squilli di tromba e suono di fanfara. Una retata con decine di arrestati in una sola notte e che veniva propagandata come un duro colpo alla ndrangheta. Ieri la sentenza: dei diciannove imputati ben quindici sono stati riconosciuti innocenti, quattro condannati. Meno del 20%. Alla fine della fiera ci troviamo con 15 persone tenute per tanto tempo nelle sezioni di massima sicurezza delle galere e oggi risultati estranei ad ogni sodalizio mafioso.

Meno grave ma più significative le motivazioni pubblicate nei giorni scorsi sui motivi che hanno portato allo scioglimento del consiglio comunale di Portigliola, nella Locride. Il sindaco, gli assessori, i consiglieri comunali sono tutti incensurati. Nessuno è stato mai processato e tantomeno ha ricevuto una condanna. Ma spunta qualche rapporto di polizia che non riguarda direttamente gli amministratori di Portigliola ma loro parenti o amici. Ebbene il rapporto di polizia ha più valore delle sentenze. Alla luce di quanto abbiamo appena detto vi domando: la Calabria è o non è uno Stato di polizia anche se non vige il coprifuoco e non ci sono militari ad ogni crocicchio?

La velenosa equazione “ndrangheta = Stato di diritto” s’è dimostrata falsa ed interessata ed ha prodotto solo “giustizia spettacolo” con un sistematico sacrificio di innocenti, il crollo della qualità dell’impegno politico con il progressivo emergere di una classe “politica” serva e subalterna ai nuovi poteri, uno spreco di pubblico denaro che se impiegato diversamente avrebbe potuto dare sollievo ai tanti ammalati calabresi. Intanto però lo Stato ha perso gran parte della sua base sociale perché nessuno è disposto a riconoscere la legittimità d’uno Stato che non rispetta le sue stesse regole. Rispetto a tutto ciò le Camere penali hanno deciso due giorni di astensione dal lavoro. Un notevole passo avanti anche se tradivo e forse insufficiente. Il “blocco d’ordine” (e di potere) difficilmente mollerà la presa. E comprende perfettamente che per non far scoprire il gioco deve alzare la posta attraverso la strategia della tensione che come un Moloch insaziabile si alimenta con nuove retate, manifestazioni insensate, processi-spettacolo, misure di prevenzione comminate col massimo arbitrio.

I penalisti con la loro azione hanno rotto un muro di silenzio e con la loro azione possono fare da lievito per la formazione d’un blocco democratico che coinvolga i cittadini e faccia luce sulla realtà d’una Regione tenuta alla catena e senza luce per tanto tempo. Noi ci abbiamo provato per decenni e, spesso, in perfetta solitudine. Una lotta di civiltà che va molto oltre la giustizia e che abbiamo combattuto con tutte le nostre forze pur sapendo di non poter vincere. 

I togati di Area al Csm: «Difendiamo i giudici calabresi dai penalisti». La replica: «Critiche eluse». Gli avvocati penalisti calabresi hanno indetto uno sciopero lamentando una mancanza delle garanzie costituzionali per i cittadini che vengono coinvolti nella gogna giudiziaria. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 luglio 2022.

Aprire una pratica a tutela dei magistrati operanti nei distretti di Corte d’appello di Reggio Calabria e Catanzaro: è la richiesta avanzata al Csm dai togati di Area democratica per la giustizia, che denunciano la «delegittimazione» dei magistrati calabresi. «Letto il comunicato diffuso dalle Camere penali della Regione Calabria in data 1 luglio 2022; premesso che deve sempre essere riconosciuta la legittimità dell’esercizio del diritto di critica nei confronti dell’attività giurisdizionale», i togati di Area Giuseppe Cascini, Elisabetta Chinaglia, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro osservano come «nel caso di specie, in luogo di critiche puntuali e argomentate relative a specifiche attività processuali o a specifici provvedimenti organizzativi, si assista a una denigrazione generica e generalizzata dell’intera attività giurisdizionale penale svolta da tutti i magistrati operanti nei distretti calabresi, con il risultato di determinare presso la pubblica opinione una delegittimazione diffusa e indiscriminata della funzione giudiziaria, tra l’altro in distretti già interessati da pervasive forme di criminalità organizzata e da disagi socio economici».

Insomma, il clima è diventato ancora più rovente, in Calabria, dopo che le Camere penali territoriali, per la prima volta tutte insieme, hanno indetto due giorni di astensione per il 14 e 15 luglio. A stretto giro arriva la replica dell’avvocato Valerio Murgano, presidente della Camera Penale di Catanzaro: «Si è persa l’ennesima opportunità di aprire un dialogo che noi avevamo chiesto prima di annunciare l’astensione. In questa richiesta di pratica a tutela non vi è alcun riferimento ai fatti che abbiamo sottolineato nelle nostre delibere. Noi abbiamo posto, a fondamento della nostra astensione, circostanze ben precise, come, l’abuso delle misure cautelari, il record di errori giudiziari, la corsia preferenziale degli appelli cautelari riservata ai requirenti. Eppure i magistrati del Csm non entrano nel merito delle questioni né le smentiscono. Si tratta della solita difesa corporativa. Noi tutti condividiamo la lotta alla criminalità ma non possiamo rimanere inermi dinanzi alla contrazione dei diritti dei cittadini, a partire da quello alla presunzione di innocenza. Anziché chiedere l’apertura di una pratica, che non ci spaventa affatto, avrei auspicato l’apertura di un tavolo di confronto con l’avvocatura».

Ingiuste detenzioni, Reggio Calabria tra le prime dieci città in Italia. Il Quotidiano del Sud il 21 Aprile 2022.

Più di 30mila casi di “errori giudiziari” in 30 anni, con una media di mille l’anno; 50 euro di  risarcimento ogni minuto per “ingiusta detenzione”, per una spesa complessiva vicina al miliardo di  euro (27 milioni di euro l’anno): «Sono dati che esprimono con chiarezza l’altra faccia della medaglia  dell’emergenza sistema giustizia che si ripercuote direttamente sul sistema penitenziario italiano  aggravandone le criticità, evidenziando ancora una volta le storture del sistema carcerario e penale  del nostro paese in cui il mondo della politica è incapace di affrontare il drammatico problema».

È  quanto sostiene il segretario generale del  Sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo,  sottolineando che se la faccia della medaglia più conosciuta è quella del comando dei capi clan dalle  celle da dove continuano a dirigere i traffici e le continue aggressioni agli agenti, questa  dell’ingiusta detenzione, meno nota, crea ulteriore allarme, innanzitutto per quanti da innocenti  subiscono provvedimenti di detenzione.  Una vera e propria situazione di inciviltà indegna per un Paese occidentale.

Nella “speciale” classifica degli errori giudiziari tra le città con il maggior numero  di casi indennizzati sette su dieci sono al Sud con Napoli (101 casi nel 2020, con il record di 5 anni di  ingiusto carcere), Reggio Calabria (90), Bari (68), Catanzaro (66) e nella graduatoria delle città dove  lo Stato ha speso di più in risarcimenti ai primi tre posti ci sono Reggio Calabria (circa 8 milioni di  euro complessivi), Catanzaro (più di 4,5 milioni) e Palermo (4,3 milioni).  Nel 2021 i casi di ingiusta detenzione sono stati 565, per una spesa complessiva in indennizzi di cui  è stata disposta la liquidazione pari a 24,5 milioni di euro.  

«Tutto questo accade – commenta Di  Giacomo – mentre nessuno risponde degli “errori giudiziari” e la ministra Cartabia è “incartata”  dalle vicende relative alle riforme che sembrano sempre ad un passo dalla conclusione per tornare,  come nel gioco dell’oca, alla casella di partenza. È anche questa la prova provata dell’incapacità  della politica di dare risposte ai problemi del sistema giudiziario e di quello penitenziario. Basterebbe prendere esempio dal Belgio dove lo Stato spende in risarcimento circa 20 volte in  meno dell’Italia». 

Conclude Di Giacomo: «Vale la pena ricordare che le valutazioni di professionalità positiva dei  magistrati italiani è del 99,2%».

Disposto un nuovo giudizio del Riesame. Giancarlo Pittelli non deve tornare in carcere, la Cassazione stoppa Gratteri. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2022. 

Giancarlo Pittelli non deve tornare in carcere. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, disponendo l’annullamento con rinvio ad una diversa sezione del Tribunale del Riesame dell’ordinanza che disponeva la misura cautelare in carcere per l’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia.

A chiedere che Pittelli tornasse dietro le sbarre era stata la Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. L’avvocato Pittelli sarebbe stato colpevole di aver inviato una lettera al ministro per il Sud Mara Carfagna mentre era ai domiciliari, chiedendole di interessarsi della sua vicenda giudiziaria.

Pittelli, l’avvocato calabrese detenuto da ormai quasi tre anni perché imputato nel processo “Rinascita Scott”, in corso nell’aula bunker di Lamezia, era stato ricondotto in carcere nel dicembre 2021 dopo la scoperta della raccomandata alla Carfagna, in violazione degli obblighi imposti dal regime detentivo dei domiciliari, quello di non avere rapporti con l’esterno tranne che con le persone con le quali si coabita.

In particolare la segreteria del ministro aveva inviato la missiva all’ispettorato di Palazzo Chigi che, a sua volta, l’aveva trasmessa alla Squadra mobile di Catanzaro che aveva informato dei fatti la Procura della Repubblica di Catanzaro diretta da Gratteri. I magistrati della Dda avevano quindi inviato la raccomandata al Tribunale di Vibo Valentia, chiedendo l’aggravamento della misura cautelare.

A febbraio quindi la decisione dello stesso tribunale di Vibo Valentia, ma con una diversa composizione, aveva accolto la richiesta dei legali difensori di Pittelli, Guido Contestabile e Salvatore Staiano, ripristinando i domiciliari per l’ex senatore.

Uno smacco per Gratteri e i suoi, con la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che aveva immediatamente presentato appello al Riesame, che ad aprile aveva accolto il ricorso. Nell’accogliere il ricorso il Riesame (presidente Filippo Aragona, a latere Sara Mazzotta e Roberta Cafiero) definendo l’ordinanza di scarcerazione come affetta da “vizi di logicità, ragionevolezza e coerenza argomentativa”. I giudici avevano infine anche stabilito che “nel momento in cui la presente decisione diverrà definitiva, nei confronti di Pittelli Giancarlo venga ripristinata la misura della custodia cautelare in carcere”, considerando scontato il giudizio degli ermellini.

Ma la Cassazione non ha convenuto con i giudici del Riesame, consentendo all’avvocato di restare ai domiciliari.

Stop della Cassazione alla decisione del Riesame. Perché Gratteri vuole sbattere in galera l’avvocato Pittelli, che però resta ai domiciliari. Angela Stella su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

L’avvocato Giancarlo Pittelli, imputato nel processo “Rinascita Scott” per concorso esterno in associazione mafiosa ed altri reati, resta ai domiciliari per ora. La Cassazione ha infatti deciso l’annullamento con rinvio a una diversa sezione del Tribunale del riesame di Catanzaro dell’ordinanza con cui gli stessi giudici del riesame avevano disposto il ritorno in carcere per l’ex parlamentare di Fi. Ripercorriamo brevemente i fatti: nel dicembre del 2021 Pittelli, difeso da Salvatore Staiano, Guido Contestabile e ora anche da Gian Domenico Caiazza, era tornato in carcere per decisione del Tribunale di Vibo Valentia. Il collegio aveva accolto la richiesta della Procura di Catanzaro di aggravare, dai domiciliari al carcere, la misura cautelare cui è sottoposto Pittelli in seguito alla scoperta di una raccomandata che l’avvocato aveva inviato al ministro per il Sud Mara Carfagna.

Due mesi dopo, lo stesso Tribunale di Vibo, composto diversamente poiché il presidente era assente per malattia, aveva accolto la richiesta dei difensori di Pittelli ed aveva ripristinato i domiciliari per l’ex parlamentare, ritenendo che il tempo trascorso in carcere consentisse di “esprimere un giudizio prognostico favorevole di resipiscenza del Pittelli in punto di futuro rispetto delle prescrizioni”. Decisione impugnata dalla Dda di Catanzaro che aveva fatto appello al Tribunale del riesame che nell’aprile scorso ha accolto l’istanza e ripristinato il carcere per Pittelli. Ora la decisione della Cassazione di annullare con rinvio quest’ultima decisione del Tribunale del riesame. In attesa di conoscere le motivazioni, possiamo comunque delineare i punti principali evidenziati dalla difesa. Innanzitutto “le condizioni di salute dell’assistito sono gravemente peggiorate sia sotto il profilo organico che psicologico”, come dimostrerebbero tre perizie.

Inoltre dal diario clinico del carcere di Melfi dove era stato recluso era emerso un “elevatissimo rischio suicidario, sicché ebbe a disporsi il controllo diuturno del detenuto”. Inoltre “l’aurea che circondava la figura dell’avv. Pittelli è stata travolta dal procedimento in esame, all’avvocato, al politico, all’abile conferenziere, si è sostituito un detenuto per fatti di mafia, gravemente depresso, sull’orlo del suicidio, cui nessuno degli interlocutori di un tempo è disponibile a prestare tempo e attenzione. Tanto vale a rendere non attuale né concreto il ragionamento che individua nelle passate capacità relazionali, ormai disintegratesi, il substrato indispensabile per la proclività a delinquere dell’avv. Pittelli”.

Poi bisogna verificare in concreto se sia possibile prospettare che l’imputato si trovi dinanzi all’occasione attuale di reiterare il reato di concorso esterno. Secondo i legali “l’indagine Rinascita ha disarticolato la presunta cosca Mancuso e tutte le altre presunte cosche operanti in provincia di Vibo” e comunque “nessuna associazione a delinquere ha interesse a rapportarsi con politici o professionisti ‘bruciati’”. “Impossibile obbiettare che il patrimonio di relazioni dell’avv. Pittelli sia comunque rimasto integro nel tempo, e quindi potenzialmente idoneo a consentire a quest’ultimo di operare in maniera non lecita; l’esito della missiva inviata all’On. Carfagna lo dimostra plasticamente”. Su questo punto aggiungono i difensori “il diritto di corrispondere con i parlamentari, garantito dall’art. 18ter Op al detenuto” non può “soffrire limitazioni in capo a chi si trovi sottoposto al regime degli arresti domiciliari”.

Se è concesso a chi sta in carcere perché dovrebbe essere vietato a chi sta ai domiciliari, considerati sempre come custodia cautelare? Poi in merito al contenuto: Pittelli informava la Carfagna di voler presentare una istanza rispetto al suo stato di custodia cautelare e una interpellanza a firma Vittorio Sgarbi. “Vi è da chiedersi – scrivono gli avvocati – a cosa si è voluto riferire il Tribunale di Catanzaro la dove si scorge l’intenzione di Pittelli di intraprendere iniziative volte a incidere sullo svolgimento del processo, giacché le stesse non possono identificarsi in un’istanza prevista dal codice di rito”. Infine dalla lettera “non traspare alcun contatto vietato”. Angela Stella

L'accanimento contro l'avvocato. Gratteri contro Pittelli, perché il procuratore si è accanito con l’avvocato coinvolto in Rinascita Scott. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Luglio 2022. 

I referti medici gli attribuiscono un “disturbo depressivo maggiore grave con manifestazioni psicotiche”, il “ritmo sonno-veglia fortemente alterato” e preoccupanti tremori dovuti all’uso di farmaci. I suoi avvocati ne reclamano la libertà, ma il Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e con lui il tribunale del riesame gli vogliono rimettere le manette ai polsi e rispedirlo dai domiciliari al carcere. La parola definitiva alla cassazione. Ingorgo di processi nei giorni scorsi per Giancarlo Pittelli, l’avvocato calabrese detenuto da ormai quasi tre anni perché imputato nel processo “Rinascita Scott”, in corso nell’aula bunker di Lamezia. Ieri la cassazione, giovedi scorso l’appello.

Partiamo in ordine cronologico. Gli avvocati Guido Contestabile e Giuseppe Staiano lo avevano preannunciato nell’aula bunker e hanno mantenuto l’impegno, presentando un’istanza di revoca della detenzione domiciliare. Giancarlo Pittelli è innocente, lo hanno documentato, inoltre è un uomo settantenne molto provato da questa situazione sia nel fisico che nella psiche. Lo ha ribadito giovedì anche l’avvocato Giandomenico Caiazza, il Presidente dell’Unione Camere penali di recente entrato a far parte del collegio difensivo. All’udienza era presente anche lo stesso Giancarlo Pittelli, che ha preso la parola, mentre era stranamente assente il rappresentante della Procura di Catanzaro, quasi si desse per scontato il rigetto dell’istanza da parte dei giudici. I quali, ancor prima di toccare con mano, visivamente, quanto questi tre anni di vera tortura abbiano trasformato il brillante avvocato e uomo politico che fu Giancarlo Pittelli, avevano già mostrato una certa sensibilità anticipando al 14 luglio un’udienza che era stata già fissata per il 28 di settembre. Cambiamento di data dovuto proprio alla documentata e visibile debolezza fisica e psichica dell’imputato. Che meriterebbe, fosse anche solo per questo, di poter riacquistare la propria autonomia in modo da poter partecipare da uomo libero al processo.

Non la pensa così il Procuratore Gratteri, sempre impegnato a cercare di dimostrare come l’imputato Pittelli rivesta nel processo Rinascita Scott un ruolo di primo piano, quello di cinghia di trasmissione tra la “marmaglia” mafiosa e i piani alti, quelli della società civile della politica, dell’impresa, della massoneria. È piuttosto palese che, se si togliesse questo tassello, tutto quanto il castello dell’accusa, e soprattutto l’ipotesi di tipo ideologico, rischierebbe di franare. Tra l’altro proprio in questo periodo in cui il Procuratore di Catanzaro non nasconde le proprie ambizioni. Caduta la speranza di raggiungere il vertice dell’Antimafia, restano ancora due bocconi succulenti, quello di procuratore generale di Napoli, ruolo lasciato libero proprio da colui che lo ha appena surclassato, oppure l’ingresso in settembre al Csm. Il momento è politicamente delicato. E se il tribunale del riesame accogliesse la richiesta di scarcerazione, cosa che sarebbe quasi doverosa e sicuramente non pericolosa per la comunità, qualcuno potrebbe considerarlo un affronto personale.

È abituato bene, il procuratore Gratteri. Basterebbe ricordare quanto accaduto nello scorso aprile nell’udienza presso il tribunale del riesame di Catanzaro, presieduto da Filippo Aragona, proprio l’alto magistrato che durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario aveva proposto di far inserire il reato di associazione mafiosa tra i crimini contro l’umanità. Quel giorno si discuteva per l’appunto l’iniziativa della procura, quella che è arrivata ieri in cassazione. Si trattava dell’appello del procuratore Gratteri contro la decisione dei giudici di Vibo Valentia di scarcerare l’avvocato Pittelli, prostrato dopo venti giorni di sciopero della fame nel carcere di Melfi. Era ridotto al lumicino il legale in quei giorni, così era stato rimandato a casa. Non da uomo libero, ma sempre ai domiciliari.

La procura era immediatamente intervenuta contro quella decisione, anche con toni che in genere non si usano tra colleghi, irridendo le motivazioni nell’ordinanza di scarcerazione. Gli stessi toni sbrigativi usati dal tribunale del riesame nell’accogliere il ricorso della procura, definendo l’ordinanza di scarcerazione come affetta da “vizi di logicità, ragionevolezza e coerenza argomentativa”. I giudici avevano infine anche stabilito che “nel momento in cui la presente decisione diverrà definitiva, nei confronti di Pittelli Giancarlo venga ripristinata la misura della custodia cautelare in carcere”. Dando per scontato che la cassazione avrebbe detto signorsì.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Di fronte al potere assoluto delle toghe ai calabresi non rimane che rivolgersi a Dio. Il disimpegno, la promessa di silenzio e la riscoperta della "Fede", rappresentano un tratto comune dei “sopravvissuti” alle ricorrenti bufere giudiziarie che si abbattono sulla Calabria. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 14 aprile 2022.

Nei giorni scorsi è stato assolto dal reato di concorso in associazione mafiosa l’ex consigliere Cosimo Cherubino già capogruppo socialista nel consiglio regionale della Calabria. In verità gli assolti sono stati cinque su sei imputati. L’assoluzione avviene dopo dodici anni e di questi Cherubino ne avrà trascorsi almeno quattro in carcere. Solo qualche giornale ha dedicato un trafiletto asettico alla vicenda. Per il resto nessuna riflessione e nessuna domanda. La notizia è stata trattata come una piccola bagattella simile ad un’infrazione stradale o a fastidiosi schiamazzi d’un ubriaco in luogo pubblico. In fondo, a tutto si fa l’abitudine: i giapponesi hanno imparato a convivere con il terremoto, gli afgani con la guerra, i calabresi con la mafia e la cosiddetta antimafia.

Tuttavia ci sono due passaggi del comunicato diffuso all’ex consigliere regionale che colpiscono particolarmente ed infatti inizia con un “ringraziamento a Dio” e poi, come dovesse obbedire ad ex voto maturato in dodici anni di tormenti, promette solennemente che non sarà mai più candidato alle elezioni e di aver chiuso con la politica. Il resto della sua vita lo dedicherà alla famiglia. La Fede è sempre una bella cosa e dedicarsi alla famiglia una gran virtù. Non possiamo che rispettare la sua decisione e senza alcuna nostalgia per quel “mondo politico” . Il problema è un altro: il disimpegno, la promessa di silenzio e la riscoperta della “Fede” rappresentano un tratto comune dei “sopravvissuti” alle ricorrenti bufere giudiziarie che si abbattono sulla Calabria quasi che quando non si crede più alla giustizia degli uomini e ci si affidi a quella Celeste.

Narrano le cronache che quando nel Sud vigeva la “legge Pica” che dava agli inquisitori diritto di vita e di morte su coloro che cadevano nelle maglie della “giustizia” sommaria, i malcapitati si aggrappassero al Crocefisso percepito come ultimo argine ad un potere sadico ed impazzito. Non siamo nella stessa fase storica ma c’è chi vorrebbe riportare indietro le lancette della Storia. Facciamo qualche esempio prendendo in esame le ultime vicende che hanno colpito esponenti della politica: Mario Oliverio, da presidente della Regione, è stato esiliato e poi assolto. Il senatore Caridi è stato tenuto in carcere qualche anno. Assolto. Mimmo Tallini è stato arrestato mentre era presidente del Consiglio regionale della Calabria e costretto alle dimissioni. Arresto annullato. La sindaca antimafia di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole è stata arrestata e poi assolta. Qualche mese fa, lo stesso Lorenzo Cesa ha avuto la casa e lo studio perquisiti ed un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Era andato a pranzo con un gruppo di calabresi, quindi in fondo se l’era cercata. Ma il caso è stato archiviato. Oggi abbiamo il caso Cherubino.

Ci siamo fermati – e non a caso – a nomi noti e che in quanto tali hanno suscitato un minimo di dibattito sui giornali e nell’opinione pubblica. Le “vittime” tra la gente comune sono molti di più. Nessuno, e certo non io, invoca processi sommari o rappresaglie di alcun tipo per i magistrati che si sono resi responsabili, in così poco tempo, di tanti e gravi errori. Ma il minimo che si può chiedere è una pausa di riflessione, un momento di autonoma autocritica, una virtuosa prudenza quando si maneggia la vita degli altri. Un sostanziale rispetto delle garanze costituzionali da parte di pubblici impiegati che hanno giurato fedeltà alla Costituzione. Un minimo di cautela che dovrebbe portare a ricorre alla carcerazione preventiva, (ancora peggio nelle misure di prevenzione) che devasta la vita di una persona innocente, solo in casi estremi e rispettando non dico lo Stato di diritto ma quantomeno “l’Habeas Corpus”. Invece il “caso Pittelli” dimostra che alcune procure, come nulla fosse finora successo, utilizzano la carcerazione preventiva come una clava.

Ho già scritto di non aver mai conosciuto l’ex senatore della “destra” italiana e di considerarmi distante mille miglia dalle sue scelte politiche. Ma oggi il “corpo” di questo settantenne sballottato tra carcere ed arresti domiciliari rappresenta il guanto di sfida che un potere che si ritiene assoluto ed onnipotente lancia non solo allo Stato di diritto ma ai “lumi” della Ragione. Ma cosa potrebbe fare fuori dal carcere un vecchio malandato: darsi alla fuga tra le montagne? Inquinare le prove che sono in mano ai giudici? Ripetere il reato pur non potendo esercitare la professione? E’ difficile sfuggire alla sensazione che Pittelli, già uomo di “casta” e di “privilegi”, rappresenti uno specchio per le allodole per sviare l’attenzione dal maxiprocesso “Rinascita Scott” che si trascina stancamente in un’aula bunker semivuota e sonnolenta. Il problema non è affatto Pittelli, il dramma vero è quello di un potere assoluto che prima ancora della vittima divora il “carnefice” risucchiandolo in un delirio di onnipotenza. Dinanzi ad un tale potere perché sorprendersi se i malcapitati, oggi come due secoli fa, si rivolgono a Dio o che si ritorni alla promessa (ex voto) solenne di disimpegno, e di genuflessa obbedienza pur di salvarsi? Che aggiungere? “Dio Salvi la Calabria”!

Nella Locride festa di Liberazione dall’inquisizione giudiziaria. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 19 aprile 2022.

Ci sarà anche Pino Mammoliti, mezzo secolo di impegno politico nella Dc di Locri e avvocato, di recente assolto dall’accuso di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo essere stato condannato in primo grado a tre anni nel rito abbreviato che ne aveva chiesto dodici di carcere nel processo Mandamento, all’insolita festa della Liberazione che si svolgerà nella Locride con un minitour che dal 23 al 25 aprile toccherà Africo, Locri Epizefiri e Siderno.

Titolo manifesto “La Liberazione continua. Dagli stati di emergenza allo Stato di Diritto. In Calabria e non solo”.

Il pretesto è dato da un libro non pubblicizzato nei talk show televisivi “Quando prevenire è meglio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia” che racconta storie di imprenditori estranei alla mafia condannati da misure interdittive, di misure di prevenzioni antimafie, di comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, promosso dall’associazione di area radicale “Nessuno tocchi Caino” che da qualche tempo offre visibilità ai protagonisti di queste storie drammatiche cui i media danno poco spazio.

Saranno presenti all’iniziativa i rappresentanti più autorevoli dell’associazione: Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elena Zamparutti che daranno vita a tre panel molto vibranti per presenza garantista: gli scrittori Gioacchino Criaco e Mimmo Gangemi, il deputato Enza Bruno Bossio, sindaci ed ex sindaci, il giornalista Pasquale Motta di recente prosciolto da ogni accusa da una controversa vicenda mafiosa, il polemista molto sensibile al tema Ilario Ammendolia, l’ex senatore Pietro Fuda , rinviato a giudizio per concorso esterno quando esercitava il ruolo di sindaco a Siderno nella sciolta amministrazione comunale. La giusta iniziativa sulla Giustizia mostra solo una falla.

Nell’ampio numero di relatori non contempla magistrato o sostenitori della linea emergenziale per nulla minoritaria in Calabria, sarebbe stato meglio per avere un confronto serrato. Ma l’iniziativa è lodevole perché affronta un tema cruciale dei diritti civili cui si sente molto il bisogno di discutere e di agire per correggere molte storture. Cosimo Cherubino, capogruppo regionale del Psi, assolto dopo 12 anni, dopo averne trascorsi 4 in carcere.

Solo uno degli ultimi casi. Qualcosa non funziona. Ben venga il confronto sulla Liberazione dall’Inquisizione carceraria che colpisce troppi innocenti.

Non basta essere un pm antimafia per meritare una carriera fulminante. Il Dubbio il 23 aprile 2022.  

Assolti i medici dell’Asp di Reggio Calabria che a marzo 2021 erano stati arrestati per concorso esterno in associazione mafiosa. Ora la riforma della Giustizia contenga l’incontrollabile furia moralizzatrice di alcune frange della magistratura.

Si era prodigato pure il Comandante Generale dei Ros nel dare l’annuncio urbi et orbi che il 23 marzo 2021 alcuni medici dell’Asp di Reggio Calabria, oggi pienamente assolti, erano stati mandati agli arresti domiciliari con le gravissime accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e traffico di influenze illecite con l’aggravante della finalità di agevolazione mafiosa, l’una e l’altra, a distanza di pochi giorni, significativamente vanificate dal Tribunale del Riesame per assoluta mancanza di gravità indiziaria.

In altri termini, l’Organo di Garanzia aveva statuito che non esistevano ab initio elementi in grado di giustificare la privazione della libertà per i dottori Salvatore Barillaro, Domenico Forte e Antonino Coco, evidentemente ritenuti, con gravissima superficialità, concorrenti esterni ed agevolatori della ‘ndrangheta. Eppure, nonostante l’impianto accusatorio fosse imploso già in occasione della sua prima, immediata verifica procedimentale, il pubblico ministero che aveva condotto le indagini preliminari, lungi dal prestare attenzione al “giudicato cautelare” che aveva frantumato i suggestivi postulati della tesi accusatoria, ha esercitato l’azione penale ed avanzato, di conseguenza, la richiesta di rinvio a giudizio dei professionisti.

L’esercizio dell’azione penale, come è noto, determina la transizione dallo status di indagati a quello di imputati, ed è superfluo soffermarsi sugli effetti devastanti destinati ad abbattersi su qualsiasi cittadino a causa di un “carico pendente” per pretesi “fatti” connessi alla “ndrangheta”, trattandosi di uno stigma indelebile, in grado di resistere all’esito conclusivo del processo. Oggi che è intervenuto un verdetto ampiamente assolutorio, quei medici hanno pieno titolo per lamentare che tutto ciò si sarebbe potuto e dovuto evitare se solo si fosse preso atto del giudicato cautelare, di segno opposto a quello inseguito dal pubblico ministero. Vero è che, con la requisitoria in sede di giudizio abbreviato, l’Ufficio di Procura ha correttamente chiesto l’assoluzione dei professionisti dall’accusa di concorso esterno, non senza avere rinunciato anche alla contestata aggravante ad effetto speciale della agevolazione mafiosa.

Ma è del pari vero che, nell’ambito del controllo sociale da esercitare senza timore e/o omertà su vicende che avevano generato allarme nell’opinione pubblica, oggi va puntualizzato che il mutato atteggiamento della Pubblica Accusa lo si deve ad un giovane magistrato che non si era occupato delle indagini preliminari. Il giovane Pm ha semplicemente “ereditato” il fascicolo dai colleghi, e lo ha studiato, prendendo diligentemente nota delle verifiche giurisdizionali che avevano già da tempo messo la sordina ai roboanti annunci della esecuzione dei provvedimenti restrittivi.

Ancora: l’esercizio del controllo sociale sulla vicenda giudiziaria impone che adesso la pubblica opinione sappia anche della assegnazione di un incarico semi-direttivo al pubblico ministero che aveva richiesto la misura cautelare e il rinvio a giudizio dei professionisti, pur nella significativa assenza di progressione probatoria successiva alla assoluta insussistenza di gravità indiziaria affermata dall’Organo di Garanzia.

La realtà, dunque, pone il cittadino comune davanti ad un quadro, anzi una crosta che conferma l’importanza della funzione del Giudice; ribadisce la necessità di una sostanziale riforma della Giustizia che sappia contenere l’incontrollabile furia moralizzatrice di frange estreme della magistratura requirente; colloca al centro della scena, una volta di più, l’esperienza fallimentare del “concorso esterno in associazione mafiosa”, fattispecie di reato di impropria creazione giurisprudenziale, con l’aggravante della assegnazione a essa di una missione salvifica che ha solo prodotto l’effetto di farne l’icona di una vera e propria emergenza nazionale.

Quanto basta per esigere l’immediato abbandono della corsia preferenziale sin qui fideisticamente riservata a pubblici ministeri che aspirano ad avanzamenti di carriera grazie al declamato e narrato impegno profuso sul versante della criminalità organizzata guardandosi bene dallo specificare se tale impegno, in concreto, si sia poi tradotto nel rispetto o nell’allontanamento dalla cultura della giurisdizione. Oreste Romeo, avvocato

Check point in tribunale, i penalisti calabresi: «Trattati come pericolo pubblico». Divieto di parcheggio all’aula bunker di Lamezia, controlli e sospetti nei confronti dei legali. La denuncia delle Camere penali calabresi: «Pari dignità in discussione». Valentina Stella su Il Dubbio il 7 aprile 2022.

«In difesa del prestigio dell’avvocatura e per la rimozione di ogni ostacolo alla pari dignità tra tutti gli attori della giurisdizione», è il titolo di un documento licenziato dalle Camere penali calabresi – Catanzaro, Crotone, Lamezie Terme, Vibo Valentia – per stigmatizzare quanto sta avvenendo negli ultimi giorni durante i processi contro la criminalità organizzata, a partire da Rinascita Scott e Imponimento.

«Da qualche giorno – scrivono i penalisti – agli avvocati impegnati nei processi presso l’aula bunker di Lamezia Terme è inibito, per presunte e non meglio esplicitate ragioni di sicurezza, parcheggiare le auto nello sconfinato piazzale dell’edificio giudiziario». Chi abbia emesso il provvedimento non è dato sapere. Bocche cucite da parte degli agenti e militari chiamati a garantire la sicurezza. Comunque fino a qualche giorno fa, «l’avvocatura, e non solo, vi accede(va) previo controllo da parte dei militari dell’esercito – un vero e proprio check-point – i quali registrano e annotano targa e documenti, previa verifica anche della effettività dell’impegno professionale. Inoltre, prima di accedere alla sede giudiziaria i difensori sono sottoposti ad ulteriori controlli, attraverso la verifica dell’identità personale (nuova annotazione del nome e numero di tessera professionale sul registro tenuto dalle guardie giurate della vigilanza privata) e al passaggio dal metal detector ogni qual volta si entra ed esce dall’aula».

Poiché, però, criticano i penalisti, «l’avvocato rappresenta all’evidenza un “pericolo” per l’ordine pubblico e l’incolumità personale – di chi, lo si può solo intuire», è apparso «necessario implementare i presidi di sicurezza al fine di neutralizzare la fonte di rischio, vietando l’utilizzo agli avvocati del predetto “piazzale”, già distante circa 300 mt. dall’aula». Sia inteso, precisano, «qui non si tratta di rivendicare un diritto corporativo al posto auto (ora relegato in un luogo distante circa 800 mt.); è in gioco, invece, il doveroso e reciproco rispetto che tutti gli attori della giurisdizione dovrebbero reciprocamente riconoscersi come terreno minimo comune sul quale edificare e garantire il buon andamento della vita giudiziaria». Inoltre «presso il Tribunale e la Corte D’appello di Catanzaro è stato introdotto, da pochi giorni, per i soli avvocati (non anche per magistrati, personale di cancelleria, addetti all’ufficio del processo, guardie giurate, carabinieri, fonici, etc) il controllo di borse e valigette sul nastro trasportatore del metal detector. Sicché, all’evidenza, l’avvocato è considerato come “fonte di pericolo per la sicurezza pubblica”. Nella casistica delle circostanze, dei luoghi comuni o di quant’altro possa svilire e attaccare il ruolo difensivo, questa mancava».

Il problema, secondo le Camere Penali, è che «dilaga la cultura del sospetto, l’utopia securitaria rappresenta l’ennesimo e ingiustificato attacco nei confronti dell’avvocatura, degno di un regime illiberale, in cui il difensore è avvertito come un nemico del popolo e, come tale, merita di essere avversato». La questione è stata sollevata nell’udienza del 1 aprile dall’avvocato Michele Andreano, che ha anche ricordato che «anche il bar è stato chiuso e quindi neanche una bottiglietta d’acqua si può prendere in questa maestosa Aula, ma siamo costretti anche, come dire, a portarci i viveri e le bevande». Sembrerebbe perché qualcuno tema che gli imputati a piede libero possano parlare tra loro davanti ad una tazza di caffè.

A lui, durante l’udienza, si sono poi associati altri colleghi, tra cui l’avvocato Vincenzo Comi (che è anche presidente della Camera Penale di Roma) difensore di uno degli imputati, che ci dice: «Si tratta di una vera e propria anomalia, soprattutto in un momento così delicato per l’organizzazione dei processi e per il rispetto delle prerogative difensive. Cosa sia accaduto negli ultimi giorni di così grave da inibire a noi avvocati l’utilizzo del parcheggio non è dato sapere. Durante l’udienza ho chiesto che della questione venisse investito il presidente del Coa, il presidente della Corte di Appello e quello dei penalisti del capoluogo. È come se magistrati e cancellieri entrano dalla porta principale mentre noi avvocati da quella di servizio. Questo non è tollerabile». Per tutto questo le camere penali firmatarie del documento chiedono «che il presidente della Corte e il procuratore generale del distretto di Corte D’Appello di Catanzaro, ognuno nelle rispettive competenze, revochino, con effetto immediato, i provvedimenti che hanno determinato il trattamento discriminatorio riservato all’avvocatura».

Triste Solitario y final. Mario Oliverio e il silenzio del Pd sul «populismo penale» calabrese. Carmine Fotia su L’Inkiesta il 28 Novembre 2022.

L’ex presidente della Regione Calabria, dopo l’ennesima assoluzione nei processi aperti contro di lui dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, racconta di esser stato «lasciato solo» dal partito in questi anni. «Pur essendo membro della direzione non sono stato mai convocato», dice. «La verità è che il Pd è subalterno all’ala giustizialista dei pm per codardia o perché qualcuno, come si dice dalle mie parti, ha i “carboni bagnati”, cioè ha qualcosa da temere»

«Sono stati per me anni di amarezza, personale e politica. Mi sono sentito offeso nella ragione stessa di tutta la mia vita, isolato, maltrattato, tradito dagli stessi compagni delle mie lotte, immerso in un mondo capovolto». Mario Oliverio, 69 anni, parla dopo l’ennesima assoluzione nei processi aperti contro di lui dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

Una vita spesa prima nel Pci e poi nel Pds, nei Ds e nel Pd, Oliverio è stato uno dei più importanti leader della sinistra calabrese: consigliere comunale e poi sindaco di San Giovanni in Fiore, presidente della provincia di Cosenza, consigliere regionale, parlamentare, eurodeputato, presidente della Regione.

Nel dicembre del 2018, nell’ambito dell’Inchiesta “Lande Desolate”, l’allora presidente della Regione Calabria è accusato di corruzione e abuso d’ufficio nella realizzazione di alcune opere pubbliche. Per lui scatta l’obbligo di dimora nel comune di San Giovanni in Fiore, revocato da una sentenza della Corte di Cassazione nel marzo del 2019 che motiva la sua decisione parlando di un “pregiudizio accusatorio”. L’anno successivo Oliverio ottiene l’assoluzione con formula piena, «perché il fatto non sussiste». E per altri due esponenti del Pd, il vicepresidente della Regione Nicola Adamo e la deputata Enza Bruno Bossio, viene decretato «il non luogo a procedere». La Dda di Catanzaro diretta allora da Nicola Gratteri non oppone ricorso alla sentenza, che così passa così in giudicato. Nel secondo procedimento, relativo alla sponsorizzazione (95mila euro) di un evento nell’ambito del Festival dei due mondi a Spoleto (un’intervista con il giornalista Paolo Mieli, al fine di promuovere l’immagine della Calabria in una strategia di sostegno al turismo nella regione), viene accusato di peculato. Malgrado l’accusa chieda la condanna a quattro anni, il 10 novembre il tribunale lo assolve perché «il fatto non sussiste».

«In questi anni di enorme sofferenza sono stato lasciato solo dal Pd», racconta Oliverio, che nel 2019 contribuì all’elezione di Zingaretti a segretario con il 70% dei voti in Calabria, ma che oggi è fuori dal partito. «Pur essendo membro della direzione non sono stato mai convocato, nessuno del Pd ha aperto bocca neppure dopo la sentenza della Corte di Cassazione che annullò l’obbligo di dimora con motivazioni chiarissime, parlando di “chiaro pregiudizio accusatorio” e di provvedimento “abnorme”. Non parlò nessuno neppure dopo l’assoluzione con formula piena e nessuno ha profferito parola dopo l’ultima assoluzione. Ringrazio i tanti che mi hanno espresso la loro solidarietà in forma privata, mi aspetto che lo facciano in forma pubblica. La verità è che il Pd è subalterno all’ala giustizialista dei pm per codardia o perché qualcuno, come si dice dalle mie parti, ha i “carboni bagnati”, cioè ha qualcosa da temere».

Il fatto è che l’accanimento giudiziario contro Oliverio ha avuto risvolti politici rilevanti, che hanno cambiato la storia politica recente della Calabria. «È stato interrotto dall’azione giudiziaria un processo di rinnovamento che avevamo avviato, un processo di bonifica della regione dal verminaio degli interessi illeciti, abbiamo sciolto enti inutili e consigli di amministrazione, centri di malaffare e sottratto alla Regione la gestione di imponenti risorse e di appalti attraverso il trasferimento di funzioni ai Comuni, alle Province, alle Università. La Calabria aveva smesso di essere ultima in tutte le graduatorie a partire dalla utilizzazione dei fondi europei dove era giunta prima tra le regioni del sud», sostiene Oliverio.

«In Calabria viviamo sotto una dittatura giudiziaria», si sfoga Enza Bruno Bossio, parlamentare Dem non rieletta nell’ultima tornata. «C’è il caso Oliverio, ma anche quello del senatore Giancarlo Pittelli», dice.

La vicenda dell’ex presidente della Regione Oliverio è particolarmente significativa. Ma al neo ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Comitato per Pittelli ha chiesto se non sia meritevole della sua attenzione anche la condizione dell’ex parlamentare della Repubblica, «avvocato penalista incensurato, ormai sulla soglia dei settant’anni, in condizioni di salute precarie, privato della libertà ormai dal lontano dicembre 2019, con l’accusa infamante ma mai provata di essere “l’anello di congiunzione fra Ndrangheta e massoneria”, ben prima di qualunque processo o sentenza, il quale in questi tre anni di attesa di giustizia ha collezionato ben tre sentenze della Cassazione che hanno cancellato o ridimensionato i capi d’imputazione originari e accolto le richieste della difesa su questioni parallele al giudizio principale». Lo scorso 15 novembre, Nordio ha inaugurato il nuovo palazzo di giustizia a Catanzaro, indicandolo a modello, ma che prima di assumere la carica di Guardiasigilli aveva firmato un appello a favore dell’ex senatore.

«L’ultima motivazione per revocargli i domiciliari è stata giustificata per il fatto che si era rivolto ad alcuni parlamentari, tra cui c’ero anche io, che hanno presentato un’interrogazione parlamentare sul suo caso», racconta Bruno Bossio. Che denuncia: «Questo è il clima e il Pd non si ribella ma anzi vi si sottomette. E così abbiamo avuto leggi come la Severino che ha abolito la presunzione d’innocenza per gli amministratori locali, la spazzacorrotti che equipara i reati di corruzione a quelli di terrorismo e mafia, e la definizione del traffico d’influenze impossibile da tipizzare. Ma io non mi arrendo, anche se mi calpestano e farò fino alla fine questa battaglia nel Pd».

Non è solo la vicenda giudiziaria in sé a sconcertare. È che “Il caso Oliverio” è il paradigma di una sottomissione culturale al “populismo penale”, che uno dei massimi giuristi italiani, Luigi Ferrajoli, ha definito così: «Alimenta e interpreta il desiderio di vendetta su capri espiatori. Configura l’irrogazione di pene come nuova e principale domanda sociale e perfino come risposta a gran parte dei problemi politici».

«Io penso che la sinistra si sia sempre battuta per i diritti, per la libertà, per la garanzia delle persone. E penso che il garantismo sia lo strumento per combattere con efficacia mafia e corruzione. I polveroni, l’azione inquisitoria, in assenza di fatti e persino di indizi, utilizzata a scopo mediatico, politico, nel medio lungo periodo indebolisce la stessa credibilità della magistratura», dice Oliverio. Che cita Falcone: «“A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede. Perché da queste contestazioni poi derivano conseguenze incalcolabili. Il sospetto non è l’anticamera della verità ma del khomeinismo”». Il magistrato ucciso nella strage di Capaci, a cui spesso Gratteri viene associato da parte dei suoi sostenitori, pronunciò queste parole nella sua deposizione davanti al Csm per rispondere all’accusa di nascondere le prove dei delitti politico-mafiosi.

Caso Oliverio, la magistratura ha cambiato la storia politica. È evidente che in prossimità delle penultime elezioni regionali fu impedito ai calabresi di decidere chi avrebbe dovuto rappresentare il Pd e di conseguenza tra quali candidati scegliere il proprio Presidente. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 12 novembre 2022.

Mario Oliverio già presidente della Regione Calabria ed esponente di primo piano del Pd nazionale e regionale, è stato assolto dell’accusa di peculato perché “il fatto non sussiste”. Se ci fosse realmente il Partito democratico dovrebbe chiedere scusa non tanto a Oliverio quanto agli elettori “democratici” per la codardia che nel 2018 il Pd ha dimostrato nei confronti della Procura di Catanzaro.

È evidente che in prossimità delle penultime elezioni regionali fu impedito ai calabresi di decidere chi avrebbe dovuto rappresentare il Pd e di conseguenza tra quali candidati scegliere il proprio Presidente. Al loro posto hanno deciso oscuri burocrati. La democrazia è stata mera finzione.

A scanso di equivoci ribadiamo: criticare, anche aspramente, il governo Oliverio sarebbe stato del tutto legittimo, chiedere la sua sostituzione un fatto del tutto normale. Non votarlo una decisione democratica. Il problema è chi avrebbe dovuto decidere i nomi dei candidati e una cosa è certa a scegliere il presidente della Regione non può essere di fatto la procura della Repubblica. Non è questo il suo ruolo.

Siamo partiti dicendo che pochi giorni fa Oliverio è stato assolto ma la procura di Catanzaro aveva chiesto 4 anni di carcere. Già nel processo “Lande desolate” l’ex presidente, dopo 4 mesi e mezzo di confino politico nelle montagne della Sila, veniva assolto perché le indagini risultavano marcatamente viziate in quanto gravate da un chiaro “pregiudizio accusatorio“.

Entrambi i processi erano stati avviati a ridosso delle elezioni regionali del 2018 quando Oliverio è stato al centro d’un fuoco incrociato tra l’opposizione di centro destra e il Pd retto da un commissario che, in nome delle inchieste aperte dalla procura di Catanzaro, ha chiesto e ottenuto che il presidente uscente non venisse ricandidato. Ed infatti non fu candidato. Al posto di Oliverio il “Pd” (si fa per dire) ha scelto Pippo Callipo, già sostenitore del centro destra e che ritroveremo pochi giorni dopo l’investitura, e precisamente il 18 febbraio 2018, a manifestare solidarietà e vicinanza al dottor Gratteri perché le sue inchieste avrebbero avuto poco spazio sui giornali e in televisione (sic).

Alla manifestazione di Catanzaro aveva aderito legittimamente anche la candidata ufficiale del centrodestra. Divisi su tutto ma uniti sul sostegno a Gratteri. Cosa avrebbero scritto i grandi giornali italiani se ciò fosse successo nella Russia di Putin, in Egitto o in Turchia? Il caso Oliverio, sotto alcuni aspetti, non è meno grave di quello a Patrick Zaki. Ma è successo in Calabria e “hic sunt leones”, quindi ogni discussione sarebbe stata inutile.

L’intervento della magistratura, amplificato oltre modo dalla stampa, ha cambiato la storia politica della Calabria nel cupo silenzio dei grandi giornali, della quasi totalità degli intellettuali e degli “operatori di giustizia”. Pochi giorni fa abbiamo preso consapevolezza della gravità d’un decreto legge di sapore liberticida votato dal governo Meloni per fronteggiare i rave party.

Alcuni, soprattutto a Sinistra, secondo me giustamente, hanno invocato le “barricate” contro il decreto. Ma l’attuale governo non ha viaggiato su un vagone piombato. È il frutto del progressivo sputtanamento della democrazia, del continuo cedere ai poteri non democratici, dell’assoluta subalternità della politica ai Pm. Tutto ciò ha aperto la strada alla svolta autoritaria in atto.

A furia di invocare ordine e disciplina (per gli altri) la gente s’è convinta che si può anche sacrificare la Costituzione e così quando si prende la china giustizialista è del tutto naturale che si possa arrivare in poco tempo sulla sponda turca. In Calabria ci siamo già e non da oggi.

Fu indagato a ridosso del voto: assolto l’ex governatore Oliverio. All'epoca, per l'inchiesta coordinata dalla procura di Catanzaro, il governatore della Calabria rinunciò alla ricandidatura per la guida della Regione. Simona Musco su Il Dubbio l’11 novembre 2022

Ancora un’assoluzione per l’ex governatore della Calabria Mario Oliverio. L’ultima riguarda l’accusa di peculato, per la quale la procura di Catanzaro aveva chiesto una condanna a quattro anni. Oliverio era finito a processo a novembre del 2020 assieme all’imprenditore spoletino Mauro Luchetti e l’ex parlamentare del Partito democratico Ferdinando Aiello (per i quali era stata chiesta una condanna a 2 anni e otto mesi). L’inchiesta, coordinata dal pm Graziella Viscomi, ruotava attorno alle presunte irregolarità relative all’uso di quasi 100mila euro della Regione Calabria.

I fatti risalgono all’estate 2018 quando, nell’ambito del Festival dei Due Mondi a Spoleto, l’allora governatore partecipò agli Incontri di Paolo Mieli organizzati per molte edizioni del Festival da Hdrà di Luchetti. Secondo la procura, l’iniziativa venne finanziata con fondi della Regione destinati alla promozione turistica, spesi per finalità privatistiche di promozione politica dello stesso governatore. I 100mila euro, nell’ipotesi investigativa, sarebbero stati spesi per pagare uno spot di due minuti che non sarebbe mai andato in onda, un’intervista con l’ex direttore del Corsera Paolo Mieli, il pernottamento, il vitto ed i comfort per i vip ospiti del Festival di Spoleto. Ma non solo: quei soldi sarebbero serviti anche per pagare una cena di gala per sessanta ospiti, per il noleggio delle berline per gli spostamenti dei vip e 500 copie di uno dei libri di Mieli stampate da Mondadori. Subito dopo la notizia dell’inchiesta,

Oliverio accusò la procura di agire ad orologeria proprio poco prima delle elezioni regionali, alle quali poi non si presentò. «Caratterizzare questa fase immediatamente a ridosso delle elezioni regionali significa condizionare oggettivamente quelle che sono le vicende politiche – commentò all’epoca -. Però se i processi non si fanno se non dopo anni e magari si fissa anche al punto giusto una udienza per condizionare le scadenze, credo che debba fare riflettere ai fini della sostanza democratica». Anche nell’intervista rilasciata a Mieli, spiegò «c’è stata una promozione della Calabria perché il massimo rappresentante della Calabria che viene intervistato in una sede come quella non promuove se stesso, ma promuove la Calabria».

Per il Tribunale di Catanzaro, che ha assolto anche gli altri imputati, il fatto non sussiste. E si tratta della seconda assoluzione per l’ex governatore, già coinvolto nell’inchiesta “Lande desolate”, dalla quale uscì pulito, anche allora con la stessa formula assolutoria. La procura generale di Catanzaro decise di non impugnare quella sentenza, ma l’indagine, nel 2018, costrinse l’allora presidente a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. E proprio a causa di quell’inchiesta fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra.

Ciò nonostante la Cassazione, nell’annullare l’obbligo di dimora disposto dal gip, lo avesse definito «oggetto di un chiaro pregiudizio accusatorio», con il quale l’accusa avrebbe attribuito al politico la condivisione delle modalità fraudolente con cui dovevano essere finanziate alcune importanti opere per la Regione Calabria. In quelle sentenze, aveva spiegato Oliverio al Dubbio, «c’è una risposta chiara a quella che è stata l’inconsistenza e la gravità di un’inchiesta che mi ha fatto finire in un tritacarne mediatico per anni. Non solo, è stata questa la vera ragione per cui il Pd ha detto no alla mia candidatura».

Su quel pronunciamento della Cassazione, aveva evidenziato, «i dirigenti nazionali del Pd non hanno detto una parola». Nemmeno dopo la sentenza, pronunciata dopo le elezioni e, dunque, con il problema delle liste per le candidature già superato. «Ora ci si arrampica sugli specchi, ma era evidente anche alle pietre in Calabria e non solo – che la ragione era quella. C’è stato un atteggiamento supino e subalterno, non so per quali ragioni, ma la linea scelta è stata questa e segna il comportamento del Pd sulle problematiche della giustizia».

Estratto dell’articolo di Ermes Antonucci per “Il Foglio” il 10 novembre 2022.

"E' stato un incubo. Fino al 2019 avevo un'azienda che fatturava oltre venti milioni, oggi circa sei. Ho dovuto licenziare decine di dipendenti. Sono stato trattato come un presunto colpevole". Inizia così il racconto al Foglio di Mauro Luchetti, presidente del gruppo di comunicazione ed eventi Hdrà, assolto martedì dal tribunale di Catanzaro insieme all'ex presidente della regione Calabria, Mario Oliverio, e all'ex parlamentare Ferdinando Aiello, dall'accusa di peculato. L'ultimo flop di Nicola Gratteri.

La vicenda esplose nell'agosto 2019, finendo sulle prime pagine dei giornali. La procura di Catanzaro accusò l'allora governatore Oliverio di aver utilizzato oltre 95 mila euro di fondi pubblici, destinati alla promozione turistica della regione Calabria al "Festival dei due mondi" di Spoleto, per finalità ritenute "privatistiche".

In precedenza, la procura guidata da Gratteri aveva aperto nei confronti di Oliverio altre due inchieste ben più pesanti, una per corruzione e abuso d'ufficio (che poi si è chiusa con l'assoluzione definitiva dell'ex governatore), un'altra in cui gli stessi pm hanno poi chiesto l'archiviazione. Un'iniziativa giudiziaria su larga scala che demolì l'immagine di Oliverio, poi non riconfermato governatore alle successive elezioni regionali. 

In questo ambito si collocò anche l'indagine sulla partecipazione di Oliverio al Festival di Spoleto. Nel 2018 la Regione Calabria decise di contribuire al format "I dialoghi di Paolo Mieli", ideato dal gruppo Hdrà, [....] sponsorizzando l'evento con 95 mila euro al fine di promuovere la Calabria.

Il marchio della regione calabrese comparve in tutti gli appuntamenti dell'ex direttore del Corriere della Sera, che nel corso del Festival intervistò personaggi come Raffaella Carrà, Paola Cortellesi, Franca Leosini, Gabriele Muccino e Marco Travaglio, oltre che lo stesso Oliverio. Venne anche organizzata una cena di gala a base di prodotti tipici calabresi. Nonostante ciò, per gli inquirenti si era trattato soltanto di una "promozione politica" dell'allora governatore, tesi ora smentita dai giudici, che hanno assolto Oliverio, Luchetti e Aiello perché "il fatto non sussiste".

"Io non ho nulla contro i magistrati, che fanno il loro mestiere", dice Luchetti, per il quale i pm avevano chiesto una condanna a due anni e otto mesi. "Sono stato indagato, processato e assolto, sono contento così. Ma è da rivedere tutto quello che sta in mezzo a queste vicende giudiziarie: i risvolti mediatici, il comportamento delle banche, le conseguenze sulla propria reputazione e sulla propria vita personale". […]

Ennesimo flop di Gratteri: Mario Oliverio ancora assolto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Novembre 2022

Non fu peculato: assolto a Catanzaro di nuovo Mario Oliverio, ex Presidente della Regione Calabria. E intanto a Reggio, Giuseppe Falcomatà, condannato anche in appello a un anno di reclusione per abuso d’ufficio, è un “sindaco sospeso” in eterno, a causa della legge Severino. I giudici di Catanzaro hanno assestato un altro sonoro schiaffone alla Procura di Catanzaro e al loro capo Nicola Gratteri, oltre che a quel Pd che in questi anni ha preferito sacrificare i suoi figli migliori e lasciar distruggere il partito in Calabria pur di inseguire i pubblici ministeri e il Movimento cinque stelle. La vicenda di oggi è piccola cosa rispetto alla storia del recente passato.

Ma non è insignificante nella vita di una persona, di un uomo politico costretto a vivere con inchieste a raffica sulla propria testa. Secondo l’accusa i 95.000 euro che la giunta calabrese aveva speso nel 2018 per promuovere le bellezze turistiche della regione partecipando al “Festival dei due mondi” a Spoleto, e al talk “I dialoghi di Paolo Mieli”, erano in realtà serviti per pagare “una personale promozione politica” del Presidente Oliverio e del suo partito. Insieme a lui erano accusati anche il deputato del Pd Ferdinando Aiello e l’organizzatore di eventi Mario Luchetti. Il pubblico ministero aveva chiesto quattro anni di carcere per Oliverio e due anni e otto mesi per gli altri due imputati. Il tribunale ha assolto. Gli uffici del procuratore Gratteri hanno dimostrato anche questa volta di non demordere mai. Quasi mai, per la precisione. La notizia è passata inosservata, nessuna conferenza stampa né interviste televisive quando, dopo la clamorosa assoluzione dello stesso Oliverio nell’inchiesta “Lande desolate”, quella che ha cambiato il destino politico della Calabria, la Dda di Catanzaro prendeva la ancor più clamorosa decisione di non ricorrere in appello.

Il che sarebbe un fatto apprezzabile, in generale, ma in questo caso interpretabile solo come disperazione, dopo che la Cassazione prima e poi la stessa Europa, titolare dei fondi che sarebbero stati usati per alimentare corruzione e malaffare, avevano addirittura irriso le modalità con cui gli uomini di Gratteri avevano condotto le indagini. Avevano puntato gli occhi sulla seggiovia di Lorica, la realizzazione di piazza Bilotti a Cosenza e l’aviosuperficie di Scalea. Tutte opere realizzate con i fondi europei. Qui c’è puzza di bruciato, aveva detto il procuratore Gratteri, e in un’intervista a Rai 1 dichiarava che “con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ‘ingrassare’ alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte”. E aveva chiesto per Oliverio la detenzione, che il gup non aveva condiviso neanche nella forma domiciliare, decidendo però per il Presidente della Regione il confino al suo paese, San Giovanni in fiore, provincia di Cosenza. Molto comodo, per amministrare.

Altri giudici poi, quelli della cassazione, lo avevano liberato, accusando anche gli uomini della Dda, che avevano basato le loro accuse solo su alcune intercettazioni, di scarso senso dell’ironia, scrivendo nelle motivazioni dell’annullamento della misura cautelare che “la chiave di lettura delle conversazioni lette e interpretate senza considerare l’intonazione canzonatoria e irriverente assunta dagli interlocutori…muove dal chiaro pregiudizio accusatorio”. Pregiudizio, dunque. Un sospetto molto grave, per un magistrato. Ma l’altro fatto grave, mentre montava la gogna mediatica ispirata anche da ambienti istituzionali, è che l’Unione Europea, sempre cauta nel controllare la destinazione dei fondi erogati, aveva, per “ragioni prudenziali”, bloccato 131 milioni di euro destinati alla Regione Calabria. Un bel danno economico dunque, unito a quello politico e mediatico. Saranno poi proprio i tecnici europei, già nel novembre del 2019, a eseguire controlli a tappeto su tutte le opere e i cantieri e a rilevare che nessuna frode era stata compiuta, a parte qualche piccola irregolarità amministrativa di routine.

Ecco perché, dopo l’assoluzione di Oliverio del gennaio del 2021, la Dda di Catanzaro non si è appellata, rendendo così definitiva la sentenza. Troppo tardi, per la sinistra di Calabria. Perché nel frattempo, mentre il procuratore Gratteri lanciava, nel dicembre 2019, l’operazione “Rinascita Scott” con centinaia di arrestati e metteva a ferro e fuoco la Calabria, gli impavidi uomini del Pd mettevano le vesti dei grillini e si avviavano al suicidio politico, le cui ferite sono ancora aperte. Oliverio fu abbandonato al proprio destino, mentre Gratteri era di fatto il numero uno che condizionava la campagna elettorale. Il Pd candidò un imprenditore del tonno, quel Pippo Callipo che subito disse che con lui presidente nessuno avrebbe dovuto più bussare alla porta di “politici e mafiosi”. Inutile genuflessione ai magistrati. Così il 26 gennaio 2020, proprio a ridosso del blitz “antimafia”, Jole Santelli e il centro destra strapparono la Calabria alla sinistra. Lo sconfitto Callipo non rimase neppure un giorno a fare il consigliere regionale. E il settimanale L’Espresso dedicò quindici pagine alle elezioni regionali calabresi titolando “Calabrexit”. Un invito a scappare dai luoghi dove si governava con la ‘ndrangheta. Storie di Calabria.

È finita? In Calabria nulla finisce come dovrebbe. Così, nella stessa giornata dell’assoluzione di Oliverio a Catanzaro, un’altra notizia di politica giudiziaria, una bomba che dovrebbe destare l’attenzione dello stesso ministro Nordio, arriva da Reggio. Il sindaco Giuseppe Falcomatà del Pd è stato condannato anche in appello a un anno per abuso d’ufficio. Perché è rilevante la notizia? Perché il primo cittadino della città di Reggio Calabria è in questo momento già un “sindaco sospeso”, cioè non in funzione, a causa dell’ applicazione della “legge Severino”, in seguito alla condanna nel processo di primo grado di un anno fa a sedici mesi di carcere. Pena sospesa, ma anche il ruolo di sindaco. In questo momento quindi, nella città calabrese, c’è un sindaco facente funzioni, oltre a un altro che funge da primo cittadino della città metropolitana. Con la condanna di ieri al processo d’appello, pur con la pena ridotta a un anno, si aggiungono altri dodici mesi di sospensione dall’incarico. Un’eternità. Falcomatà è condannato per aver agevolato un imprenditore amico nelle procedure dell’affidamento della gestione dell’hotel “Miramare”. Avrebbe saltato le procedure di evidenza pubblica e non avrebbe lanciato nessun bando. Le solite vicende amministrative, simili a quelle dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, che però aveva anche subito il carcere e la gogna. Che dire? Ministro Nordio, dia un po’ un’occhiata alla Calabria, per favore.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Non favorì la ‘ndrangheta, assolto un ex consigliere regionale della Calabria. «La fine di un incubo…». Arrestato nel 2012 e trascorsi 4 anni in carcere, nel 2016, in primo grado, Cherubino era stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Locri. I giudici d'appello lo hanno assolto «perché il fatto non sussiste». Il Dubbio il 6 aprile 2022.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa l’ex consigliere regionale Cosimo Cherubino, uno dei principali imputati del processo «Falsa politica» nato da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria contro la cosca Commisso di Siderno. Arrestato nel 2012 e trascorsi 4 anni in carcere, nel 2016, in primo grado, Cherubino era stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Locri. I giudici d’appello lo hanno assolto «perché il fatto non sussiste».

Secondo l’accusa, la cosca Commisso controllava l’amministrazione comunale di Siderno. Per i pm, i politici, per candidarsi, avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione del boss Giuseppe Commisso, detto «il mastro». Ex Nuovo Psi, poi passato al Popolo della Libertà, Cherubino era accusato non solo di essere stato appoggiato alle regionali del 2010 dalla ‘ndrangheta ma di averne fatto parte. «Mi sono sempre difeso avendo fede in Dio – il commento di Cherubino – credendo nella giustizia, soprattutto nella mia innocenza, seguendo il processo e introducendo costantemente nuove prove, a chiarimento della mia posizione. Devo ringraziare dal profondo del cuore l’avvocato Sergio Laganà che ha sempre combattuto credendo in questo risultato fin dall’inizio di questo incubo» aggiunge Cosimo Cherubino.

«Devo ringraziare l’avvocato Nico D’Ascola che mi ha seguito con professionalità nella fase d’appello e gli avvocati Giuseppe Zampaglione ed Ettore Squillace, i consulenti tecnici della difesa Domenico Garreffa, Antonio Milicia e Antonio Miriello. L’assoluzione è il frutto di una difesa maturata negli anni, durante i quali si sono sempre più approfonditi i temi della difesa. L’unica certezza che in questo momento mi sento di dichiarare è che non mi candiderò mai più in nessuna competizione elettorale. Ho molto sofferto e il pensiero di profonda riconoscenza va a tutti i miei familiari che hanno sofferto con me, ai miei genitori che non hanno potuto gioire in questo momento e, soprattutto, a mia moglie e a mio fratello» conclude l’ex consigliere regionale della Calabria.

Appello al ministro Nordio per Giancarlo Pittelli: “Vittima di accuse infamanti e mai provate”. Redazione su Il Riformista l’11 Novembre 2022

Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta del Comitato Riforma Giustizia, Presidente Enrico Seta e Portavoce Umberto Baccolo.

Martedi 15 novembre saranno inaugurati a Catanzaro, alla presenza del Ministro Carlo Nordio, i nuovi uffici della Procura, risultato di un intervento di restauro sicuramente apprezzabile. Vorremmo suggerire con rispetto al Ministro di cogliere l’occasione per porsi alcune domande anche sulla amministrazione della giustizia nella nostra regione.

Pur confermando il dovuto rispetto della funzione e dell’attività giudiziaria, molti calabresi sono tuttavia perplessi del fatto che negli ultimi anni moltissime inchieste giudiziarie che hanno riguardato rappresentanti eletti delle istituzioni si siano concluse con sentenze di assoluzione con formula piena, in appello o addirittura in primo grado. Molti calabresi osservano che ogni volta tali episodi hanno avuto un grande clamore mediatico, hanno suscitato allarme sociale e hanno gettato su rappresentanti delle istituzioni il sospetto, rivelatosi infondato nei successivi processi, di connivenze con una criminalità organizzata esecrata per la sua ferocia, distruggendo per sempre la reputazione di personalità note in tutta la regione e trasmettendo un’immagine immeritata delle istituzioni democratiche calabresi come irrimediabilmente inquinate. La vicenda dell’ex Presidente della regione, Oliverio, è in proposito particolarmente significativa.

Infine il comitato, il cui appello è stato sottoscritto nei primi mesi dell’anno da oltre tremila persone, chiede al Ministro Nordio se non sia meritevole della sua discreta e rispettosa attenzione anche la condizione di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare della Repubblica, avvocato penalista incensurato, ormai sulla soglia dei settanta anni, in condizioni di salute precarie, privato della libertà ormai dal lontano dicembre 2019, con l’accusa infamante ma mai provata di essere “l’anello di congiunzione fra Ndrangheta e massoneria”, ben prima di qualunque processo o sentenza, il quale in questi tre anni di attesa di giustizia ha collezionato ben tre sentenze della Cassazione che hanno cancellato o ridimensionato i capi d’imputazione originari e accolto le richieste della difesa su questioni parallele al giudizio principale.

Nicola Gratteri presenta il nuovo libro e spara a zero su Fazio. Nicola Gratteri presenta il nuovo libro “Fuori dai confini”, scritto con Antonio Nicaso e spara a zero su Fabio Fazio e su alcuni media. Giampiero Casoni su Notizie.it il 23 Novembre 2022

Rispondendo ad una domanda di Affari italiani il magistrato antimafia spiega senza mezzi termini che non stima il conduttore. Ha detto Gratteri: “Da Fazio? Non vengo invitato da tempo, ma non mi interessa. Preferisco andare nelle trasmissioni dove ho maggiore stima per i conduttori, stessa cosa vale per la carta stampata”. 

Insomma, il procuratore di Catanzaro ha le sue preferenze sui “salotti” tv in cui andrà a presentare il suo nuovo libro, “Fuori dai confini”, scritto con Antonio Nicaso e uscito per Mondadori.

Ha spiegato ancora Gratteri: “Me lo hanno chiesto tante trasmissioni. Certamente andrò dalla Gruber, a Otto e mezzo, su La7, perché è stata la prima a prenotarsi. Ma ci vado con piacere, perché mi dà la possibilità di rispondere e non c’è confusione, né caos”. 

“Non si riesce a concludere un pensiero”

Poi Gratteri ha chiosato: “In altre trasmissioni non sempre si riesce a concludere un pensiero e questo non va bene, ma non per me, ma perché penso che la collettività debba essere messa a conoscenza di qual è la situazione attuale della criminalità organizzata in Italia in maniera completa e corretta.

Lo spettatore fa fatica a seguire un format dove parlano contemporaneamente sette o otto persone”.

Lo schiaffo del riesame al procuratore. Gratteri e l’arresto del sindaco che combatte la ‘ndrangheta, cara Lilli Gruber gli faccia una domanda su Marcello Manna. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Novembre 2022

Chissà se Lilli Gruber, nella cui trasmissione “Otto e mezzo” il procuratore Gratteri è atteso, perché, quando ha saputo del nuovo libro sulla ‘ndrangheta si è prenotata per prima, mentre Floris non l’ha neanche invitato, gli farà subito una domanda su Marcello Manna. Se non sa chi sia, non si può sapere tutto, ci permettiamo di spiegarlo alla giornalista. Non al dottor Gratteri, che conosce benissimo il sindaco di Rende, cittadina del cosentino, visto che ha contribuito al suo arresto, in piena campagna elettorale e in compagnia di qualche centinaio di mafiosi, o presunti tali. ‘Ndranghetista doveva essere anche l’avvocato Manna, secondo la Dda di Catanzaro, ma anche secondo il gip Alfredo Ferraro.

Associato ai boss criminali e anche sospettato di voto di scambio alle elezioni comunali del 2019, quando fu eletto sindaco. Il tribunale del riesame, che lo ha scarcerato il 29 settembre, dopo un mese di detenzione domiciliare, nelle motivazioni depositate in questi giorni dà un vero schiaffo al binomio pm-gip, i cui visi dovrebbero coprirsi di rossore. I giudici fanno due diverse riflessioni. Prima rilevano che non ci sono gli estremi per l’imputazione di associazione mafiosa con voto di scambio, “difettando, allo stato, qualsivoglia elemento su cui fondare la partecipazione del ricorrente a tale specifico accordo illecito”. Poi il vero affondo: caro Gratteri, caro Ferraro, sappiate che, nel caso dell’avvocato Manna, “si riscontrano addirittura elementi contrari alla sussistenza di tale sinallagma”. Quindi, si deduce che, se il sindaco di Rende non è un mafioso, “al contrario” è uno che la mafia la combatte. E se non ha messo in atto, quando si è candidato, il voto di scambio, vuol dire che, “al contrario”, se qualcuno glielo avesse proposto lo avrebbe respinto con sdegno. È stato dunque arrestato come mafioso uno che è l’opposto di un boss, di un criminale.

Senza voler indossare le vesti della pubblica accusa, e senza voler rubare il mestiere a chicchesia, una volta ancora ci domandiamo se chi di dovere, per esempio il Csm, si renda conto delle modalità con cui viene amministrata la giustizia in Calabria. Il procuratore Gratteri è un grande lavoratore, e anche un bel personaggio, così dicono quelli che l’hanno incontrato in questi giorni, e trova il tempo per fare tante cose, un vero multitasking. Ha scritto l’ennesimo libro sulla ‘ndrangheta, senza rendersi conto che i suoi testi sono tutti uguali, e si appresta a presentarlo in diverse trasmissioni (caro Floris, affrettati, se non vuoi essere tagliato fuori). Poi ha inaugurato, con la civetteria del capomastro e alla presenza del ministro Carlo Nordio, la nuova sede della procura di Catanzaro, da lui voluta e realizzata in sei anni. Poi ancora è volato a Milano, per un evento all’interno di San Vittore, dove non ha dimenticato di raccomandare la costruzioni di nuove carceri. Il tema deve stargli particolarmente a cuore. Non useremo la cattiveria di ricordargli che lui contribuisce sensibilmente al sovraffollamento degli istituti penitenziari.

Piuttosto vorremmo discutere con il nuovo ministro guardasigilli se a presiedere il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia opportuno collocare un pubblico ministero che, per quanto prestigioso, ha fatto riempire così spesso le carceri di innocenti. Il caso del sindaco Manna non è così peregrino. Segue uno schema già noto. Con immodestia, possiamo ricordare che lo scorso 2 settembre, all’indomani del blitz chiamato “Reset”, avevamo scritto “prima o poi il reato associativo cadrà, soprattutto nell’aggravante di mafia”? Fondamentale, naturalmente, è stata la capacità degli avvocati Nicola Carratelli e Gian Domenico Caiazza, che avevano saputo presentare ai giudici quella documentazione che né il pm né il gip avevano trovato il tempo di esaminare, prima di puntare il dito contro il solito “pesce grosso”, che in queste inchieste non manca mai.

Ma altre due particolarità usuali in terra di Calabria avevano caratterizzato l’inchiesta “Reset”. La prima è che è stata costruita a tavolino nell’arco forse di qualche anno. Il procuratore Gratteri l’aveva presentata come “..la più estesa indagine su Cosenza” che “riguarda un’associazione mafiosa”, e aveva impegnato i suoi uomini ad armarsi di ago e filo per cucire insieme una serie di altre piccole o medie inchieste. Così ha creato il prossimo maxiprocesso, visto che il primo, “Rinascita Scott”, sta mostrando seri problemi procedurali. La seconda questione riguarda l’insofferenza del dottor Gratteri nei confronti della legge sulla presunzione di innocenza e la regola che dovrebbe rompere le tradizionali conferenze stampa con tanto di fanfare e gogne garantite agli arrestati. Non posso parlare, aveva lamentato il procuratore il giorno dell’arresto dell’avvocato Manna, giocando a rimpiattino con l’incontro con i giornalisti. Ma intanto era già uscita l’intera ordinanza del gip. Altro che silenzio stampa. A magistrati di questo tipo può essere affidata la vita dei detenuti?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Csm, la sezione disciplinare censura un magistrato calabrese. Sanzione per l'ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla limitatamente alle interlocuzioni con il magistrato Luca Primicerio per i dati relativi alla sua difesa personale contenuti nel procedimento a carico dei componenti della famiglia di Greco. Il Dubbio il 23 novembre 2022

Per il magistrato calabrese Eugenio Facciolla arriva la sanzione disciplinare della censura. L’ex procuratore di Castrovillari, trasferito dal Csm nel 2018 a Potenza, con le funzioni di giudice civile, per una inchiesta della procura di Salerno sulle ipotesi delittuose di corruzione e falso, è stato giudicato nella giornata del 22 novembre 2022, dalla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli relativamente a tre incolpazioni formulate a suo tempo dalla procura generale. L’impianto accusatorio, all’esito della Camera di Consiglio, presieduta dal vicepresidente del Csm, David Ermini, non ha retto.

Il sostituto procuratore generale Giovanni Di Leo, infatti, nella sua requisitoria aveva invocato la perdita di sei mesi d’anzianità e il trasferimento ad altra sede per due incolpazioni. La prima riguardava una presunta rivelazione fatta da Facciolla a Nicola Inforzato, al quale avrebbe detto di andare a Roma per sentire un collaboratore di giustizia, ovvero Franco Bruzzese, nel secondo invece avrebbe chiesto ai colleghi di Castrovillari Luca Primicerio e Angela Continisio di fare accertamenti investigativi contro i magistrati calabresi Nicola Gratteri e Vincenzo Luberto, violando l’art. 11 che obbliga i pm ad inviare gli atti alla procura competente, una non facente parte dello stesso Distretto giudiziario, nel caso di specie Salerno, su eventuali presunte condotte illecite di altre toghe.

Alla fine, Facciolla è stato censurato limitatamente alle interlocuzioni con il magistrato di Castrovillari Luca Primicerio per i dati relativi alla sua difesa personale contenuti nel procedimento a carico dei componenti della famiglia di Greco. Assolto dunque per il caso Inforzato e per la presunta campagna mediatica che avrebbe pianificato con un giornalista calabrese. Nulla di tutto ciò. La difesa di Facciolla, rappresentata dall’avvocato Ivano Iai farà comunque ricorso in Cassazione. (a. a.)

«A cena con Pittelli»: i giudici Perri e Scuteri a rischio trasferimento. Domani il plenum voterà la proposta della prima Commissione: le toghe “incastrate” dal trojan. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 22 novembre 2022

È prevista per domani la discussione da parte del Plenum del Consiglio superiore della magistratura della pratica di trasferimento per “incompatibilità ambientale” aperta nei confronti degli attuali consiglieri della Corte d’appello di Catanzaro Giuseppe Perri e Pietro Scuteri.

Il procedimento era nato a seguito di una intercettazione effettuata dal Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri nell’ambito dell’indagine “Rinascita Scott” della Procura di Catanzaro e dalle dichiarazioni dell’ex presidente di sezione della Corte d’appello di Catanzaro Marco Petrini, arrestato per corruzione in atti giudiziari. I carabinieri, in particolare, avevano inserito nel cellulare di Giancarlo Pittelli, parlamentare di Forza Italia ed avvocato penalista del foro di Catanzaro, il trojan, registrando così ogni sua conversazione.

Pittelli, arrestato a dicembre del 2019 per i suoi rapporti con la cosca ‘ndranghetista del clan Mancuso (il dibattimento è ora davanti al tribunale di Vibo Valentia), a marzo del 2018 aveva deciso di organizzare presso la propria abitazione una cena «per soli uomini». Fra gli invitati diversi avvocati e magistrati, come Nicola Durante, giudice del tar, e appunto Perri e Scuteri, all’epoca dei fatti entrambi giudici per le indagini preliminari al tribunale di Catanzaro. Alla cena avrebbe dovuto partecipare anche Antonio Saraco, in quel periodo in servizio alla Corte d’appello di Catanzaro ed ora consigliere in Cassazione, e l’Avvocato generale Beniamino Calabrese.

Come riportato nella trascrizione dei carabinieri, i commensali si sarebbero lasciati andare a commenti critici circa «determinate vicende giudiziarie del distretto di Catanzaro» e «sull’operato di non pochi magistrati». I militari dell’Arma a tal proposito annotarono anche commenti critici sul procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, titolare dell’inchiesta Rinascita Scott. Pittelli, rivolgendosi a Perri e Scuteri, avrebbe detto che erano «magistrati atipici» che ci poteva discutere e fidare, dando invece un giudizio negativo nei riguardi «della gran parte dei magistrati e della magistratura”». La conversazione in questione era finita in un una nota informativa dal titolo “massoneria e i rapporti fra Pittelli e il colonnello dei carabinieri Francesco Merone”, anch’egli presenta a quella cena.

Merone era il comandante del Reparto comando della Legione carabinieri di Catanzaro, successivamente sarà trasferito dal Comando generale dell’Arma a Torino. L’istruttoria del Csm ha cercato di ripercorre i rapporti fra i due magistrati e Pittelli, ad esempio se avessero trattato procedimenti patrocinati da quest’ultimo, accertando così che erano stati una trentina ciascuno, soprattuto in tema di riesame e misure di prevenzione. Era stato ascoltato il presidente della Corte d’appello di Catanzaro, Domenico Introcaso, il quale avevo sottolineato l’eccezionale produttività dei due magistrati che, comunque, non si erano mai astenuti nei fascicoli dove Pittelli figurava come avvocato.

Tornando, invece, alla cena ed ai rapporti confidenziali che erano emersi, Perri e Scuteri si erano giustificati dicendo che anche se usavano darsi del “tu” con Pittelli, non avevano mai avuto con lui rapporti di vera frequentazione, limitati a quella cena di marzo del 2018. Entrambi trasferiti alla sezione civile della Corte d’appello non avrebbero comunque trattato l’appello del processo Pittelli. In altri termini, nella prospettazione difensiva, non era stato compromesso lo svolgimento in maniera serena, indipendente ed imparziale, anche sul piano della percezione esterna ai fini della necessaria credibilità della funzione giudiziaria.

La presenza del colonnello, avevano poi affermato le due toghe, era stata «rassicurante» circa le vicende giudiziarie di Pittelli, anche pregresse e da essi non conosciute.Il Csm inizialmente aveva proposto l’archiviazione della pratica, salvo poi decidere di rimandarla in commissione per un supplemento di accertamenti. Accertamenti che facevano emergere altre telefonate che smentirebbero l’occasionalità dei rapporti fra i due magistrati e Pittelli. Quest’ultimo, ad esempio, si sarebbe rivolto a Scuteri chiamandolo “bello mio”, proponendo l’abbreviato ai suoi assistiti quando c’era lui come giudice. In una altra telefonata gli aveva suggerito di andare a comporre il tribunale della libertà.

Tutte circostanze che smentivano quanto affermato dai due magistrati circa l’occasionalità dell’incontro, determinando dunque un appannamento dell’immagine della magistratura con la loro presenza, anche se al settore civile, nel palazzo di giustizia di Catanzaro. Appannamento che rende inevitabile un loro trasferimento fuori distretto.

I fatti un anno e mezzo prima del suo arresto. A cena con Pittelli, due giudici trasferiti per lesa maestà a Gratteri: lo show di Di Matteo che chiama in causa il Riformista. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Novembre 2022 

Trasferiti, con 17 voti favorevoli e 6 astenuti. Non è bastato che di propria iniziativa i due giudici siano passati dal settore penale a quello civile, e neanche che abbiano proposto di traslocare a Messina, ritenuta troppo "contigua". I due giudici Giuseppe Perri e Pietro Scuteri, contagiati dal virus di Giancarlo Pittelli, sono stati cacciati dal plenum del Csm a causa di una cena. I due "imputati" non ci sono, e neanche i loro difensori. Il processo si svolge dunque in contumacia. E la scena se la prende il consigliere Nino Di Matteo, che pare indossare la toga e svolgere la sua requisitoria non solo nei confronti dei due magistrati di cui si discute la necessità di trasferimento, ma anche contro Giancarlo Pittelli e la notorietà non solo del personaggio, ma anche di chi ne difende i diritti.

Sarebbe lo "strepitus eccezionale" degli articoli del Riformista sui diritti dell’imputato a rendere appannata la reputazione di due magistrati calabresi che devono essere trasferiti, possibilmente molto lontani dalla loro regione e anche dalla contigua città di Messina. Contigua perché ci potrebbe essere qualche scambio di carte, qualche forma di collaborazione tra i giudici dei due lati dello stretto, anche se ancora non collegati dal ponte. Ma se i due magistrati sono ormai al settore civile? Non importa, la longa manus di Pittelli potrebbe allungarsi fino lì. E anche quella del Riformista, supponiamo. Si arriva così, paradossalmente, a una sorta di pena aggiuntiva per Giancarlo Pittelli: nessuno vorrà più andare a cena da lui. L’ipotesi non è azzardata, visto quel che è capitato a questi due magistrati, finiti sulla graticola del Csm solo per aver partecipato a una serata piacevole. Non su invito di una cosca mafiosa, ma a casa di un avvocato incensurato, di cui non era possibile prevedere che un anno e mezzo dopo sarebbe stato indagato e arrestato, su stimolo del procuratore Nicola Gratteri nel blitz del 19 dicembre del 2019, e che lo vede ancora in detenzione domiciliare.

Ma qui si aggiunge assurdo all’assurdo. La vicenda è sintetizzata dal relatore Alberto Maria Benedetti, laico in quota Cinque stelle, che illustra un percorso veramente singolare. Perché la notizia di quella cena del 16 marzo 2018 tra magistrati e avvocati a casa dell’onorevole Pittelli sarebbe emersa da una richiesta di archiviazione di un’inchiesta sulla massoneria. All’interno di questa "evanescenza" (come avrebbe detto il dottor Lupacchini) l’avvocato catanzarese aveva un bel trojan nel telefono, proprio come Luca Palamara, e con quello i carabinieri sono andati a caccia di reati. E hanno trovato la cena. Niente reati, a tavola, quella sera. Perché dalle intercettazioni non risulta che si sia violato qualche segreto investigativo, né i due magistrati hanno profferito verbo su inchieste di cui erano titolari in prima persona o a conoscenza da parte dei colleghi. Di che cosa sono accusati, dunque? Di non aver mostrato dissenso su affermazioni di altri. E’ sicuro, questo lo ammettono anche i suoi accusatori, che i due non sapessero che l’avvocato Pittelli era indagato, visto che sarà arrestato un anno e mezzo dopo, ma non importa. Quando sentivano la parola "Gratteri", immaginiamo, avrebbero dovuto scattare in piedi e dire "obbedisco!", e non tacere se qualcuno lo criticava.

Ma la domanda più logica la pone il consigliere indicato da Forza Italia, Alessio Lanzi: è possibile che qualche giudice vada a cena con un avvocato? E magari persino con qualche pm? E sono reati le chiacchiere in libertà che si fanno in quelle occasioni? Ma c’è sempre un "ma", perché pare che l’avvocato Pittelli qualche battutina sul procuratore Gratteri l’abbia fatta davvero, e anche su qualche gip di Catanzaro. E abbia persino definito i suoi ospiti, all’epoca ambedue gip, come magistrati "atipici". Magari perché, possiamo aggiungere, non erano sempre proni ai voleri del Grande Procuratore. L’avvocato è già intercettato prima della cena, nel momento degli inviti. Ogni sua parola registrata e poi trascritta e consegnata al Csm è interpretata nel modo funzionale a far "condannare" i due magistrati. E’ sospetto il fatto che l’ospite dica di invitare a una cena in casa invece che al ristorante perché lì si può stare più tranquilli, anche perché, dal momento che la moglie è assente, si può stare "tra soli uomini". Mamma mia, chissà che cosa potrà succedere, senza le consorti! Altra aggravante. Dire a un amico giudice "bello mio" indica qualcosa di peccaminoso, forse di contagioso.

Ricordiamo che l’avvocato Pittelli all’epoca era non solo come ora incensurato, ma ufficialmente non indagato. E stimato da tutti. Naturalmente il consigliere Di Matteo trova il modo, allusivo, di citare persino la disastrosa inchiesta di de Magistris "Poseidone", per dire che comunque il legale era stato "attenzionato" dalla magistratura. E nella replica ricorda anche l’indagine attuale di Reggio Calabria per costruire un bel "tipo d’autore" e sottoporlo al plenum del Csm. Ma non si doveva solo decidere sul trasferimento di due giudici? Quanti sono gli "imputati"? Chi ha mostrato più dignità, se ci è consentito dopo aver ascoltato la diretta dal sito di Radio Radicale, sono stati proprio i due assenti, i giudici Perri e Scuteri. Non sappiamo se siano "atipici", ma hanno dato una bella lezione a questo morente Csm.

Tiziana Maiolo.Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Quella cena a casa Pittelli, per due magistrati dì Catanzaro rimane concreto il trasferimento per incompatibilità. Il Plenum del Csm opta per il ritorno in prima commissione. Si tratta della pratica contro i magistrati Giuseppe Perri e Pietro Scuteri. Il Dubbio l'8 giugno 2022.

Il Plenum del Csm ha votato per il ritorno in prima commissione della pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale e/o funzionale dei giudici della Corte d’Appello di Catanzaro, in servizio attualmente nel settore civile, Giuseppe Perri e Pietro Scuteri, presenti in una cena svoltasi prima della conoscenza dell’indagine “Rinascita Scott” a casa dell’avvocato Giancarlo Pittelli.

Il relatore Benedetti in apertura dell’assemblea plenaria aveva annunciato la richiesta di effettuare una nuova attività istruttoria bei confronti dei due magistrati. Istanza che è stata accolta in modo favorevole da quasi tutti i consiglieri, ad eccezione di Di Matteo che aveva invocato il trasferimento immediato dei due colleghi dal Distretto giudiziario di Catanzaro.

I due giudici alla cena “per soli uomini” con il massone Pittelli, “affidabile e rassicurante”. Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa il 7 giugno 2022.  

Una «cena per soli uomini perché non voglio andare nei ristoranti con gli amici magistrati, siccome mia moglie se ne viene a Roma, la faccio a casa». La voce (e la casa) è quella di Giancarlo Pittelli: avvocato ed ex deputato, per un decennio plenipotenziario berlusconiano in Calabria. Siamo nel marzo 2018, pochi giorni dopo le elezioni. All’altro capo del telefono medici, avvocati e magistrati sia ordinari che amministrativi. Il tono è confidenziale. Alcuni declinano l’invito. Tra quelli che accettano Giuseppe Perri e Pietro Scuteri, all’epoca giudici per le indagini preliminari a Catanzaro e attualmente consiglieri della Corte d’appello. Quello che i commensali non sanno è che Pittelli è indagato (e oggi imputato) di concorso esterno in associazione mafiosa, nell’inchiesta Rinascita-Scott di cui si sta celebrando attualmente il maxiprocesso con 355 imputati. Pittelli è ritenuto dalla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri l’anello di congiunzione tra politica, ‘ndrangheta e massoneria. Grazie al virus trojan che hanno inoculato nel cellulare di Pittelli, quella sera di quattro anni fa gli investigatori ascoltano le conversazioni prima e dopo la cena. Parlano, come risulta dagli atti del Csm, «di tematiche di carattere generale, sociale e politico, ma pure di vicende di natura giudiziaria e dell’operato di diversi magistrati, per lo più del distretto di Catanzaro. Prima dell’inizio della cena Pittelli, parlando con due avvocati, si riferisce a non meglio precisate cene a Roma e dice di essersi recato nella sede delle logge massoniche romane». Poi i commensali «si lasciano andare a commenti e considerazioni personali (…) anche sull’operato di diversi magistrati operanti nel distretto di Catanzaro; invero i commenti e le valutazioni dei commensali, anche specifici e piuttosto critici, riguardano sia determinate vicende giudiziarie proprie del distretto, trascorse e attuali, sia l’operato di non pochi magistrati; si segnalano, ad esempio, commenti critici sull’attuale procuratore della Repubblica Nicola Gratteri». Viceversa, i due giudici commensali vengono simpateticamente definiti «atipici con i quali si può discutere e dei quali ci si può fidare, mentre risulta negativo il giudizio espresso da Pittelli nei riguardi della gran parte dei magistrati e della magistratura». I carabinieri annotano tutto. E il procuratore Gratteri manda a Salerno, per competenza sui magistrati calabresi, questi atti che si saldano con le rivelazioni choc di un altro giudice di Catanzaro, Marco Petrini, già presidente di sezione della Corte d’appello. Arrestato per diversi episodi di corruzione giudiziaria, Petrini racconta ai pm «dell’esistenza di un radicato sistema corruttivo in cui sarebbero stati coinvolti appartenenti alla magistratura calabrese, avvocati e professionisti (…), cementato da una comune appartenenza massonica attraverso cui orientare le decisioni giurisdizionali in modo favorevole a sé e ai propri assistiti in procedimenti penali». E mette in fila i nomi, tra i quali oltre all’onnipresente Pittelli ci sono quelli di alcuni magistrati. Guadagnatosi i domiciliari, Petrini però ritratta. In assenza di conferme da altri testimoni e senza riscontri dalle intercettazioni, la Procura di Salerno archivia l’indagine. Né trova prove che la ritrattazione sia stata coartata. Ma le carte sulla «cena per soli uomini» finiscono al Csm, per valutare se i due giudici commensali di Pittelli possano ancora lavorare a Catanzaro. Dall’istruttoria della prima commissione, risulta che «il giudice Perri ha trattato 26 procedimenti in tema di riesame e 2 in tema di misure di prevenzione patrocinati dall’avvocato Pittelli; il giudice Scuteri, a sua volta, ha trattato 38 procedimenti in tema di riesame e 4 in tema di misure di prevenzione patrocinati dall’avvocato Pittelli. Anche all’ufficio gip vi sono stati procedimenti patrocinati dall’avvocato Pittelli, o da suoi colleghi di studio: 3 trattati dal giudice Perri (uno dei quali patrocinato personalmente anche dall’avvocato Pittelli) e nove dal giudice Scuteri (uno dei quali patrocinato personalmente anche dall’avvocato Pittelli)». La commissione ha dunque ascoltato Domenico Introcaso, presidente della Corte d’appello dove lavorano i due giudici. Introcaso, non sorprendentemente, ha difeso l’operato dell’ufficio, lodandone la produttività. Ha poi raccontato che «si mormora di questa cena perché i notiziari, soprattutto quelli locali, via internet, sostanzialmente questi giornali, queste pubblicazioni o questi mezzi di informazione via internet parlano di questa cena, però nominativamente posso dire, a mia conoscenza, non c’è stato nessun riferimento di carattere individualizzante e personale, nel senso che si mormora di questa cena e si fanno pettegolezzi su questi mezzi di informazione, che son per lo più di tipo scandalistico. Si fa menzione di questa cena, però non c’è nessun riferimento personale o nominativo a questi o ad altri magistrati, per la verità», confermando poi che «Pittelli, come avvocato penalista, difendeva spesso esponenti della criminalità organizzata». In particolare «tra il 2017 e il 2019, e limitatamente ai processi patrocinati personalmente dall’avvocato Pittelli, il giudice Scuteri ne ha trattati due, in uno dei quali è stato anche relatore, mentre il giudice Perri ne ha trattati otto, in due dei quali è stato anche relatore». Dunque i giudici erano commensali di un politico-avvocato massone e difensore abituale di ‘ndranghetisti, anche in processo di cui si occupavano essi stessi, senza mai astenersi. In assenza di rilievi penali e disciplinari, è comunque opportuno che continuino a lavorare a Catanzaro, dove Pittelli è ora imputato? Convocati dal Csm, i due giudici commensali si difendono. Perri spiega «di non avere mai avuto con Pittelli alcun rapporto di frequentazione, né telefonica né personale», tanto che «la cena del 16 marzo 2018 è stata l’unica occasione in cui lo ha frequentato per ragioni non d’ufficio». Nega imbarazzo, perché «all’epoca Pittelli appariva persona affidabile e aveva rapporti di frequentazione anche con altri magistrati». Precisa che «hanno cominciato a darsi del tu più o meno intorno al 2016 fermo restando che le nostre conversazioni non hanno mai avuto ad oggetto vicende giudiziarie né tanto meno questioni personali, familiari o confidenziali». Specifica che «prima di quella cena del 2018 mi aveva invitato altre volte ma avevo declinato gli inviti, dopo quella cena non l’ho più incontrato né sentito telefonicamente». Anche il giudice Scuteri nega un’intensa frequentazione con Pittelli, che peraltro all’epoca «era una persona che non mi risultava fosse gravata da precedenti penali, la cui condizione di indagato non gli era nota e che non era nota socialmente, le cui frequentazioni risultavano piuttosto rassicuranti o comunque non tali da ingenerare sospetti e che, inoltre, non aveva mai coinvolto chi scrive, anche solo verbalmente, in situazioni opache o poco commendevoli». E derubrica la cena a «episodio isolato e unico». Eppure dagli atti emerge un tono confidenziale e la conoscenza dell’ubicazione della casa di Pittelli, circostanze che fanno supporre agli investigatori una frequentazione non episodica. Entrambi i giudici hanno negato che la vicenda abbia avuto ripercussioni nei rapporti con i colleghi e con gli avvocati. Ora tocca al plenum decidere la sorte dei due giudici, dopo che la commissione del Csm si è divisa. Due componenti (Benedetti e Braggion) hanno votato per archiviare la pratica, convinti soprattutto da due circostanze: l’assenza di prove di ulteriori rapporti tra i giudici e Pittelli e la scelta dei due giudici di trasferirsi al settore civile, scongiurando conflitti di interessi. Altri due consiglieri (Chinaglia e Celentano) si sono astenuti. A votare per il trasferimento dei due giudici per incompatibilità ambientale solo Nino Di Matteo. Come sempre, o quasi.

Giudici a cena con Pittelli. I penalisti: «No a sanzioni per Perri e Scuteri». Il Dubbio il 29 giugno 2022.  

La Camera Penale di Catanzaro "difende" i due magistrati che negli anni scorsi parteciparono a una cena a casa dell'avvocato penalista, imputato nel processo "Rinascita Scott".

«I dottori Perri e Scuteri sono sempre stati magistrati liberi da qualsivoglia forma di influenza, fedeli alla Repubblica e alla Costituzione, che hanno onorato la toga indossandola con grande equilibrio e autentico spirito di servizio. Mai, in alcun modo, essi hanno appannato, né ieri né oggi, la loro immagine di magistrati irreprensibili». A dirlo è il direttivo della Camera penale di Catanzaro, in un documento inviato al Csm. La vicenda è quella relativa ai magistrati Pietro Scuteri e Giuseppe Perri, attualmente in servizio presso la sezione civile della Corte d’Appello di Catanzaro, sui quali pende una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale e/ o funzionale per aver preso parte a una cena svoltasi prima della conoscenza dell’indagine “Rinascita Scott” a casa dell’avvocato Giancarlo Pittelli, attualmente imputato in quel procedimento. La I Commissione del Csm aveva proposto l’archiviazione del procedimento, ma il plenum ha votato per il ritorno in Commissione e per lo svolgimento di ulteriore attività istruttoria.

Nella propria proposta di archiviazione, i consiglieri della “Prima” avevano precisato «condivisibilmente», secondo la Camera penale di Catanzaro, l’assenza di circostanze «dalle quali ritenere che, all’attualità, si debba procedere al trasferimento d’ufficio» delle due toghe, «non solo perché “le condotte accertate risultano prive di rilievo penale e ( per quanto risulta) di rilievo disciplinare”», ma anche perché «il trasferimento a domanda di entrambi i magistrati interessati al settore civile della stessa Corte d’appello» costituisce «“un elemento di novità significativo perché elide del tutto, o comunque attenua in maniera significativa e decisiva, il predetto appannamento”».

Ma in plenum il laico Benedetti ha parlato di «circostanze oggettive tali da determinare una caduta nell’immagine di imparzialità e indipendenza dei magistrati», motivo per cui la pratica era tornata in Commissione. Per i penalisti catanzaresi il rapporto fiduciario con l’ambiente giudiziario e sociale sarebbe tuttora solidissimo. Perciò, «avvertono l’esigenza morale di rappresentare alla I Commissione e al Csm che i dottori Perri e Scuteri, come già ben evidenziato dal presidente della Corte di Appello di Catanzaro Domenico Introcaso, nei 20 anni di esercizio delle loro funzioni giudiziarie, in tutte le sedi, si sono sempre distinti per serietà, professionalità, competenza e spirito di sacrificio, esercitando il ministero loro affidato nel pieno rispetto dei valori di indipendenza e di imparzialità».

Sul Fatto Quotidiano spunta il “pentito” cucito per inguaiare Pittelli: un detenuto ‘comune’ che non ha mai conosciuto l’avvocato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

“L’avvocato Pittelli era ammanicato con i giudici”, disse il “pentito” Guastalegname, cui lo aveva riferito un certo Colace e poi anche un altro di nome Barba. Un bell’ambientino, questo del neo-collaboratore di giustizia, il quale non c’entra niente con la ‘ndrangheta, ma molto con affari di droga, con una condanna già scontata. Ma poi anche arrestato e condannato in appello a 30 anni di carcere per l’omicidio di un tabaccaio a Asti, città dove da Vibo Valentia si era trasferito nel 1999. Un detenuto “comune” che pensa bene all’improvviso di convocare un pm della Dda e di offrire il boccone grosso, il nome dell’avvocato Pittelli.

Il vestito viene cucito addosso in questo modo: il pm della Dda presieduta da Nicola Gratteri, Antonio De Bernardo, va al carcere di Rebibbia a incontrare l’aspirante ”pentito” Guastalegname. Il quale ovviamente non ha niente da dire su Pittelli, che non conosce, che non è (e neppure viene accusato di essere) uno spacciatore e men che meno un complice in omicidi di tabaccai in terra piemontese. Ma è uno amico dei giudici, dice il neo “pentito”. Perché glielo ha riferito un tizio, e poi anche un altro. E così, ci riferisce il Fatto Quotidiano, “Guastalegname sta riempiendo pagine di verbali, per i quali adesso la Dda sta cercando i riscontri. Al momento il neo-pentito è ritenuto attendibile dai pm e le sue dichiarazioni sono state depositate nel processo Rinascita”. Perché stiamo citando la fonte giornalistica della notizia? Perché a cucire addosso il vestitino si fa così, come ha ben spiegato Luca Palamara nel Sistema, ma come avevamo già avuto occasione di verificare fin dai tempi dell’arresto di Enzo Tortora e dei “pentiti” che erano diventati diciannove.

Senza un legame stretto tra gli uffici delle procure e le caserme con la redazione di qualche giornale o il numero di cellulare anche di un solo cronista, il vestitino del colpevole non c’è. L’abito deve essere composto di vari strati, l’accusa iniziale cui si aggiungono di volta in volta nuovi “pentiti” e nuovi spunti, di reato o anche solo di sospetto. Come questo sulle presunte amicizie tra Giancarlo Pittelli e i giudici. Il che farebbe persino ridere, se non stessimo parlando di una persona detenuta in gravi condizioni di salute. Di una persona in ceppi, tra carcere e domiciliari, da due anni e mezzo senza prove. Un vero amico dei magistrati! Uno bravo a tirar fuori di galera gli altri ma non se stesso, evidentemente. Complimenti alla Dda, se è vero che al furbetto non mafioso dà talmente credito da riversare la sue deposizione negli atti di un processo per ‘ndrangheta. Adesso si che il signor Guastalegname ha trovato la stradina, tanto da dichiarare: “Ho intenzione di collaborare con la giustizia perché dopo la condanna per l’omicidio sono stato abbandonato da tutti. Avrebbero dovuto sistemarmi il processo ma sono stato lasciato solo”. Chissà se adesso ha trovato il modo di farsi aggiustare la sua condizione carceraria.

Sicuramente da “pentito” questo personaggio ora sta molto meglio di Giancarlo Pittelli. Il quale rischia, tra un vestitino e l’altro, di finire la sua vita da detenuto. Mens sana in corpore sano, dicevano gli antichi, perché stretta è la connessione tra il tuo equilibrio psicologico e i segnali che ti manda il corpo quando stai subendo uno stress violento che ti fa a pezzettini. Mi è scoppiata dentro la bomba atomica, soleva dire Enzo Tortora quando aveva scoperto di avere un tumore. Ma sono faccende che riguardano la vita e la morte degli individui e di cui in genere non si occupano i magistrati, abituati alle carte più che alle persone. Tutte “amiche” di Giancarlo Pittelli, le toghe. A partire dall’ “amico” procuratore Gratteri e dai suoi sostituti che, all’indomani del ritorno del detenuto al proprio domicilio, avevano già chiesto un aggravamento della modalità di esecuzione della misura cautelare, cioè il ritorno in carcere.

L’”amico” tribunale del riesame ha accolto la richiesta di Gratteri, su cui deciderà, tre giugno e luglio, la cassazione. Nel frattempo gli avvocati Contestabile e Stajano hanno presentato una corposa e ben documentata istanza di scarcerazione del loro assistito per mancanza di indizi. Ma gli “amici” del tribunale di Vibo Valentia il 14 aprile scorso l’hanno respinta con due paginette, in cui neppure si teneva conto delle ormai gravi condizioni di salute del detenuto. Che in questo momento ha sicuramente meno amicizie importanti del signor Guastalegname.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La lettera alla ministra. “Il caso Pittelli è la tomba dello Stato di diritto”, lettera alla ministra Cartabia. Redazione su Il Riformista il 30 Aprile 2022. 

Alla Ministra della Giustizia Prof.ssa Marta Cartabia e, per conoscenza, al Procuratore Generale della Corte di Cassazione dott. Giovanni Salvi e al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura avv. Davide Ermini.

Siamo comuni cittadini, amici dell’Avvocato Giancarlo Pittelli che, come Lei sa, è legittimamente oggetto – da oltre due anni – di due distinte inchieste penali.

Abbiamo pubblicamente manifestato nello scorso mese di gennaio i nostri sentimenti di affetto e di stima verso questo professionista e uomo pubblico, allo scopo di rispondere al linciaggio mediatico prima che alcun processo sia concluso e alcuna sentenza sia stata emessa, secondo un costume barbaro che ormai si è tristemente radicato nel nostro Paese. Abbiamo raccolto in pochi giorni oltre 2.500 firme che testimoniano che almeno una fetta di opinione pubblica conserva la volontà di appartenere a una comunità retta dal diritto e dai valori costituzionali.

Ma i nostri sforzi purtroppo non bastano a scongiurare un altro rischio: che – dietro lo schermo della legalità – si consumi un’opera di annientamento morale e fisico di una persona, probabilmente innocente e comunque tale – ad oggi – secondo un principio aureo che occorrerebbe sempre ribadire, se non altro per evitare che di esso i cittadini italiani finiscano per perdere la memoria. Illustre Ministra, quello di presunzione di innocenza è un valore di civiltà che andrebbe instillato sin dall’educazione scolastica. Senza una meditazione costante su di esso e senza una sua continua riaffermazione, non solo l’amministrazione della giustizia ma la vita sociale stessa si corrompe. Invece, nel “caso Pittelli” una serie di episodi si connettono fra di loro attraverso un filo comune che – temiamo – sia proprio la relativizzazione, lo svuotamento, l’obliterazione di questo principio.

Il giorno successivo al clamoroso arresto di Giancarlo Pittelli (19 dicembre 2019, inchiesta Rinascita Scott), un magistrato della Repubblica, il titolare stesso delle indagini, definiva in una conferenza stampa l’accusato, un cittadino incensurato e molto noto – senza neanche ricorrere a una formula ipotetica – “anello di congiunzione fra mafia e massoneria”, drammatizzando oltre ogni misura un’inchiesta appena ai suoi esordi. Temiamo che questo comportamento originario abbia dato il “la” ad una catena eccezionale di eventi, di cui citiamo – in questo scritto necessariamente breve – solo i termini più generali. E temiamo, ipotesi ancora più inquietante, che tale drammatizzazione originaria finisca ancora oggi per condizionare i comportamenti e le scelte di tanti soggetti chiamati a intervenire nel processo.

Dal dicembre 2019 ad oggi Giancarlo Pittelli non ha più riacquistato la libertà, in un alternarsi incredibile tra arresti domiciliari e detenzione, in ben tre supercarceri. Da ultimo, la Procura ha proposto appello contro un’attenuazione della misura cautelare che era stata deliberata lo scorso 9 febbraio, quando Giancarlo Pittelli nel Supercarcere di Melfi era giunto allo stremo delle forze per un disperato sciopero della fame. Nei motivi di appello sono stati allegati (fra le altre cose) due atti di sindacato ispettivo, nonché articoli di un quotidiano (il Riformista) e alcuni post su Facebook di un parlamentare della Repubblica (On. Vittorio Sgarbi). Siamo convinti che il succedersi e la natura di questi atti abbiano ingenerato allarme e confusione in una opinione pubblica sempre più perplessa, indotta a confondere concetti fra loro ben distinti e separati quali il sacrosanto diritto di ciascuno di difendere le proprie ragioni, in ogni sede, l’esercizio – da parte di parlamentari e giornalisti – dei propri diritti/doveri e una fantomatica “volontà di influire sul processo”, mai suffragata dall’ombra di un indizio.

Di questa grave e pericolosa confusione – lesiva al tempo stesso di principi di civiltà giuridica, di libertà e di sovranità popolare – esiste, purtroppo, più di una traccia in numerosi atti giudiziari di questo processo ormai esemplare. Ma questi richiami sommari servono solo da premessa all’oggetto principale di questa lettera: la segnalazione di due recenti episodi, meritevoli – a nostro parere – di una Sua considerazione. Il primo attiene alla fissazione dell’udienza per l’appello proposto dalla Procura contro l’ordinanza di attenuazione della misura cautelare. Come denunciato dalla Camera Penale di Catanzaro, tale ricorso ha ottenuto una incredibile “corsia preferenziale”: “il decreto di fissazione dell’udienza risulta emesso eccezionalmente nei 10 (dieci) giorni dal deposito dell’appello e la relativa trattazione fissata insolitamente nei 20 (venti) giorni successivi”, laddove gli appelli cautelari presentati dai difensori risultano – in quel Distretto giudiziario – mediamente pendenti per sei mesi. Questa allarmante segnalazione – contenuta in una lettera formalmente inviata il 24 febbraio, a nome di tutti i penalisti del distretto di Catanzaro, al Presidente del Riesame, dott. Filippo Aragona e p.c. al Presidente del tribunale, dott. Rodolfo Palermo – si concludeva con una richiesta di “cortese, quanto necessario riscontro”. Riscontro che non risulta essere mai pervenuto. Per completezza di informazione, l’appello è stato prontamente accolto.

Il secondo episodio che vorremmo segnalarLe, Signora Ministra, è relativo non alla vicenda cautelare principale ma ad una istanza di scarcerazione, pertanto un procedimento incidentale, proposta dalla difesa dell’avvocato Giancarlo Pittelli dinanzi al Tribunale di Vibo in data 10 aprile 2022. Ovviamente, non entriamo nel merito – né Le chiediamo di entrare nel merito – di tale istanza e delle sue motivazioni, la quale istanza, come previsto da alcuni, è stata puntualmente e prontamente rigettata. Segnaliamo invece il nostro fortissimo disagio – non come amici ma, prima ancora, come semplici cittadini – convinti ancora di vivere in uno stato “di diritto”, nel constatare che con due secche pagine il tribunale di Vibo ha respinto, in data 14 aprile 2022, una istanza di scarcerazione – della quale una significativa parte, corredata di appositi allegati, riguardava le condizioni di salute dell’imputato – senza che una sola parola venisse dedicata dall’estensore dell’ordinanza a tale punto e cioè alla idoneità o meno della custodia cautelare ai fini dei trattamenti sanitari ritenuti necessari dai medici firmatari delle perizie.

Non sappiamo se tale omissione sia dovuta a semplice negligenza o – peggio – alla implicita convinzione che non sia meritevole di alcuna considerazione lo stato di salute di un uomo sulla soglia dei settant’anni, incensurato, privato da oltre due anni e quattro mesi della libertà e sottoposto ad una vicenda processuale giocata, sin dalle sue prime battute, in termini parossistici e di mobilitazione mediatica. Ci domandiamo con preoccupazione, se la compressione dei diritti di un cittadino sottoposto a procedimento penale e ristretto, possa arrivare fino al punto che un Tribunale della Repubblica possa non citare neanche – sia pure per respingerla – una sua richiesta di considerazione dello stato di salute, suffragata da perizie.

Ci domandiamo, con sgomento, se la obliterazione del principio di presunzione di innocenza e dello stesso habeas corpus possano arrivare a tali eccessi e se, anche nel “caso Pittelli”, i cittadini dovranno attendere una sentenza di assoluzione, come ormai troppo spesso accade, per conoscere la reale consistenza di accuse che – nel frattempo – avranno annientato psicologicamente, moralmente, fisicamente, economicamente, un uomo e definitivamente distrutto il tessuto di relazioni nel quale egli è vissuto.

Ci domandiamo e Le domandiamo se non vi sia un modo, rigoroso ma non parossistico, di condurre l’azione giudiziaria, se non ci sia un modo per evitare che la parola alta e forte della Giustizia giunga solo a corollario beffardo di un tale panorama di macerie. Le domandiamo se il “caso Pittelli” non sia meritevole della Sua attenzione, oggi e non quando ogni sforzo sarà reso inutile da un drammatico fatto compiuto.

Enrico Seta, Francesco Peltrone, Massimo Sabatino, Nicola Mazzuca, Anna Sgromo, Ercole Incalza, Giulio Marini Agostini, Marisa Lombardi Comite, Massimo Vinci, Giuditta Sgromo, Paolo Suriano

Il "processetto" all'avvocato. Caso Pittelli, per Gratteri articoli e interrogazioni inquinano le prove: il super pm e la fifa per, l’ennesima, assoluzione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2022. 

Non resta che pensare che la procura di Nicola Gratteri ritenga l’avvocato Pittelli così potente da condizionare, con qualche avvelenamento dei pozzi, le stesse decisioni dei giudici. Diversamente da questa ipotesi, per quale motivo l’avvocato Giancarlo Pittelli sia tuttora un detenuto in attesa di giudizio, dopo due anni e mezzo dall’arresto, quando finì in una retata di ‘ndrangheta, nessuno lo sa spiegare. È in detenzione domiciliare, dopo un ping-pong tra Procura della repubblica e giudici, ma i suoi inquirenti-inquisitori lo vogliono di nuovo in galera. E ieri si è tenuta la prima vera udienza di un “processetto” che dovrebbe decidere, sulla base dell’articolo 274 del codice di procedura penale, se esistano motivi formali e di fatto, cioè esigenze cautelari, per cui l’ex senatore di Forza Italia debba continuare a essere rinchiuso.

Nella sua abitazione, dove è oggi, dopo la decisione del tribunale di Vibo Valentia del 9 febbraio, oppure di nuovo sbattuto in qualche carcere speciale, come è già accaduto e come vorrebbe la Procura di Nicola Gratteri. Se ieri è stata la prima vera udienza del “processetto” è perché nella precedente del 22 marzo i procuratori si erano fatti precedere da un bel malloppo di scartoffie, sconosciute alla difesa, contenenti, secondo la loro lettura, prove inequivocabili della perseverante capacità dell’avvocato Pittelli di avvelenare i pozzi, cioè di inquinare le prove. Ormai non occorre più nemmeno la laurea in giurisprudenza, visto che anche un semplice frequentatore di talk show sa che per tenere in galera (o nella galera domiciliare) una persona prima del processo, occorre il rischio che si verifichi almeno una delle condizioni previste dalla norma. Ed essendo più che escluse, e addirittura lunari, le possibilità che Giancarlo Pittelli decida di espatriare o di ripetere il reato di “concorso esterno” (che essendo un reato fantasma non può essere reiterato), il bandolo della matassa non può essere che un sospetto di inquinamento.

In effetti la Procura di Catanzaro non ha tutti i torti. Di pozzi, questo imputato ne ha avvelenati parecchi lungo il percorso delle indagini e del processo “Rinascita Scott”, il fiore all’occhiello che renderà il dottor Gratteri più famoso di Giovanni Falcone. Quello che potrebbe aprirgli le porte, magari proprio oggi, con la decisione del Csm, della Procura nazionale Antimafia. Perché ogni tanto capita che l’opinione pubblica non riceva solo le comunicazioni delle conferenze stampa dei procuratori. Ogni tanto anche i difensori, o magari lo stesso imputato, e gli amici che credono nella sua innocenza, riescono a far sentire la propria voce, e questo dà molto fastidio. Più che fastidio, addirittura reazione forte, visto che la famosa lettera che l’avvocato Pittelli aveva mandato dalla propria detenzione domiciliare alla ministra e deputata Mara Carfagna è diventata pretesto per un ordine di custodia cautelare in carcere. Neanche fosse stata indirizzata a Matteo Messina Denaro. “Ma la cosa assurda –lo fa notare uno dei due difensori, l’avvocato Guido Contestabile– è che con quella decisione Giancarlo è stato mandato laddove di lettere ai parlamentari può mandarne quante vuole, cioè in prigione”. Ammesso e non concesso che dai domiciliari scrivere a un deputato sia illegittimo, come ha sostenuto in aula l’avvocato Salvatore Staiano.

Ma il fastidio che ha suscitato la reazione forte dei magistrati si è moltiplicato strada facendo, tanto che il famoso malloppo consegnato dalla Procura ai giudici in vista dell’udienza del 22 marzo, conteneva articoli del Riformista, interviste di Vittorio Sgarbi e addirittura interrogazioni di parlamentari. Quasi fossero prove a carico. Il concetto è semplice e paradossale insieme. Perché tutte queste manifestazioni di interesse per il “caso Pittelli” sarebbero in realtà inquinamenti di prove con la finalità di condizionare i giudici. Seguiamo i ragionamenti svolti nell’udienza di ieri dagli avvocati Contestabile e Stajano. Prima di tutto: di quali prove stiamo parlando? Quelle che i rappresentanti dell’accusa e il giudice delle indagini preliminari hanno ritenuto sufficienti per mandare a giudizio l’avvocato Pittelli sono depositate al processo “Rinascita Scott” che si sta celebrando nell’ aula bunker di Lamezia.

Quindi inquinamento di che cosa? Del processo? La verità è che questi procuratori hanno poca fiducia nei giudici, e di conseguenza sono prede di una vera fifa blu ogni volta che i tribunali assolvono, come sta capitando sempre più spesso nei processi conseguenti a retate raffazzonate che mescolano le mele con le pere, e i mafiosi con i cittadini per bene. E sempre più spesso gli avvocati, il cui status viene fatto coincidere con quello dell’assistito e addirittura con il reato di cui questi è imputato. Che cosa si sta discutendo quindi in quest’aula dove si celebra il “processetto” che dovrà decidere se le manette ai polsi dell’avvocato Pittelli debbano essere reali (galera) o solo virtuali (domicilio)? Si sta verificando se la mobilitazione degli amici in favore di Pittelli e le iniziative giornalistiche e parlamentari che lo riguardano siano in grado di condizionare i giudici. Il che è molto grave, perché vuol dire che questi pubblici ministeri ritengono i tribunali soggetti condizionabili. E forse preferirebbero che proprio non esistessero, o fossero tutt’uno con le Procure, come ai tempi dell’Inquisizione.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

«La procura di Catanzaro vuol forse intimidire i deputati della Repubblica?». Il parlamentare di Italia viva. «Gratteri nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Giancarlo Pittelli, ha alleato anche due interrogazioni parlamentari». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 marzo 2022.

«Incomprensibile, grave e ingiustificata». Così al Dubbio l’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti descrive una iniziativa di Nicola Gratteri, resa nota due giorni fa in Aula dallo stesso parlamentare: «La procura della Repubblica di Catanzaro, Direzione distrettuale Antimafia, nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Giancarlo Pittelli ha allegato tra gli atti anche due interrogazioni parlamentari». Una a prima firma Riccardo Magi (+ Europa) con la dem Bruno Bossio e lo stesso Giachetti e un’altra depositata al Senato da Emma Bonino e da Matteo Richetti di Azione. «I deputati – ha spiegato Giachetti – hanno il diritto, nella loro attività, attraverso le interrogazioni, di stigmatizzare delle cose che non vanno. Io ho presentato decine e decine di interrogazioni, anche grazie alle segnalazioni di Rita Bernardini, sul carcere, il 41 bis, e questioni anche più gravi. Nel caso specifico si tratta di cose che personalmente ho appreso dai giornali».

Caso Pittelli, la lettera alla ministra Carfagna

Ma cosa dice la famosa interpellanza del 14 febbraio? Ricorda l’arresto di Pittelli, la misura cautelare in isolamento, la negazione di un interrogatorio per mesi, lo sciopero della fame intrapreso per chiederne la scarcerazione, la continua fuga di notizie sul caso, la abnorme durata della carcerazione preventiva che a febbraio 2022 ha raggiunto i 26 mesi, la tutela di diritti dell’imputato e del detenuto, la diffusione degli atti istruttori, peraltro irrilevanti ai fini processuali e riguardanti la vita privata dell’imputato, la revoca dei domiciliari per aver inviato una lettera alla Ministra Carfagna, anomalie sulle trascrizioni delle intercettazioni contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, il fatto che «il dottor Otello Lupacchini, già procuratore generale presso la corte d’appello di Catanzaro, ha rivelato di aver ricevuto, nel gennaio 2020, una lettera da Pittelli che conteneva denunce circostanziate nei confronti di un magistrato di Catanzaro e di aver trasmesso tale documento alla procura della Repubblica di Salerno; all’esposto non ha fatto seguito né l’avvio di indagini nei confronti del magistrato accusato, né un eventuale procedimento per calunnia verso lo stesso Pittelli. Per tutto questo gli interroganti hanno chiesto alla Ministra Cartabia “se non ritenga che i fatti in premessa, qualora confermati, siano meritevoli di un accurato approfondimento tramite una ispezione presso gli uffici giudiziari di Catanzaro coinvolti”».

Al momento nessuna risposta all’atto di sindacato ispettivo ma intanto è finito tra gli allegati della Procura di Catanzaro. Quali potrebbero essere le ragioni di questa iniziativa? Ci dice Giachetti: «è una forma di intimidazione, un tentativo di gettare un’ombra su di noi e la nostra attività parlamentare, il sospetto di una regia organizzata inserendola in un contesto di criminalità organizzata?» Pittelli – ricordiamo – è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. «L’articolo 68 della Costituzione – prosegue Giachetti – difende la libertà dei parlamentari rispetto agli altri poteri. E allora perché viene messa agli atti una precipua, specifica e dovuta attività di un parlamentare, in un procedimento in cui quella roba non c’entra nulla?». Giachetti ci annuncia che presenterà un’interrogazione alla Cartabia ma inoltre «credo sia dovere del Presidente della Camera chiedere spiegazioni al CSM: e voglio proprio sapere se il Consiglio si assumerà la responsabilità di dire che una cosa del genere è accettabile».

Gli esposti contro Gratteri bocciati dal Csm

I precedenti non fanno ben sperare. Ricordiamo che per alcuni articoli critici nei confronti della Procura di Catanzaro sempre in merito a Pittelli, la corrente di Area ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela nei confronti di Gratteri e colleghi e che lo stesso Csm qualche settimana fa ha archiviato senza fornire una spiegazione l’esposto dell’Unione delle Camere Penali contro Gratteri per una sua intervista al Corriere della Sera dove alluse a pericolose collusioni dei giudici di Catanzaro visto che non avallavano le sue inchieste. Comunque conclude Giachetti: «Se qualcuno pensa che, allegando delle interrogazioni che sono figlie del mio dovere di parlamentare nei confronti di persone che sono sicuramente fragili, in custodia cautelare e che, spesso e volentieri, proprio a Catanzaro finiscono assolte, otterrà il mio silenzio, sbaglia: io ho il dovere di difendere la mia dignità, e penso che il Presidente della Camera abbia il dovere di tutelare la dignità e le prerogative dei parlamentari».

Caso Pittelli, parla Magi

Anche per l’onorevole Riccardo Magi si tratta di una iniziativa «gravissima, intimidatoria». Magi aggiunge che «come ha spiegato in Aula il presidente di turno Andrea Mandelli, dopo essersi consultato con gli uffici, non ci si ricorda di precedenti del genere. Noi in quella interrogazione abbiamo raccolto degli elementi di cronaca, pubblicati sui giornali, in particolare sul Riformista, dopo un accurato vaglio dei nostri uffici molto attenti all’indicazione delle fonti». Pertanto «è assolutamente necessario che il Presidente della Camera Fico chieda un chiarimento direttamente alla Procura per capire qual è la finalità, quale l’intento di questa iniziativa del Procuratore Gratteri. Sono in gioco le prerogative parlamentari, l’insindacabilità degli atti compiuti dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Quindi, poiché questa questione ha una rilevanza costituzionale, io invito tutti i colleghi a sottoscrivere quella interpellanza».

Il Csm che fa: finta di niente? Gratteri prende a calci la Costituzione: ma l’avvocato Pittelli è Matteo Messina Denaro? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Marzo 2022. 

Ma è davvero così importante questo avvocato Pittelli, e le sue responsabilità sono così gravi, quasi fosse, per dire, un Matteo Messina Denaro, da indurre la procura di Catanzaro a violare, in un sol colpo, ben tre articoli della Costituzione? Stiamo parlando di tre principi che sono il punto focale delle libertà dei cittadini e dello Stato di diritto. Cioè gli articoli 21, 27 e 68 della Costituzione. Ci saranno, dopo che il deputato Roberto Giachetti lo ha denunciato in aula, un intervento del Presidente della Camera e della ministra perché intervenga il Csm? O l’organo di autogoverno dei magistrati prenderà in considerazione solo la richiesta delle toghe di sinistra di Area che hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela del procuratore Gratteri e degli uomini della Dda di Catanzaro?

Breve riassunto di quel che è accaduto. Nel maxiprocesso “Rinascita Scott” che si sta celebrando a Lamezia, tra le centinaia di imputati, ce ne è uno che è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa solo perché è un avvocato che esercita la professione in una regione, la Calabria, dove, se sei un penalista, ti capita ogni giorno di assistere persone imputate di reati di mafia. Dobbiamo dirlo chiaro: ad alcuni magistrati, in particolare ai pm “antimafia”, il fatto che questo tipo di imputati abbiano bravi avvocati che difendono i loro diritti, dà molto fastidio. Il loro ideale di processo è quello in cui non si fa neanche la fatica di indagare, basta la parola dei “pentiti” a costruire le accuse e in seguito i maxiblitz. Ma ogni arrestato deve essere solo e disperato per diventare un “pentito”. Se ha al suo fianco un difensore, magari si difende, a maggior ragione se è estraneo ai fatti di cui è accusato. Ai pm “antimafia” parrà strano, ma esistono persino gli innocenti, nei processi e nelle galere.

Quindi questo signor Giancarlo Pittelli è importante per la procura di Catanzaro e la direzione antimafia perché è un pericoloso complice dei boss di ‘ndrangheta, o solo perché fa il suo dovere di avvocato in una terra difficile come la Calabria dove poco si fa per debellare le ‘ndrine nonostante i blitz e le conferenze stampa? Noi propendiamo per la prima ipotesi, perché se invece fosse vera la seconda, saremmo in presenza di un accanimento giudiziario e di violazioni dei diritti (della difesa ma anche della professione) di proporzioni tali da giustificare quanto meno gli interventi immediati della ministra Cartabia e del procuratore generale Salvi con un’azione disciplinare nei confronti del dottor Nicola Gratteri e dei suoi collaboratori. Perché questo avvocato e signor Pittelli è stato usato, negli ultimi due anni e mezzo, come una pallina di ping pong, sballottato di carcere speciale in carcere speciale, con le accuse di gravi reati di mafia che entravano e uscivano dai provvedimenti dei giudici, e senza che mai lui potesse avere pace, neanche nella detenzione domiciliare. Un vero sorvegliato speciale, privato persino del diritto alla salute e al riposo.

Perché per esempio, se lui coabita solo con la moglie, e non può parlare con nessun altro, e se voi della procura e della polizia giudiziaria sapete anche delle sue condizioni psichiche che lo costringono a sonniferi e psicofarmaci, andate a controllarlo nelle prime ore del mattino, magari quando la moglie è andata a fare la spesa e lui dorme e non sente il campanello? E poi questa relazione, considerando anche il fatto che due ore dopo, al successivo controllo l’avvocato ha aperto la porta agli agenti, viene allegata ai documenti con cui “Gratteri più tre” chiedono di nuovo la galera per l’imputato? È un’aggravante , o un reato, non sentire il campanello? O addirittura il sospetto di pericolo di fuga previsto dall’articolo 274 del codice di procedura? La costante violazione dell’articolo 27 della Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza, ma anche dell’articolo 111 sul giusto processo, nella vicenda giudiziaria dell’avvocato Pittelli è costante. Fin da quel 20 dicembre 2019 quando, dopo la retata dell’inchiesta “Rinascita Scott” del giorno prima, il legale fu presentato alla stampa come la cinghia di trasmissione tra la ‘ndrangheta, la società civile e la massoneria. Già colpevole, già condannato. Ma osiamo dire che la situazione, a partire da quel giorno, si è aggravata.

Quella conferenza stampa non è stata un colpo di testa, un’esagerazione del procuratore Gratteri. Lo dimostrano le settanta pagine che la Dda ha voluto allegare nei giorni scorsi all’udienza in cui i giudici dovranno decidere se accogliere la richiesta con cui la procura chiede di poter mettere per la terza volta le manette ai polsi dell’avvocato. Il raggio d’azione, con il deposito di quei documenti, si è decisamente allargato. E anche aggravato. Perché non si fa più solo riferimento ai diritti di un imputato o a quelli professionali di un avvocato. Con il gesto di allegare, quasi fossero corpi di reato, le due interrogazioni parlamentari –quella alla Camera dei deputati Giachetti, Bruno Bossio e Magi, e quella al Senato di Emma Bonino e Matteo Richetti– è entrato in discussione un attacco alla libertà di espressione dei parlamentari prevista dall’articolo 68 della Costituzione. E ancora non basta. L’Ordine e i sindacati dei giornalisti, che spesso si appellano all’articolo 21 della Costituzione, non hanno niente da dire sul fatto che gli articoli del Riformista vengano inseriti in atti giudiziari quasi fossero anch’essi, come le interrogazioni dei deputati e senatori, corpi di reato? “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, dice l’articolo 21. Ma che cosa significa, sul piano giuridico e giudiziario, il fatto che vengano additate come fatti sospetti le iniziative di sindacato ispettivo da parte di parlamentari e le inchieste giornalistiche di un quotidiano, oltre addirittura a commenti della pagina facebook o interviste tv di Vittorio Sgarbi? Siamo sicuri che questi messaggi siano diretti solo all’imputato Pittelli Giancarlo e non a quel mondo politico e giornalistico che nel passato chinò la testa, ma oggi potrebbe rialzarla a ribellarsi, dopo trent’anni, al governo dei pubblici ministeri?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Gratteri mette nel mirino pure i parlamentari che in Aula "tifano" per i domiciliari a Pittelli. Felice Manti il 27 Marzo 2022 su Il Giornale.

Dda contro le interrogazioni sull'ex deputato. Giachetti invoca Fico e Csm.

Quando si vive dentro un bunker è difficile distinguere le mille sfumature della politica da un attacco personale. È quello che sta succedendo al coraggioso procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, purtroppo non nuovo a certe entrate in tackle. Vedi l'attacco al Guardasigilli Marta Cartabia e alla sua riforma che, per dirla con delicatezza, «non scoraggia i criminali». Chi conosce il preparatissimo pm sa che ha un caratteraccio. Il suo collega Emilio Sirianni di Md in un'intercettazione legata all'inchiesta sull'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano lo definisce «un fascista di mer... mediocre e ignorante» ma chi ci lavora da una vita sa che non è così, anzi.

Gratteri è convinto che il processo nato dalle indagini Rinascita-Scott sia cruciale per sconfiggere la 'ndrangheta. L'imputato chiave del processo è l'ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, già sfiorato dieci anni fa dalle indagini Why not di Luigi de Magistris, finito ai domiciliari nonostante la gravità delle accuse (essere il riferimento delle cosche calabresi e il garante dell'aggiustamento di alcuni processi). In ogni caso Gratteri sa che una sconfitta processuale, financo un ridimensionamento dell'impianto accusatorio, sarebbe una tegola. Sia per la sua carriera (è in corsa per guidare la Direzione nazionale antimafia) sia per la sua credibilità, attesa «l'ombra di evanescenze lunatiche» - per dirla con le parole dell'ex Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, cacciato dalla Calabria in un amen dal Csm solo per aver leso la maestà di Gratteri - che si allungherebbe ulteriormente sulle sue indagini. Perché darebbe benzina a chi sostiene che gratta gratta certe sue indagini alla 'ndrangheta non fanno un baffo. Pittelli, si sa, è un gran chiacchierone. Una sua frase sul caso David Rossi («Se si sa chi l'ha ammazzato scoppia un casino») captata da Gratteri è al setaccio dei pm che indagano sulla morte del manager Mps. Qualche giorno fa è finito incautamente intervistato sul pianerottolo di casa da Alessio Fusco, che con Klaus Davi ha curato degli speciali di Studio Aperto. Ma un conto è volerlo legittimamente imbavagliare per evitare che possa mandare pizzini o messaggi in codice, un altro è accostare maliziosamente alle 'ndrine i parlamentari che ne difendono le garanzie costituzionali e che si sono battuti per fargli addolcire la pena preventiva. Come il renziano Roberto Giachetti, mite parlamentare con la tessera di Italia Viva a destra e il cuore radicale a sinistra, che in Parlamento ha affrontato la questione della sua detenzione dopo il caso della missiva che Pittelli ha mandato alla ex collega azzurra Mara Carfagna e che Gratteri ha preso a pretesto per giustificare ancor di più la morsa detentiva. «So che nel ricorso contro i domiciliari la Dda ha allegato interrogazioni anche mie. È una forma di intimidazione o un tentativo di gettare ombra sull'attività dei parlamentari?», si è chiesto Giachetti, che ha chiamato in causa il Csm e il presidente della Camera Roberto Fico per tutelare «la dignità e le prerogative che la Costituzione attribuisce ai parlamentari». Inimicarsi governo e Parlamento non è il modo migliore per fare la guerra alla 'ndrangheta, anzi. Quando i buoni litigano, i cattivi se la ridono.

Il discorso alla Camera. Giachetti contro Gratteri: “Intimidisce il Parlamento, Csm e Cartabia intervengano”. Redazione su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

L’onorevole Roberto Giachetti, di Italia Viva, ieri è intervenuto alla Camera per rendere pubblica una iniziativa del Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che appare evidentemente come una intimidazione nei confronti di alcuni parlamentari. Giachetti ha chiesto l’intervento della ministra e del Csm. Ecco il testo del suo intervento: “Ho appreso che la procura della Repubblica di Catanzaro, Direzione distrettuale Antimafia, nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Pittelli – vicenda della quale ci siamo occupati in molti anche in questo Parlamento, attraverso interpellanze e interrogazioni – ha depositato alcune interrogazioni parlamentari: una presentata dal sottoscritto, dall’onorevole Bruno Bossio e dall’onorevole Magi, un’altra presentata al Senato dai colleghi Bonino e Richetti.

Si tratta di interrogazioni, svolte nell’attività parlamentare, che sono figlie di quello che facciamo da una vita, in base a quanto stabilito dalla legge, che prevede che i parlamentari siano addirittura gli unici a poter fare le ispezioni in carcere per verificare le condizioni dei detenuti. I deputati hanno il diritto, nella loro attività, attraverso le interrogazioni, di stigmatizzare delle cose che non vanno. Nel caso specifico si tratta di cose che personalmente ho appreso dai giornali. Senza avere nessun rapporto diretto con l’onorevole Pittelli. L’articolo 68 della Costituzione difende la libertà dei parlamentari. Il principio dell’articolo 68 è difendere la libertà dei parlamentari rispetto agli altri poteri. La domanda è: perché viene messa agli atti una precipua, specifica e dovuta attività di un parlamentare, in un procedimento in cui quella roba non c’entra nulla?

Faccio presente che sono stati messi dentro, nel materiale depositato dalla Procura di Catanzaro, anche articoli di giornale, de Il Riformista (uno dei pochi giornali che, rispetto alla giustizia e alla magistratura ha una posizione di un certo tipo) e addirittura un video dell’onorevole Sgarbi su Facebook. Si può pensare, in quel caso – non nel nostro – che ci possano essere gli estremi per una querela. Ma che c’entra con il procedimento che riguarda gli arresti domiciliari dell’onorevole Pittelli? Nulla. E allora il dubbio viene: è una forma di intimidazione, ovvero è un tentativo di gettare un’ombra su un’attività parlamentare, inserendola in un contesto? Pittelli è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e compagnia bella.

Non è un caso personale, mio, dell’onorevole Bossio o dell’onorevole Magi, è un problema di questo Parlamento, è un problema di tutti. Allora io, per conto mio, presenterò un’interrogazione alla Ministra della Giustizia per sapere quali strumenti ha e per sapere se intenda fare qualcosa su questo tipo di attività della procura della Repubblica di Catanzaro. Ma io penso che sia, non solo interesse, ma dovere del Presidente della Camera di chiedere spiegazioni al CSM, in ragione di iniziative che palesemente, per quanto mi riguarda, più che un’ombra appaiono come un’intimidazione. Se qualcuno pensa che, allegando delle interrogazioni che sono figlie del mio dovere di parlamentare nei confronti di persone che sono sicuramente fragili, in custodia cautelare e che, spesso e volentieri, proprio a Catanzaro finiscono assolte, otterrà il mio silenzio, sbaglia: io ho il dovere di difendere la mia dignità, e penso che il Presidente della Camera abbia il dovere di tutelare la dignità e le prerogative dei parlamentari”.

Il Csm fermerà il Procuratore? Attacco eversivo di Gratteri alla Cartabia: “Gestione della giustizia devastante”. Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha lanciato accuse feroci contro il governo e la ministra Cartabia. Ha detto che governo e ministero non stanno facendo niente per contrastare la mafia, ha detto di sperare solo in nuove elezioni che promuovano un governo più vicino alla magistratura, e ha definito le misure pensate dalla ministra Cartabia “devastanti per i prossimi decenni”. Diciamo che ha superato anche Travaglio, il quale però fa il giornalista non è un rappresentate dello Stato.

La domanda ora è questa: il Csm interverrà per condannare queste dichiarazioni oggettivamente eversive del Procuratore e per controllare se le sue esternazioni sono compatibili con il ruolo che ricopre? Se invece il Csm non ha la forza o l’autonomia per bloccare il magistrato, si pone un altro problema: non sarà giunta l’ora di uniformarci agli altri paesi occidentali e mettere l’ufficio del Pm sotto il controllo del ministero?

Gratteri contro Cartabia: «Il governo non ci aiuta nella lotta alle mafie». «Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni». Il Dubbio il 21 marzo 2022.

«In Calabria c’è la ’ndrangheta, c’è la corruzione. Purtroppo il fenomeno riguarda tutto il mondo occidentale, negli ultimi 20 anni c’è stato un forte abbassamento della morale e dell’etica e la corruzione ha investito appieno il mondo occidentale, in particolare l’Italia e in particolare il Sud e i posti ad alta densità mafiosa. Ma noi purtroppo non abbiamo avuto dei governi che hanno voluto investire in sicurezza, che hanno voluto investire contro le mafie». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervenendo in collegamento con l’evento del «Calabria Day» in corso al Padiglione Italia dell’Expo 2020, a Dubai.

«Purtroppo – ha proseguito Gratteri – la storia ci insegna, già dalla fine dell’800, che il potere, la classe dirigente ha bisogno di mafie per contrastare altri centri di potere e altri poteri concorrenti. Purtroppo devo dire che questo governo non ci sta aiutando nel contrasto alle mafie, con scelte apparentemente che c’entrano poco con la mafia, ci sta aiutando pochissimo. Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni. Il problema – ha sostenuto il procuratore di Catanzaro – non è l’immediato, il problema è che nella testa della gente entra il tarlo che tutto si aggiusta, c’è una sistemazione. Non è sostanzialmente un deterrente».

«Io – ha rimarcato il procuratore della Repubblica di Catanzaro – ho bisogno di un sistema giudiziario nel rispetto della Costituzione, c’è bisogno di fare tali e tante modifiche in modo che diventi non conveniente delinquere. Quindi non un approccio morale ed etico, ma un rapporto di convenienza, dimostriamo sul piano sostanziale che non è conveniente delinquere. Temo che con questo governo, da questo punto di vista, sul piano della sicurezza e sul piano del centrato alle mafie non si andrà da nessuna parte, se non si arriverà alle prossime elezioni sperando in un governo che abbia una visione sulla sicurezza e soprattutto sulla trasformazione delle mafie, che non sparano, non uccidono ma che – ha concluso Gratteri – comprano tutto ciò che è in vendita e soprattutto comprano l’animo delle persone».

Il giudice restituisce «casa Impastato» al figlio di Badalamenti. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 4 marzo 2022.

Per un errore banale, dicono gli avvocati del Comune, per un refuso nella trascrizione delle particelle catastali, la famiglia del vecchio boss di Cinisi coinvolta nell’omicidio di Peppino Impastato torna proprietaria di un bene confiscato dall’Antimafia. Un errore di burocrati, magistrati e investigatori infine beffati da Leonardo Badalamenti, dal rampollo di «don Tano», il figlio di «Tano Seduto», come lo chiamavano dalla loro radio nel 1978 i ragazzi dei Centopassi. Come nel gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza per il casolare di Contrada Uliveto, tolto al boss e assegnato nel 2010 al Comune di Cinisi. Si chiude con la presentazione dei libri antimafia, con convegni e visite guidate sulla strada della legalità. Con soddisfazione di Badalamenti junior, rientrato quattro anni fa dal Brasile dove era ricercato per traffico internazionale di droga, adesso forte di due sentenze, di cui una definitiva. Era stato lui a minacciare il sindaco Gianni Palazzolo che, «dopo avere spesso 400 mila euro di fondi europei per la ristrutturazione», aveva assegnato l’immobile all’associazione costituita dal fratello di Peppino Impastato, Giovanni, e da sua figlia Lucia. Un movimento di aggregazione giovanile diventato «Casa Felicia», in memoria della madre coraggio di questo martire dilaniato da una bomba mafiosa.

La madre

Appunto, , proprio la donna che nell’aula bunker di Palermo puntò il dito contro il vecchio boss Tano Badalamenti, poi condannato. C’è questa storia, trasformata in un capolavoro cinematografico da Marco Tullio Giordana con un giovanissimo Luigi Lo Cascio nei panni di Peppino dietro il paradosso giudiziario annunciato da una scarna nota dell’Agenzia dei beni confiscati: «Il 26 aprile dovremo restituire l’immobile al figlio di don Tano, perché venne commesso un errore nelle procedure...». Trionfa Badalamenti junior, arrestato dalla Dia nell’agosto 2020, ma poi scarcerato. Vittorioso anche su quel fronte. La Corte di appello decise infatti di non potere accogliere la richiesta di estradizione «perché viola alcuni punti del trattato bilaterale con il Brasile». Un altro cavillo, tuonano al Comune di Cinisi dove il sindaco non considera quella del casolare una battaglia persa: «Nonostante la sentenza, Badalamenti non può tornare in possesso del bene perché quando l’Agenzia lo assegnò a noi non valeva niente e solo dopo la ristrutturazione ha acquisito un vero valore». Dall’altra parte rimproverano il sindaco di contestare le sentenze: «Dovrà cedere le chiavi». Secca la replica: «Il codice antimafia prevede che riavranno il casolare solo pagando un congruo indennizzo». Vicenda spinosa. Un contrasto che si gioca anche al tribunale di Trapani dove il figlio di «don Tano» ha denunciato il sindaco per appropriazione indebita, con procedimento seguito da una controdenuncia del primo cittadino per calunnia

Per un errore di trascrizione il casolare di Peppino Impastato torna al figlio di don Tano. Roberto Chifari il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il prossimo 26 aprile il comune di Cinisi, nel Palermitano, dovrà restituire al figlio di don Tano Badalamenti il casolare confiscato al boss. Tutto per un errore nel decreto dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati.

Il casolare dove è stato ucciso Peppino Impastato è al centro di una vicenda surreale. Per un errore nel decreto di confisca commesso tanti anni fa, l'Agenzia nazionale per i beni confiscati, deve restituire Casa Felicia al figlio del capomafia di Cinisi, don Tano Badalamenti, condannato per essere il mandante dell'omicidio di Peppino Impastato. Il prossimo 26 aprile il bene dovrà essere restituito dal Comune all'erede. Ci sono due sentenze, di cui una definitiva, che stabiliscono che il casolare di contrada Uliveto, tolto al boss e assegnato nel 2010 al Comune di Cinisi, debba ritornare al legittimo erede. L'episodio è surreale perché il casolare, dopo un restauro costato 400 mila euro, era stato legittimamente affidato dal comune di Cinisi all’Associazione “Casa Felicia”. A sua volta il Comune lo aveva ottenuto dalla Regione Sicilia che nel dicembre 2020 aveva dichiarato che il casolare, che prende il nome della coraggiosa mamma di Peppino Impastato, era ufficialmente rientrato nel patrimonio della Regione dopo una procedura di esproprio lunga e complicata. Alla fine il comune di Cinisi e la Città metropolitana di Palermo avevano deciso di destinarlo ad attività sociali e di recupero della memoria. Un modo per tenere viva la speranza e il ricordo di Peppino Impastato e di tutte le vittime di mafia.

"Sconcerto e incredulità"

La Cgil esprime incredulità e sconcerto per il fatto che, per un errore nel decreto di confisca commesso tanti anni fa, l'Agenzia nazionale per i beni confiscati debba restituire Casa Felicia al figlio del capomafia di Cinisi condannato per essere il mandante dell'omicidio di Peppino Impastato. “È incredibile che, per un errore nelle procedure, il prossimo 26 aprile si dovrà restituire al figlio di don Tano il casolare confiscato al boss Badalamenti”, dicono il segretario generale Cgil Palermo Mario Ridulfo e il responsabile del dipartimento legalità della Cgil Palermo Dino Paternostro, che esprimono solidarietà e sostegno alla famiglia Impastato affinché venga individuata una soluzione diversa.

"Spesi soldi pubblici"

In una nota l'Associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato rivendica il bene che negli è stato oggetto di una importante riqualifica. "Se c'è stato un 'errore' vogliamo capire chi ne ha la responsabilità, anche perché - aggiunge la nota - questo ha determinato la spesa di molti soldi pubblici. Leonardo Badalamenti nell'agosto del 2020, con la scusa di rivendicare un suo diritto, aveva rotto le serrature di questo immobile - spiegano le associazioni - per appropriarsene con la forza". Negli ultimi due anni il Comune ha dato a Casa Memoria Impastato la gestione del bene, che da allora è stato visitato da centinaia di giovani. Poi l'improvvisa notizia arrivata al Comune di Cinisi con sole 24 ore di anticipo: l'Agenzia nazionale dei beni sequestrati alla criminalità organizzata aveva notificato la revoca della confisca e le operazioni di immissione in possesso erano fissate per il 25 febbraio, appuntamento rinviato al 29 aprile". Il Comune, con una delibera, ha dichiarato la volontà di mantenere la proprietà e il possesso del bene e di avvalersi della facoltà della restituzione per equivalente. "Per quanto ci riguarda, dichiariamo l'intenzione di porre in atto la nostra resistenza - concludono le associazioni - affinché questo bene non ritorni a Leonardo Badalamenti".

L'ombra di Badalamenti si aggira ancora su Cinisi. Salvo Vitale l'11 Marzo 2022 su antimafiaduemila.com.

Gli ultimi anni di don Tano

L’ultima volta don Tano fu visto da chi scrive in un bar-ristorante di Cinisi, vicino alla stazione, nei paraggi delle sue proprietà oggi confiscate, e del casolare, del quale è stata disposta la restituzione all’erede Vito. Era il luglio 1978, due mesi dopo l’uccisione di Peppino Impastato e tutti lo davano per “scappato” o nascosto, a seguito della sanguinosa guerra di mafia scoppiata con i corleonesi di Totò Riina per il controllo di Cosa Nostra. Secondo Buscetta, egli sarebbe stato posato dal suo ruolo di capo della Commissione e sostituito con Michele Greco prima e da Totò Riina dopo qualche anno. In realtà è stato accertato, come sostenuto anche da Falcone, che Badalamenti fu posato alla fine del ’78 e che quindi, al momento dell’omicidio di Peppino Impastato egli era a Cinisi nel pieno delle sue “funzioni”. Dopodiché del boss si perdono le tracce, sino al momento del suo arresto, l’8 aprile 1984, a Madrid, assieme al fido figlio Vito. Estradizione negli USA, condanna a 45 anni di carcere per traffico di droga, sino alla morte, in Massachusset, ad Ayer, nel centro medico federale di Devens, dove era stato trasferito dal carcere di Fairton.

L’ombra del boss

Sia durante gli anni passati in prigione che dopo la sua morte l’ombra di don Tano ha continuato ad aggirarsi su Cinisi, non tanto per la sua numerosa parentela, ormai inoffensiva o emigrata altrove, ma per i suoi interessi e la sua eredità, non solo di capo, ma anche di beni materiali. Qualche anno prima si era diffusa la voce che Badalamenti, ammalato di cancro, avrebbe potuto essere instradato in Italia e la madre di Peppino Felicia visse per qualche periodo con questa paura, scomparsa solo con la morte del boss, nell’aprile 2004, otto mesi prima che lei stessa venisse meno, il 7.12.2004. L’ombra del boss si è intravista in diversi altri momenti, attraverso i cortei annuali per Peppino, attraverso scritte murali del tipo “Viva la mafia”, “viva Badalamenti”, ma anche “Badalamenti boia”, attraverso l’altro boss che ne prese il posto, Procopio Di Maggio, in una scia di altri omicidi e altre sotterranee bravate, come quelle di una targa segnaletica appesa sulla via Peppino Impastato, con la scritta “Via Gaetano Badalamenti vescovo”, o come quella dei due cani uccisi a Giovanni Impastato davanti al suo negozio, per non parlare delle macchie di vernice rossa spruzzate sul muro dello stesso negozio nel novembre 2003. 

Il fratello partigiano

Altro rigurgito di memoria scoppiò nel maggio 2015, allorché il neosindaco di Cinisi, Giangiacomo Palazzolo, a seguito di un mio articolo in cui denunciavo l’anomalia di una via intestata a Salvatore Badalamenti, fratello di Tano, spacciato per partigiano, dal balcone di Casa Impastato annunciò la sua volontà di rimuovere l’intestazione. Apriti cielo!!!!! In contemporanea con molti degli abitanti di Cinisi, orfani di don Tano, insorse, su pressione di qualche elemento locale anche l’ANPI, si trovò che Salvatore Badalamenti era un partigiano ucciso dai fascisti il 23 aprile 1945 a S. Albano Stura-Ceriolo, (CN) in uno scontro a fuoco e che esisteva addirittura un cippo con il nome dei cinque caduti. E così la via è rimasta, malgrado l’appello dello scrivente a valutare “l’opportunità” di questa scelta.

Divieto di pasto

A partire dal 2001 la casa sul corso di Cinisi appartenuta a don Tano divenne sede saltuaria del Forum Sociale Antimafia, che la usava per le riunioni preparatorie e per l’organizzazione delle giornate di maggio per l’anniversario della morte di Peppino. Il Comune non aveva problemi a concedere la chiave e per la luce elettrica ci si arrangiava grazie a un vicino che concedeva di allacciarsi, il tutto con grande scandalo dei soliti benpensanti che scambiavano le riunioni operative per bivacchi. Il sindaco arrivò addirittura a scrivere un’ordinanza in cui si proibiva di mangiare in quella casa, sino allo scoppio di un altro scandalo nel 2013, perché, dopo l’organizzazione di un presepe vivente sulle terre e nel casolare abbandonato e confiscato, un gruppo di giovani organizzatori dell’evento aveva osato fare una mangiata di montone arrosto in quel posto. Si è arrivato praticamente a formalizzare una sacralità delle terre confiscate a don Tano, dove era proibito anche mangiare un panino o bere una birra. Sorvoliamo sulle successive vicende di Casa Badalamenti, prima promessa all’Associazione Peppino Impastato, poi, dopo una serie di contrasti, divisa con Casa Memoria al pianterreno e diventata, al primo piano, sede della biblioteca comunale dopo un lungo restauro.

Da una confisca all’altra

Il casolare oggi conteso, che non è quello in cui è stato ucciso Impastato, ancora abbandonato al degrado dopo decenni di promesse di acquisizione e sistemazione. In principio era un rudere, più o meno come quello della canzone di Sergio Endrigo, “Era una casa tanto carina, - senza soffitto, senza cucina, - non si poteva entrarci dentro - perché non c’era il pavimento, - non si poteva andare a letto, - in quella casa non c’era il tetto”. Il rudere si trova all’interno di un vasto appezzamento di terreno in contrada “Napoli”, sopra la stazione ferroviaria di Cinisi-Terrasini. Il 20 novembre 2007, praticamente allo scadere dei cinque anni dalla morte, previsti dalla legge, lo Stato, o, se si preferisce, la magistratura, decideva, con molto ritardo, di mettere sotto confisca i restanti beni di Gaetano Badalamenti, in gran parte terreni agricoli, compreso anche il rudere “tanto carino” cui abbiamo fatto cenno. La casa di Cinisi era invece già stata messa sotto sequestro dai Giudici Falcone, Borsellino, Guarnotta, Di Lello, a partire dal 4.4.1985, sino alla definitiva confisca del 4.11.2009, (24 anni). Alla confisca aveva fatto ricorso Teresa Vitale, moglie di don Tano, nell’aprile del 2009, ma il ricorso era stato ritenuto inammissibile da una serie di sentenze, da quella del 10 aprile 2014, all’ultima del 24 maggio 2019. E tuttavia gli avvocati difensori scoprirono che nel decreto di confisca non si era tenuto in adeguato conto un particolare, ovvero di una “casa”, quella “tanto carina”, “donata” da Fara Maniaci Badalamenti, sorella di Gaetano, al fratello. Non si trattava pertanto di un bene acquistato con denaro di dubbia provenienza, ma di un lascito. Nel maggio 2018 il figlio di Badalamenti, Vito, presentava un’istanza di annullamento non del decreto di confisca di tutti i beni del padre, ma solo della particella in questione censita al foglio di mappa 12, come particella 134 e la Corte accoglieva il suo ricorso, decretandone, anche in appello, la restituzione.

Il restauro e la restituzione

Nel frattempo, dopo la confisca, il Comune di Cinisi, al quale era stato affidato il patrimonio, otteneva un finanziamento di 370 mila euro dal GAL di Castellammare del Golfo e avviava una ristrutturazione della vecchia costruzione, rendendola una casa abitabile, che il 28 gennaio 2021 è stata data in gestione a Casa Memoria Impastato, con l’obiettivo di realizzarne un centro culturale per iniziative antimafia. Quindi, al momento della sentenza, Leonardo Badalamenti si è ritrovato proprietario di un bel caseggiato, dove all’origine c’era solo una stalla. La sentenza ha provocato una levata di scudi e una serie di proteste sia da parte del sindaco di Cinisi che dagli esponenti di Casa Memoria. Da entrambe le parti si sostiene che la restituzione è una sconfitta per tutta l’antimafia e che si rischia di assistere all’utilizzo di un pubblico finanziamento per il restauro di un rudere appartenuto a un noto mafioso ed ereditato dal figlio. Lo Stato che finanzia la mafia, ha detto qualcuno. “Non si può restituire il casolare alla mafia”, ha detto Giovanni Impastato, facendo irritare L. Badalamenti, che si è sentito calunniato, poiché egli sostiene di essere incensurato. Non è chiaro se per lui essere incensurato vuol dire non essere mafioso. Qualcuno ha visto una delle tante discrasie delle norme sui sequestri e le confische, essendo nei poteri di un magistrato procedere a un sequestro e/o a una conseguente confisca di prevenzione, anche in assenza di prove: a maggior ragione si potevano e si potrebbero ritrovare elementi per una nuova confisca, spulciando nella presunta carriera criminale di Leonardo Badalamenti. 

Una storia infinita

Ripercorriamo i momenti della vicenda: l’affidamento del bene al Comune di Cinisi risale, per quel che se ne sa, al 2010. Dopo i ricorsi di Leonardo Badalamenti, è del 2 luglio 2020 la sentenza della Corte d’Appello che dispone la restituzione. Qualche giorno dopo, il 5 agosto, Leonardo B. tenta di prendere possesso, senza che sia stata ancora avviata la procedura di consegna, rompendo il lucchetto. Il Sindaco di Cinisi denuncia l’effrazione, Badalamenti è arrestato, viene fuori che egli aveva una pendenza con la magistratura brasiliana con una condanna a 5 anni per traffico di droga e con una richiesta di estradizione. L. Badalamenti rimane in carcere per 9 mesi, e la richiesta di estradizione viene respinta dai giudici italiani per i motivi procedurali. Nel frattempo il 28 gennaio 2021 il sindaco di Cinisi decide di affidare il bene a Casa Memoria Impastato, che ne prende possesso battezzando il locale “Casa Felicia”. In sede civile L. Badalamenti ottiene un’altra sentenza di restituzione e il 25 febbraio scorso si presenta ai cancelli dell’immobile con l’avvocato difensore per prendere possesso: alla fine si decide di rinviare il tutto al 29 aprile per l’individuazione, d’intesa con l’ufficio tecnico, dei confini esatti tra il fabbricato e la restante area confiscata, di effettuarne la recinsione e sgomberare l’immobile per renderne possibile la riconsegna.

Nel frattempo il sindaco di Cinisi continua la sua battaglia tentando di giocarsi la carta di una normativa che dispone per i Comuni l’acquisizione del bene, con il pagamento riportato al valore originario e all’indennizzo per la sua detenzione, a partire dal momento dell’affidamento. Come ultima soluzione si riserva, o dopo l’eventuale avvenuta restituzione da parte di Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, che ne è affidataria, di avviare una vertenza per la restituzione del valore del finanziamento con il quale è stato possibile ristrutturare il caseggiato. 

La particella 134 e il suo contesto

Che cosa ha motivato questa vicenda, dalla quale non ne escono di sicuro a testa alta l’Agenzia dei beni confiscati e sequestrati (ANSB) alla criminalità mafiosa, la magistratura e i suoi tecnici e lo stesso Comune di Cinisi? Il ricorso di Leonardo Badalamenti è basato sul fatto che la particella134 in oggetto non era compresa nell’originario provvedimento di confisca, acquisito al patrimonio dello Stato per effetto del provvedimento di rettifica della primigenia ordinanza del 10 aprile 2014, con il quale L. Badalamenti aveva chiesto in proprio la restituzione con istanza del 4 ottobre 2019. A suo avviso il provvedimento di rettifica avrebbe giustamente corretto i dati catastali di una delle cinque particelle costitutive del fondo rustico (pascolo), sito in Cinisi alla contrada Uliveto, intestato a Vitale Teresa, essendo stata detta particella erroneamente indicata come la numero 174 anziché la numero 474 ma aveva anche del tutto arbitrariamente fatto ricadere nel provvedimento di correzione il fabbricato rurale (in catasto censito allo stesso foglio 12, particella 134), intestato a Gaetano Badalamenti ed allo stesso pervenuto per donazione da parte della sorella Fara, (ex sorore) il 9 dicembre 1977. Per risolvere la complessa questione, la Corte d’Assise, con un procedimento di rettifica, aveva ordinato la correzione dell’originaria confisca, oltre che nella parte in cui lo stesso aveva erroneamente ricompreso la p.lla 174 (invece della p.lla 474) anche nella parte in cui, “per errore”, nel sequestro e nella successiva confisca, non sarebbe stato ricompreso il fabbricato rurale censito alla p.lla 134, che con il provvedimento di rettifica si assumeva essere annesso al fondo costituito da quattro particelle catastali. Invero, in quel procedimento dalla perizia tecnica si rilevava l’errore materiale fatto dai giudici che avevano messo in atto il sequestro e la confisca indicando, tra le particelle costitutive del fondo agricolo la numero 174, invece della numero 474; nulla però era stato osservato con riguardo al fabbricato rustico di cui alla particella 134. In sintesi, l’ordinanza del 10 aprile 2014 avrebbe - di fatto - operato una nuova confisca, ampliando l’oggetto di quella di cui al provvedimento iniziale del 26 novembre 2007 e ricomprendendovi l’immobile oggetto della donazione ovvero un “fabbricato rurale adibito a stalla con soprastante solaio e spiazzo di pertinenza” confinante da due lati con Vitale Teresa e con tale Randazzo, catastalmente indicato con la p.lla 134. Pertanto questo cespite, non facendo parte del complesso delle altre particelle, andava considerato diversamente e non poteva essere compreso nei beni confiscati. A complicare ulteriormente le cose si aggiunga che la particella 134 sulla quale insiste invece il fabbricato rurale di cui all’ordinanza di rettifica del 10 aprile 2014 non figura affatto; semmai, il fabbricato “non censito”, del quale vi era cenno nella perizia eseguita era piuttosto quello di cui alla particella 482. La Corte d’Assise presieduta da Sergio Gulotta, ha pertanto deciso che il cespite va restituito agli aventi diritto, “a meno che lo stesso non formi oggetto di altri provvedimenti di sequestro emessi da altra autorità giudiziaria in altri e diversi procedimenti”. Questi “altri provvedimenti” non ci sono, ma avrebbero potuto, in itinere, esser fatti. 

L’intervista

Merita attenzione un’intervista concessa a Palermo Today il 7 marzo da L. Badalamenti: a proposito della stalla egli dice che “non era un rudere, tanto che era persino abitato. Certo, in nostra assenza e senza interventi di ristrutturazione era malandato. Ma non tanto da impedire, per esempio, al comune di Cinisi, di organizzare al suo interno una manifestazione nel Natale 2012. Cioè ben due anni prima che la confisca fosse sancita dal tribunale e quindi all’insaputa di noi proprietari, ovvero un presepe vivente”. La dichiarazione trasuda di inesattezze, se non vogliamo chiamarle falsità, in quanto, sin dalle prime confische, l’immobile è definito “un fabbricato rurale adibito a stalla con soprastante solaio e spiazzo di pertinenza”. La manifestazione del 2012, cui fa riferimento Leonardo B. era stata organizzata poiché il Comune, avvalendosi della sentenza di confisca, aveva preso possesso dell’immobile, che, a quella data era già ridotto male e che venne sistemato alla meno peggio. Che una stalla potesse poi essere abitata non è credibile, come non lo è l’affermazione che la manifestazione fosse stata fatta all’insaputa dei proprietari, che, sulla carta, non erano più tali: l’iniziativa era a conoscenza di tutto il paese già da qualche mese ed ebbe un notevole successo.

Sul casolare, che oggi non è più tale, L.B. è molto chiaro: si dice non disposto a lasciare il bene al Comune o a Casa Memoria, come pegno di legalità, sia perché i giudici gli hanno restituito ciò che gli spetta, sia perché il Comune non si è comportato correttamente, occupando il casolare prima della sua confisca, ristrutturandolo senza esserne proprietario e dandolo in gestione a Casa Memoria sei mesi dopo la sentenza di restituzione: si stupisce che pertanto Giovanni Impastato abbia accettato un affidamento di qualcosa che si sapeva avrebbe dovuto essere restituita. Sulle accuse di coloro che gli contestano di non avere mai preso le distanze con suo padre, anche qua la sua posizione è chiara: rispetto per le sentenze della magistratura, che lo ha sempre assolto, diversamente da quanto fa il mondo dell’antimafia, che gli si è scagliato contro, come se ne fosse colpevole di avere agito in difesa dei suoi diritti e di averli riconosciuti. Sul padre non esprime giudizi e riconosce di non potere essere imparziale. Anche sulla condanna per l’omicidio di Peppino Impastato sostiene di non avere gli elementi per potere valutare e ritiene inaccettabile la richiesta di parte dell’opinione pubblica di rinnegare il padre: “Ognuno deve essere giudicato per ciò che è e che fa, i figli non possono pagare per le colpe dei padri, è una visione arcaica. Inoltre ritengo che mio padre, se ha sbagliato, ha pagato abbondantemente, visto che ha trascorso 20 anni in carcere, dove è pure morto”.

Carriera di un incensurato

Leonardo B. sostiene: "Sono incensurato, nonostante diversi processi subiti in 40 anni sono stato sempre assolto. Io rispondo delle mie azioni, non posso pagare per le eventuali colpe di mio padre”. In realtà nei suoi confronti esiste un mandato internazionale di cattura emesso a San Paulo (Barra Funda) in Brasile per associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti e falsità ideologica. L.B. sostiene che vive in Sicilia dal 2017 e che, per due anni, è stato sottoposto a misura di prevenzione e le forze dell’ordine hanno quotidianamente controllato se era in casa. Facile pensare che Badalamenti sia tornato in Italia, dov’è incensurato, nel momento in cui è scattata la condanna in Brasile. Durante il suo soggiorno brasiliano Leonardo B. si presentava come un uomo d’affari di nome Carlos Massetti. In Italia è finito agli arresti, per opera dei carabinieri del Ros, nel maggio 2009, nel contesto di un’operazione definita Mixer-Centopassi, con altre 19 persone, ed è stato scarcerato dopo un mese. Pare che, secondo la Dia, tra il 2003 e il 2004 fosse a capo di un’organizzazione internazionale, impegnato a negoziare titoli di debito pubblico provenienti dal Venezuela grazie all’opera di un impiegato corrotto a garanzia dell’apertura di linee di credito in banche estere, con tentativi di truffa nei confronti di filiali della Hong Kong Shanghai Bank, della Lehman Brothers e della banca inglese Hsbc, per centinaia di migliaia di dollari americani. Di fatto Leonardo B. oggi è libero da qualsiasi misura cautelare.

Parla il presidente dei penalisti. Libertà e diritti della difesa, avvocati del sud penalizzati: “Il giudice ha perso di vista il suo compito”. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

La libertà e i diritti della difesa, il ruolo del giudice, l’esigenza di riforme, il divario tra Nord e Sud. «Partiamo da un dato. L’avvocato penalista del Sud deve confrontarsi con una realtà ambientale e processuale a dir poco complessa. La scelta di celebrare l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti a Catanzaro è stata quanto mai azzeccata. È stata una scelta evidentemente dettata dalle gravi difficoltà in cui svolgono la propria funzione gli avvocati calabresi, costretti ad operare in un clima di ingiusto ed irragionevole sospetto».

Il Sud paga lo scotto di una realtà resa difficile dalle troppe disfunzioni, da problemi irrisolti, da degrado e criminalità dilaganti. Come tutto questo pesa sulla quotidianità giudiziaria?

«Come sappiamo, strumento centrale nell’attività di contrasto alle mafie è, indubbiamente, l’aggravante prevista dall’art. 416-bis, comma 1, del codice penale, talvolta utilizzata con eccessiva disinvoltura. La giurisprudenza ha, infatti, inteso dilatare la portata operativa dell’aggravante, con il risultato di ampliare il sistema repressivo del cosiddetto “doppio binario” anche a comportamenti di mera connivenza o solidarietà alla criminalità organizzata. Si è arrivati, quindi, ad un vero e proprio automatismo nell’applicazione dell’aggravante, soprattutto nel Meridione, dove notoriamente esiste la maggiore concentrazione delle attività criminali di tipo mafioso».

Il rapporto tra difensore e assistito, soprattutto in caso di indagati o imputati accusati di reati di criminalità organizzata, è uno degli aspetti più delicati del nostro sistema giudiziario. È un rapporto che poggia sulla base della libertà e dei diritti della difesa, ma sul quale molto spesso la magistratura entra a gamba tesa in nome di sospetti o esigenze investigative.

«Si registrano, soprattutto nel Sud Italia, molteplici violazioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale, laddove vengono trascritte, in violazione dei precisi parametri normativi, conversazioni tra avvocato ed assistito. Le conversazioni del difensore devono rimanere inviolabili, perché espressione irrinunciabile del diritto di difesa. Gli investigatori devono abbandonare la cultura del sospetto ed interrompere immediatamente l’ascolto delle conversazioni tra l’avvocato e il proprio assistito».

La cultura del sospetto può portare a coltivare diffidenza nei confronti dell’avvocato che assume la difesa di un boss, di un latitante, di un soggetto ritenuto pericoloso, e quindi a immaginare anche eventuali presunte connivenze?

«Non ritengo sussista un problema, salvo rarissimi casi, di connivenza tra l’avvocato e il proprio assistito. Del resto, voglio ricordare che tanti, troppi avvocati penalisti meridionali sono stati barbaramente uccisi dalla criminalità organizzata solo per aver svolto con professionalità il proprio mandato difensivo. Solo pochi anni fa, non lontano dalla splendida cornice del Teatro Politeama di Catanzaro, è stato tragicamente ucciso, a soli 43 anni, il noto penalista catanzarese Francesco Pagliuso, vittima innocente della criminalità organizzata».

Da qui la scelta di aprire l’anno giudiziario dei penalisti in una città del Sud tra quelle più provate da carenze e criticità?

«L’Unione delle Camere cenali Italiane ha deciso, correttamente, di riunire tutti i penalisti italiani nel capoluogo di provincia calabrese per esprimere vicinanza e solidarietà agli avvocati che operano in quelle difficili zone. Diciamolo con chiarezza, al di là delle colte e convincenti conclusioni del presidente Gian Domenico Caiazza, sarebbe stato opportuno denunciare con maggiore fermezza l’attacco alla funzione difensiva che, talvolta, si registra in alcune zone nel nostro Paese».

Da tempo gli avvocati penalisti denunciano, e con sempre maggiore frequenza, il ruolo eccessivamente marginale che viene riservato al difensore all’interno del processo, come se vi fosse uno sbilanciamento fra le parti processuali a vantaggio degli organi inquirenti e a svantaggio della difesa. Come se avesse perso spessore la figura del giudice.

«Il caso Pittelli, ad esempio, è un caso che presenta molteplici elementi di eccezionalità. Un duplice arresto per i medesimi fatti e, soprattutto, un aggravamento della misura cautelare a seguito dell’inoltro di una lettera all’onorevole Mara Carfagna, segno tangibile della disperazione di un uomo che si è sempre dichiarato innocente. E stupisce profondamente che un giudice non abbia compreso quanto era di solare evidenza e cioè che quella missiva, forse improvvida e frutto di disperazione, non costituiva certamente un tentativo di inquinamento delle prove».

Come mai, secondo lei?

«Se ciò è accaduto è perché evidentemente la figura del giudicante ha smesso di esercitare un controllo effettivo sull’attività dei pubblici ministeri».

Che giudice è quello di adesso?

«Il giudice, negli ultimi tempi, si è smarrito e ha perso di vista quello che è il suo unico compito: non già quello di contrastare fenomeni criminali, che spetta esclusivamente alle forze dell’ordine espressione del potere esecutivo, bensì quello di fornire il servizio giustizia nel rispetto dei diritti e delle garanzie dei singoli. L’unico rimedio, dunque, per garantire l’autonomia e l’indipendenza del giudice è la separazione delle carriere».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Patrizia Maciocchi per ilsole24ore.com il 22 gennaio 2022.

Un “baciamo le mani” ideale imposto a tutti i partecipanti alla processione in onore di San Giovanni Apostolo, lo stop imposto, per ben due volte davanti all’abitazione di Antonina Maria Bagarella, moglie del capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina. Un segnale di ossequio per il quale il capo vara è stato condannato, per il reato di turbamento di una funzione religiosa. A punire chi interrompe il regolare svolgimento del rito è l’articolo 405 del Codice penale, introdotto dopo i Patti lateranensi solo riguardo alla religione cattolica, poi esteso a qualunque culto con la legge 85/2006.

Una tutela unica per eliminare disparità di trattamento tra le diverse confessioni, assicurata dopo che la Corte Costituzionale aveva affermato l’incompatibilità, con il principio di uguaglianza, della sanzione riferita solo alla religione cattolica. Così, in passato, per lo stesso reato è stato condannato chi durante la messa ha calpestato l’ostia, o chi ha alzato la voce tanto da coprire le preghiere dei fedeli.

L’offesa ai sentimenti religiosi

Ora è toccato al capo vara della processione di San Giovanni Evangelista. Un corteo fermato dal confratello, con il suono della campanella, davanti casa della famiglia Riina a Corleone. L’omaggio è costato all’imputato sei mesi di reclusione, a fronte dei due anni chiesti inizialmente dal Pm. Inutile per la difesa sottolineare che, in quei momenti la moglie del boss Ninetta Bagarella non era fisicamente presente, ma c’erano alle finestre solo le sue sorelle.

Quello che conta per i giudici è che le due soste sono state fatte, senza alcuna giustificazione, proprio davanti alla casa dei congiunti stretti del capo dei capi di Cosa nostra - all’epoca in carcere sottoposto al 41-bis - e ordinate dal ricorrente, anche lui imparentato con il boss di Corleone. La Cassazione sottolinea la materialità del gesto, interpretato correttamente dalla Corte d’Appello, come ossequio ad un capo storico della criminalità mafiosa. Una strumentalizzazione della processione religiosa «per fini del tutto contrari ai sentimenti di coloro che vi partecipavano e comunque a valori - si legge nella sentenza - universalmente espressi e riconosciuti dalla religione cattolica, sovvertendoli completamente».

L’abbandono del corteo da parte delle Forze dell’ordine

Non conta neppure il fatto, anche questo evidenziato dalla difesa, che non ci sia stato materialmente un “inchino”: per la Cassazione si tratta di una semplice variabile. I rappresentanti della Polizia e dei Carabinieri avevano lasciato il corteo, come evidente segno di dissociazione. Mentre la difesa del ricorrente chiedeva di dare un peso alla dichiarazione del parroco, il quale aveva affermato che la funzione non aveva subìto alcun impedimento né turbativa. 

Da corriere.it il 2 febbraio 2022.

La Direzione Investigativa Antimafia ha dato esecuzione a un decreto di sequestro emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Bologna, su proposta del Direttore della DIA, nei confronti di un indiziato di appartenere alla ‘ndrangheta operante in Emilia-Romagna: si tratta di Giuseppe Iaquinta, imprenditore edile originario di Cutro e padre dell’ex calciatore della Juventus Vincenzo, campione del mondo nel 2006.

Operazione «Aemilia»

Iaquinta, raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere nel gennaio 2015 nell’ambito dell’operazione denominata “Aemilia”, è stato condannato nel 2018 dal Tribunale di Reggio Emilia a 19 anni di reclusione, pena successivamente rideterminata, in sede di appello, a 13 anni per i reati di associazione mafiosa e detenzione illegale di armi e munizioni.

Anche il figlio ex giocatore è stato coinvolto nello stesso processo, sempre per reati di armi: per lui la condanna, confermata in appello, è stata a due anni con la sospensione condizionale. 

Il ruolo

Il suo ruolo, come accertato nel corso delle indagini svolte sotto la direzione della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, corroborate dalle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia, era quello di “volto pubblico” della associazione mafiosa, in grado, quale imprenditore di successo, di fungere da chiave di accesso per i sodali negli ambienti della imprenditoria e delle Istituzioni.

Gli accertamenti effettuati dalla D.I.A. hanno consentito di acclarare, come riconosciuto dal Tribunale di Bologna, una netta sproporzione tra i redditi dichiarati e il patrimonio accumulato.

I sequestri

Il provvedimento di sequestro ha interessato due società operanti del settore dell’edilizia, 71 immobili ubicati nelle province di Reggio Emilia, Brescia e Crotone, 2 autovetture e numerosi rapporti bancari per un valore complessivo di oltre 10 milioni di euro.

Il risultato operativo si inserisce nell’ambito delle attività istituzionali finalizzate all’aggressione delle illecite ricchezze riconducibili a contesti delinquenziali mafiosi, contribuendo in tal modo alla salvaguardia della parte sana del tessuto economico nazionale.

Il caso del padre del calciatore campione del mondo. “Iaquinta è mafioso”, condannato a 13 anni di carcere con una sola ‘prova’: essere nato a Cutro. Antonio Coniglio, Sergio D’Elia su Il Riformista il 19 Marzo 2022.

Dei “calanchi” di Cutro, quelle collinette colorate dal grano che somigliano tanto alle dune del deserto, era innamorato Pierpaolo Pasolini tanto da trasformarle laicamente nel “vangelo secondo Matteo”. A Cutro, ai tempi di Filippo II di Spagna, che voleva convertire ogni angolo di terra al cattolicesimo, nacque anche il primo campione di scacchi del nuovo mondo. A Cutro, nel secolo dell’antimafia sciasciana delle fanfare che sognava la transustanziazione dei pani e dei pesci nella mafia, ebbe la ventura di nascere pure Vincenzo Iaquinta, campione del mondo della nazionale di calcio nelle notti magiche di Berlino. Sempre in quei lidi, nella disgraziata Calabria, è nato il padre di Vincenzo, l’imprenditore Giuseppe Iaquinta, emigrato tanti anni fa con la famiglia in Emilia Romagna per cercare fortuna.

Può capitare, nella vita di un uomo, che il successo diventi malasorte, iattura. È sorte certa, nel XXI secolo, se hai visto la luce nel mezzogiorno d’Italia, nelle terre del male, dove abita Caino: il “peccato originale” di nascita ti accompagna nel corso della tua esistenza. Oggi il nome di Giuseppe Iaquinta compare prepotentemente nel processo Aemilia: 700 anni di carcere che il Tribunale e la Corte di Appello di Bologna hanno irrogato ai presunti sodali di una cosca di ndrangheta operante in Emilia Romagna legata ai “Grande Aracri” di Cutro. Mafioso, per i giudici di Bologna, sarebbe pure Iaquinta Senior, condannato in secondo grado, in nome dell’art. 416 bis del codice penale, a 13 anni di carcere.

Chiosa la Corte D’Appello che «Iaquinta Giuseppe è risultato essere un soggetto con un ruolo fondamentale per il sodalizio, rappresentando la figura dell’imprenditore di successo, oltre che padre di un calciatore famoso. Consapevolmente l’imputato si prestava al sodalizio consentendone l’infiltrazione nei settori economici e politici della zona in occasione di affari leciti o illeciti dell’associazione, talvolta anche avvantaggiandosene personalmente come si dirà oltre». In questa storia, calabrese ed emiliana, proprio “l’oltre” a cui fanno riferimento i togati fa davvero paura. Nessuna traccia del coinvolgimento di Iaquinta nelle grandi operazioni antimafia riportate dall’inchiesta – Grande, Drago, Edilpiovra ecc. – si rinviene negli atti del processo, né tantomeno nei grandi affari contestati: fallimento Rizzi, Sorbolo, Oppido. È allora lecito chiedere: perché è stato condannato Giuseppe Iaquinta? C’è stato un tempo in cui il “governo dell’oltre”, di ciò che va al di là dei fatti umani che possono anche esser fatti di reato, era monopolio delle religioni rivelate. Oggi, “l’oltre”, il “noumeno”, ciò che non è fenomeno, non si manifesta, che kantianamente è inconoscibile, diventa invece terreno del diritto penale della igienizzazione e sterilizzazione della società.

Accade allora che Giuseppe Iaquinta sia reo in quanto abbia “valutato” una operazione economica, ritenuta illecita, il cosiddetto “affare Milano”, senza alcun coinvolgimento o atto concreto: nei processi di mafia, in fondo, il “valutare”, è sempre sicuro indice di colpevolezza. Capita che Iaquinta sia mafioso perché parente del calabrese Antonio Muto, avendo preso parte al compleanno di quest’ultimo – una vendetta dello ius sanguinis e dello ius soli – o abbia avuto buoni rapporti con Alfonso Paolini, Pasquale Brescia, peraltro all’epoca dei fatti tutti incensurati, e in quattro occasioni, udite udite, abbia incontrato Nicolino Grande Aracri in iniziative evidentemente criminali: il matrimonio della figlia di quest’ultimo che conveniva a nozze con un nipote di Iaquinta, un pranzo a Porto Kaleo, la consegna di un malcapitato pesce, anch’esso forse indagato per mafia. I pranzi, le cene, i convivi, nel regno del panteismo mafioso, del “tutto è mafia”, fondano il “concorso esterno in associazione mafiosa”. La scena dei crimini di Iaquinta sono i ristoranti e il corpo del reato le portate consumate in socialità. Non si capirebbe altrimenti quale delitto sarebbe stato commesso nella cena del 26 ottobre 2011 presso il ristorante Antichi Sapori o in quella del 13 ottobre presso il ristorante Laghi di Tibbia o ancora, il 10 marzo 2012, quando Iaquinta cenò al New West Ranch!

Il prof. Vincenzo Maiello, che difende l’imputato in Cassazione, ha sostenuto instancabilmente che, a partire dalla sentenza Mannino, una condanna per 416 bis non può essere edificata su mere situazioni di status, ma occorre la fattiva partecipazione del soggetto a un sodalizio, un ruolo dinamico e funzionale. Parole al vento: nel regno dell’antimafia, si punisce quia peccatum e non quia prohibitum: non per quel che si fa, per quel che si è! È doveroso chiedere: quali benefici avrebbe apportato Giuseppe Iaquinta alla consorteria criminale? La verità è presto detta: la sua immagine, il suo status di imprenditore, di padre di un calciatore famoso, avrebbe rafforzato la mafia. È come affermare insomma che Frank Sinatra fosse mafioso perché fotografato, sorridente, accanto a Paul Gambino o Maradona andasse incarcerato per le notti brave a Napoli, incrociando talvolta mariuoli e mafiosi! The voice e El pibe de oro erano forse in concorso esterno con la mafia? Di cosa è colpevole Giuseppe Iaquinta? Del fatto che Nicolino Grande Alacri lo volle incontrare per scattare una foto con il figlio calciatore, per una maglietta? Del “fatto di reato” che i suoi conterranei lo chiamavano per chiedergli i biglietti per una partita? Forse perché Paolini era orgoglioso di aver giocato un tempo con Vincenzo Iaquinta, colui che inaugurò, con una rete, il mondiale vincente del 2006? Di che parliamo? Quali favori Giuseppe Iaquinta avrebbe ricevuto dalla mafia? Davvero si possono irrogare 13 anni di carcere perché, nell’estate del 2011, questi presunti sodali sarebbero intervenuti in suo favore per il furto di alcuni ombrelloni o il rimessaggio di una barca?

La lotta alla mafia è una cosa seria, terribilmente seria, il ricorso alla pena detentiva l’estrema ratio per difendere la sicurezza sociale. Per il resto, il carcere, una struttura mortifera, fuori dalla storia, va superato. Le fattispecie di reato non possono essere “sacchi dalle pareti elastiche” dentro i quali mettere tutto e il diritto penale non può occuparsi dell’ “oltre”, del regno delle infinite possibilità. Il processo a Iaquinta è un processo ai contatti, alle relazioni, ai natali, allo ius sanguinis e allo ius soli. Manca il fatto e l’eredità della colpa di Eschilo muta impietosamente: non è il figlio a pagare le colpe del padre ma il padre a pagare le “colpe” del figlio. La “colpa” di esser diventato un giocatore di successo e di aver trasferito la gloria alla propria famiglia, la “colpa” di esser nato a Cutro. In fondo, nella transustanziazione dei pani e dei pesci in mafia, la “mafia” – tutto è mafia – infine alza la coppa, diventa tristemente campione del mondo. Antonio Coniglio, Sergio D’Elia

Accuse pesanti e carriera stroncata, ma due anni dopo Luberto è stato assolto. L'ex procuratore aggiunto di Catanzaro fino al 2019 era tra i magistrati più impegnati nella lotta alla criminalità organizzata. Poi il trasferimento, deciso dal Csm, a Potenza, a seguito di un'inchiesta che il tribunale di Salerno ha ritenuto insussistente dall'inizio alla fine. Antonio Alizzi su Il Dubbio l'8 marzo 2022.

Due anni e tre mesi di inferno per un reato che non aveva commesso. È quanto stabilito dal gup del tribunale di Salerno, Carla Di Filippo, nei confronti dell’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto, oggi giudice civile a Potenza. Il magistrato calabrese era stato indagato, e poi processato, nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla procura di Salerno, su presunti favori che l’allora “braccio destro” di Nicola Gratteri avrebbe fatto all’ex deputato del Partito democratico, Ferdinando Aiello, politico cosentino originario della Valle del Savuto. Le accuse, a vario titolo, erano quelle di corruzione, inizialmente con l’aggravante mafiosa – poi esclusa all’atto dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari – falso, omissioni d’atti d’ufficio, favoreggiamento e rivelazione del segreto istruttorio.

Nello specifico, Luberto, dopo aver acceso i riflettori contro una presunta associazione mafiosa operante nella zona jonica della provincia di Cosenza – inchiesta successivamente archiviata a Catanzaro – non iscrivendo Aiello, amico di vecchia data, nel registro degli indagati, avrebbe evitato di disporre ulteriori accertamenti a suo carico, determinando in favore dell’ex deputato del Pd, «indebiti vantaggi di non assumere il ruolo di indagato e di non essere destinatario di indagini».

Secondo la procura di Salerno, che aveva chiesto la condanna a tre anni di carcere sia per il magistrato di Cosenza che per l’esponente politico di Rogliano, Vincenzo Luberto avrebbe anche ordinato «ai carabinieri del Nucleo investigativo di Cosenza» che gli atti contro Aiello, con il quale aveva passato diversi momenti vacanzieri, «non venissero riportati» quali «elementi indiziari». Su questo punto, e sulla mancata iscrizione nel registro degli indagati di Enza Bruno Bossio, deputata del Pd, e di Nicola Adamo, ex vicepresidente della Giunta regionale della Calabria (quest’ultimi mai indagati nel procedimento penale in questione), la decisione del gup di Salerno chiarisce in modo inequivocabile che Luberto non ha favorito Aiello. Anzi.

Il fatto di aver indagato sul presunto “comitato d’affari”, senza procedere con l’iscrizione del politico, avrebbe permesso agli inquirenti di mantenere “coperta” l’inchiesta che, se fosse arrivata in Parlamento, tramite la richiesta di intercettazione, in quanto Aiello godeva all’epoca dell’immunità, sarebbe venuta alla luce, mandando in frantumi il lavoro investigativo. Che, come detto, non ha portato comunque a nessun sviluppo, visto che gli stessi magistrati di Catanzaro hanno ritenuto infondata l’ipotesi accusatoria da sostenere in fase cautelare.

In ultimo, la procura di Salerno contestava a Luberto di aver spifferato a Ferdinando Aiello che c’erano intercettazioni telefoniche contro Vito Tignanelli, poliziotto di Cosenza, indagato insieme all’ex procuratore capo di Castrovillari, Eugenio Facciolla, dalla procura di Salerno, per il reato di corruzione. In questo caso, Luberto «informava Aiello che in un procedimento della Procura di Catanzaro era stato destinatario di intercettazioni Vito Tignanelli e che il fascicolo era stato trasmesso alla Procura di Salerno per competenza in quanto da tali intercettazioni emergevano elementi di reato a carico del procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla».

La vicenda giudiziaria ha causato un grave danno alla carriera e all’immagine di Luberto, il quale è passato dall’essere uno dei magistrati più impegnati nella lotta alla ‘ndrangheta – che ha combattuto negli ultimi 20 anni – a giudice terzo su questioni di natura civilistica, lontane dalla sua “forma mentis”. Luberto è un tipo spigoloso e scorbutico, che ha falcidiato con arresti e condanne i clan Forastefano e Abbruzzese di Cassano all’Jonio e le cosche di Corigliano e Rossano, al punto che qualcuno voleva farlo saltare in aria. Il commento dell’avvocato Enzo Belvedere, che ha difeso Ferdinando Aiello, racchiude tutta la storia processuale. «Dagli atti si è, sin dalle prime battute, evinto che i normali rapporti di conoscenza non potessero esser giammai equivocati per ipotesi penali».

L'inchiesta flop. Vincenzo Luberto assolto, il braccio destro di Gratteri era accusato dal Gratteri stesso…Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Nel gergo giornalistico la si può definire un flop. L’inchiesta, tanto strombazzata da una certa stampa e nata da una segnalazione che il magistrato Nicola Gratteri aveva inoltrato alla Procura di Salerno affinché verificasse la posizione del procuratore aggiunto suo braccio destro, si è risolta in una sentenza di assoluzione. «Perché il fatto non sussiste» recita la formula scelta dal giudice Carla Di Filippo del Tribunale di Salerno che ha firmato la sentenza di assoluzione nei confronti del magistrato Vincenzo Luberto, ex procuratore aggiunto alla Dda di Catanzaro e ora giudice civile a Potenza, trasferito proprio per effetto delle accuse che ieri si sono dissolte in una bolla di sapone e che lo avevano fatto finire al centro di un’inchiesta e di un processo per reati di corruzione in atti giudiziari, favoreggiamento, omissione di atti e rivelazione di segreto d’ufficio. L’assoluzione è stata decisa anche nei confronti di Ferdinando Aiello, ex deputato del Pd.

Entrambi gli imputati, Luberto e Aiello, avevano optato per il rito abbreviato. Il che vuol dire che il giudizio si è svolto sulla base dei soli atti del pubblico ministero e che il giudice ha deciso l’assoluzione dopo aver semplicemente letto le carte del pm. «Abbiamo scelto il rito abbreviato perché eravamo certi che nei 15 faldoni di atti versati nel processo dalla Procura di Salerno vi fosse la prova certa della totale insussistenza delle accuse – ha spiegato l’avvocato Mario Papa, del foro di Nola, difensore di Luberto – . E così è stato. La formula assolutoria piena ci ripaga di un’attività difensiva intensissima e, soprattutto, di una faticosa ma convinta sobrietà processuale. Luberto, da procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro è stato ed è un fedele servitore dello Stato: di questo deve essere contento innanzitutto chi ha dubitato di lui». Ma come è nata la gogna su Liberto? Tutto era partito da una serie di intercettazioni, con il Trojan tanto usato (e talvolta abusato) da investigatori e pm.

Sotto osservazione e ascolto c’erano le conversazioni dell’ex deputato Aiello. La spia fu fatta entrare nel suo telefono cellulare. Nel fiume di parole intercettate spuntò a un certo punto il nome di Luberto. Erano riferimenti indiretti, nulla di rivelante. Poi ci fu una conversazione tra i due, cioè Aiello e Luberto. E tanto bastò per innescare un sospetto. La circostanza di una caparra per un viaggio fatto dalle rispettive diede poi il via per costruire un vero e proprio capo di imputazione. Si ritenne che, in un’indagine coordinata da Luberto in qualità di procuratore aggiunto a Catanzaro, il magistrato avesse omesso di iscrivere nel registro degli indagati il politico amico Aiello. E perché avrebbe dovuto iscriverlo? Non si è mai capito. Eppure i pm hanno coltivato l’accusa nei confronti di Luberto fino a chiederne la condanna a tre anni di reclusione. Il dettaglio, invece, deve aver fatto la differenza per il giudice che, dopo aver aver valutato gli atti e le ricostruzioni accusatorie nel loro insieme, ha pronunciato ieri la sentenza di assoluzione nei confronti non solo di Luberto, ma anche di Aiello, difeso dall’avvocato Enzo Belvedere della foto di Cosenza.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

«Io, legale di Luberto, dico: gli renda giustizia pure il Csm». Tanti elementi favorevoli al magistrato, spiega il penalista, «erano stati trascurati: ora Palazzo dei Marescialli non ignori la sentenza del gup». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 10 marzo 2022.

La vicenda giudiziaria che ha riguardato Vincenzo Luberto, magistrato ora in servizio al Tribunale di Potenza ed ex procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, è iniziata qualche anno fa e si è intrecciata con quella di Ferdinando Aiello, deputato Pd dal 2013 al 2018. Lo scorso anno i pm di Salerno hanno chiesto il rinvio a giudizio di Luberto e Aiello (si veda anche Il Dubbio dell’ 8 marzo). Gravi i reati contestati: corruzione in atti giudiziari, favoreggiamento, omissione di atti e rivelazione di segreto d’ufficio. Tre giorni fa la svolta: all’esito del giudizio abbreviato davanti al gup di Salerno Carla Di Filippo, l’assoluzione per entrambi «perché il fatto non sussiste».

Un epilogo tutt’altro che scontato, che premia le scelte difensive, come evidenzia l’avvocato Mario Papa, legale di Luberto. L’accusa di corruzione in atti giudiziari e rivelazione di segreto ha rappresentato uno smacco grave per un magistrato da sempre impegnato nella lotta alla ’ndrangheta. Per non parlare delle ripercussioni che l’indagine ha avuto da un punto di vista professionale. «Due anni fa – dice l’avvocato Papa – gli ’ndranghetisti avranno avuto certamente motivo di gioire per l’allontanamento di Luberto dalla Dda di Catanzaro, che ha perso un cavallo di razza nella lotta al crimine organizzato. Oggi, mi auguro che la sentenza con cui è stata accertata l’insussistenza del fatto possa restituire a Luberto ciò che gli è stato ingiustamente tolto, e anche rinfrancare quelli che con lui hanno lavorato contro la criminalità, condividendo la fatica, le ansie e la indispensabile fiducia reciproca».

Papa si sofferma su una circostanza importante, vale a dire il trasferimento a Salerno dalla Procura di Catanzaro degli atti che hanno originato il procedimento. «Si trattava – evidenzia – di un atto dovuto. Spettava ai pubblici ministeri di Salerno saper separare il grano dal loglio». Di qui il dubbio del difensore, «benché io ed il mio assistito avessimo tenuto un comportamento processuale attivo». «Luberto – prosegue l’avvocato Papa – si è sottoposto al primo interrogatorio nel gennaio 2020, quando le indagini non erano ancora concluse e gli atti erano ancora secretati. Non ha avuto alcun timore di rispondere al buio a tutte le domande, e le risposte date sono state tenute ferme per l’intero processo con linearità e coerenza. Il problema è che gli elementi che egli ha fornito a sua discolpa sono stati ignorati e trascurati».

Nonostante questa piega presa nel procedimento a carico del magistrato calabrese, è stata dimostrata ugualmente l’innocenza. «Il fascicolo digitale delle indagini – aggiunge Papa -, a carico di Aiello e Luberto, è formato da oltre 191mila pagine, mentre la versione cartacea annovera trenta faldoni di atti messi insieme dai pm. Eppure, l’indagine sembrava non centrare il tema oggetto del processo, tant’è che abbiamo noi sollecitato l’acquisizione di molti atti presso la Procura di Catanzaro e abbiamo effettuato indagini difensive sia testimoniali che documentali. Nell’attività di indagine dei pm di Salerno è stata impressa indubbiamente una grande foga investigativa con indagini patrimoniali, intercettazioni, pedinamenti e perquisizioni perfino nell’ufficio di Luberto. Il punto è che, poi, questa mole di atti non è stata esaminata e valutata senza pregiudizio».

Sulla scelta del giudizio abbreviato, il difensore di Luberto non ha mai pensato a un esito negativo, a una condanna per il suo assistito. «La scelta del rito – conclude – è il peggiore tormento di un difensore, ma Luberto era stato già eccessivamente e ingiustificatamente maltrattato, perché lo si potesse sottoporre ad un dibattimento infinito. Ci siamo detti che un giudice terzo ed equilibrato non avrebbe potuto nutrire dubbi sulla insussistenza del fatto e così è stato. Ora mi auguro solo che anche il Csm si renda conto che Luberto ha subito un’ingiustizia e che gli consenta di tornare alle proprie funzioni». La vicenda è tutt’altro che chiusa.

La polvere sotto il tappeto. Il triste declino degli avvocati: considerati correi, processati e persino condannati. Otello Lupacchini su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Sono lontani i tempi in cui, analizzando il processo penale nel suo momento tecnicamente più delicato, Francesco Carnelutti coglieva un risultato di una certa importanza per la civiltà, quale la «riabilitazione degli avvocati» (Le miserie del Processo Penale, Torino 1947, pp. 37 ss.). Recenti vicende, sulle quali tornerò in seguito, e a prescindere dal coinvolgimento di noti avvocati in procedimenti penali nella veste di imputati per rapporti, considerati, almeno nella prospettiva dell’accusa, poco o nulla ortodossi, ribadiscono nei fatti come quella dell’avvocato sia una delle figure più discusse nel quadro sociale. A partire dalla seconda metà del secolo scorso, salvo rare e lodevoli eccezioni, la letteratura giuridica è progressivamente e, alla fine, irrimediabilmente scaduta ad ars poetica da tirapiedi.

Ciò è ascrivibile, innanzi tutto, alla deriva della «scienza della legge», già magistralmente descritta nei primi decenni del Cinquecento, là dove si sostituisca all’«autorità» dei dottori quella dei precedenti giurisprudenziali, dal Francesco Guicciardini dei Ricordi (BUR, 1984, C-208, p. 178): se nella decisione di una causa è «da uno canto qualche viva ragione», dall’altro l’autorità di un precedente «più si attende nel giudicare»; questo implica che l’operatore impieghi il tempo che, invece, «sarebbe a mettere in speculare» proprio nella ricerca dei precedenti: «così quello tempo, si consuma in leggere (almagesti giurisprudenziali) con stracchezza di animo e di corpo, in un modo che l’ha più similitudine a una fatica di facchini che di dotti». Ed è ascrivibile, altresì, alla proliferazione di retori ai quali, per dirla con Tito Castricio, «è consentito usare argomenti falsi, audaci, inventati, subdoli capziosi, purché siano verosimili e possano, con qualche astuzia, influenzare gli animi da commuovere degli uomini», e reputano «turpe» se in una «cattiva causa» lasciano qualcosa trascurato e indifeso (Aulo Gellio, Noctes Atticae, 1, 4).

Comprensibile, dunque, perché oggi sembrino suonare ai più come moneta falsa i rilievi di Francesco Carnelutti per il quale «un uomo, per essere giudice, dovrebbe essere più di un uomo», e perché appaiano altresì ormai jou de mode ai più le spiegazioni in proposito del grande giurista, tanto che, in nome del mito dell’efficienza, è stato sostanzialmente abbandonato il «correttivo» ispirato dall’insufficienza del giudice, vale a dire il collegio giudiziario quale «rimedio» suggerito dall’esperienza, troppo spesso sostituito da quella contradictio in adiecto che è il «tribunale monocratico», là dove, peraltro, non si tiene più in alcun conto la parzialità dell’uomo, che è invece il punto di partenza per capire. Vale, comunque, la pena di ripercorrere, sia pure in via di rapidissima sintesi, il limpido argomentare del grande penalprocessualista, risalente a quando era ancora vigente, nella versione originaria, l’arcigno codice di rito penale fascista. Proprio per la sua parzialità, egli sostiene, nessun uomo arriva ad afferrare la verità, essendo quella che ciascuno ritiene la verità null’altro che un aspetto di essa, «qualcosa come una faccetta di un diamante meraviglioso». Se, dunque, «La verità è come la luce o come il silenzio, i quali comprendono tutti i colori e tutti i suoni, dove, tuttavia, la fisica ha dimostrato che il nostro occhio non vede o il nostro orecchio non ode che un breve segmento della gamma dei colori o dei suoni», ciò spiega il modo di dire «il giudice stabilisce chi abbia ragione». Come la verità, la ragione è infatti una sola, ma nel processo ciascuna delle parti dice le sue ragioni, quelle per le quali vengono chieste, a seconda di chi ne sia rispettivamente il portatore, tanto la condanna quanto l’assoluzione.

Se ragionare significa porre delle premesse e trarne delle conclusioni, l’accusatore e il difensore sono due ragionatori, ma il loro è un ragionare in modo diverso da quello del giudice; essi ragionano «a rime obbligate», poiché ognuno deve cercare le premesse per arrivare a una conclusione obbligata. Le parzialità del difensore e del suo avversario, che si contrappongono dialetticamente, sono il prezzo da pagare per ottenere l’imparzialità del giudice, «che è poi il miracolo dell’uomo, in quanto, riuscendo a non essere parte, supera sé stesso». Tutto ciò potrebbe sembrare assurdo, ma è proprio qui la chiave del processo: guai se il giudice, in presenza di prove apparentemente lampanti della colpevolezza o dell’innocenza, condannasse o assolvesse senza continuare nell’indagine fino ad averne esaurito tutte le risorse. Ovvio che, per fare questo, il giudice debba essere aiutato, non potendo riuscirci da solo, e il suo «aiutante naturale» è il difensore, il quale, tuttavia, avendo l’interesse di cercare le ragioni utili a dimostrare l’innocenza dell’accusato, è sì un aiutante prezioso per il giudice, ma anche un aiutante pericoloso, a causa della sua parzialità, così che, per renderlo innocuo, gli viene contrapposto quel ragionatore altrettanto parziale in senso inverso, che è il pubblico ministero, il quale meglio sarebbe, dunque, chiamare accusatore.

È certo uno «scandalo» quello delle due verità, della difesa e dell’accusa, ma il giudice ne ha bisogno, affinché scandaloso non sia il suo giudizio.

Neppure nei momenti più convulsi della storia, si è mai proposta, per esempio, la soppressione dei medici o degli ingegneri, ma quella degli avvocati sì; e, talvolta, come nei periodi più bui dell’Inquisizione, si è riusciti anche a sopprimerli, sebbene, fortunatamente, siano poi subito risorti. Eppure, ancora oggi, è tragicamente sin troppo facile incontrare sostenitori della massima secondo cui «plerumque propter enormitatem delicti licitum est iura transgredi», così «in puniendo» come «etiam in procedendo», là dove, naturalmente, i crimini atroci che legittimerebbero la violazione del principio di legalità della pena e anche delle regole processuali non sono più, come un tempo, le eresie o i traffici col demonio, ma il terrorismo, la mafia, e la corruzione. In fondo, il sistema inquisitorio tende a riprodursi: ingerisce idee, restituisce formule, fabbrica le proprie creature, tutte uguali, omuncoli nella provetta di un mago: come l’Inquisizione con la «I» maiuscola anche l’odierna inquisizione con la «i» minuscola dispone di reggicoda, turiferari, consolatori, prefiche, necrofori, scomunicatori, apologeti, dottori, falsari, pedagoghi, libellisti, araldi, agiografi, esegeti, casuisti, cortigiani, cicisbei, mezzani, bottegai, sensali, barattieri, plagiari, aguzzini, legislatori, spie, censori, sbirri, carcerieri, flagellatori, carnefici.

Per fortuna, anche fosse dieci volte più numeroso, questo smisurato esercito lavora sempre in perdita, come i giocatori che puntano il pari, il dispari e lo zero. Alcuni casi clinici la dicono più lunga di pur raffinatissime costruzioni teoriche. Un’ulteriore premessa è, comunque, d’obbligo. Sebbene l’art. 24 comma 2 della Costituzione riconosca solennemente che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», vi è chi, non dandosene per inteso, alimenta campagne denigratorie contro gli avvocati, adiuvante, peraltro, un difetto della macchina processuale, che anche per questo funziona male: a differenza del difensore, il pubblico ministero è concepito come ragionatore imparziale, sebbene, nove volte su dieci, la logica delle cose lo trascini a essere l’antagonista del difensore. Anni or sono, si diede il caso di un avvocato che svolgeva con coraggio il proprio mestiere, per ciò oggetto di critiche, di sospetti, di pedinamenti, in indagini sempre archiviate, avendo assistito per anni quelli che tutti consideravano i peggiori: dal fattore di Arcore, Vittorio Mangano a Giovanni Pullarà, dal Papa della mafia, Michele Greco, a Bernardo Provenzano; secondo la vulgata popolare era un «avvocato di mafia» o l’«avvocato del diavolo», come lo definì un noto giornalista, in un memorabile articolo apparso su un importante quotidiano nazionale.

Più di recente, a prescindere dal caso del difensore le cui conversazioni con l’assistito, indagato, ma archiviato, non solo sono state proditoriamente intercettate, ma anche illecitamente trascritte e poi depositate dal procuratore generale della Cassazione agli atti di un procedimento disciplinare a carico di un terzo, in barba all’exclusionary rule di cui all’art. 103 comma 7 del codice di procedura penale, senza che la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura vi abbia trovato nulla da eccepire, mi è capitato d’imbattermi nelle vicissitudini di due avvocati milanesi, posti di fronte all’interrogativo, come possa un avvocato, nell’esercizio del ministero della difesa, dissociarsi dal proprio assistito nei confronti del quale sta profondendo ogni sforzo al fine di difenderlo al meglio. Tutto nasceva da un complesso contenzioso civile, con risvolti penali a carico dell’assistito.

A tacere caritatevolmente del garbo del giudice penale di primo grado, il quale dopo aver manifestato a più riprese il fastidio durante tutto il corso delle arringhe difensive, sino all’abbandono, bofonchiando, dell’aula di udienza, mentre l’esposizione era ancora in corso, è da rimarcarne, invece, la decisione di trasmettere gli atti alla procura della Repubblica per valutazioni circa l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei difensori, rei di non essersi dissociati dalle dichiarazioni del proprio cliente, in virtù del principio, Dio sa da dove esatto, che gli avvocati che non si dissociano dalle dichiarazioni del proprio assistito e che le fanno proprie nelle arringhe difensive, seppur con «toni solo apparentemente più pacati ed urbani», concorrono nel reato della persona che difendono. Il fatto che si giunti a tanto è esemplare dell’insofferenza di certa magistratura per «quei Cirenei della società», sono ancora parole di Francesco Carnelutti, che «portano la croce per un altro e questa è la loro nobiltà».

Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il caso. La condanna di Armando Veneto strazia la giustizia calabrese: gogna e accanimento sui resti di un avvocato di 90 anni. Alberto Cisterna su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

La condanna di Armando Veneto, dell’avvocato Armando Veneto strazia la giustizia calabrese. Non quella dei giornali abituati a fare strame degli imputati, non quella delle lobbies antimafia e delle tifoserie carrieristiche. Quelli vogliono che il sangue scorra, che il pantheon dei mafiosi sia occupato in suo scranno, che nel puzzle della famigerata “zona grigia” non manchi nessuno. Ci siano tutti in quel girone infernale: avvocati, magistrati, commercialisti, carabinieri, poliziotti, politici, amministratori, persino sacerdoti. È il tragico album “Panini” di questi decenni del Terzo millennio che si riempie a colpi di processi e di ossequiose campagne di stampa, dove anche quando – nel tempo – una figurina deve essere portata via per un’assoluzione, lo strappo lascia sempre scorticata la pelle e falciata la vita.

Quella giustizia, chiamiamola così, gongola; danza sui resti di un uomo di circa 90 anni che ha subito la gogna di una condanna per la corruzione di un giudice. Si badi bene, quando si dice giustizia non si vuol dire giudici, ma parliamo di tutto quel mondo variegato, promiscuo, meticcio che intorno e dentro le aule di giustizia si muove e che ha tante volte guardato di sbieco l’avvocato Veneto. Per piccole e grandi invidie, per il timore di confrontarsi con un intellettuale insidioso e con un affabulatore ipnotico, per la durezza con cui praticava l’agone, per l’assenza di qualsivoglia ossequio verso le toghe pasticcione e pavide. Chi lo ha incontrato in toga, chi ha con lui duellato per anni resta interdetto e smarrito. Pensa a quando ha portato a casa la condanna di un suo assistito o quando, invece, ha visto cadere le proprie accuse dopo le sue dure difese; pensa ai giudici che hanno deciso quei processi e vede quel tempo evaporare nella condanna per corruzione in atti giudiziari.

Se Armando Veneto, l’avvocato Armando Veneto in decenni di professione forense avesse anche una sola volta truccato le carte, avesse anche una sola volta barato, non ci sarebbe pena capace di contenere lo sdegno e la delusione. Se Armando Veneto, il temuto maestro di tanti pubblici ministeri passati sotto le lame affilate del suo eloquio e temprati da lui allo scontro più aspro, fosse innocente non ci sarebbe assoluzione che possa mitigare l’offesa inferta alla giustizia calabrese. Le sentenze si rispettano, gli uomini di più, fino a prova contraria che neppure le sentenze, talvolta, possono dare.

Se le cose stanno così, ha poco senso inasprire lo scontro istituzionale, organizzare intorno al caso dell’avvocato Veneto l’ennesimo falò dei tentativi di dialogo tra magistrati e avvocati. È bene che ciascuno resti solo in questa vicenda e che nessuno trovi rifugio dietro le barricate delle corporazioni in lotta. Chi è stato condannato deve andare incontro al proprio destino nella assoluta fiducia che il sistema sia integro. Chi ha espresso valutazioni contrarie non deve annacquare le proprie scelte nello scudo della corporazione indignata. La giustizia italiana ha bisogno che si smorzino i toni e si puntino gli indici, cosa non facile. Alberto Cisterna

Un’attrazione fatale per la procura di Gratteri. La Procura di Gratteri dà la caccia agli avvocati: dopo Pittelli e Stilo è il turno di Armando Veneto. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

Per capire come si sia potuti arrivare a condannare a sei anni di carcere per corruzione e concorso esterno una persona per bene come Armando Veneto, ex parlamentare Udeur e “Maestro” dei penalisti calabresi (e non solo), bisogna conoscere la parola magica che è più eccitante di un drappo rosso davanti alla procura di Nicola Gratteri. È sufficiente agitare il termine “avvocato”. Non c’è niente da fare, non appena la Dda di Catanzaro sente la parola magica, è bene che tutte le toghe “sbagliate”, quelle degli avvocati, comincino a preparare la propria difesa.

A volte, come è capitato all’avvocato Pittelli e all’avvocato Stilo, è anche necessario mettere in una sacca la tuta e l’accappatoio, indumenti fondamentali in carcere, e prepararsi a porgere i polsi alle manette. E meno male che non sono più in uso gli schiavettoni. Qualcuno li avrebbe applicati volentieri a qualche toga “sbagliata”. L’avvocato Armando Veneto è un grande penalista, è stato Presidente dell’Unione delle camere penali, non è chiamato “maestro” per piaggeria di qualche allievo, ma perché è stato ed è un esempio della tradizione dei grandi avvocati del sud, come Giovanni Leone e Francesco De Martino, che sono stati maestri di diverse generazioni di studenti e di giovani legali. Ma Armando Veneto è calabrese, e questo, specie negli ultimi anni, è già un reato. Spesso diventa addirittura l’unico argomento possibile nelle motivazioni di certi provvedimenti. Lui stesso infatti, poche sere fa, commentando la sentenza del gup di Catanzaro Matteo Ferrante, si domandava quale esercizio di fantasia avrebbe dovuto compiere il magistrato per giustificare quei sei anni di carcere elargiti al legale per corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa.

Il paradosso è che, quando a Catanzaro c’era un altro procuratore capo, Vincenzo Lombardo, l’avvocato Armando Veneto, già sfiorato dall’inchiesta che portò il nome di ”Abbraccio”, perché stava a indicare un legame affettivo tra esponenti della ‘ndrangheta e ambienti della società civile e istituzionali, era stato escluso dall’inchiesta con tante scuse. Archiviato. Non era lui l’“avvocato” di cui si era parlato in un’intercettazione ambientale in carcere, con la lettura labiale sulla bocca di un pentito. Anzi, non c’era proprio di mezzo nessun avvocato, ma solo un tipo che così veniva chiamato, o forse si faceva chiamare, perché era una sorta di faccendiere che dava qualche buon consiglio.

L’inchiesta riguardava fatti del 2009 e un caso di corruzione in atti giudiziari. Centoventimila euro sarebbero stati consegnati a un magistrato, Giancarlo Giusti, relatore in un tribunale del riesame, che avrebbe convinto gli altri due colleghi ad annullare l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di esponenti della famiglia Bellocco.

Il giudice Giusti ebbe una triste sorte. Prima era stato arrestato, su iniziativa della Dda di Milano, ai tempi diretta da Ilda Boccassini, per essersi fatto condizionare da esponenti del clan Valle-Lampada, che lo avrebbero corrotto con offerte di soggiorni in grandi alberghi e l’accompagnamento di prostitute. Era già agli arresti domiciliari quando scoppiò anche il caso “Abbraccio”. Il magistrato subì in seguito anche l’abbandono da parte della moglie e una solitudine totale, finendo con il suicidarsi nel 2015, dopo un precedente tentativo nel carcere di Opera, in cui era stato salvato dagli agenti di polizia penitenziaria. Triste vicenda, cui l’avvocato Veneto è estraneo, e lo si capisce dalla sequenza dei fatti.

Era infatti subentrato a un collega nella difesa di una delle persone accusate di corruzione subito dopo il momento in cui l’accordo era stato stipulato, più o meno nell’agosto del 2009. Ed è il 27 di quel mese la data in cui il tribunale del riesame aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Rocco e Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo. I tre avrebbero versato al giudice Giusti quarantamila euro a testa, totale centoventimila. L’avvocato Veneto sarebbe stato l’”intermediario”. Lo si evinceva da un’intercettazione ambientale attraverso la lettura di un labiale, in cui la parola “avvocato” pareva non solo chiara, ma anche sufficiente a chiamare in causa il famoso penalista. Ma ben presto lo stesso procuratore capo Vincenzo Lombardo si scusò pubblicamente per la gaffe e in seguito anche gli stessi uomini della squadra mobile e i pm della Dda ammisero l’errore. L’inchiesta nei confronti di Armando Veneto non iniziò neppure. Tanto che lui stesso oggi riesce a fatica a ricostruire quel che accadde in quei giorni. Siamo nel 2014. Il 2015 è segnato dalla condanna in Cassazione per il processo di Milano che determinerà il suicidio del giudice Giusti.

Che cosa succede negli anni successivi? All’apparenza niente che riguardi direttamente l’avvocato Veneto. Di cui tutti, dalla squadra mobile ai pubblici ministeri e giudici (dal gip fino alla Cassazione) avevano accertato l’estraneità del penalista dai fatti, che nel frattempo avevano portato alle condanne dei corruttori. Ma successivamente due dei tre imputati condannati sono deceduti e il processo è rimasto abbandonato, con le carte chiuse in un cassetto. L’avvocato Veneto è rimasto sconvolto quando, in un bel giorno di due anni fa, ha ricevuto dalla procura della repubblica di Catanzaro un avviso di chiusura delle indagini. Il che vuol dire una sola cosa, che la Dda intende chiedere il rinvio a giudizio. È stato allora che il penalista ha dovuto fare parecchi sforzi di memoria. Giancarlo Giusti, chi era costui? A parte la sua tragica sorte, certo che Armando Veneto lo aveva conosciuto. «Era stato nel mio studio per pochi mesi, mentre si stava anche preparando per il concorso in magistratura. Gli ho dato una mano perché non sapeva niente di diritto penale, ma non era certo un mio amico. Ma dal famoso labiale hanno dedotto che lo avessi avvicinato per corromperlo».

Fatto sta che le carte improvvisamente riemergono dal cassetto e si ricomincia daccapo a mettere nel mirino l’avvocato Veneto. Il quale così scopre di esser stato indagato fin dal 2012 ed è costretto a supplire addirittura al vuoto di attività della stessa magistratura, perché nessuno si era neppure preso la briga, negli anni, di rileggere quegli atti che avevano portato alle precedenti archiviazioni. Solo a questo punto si scopre così che un pm di Reggio Calabria aveva inviato a Catanzaro nel 2014 le dichiarazioni di due “pentiti”, che però non erano state prese in considerazione, ritenute irrilevanti dalla Dda di Catanzaro.

Ma quel che non valeva nel 2014 –sarà il nuovo corso- improvvisamente diventa importante per accusare nel 2020. Basta la parola. Tanto che pare inutile sia rileggersi le carte del precedente processo, che le memorie difensive dello stesso avvocato Veneto. L’unico accertamento, quasi una telefonatina tra amici, è quello, da parte della Dda di Catanzaro, di chiedere ai colleghi di Reggio se i due “pentiti” siano attendibili. Punto. È così che si “indaga” e poi si condanna in Calabria. È il nuovo corso: basta la parola “avvocato”. Anche se si tratta solo di un faccendiere. La caccia alle toghe “sbagliate” continua. Ma questa volta si è puntato in alto.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Condanna di sei anni ad Armando Veneto: mediò tra il clan e il giudice. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 25 Febbraio 2022.

SEI anni di condanna sono stati inflitti all’avvocato Armando Veneto, decano delle Camere penali, già parlamentare europeo e deputato della Repubblica in quota Udeur, finito nel mirino della Dda di Catanzaro per una presunta vicenda di corruzione in atti giudiziari aggravata dalla finalità mafiose.

I fatti risalgono al 2009, epoca in cui secondo l’accusa Veneto avrebbe fatto da tramite con il giudice Giancarlo Giusti – poi suicidatosi a marzo del 2015 – per ottenere la scarcerazione di tre big della cosca Bellocco. In quel periodo, infatti, Giusti è componente del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria chiamato a valutare il ricorso contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 10 agosto a carico di Rocco Bellocco, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco. Il 27 dello stesso mese i tre vengono scarcerati e il sospetto della Procura è che in cambio di quel provvedimento favorevole, il giudice abbia ricevuto 120mila euro, quarantamila ciascuno dai tre indagati da lui beneficiati. In tutto ciò, il ruolo del penalista sarebbe stato quello di trait d’union fra la cosca e il giudice; un ruolo che secondo gli inquirenti fu esercitato anche da Vincenzo Puntoriero e Gregorio Puntoriero per i quali però il processo è in corso di svolgimento.

Veneto, per il quale il pm Veronica Calcagno aveva invocato otto anni di reclusione, era stato già sfiorato dalle stesse accuse nel 2014, ma in quel caso l’inchiesta avviata contro di lui era finita in un nulla di fatto. L’ufficio di Nicola Gratteri, però, è tornato alla carica di recente ottenendo per ora la sua condanna in primo grado sia per la presunta corruzione che per l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa.

“Non basterà la singolare idea dell’ufficio procedente ad oscurare verità e ragione. Né ad intimidirmi – aveva proclamato il diretto interessato dopo la ricezione dell’avviso di garanzia – mi difenderò nel processo non solo utilizzando le prove dell’innocenza già acquisite e contenute da quasi un decennio nel fascicolo. Ma dimostrando anche i fatti ulteriori che con il mio interrogatorio avevo offerto e che l’accusatore ha ignorato”.

Temi dei quali ora si riparlerà in Appello. Armando Veneto, 87 anni, è uno degli avvocati penalisti più importanti d’Italia. Oltre alla sua esperienza a Strasburgo e Montecitorio è stato anche sindaco di Palmi e sottosegretario alle Finanze dal 1999 al 2001. In ambito forense, invece, ha ricoperto il ruolo di presidente del consiglio delle Camere penali. Il processo che lo riguardava si è celebrato in abbreviato e ha sancito le ulteriori condanne di Domenico Bellocco e Giuseppe Consiglio, anche loro a sei anni di carcere, nonché quelle di Rosario Marcellino (quattro anni) e del collaboratore di giustizia Vincenzo Albanese (due anni). Gli imputati erano difesi dagli avvocati Clara Veneto, Giuseppe Milicia, Gianfranco Giunta, Letterio Rositano e Antonio Capua. 

Armando Veneto, un galantuomo: colpirlo significa ferire la giustizia. L'intervento dell'ex presidente dell'Ucpi dopo la condanna a sei anni di reclusione del decano delle Camere penali. Gaetano Pecorella su Il Dubbio il 2 marzo 2022.

Armando Veneto è quello che un tempo si definiva un vero “galantuomo”. Tutti i penalisti, o quasi, hanno avuto modo di incontrarlo sulla loro strada ed io in particolare ho avuto rapporti con lui come Presidente dell’Ucpi. Nessuno ha potuto rimproverargli una condotta scorretta, una scortesia, o ciò che spesso accade tra colleghi: dato il suo prestigio, di sottrarre un assistito magari ad un giovane avvocato. Tutto ciò basta per dire che è stato condannato un innocente? Forse no. Ma ciascun uomo ha una sua storia, ha una sua personalità che col tempo dimostra di che cosa è fatto, se ama la giustizia o se è avido di denaro o di successo. Non è quest’ultimo sicuramente il caso di Armando Veneto.

In Calabria è sempre stato un punto di riferimento per i penalisti, tant’è che a lui sono stati dedicati una raccolta di studi e un convegno a cui hanno partecipato avvocati e docenti universitari di tutta Italia. Ma non vorrei si dicesse che ogni volta che viene accusato un avvocato la categoria si solleva a sua difesa, quasi a prevenire che ciò possa ripetersi per qualcun altro, soprattutto per chi opera in certe regioni in cui comanda la mafia. Ci vuole molto coraggio e molta onestà per resistere alle lusinghe, o alla prepotenza delle associazioni mafiose. Eppure in quelle regioni lavorano alcuni dei migliori penalisti che ci sono oggi in Italia, e non solo dei migliori: anche tra i più onesti e leali. Uno di questo è Armando Veneto.

Perché ho voluto rappresentare la correttezza e la lealtà di Armando Veneto in più di sessant’anni di professione? Non per lodarlo, certo: lo hanno fatto in tanti, in questi giorni, e non ha bisogno che mi aggiunga anch’io. Ho voluto ricordare le sue caratteristiche di avvocato perché anche gli elementi che emergono in un processo, ammesso che ve ne siano, debbono essere valutati alla luce della persona a cui si riferiscono. Le accuse a suo carico sono state archiviate dalla Procura di Catanzaro nel 2011; poi la squadra mobile di Reggio Calabria ha riaperto le indagini, ma ha poi inquadrato, senza ombra di dubbio, la dinamica dei fatti e la totale estraneità dell’avvocato Veneto. Ancora la Procura di Catanzaro ha successivamente riconosciuto e spiegato la dinamica dell’errore commesso quando si era dubitato di un possibile ruolo dell’avvocato Veneto nella vicenda. Lo ha infine ribadito il pubblico ministero del processo celebrato nel 2015 nei confronti dei ritenuti responsabili, chiarendo che quell’errore aveva comportato il rischio di favorire i veri colpevoli. Ciò hanno scritto i suoi difensori, ma sono fatti obiettivi e incontestabili.

È stata una grande conquista del garantismo l’affermazione del principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, su cui si fonda la giustizia non solo americana, ma di ogni Paese civile. Se soltanto un dubbio sulla colpevolezza di un imputato sfiora la mente del giudice, o se quel dubbio appare obiettivamente dalle carte, una eventuale condanna è la condanna di un innocente. Nel caso di Armando Veneto non solo vi furono dei dubbi evidenti, ma vi fu la certezza che le accuse nei suoi confronti erano ingiuste e infondate. Oggi, evidentemente, il clima dei tribunali calabresi è cambiato e alcuni dei più noti avvocati della regione vengono fatti oggetto di provvedimenti cautelari o di condanne che in altre situazioni non avrebbero avuto spazio né presso la Procura né presso i giudici. Ogni avvocato vive in contiguità con i soggetti che difende, alcuni innocenti, altri pericolosi criminali. La nostra forza è sempre stata quella di distinguere l’uomo dall’imputato, di aiutare il primo e di difendere il secondo. Senza questo ruolo persino i processi non sarebbero pensabili, tant’è che lo capirono le Brigate Rosse revocando i loro avvocati e uccidendo l’avvocato Croce che ne assunse la difesa. Il nostro ruolo è rischioso e difficile: forse i giudici dovrebbero avere la coscienza di rispettare questa difficile e fondamentale funzione comprendendo che colpire avvocati come Armando Veneto significa incrinare l’intero sistema giudiziario.

I penalisti calabresi: «La condanna di Armando Veneto mina la libertà del difensore».  La dura nota delle Camere penali dopo la decisione del gup di Catanzaro: «Qui è in gioco la tenuta democratica del nostro sistema giudiziario». Il Dubbio il 26 febbraio 2022.

«Sarebbe davvero ultroneo da parte nostra ribadire chi è l’avvocato Armando Veneto e cosa Egli rappresenti per intere generazioni di Avvocati. Quanto stava accadendo alla sua vita e alla sua integerrima figura professionale era già sotto gli occhi di tutti. La decisione di processare l’Avvocato per una vicenda che, come ha ben ricordato la Giunta Ucpi, “era già stata pubblicamente archiviata per manifesta infondatezza” rappresenta(va) plasticamente i tempi bui che la funzione e il ruolo del difensore vivono». Così in una nota il Coordinamento delle Camere Penali Calabresi dopo la condanna dell’avvocato Armando Veneto a 6 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione in atti giudiziari aggravata dalle modalità mafiose.

«Armando Veneto – prosegue la nota – ha sempre onorato la Toga e difeso i valori sui quali è edificata la nostra civiltà del diritto. Questa drammatica vicenda non avrà il merito di farci perdere fiducia nella giurisdizione e rafforza, semmai, la nostra convinzione circa lo spessore umano e professionale di chi, come l’Avvocato Veneto, patisce la stortura di un sistema che nella nostra Regione, più che altrove, mina alle fondamenta la libertà del difensore, esponendo al rischio penale la nobile funzione di difesa».

«A chi ci opporrà che il nostro intendimento rappresenta un attacco al Giudice e alle sue prerogative – si evidenzia – facciamo osservare che siamo convinti e coscienti di quanto sia ingiusta la vicenda processuale che ha coinvolto l’Avvocato Veneto, ma che il tema è ben più nobile e più alto rispetto alla contingenza della “svista” giudiziaria. Qui è in gioco la tenuta democratica del nostro sistema giudiziario e, per incondizionato riflesso, del Paese tutto. Armando Veneto non è solo, e non lo sarà chiunque si trovi a subire la scure di un sistema penale proteso a condannare senza prove».

«Proprio perché oggi, più di ieri, crediamo ancora e fortemente che la giurisdizione non può allontanarsi dal quadro assiologico delineato dalla nostra Costituzione – viene sottolineato dalle Camere penali calabresi – siamo certi che presto verità e giustizia si incontreranno anche in questa sfortunata storia processuale. Fino ad allora, uniti al fianco di Armando Veneto, gli chiediamo di aiutarci nella nostra battaglia di civiltà e difesa dei diritti fondamentali, senza mai arrendersi. Chiediamo all’Avvocato Armando Veneto di sostenerci con il suo sorriso, la sua profonda umanità, la sua raffinata e colta tenacia. Perché questa sentenza porta il suo nome, ma condanna tutti noi che crediamo nella giustizia».

Incredibile condanna per Armando Veneto: «Sono sdegnato». Il decano delle Camere penali è stato condannato a 6 anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari aggravata dalle modalità mafiose. L'Ucpi: "Sgomento". Valentina Stella su Il Dubbio il 26 febbraio 2022.

Armando Veneto, decano delle Camere penali, già parlamentare europeo e deputato della Repubblica in quota Udeur, è stato condannato a 6 anni di reclusione da un gup  di Catanzaro per corruzione in atti giudiziari aggravata dalle modalità mafiose e concorso esterno in associazione mafiosa, dopo essere finito del mirino della Procura guidata da Nicola Gratteri. I fatti risalgono al 2009, epoca in cui, secondo l’accusa, Veneto avrebbe fatto da tramite con il giudice Giancarlo Giusti – poi suicidatosi a marzo del 2015 – per ottenere la scarcerazione di tre big della cosca Bellocco.

“Sono sdegnato – dice a caldo Armando Veneto – perché si dovrà pescare nell’ampio bacino delle fantasie per motivare una simile sentenza”. L’uomo si dice “assolutamente estraneo alla vicenda, come aveva accertato la magistratura di Catanzaro  sin dal 2014; per la corruzione sono stati già condannati in primo grado coloro che ne sono stati ritenuti responsabili. Sono stato tirato in ballo da una personale interpretazione di un ‘labiale’, come è stato accertato dalla squadra mobile di Reggio Calabria che ha corretto l’errore iniziale”. Infine, spiega, “l’accordo corruttivo era intervenuto prima ancora della mia nomina a difensore. Ricorrerò in appello ovviamente anche perché sono curioso di sapere chi ha ragione tra la magistratura di Catanzaro edizione 2014 e quella odierna. Riguarda non solo la mia persona ma quella di ciascuno dei sudditi di questo lembo d’Italia”.

Molta amarezza trapela anche nelle dichiarazioni rese dai suoi avvocati, Clara Veneto e  Giuseppe Milicia: “La condanna di un innocente è l’esperienza più amara che può vivere un difensore. Capita spesso che l’innocenza di cui sei certo non possa essere adeguatamente rappresentata attraverso le prove presenti nel processo. Non è questo il caso della condanna inflitta ad Armando Veneto a fronte di prove evidenti della sua innocenza”.  I legali poi provano a ricapitolare la vicenda giudiziaria: “La scelta di essere giudicato con rito abbreviato è dipesa solo ed esclusivamente dalla presenza nel fascicolo di evidenze schiaccianti. Che avevano persuaso prima la Procura della Repubblica di Catanzaro quando aveva archiviato il fascicolo nel 2011; poi la Squadra Mobile di Reggio Calabria dopo la riapertura delle indagini che avevano consentito di inquadrare, senza ombra di dubbio, la dinamica dei fatti delittuosi e la totale estraneità dell’avv. Veneto; ed ancora la Procura di Catanzaro che aveva riconosciuto e spiegato la dinamica dell’errore commesso quando si era dubitato di un possibile ruolo dell’Avv. Veneto nella vicenda. Lo aveva ribadito il Pubblico Ministero del processo celebrato nel 2015 nei confronti dei ritenuti responsabili, chiarendo che quell’errore aveva comportato il rischio di favorire i veri colpevoli. Tutto ciò è perfettamente comprensibile; lo abbiamo compreso e abbiamo compreso la doverosa presa di posizione della Procura della Repubblica nel 2014 che manifestava il rammarico per essere stata la figura di un professionista stimato associata a vicende criminali”.

Ciò che i due difensori non hanno compreso, “e che il giudice non sarà in grado di spiegare con la sentenza, è il radicale capovolgimento di prospettiva dei pubblici ministeri che si sono cimentati nel 2020, riesumando un fascicolo, destinato all’archivio per la posizione dell’Avv. Veneto. Il divario tra il verdetto del gup di Catanzaro e le cose ragionevoli e sensate è così macroscopico da indurci ad abbandonare il riserbo da noi avvocati solitamente osservato.  Comprendiamo perfettamente che nella nostra terra la repressione penale, da certa magistratura militante, venga attuata secondo la filosofia “colpiscine uno per educarne 100”.  Ma giungere all’estremo di colpirne uno a caso – ma non per caso, perché Armando Veneto rappresenta molto di più del dramma individuale dell’innocente condannato- è inaccettabile”.

Sconcerto anche tra l’Unione delle Camere Penali Italiane: “La condanna dell’Avvocato Armando Veneto ci lascia sgomenti ed increduli – scrivono i componenti della Giunta – . In primo luogo perché è relativa ad una accusa risalente a molti anni fa, già vagliata e di cui era stata annunciata pubblicamente l’archiviazione nel 2014 per la sua manifesta infondatezza. Ma soprattutto perché Armando Veneto è stato ed è un saldo punto di riferimento di tutta l’avvocatura italiana, per qualità professionali e morali. Esprimiamo la certezza che la giustizia saprà fare il suo corso già nel giudizio di appello, ed esprimiamo ad Armando, in un momento così difficile della sua vita onorata, la vicinanza, la stima e l’amicizia immutate di tutti i penalisti italiani”.

Il sindacato dei magistrati ha chiesto l’intervento del Csm. L’Anm si scaglia contro Il Riformista: “Non si può criticare Gratteri!”. Piero Sansonetti su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022. 

L’Anm di Catanzaro (l’Anm è il sindacato dei magistrati, che però è un partito) ha scritto un comunicato di fuoco contro il Riformista. Dice che il Riformista quotidianamente attacca il procuratore Gratteri e che questo è inaccettabile. L’Anm ha chiesto l’intervento del Csm a difesa di Gratteri e contro di noi. In particolare l’Anm se la prende con l’articolo con il quale il Riformista ha reso nota la decisione della procura di Catanzaro di impugnare la decisione del tribunale di Vibo che ha concesso gli arresti domiciliari all’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, liberandolo dal carcere di massima sicurezza di Melfi, dopo venti giorni di sciopero della fame.

L’Anm dice in primo luogo che il nostro articolo è una “grave aggressione verbale”. E poi si indigna perché il Riformista ha notato che la lotta di Gratteri alla ‘Ndrangheta non ha avuto fin qui grande successo, se è vero che da quando lui fa il Pm anti ‘ndrangheta in Calabria la ‘Ndrangheta, anziché essere stata ridimensionata, è cresciuta in modo clamoroso diventando forse la più potente organizzazione criminale del mondo. La prima obiezione dell’Anm francamente mi sembra un po’ fuori luogo. Dice l’Anm che le mie critiche a Gratteri sono una aggressione violenta. Signori: il senso delle proporzioni cercate di mantenerlo. Io non ho mai fatto del male a Gratteri, e mai gliene farei: lui ha chiuso dentro una cella l’avvocato Pittelli e ce l’ha tenuto (con rari intervalli non certo dovuti alla sua clemenza) per due anni e mezzo, senza che fosse condannato, senza indizi seri, con verbali di intercettazioni manipolati gravemente e dove le prove a discolpa, grazie a qualche manomissione, son state trasformate in prove a carico! Davvero riuscite, in coscienza, a parlare di violenza riferendosi a chi critica Gratteri invece che riferendovi a Gratteri?

Comunque bisogna fare i complimenti all’Anm. La capacità della corporazione (se volete posso anche scrivere la Casta, ma non mi va di esagerare con le polemiche) di reagire compatta quando un suo membro viene attaccato è straordinaria. Se la politica avesse un decimo dello “spirito di corpo” che possiede la magistratura, certo non sarebbe ridotta al ruolo subalterno al quale è stata ridotta in questi ultimi trent’anni. Lasciamo stare i grandi casi (Berlusconi, Renzi, Bassolino, Salvini, o addirittura Craxi) nei quali la politica ha reagito dividendosi e cercando di trar vantaggio dall’attacco feroce della magistratura contro i suoi esponenti. Pensiamo solo all’ultimo caso. Quello dell’ex presidente del Consiglio regionale calabrese, Tallini – Forza Italia – fatto arrestare da Gratteri con accuse infamanti. Sì e no un anno fa.

Chiunque avesse letto l’ordine di cattura emesso contro Tallini avrebbe potuto giurare che Tallini fosse innocente, e avrebbe dovuto ribellarsi di fronte all’aggressione subita (beh, sì, quella era una aggressione: mica verbale…). E invece persino i partiti alleati di Tallini lo lasciarono solo e si schierarono con la Procura. Ho scritto la Procura, se volete vi dico anche il nome del procuratore. Già: Gratteri. Poi la giustizia ha stabilito quel che era evidente a tutti: Tallini (ormai rovinato dalla Procura) è innocente. Nessuno pagherà. Ha pagato lui. Vedete la differenza? Se tocchi un magistrato ce li hai tutti addosso, se tocchi un politico è lui che se li trova tutti addosso: magistrati, politici e giornalisti.

L’unico momento nel quale la magistratura si divide è quando si deve distribuire il potere. Allora sì: botte da orbi. È quel che sta succedendo in queste ore. Sono in ballo due Procure importantissime. Firenze e Milano. A Firenze il procuratore Creazzo, quello che ha guidato l’inchiesta Open contro Matteo Renzi, ha lasciato e ha ottenuto di poter andare a Reggio a fare il sostituto. Una fuga? Vedete voi: certo l’allontanamento avviene proprio 48 ore dopo che il Senato ha acclarato che l’inchiesta Open si è svolta violando la Costituzione. Per Milano invece le correnti sono in guerra. Ieri c’è stata una prima votazione al Csm, in commissione, e ha vinto Marcello Viola, ma solo di un voto, su svariati altri concorrenti. Ora si deciderà al plenum. C’è molta fretta perché ad aprile la Procura finirebbe nelle mani dell’aggiunto più anziano. Che è Fabio De Pasquale. Quello che ha nascosto, nel processo Eni, le prove a discarico degli imputati. Sarebbe molto imbarazzante, no?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le toghe si indignano: «Nessuno tocchi Nicola Gratteri!». Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, diventa bersaglio dell'Anm catanzarese e delle toghe di Area in Csm per aver criticato la Procura di Catanzaro sul caso Pittelli. Valentina Stella su Il Dubbio il 27 febbraio 2022.

Nessuno tocchi Nicola Gratteri. Non è la nuova campagna dell’associazione radicale guidata da Sergio D’Elia, ma la conclusione a cui si giunge guardando il fuoco incrociato sotto il quale è finito il direttore del Riformista Piero Sansonetti per aver scritto l’articolo  «Gratteri si accanisce contro Pittelli: non gli bastano due anni e mezzo di torture, senza prove lo vuole ancora in prigione». Nel suo pezzo, Sansonetti, con il suo inconfondibile stile, ha raccontato che la Procura di Catanzaro ha impugnato l’ordinanza del tribunale di Vibo Valentia che concedeva gli arresti domiciliari all’avvocato Giancarlo Pittelli. Apriti cielo: è diventato in due giorni bersaglio dell’Anm catanzarese e delle toghe di Area in Csm. La prima, auspicando un intervento del Csm, ha scritto in un comunicato che «non sono accettabili, pur nella libertà di critica, le affermazioni in esso contenute, che si traducono in un’aggressione verbale violenta nei confronti» di Gratteri. A raccogliere l’invito ci ha appunto pensato ieri il gruppo di Area al Csm, che ha chiesto al Comitato di presidenza l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati della procura di Catanzaro, «da alcune settimane» bersaglio di «una quotidiana campagna di stampa» : i pm «vengono accusati esplicitamente di agire per fini personali, di utilizzare mezzi illeciti, di sottoporre a tortura persone innocenti». Il rischio, avvertono, «è quello di delegittimare complessivamente l’azione della magistratura e dello Stato in un territorio difficile come la Calabria». Eppure nessuna pratica a tutela è stata richiesta per i giudici di Catanzaro quando l’anno scorso, in una intervista al Corsera, proprio Gratteri alluse a loro pericolose collusioni visto che non avallavano le sue inchieste. Allora si indignarono solo l’Unione delle Camere Penali, l’esecutivo di Magistratura Democratica, e Vladimiro Zagrebelsky, che sulle pagine della Stampa parlò addirittura di «minimo della cultura istituzionale» in riferimento alle improvvide dichiarazioni di Gratteri. Proprio qualche giorno fa lo stesso Csm ha archiviato, senza motivazione, l’esposto dell’Ucpi contro Gratteri per quella intervista. Insomma comunque la si guardi, Gratteri è untouchable.

Le toghe di sinistra chiedono una pratica a tutela. Le correnti si schierano con Gratteri contro il Riformista, Cascini: “Aggressioni personali lo delegittimano…” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Febbraio 2022. 

Dopo il sindacato dei magistrati, partono all’attacco contro il Riformista le toghe di sinistra del Csm, quelle della corrente Area, che istigano (si può usare questo verbo, o vale solo per i presunti delinquenti?) il Comitato di presidenza ad aprire nella prima commissione una pratica a tutela dei magistrati della procura di Catanzaro. Cioè di Nicola Gratteri. È bello questo fatto che improvvisamente, dopo tutto quel che ci ha raccontato Luca Palamara nei suoi libri scritti con Sandro Sallusti, i magistrati siano tutti amici e solidali tra loro e che scattino come un sol uomo al primo squillo di tromba udito a destra, cui, inevitabilmente, a sinistra risponde uno squillo.

Il primo squillo è arrivato dalla Procura della repubblica di Catanzaro, non appena avuta notizia del fatto che il detenuto Pittelli Giancarlo, stremato e barcollante dopo venti giorni di digiuno, che intendeva proseguire fino alle massime conseguenze, era tornato a casa su disposizione del tribunale di Vibo Valentia. Lo stesso che lo sta giudicando, in compagnia di qualche altro centinaio di imputati nell’apposita aula bunker fatta costruire dal procuratore Gratteri, che attende sempre di diventare il nuovo Falcone. All’insigne procuratore non sta bene il fatto che un suo imputato, che non deve rispondere di strage né di narcotraffico o stupro, ma solo dell’evanescenza di aver annusato a distanza l’aria di mafia mentre difendeva, da avvocato, qualcuno che magari boss lo era davvero, gli fosse sfuggito dalle mani. E si, perché, se due anni di carcere preventivo (pudicamente possiamo anche chiamarlo “custodia cautelare”, ma sempre galera è) vi sembran pochi, provate voi…con quel che segue.

Quindi niente domiciliari (strettissimi e con braccialetto al polpaccio) per l’imputato Pittelli. E, mentre ancora non si era asciugato l’inchiostro del provvedimento del tribunale che autorizzava lo stremato barcollante a farsi accompagnare a casa a Catanzaro (ma una clinica, viste le condizioni, sarebbe stata più opportuna), già gli uomini della procura avevano impugnato le armi del ricorso. Sia mai che all’avvocato venga in mente, con le poche forze rimaste, di scrivere altre lettere ad altri ministri, dopo quella sventurata a Mara Carfagna. Si trascini subito, magari in ceppi, l’imputato, ancorché barcollante, a un’udienza tribunalizia tra un mese, scrive la procura. E lì vi racconteremo, aggiunge l’atto di impugnazione, chi è davvero Giancarlo Pittelli. E giù un elenco di fatti e misfatti. Dimenticano però gli insigni giuristi, di nominare gli elementi –quelli previsti dal codice di procedura penale- sulla cui base ritengono che l’imputato debba tornare alla custodia in carcere.

Gratteri si accanisce contro Pittelli: non gli bastano due anni e mezzo di torture, senza prove lo vuole ancora in prigione

Lo dovranno spiegare in quell’udienza del 22 marzo, se ritengono che il legale fosse in procinto di espatriare piuttosto che di ripetere ossessivamente (reiterare, dice l’articolo 274) quell’annusamento dell’aria mafiosa che è il “concorso esterno”, oppure di inquinare le prove con la sua grafomania. Solo questo dovranno motivare, non i racconti di vita dell’imputato. Ma c’è di più, anche la scelta della data un po’ puzza, cari procuratori. Tanto da indurre la protesta della Camera penale di Catanzaro. Ma come, dicono gli avvocati del capoluogo calabro, quando i ricorsi li facciamo noi ci fate aspettare sei mesi, se invece impugna il procuratore, una trentina di giorni è sufficiente? Un esempio di applicazione quotidiana della parità accusa-difesa nel mitico processo accusatorio.

Allo squillo del “trombettiere” procuratore ha immediatamente risposto quello del sindacato Anm, che spesso si comporta non solo come un partito, ma proprio come un partito leninista fortemente ideologicizzato. Basta del resto pescare a piene mani nel libro Il Sistema (grazie, Palamara) per trovare le perle degli assalti a Berlusconi piuttosto che a Salvini. E il dottor Cascini, la cui firma vediamo oggi tra quelle del Csm che chiedono la pratica a tutela del procuratore Gratteri, è forse un omonimo di colui che da segretario dell’Anm (sempre quella) un giorno disse: «La maggioranza di centrodestra non ha legittimazione storica, politica e culturale e anche morale per affrontare la riforma della giustizia»?

Il secondo squillo dunque al sindacato-partito, sezione Calabria, che ha tentato di infilzare il direttore del Riformista Piero Sansonetti, accusandolo di essere “aggressivo”. Come se invece accanirsi sui corpi delle persone, sottoponendole, oltre che alla violenza del processo, anche alla tortura del carcere fosse un bel mestiere di pacificatori. Ma c’è poco da protestare. Perché è un dato di fatto, come ha scritto il direttore, che, dopo tutte queste “lotte” della procura di Catanzaro, con maxiprocessi e conferenze stampa, la ‘ndrangheta, pur con tutte le sue trasformazioni, è più viva che mai, in Calabria e altrove. Se il sindacato delle toghe si offende per questa realtà, forse vuol dire che i suoi esponenti non sono poi così bravi a “lottare”. Forse se facessero invece il proprio dovere, che è quello di individuare i responsabili, quelli veri, dei reati, senza le fanfare dei maxiprocessi, dell’uso salvifico dei reati associativi che tutto contengono e a pochi risultati portano, magari la realtà calabrese sarebbe un po’ più bonificata.

Ma non si sentiva per niente la necessità del terzo squillo, quello romano di Area. Che tristezza, dottor Cascini (mi rivolgo alla sua esperienza anche di ex sindacalista) sentir parlare ancora, come ai tempi in cui Cossiga mandò i carabinieri al Csm che voleva pronunciarsi contro Craxi, di «…aggressioni personali nei confronti di magistrati da anni impegnati nel contrasto al crimine organizzato». Che comporterebbero il rischio di «delegittimare complessivamente l’azione della magistratura e dello Stato in un territorio difficile come la Calabria». Siamo ancora alla “delegittimazione” dell’intera Casta se appena appena ne tocchi uno? Suvvia, dottor Cascini, con la sua esperienza….

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Giustizia, Anm: «Csm tuteli il lavoro di Gratteri». Ma gli avvocati insorgono. Il Quotidiano del Sud il 24 Febbraio 2022.

La giunta sezionale dell’Associazione nazionale magistrati di Catanzaro ha espresso «solidarietà» al procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e ha chiesto «un intervento del Consiglio Superiore della Magistratura a tutela del Procuratore, che da decenni vive sotto scorta per il lavoro che svolge in Calabria contro l’’ndrangheta e i suoi favoreggiatori».

La posizione è stata assunta, come spiegato in una nota, «con riferimento all’articolo pubblicato sul quotidiano Il Riformista, dal titolo “Gratteri si accanisce contro Pittelli: non gli bastano due anni e mezzo di torture, senza prove lo vuole ancora in prigione” a firma di Piero Sansonetti».

La giunta sezionale dell’Anm evidenzia che «non sono accettabili, pur nella libertà di critica, le affermazioni in esso contenute, che si traducono in un’aggressione verbale violenta nei confronti del Procuratore della Repubblica di Catanzaro, a fronte di un atto legittimo, quale la proposizione di un appello avverso un’ordinanza di sostituzione di una misura cautelare, atto firmato da tutti i colleghi titolari del procedimento cosiddetto Rinascita-Scott».

«L’autore del suddetto articolo – prosegue la nota – attaccando ripetutamente, con frasi offensive e non veritiere, il Procuratore dott. Nicola Gratteri, esprime altresì, in maniera non fraintendibile, l’idea che esista un collegamento tra la carriera in magistratura del Procuratore Nicola Gratteri e la crescita dell’’ndrangheta: con l’obiettivo di delegittimare il lavoro di un magistrato, al contrario, quotidianamente impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, lotta condotta attraverso gli strumenti dell’ordinamento giudiziario».

La Giunta ritiene «non accettabile la campagna pressoché quotidiana portata avanti da ‘Il Riformista’ contro il Procuratore di Catanzaro».

La posizione della Camera Penale

La posizione di Pittelli continua a creare, comunque, diversità di vedute. La Camera Penale “Alfredo Cantafora” di Catanzaro ha espresso «sorpresa» e «allarme» per quella che definiscono una «disparità di trattamento tra accusa e difesa registrate nella fissazione degli appelli cautelari al Tribunale di Catanzaro». L’intervento arriva in relazione all’udienza, già fissata per marzo, per l’esame dell’appello presentato dall’Ufficio di Procura avverso l’ordinanza che ha allentato i vincoli cautelari all’ex avvocato Giancarlo Pittelli.

In una missiva indirizzata al presidente del tribunale ordinario di Catanzaro, Rodolfo Palermo, e al presidente della seconda sezione Filippo Aragona, il presidente e il segretario della camera penale, gli avvocati Valerio Murgano e Francesco Iacopino, ricordano che Giancarlo Pittelli «è stato scarcerato a metà febbraio. Dunque, anche a voler ritenere “immediata” la presentazione del gravame da parte del P.M., il decreto di fissazione dell’udienza risulta emesso -eccezionalmente- nei

10 giorni dal deposito dell’appello e la relativa trattazione fissata insolitamente nei 20 giorni successivi. Si tratta di una tempistica totalmente disallineata rispetto ai ritmi di lavoro ai quali il Tribunale ci ha abituati».

Murgano e Iacopino ricordano che «gli appelli cautelari presentati dai difensori sono soggetti a intervalli temporali – quanto alla fissazione delle Udienze per la trattazione dei relativi ricorsi (senza considerare, poi, le ulteriori tempistiche per la decisione, a volte superiore ai due mesi) – di molto più dilatati. Ad oggi, risultano in attesa di fissazione appelli delle difese – si badi, in favore di soggetti sottoposti alla misura di massimo rigore – presentati a settembre 2021 e, dunque, pendenti da oltre sei mesi. Detta corsia preferenziale per gli appelli del requirente, allora, che la vicenda Pittelli ha portato in emersione, provoca disorientamento e stupore».

Giustizia lumaca ma non per Gratteri: corsia preferenziale per il procuratore contro Pittelli. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 27 Febbraio 2022. 

Da un bel documento della Camera Penale di Catanzaro apprendiamo l’ennesimo, sconcertante capitolo della vicenda giudiziaria che vede protagonista l’avv. Giancarlo Pittelli. Il prestigioso professionista calabrese, si sa, è da quasi due anni privato della sua libertà personale, in quanto prima indagato ed ora imputato nella famosa inchiesta “Rinascita Scott” alla quale il Procuratore Nicola Gratteri ha già assegnato pubblicamente, ben prima ed anzi a prescindere dalle future sentenze, la funzione catartica e palingenetica di liberazione e riscatto della intera Calabria, se non dell’intero meridione.

Per ragioni che prima o poi dovremo finalmente comprendere, l’avv. Pittelli è trattato, processualmente parlando, alla stregua di un super boss ‘ndranghetistico (pur avendo da subito la Corte di Cassazione escluso la sua intraneità all’associazione). Egli si trova risucchiato nella vicenda da quell’autentico buco nero che è il famigerato concorso esterno, meccanismo infernale particolarmente allarmante, come tutti possono comprendere, se costruito intorno alla attività professionale di difensore di alcuni dei personaggi di vertice della cosca. Dunque Bad’e Carros, cioè forse il più duro penitenziario italiano, per poco meno di un anno, poi arresti domiciliari sorvegliatissimi. Pittelli un bel giorno decide di scrivere una lettera ad una Ministra della Repubblica, supplicandola di aiutarlo in una vicenda che egli rappresenta all’antica collega di partito come una ingiusta persecuzione.

Se quella lettera l’avesse scritta dal carcere, nessuno avrebbe potuto obiettare alcunché; è all’ordine del giorno che i detenuti che si dichiarino vittime di persecuzioni giudiziarie si rivolgano, supplici, alle “Autorità”, chiedendo attenzione ed aiuto. Ma poiché scrive quella lettera dal domicilio, dove ha il divieto assoluto di comunicazione, e viene scoperto (su segnalazione della Ministra!), il Tribunale, su richiesta della Procura, lo rispedisce in cella. Dopo due mesi, lo stesso Tribunale accoglie l’istanza difensiva di restituzione di Pittelli ai domiciliari (meglio tardi che mai). Ma la Procura di Catanzaro non molla l’osso, ed impugna quel provvedimento: Pittelli merita solo il carcere preventivo, per tutto il tempo (una enormità di tempo) che la legge consente. Ma c’è una notizia nella notizia, che basta da sola a fotografare il contesto giudiziario nel quale questa incredibile vicenda si va dipanando, e che è ben colta dagli amici della Camera Penale catanzarese.

L’udienza di trattazione dell’appello proposta dalla Procura di Catanzaro è stata fissata un mese dopo il deposito della impugnazione (16 febbraio il deposito, 22 marzo l’udienza). Bene, direte voi, giustizia celere, non c’è che da compiacersi. Ed io sarei senz’altro d’accordo, se questa tempistica riguardasse tutti gli appelli in materia cautelare, sia quelli proposti dall’Accusa che quelli proposti dalle difese. Senonché, non è affatto così. I Colleghi catanzaresi ci informano che mediamente la fissazione di una udienza di appello avverso un provvedimento cautelare oscilla tra i quattro ed i sei mesi dalla sua presentazione. Non solo non ho motivo di dubitare di questa informazione, ma aggiungo che essa è in linea con la media nazionale. Mentre infatti le udienze di riesame delle misure cautelari appena emesse devono per legge celebrarsi entro dieci giorni dal pervenimento degli atti, gli appelli contro i successivi dinieghi delle istanze di revoca, non essendo presidiati da termini di decadenza, si aggirano un po’ ovunque in Italia intorno a quei tempi: dai quattro ai sei mesi.

Dunque la domanda che pone la Camera Penale di Catanzaro è molto semplice. E poiché le domande semplici su vicende di questa vitale rilevanza democratica e costituzionale -la parità delle armi tra Accusa e Difesa, la equità e la imparzialità della Giustizia, il diritto al giusto processo- meritano risposte altrettanto semplici ed immediate, io la ripeto e la rilancio: perché questo atto di appello del Procuratore Gratteri contro la restituzione dell’avv. Pittelli dal carcere agli arresti domiciliari ha potuto godere di una così inusitata corsia preferenziale? Quali regole, quali protocolli, quali direttive hanno trovato applicazione, in questo caso, da parte del Tribunale della Libertà di Catanzaro?

Poiché non possiamo pensare, ci rifiutiamo di pensare che quel Tribunale possa coltivare l’assurda, scandalosa idea che una impugnazione dell’Accusa valga più di una impugnazione della difesa, è ovvio che debba esserci una spiegazione, legata a criteri chiari, predeterminati ed oggettivamente riscontrabili, che colpevolmente la Camera Penale di Catanzaro e tutti noi ignoriamo. Ecco dunque l’occasione per renderla nota a tutti noi. Attendiamo fiduciosi, signor Presidente del Tribunale della Libertà di Catanzaro. Fiduciosi e fermamente intenzionati a ripetere la domanda, in tutte le opportune sedi, fino a quando non ci sarà data risposta. Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane

A rischio i domiciliari. Non finisce il calvario di Pittelli: l’avvocato torna in tribunale, i Pm lo vogliono in cella. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Sarà in tribunale nella giornata di oggi Giancarlo Pittelli, attualmente in detenzione domiciliare, ma con il rischio di dover tornare in carcere, dopo il ricorso, firmato da ben quattro pm della direzione antimafia, tra cui il capo della procura di Catanzaro Nicola Gratteri, che lo rivogliono prigioniero in una cella. Come se non bastasse quel che l’avvocato calabrese ha già sofferto in questi due anni e mezzo, prima nel carcere speciale di Badu ‘e Carros, in Sardegna, poi a casa, poi ancora in un istituto di massima sicurezza a Melfi, in Basilicata, fino a uno sciopero della fame estremo che lo ha infine rimandato a casa.

E intanto continua, con la raccolta di ormai quasi tremila firme, la campagna promossa dal suo ex compagno di scuola, l’instancabile Enrico Seta, che si è trasformata in manifestazione contro un certo uso della custodia cautelare e in difesa dei sei referendum sulla giustizia. A un banchetto dove si distribuivano volantini a Roma si è anche presentato a firmare un signore inglese che ha dichiarato di essere Banksy e di essere solidale in quanto lui stesso sarebbe infastidito e “attenzionato” dalla magistratura italiana. Chissà? Il tribunale cui si presenta oggi Pittelli dovrebbe, in teoria, decidere semplicemente se sussistono i requisiti previsti dal codice di procedura penale che giustifichino la detenzione in carcere, che sono sempre i soliti tre –pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato – e che in questo caso sono proprio inesistenti. Anche perché il processo Rinascita Scott, in cui Pittelli è imputato, è in corso da tempo, le prove, ci siano o meno, sono tutte lì sul piatto, l’idea che l’ex parlamentare possa scappare è semplicemente ridicola e il timore che possa ripetere il reato, anche. Soprattutto perché il reato di cui deve rispondere davanti al tribunale nell’aula bunker di Lamezia Terme è quell’evanescenza che si chiama concorso esterno in associazione mafiosa. E come si fa a ripetere un’evanescenza?

La verità è che Giancarlo Pittelli non dovrebbe essere neppure ai domiciliari, che sono pur sempre una forma di detenzione. Avrebbe tutto il diritto a essere processato da uomo libero. Nei giorni prossimi potrebbe esserci un’istanza dell’avvocato Stajano (uno che non si arrende), che assiste Pittelli insieme al collega Contestabile. Ma è difficile lottare contro i mulini a vento. Perché, nel ricorso presentato dalla procura al tribunale perché rimetta le manette ai polsi dell’avvocato, l’aspetto delle esigenze cautelari è totalmente trascurato. Si scrivono invece pagine e pagine per descrivere la personalità dell’imputato. E si tirano conclusioni, quasi fosse già una sentenza. Di condanna, naturalmente. È palesemente messo in discussione il suo ruolo di avvocato. Avvocato penalista in una regione del sud, la Calabria. È molto chiaro che questa tipologia di magistrati, in particolari quelli “antimafia”, soffre tantissimo l’esistenza del legale al fianco dell’imputato. Il loro ideale è un prigioniero nelle loro mani, possibilmente incline alla collaborazione dopo aver assaggiato un po’ di 41 bis in qualche carcere speciale. Gli esperimenti effettuati a Pianosa e Asinara negli anni 1992-93 sono stati esemplari.

Tra le contestazioni di cui deve rispondere l’avvocato Pittelli alcune sono tra il paradossale e il fantascientifico. Si concentrano sul fatto che il rapporto legale-cliente, nel caso di Luigi Mancuso, pare essere troppo confidenziale. Per esempio, i due si danno del “voi” invece che del “lei”, e poi l’avvocato Pittelli si dà da fare per un bambino della famiglia del suo assistito forse malato di leucemia, e ancora si offre di dare una mano alla figlia nella facoltà di medicina. E persino consiglia a un gregario di Mancuso un’enoteca dove trovare un certo buon vino. E’ chiaro che in tutto ciò non c’è nessun reato, ma il tutto serve a dare un quadro del “tipo d’autore”, il mafioso “esterno”.

Ma ci sono poi le intercettazioni su questioni più concrete. Per esempio basate sul sospetto che il legale faccia un po’ da passaparola tra mafiosi, che legga carte coperte dal segreto, che faccia soffiate. Ma non tutto quadra. Una volta perché viene aggiunto un avverbio là dove non dovrebbe essere: “io non posso dargli consigli perché non sappiamo che cosa dirà il pentito”, diventa “non sappiamo ANCORA”, come se si attendesse di sbirciare il verbale secretato.

Un’altra volta perché si allude a un altro collaboratore di giustizia e alle sue accuse nei confronti del fratello, di cui comunque la stampa aveva già parlato. Insomma, pare tutto se non pretestuoso, almeno approssimativo. E sarebbe scandaloso se il tribunale, dopo l’udienza di oggi, non confermassi i domiciliari per Pittelli. E poi, nei giorni successivi e dopo l’istanza dei difensori, non decidesse che questo imputato per reato evanescente possa esser mandato a processo da uomo libero. Almeno questo. Se lo chiede anche Bansky…

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pittelli in Tv, la Dda sentirà giornalisti e operatori di “Studio Aperto Mag”. La puntata andata in onda il 22 febbraio mostra l’avvocato, ristretto ai domiciliari, mentre conversa con due estranei delle sue vicende processuali. Alessia Truzzolillo il 02/03/2022 su Il Corriere della Calabria.  

LAMEZIA TERME Una telecamera che riprende dal basso, due persone sull’uscio di un appartamento che fanno domande e un uomo che si mantiene sulla soglia e conversa, risponde alle domande. Sono queste le immagini andate in onda nella prima puntata di “Studio Aperto Mag” dedicata alla ‘ndrangheta e su queste riprese la Dda di Catanzaro vuole vederci chiaro. Perché l’uomo che resta sull’uscio e parla con i due interlocutori è Giancarlo Pittelli, imputato nel maxi processo Rinascita-Scott con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e detenuto in regime di arresti domiciliari. Secondo le norme, Pittelli non dovrebbe avere contatti con persone diverse da quelle con le quali convive.

Come si vede in video le riprese sono state fatte dal basso. Non è chiaro come sia stato avvicinato il penalista catanzarese e questo i magistrati intendono appurarlo. L’unica cosa che appare certa è che Pittelli ha aperto la porta e si è fermato a conversare di argomenti inerenti il suo processo.

Nei prossimi giorni la Dda di Catanzaro sentirà gli operatori – e anche il giornalista Klaus Davi sarà essere interrogato venerdì quale persona informata sui fatti – su come è stato realizzato il servizio e su come siano andate le cose. Anche il video verrà acquisito dai magistrati nella sua versione integrale. La prima puntata di “Studio Aperto Mag” è andata in onda il 22 febbraio. I giornalisti arrivano sull’uscio della casa di Pittelli che parla del suo rapporto con la famiglia del boss Luigi Mancuso, dell’aiuto che avrebbe dato alla figlia del capocosca che non riusciva a superare un esame a medicina. Gli chiedono se faceva da tramite tra Mancuso e la politica. «Ma la cosa bella – risponde Pittelli – è che io avrei detto a Mancuso un qualcosa che si sarebbe verificato due mesi dopo». Lo scorso 7 dicembre Giancarlo Pittelli – che si trovava ai domiciliari – si è visto aggravare la misura cautelare da parte del Tribunale di Vibo Valentia in seguito a una lettera che aveva spedito al ministro per il Sud Mara Carfagna nella quale chiedeva: «Aiutami in qualunque modo». Violazione dei domiciliari. Il 9 febbraio lo stesso Tribunale di Vibo ha revocato la misura cautelare in carcere, ripristinando i domiciliari, affermando che «il tempo trascorso dal momento della riapplicazione della massima misura custodiale, nonché il complessivo comportamento dell’imputato possono far esprimere, allo stato un giudizio prognostico favorevole di resipiscienza di Pittelli in punto di futuro rispetto delle prescrizioni sullo stesso gravanti». Ma la Dda di Catanzaro ha proposto appello al Tribunale del Riesame di Catanzaro contro questa decisione adducendo diverse motivazioni: il Tribunale di Vibo Valentia ha deciso sulla scarcerazione di Giancarlo Pittelli «senza nemmeno attendere l’intero decorso dei “due giorni successivi” previsti (…) affinché l’Ufficio del Pubblico ministero esprima il suo parere; la lettera alla Carfagna nella quale «affermava di essere a conoscenza del fatto di non poter avere rapporti di corrispondenza con alcuno, ma si rivolgeva egualmente al ministro» che sarebbe stato invitato «a contattare la moglie» dell’ex parlamentare: «Le tue telefonate come ben sai sono tutelate dall’articolo 68, anche se… talvolta qualcuno se ne dimentica»; la truffa dei diamanti; i fondi societari distratti. L’udienza davanti al collegio del Riesame è prevista per il prossimo 22 marzo. E la “chiacchierata” con i due estranei potrebbe gravare ulteriormente sulle motivazioni della Dda di Catanzaro per chiedere, davanti al Tdl, la custodia cautelare in carcere per Giancarlo Pittelli. 

Fermate la Procura di Catanzaro! Gratteri si accanisce contro Pittelli: non gli bastano due anni e mezzo di torture, senza prove lo vuole ancora in prigione. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Febbraio 2022. 

La Procura di Catanzaro ha impugnato l’ordinanza del tribunale di Vibo Valentia che concedeva gli arresti domiciliari all’avvocato Giancarlo Pittelli. La Procura chiede che Pittelli torni in cella. Non lo molla, lo vuole in ceppi. Vivo o morto. Ho scritto “la Procura”, ma subito traduco: Gratteri. Sì, di nuovo lui. Indomito. Il Procuratore capo di Catanzaro. Il giorno prima il magistrato aveva incassato senza neanche sollevare il sopracciglio la sberla dell’assoluzione di Mimmo Tallini, ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, che era stato messo ai domiciliari un paio d’anni fa e poi trascinato nella melma con infamanti accuse, anche se già dall’ordine d’arresto persino un bambino avrebbe capito che contro di lui non c’era niente di niente di niente.

Era stato Gratteri a ottenere dal Gip il permesso di arrestare Tallini e poi di mandarlo a giudizio. Conferenze stampa, dichiarazioni, passaggi in Tv. Molta gloria, molti applausi da giornali e media. Anche dai politici. Persino Salvini si spellò le mani. Credo che noi del Riformista fummo tra i pochi a difenderlo. E lui, Tallini, rovinato, distrutto, politicamente finito. Perché? Diciamo, con gentilezza, per un errore dei magistrati. Di Gratteri e del Gip. Del Gip non si conosce neanche il nome, di Gratteri sì. E lui è contento che si conosca, e non disdegna mai un comizio in Tv. Ha una capacità rara di prendere spaventosi schiaffoni senza conseguenze né pratiche e neppure morali. Reagisce sorridendo. Pensate a quella volta che fece arrestare 200 persone in una sola notte, a Platì (circa il 10 per cento della popolazione) e poi alla fine di tutti i processi otto furono condannati (a pene lievi). Gli altri 192 risultarono innocenti. Subì qualche graffio la carriera di Gratteri? Macché, solo inviti in Tv a spiegare come si combatte la ‘ndrangheta, e lezioni agli studenti, e premi vari. Infine la promozione a Procuratore di Catanzaro. E intanto la ndrangheta, che quando lui iniziò il suo lavoro in Calabria era una piccola associazione criminale, cresceva cresceva, fino ad essere considerata, oggi, la mafia più potente del mondo.

Ora c’è la caccia a Pittelli. Lo hanno accusato di essere l’anello di congiunzione tra ‘ndrangheta ufficiale e zona grigia. Sulla base di qualche indizio concreto, prova, testimonianza attendibile? No, sulla base di nulla. Di una ipotesi. Che poi l’ipotesi è questa: se Pittelli, in quanto avvocato, spesso difende i mafiosi, probabilmente è mafioso anche lui. Tutto qui. È la vecchia idea che l’avvocato, in fondo, è correo. E che forse sarebbe meglio, per alcuni reati gravi, negare il diritto alla difesa. Disse una volta Gratteri: i tavoli della difesa, in aula, sono troppo vicini a quelli degli imputati…. E infatti le accuse specifiche contro Pittelli, che portarono al suo arresto a Natale 2019, son cadute una dopo l’altra. È rimasta l’accusa quadro, ma è un quadro vuoto. L’accusa cioè di concorso esterno in associazione mafiosa. A qual fine? A nessun fine. Con quali riscontri? Nessun riscontro. Giusto qualche intercettazione di seconda mano. Per esempio quella nella quale un presunto mafioso, che era intercettato col troian, dice alla moglie: “qui abita Pittelli”. E la moglie risponde: “è mafioso”. L’intercettazione viene considerata dagli inquirenti come chiara prova di colpevolezza.

Poi gli avvocati chiedono di sentirla perché non si fidano della trascrizione. E si accorgono che è stata trascritta male. La moglie non aveva detto: “è mafioso”. ma aveva chiesto: “è mafioso?” Nella trascrizione – che disdetta! – era saltato il punto interrogativo. Ed era saltata anche la risposta del presunto mafioso. Che diceva alla moglie: “no, non è mafioso, è avvocato”. Una prova a discarico, che avrebbe dovuto chiudere l’inchiesta su di lui, ma che fu trasformata in prova a carico. Grazie a una “piccola” manipolazione. E chi paga? Paga lui. Pittelli. Un anno a Badu ‘e Carros, vicino a Nuoro, nel carcere dei terroristi e dei killer di mafia, lontanissimo, quasi irraggiungibile dai suoi familiari e persino dagli avvocati, poi un po’ di domiciliari, poi di nuovo in carcere a Melfi, sempre in un istituto di massima sicurezza. Hai visto mai che Pittelli finisca per accoppare un po’ di agenti, faccia saltare un muro con la dinamite e fugga in mare con un motoscafo veloce fino ai Caraibi?

Pittelli per uscire dalla prigione di Melfi aveva iniziato uno sciopero della fame. Lungo, pericoloso. Aveva anche smesso di prendere le medicine. Aveva detto: “vado fino in fondo, fino alle estreme conseguenze”. Era partita una raccolta di firme a suo favore. Alla fine il tribunale aveva ceduto e aveva deciso di rimandarlo a casa. Da qualche giorno l’avvocato Pittelli stava riprendendosi, anche se le condizioni della sua salute restano preoccupanti. Ma Gratteri non molla. Lo vuole in carcere. Ormai è un fatto personale. Interverranno le autorità per fermarlo? Il Csm, il ministro, gli ispettori, Draghi, qualcuno? O lo Stato Italiano lascerà questo suo cittadino nella mani dei suoi persecutori? Lascerà che muoia torturato, senza processo, senza accuse, senza prove?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L’avvocato e parlamentare Giancarlo Pittelli, imputato nel processo Rinascita Scott, è stato rimandato dal carcere di Melfi agli arresti domiciliari. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 13 febbraio 2022.

L’Avvocato Giancarlo Pittelli, imputato nel processo Rinascita Scott, di essere la cinghia di trasmissione tra la ndrangheta da un lato e massoneria e politica dall’altro, è stato rimandato dal carcere di Melfi agli arresti domiciliari.

Nei giorni scorsi, molti cittadini anche lontanissimi dal mondo politico di Pittelli – si sono mobilitati in suo favore.

Anzi, ed è bene chiarire, si sono mobilitati affinché Pittelli possa essere giudicato in un giusto processo come conviene in uno Stato di diritto. Anche se è sempre più difficile che ciò avvenga.

Pittelli era stato rispedito in carcere per aver scritto una lettera, da uomo disperato e sconfortato, alla ministra Mara Carfagna che un tempo era stata sua amica. La risposta è stata la consegna della lettera alla polizia e non perché contenesse reati ma solo perché la pietà è morta.

Dopo tre mesi di carcere, l’ex senatore viene ‘ perdonato’ e rimandato ai domiciliari perché, i giudici, hanno espresso ‘ un un giudizio prognostico favorevole alla resispiscenza dell’imputato’. Non saprei dire su cosa si basi tale giudizio prognostico ma, aldilà della volontà dei giudici, il linguaggio, freddo e burocratico, non può non ricordare le ‘ autocritiche’ degli imputati nei processi staliniani, o i ‘ percorsi rieducativi’ nei campi di Pol Tot. Un uomo non dovrebbe mai essere costretto a rinnegarsi per uscire dal carcere. Se ha sbagliato può essere punito ma non umiliato.

Inoltre nel provvedimento dei giudici si prescrive che l’imputato: «Non potrà allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura cautelare anche verso pertinenze in assenza di previa autorizzazione di questa AG e non potrà comunicare con alcun mezzo, anche telefonico e o telematico con persone diverse da quelle che con lui coabitano e lo assiston».

Si dice che dinanzi al Giudice le parti devono confrontarsi ad armi pari. Un duello leale.

In verità l’imputato dovrà combattere con le mani legate dietro la schiena dal momento che è lecito supporre che, dopo aver trascorso tredici mesi di carcere, Pittelli sarà costretto a seguire l’intero dibattimento rinchiuso in pochi metri quadri, svegliato nella notte, dall” assiduo controllo della polizia’, senza alcuna possibilità di fare ricerche o confronti per dimostrare la propria innocenza.

Arriverà alla sentenza prostrato, umiliato, impaurito, confuso.

L’accusa invece potrà muoversi liberamente ed arrivare alla requisitoria finale baldanzosa, e sicura. Tra l’altro, perché non corre rischi. Si dice che Pittelli sia un imputato privilegiato e credo sia sostanzialmente vero dal momento che si tratta di un professionista affermato, con una salda rete di relazioni sociali, già senatore della Repubblica.

Certamente succede molto di peggio quando nelle maglie della ‘ giustizia’ cade una persona fragile. Soprattutto se innocente ed i dati oggettivi e crudi sulla ingiusta detenzione ci dicono che in Calabria ciò succede molto più che altrove. Il fine che la procura di Catanzaro si prefigge con questo processo monstre è quello di indebolire la ndrangheta.

Ma da quanto finora abbiamo visto lecito supporre che il risultato sarà diverso anzi opposto. In terra di ndrangheta, soprattutto perché tale, si dovrebbe rispondere al ‘ delitto’ col il rigoroso rispetto del Diritto. Quando al presunto ‘ delitto’, tutto da dimostrare, si risponde col sopruso, l’arbitrio e la giustizia sommaria la partita è persa e, non a caso, la ndrangheta è più forte oggi rispetto a ieri.

Concessi gli arresti domiciliari all'ex parlamentare Pittelli. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 9 Febbraio 2022.

Il Tribunale penale di Vibo Valentia ha concesso di nuovo gli arresti domiciliari all’avvocato e ex parlamentare di FI Giancarlo Pittelli, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e imputato chiave del maxi processo Rinascita per il suo presunto ruolo di cerniera tra massoneria e ‘ndrangheta.

E’ stata accolta l’istanza dei difensori, gli avvocati Salvatore Staiano e Guido Contestabile.

Per il collegio presieduto da Danila Romano «il tempo trascorso dall’applicazione della massima misura custodiale nonché il complessivo comportamento dell’imputato possono far esprimere, allo stato, un giudizio prognostico favorevole di resipiscenza di Pittelli in punto di futuro rispetto delle prescrizioni sullo stesso gravanti».

Come si ricorderà, la Dda di Catanzaro aveva disposto la custodia in carcere rilevando un aggravamento delle esigenze cautelari poiché Pittelli aveva inviato una lettera al ministro per il Sud Mara Carfagna «in violazione del divieto di interlocuzione con soggetti terzi da quelli con lui conviventi».

Pittelli potrà lasciare il carere di Melfi e tornare nella sua abitazione. Nei giorni scorsi avevano rivolto un’interrogazione al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, i parlamentari Riccardo Magi, Enza Bruno Bossio e Roberto Giacchetti.

Pittelli dal 12 gennaio aveva avviato lo sciopero della fame. In suo favore è stata lanciata una raccolta di firme che ha raccolto 1500 adesioni tra cui quelle di 30 parlamentari.

Pittelli vince la battaglia e torna a casa. Fabrizio Boschi l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Dopo un mese di sciopero della fame. Era finito in cella per una lettera.

Forse il più bel compleanno della sua vita. L'ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, arrestato nel dicembre 2019 nell'ambito dell'inchiesta «Rinascita Scott» per presunti legami con la ndrangheta, torna ai domiciliari, dopo che gli erano stati revocati l'8 dicembre scorso per aver scritto una lettera di aiuto alla sua amica ed ex collega Mara Carfagna.

Nel giorno del suo 69esimo compleanno lascia il carcere di Melfi (Potenza), torna a casa a Catanzaro e riabbraccia la moglie Ketti e la figlia Gaetana. Non esce da libero, come sarebbe stato giusto, dopo due anni e due mesi di custodia cautelare. Ma esce, comunque, da quella cella che lo stava pian piano uccidendo.

Il 12 gennaio, infatti, l'avvocato calabrese aveva iniziato uno sciopero della fame annunciando che sarebbe «andato fino in fondo». La moglie ci informa che ora «è felice ma stanco, ha perso 11 chili ma la sua salute è discreta. Stiamo sicuramente meglio a casa e soprattutto insieme, quindi formalmente è cambiato molto, ma sostanzialmente non è cambiato nulla perché Giancarlo è sempre detenuto da 26 mesi».

Se oggi è tornato a casa è anche grazie ai suoi vecchi amici e compagni di scuola, primo tra tutti Enrico Seta, presidente del comitato «Appello per Giancarlo Pittelli» che ha avuto il coraggio di mettere in discussione le intoccabili inchieste del procuratore Nicola Gratteri. Ha raccolto 1.900 firme in una settimana, tra cui quelle di 29 parlamentari: «Da Fdi al Pd, tutti i partiti si sono mobilitati, ad eccezione di M5s e Leu - spiega Seta - La nostra campagna dimostra che la partecipazione popolare non è un intralcio alla giustizia ma un aiuto e un rafforzamento dei principi che anche la giustizia deve rispettare».

Anche Giovanni Paolo Bernini, portavoce del comitato, che in passato ha subito una vicenda giudiziaria simile a quella di Pittelli, da cui ne è nato il libro Storie di ordinaria ingiustizia è colmo di gioia: «Mi piace pensare che il mio libro che gli ho inviato gli abbia portato fortuna. Non si può pensare che per una lettera si possa finire in carcere. Per inciso, nel dispositivo del tribunale si legge che se la lettera l'avesse firmata la moglie o un famigliare allora non sarebbe successo niente. Assurdo».

Tiziana Maiolo, ex deputata di Forza Italia e oggi editorialista del Riformista, che giorni fa aveva scritto al ministro Cartabia è felice: «La lettera è servita. Nessuno dovrebbe stare due anni in custodia cautelare. Ho un consiglio per Gratteri: faccia processi più piccoli e li chiuda in fretta invece di mettere in piedi maxiprocessi per il solo scopo di ottenere notorietà». Fabrizio Boschi

«Scarcerate Giancarlo Pittelli, affronti i processi da uomo libero». Il comitato presieduto da Enrico Seta chiede che a Giancarlo Pittelli venga revocata anche la misura dei domiciliari. «Ristretto da 26 mesi, ora basta». Il Dubbio l'11 febbraio 2022.

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«I cittadini devono poter nutrire fiducia e non diffidenza verso la Giustizia e l’Ordine giudiziario». Il Comitato promotore, presieduto da Enrico Seta, dell’appello per Giancarlo Pittelli, l’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia coinvolto nelle inchieste di ‘ndrangheta «Rinascita Scott» e «Mala Pigna» ed al quale sono stati concessi gli arresti domiciliari, riporta, in un comunicato, le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per chiedere che al penalista catanzarese venga restituita la «piena libertà».

«Pittelli – aggiunge il Comitato – ha già patito 26 mesi mesi di carcerazione preventiva in attesa di un processo che arriverà a sentenza chissà quando. Un’immagine infangata per due anni da alcuni media che, troppo spesso, non informano ma alimentano presunti scandali e gogne mediatiche. La demolizione di un uomo è un obiettivo di giustizia o è l’opposto della giustizia? La società civile sta dimostrando, con il nostro movimento spontaneo, di reagire ad una ferita che è stata recata non solo a Giancarlo Pittelli, ma all’intero tessuto sociale che vive di relazioni pacifiche e non traumatiche, costruite nel tempo e basate sulla fiducia e la stima. La revoca da parte del Tribunale di Vibo Valentia della precedente ordinanza di arresto e il rientro ai domiciliari rappresentano un risultato importante per Giancarlo Pittelli, per i suoi avvocati e per i tanti cittadini che vogliono “poter nutrire fiducia” nella giustizia. Ma dopo 26 mesi Pittelli ha il pieno diritto di affrontare il processo da uomo libero e non ristretto. Non esiste alcun motivo ragionevole perché questo non avvenga».

Non c’è solo Pittelli: quelle migliaia lasciati nell’inferno del carcere preventivo. Un detenuto su tre aspetta il processo in cella. Ieri il suicidio di una giovane in carcere, 48 ore dopo l’arresto. Ora tocca alla politica parlarne. Simona Musco su Il Dubbio l'11 febbraio 2022.

Manuela Agosta aveva solo 29 anni. E ieri la sua vita è terminata in una cella del carcere di Messina/Gazzi, dove si è impiccata a meno di 48 ore dall’arresto, avvenuto nell’ambito di un blitz antidroga. Era accusata di concorso in spaccio e ieri, dopo l’interrogatorio di garanzia, ha arrotolato le lenzuola della sua branda e messo fine alla propria vita. Il suo è solo l’ultimo di una serie di casi che certificano l’urgenza di affrontare una discussione seria sulle misure cautelari, che in alcuni casi si trasformano in un’anticipazione ingiusta di una pena che tante volte non sarà inflitta.

Col paradosso di averla scontata ancor prima che il processo possa escluderne la necessità. La storia di Manuela si intreccia a quella di Giancarlo Pittelli, ex deputato di Forza Italia, imputato per concorso esterno nel maxiprocesso Rinascita-Scott, che proprio ieri ha lasciato il carcere di Melfi, dove era tornato a seguito della lettera scritta dai domiciliari alla ministra Mara Carfagna e dopo aver trascorso, in precedenza, un lungo periodo dietro le sbarre. Per lui, la politica e la società civile si sono mobilitate in massa, riaprendo il dibattito sull’abuso delle misure cautelari ed evidenziando una sproporzione tra le condizioni di salute del penalista e la misura adottata. Un dibattito che il Parlamento dovrebbe però affrontare in maniera seria, se non vuole apparire come un corpo che difende solo se stesso, perché sono migliaia i Pittelli dimenticati sui quali nessuno si interroga.

I dati alla mano sono chiari: l’Italia è il quinto Paese in Europa per tasso di detenuti in custodia cautelare. Un detenuto ogni tre, dunque, aspetta il processo privato della libertà, nella maggior parte dei casi in carcere. E come testimonia l’ultima relazione annuale del ministero della Giustizia sulle misure cautelari, tale scelta risulta ingiusta una volta su 10. Dato che raddoppia se alle assoluzioni si sommano i casi in cui, a prescindere dall’esito del processo, le misure cautelari potevano essere evitate, essendo facilmente prevedibile, sin dalla genesi dell’inchiesta, la concessione della sospensione condizionale: è capitato in 4.548 casi. «Se a questo dato si aggiunge quello delle ingiuste detenzioni – l’ultima statistica fa riferimento a circa 1.000 in un anno, quindi circa 3 al giorno, tenendo conto solo di coloro che hanno chiesto il risarcimento – si comprende che il ricorso alla custodia cautelare, molte volte rappresenta un vero e proprio abuso», ha sottolineato dalle colonne di questo giornale Riccardo Polidoro, co-responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane.

A sostenere questa tesi non ci sono, però, soltanto gli avvocati: «Purtroppo è vero, in Italia si abusa della custodia cautelare, spesso al di fuori del dettame costituzionale degli articoli 13 e 27 della nostra Carta fondamentale, quelli che parlano dell’inviolabilità della libertà personale e della non colpevolezza fino a sentenza definitiva», disse pubblicamente, tempo fa, Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani Pulite, oggi convinto pure che il carcere vada abolito. E anche secondo l’ex giudice della Consulta Sabino Cassese, «se ne fa un uso eccessivo, e questo è un sintomo di un possibile uso abusivo o distorto». Di diverso parere, invece, il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita, secondo cui «se teniamo conto della pericolosità media delle persone che vi sono sottoposte – spiega al Dubbio – non vedo abusi nell’utilizzo della custodia cautelare nel nostro paese. D’altra parte la percentuale così alta di detenuti non definitivi è dovuta a due fattori. Da un lato vi sono i tempi del processo: se fossero più brevi li porterebbero ad assumere prima la veste di condannato (da noi sono considerati in attesa di giudizio anche i condannati in appello fino al giudizio di Cassazione). Dall’altra parte vi è la oggettiva necessità di impedire la commissione di nuovi reati che – delle tre ipotesi che legittimano la custodia cautelare – è quella più rilevante. Dunque trovo molto improbabile che anche in caso di vittoria del referendum si possa rinunciare alla custodia cautelare senza provocare una grave reazione dei cittadini, che verrebbero privati di ogni difesa sociale anche rispetto a reati gravi e di elevato motivo di allarme».

In attesa di un serio dibattito politico, infatti, il tema è al centro di uno dei quesiti referendari presentati dal Partito radicale insieme con la Lega, quesiti che martedì 15 febbraio arriveranno al plenum della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi, come sempre, sulla ammissibilità. Quello relativo alla custodia cautelare non intaccherebbe la carcerazione preventiva per chi commette reati gravi, ma abolirebbe la possibilità di procedere alla privazione della libertà in ragione di una possibile “reiterazione del medesimo reato”, la motivazione utilizzata più di frequente e «molto spesso senza che questo rischio esista veramente». Insomma, il momento è arrivato. Ma la politica dovrebbe superare il timore del populismo e assumersi la responsabilità di fare il proprio mestiere.

Una busta con minacce di morte e un proiettile a Mara Carfagna. su Il Quotidiano del Sud l'8 Febbraio 2022.

Una busta contenente minacce di morte e un proiettile indirizzata al ministro per il Sud Mara Carfagna. La notizia, che circolava da alcuni giorni senza riscontri, troverebbe conferma in un articolo pubblicato dal sito Linkiesta.

Nel testo è contenuto il racconto della “corrispondenza” intrattenuta dall’avvocato ed ex senatore calabrese Giancarlo Pittelli, attualmente in carcere nell’ambito della maxi inchiesta “Rinascita Scott”, con amici e parlamentari.

Il ministro del Sud era infatti tra i destinatari delle lettere con richieste di aiuto di Giancarlo Pittelli e proprio quell’appello inviato alla “vecchia amica” – secondo Linkiesta una raccomandata con ricevuta di ritorno indirizzata alla Camera – aveva provocato la violazione del regime degli arresti domiciliari e il conseguente ritorno in carcere dell’ex senatore.

La missiva arrivata alla segreteria di Mara Carfagna alla Camera sarebbe stata aperta e vagliata dalla sicurezza in virtù di “misure di sorveglianza molto stringenti” messe in atto per la “specifica esposizione al rischio” del ministro azzurro: pochi giorni prima infatti – scrive Linkiesta – all’indirizzo di Carfagna era “stata recapitata una busta contenente minacce di morte con un proiettile”.Pittelli finalmente fuori dal carcere: «Può tornare ai domiciliari». Accolta la richiesta di scarcerazione dell'ex parlamentare di Forza Italia, rispedito in cella dopo la lettera appello a Mara Carfagna. Simona Musco su Il Dubbio il 10 febbraio 2022.

Torna a casa Giancarlo Pittelli, ex deputato di Forza Italia e penalista, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott. Pittelli si trovava da oltre due mesi in carcere, dopo aver scritto una lettera indirizzata alla ministra per il Sud Mara Carfagna, alla quale chiedeva aiuto.

Un appello fuori dalle regole, disperato, che si era rivelato un boomerang, data la scelta della ministra di consegnare la missiva all’Ispettorato di Pubblica sicurezza di Palazzo Chigi, che ha dunque inviato il tutto alla Questura di Catanzaro. Da lì l’intervento della Dda guidata da Nicola Gratteri, che aveva chiesto e ottenuto una misura più dura, rafforzando la propria idea di avere a che fare con un uomo che agisce consapevolmente al di fuori delle regole. Le giudici del Tribunale di Vibo Valentia Gilda Danila Romano, Germana Radice e Francesca Loffredo hanno accolto la richiesta dei difensori dell’ex parlamentare, Guido Contestabile e Salvatore Staiano, che hanno evidenziato le precarie condizioni di salute del penalista, da giorni in sciopero della fame contro accuse da lui definite «folli».

Nella decisione, le giudici hanno evidenziato che «il tempo trascorso dal momento della riapplicazione della massima misura custodiale nonché il complessivo comportamento dell’imputato possono far esprimere, allo stato, un giudizio prognostico favorevole di resipiscenza del Pittelli in punto di futuro rispetto delle prescrizioni sullo stesso gravanti», motivo per cui può «ritenersi che le esigenze cautelari derivanti dalle contestazioni formulate nei confronti dell’imputato possono essere utilmente fronteggiate con la misura cautelare degli arresti domiciliari». Rimane il divieto di comunicazione «con alcun mezzo, anche telefonico o telematico con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono». Pittelli potrà comunque partecipare alle udienze del processo Rinascita-Scott «libero e senza scorta».

L’ex parlamentare era stato arrestato il 19 dicembre 2019, misura poi sostituita dagli arresti domiciliari dal Riesame. Una nuova ordinanza di custodia cautelare nell’ambito dell’inchiesta “Mala Pigna” lo fece però finire nuovamente in carcere il 15 novembre scorso, salvo poi la revoca della misura il successivo 7 dicembre. Ma la lettera indirizzata alla ministra lo aveva fatto finire di nuovo a Melfi, dove aveva dunque iniziato la sua protesta. Al suo fianco si sono schierate centinaia di persone, che hanno aderito all’iniziativa lanciata dal “Comitato promotore dell’appello per Giancarlo Pittelli”, presieduto dell’ex penalista Enrico Seta. L’appello aveva superato le 1500 firme, tra le quali si contano anche quelle di 25 parlamentari. Nei giorni scorsi, inoltre, il penalista aveva ricevuto in carcere la visita del Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, che lo aveva invitato a interrompere la sua protesta.

Tregua alla persecuzione giudiziaria. Scarcerato Giancarlo Pittelli, l’avvocato calabrese ai domiciliari: era in sciopero della fame. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

Dal carcere agli arresti domiciliari. Nel giorno del suo 69esimo compleanno l’avvocato Giancarlo Pittelli lascia la casa circondariale di Melfi e torna nella propria abitazione a Catanzaro. Il Tribunale di Vibo Valentia, presieduto dal giudice Gilda Maria Romano, ha accolto l’istanza dei legali dell’ex senatore di Forza Italia, in sciopero della fame dal 12 gennaio scorso, coinvolto, con l’accusa di concorso esterno, in una indagine della procura di Catanzaro ancora lontana da una sentenza di primo grado.

Pittelli, arrestato nel dicembre 2019 nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita Scott” per presunti legami con il clan della ‘ndrangheta Pieromalli del Vibonese, viene scarcerato dopo gli appelli lanciati dal Riformista, (che ha scritto anche una lettera alla ministra della Giustizia Marta Cartabia) e da amici e compagni di scuola, oltre alla mobilitazione dei deputati Riccardo Magi, Roberto Giachetti e Enza Bruno Bossio che hanno presentato un’interrogazione con cui chiedono al ministro un’ispezione presso gli uffici giudiziari di Catanzaro.

Per il caso Pittelli si è mosso anche Mauro Palma,  garante nazionale delle persone private della libertà, che aveva deciso di andare personalmente a trovare l’avvocato calabrese nei prossimi giorni.

Pittelli potrà raggiungere la sua abitazione a Catanzaro “libero e senza scorta”.

Lo scorso dicembre 2021 l’ex senatore di Forza Italia era tornato in cella, dopo un periodo ai domiciliari. Trasferito nel carcere di massima sicurezza di Melfi dopo aver scritto una lettera alla ministra Mara Carfagna nella quale parlava male di Gratteri. 

Lucio Musolino per “il Fatto quotidiano” il 9 febbraio 2022.

Il processo al processo. Giornalisti, avvocati, politici, aspiranti politici, sardine, ex ministri, ex europarlamentari, addirittura 25 senatori e deputati in carica e finanche registi come Tinto Brass ed ex calciatori come Beppe Signori. 

Hanno sottoscritto l'appello per la scarcerazione dell'avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, imputato per concorso esterno con la 'ndrangheta nel maxi processo "Rinascita-Scott", istruito dal procuratore Nicola Gratteri e dal pool della Dda di Catanzaro. 

C'è pure un comitato promotore presieduto dall'ex penalista Enrico Seta. Sono state raccolte già 1500 firme a difesa dell'ex senatore calabrese accusato di avere rapporti con la cosca Mancuso. Ottenuti i domiciliari, Pittelli è tornato in carcere a dicembre perché, per il Tribunale di Vibo Valentia, ha violato le prescrizioni imposte inviando una lettera a Mara Carfagna per chiederle aiuto.

La missiva è poi finita all'attenzione della polizia anche perché pochi giorni prima la ministra aveva ricevuto un plico contenente minacce di morte e un proiettile e le misure di sicurezza attorno alla sua corrispondenza erano state rafforzate. 

Le adesioni sono trasversali. Immancabili quelle di chi "non lo ha mai abbandonato" come il giornalista Piero Sansonetti (che sul Riformista ha più volte descritto Pittelli come un "sequestrato") e Vittorio Sgarbi. Gli "amici di Pittelli" però sono tanti: dal condannato Totò Cuffaro a Francesco Storace passando per gli ex ministri Maurizio Lupi (Noi con l'Italia) e Valeria Fedeli (Pd).

E poi molti parlamentari in carica: Roberto Giachetti (Italia Viva), Renata Polverini (Forza Italia), Enza Bruno Bossio (Pd), Manfredi Potenti (Lega), Renzo Tondo (Forza Italia), Salvatore Margiotta (Pd), Pietro Pittalis (Fi), Ylenia Lucaselli (FdI), Federico Mollicone (FdI), Catello Vitiello (Italia Viva), Fiammetta Modena ( FI ) e Manuela Gagliardi (Coraggio Italia). Tra i nomi c'è pure quello della sardina Jasmine Cristallo.

Per tutti la carcerazione di Pittelli, oggi in sciopero della fame, "appare ingiustificabile e soprattutto non coerente con alcuni dei principi cardine dello Stato di diritto e della Costituzione". "Per questo - si legge nell'appello - manifestiamo pubblicamente e ribadiamo all'avvocato Giancarlo Pittelli gli immutati sentimenti di rispetto, affetto ed amicizia e opponiamo resistenza a ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto l'isolamento della persona e l'inaridimento delle relazioni sociali e affettive".

Che ci fa in carcere l’avvocato Pittelli? Basta con gli abusi della custodia! Giancarlo Pittelli ha iniziato lo sciopero della fame dopo la decisione del tribunale di Vibo Valentia di revocare i domiciliari a seguito di una lettera inviata al ministro Mara Carfagna. Simona Giannetti (AVVOCATO, CONS. GENERALE PARTITO RADICALE) su Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

La storia è quella di un appello che hanno firmato per ora oltre 1.500 persone, a sostegno della denuncia di una ingiusta carcerazione preventiva: appello che chi scrive ha già firmato. Si tratta della vicenda dell’avvocato Giancarlo Pittelli, un noto penalista di Catanzaro anche ex parlamentare azzurro. Quando fu arrestato nel 2019, a pochi giorni da Natale, venne spedito in carcere in Sardegna, dove rimase in isolamento per dieci mesi in esecuzione di un’ordinanza di oltre 13 mila pagine sull’indagine “Rinascita Scott”.

La notizia è che, dopo essere stato mandato agli arresti domiciliari, nel dicembre scorso Giancarlo Pittelli rientrava di nuovo in carcere, perché ritenuto responsabile della consapevole “violazione delle prescrizioni impostegli” del divieto di colloquiare o comunicare con le persone che con lui non coabitavano. Era accaduto che avesse malauguratamente deciso di abbandonarsi alla disperazione, inviando una lettera alla Ministra Mara Carfagna. Oggi è in carcere a Melfi; anche sottoposto a un lungo digiuno che non vuole interrompere. La lettera fu consegnata dalla Ministra non appena ricevuta: contiene una richiesta di ascolto disperata, oltre che alcune considerazioni personali su prove dedotte a suo carico.

Al di là del merito dell’imputazione, viene spontaneo chiedersi quanto, nei termini dell’extrema ratio della custodia cautelare in carcere, una lettera di disperazione e anche magari di rivendicazione della propria innocenza possa bastare per sottoporre nuovamente a carcerazione l’imputato in attesa di giudizio. E’ l’annosa questione degli abusi della custodia cautelare in carcere, che fa dell’Italia un Paese pluricondannato dalla Cedu quando ebbe il primato europeo per detenuti non definitivi con il 51% nel 2008 e il 42% nel 2010. Lo schiaffo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’art 5 della Convenzione non ci è servito a molto.

Nel caso di Pittelli, da indagato fu incarcerato in Sardegna per dieci mesi a migliaia di chilometri di distanza dal suo giudice naturale, senza incontrarlo al suo interrogatorio di garanzia: ma non ci stupiamo, perché è l’ordinamento che prevede che l’interrogatorio avvenga per rogatoria, come se fosse più importante risparmiare le spese di viaggio, che non dare voce a chi è stato violato nel suo diritto fondamentale della libertà personale oltre che di difesa. Insomma, questa è la misura delle cose. Nelle nostre celle il 30% dei detenuti è ancora in attesa di giudizio: la complicità dell’abitudine italiana ai processi troppo lunghi trasforma il carcere in un’anticipazione di pena, non senza l’epilogo del noto sovraffollamento.

Non solo, negli ultimi anni il legislatore, anziché prevedere un’amnistia, si è premurato di aumentare le pene di parecchi reati, cosi da far loro raggiungere la soglia che consente l’applicazione del carcere in via preventiva. E’ certo che il tema della custodia cautelare inevitabilmente impatti con i grandi temi della Giustizia, dai processi che non finiscono in tempi ragionevoli, alle ingiuste detenzioni fino al sovraffollamento in carcere. E’ la sicurezza sociale la leva, che fa da alibi per trasformare la misura cautelare in una pena a tutti gli effetti. Però la notizia è che l’appello per la vicenda dell’avvocato Pittelli, comparso per primo sulle pagine de Il Riformista, sia stato sottoscritto da avvocati, giornalisti, politici e cittadini: su Il Dubbio di questa settimana sono apparsi anche i nomi di alcuni dei 26 parlamentari firmatari, che sono di ogni schieramento – eccetto quello del Movimento 5 stelle. Non solo.

C’è un’altra buona notizia: tra pochi giorni, il 15 febbraio prossimo, la Corte Costituzionale si occuperà di decidere sull’ammissibilità, tra gli altri, dei 6 quesiti del referendum Giustizia giusta promosso dal Partito Radicale con la Lega. Uno di questi quesiti, non a caso, affronta proprio il tema degli abusi della custodia cautelare in carcere. L’intervento mira ad abrogare quella parte dell’art 274 del codice di procedura penale, che prevede la possibilità di applicare la misura cautelare per il caso in cui ci sia stata “reiterazione del medesimo reato”.

Si tratta di una piccola ma grande riforma che attiene alla volontà di avvicinare il nostro ordinamento alla Giustizia giusta: il quesito infatti si muove nella stessa direzione dei recenti interventi normativi, anche sollecitati dalle Alte Corti internazionali, che hanno imposto al nostro Paese di dare riconoscimento effettivo al principio della presunzione di non colpevolezza.

Il garante dei detenuti incontrerà l'avvocato. Il dramma di Giancarlo Pittelli, dopo l’appello del Riformista si muove la politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Salvo miracoli, i sessantanove anni Giancarlo Pittelli li compirà domani nel carcere di Melfi. Non avrà una torta per festeggiare, soprattutto perché da oltre un mese è in digiuno per protestare contro una custodia cautelare in carcere che pare non finire più. Ma nei giorni successivi incontrerà Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà. Perché la mobilitazione degli amici e compagni di scuola e la nostra lettera alla ministra Cartabia hanno smosso qualcosa e qualcuno di molto importante.

La guardasigilli si è mostrata da subito sensibile al nostro richiamo. I deputati Riccardo Magi, Roberto Giachetti e Enza Bruno Bossio hanno presentato un’interrogazione con cui chiedono al ministro un’ispezione presso gli uffici giudiziari di Catanzaro. Altri parlamentari hanno aderito all’appello promosso da Enrico Seta e gli amici di Giancarlo Pittelli. Sono ancora pochi (una trentina, di cui molti di Forza Italia), ma il fatto è di per sé significativo, visti i tempi. Ma soprattutto si è mosso Mauro Palma, che ha deciso di andare personalmente a trovare l’avvocato calabrese nei prossimi giorni, non solo per una sua particolare sensibilità che ha sempre dimostrato nel corso degli anni, ma anche perché la Regione Basilicata non ha mai emanato la legge istitutiva dell’ufficio locale del Garante. La bandiera nera è condivisa solo con la Liguria (coraggio, governatore Toti) e la Sardegna, che ha la legge ma non ha mai nominato nessuno a prendersi cura dei diritti di chi sta nelle prigioni.

Non sono particolari insignificanti, perché, come i fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno dimostrato, tenere un faro acceso dentro le carceri vuol dire anche aiutare la costruzione di rapporti civili e sereni tra i prigionieri e gli agenti di polizia penitenziaria. Da questo punto di vista, il carcere di Melfi non presenta un quadro rassicurante. Nel 2020, dopo le rivolte, furono trasferiti proprio qui alcuni detenuti in arrivo da Foggia, che era stata l’epicentro delle proteste. E ci furono denunce di pestaggi, come se ai nuovi arrivati fosse stato riservato una sorta di comitato di benvenuto a suon di manganellate. L’inchiesta finì con l’archiviazione, anche se lo stesso pm aveva dovuto ammettere che la testimonianza del medico rivelava lesioni “compatibili” con le botte. Ma si sa che con i “travisamenti” le identificazioni dei singoli agenti responsabili sono difficili.

Per questo Palma ha da tempo proposto che ogni casco, di quelli usati dagli agenti per le perquisizioni, abbia un numero, e che esista un registro con nomi e cognomi degli addetti alle perquisizioni. Il ministero per ora ha risposto picche, anche se ha garantito l’installazione di telecamere interne a partire dal 2024. Tra due anni! E intanto? Poiché sappiamo che sia la ministra Cartabia che il sottosegretario Sisto hanno una particolare sensibilità al problema della violenza tra le mura carcerarie, non ci resta che attendere, insieme al garante, un “ravvedimento operoso” da parte loro. Almeno sui tempi. È proprio da questo tipo di prigioni, ci dice Mauro Palma, che si misura la condizione delle nostre carceri.

Sarà quindi un caso il fatto che Giancarlo Pittelli sia stato spedito prima a Badu ‘e Carros (Nuoro) e poi a Melfi? Non vicino alla famiglia e ai difensori dunque, e neanche in luoghi aperti e visibili come gli istituti nelle grandi città come Roma e Milano. Il che comporta non solo lesioni al diritto di difesa dell’imputato, ma anche vere vessazioni sulla persona fisica. Ed è proprio con la mortificazione del corpo, con il digiuno, che oggi l’avvocato catanzarese sta rispondendo, anche se sa di essere un piccolo Davide contro il Golia rappresentato dalla forza dello Stato. Quello con il volto arcigno. La risposta della politica ha i nomi prima di tutto dei deputati Riccardo Magi (più Europa) e Roberto Giachetti (Italia viva), che interrogano il ministro con una ricostruzione puntualissima di tutta la vicenda giudiziaria, e anche di una trentina di parlamentari che hanno firmato l’appello degli amici di Pittelli. Le questioni a questo punto sono due.

La prima, quella che comporta la salute e l’incolumità fisica del detenuto in sciopero della fame e in lunga detenzione cautelare: vogliamo lasciare che Pittelli vada avanti “fino alla fine” nel suo digiuno, e che nessun giudice si vergogni di tenere in prigione uno che è “evaso” dai domiciliari scrivendo una lettera al ministro? Ma l’altra questione, altrettanto importante, è quella processuale. La gogna, prima di tutto, e la costante violazione del segreto investigativo. L’interrogazione di Magi, Giachetti e Bruno Bossio lo sottolinea in vari passaggi. Siamo sicuri che la ministra risponderà con puntualità su questo punto. Non dimentichiamo le sue parole, quando ha parlato di “stigmatizzazione sociale” come pena. Pittelli ne sta subendo fin troppa.

Ma ci sono anche fatti più gravi, denunciati nell’interrogazione, come il forte sospetto di manipolazione della trascrizione di intercettazioni e captazioni. Per non parlare di una vera omissione di atti d’ufficio. Che fine ha fatto l’esposto dell’ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini, che aveva ricevuto nel gennaio 2020, cioè poco dopo il blitz “Rinascita Scott”, in cui l’avvocato Pittelli avanzava una denuncia circostanziata nei confronti di un magistrato di Catanzaro? Il dottor Lupacchini si era rivolto alla procura di Salerno, competente sulle toghe catanzaresi, ma nulla era successo. Tutte domande cui qualcuno dovrà presto rispondere, perché la congiura del silenzio è stata finalmente rotta. E per un prigioniero il silenzio e l’isolamento equivalgono a una condanna a morte.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il doppio racconto. Lo strano caso della lettera dell’ex senatore Pittelli a Mara Carfagna. L'Inkiesta l'8 Febbraio 2022.

È stata descritta come una corrispondenza privata, in realtà era una raccomandata con ricevuta di ritorno indirizzata alla Camera, sottoposta a esame anche a causa di alcune minacce subite dal Ministro. Che finisse alla polizia era ovvio. La scelta dell’ex politico è stata incauta, ma l’accanimento nei suoi confronti è reale. 

C’è un doppio racconto nel caso dell’avvocato ed ex senatore Giancarlo Pittelli, in carcere da tempo prima per la maxi-inchiesta denominata “Rinascita Scott” e poi per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (un traffico di rifiuti gestito dal clan Piromalli).

Il racconto Numero Uno è noto: Pittelli è finalmente ai domiciliari; si protesta vittima di un’ingiusta persecuzione giudiziaria; scrive una o più lettere a amici e parlamentari sfidando il divieto di comunicare all’esterno; una di quelle lettere (indirizzata al ministro del Sud Mara Carfagna) finisce su un tavolo della polizia e quindi alla procura di Catanzaro. La Procura, il 12 dicembre scorso, chiede e ottiene dal tribunale di Vibo Valentia il ritorno di Pittelli in carcere. Ora c’è un pubblico appello perché torni a casa: sono state già raccolte oltre 1.300 firme trasversali alla politica e alle professioni.

L’altro racconto, quello meno noto – anzi nient’affatto noto – riguarda i fatti a monte della richiesta di arresto. Oltre le campagne di una parte dei media, oltre la consueta formula del “secondo quanto si apprende”, mai è stato precisato il reale andamento delle cose, che peraltro lavorandoci un po’ sarebbe stato possibile ricostruire secondo verità fin dall’inizio.

Pochi sanno (o hanno scritto) che la lettera di Pittelli non era una lettera personale a una vecchia collega parlamentare ma una raccomandata con ricevuta di ritorno, inviata alla Camera: quindi un documento formale che come tale è stato aperto e vagliato. Arriva sul tavolo della segreteria di Mara Carfagna in un momento particolare (e anche questa è notizia nuova): pochi giorni prima è stata recapitata una busta contenente minacce di morte con un proiettile e di conseguenza la sicurezza ha dettato misure di sorveglianza molto stringenti, anche tenendo conto della specifica esposizione al rischio di un ministro del Sud.

La regola dice che ogni messaggio fuori dall’ordinario, ogni corrispondenza potenzialmente sospetta, deve essere trasmessa direttamente all’Ispettorato di polizia. La lettera di Pittelli risponde senz’altro alle caratteristiche indicate, visto tra l’altro che fin dalla terza riga – «non potrei avere rapporti di corrispondenza con nessuno» – auto-dichiara un illecito. È ovvio che le pagine finiscano alla polizia, così come ogni altra precedente e successiva comunicazione fuori dal canone.

È questa la genesi della vicenda che riconduce la lettera in Calabria dove diventerà il casus belli di un nuovo arresto di Pittelli e al tempo stesso sarà usata per costruire una trama senza fondatezza sulla catena di eventi precedenti e sul ruolo del ministro.

Il racconto Numero Uno, strada facendo, sarà irrobustito da un giornalismo più incline al commento (talvolta all’invettiva) che al ragionamento sui fatti, e scarsamente consapevole della doppiezza che spesso contengono vicende giudiziarie così ostinate e complesse, il cui senso spesso sfugge persino ai suoi protagonisti e vittime.

Autorità politiche, parlamentari, potenti in genere, sono spesso i destinatari di preghiere di aiuto trasmesse in tanti modi, talvolta ascoltate e talvolta cestinate. Mai si era visto, tuttavia, un appello inoltrato con una raccomandata con ricevuta di ritorno, un tipo di comunicazione impossibile da associare a una richiesta confidenziale. Mai soprattutto si era visto agire così un esperto avvocato, di sicuro consapevole del fatto che un ministro è anche pubblico ufficiale, ha doveri precisi davanti a una lettera formale che lo stesso firmatario qualifica come atto illecito già alle prime parole. Fondato il dubbio sulla natura di quel messaggio, ovvio tutto ciò che ne è seguito.

L’accanimento di cui paga il prezzo Giancarlo Pittelli è fuor di dubbio, così come – a guardare le cose nella prospettiva giusta – è infondata la ricerca di un capro espiatorio “esterno” ai meccanismi giudiziari.

Altri dettagli di questo doppio racconto resteranno misteriosi o forse li scopriremo solo strada facendo come spesso avviene quando un’inchiesta diventa una vicenda-simbolo, dove più che le pagliuzze bisogna guardare le travi: in questo caso la trave di una carcerazione preventiva senza fine che ha schiantato l’esistenza di un avvocato settantenne, nell’arco di quindici anni, attraverso tre inchieste senza mai una condanna.

Pittelli in sciopero della fame, si mobilita il Garante dei detenuti. Mauro Palma si recherà nel carcere di Melfi per incontrare l'ex deputato di Forza Italia dopo quasi un mese di digiuno. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, incontrerà nei prossimi giorni Giancarlo Pittelli e gli chiederà di sospendere lo sciopero della fame. Lo si apprende da una nota inviata ieri alla stampa: il Garante «venuto a conoscenza del peggioramento delle condizioni di salute» dell’uomo, «detenuto presso il carcere di Melfi, e in sciopero della fame ormai da quasi un mese, ha contattato l’Amministrazione penitenziaria e ha deciso di recarsi a Melfi per avere un’interlocuzione con Pittelli e con le autorità sia sanitarie che penitenziarie locali.

La sua situazione è presa in carico e monitorata dal Garante e la visita avverrà entro questa settimana». Mauro Palma dichiara «il proprio impegno per trovare in tempi rapidi, insieme alle autorità competenti, soluzioni in grado di garantire l’assoluta tutela della salute nel pieno rispetto delle esigenze di giustizia e auspica che Giancarlo Pittelli sospenda il suo sciopero della fame, in attesa dell’imminente incontro». Su quali possano essere le soluzioni, non è possibile dire nulla al momento. Pittelli, rispedito dai domiciliari in carcere dopo la lettera-appello alla Ministra Mara Carfagna, aveva iniziato dal 13 gennaio uno sciopero della fame molto pericoloso per lui, in quanto condotto in stato di detenzione e in una condizione fisica e psicologica di profonda prostrazione, causata da due anni di carcerazione preventiva.

È accusato di vari reati collegati alla ‘ndrangheta ed è imputato nel maxiprocesso Rinascita Scott, in corso a Lamezia Terme, e nato da una inchiesta di Nicola Gratteri. A fine gennaio, per sostenere Pittelli, è partito un appello contro la sua carcerazione preventiva, lanciato dalle pagine del Riformista e di Spraynews. Nell’appello, sottoscritto ad oggi da circa 1500 persone, non si esprime un parere sull’inchiesta in cui è rimasto coinvolto Pittelli ma si osserva che «una così lunga carcerazione preventiva, cioè senza che l’imputato sia sottoposto a un regolare processo, ai nostri occhi come a quelli di una sempre più larga fetta di opinione pubblica, appare ingiustificabile e soprattutto non coerente con alcuni dei principi cardine dello Stato di diritto e della Costituzione».

Nell’appello, sottoscritto da avvocati, politici, giornalisti, semplici cittadini si legge ancora: «assistiamo, impotenti allo sconvolgente scadimento dello stato psicofisico di Giancarlo Pittelli a causa della lunga carcerazione preventiva, condizione questa che gli impedisce di poter concentrare tutte le energie nella propria difesa. Non vogliamo che a questo si aggiunga una lesione della sua immagine e un impoverimento delle relazioni costruite in una vita: ciò non ha nulla a che vedere con il rigore nella lotta alla criminalità ma rappresenta solo un regresso civile e sociale che nessuna persona libera può accettare. Per questo motivo manifestiamo pubblicamente e ribadiamo all’avvocato Giancarlo Pittelli gli immutati sentimenti di rispetto, affetto ed amicizia e opponiamo resistenza ad ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto l’isolamento della persona e l’inaridimento delle relazioni sociali e affettive». Alcuni tra i promotori hanno anche iniziato uno sciopero della fame a staffetta «che cesserà solo quando Giancarlo Pittelli sospenderà la sua protesta estrema».

Ma il primo febbraio lo stesso Pittelli, tramite sua moglie, dopo un colloquio telefonico, aveva chiesto agli amici di sospendere il digiuno: «Vi abbraccio e vi chiedo di smettere lo sciopero della fame che state facendo per me», ribadendo tuttavia che «il suo proposito di continuare la protesta ‘fino alla fine’ rimane fermo». Il nostro Stato di Diritto vuole davvero correre il rischio di far morire di fame un presunto innocente in carcerazione preventiva? Ricordiamo che al 31 gennaio 2022 i reclusi in attesa di primo giudizio sono 8700, a cui si aggiungono 7600 condannati non definitivi: il 30 per cento di tutta la popolazione carceraria. Il comitato promotore, tramite Umberto Baccolo, ha risposto all’iniziativa di Palma: «Bene la decisione del Garante dei diritti dei detenuti di visitare Giancarlo Pittelli a Melfi. L’interruzione dello sciopero della fame è il primo passo. Ma noi continueremo la nostra campagna fino a che Giancarlo Pittelli non tornerà, da uomo libero, a difendersi dalle accuse che gli vengono mosse».

Tra i firmatari dell’appello, oltre a diversi esponenti del Partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino, anche 26 parlamentari di tutti gli schieramenti, tranne che del Movimento Cinque Stelle: Vittorio Sgarbi, Riccardo Magi, Roberto Giachetti, Maurizio Lupi, Enza Bruno Bossio, Guido Pettarin, Renzo Tondo, Salvatore Margiotta, Manfredi Potenti, Paola Binetti, Fausto Raciti, Valeria Fedeli, Luca Squeri, Renata Polverini, Pietro Pittalis, Ylenia Lucaselli, Federico Mollicone, Catello Vitiello, Marco Perosino, Chiara Gribaudo, Franco Dal Mas, Fiammetta Modena, Enrico Aimi, Manuela Gagliardi, Mirella Cristina, Claudia Porchietto. L’ex deputata Tiziana Maiolo ha anche rivolto un appello alla ministra Marta Cartabia: «Le sto lanciando un grido d’allarme su un detenuto in attesa di giudizio. Cerchiamo di salvarlo».

L'appello. Caso Pittelli, Liguori: “Magistratura innervosita per la troppa attenzione della società civile”. Redazione su Il Riformista il 7 Febbraio 2022. 

Il direttore del Tgcom Paolo Liguori, durante la trasmissione di “Fatti e Misfatti” in onda lunedì 7 febbraio, è intervenuto sul caso dell’avvocato Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare che da oltre due anni è privato della libertà a seguito di un’inchiesta giudiziaria ancora lontana da una sentenza di primo grado. Dal 12 Gennaio Pittelli ha iniziato, comunicandolo con una lettera al direttore del Riformista, uno sciopero della fame, affermando la volontà di “lasciarsi morire”.

Nel corso della puntata, Liguori, sottolineando la presenza di errori nella carta dell’accusa, ha detto: “Abbiamo il diritto e il dovere di intervenire quando una persona è in carcere”. Nel lanciare la campagna firme (appelloperpittelli@gmail.com) per la scarcerazione dell’avvocato, il direttore del Tgcom ha evidenziato come certa magistratura sia preoccupata dall’attenzione della società civile sui casi giudiziari: “L’idea che una persona anche nel carcere possa radunare attorno al suo caso una fetta di opinione pubblica innervosisce”.  In studio con Liguori anche Tiziana Maiolo, scrittrice e giornalista de Il Riformista, e Giovanni Paolo Bernini, portavoce del Comitato “Appello per pittelli”.

Maiolo, attraverso il Riformista, ha lanciato un invito alla ministra della Giustizia Marta Cartabia per intervenire sul caso che riguarda Pittelli, “impegnato in un digiuno totale che intende portare ‘fino alla fine’, come scrive nelle lettere alla famiglia, con un’amarezza piena di rassegnazione che non ricorda neanche lontanamente la persona che era, avvocato brillante e politico accorto. Cioè personaggio svantaggiato, secondo la filosofia di certi pubblici ministeri, pronti al massimo di comprensione nei confronti di chi “ha rubato una mela”, ma vendicativi verso chi indossa la toga sbagliata, cioè quella del difensore e sprezzanti nei confronti dell’esponente politico, certi come sono che abbia rubato ben più di una mela”.

Come sottolineato in più occasioni dal direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti, sono state raccolte “circa 750 firme di solidarietà in pochissime ore, che dimostra l’interesse di una parte di società a queste problematiche“. Ma a queste problematiche, sentenzia il direttore, “non si interessa l’establishment, né quello politico, né quello giudiziario”.

La mentalità dell’abuso. Giancarlo Pittelli e la natura delatoria di una giustizia da rifare. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 3 Febbraio 2022.

A prescindere dall’esito del processo dell’interessato (che non c’entra), la ministra Carfagna che consegna alla polizia la lettera-sfogo del collega e le teorie cospirazioniste di chi guida l’indagine sollevano interrogativi e dubbi

Che Giancarlo Pittelli, prima del processo che deve accertarne la responsabilità, sia stato messo e rimanga in galera per effetto di una specie di delazione di una ministra che gira agli sbirri l’implorazione con cui il detenuto la pregava di interessarsi al suo caso, e in forza di cure giudiziarie assicurate da una procura della Repubblica al cui vertice siede un magistrato che scrive prefazioni a libri di autori responsabili della divulgazione di teorie neonaziste, rappresenta una cornice non tecnica, ma per il resto oscenamente significativa, della giustizia che comanda quella detenzione. 

La società che affida a un parlamentare, per giunta ministro, di rappresentare la nazione, e ai magistrati il potere di accusare e giudicare i cittadini, ha il diritto di sorvegliare il profilo e i comportamenti di questi funzionari pubblici, e di denunciarne l’inadeguatezza a prescindere dal fatto che essi si siano tenuti nel perimetro della legge.

La notizia, non smentita dall’interessata, secondo cui l’onorevole Mara Carfagna avrebbe consegnato alla forza pubblica la lettera che le aveva spedito Pittelli, e che ha determinato l’ulteriore imprigionamento dell’indagato, non descrive un abuso perseguibile di quella passacarte, ma un suo gesto a dir poco irrispettabile senz’altro sì.

E così il fatto che sia la procura calabrese a perseguitare quel detenuto, di per sé, non destituisce l’indagine di legittimità formale, ma i cittadini che assistono all’esercizio di questo tipo di giustizia hanno il diritto, e forse il dovere, di ricordare che a capitanarla è chi considera “fisiologica” una certa aliquota di innocenti carcere, e che l’indagine in cui è coinvolto Pittelli costituisce il compimento della “rivoluzione” annunciata da quel procuratore a margine del rastrellamento di trecentocinquanta persone, molte delle quali poi liberate per la semplice e tremenda ragione che non esistevano motivi che ne giustificassero l’arresto: una “rivoluzione” – ricordiamolo – che nell’intendimento di quel magistrato avrebbe dovuto smontare e rimontare un pezzo di Paese come un giocattolo.

Che, poi, un magistrato di elevatissimo rango, oltretutto abituato a interferire pesantemente nel dibattito pubblico, faccia comunella editoriale con gente responsabile non solo di un neo-scientismo trash rivolto a inquinare lo stato delle conoscenze sulle cause dell’epidemia (i vaccini «acqua di fogna»), ma responsabile inoltre di pubblici comportamenti che recuperano e ripropongono la più volgare e pericolosa narrativa antisemita (gli ebrei che hanno in mano «tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche e la grande finanza»), non dice nulla, appunto sul fronte tecnico, a proposito della condizione di chi sia vittima, come Pittelli, di quell’operazione giudiziaria: ma dice tutto sulla temperie civile e sull’assetto di potere che rende possibile una simile enormità, vale a dire che l’amministrazione della giustizia resti affidata a chi dia tal prova di sé, oltretutto in un tripudio di celebrazioni.

Lo ripetiamo a costo di apparire noiosi: qui non si discute delle responsabilità di Pittelli, di cui nulla sappiamo, né, per sé considerati, dei provvedimenti restrittivi che lo riguardano, per quanto essi sentano, e molto, di ingiustificata gravità e durata.

Si discute piuttosto del milieu delatorio da cui gemma questa presunta giustizia, e del volto civilmente discutibile che essa assume quando è impersonata da certuni.

L'appello per l'avvocato. Oltre 700 firmano per Pittelli: lezione della società civile di fronte alla violenza dello Stato. Piero Sansonetti, Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

Oltre settecento firme raccolte in due giorni, amici, conoscenti e sconosciuti. E una pagina intera con nomi e cognomi di avvocati. Tutti per lui. Senza timore a mostrarsi, con l’orgoglio di mettersi di fianco all’amico, al vecchio compagno di scuola, al collega magari neanche conosciuto. Di essere con lui mentre giace in un carcere e sta mettendo in gioco il proprio corpo con il digiuno. “…manifestiamo pubblicamente –scrivono in fondo all’appello- e ribadiamo all’avvocato Giancarlo Pittelli gli immutati sentimenti di rispetto, affetto ed amicizia e opponiamo resistenza a ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto l’isolamento della persona e l’inaridimento delle relazioni sociali ed affettive”.

Il punto centrale è tutto qui: Giancarlo Pittelli, costretto allo sciopero della fame dopo due anni di carcere preventivo, è ancora la persona intera di prima? Ha ancora l’integrità fisica e psicologica del brillante avvocato, del politico la cui vita era ricca di relazioni e di stima? E le sue amicizie, i suoi affetti, gli antichi rapporti sono ancora lì con lui, o si sono piano piano diradati per la paura che lui nel corso del tempo sia entrato a fare parte del mondo dei “cattivi”?

I promotori dell’iniziativa, vecchi amici e compagni di scuola, persone magari politicamente oggi lontane da lui, non hanno inteso stilare un manifesto contro la magistratura, né una difesa d’ufficio dell’imputato Pittelli. Piuttosto ci stanno mostrando un termometro che misura la temperatura di una società civile come quella della Calabria, lacerata dalla presenza pervasiva della criminalità organizzata, ma anche dalle iniziative altrettanto forti di una magistratura inquirente che affonda la spada piuttosto che curare.

Quando il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, al momento del suo insediamento, aveva promesso di “ricostruire la Calabria come un Lego”, chissà quanti cittadini avevano aperto gli animi alla speranza. Poi dall’ottimismo è stato breve il passo verso il dubbio, e poi la paura. Perché la forza dello Stato, per quanto ammantata di legalità, può essere violenta. Violento è il processo, soprattutto se diventa eterno, violento è il carcere, che pare costruito appositamente per diseducare, invece che reinserire. Ricostruire la relazione, ricucire lo strappo. Questo è quel che serve, oggi. In genere -è la teoria della giustizia riparativa tanto cara alla ministra Marta Cartabia– la rottura del patto sociale avviene a opera di chi commette il reato, di chi uccide, di chi rapina, di chi violenta. I “cattivi”. E spetta ai “buoni”, lo Stato, una buona amministrazione della giustizia, i buoni funzionari del carcere, aiutare il “cattivo” nel suo percorso che lo porti con animo e storia di vita ormai diversa verso la vittima, con una nuova relazione che giovi a entrambi. Ma come comportarsi quando lo strappo sociale avviene anche a opera di quelli che dovrebbero ricoprire sempre il ruolo dei “buoni”? Quando si usa la giustizia come una spada e non come l’ago e il filo che ricuciono, che riparano e restituiscono la vita anche dove si sta spegnendo?

Essere vicini a Giancarlo Pittelli oggi vuol dire prima di tutto rompere il suo isolamento. Dirgli che deve continuare a vivere. Manifestare, e anche protestare, perché non deve esistere una custodia cautelare lunga due anni e neanche il carcere prima del processo. E domandarsi a che cosa servano le prigioni, se non per umiliare l’individuo e mostrare la forza dello Stato. E soprattutto essere in tanti a dire che per lui, e per tutti gli altri, mai, mai, si deve operare la distruzione della reputazione. La difficoltà che all’inizio i suoi vecchi amici e compagni di scuola hanno avuto a rompere l’isolamento che sempre accompagna le iniziative della magistratura, quel dire e anche solo pensare “ma in fondo se l’hanno arrestato qualcosa avrà fatto”, indicano che in Calabria in questo momento c’è qualcosa che non va.

Anche gli inquirenti, anche il procuratore Gratteri dovrebbero riflettere su quello che c’è scritto sul manifesto per Giancarlo Pittelli. Perché è molto di più di un gesto di solidarietà nei confronti di una singola persona. È una voce corale che viene dalla società civile che ci dà una lezione esemplare.

La gran parte delle persone che hanno firmato non sa niente di processi, né di prove o indizi. Semplicemente si chiede se sia possibile che una persona che ha sempre goduto di stima e apprezzamento debba essere finita in un buco nero di carcere ed esserci rimasta per due anni senza che ancora ci sia stata una sentenza che ci spieghi che cosa ha fatto di male, che reati ha commesso. E perché ci sia questo clima di paura e di sospetto che lo tiene isolato dal suo mondo. Poi, se volessimo parlare delle imputazioni e delle (mancate) prove, noi che il processo lo conosciamo, dovremmo scrivere un altro documento. Per ora ci limitiamo ad accettare con gioia la lezione di questo pezzo di società calabrese, sperando che altrettanto facciano i veri “cattivi”, quelli che indossano la toga dei “buoni”.

Piero Sansonetti, Tiziana Maiolo

L'appello dei due direttori. Liguori e Sansonetti per Pittelli libero: “Noi non molliamo, vogliamo sapere perché è in prigione”. Redazione su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Il Riformista Tv prende il via. Il nuovo canale di informazione garantista parte con le voci libere dei direttori Piero Sansonetti e Paolo Liguori, impegnati in battaglie da cui i media generalisti si sottraggono. Nel trattare temi scomodi, come quelli della giustizia, i due responsabili del Riformista Tv partono dal caso dell’avvocato Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare che da oltre due anni è privato della libertà a seguito di un’inchiesta giudiziaria ancora lontana da una sentenza di primo grado.

“È un caso che brucia ed è terribile“, afferma il direttore Liguori raccontando la terribile vicenda di Pittelli, che sta osservando lo sciopero della fame per opporsi al trattamento ingiusto che viene riservato. “Questo – precisa Liguori – è accaduto perché ha scritto a una sua collega deputata e questo è stato preso come un inquinamento di prove“.

Nel sottolineare la solidarietà verso Pittelli, per cui questo giornale ha lanciato un appello per la scarcerazione (qui per aderire: appelloperpittelliatgmail.com), il direttore Sansonetti specifica che sono state raccolte “circa 750 firme di solidarietà in pochissime ore, che dimostra l’interesse di una parte di società a queste problematiche“. Ma a queste problematiche, sentenzia il direttore del Riformista, “non si interessa l’establishment, né quello politico, né quello giudiziario“.

Sansonetti poi racconta il lungo percorso di restrizione di libertà personale di Pittelli: “Dopo un periodo di domiciliari, hanno preso Pittelli e l’hanno messo in isolamento, in un carcere di massima sicurezza. La prima parte della prigione l’ha fatta in Sardegna – racconta Sansonetti – perché ritenuto pericolosissimo“. Ma di cosa è accusato il legale? “I reati specifici sono caduti tutti – spiega il direttore del Riformista – ma è rimasto il solito reato di concorso esterno in associazione mafiosa“.

Un reato a cui il canale televisivo del Riformista spiegherà nel dettaglio in diverse occasioni. E nell’incalzare sulla inesistenza del reato, Sansonetti racconta come Pittelli sia “stato incastrato con delle intercettazioni, alcune delle quali manipolate“. Una intercettazione in particolare, come spiega il direttore del Riformista, viene trascritta ma modificata. “Cos’è questa se non persecuzione?” domanda Sansonetti.

Liguori, nel riprendere la parola, lancia un appello: “Si devono muovere nel governo, si devono muovere dei ministri, si devono muovere il ministro della Giustizia e quello dell’Interno, si devono muovere delle autorità perché Pittelli andrà fino in fondo e perché la situazione è grave“. Dritti sulla loro strada, Sansonetti e Liguori promettono di andare avanti in questa battaglia.

“Noi non molliamo, noi vogliamo sapere perché Pittelli è in prigione e perché il mondo politico non si muove“, ribadisce il direttore del Riformista. “E questa è solo la prima delle nostre iniziative – interviene Liguori prima di chiudere l’intervento – che porteremo avanti attraverso questa tv che sta nascendo“.

Da Tinto Brass a Barbareschi, l’appello per liberare Pittelli: «Rischia la vita». Oltre mille firmatari contro la carcerazione preventiva dell’ex deputato di Forza Italia rispedito in cella dopo la lettera-appello a Mara Carfagna. Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.

«Tinto Brass, 89enne maestro del cinema italiano, che da un decennio rarissimamente rilascia dichiarazioni e fa uscite pubbliche, prende posizione e fa sapere tramite il dirigente di Nessuno tocchi Caino Umberto Baccolo che, come la moglie Caterina Varzi e la di lei sorella, firma l’appello del Comitato Promotore per l’appello per Pittelli, pubblicato negli scorsi giorni dai quotidiani Spraynews e Il Riformista in solidarietà a Giancarlo Pittelli, che ha già raggiunto oltre mille firmatari, nel quale si dichiara che la carcerazione preventiva dell’ex deputato è già stata troppo lunga in modo disumano, sta distruggendo la sua salute e va interrotta». Lo dichiara Tinto Brass in una nota con la quale aderisce all’appello firmato da amici, colleghi e sostenitori dell’avvocato calabrese ed ex deputato di Forza Italia, Giancarlo Pittelli, imputato nel maxiprocesso Rinascita Scott.

«La sopravvivenza di legami di stima e di rispetto, o addirittura di amicizia, agli effetti, anche mediatici, di un procedimento giudiziario non solo non giunto ad una decisione definitiva, ma neppure ad una sentenza di primo grado, non è solo un’esigenza dell’imputato direttamente interessato, ma un elemento essenziale del tessuto sociale, della sua vitalità ed autenticità – si legge nell’appello -. Assistiamo, invece, impotenti allo sconvolgente scadimento dello stato psicofisico di Giancarlo Pittelli a causa della lunga carcerazione preventiva, condizione questa che gli impedisce di poter concentrare tutte le energie nella propria difesa. Non vogliamo che a questo si aggiunga una lesione della sua immagine e un impoverimento delle relazioni costruite in una vita: ciò non ha nulla a che vedere con il rigore nella lotta alla criminalità ma rappresenta solo un regresso civile e sociale che nessuna persona libera può accettare».

Pittelli, rispedito in carcere dopo la lettera-appello a Mara Carfagna, ha iniziato dal 13 gennaio uno sciopero della fame rischiosissimo perché condotto in stato di detenzione e in una condizione psicologica di profonda prostrazione. Dal 28 gennaio gli stessi amici promotori dell’appello, preoccupati per il suo stato di salute, avevano iniziato, a loro volta, uno sciopero della fame «che cesserà solo quando Giancarlo Pittelli sospenderà la sua protesta estrema».

«Penso che questa tortura mediatica e privata sul corpo delle persone ad opera della magistratura debba finire, e ringrazio il ministro Cartabia per star dando una svolta che spero arrivi al più presto per la salvezza economica, morale ed etica del paese. Sarò tutta la vita per la presunzione di innocenza», ha detto l’attore e regista Luca Barbareschi aderendo all’appello. «Dobbiamo cancellare questa orribile tradizione instaurata da Di Pietro per la quale l’avviso di garanzia è una condanna pubblica», fa sapere Barbareschi tramite il dirigente di Nessuno tocchi Caino Umberto Baccolo.

In cella per 15 mesi in attesa di giudizio. "Pittelli a digiuno adesso rischia la vita". Fabrizio Boschi il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.

All'ex parlamentare azzurro negati i domiciliari per aver scritto una lettera al ministro Carfagna. La mobilitazione per salvarlo.

Le vere battaglie di libertà sono quelle del vivere o morire in carcere, delle ingiuste detenzioni, dell'annoso e scandaloso problema della custodia cautelare che colpisce iniquamente tante persone. Questa è la storia di Giancarlo Pittelli (nel tondo), ma potrebbe essere quella di tante persone giustamente, o ancor peggio ingiustamente, detenute, strangolate dalla gogna della custodia cautelare in carcere in attesa di giudizio. Per Giancarlo Pittelli, 69 anni, avvocato penalista di Catanzaro, ex coordinatore regionale di Forza Italia in Calabria, ex deputato e senatore di Forza Italia dal 2001 al 2013, il calvario è iniziato a Catanzaro il 19 dicembre 2019, quando è stato arrestato e spedito a Nuoro, nel carcere speciale di Badu 'e Carros, impedito di leggere (e con lui i suoi difensori) le migliaia (13.500, per la precisione) di pagine di un'inchiesta che si chiama «Rinascita Scott». Centinaia di persone in manette quella notte (nel giro di pochi giorni 68 indagati erano già scarcerati e altri ancora nelle settimane successive e i reati piano piano sgretolati). Un processo con tante ombre e con un problema di genuinità di intercettazioni che nelle intenzioni del procuratore Nicola Gratteri avrebbe dovuto dargli molta notorietà. Messo ai domiciliari, successivamente, il 19 ottobre 2021, è stato posto di nuovo sotto custodia cautelare in carcere con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa riguardo ad un traffico di rifiuti gestito dalla cosca 'ndranghetista Piromalli.

Pittelli, con la disperazione di chi si sente prigioniero per sempre, dal domicilio scrive una lettera alla ministra Carfagna, sua ex collega al Parlamento. Per chiedere aiuto, magari un po' di conforto. Ed è stato sbattuto di nuovo in carcere, a Melfi. Dalle sue lettere emerge oggi la voglia di finirla per sempre: ha iniziato un digiuno totale dal 12 gennaio che intende portare «fino alla fine». Si sente come uno che non ha più niente da perdere, dopo che gli hanno distrutto tutto.

Molti amici di scuola si stanno mobilitando per salvarlo iniziando anch'essi uno sciopero della fame. Enrico Seta, presidente del comitato promotore «Comitato promotore dell'appello per Giancarlo Pittelli» spiega che «queste inchieste giudiziarie hanno l'effetto di devastare il tessuto sociale dell'imputato e noi abbiamo il dovere di reagire e resistere a questo fatto. La parola chiave è l'aggettivo immutato: finché non c'è una sentenza, almeno di primo grado, la persona ha diritto a veder intorno a sé un tessuto di relazioni integro. Perché la società è fatta di queste cose. Vogliamo che Pittelli sia in buona salute e non ne abbiamo più la certezza. Lui vuole esser incontrato dal pm che lo accusa. In questa vicenda ci sono troppe anomalie».

Pittelli sta morendo in cella e in una settimana sono state già raccolte oltre 1.300 firme trasversali alla politica e alle più disparate professioni. Tiziana Maiolo, ex deputata di Forza Italia e oggi editorialista del Riformista, ha preso carta e penna e ha scritto al ministro della Giustizia Marta Cartabia. «Io nemmeno credo di averlo mai conosciuto Pittelli - spiega -, ma ho scritto questa lettera per sensibilizzare la ministra sul problema della custodia cautelare in carcere che è scandaloso in Italia. Al di là che uno sia colpevole, o ancor peggio innocente, è una misura barbara che va a pesare sui due maggiori problemi della giustizia: la lunghezza dei processi e il sovraffollamento delle carceri». La Maiolo ricorda che Pittelli è rimasto nel carcere speciale di Nuoro dieci mesi, in isolamento totale e senza mai essere interrogato dal suo giudice naturale. «Signora ministra, non le sto parlando di privilegiare un mio parente o amico. Le sto lanciando un grido d'allarme su un detenuto in attesa di giudizio». Fabrizio Boschi

«Pittelli sta male». Oltre 1500 persone chiedono la scarcerazione dell’avvocato calabrese. Giancarlo Pittelli è in carcere da oltre due anni. Le sue condizioni fisiche sono peggiorate. Ora 1500 persone chiedono che venga scarcerato: ecco l'appello. Il Dubbio il 07 febbraio 2022.

Un appello, sottoscritto al momento da oltre 1.500 persone, tra cui 25 parlamentari, è stato lanciato per chiedere che venga scarcerato l’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, coinvolto nelle inchieste «Rinascita Scott» e «Malapigna», condotte, rispettivamente, dalle Dda di Catanzaro e Reggio Calabria. L’iniziativa è del «Comitato promotore dell’appello per Giancarlo Pittelli». Presidente dello stesso Comitato e primo firmatario della petizione in favore dell’ex penalista è Enrico Seta.

Pittelli, una carcerazione preventiva troppo lunga

I promotori dell’appello, legati da rapporti di amicizia o conoscenza con Pittelli, hanno anche avviato uno sciopero della fame, così come sta facendo in segno di protesta dal gennaio scorso lo stesso ex parlamentare. «Giancarlo Pittelli – è detto nell’appello – da oltre due anni è privato della libertà a seguito di un’inchiesta giudiziaria ancora lontana dalla sentenza di primo grado. Non esprimiamo un parere, perché non ne avremmo titolo, sulla qualità di questa inchiesta, sul rigore nell’espletamento delle procedure seguite dagli organi inquirenti e sull’inoppugnabilità delle prove addotte contro l’imputato. Osserviamo, però, che una così lunga carcerazione preventiva, cioè senza che l’imputato sia sottoposto ad un regolare processo, ai nostri occhi come a quelli di una sempre più larga fetta di opinione pubblica, appare ingiustificabile e soprattutto non coerente con alcuni dei principi cardine dello Stato di diritto e della Costituzione. Ma soprattutto intendiamo attestare, con questo appello, la nostra vicinanza, la nostra amicizia, per coloro che gli sono amici, ed il rispetto per le capacità professionali e intellettuali di Giancarlo Pittelli, di cui danno sufficiente prova oltre 40 anni di attività forense, amministrativa e politica. Tutto ciò, a prescindere dalla maggiore o minore distanza dalle sue idee politiche».

Pittelli, in carcere peggiorano le sue condizioni fisiche

«La sopravvivenza di legami di stima e di rispetto, o addirittura di amicizia, agli effetti, anche mediatici, di un procedimento giudiziario non solo non giunto ad una decisione definitiva, ma neppure ad una sentenza di primo grado, non è solo un’esigenza dell’imputato direttamente interessato, ma un elemento essenziale del tessuto sociale, della sua vitalità ed autenticità. Assistiamo, invece, impotenti allo sconvolgente scadimento dello stato psicofisico di Giancarlo Pittelli a causa della lunga carcerazione preventiva, condizione che gli impedisce di potere concentrare tutte le energie nella propria difesa».

«Non vogliamo che a questo si aggiunga una lesione della sua immagine ed un impoverimento delle relazioni costruite in una vita. Questo non ha nulla a che vedere con il rigore nella lotta alla criminalità, ma rappresenta solo un regresso civile e sociale che nessuna persona libera può accettare». «Per questo motivo – conclude l’appello – manifestiamo pubblicamente e ribadiamo all’avvocato Giancarlo Pittelli gli immutati sentimenti di rispetto, affetto ed amicizia ed opponiamo resistenza ad ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto l’isolamento della persona e l’inaridimento delle relazioni sociali e affettive».

Le firme per l'avvocato. Non conosco Giancarlo Pittelli ma aderisco all’appello dei suoi amici. Bonifacio Giudiceandrea su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Caro Collega Pittelli, aderisco senza riserve all’appello lanciato dai tuoi amici e ti chiedo con piena convinzione di rinunciare alla forma di protesta che hai intrapreso; è troppo importante che tu sopravviva a questa vicenda, riesca ad affrontare il processo a viso aperto e nel pieno delle forze, dimostrando tutto il carattere combattivo con cui -dicono le cronache- hai sempre svolto la professione.

Non ci conosciamo, né abbiamo avuto modo di incontrarci in qualche aula di giustizia; io ho iniziato (e sto per concludere) la professione di avvocato a Trento e mi sono quasi sempre occupato di processi politici, prima nell’ambito della sinistra extraparlamentare e, poi, dell’eversione brigatista. Sono stato coinvolto anch’io in una vicenda giudiziaria, subendo l’arresto sia pure per una notte sola (forse ricorderai… il processo cosiddetto “armi e droga” condotto a Trento dal giudice Carlo Palermo): allora, eravamo a metà giugno del 1983, fu indetto addirittura uno sciopero nazionale da parte dell’Avvocatura e mi piace immaginare che partecipasti anche tu a quell’astensione; chissà…

Ho origini calabresi (padre e madre, pur essendo nato a Vipiteno!) e sono fortemente legato alla nostra Regione dove risiedono anche molti dei miei parenti, alcuni probabilmente li conosci o ne avrai sentito parlare; tutti hanno gravitato nell’ambito della sinistra, a partire da mio nonno Bonifacio, ultimo sindaco di Calopezzati prima dell’avvento del fascismo e primo sindaco dopo la Liberazione. Mio padre è stato procuratore della Repubblica prima Bolzano poi a Bologna e infine a Roma, concludendo nel 1992 la sua carriera; è stato uno dei fondatori di Magistratura Democratica, formazione dalla quale si è poi allontanato quando ha capito e potuto toccare con mano la strumentalizzazione della “questione giustizia” da parte di una corrente che era nata e si era sviluppata su presupposti completamente opposti, primo fra tutti quello del garantismo, nel senso più genuino e autorevole della parola.

Ecco dunque che la mia sincera solidarietà ti perviene “da sinistra”; sono convinto che ti farà piacere, probabilmente parificabile a quello che provavo io quando, nell’affrontare un processo politico, scoprivo che avrei dovuto confrontarmi con magistrati “di destra”, sempre più garantisti dei cosiddetti “democratici”. Raccogli dunque l’invito alla “tregua” che ti è stato rivolto dai tuoi amici e continua a combattere. Nella speranza di poterci conoscere presto, con stima. Bonifacio Giudiceandrea

L'appello. La Calabria è travolta da un clima di paura. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Gennaio 2022. 

In Calabria si vive un vero clima di paura. Il timore di essere considerati amici della ‘ndrangheta, se si osa discostarsi dal plauso generalizzato all’attività e ai metodi dell’eroismo di chi “vive sotto scorta”, il procuratore Nicola Gratteri. La dice lunga la difficoltà trovata da un gruppo di ex compagni di scuola di Giancarlo Pittelli nell’esprimere solidarietà e condivisione al suo digiuno per la giustizia, iniziato il 12 gennaio. Così sono partiti in pochi, in sette cui se ne sono aggiunti altri tre.

Perché altri, che pure hanno fatto parte delle migliaia di persone che hanno sempre circondato Giancarlo Pittelli di stima e amicizia, sono impauriti. ”La prima reazione –dice Enrico Seta, un ex consigliere parlamentare oggi in pensione, promotore dello sciopero della fame di solidarietà- è il timore di delegittimare la magistratura, e addirittura di offrire una sponda alla criminalità organizzata”. Enrico Seta racconta di aver fatto “il disturbatore” per mesi nei confronti di amici e vecchi compagni di scuola. Non chiedeva di entrare nel merito delle inchieste e neanche di condividere ogni critica avanzata dal loro amico, ma semplicemente di essergli vicino nel momento in cui lui sta mettendo il proprio corpo e la propria salute a disposizione della giustizia, per averne di più, non di meno. Ma ha dovuto toccare con mano il clima di timore. “Anche solo per attestare stima e affetto. Perché nella nostra città, nella nostra Calabria, stiamo assistendo a una vera distruzione del tessuto sociale, a una regressione anche dei rapporti tra persone, per cui il nome di Giancarlo non può neppure essere pronunciato”. “E il problema non riguarda solo l’avvocato Pittelli”, butta lì.

Così ha trovato un legale di Trento, l’avvocato Bonifacio Giudiceandrea, e insieme hanno steso un appello, non per fare i difensori d’ufficio nel processo che si sta celebrando a Lametia, e neanche per dire la loro sull’inchiesta e sulle eventuali prove a carico del loro amico, ma per raccogliere le firme di chi a Giancarlo vuole bene. E per denunciare un clima. Quel che si vive in Calabria. Per opporre “..resistenza a ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto la paura diffusa e l’inaridimento delle relazioni sociali”. Mettere in discussione non contenuti, ma procedure e effetti, dovrebbe avere l’efficacia di un manifesto sociale e in senso lato politico. E magari spezzare il timore di essere messi dalla parte dei “cattivi”. Ma non esitare a denunciare, come fa questo appello, che ribadisce “affetto e stima” nei confronti della persona. L’uomo al centro, dunque, prima dell’avvocato e del politico. E il circo mediatico-giudiziario posto sotto i riflettori, perché in tanti riflettano e capiscano.

Ecco il passo più saliente dell’appello: “La sopravvivenza di legami di stima e di rispetto, o addirittura di amicizia, agli effetti –anche mediatici- di indagini giudiziarie ancora non concluse non è solo un’esigenza dell’imputato direttamente interessato, ma un elemento essenziale del tessuto sociale, della sua vitalità ed autenticità. Assistiamo invece, in questo come in altri casi, ad una demolizione violenta dell’immagine dell’imputato e quindi di legami sociali costruiti in lunghi anni. Ciò non ha nulla a che vedere con il rigore nella lotta alla criminalità ma rappresenta solo un regresso civile e sociale che nessuna persona libera può accettare”. Se non lo firmano gli amici d’infanzia e i compagni di scuola, chi allora? O sono tutti intimoriti? Tutta la vicenda dell’inchiesta denominata “Rinascita Scott” del 19 dicembre 2019, del resto, è lì a dimostrarne scopi ed effetti. Un blitz con centinaia di arresti, in gran parte poi annullati da diversi organi giudicanti, la gran cassa della conferenza stampa con la pretesa di aver sgominato la mafia in Calabria, o almeno di aver cominciato quella distruzione (“per poi ricostruire come un Lego”) dell’intera regione, cui cui parlava il dottor Gratteri nelle interviste. E da subito l’avvocato Pittelli, indicato come punto di raccordo tra i boss e la società civile. Ciliegina sulla torta, abbiamo definito il suo arresto fin dal primo momento. Strumento della vanità degli inquirenti, anche.

Colui che sta lì, ancora in galera dopo due anni, a giustificare, più di quanto non lo faccia il numero degli imputati, il concetto di “maxinchiesta” e l’uso della maxi-aula di Lametia. E l’ambizione di Nicola Gratteri di passare alla storia come il Falcone di Calabria. Solo che il giudice siciliano portò a processo Riina e Provenzano. Qui stiamo parlando di un avvocato sospettato al massimo di qualche spifferata ai suoi assistiti. E l’ultima accusa, quella di aver “aggiustato” i processi. La più stravagante, se attribuita a un legale cui non solo il procuratore capo di Catanzaro, ma anche gli stessi giudici del suo processo non mostrano certo simpatia, visto che lo hanno sbattuto nella prigione di Melfi, fuori dalla sua Regione, per aver disatteso una sorta di accordo di riservatezza. Ha scritto dai domiciliari una lettera disperata alla ministra ( e deputata) Mara Carfagna, e questo non si fa. Il paradosso è che proprio in questi giorni la Corte Costituzionale ha sancito il vincolo di riservatezza epistolare tra detenuti in regime di articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e i propri difensori.

Nell’ordinanza si fa cenno anche alla necessità di equiparare quel vincolo a quello che esiste già tra i carcerati e gli esponenti del Parlamento. Quale appunto è Mara Carfagna. Ma i giudici, quelli così amici di Giancarlo Pittelli da esser sempre pronti a farsi influenzare per aggiustare i processi, non ne hanno tenuto nessun conto e lo hanno sbattuto di nuovo (per la terza volta in due anni) in galera. Hanno buttato via la chiave, ci pare. Ma quella porta potrebbe essere riaperta proprio dagli amici che gli vogliono bene e che sono invitati dall’appello di oggi ad aprire gli occhi. A ri-aprirli, per l’esattezza.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La relazione al processo Rinascita Scott. Tre pentiti accusano Pittelli, nel mirino la sua azione da avvocato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

Non solo fungeva da raccordo tra la mafia e la società civile, ma aggiustava anche i processi in combutta con i magistrati. Non si sa se ci sono anche i nomi dei giudici felloni, nella relazione che gli uomini dei Ros hanno depositato al processo Rinascita Scott con una nuova accusa contro Giancarlo Pittelli. Sicuramente ci sono quelli dei “pentiti”, secondo il costume delle inchieste di mafia più fallimentari, quelle in cui le indagini non si fanno sul territorio ma in ufficio o in caserma, ad abbeverarsi ai racconti dei collaboratori. O, a volte, addirittura suggerendo loro quel che devono dire. Come dimenticare i 17 “pentiti” di camorra, ospitati tutti nella stessa caserma a concordare le false versioni contro Enzo Tortora? E le torture con cui si convinse nel carcere di Pianosa Enzo Scarantino ad accusare una quindicina di innocenti per l’omicidio Borsellino?

Nelle duecento pagine dei Ros non manca proprio nessuno, c’è il fior fiore delle famiglie di ‘ndrangheta di tutta la Calabria, dalla Sila all’Aspromonte, coste comprese. Inutile fare i nomi, ci ha già pensato la Gazzetta del sud. Interessanti però sono come sempre i virgolettati, le parole dei “pentiti” che come da copione hanno sempre l’oro in bocca, come le ore del mattino. Giancarlo Pittelli «avrebbe funto, mediante condotte corruttive, da elemento di connessione con una parte debole della magistratura che di conseguenza avrebbe agevolato la risoluzione delle diverse vicende giudiziarie». Niente nomi di toghe sporche, però. Il che è grave, oltre che strano, perché il reato di corruzione ha sempre due corni, chi compra e chi si fa comprare. Chi sono questi giudici “deboli” che si fanno comprare? Se la relazione dei Ros è stata depositata al processo Rinascita Scott è un atto pubblico. Quindi, o i nomi sono altrove, in un altro fascicolo coperto, oppure questi “pentiti” conoscono solo una parte del reato, e un solo responsabile, l’avvocato Pittelli. E su di lui vanno giù pesanti, cercano di inchiodarlo. Uno dice che lui era «il legale in grado di avvicinare alcuni magistrati addivenendo alla soluzione di problemi giudiziari». Un altro spiega che «Pittelli veniva nominato perché aveva conoscenze tra i giudici e una grande influenza su di loro».

Chissà come mai, vien da dire allora, solo il legale è in carcere da due anni a svolgere il ruolo di ciliegina sulla torta di un processo che si chiama “Rinascita Scott” e che, fin dalla prima conferenza stampa del procuratore Gratteri nel dicembre del 2019, avrebbe coinvolto non solo picciotti mafiosi, ma politici, imprenditori e alte sfere istituzionali? Di tutta questa crème non c’è traccia nella maxi-aula bunker di Lamezia Terme. C’è solo il soldato Pittelli, tanto amico dei magistrati da essere rimasto l’unico prigioniero di quella che i pubblici ministeri chiamano “area grigia”, cioè la famosa connessione tra le due società (non quelle di Asor Rosa), quella delle ‘ndrine e quella dei “signori”. Questa nuova accusa, che a quanto pare potrebbe far parte di un nuovo filone d’inchiesta che, se riguarda magistrati per esempio di Catanzaro dovrebbe esser subito trasferita a Salerno, colpisce una volta di più Giancarlo Pittelli nel suo ruolo di avvocato. E dovrebbe preoccupare tutta quanta la categoria, perché mette in discussione lo stesso ruolo del difensore nei processi penali. C’è un clima di sospetto che porta a identificare non solo l’indagato e l’imputato con il reato di cui sono accusati, ma lo stesso legale con la “colpa” attribuita al suo assistito.

Si va a spulciare nelle intercettazioni per rimarcare il fatto che il boss dà dei voi all’avvocato, come se questo fosse sintomo di grande intimità, o sottolineare come complicità il fatto che la moglie dell’assistito chieda al legale come stia la sua famiglia. Due giorni fa si è reso necessario un intervento della Consulta per stabilire come sia illegittimo censurare la corrispondenza tra l’avvocato e l’imputato (o condannato) anche se questi è detenuto nel regime del carcere impermeabile, cioè il 41-bis dell’ordinamento penitenziario. In realtà esistevano già delle circolari del Dap al riguardo, ma la decisione della Corte Costituzionale era stata stimolata da una questione di legittimità sollevata dalla Cassazione. Ed è entrata nel merito con decisione. Una bella lezione per chi, con la solita volgarità, come Marco Travaglio, si è affrettato a dare del mafioso agli avvocati, tutti compresi. Ecco il testo del quotidiano: «La consulta cancella la censura sulla corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera».

Non varrebbe neanche la pena di citare un tale letamaio, se non fossimo certi del fatto che purtroppo il direttore del Fatto non è mai solo in queste nefandezze, ma il suo pensiero è spesso accovacciato sotto qualche toga da cui trae ispirazione. O a volte la dà. A costoro sarà utile leggere quel che scrive l’Alta Corte? Anche a coloro che continuano a costruire, mattoncino sopra mattoncino, le accuse contro Giancarlo Pittelli? Inizino a leggere, intanto. Il riferimento è al fatto specifico che ha dato origine alla decisione, un telegramma non consegnato. «In effetti, la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso».

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il Caso Pittelli. Su giustizia e sanità informazione manipolata. Dalla persecuzione di Pittelli ai dati Covid. Fabrizio Cicchitto su Il Tempo il 15 gennaio 2022.

Sulla completezza e sulla libertà dell’informazione sono in atto operazioni assai pericolose che riguardano sia la giustizia che la sanità. Sulla manipolazione dell’informazione per ciò che riguarda la giustizia ci sarebbe da scrivere non un libro, ma una biblioteca. Allora concentriamo la nostra attenzione su un singolo caso, quello dell’avvocato Pittelli, vittima di un’autentica persecuzione resa ancor più efficace dall’assoluto silenzio che circonda il caso tranne la meritoria campagna svolta dal Riformista.

Pittelli è stato arrestato nella notte del 19 dicembre 2019 alle 3:30 del mattino. Fra i vari addebiti c’era quello di partecipazione ad associazione mafiosa. La documentazione era costituita da ben 29 faldoni. Nel primo interrogatorio svoltosi un giorno dopo Pittelli fu costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere perché né lui, né i suoi avvocati avevano potuto leggere una carta, però successivamente Pittelli non è stato più interrogato tranne che per un interrogatorio del tutto formale svoltosi a Nuoro da parte di pm che a loro volta non conoscevano le carte perché egli nel frattempo era stato trasferito nel carcere di massima sicurezza di Badcarros in Sardegna, operazione che rendeva assai difficili le visite di parlamentari e di familiari.

Ovviamente subito dopo l’arresto fu scatenata una campagna mediatica contro Pittelli anche con la pubblicazione di intercettazioni riguardanti la sua vita privata. Successivamente il tribunale della libertà ha ridimensionato le accuse (da associazione a concorso esterno), per cui egli ha ottenuto dopo molto tempo gli arresti domiciliari.

Pittelli però è stato nuovamente arrestato nel dicembre 2021 per aver mandato una lettera, con raccomandata a/r, al ministro Carfagna nella quale parlava del suo caso. A parte alcuni aspetti assai inquietanti di quest’ultima vicenda è evidente la linea persecutoria portata avanti dalla procura contro Pittelli. Adesso Pittelli ha inviato un telegramma al direttore del Riformista Piero Sansonetti nel quale dichiara: «Porterò lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze contro una giustizia mostruosa».

Ebbene, così come di fronte all’articolo sul Dubbio del magistrato Guido Salvini a proposito dei trucchi procedurali del pool di Mani Pulite, così sul caso Pittelli c’è un silenzio assoluto da parte delle televisioni e dei grandi giornali.

Passiamo al tentativo in corso di manipolare l’informazione anche sulla sanità. A nostro avviso se c’è una critica da rivolgere al governo e alle regioni sulla sanità è di avere attenuato il necessario rigore specie da ottobre fino alle feste di Natale per ragioni politiche e per ragioni economiche. Siccome adesso a causa della maggiore contagiosità della variante Omicron e dei precedenti errori stanno aumentando il numero dei contagi e, cosa gravissima, anche quello dei morti, alcuni presidenti di regione chiedono di cambiare le cifre escludendo dal computo gli asintomatici.

C’è da essere esterrefatti: forse gli asintomatici non sono in grado di contagiare gli altri? Ricordiamo a questo proposito che quando esplose il contagio a gennaio-febbraio 2020 la Regione Veneto, diversamente dalla Lombardia, evitò il peggio proprio perché fece tamponi a spron battuto identificando gli asintomatici. Ciò fu il frutto della collaborazione fra il presidente Zaia e il professor Crisanti (che successivamente purtroppo hanno litigato per ragioni mediatiche) e la Regione Veneto fece un’ottima figura di fronte al disastro verificatosi invece in Lombardia (poi in Lombardia le cose sono migliorate quando al posto dell’ineffabile Gallera sono arrivati all’assessorato alla Sanità Letizia Moratti e Guido Bertolaso). Adesso Zaia e Crisanti sul tema sostengono tesi opposte, ma quest’ultimo ha buon gioco nel ricordare che la proposta di non contagiare gli asintomatici, fatta per la chiara ragione economica per non far cambiare di colore la regione, punta ad imitare l’aperturismo di Johnson rimuovendo però il fatto che in Inghilterra in questi mesi ci sono stati ben 15.000 morti in più.

Non nascondiamo che dietro questa discussione c’è una questione di principio che riguarda l’interrogativo se la scelta fondamentale è quella di tutelare in primo luogo la salute o quella di assicurare comunque le attività economiche, indipendentemente dai contagiati e dai morti. Francamente a nostro avviso l’espressione «convivere con il contagio» ha un’ambiguità assai inquietante.

Il caso dell'avvocato Pittelli e cosa ci insegna sull'importanza delle regole. Luigi Manconi su La Repubblica il 18 Gennaio 2022.

Quello che segue è un piccolo test, che non ha l’ambizione di una indagine sociologica sugli orientamenti collettivi di una popolazione e nemmeno quella di definire la fisionomia culturale di un gruppo sociale o di un ceto professionale. Lo scopo è, più semplicemente, la rilevazione del tasso di garantismo di ognuno: una sorta di “garantismometro”. Ovvero la misurazione del rispetto che ciascuno esprime nei confronti dei principi, anzitutto costituzionali, e delle garanzie che governano l’amministrazione della giustizia e, in particolare, il processo penale. E che fanno sì che il codice penale sia la “Magna Charta” del reo.

Pigliamo un caso tra i molti possibili. L’avvocato Giancarlo Pittelli, nato a Catanzaro nel 1953, parlamentare di Forza Italia dal 2001 al 2013, è attualmente recluso nel carcere di Melfi, con l’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa, poi derubricata a concorso esterno in associazione mafiosa, e di rivelazione di segreti d’ufficio. Non so alcunché di lui sotto il profilo del carattere e della vita privata, della personalità e dei suoi costumi. Non ho alcun motivo particolare di simpatia o di avversione. E, della sua vicenda giudiziaria, conosco solo il poco che pubblicano i giornali.

Di conseguenza, non sono in grado di affrontare la sua vicenda processuale da un punto di vista complessivo. E, tuttavia, ritengo che alcuni piccoli dettagli - episodi in apparenza secondari - di quella stessa vicenda risultino talmente dirompenti da indurre a una riflessione sul funzionamento generale della giustizia. E su una crisi che appare ormai irreversibile.

Primo trascurabile dettaglio. Come già evidenziato su Il Riformista, nell’ordinanza di custodia cautelare viene riportata l’intercettazione relativa a un dialogo tra Giovanni Giamborino, accusato di essere affiliato alla ‘ndrangheta, e la propria moglie. Quest’ultima dice: “Qui abita Pittelli?”. Risposta di Giamborino: “Sì”. E la donna: “Ma è mafioso…”. Così la conversazione viene riportata nell’ordinanza, ma omettendo l’intonazione interrogativa e le frasi successive. Infatti, la trascrizione integrale dello scambio tra marito e moglie prosegue e Giamborino replica: “No, avvocato”. Quest’ultima frase che, se omessa o ignorata, rovescia totalmente il significato delle parole della donna (“È mafioso…”) da dubitativo in assertivo, è ovviamente cruciale. Di più: è determinante per la comprensione del senso della conversazione intercettata.

Secondo trascurabile episodio. Nell’ottobre scorso, mentre si trova agli arresti domiciliari, Pittelli scrive a Mara Carfagna, ministra per il Sud e la coesione territoriale, sua antica conoscente e collega di partito. Le invia una lettera in cui contesta la ricostruzione proposta negli atti. Parla di “manipolazione” di alcune trascrizioni di intercettazioni, come quella di una conversazione telefonica avvenuta nel 2016 con un suo cliente, che rivela notizie già divulgate precedentemente dai quotidiani locali.

Nella stessa lettera, Pittelli parla di un’altra captazione ambientale, nella quale gli inquirenti avrebbero inserito un avverbio (“ancora”) destinato a cambiare il senso della frase. Si aggiungono, poi, altre valutazioni relative a comportamenti che la Procura avrebbe considerato come prova di una sua complicità con l’associazione criminale. Il senso complessivo delle parole di Pittelli è inequivocabile: è lo sfogo di un uomo disperato, che tale si definisce e che, proprio in ragione di quella “disperazione”, decide di violare il divieto di «avere rapporti di corrispondenza» mentre si trova agli arresti domiciliari. Ma la lettera, che certifica uno stato di acutissima depressione e di smarrimento, viene utilizzata come prova a carico; e la sanzione che ne consegue è inesorabile: l’avvocato Pittelli deve tornare in carcere. In quello di Melfi, dove ha appena iniziato uno sciopero della fame.

La domanda che traggo, da una vicenda indubbiamente complessa, è la seguente: possono questi DUE trascurabili dettagli porre in discussione la situazione processuale di Pittelli? So bene che né l’uno né l’altro di questi episodi hanno l’effetto di inficiare l’apparato accusatorio e il quadro probatorio a carico dell’avvocato di Catanzaro. Ma la questione resta aperta in tutta la sua scandalosa enormità. Che così riassumo: può considerarsi coerente e ragionevole, argomentato e razionale, un impianto accusatorio che si giova di quella (e chissà di quante altre) manipolazione delle prove? Può considerarsi legittima ed equa un’azione penale che trasferisce un indagato dalla condizione degli arresti domiciliari a quella della reclusione in carcere per una violazione dovuta a una particolare crisi emotiva? Mi si dirà: ma stiamo parlando di una indagine che ha per oggetto l’attività di grandi organizzazioni criminali, che ricorrono all’omicidio come strumento di esercizio del potere. E stiamo parlando di uomini che, secondo l’accusa, “concorrerebbero” a quella stessa attività criminale.

D’accordo, e non discuto minimamente tutto ciò. Tuttavia mi chiedo se, al fine di prevenire delitti, anche i più efferati, si possa accettare di trascurare le regole, stravolgere le forme, sospendere le garanzia. E se ciò non produca danni altrettanto profondi e duraturi nel tempo quanto quelli determinati dalle azioni criminali delle ‘ndrine. Pensiamoci, almeno.

Sto con Pittelli anche se ha rappresentato il potere che oggi lo divora.  

Con Pittelli saranno particolarmente duri perché si è permesso di reagire alla lunga prigionia, scrivendo qualche lettera ai giornali e mandando una “supplica” alla ministra Carfagna. Ilario Ammendolia su il Dubbio il 19 gennaio 2022.  

L’avvocato Giancarlo Pittelli da oltre due anni si trova rinchiuso nelle patrie galere e da qualche settimana rifiuta il cibo per protesta contro una detenzione da Lui ritenuta ingiusta e lesiva delle garanzie costituzionali. Ovviamente non so se Pittelli sia colpevole o innocente. Nessuno lo può sapere se non dopo un giusto processo ed una sentenza definitiva. Quello in corso non sembra un processo giusto.

Nasce da un discutibile blitz con un mezzo migliaio di arrestati, che hanno impegnato tremila carabinieri ed ingenti risorse e procede dando la netta sensazione di essere egemonizzato dal ruolo soverchiante della Procura di Catanzaro che gode di un particolare sostegno da parte della grande stampa.

Nella strategia della Procura, Pittelli è un tassello fondamentale. Senza l’avvocato di Catanzaro il processo sarebbe privo dell’ingrediente “piccante” che tanto piace a gran parte della stampa ed ai tanti cittadini alla spasmodica e costante ricerca di un colpevole che faccia “giustizia” in loro nome. A nessuno interesserebbe più di tanto un processo all’oscura cosca Mancuso. Pittelli è la dimensione “politico- massonica” del processo presentata in maniera tale da calamitare l’odio popolare verso la “casta” che, in Calabria, è particolarmente odiata. E non senza una qualche ragione.

Umiliare Pittelli, tenerlo prigioniero a proprio piacimento e senza un giustificato motivo, significa non solo umiliare una classe politica che in gran parte è particolarmente scadente e priva di dignità e coraggio ma vincere la partita fondamentale su chi comanda veramente in Calabria. Quindi, è più che lecito pensare che con Pittelli saranno particolarmente duri e non perché abbia mai fatto uso di violenza o rappresenti un pericolo per la società ma perché si è permesso di reagire alla lunga prigionia, scrivendo qualche lettera ai giornali e mandando una “supplica” piena di disperazione alla ministra Mara Carfagna ed ha iniziato uno sciopero della fame “sino all’estreme conseguenze”. Comportamento inaccettabile da parte di chi comanda e pretende dai “vinti” una resa senza condizioni.

Una resa incondizionata che, salvo qualche sacca di residua “resistenza”, hanno già ottenuto. C’è da dire che i tanti “Pittelli” che hanno rappresentato la Calabria in Parlamento hanno fatto poco o nulla in difesa dello Stato di diritto ed ancor meno per mettersi in ascolto del grido di dolore che si alza dalle galere calabresi. Si sono illusi di essere intoccabili in quanto sacerdoti del potere. Ed oggi, proprio come il cancro, quel potere di cui sono stati custodi, mangia Pittelli (che è stato uno di loro) per potersi legittimarsi ed espandersi. Molti di coloro che in questi giorni stanno firmando con convinzione un documento di solidarietà a Pittelli hanno avversato il potere che è stato anche “suo” e la politica che ha rappresentato. Oggi però hanno dinanzi agli occhi il corpo di un uomo straziato dal carcere e che, proprio per questo, diventa un simbolo per una disperata resistenza.

L'appello. “Accanimento su Pittelli ingiustificato, Cartabia intervenga”, i Radicali chiedono intervento del ministro. Angela Stella su Il Riformista il 19 Gennaio 2022. 

La Guardasigilli intervenga per il detenuto Giancarlo Pittelli. Lo chiedono Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, segretario, tesoriera e presidente di Radicali Italiani: «Chiediamo al ministro della Giustizia Marta Cartabia un intervento immediato per verificare le condizioni di salute e il rispetto dei diritti di Giancarlo Pittelli e per aprire una finestra in questa vicenda grottesca». I tre esponenti radicali esprimono «la gravissima preoccupazione per quel che sta accadendo, prima che la vicenda si trasformi in tragedia».

Ricordano che «Giancarlo Pittelli ha scritto una lettera al direttore de Il Riformista Sansonetti nella quale annuncia uno sciopero della fame “fino alle estreme conseguenze contro una ingiustizia mostruosa”». Sono parole, dicono i tre, «che segnano lo stato di disperazione e di prostrazione di un uomo che sta subendo un accanimento ingiustificato». Inoltre evidenziano anche come le accuse mosse a Pittelli «sono strettamente connesse con l’esercizio del suo mandato difensivo nei confronti di propri assistiti, connesse quindi con il suo lavoro di avvocato. Pittelli, dopo una custodia cautelare durissima, ha ottenuto gli arresti domiciliari che ora sono stati revocati in conseguenza di una lettera da lui scritta con richiesta di aiuto a Mara Carfagna; lettera che era dettata – appunto – dalla disperazione. Ora a Melfi, Pittelli è di nuovo dietro le sbarre. Lo Stato italiano, la giustizia italiana, stanno compiendo a nostro avviso qualcosa di estremamente grave al quale occorre porre rimedio».

Sul caso di Pittelli si è pronunciato dalle pagine di Repubblica anche il sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi, il quale, riprendendo anche i nostri articoli, pone all’attenzione del lettore due episodi. Il primo: una intercettazione dell’ordinanza di custodia cautelare che nell’essere riportata solo parzialmente induce ad una lettura colpevolista, diversa dalla realtà. Giovanni Giamborino, accusato di essere affiliato alla ‘ndrangheta, parla con la propria moglie. Quest’ultima dice: «Qui abita Pittelli?». Risposta di Giamborino: «Sì». E la donna: «Ma è mafioso…». Peccato che nell’ordinanza si ometta l’intonazione interrogativa e la risposta successiva: «No, avvocato». Il secondo: anche a causa dell’episodio precedente Pittelli scrive alla Ministra Carfagna denunciando, tra l’altro, la “manipolazione” di alcune trascrizioni di intercettazioni e partecipando la sua disperazione per la situazione che sta vivendo.

Conosco le carte del processo Pittelli, per Travaglio sono un rompicoglioni: “I veri giornalisti credono ai Pm”

Sostiene allora Manconi: questi episodi non possono di certo inficiare l’apparato accusatorio, «ma la questione resta aperta in tutta la sua scandalosa enormità. Che così riassumo: può considerarsi coerente e ragionevole, argomentato e razionale, un impianto accusatorio che si giova di quella (e chissà di quante altre) manipolazione delle prove? Può considerarsi legittima ed equa un’azione penale che trasferisce un indagato dalla condizione degli arresti domiciliari a quella della reclusione in carcere per una violazione dovuta a una particolare crisi emotiva?». Angela Stella

La lettera al presidente Marcello Foa. La Rai ha violato la Costituzione, Gratteri protagonista di processo mediatico contro Pittelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Carissimo Presidente Foa, la Rai ha mandato in onda un processo ad alcuni cittadini calabresi, e in particolare all’avvocato Pittelli, assumendo in pieno le parti dell’accusa e costruendo un monumento al Pm di quel processo. Il quale Pm – nonostante le ripetute raccomandazioni dello stesso Csm, del Procuratore generale della Cassazione e della ministra Cartabia – ha violato spavaldamente ogni riservatezza e si è prestato a diventare il protagonista indiscusso di un processo mediatico e di una gogna. Il processo – quello vero – è in corso a Catanzaro, e la Rai è intervenuta a gamba tesa a favore dell’accusa. In questo modo la Rai ha violato tutti i principi dello Stato di diritto e della nostra Costituzione. Prestandosi – come servizio pubblico – ad una operazione di giustizialismo che sarebbe impossibile in qualunque altro paese anche vagamente democratico. Presidente, io la conosco come esponente del giornalismo liberale, e le chiedo: l’avevano informata? Lei ha dato il permesso? Cosa pensa di questo plotone di esecuzione? Intende difendere in qualche modo i diritti dei cittadini infangati? Pensa che sia il caso di proseguire con queste trasmissioni? Progetta una trasmissione di riparazione? Conto sulla sua sensibilità e sono sicuro che vorrà rispondermi.

Il processo in tv. Processo sommario di Iacona a Pittelli sulla Rai: Gratteri star della puntata in stile sovietico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Non è più il processo agli uomini di una cosca di ‘ndrangheta, è il processo a Giancarlo Pittelli, anzi non è più neanche un processo, è una sentenza sommaria di condanna. Lo ha deciso la Rai con la messa in onda, lunedì sera, di una puntata di Presa diretta di stile sovietico. Sarà perché ancora non è stato trovato un tribunale i cui giudici non siano incompatibili a giudicare gli imputati del Maxiprocesso di Nicola Gratteri. Sarà forse perché nessuno è Einstein ed è in grado di distinguere posizione da posizione dei 416 accusati che ogni giorno dal 16 gennaio compaiono all’interno della maxi-struttura di Lamezia dove si celebra il processo “Rinascita Scott”. O sarà per qualche insondabile motivo, di quelli da professionisti dell’antimafia che continuano a rimestare in un passato di stragi e devastazioni che (per fortuna) non esistono più, ma senza le quali rischiano in tanti di restare disoccupati. Sarà forse per tutti questi motivi messi insieme che la Rai, quel servizio pubblico che tutti gli italiani festosamente pagano sulla bolletta dell’energia elettrica, ha deciso di tagliare la testa al toro e di annullare il processo. Tanto a che cosa serve? La sentenza è presto emessa: tutti colpevoli. A dispetto di quel che proprio due giorni fa aveva detto con solennità la ministra della giustizia Marta Cartabia a proposito del principio costituzionale della presunzione di innocenza. Un giornalista all’uopo lo si trova sempre, Riccardo Iacona. Un regista è già lì pronto, Riccardo Iacona, e così un direttore d’orchestra e un tecnico delle luci. Sempre lui, Riccardo Iacona. La prima immagine è suggestiva, un tripudio di luci color cobalto e la voce narrante che ti mette subito le mani alla gola: Vibo Valentia e la sua provincia si illuminano di blu, con tremila carabinieri e gli uomini del Gis che stringono d’assedio 334 arrestati e 416 indagati. Sono state smantellate le mafie di questi luoghi con i loro 160.000 abitanti e 50 Comuni. Sono I Cattivi. Accompagnati da una musica assordante da marcia funebre in un film dell’orrore. Ma per fortuna c’è il Buono. Ecco la prima immagine di soddisfazione del procuratore Gratteri (nel film comparirà complessivamente sei volte) nella conferenza stampa di quel 19 dicembre del 2019, dopo la retata di 334 persone. Nulla si dice di quel che è accaduto nei giorni successivi, le scarcerazioni, gli annullamenti disposti da giudici di diversi gradi, intervenuti con precisione chirurgica sulla vera pesca a strascico attuata dai carabinieri guidati dal procuratore capo. La musica si fa più drammatica mentre l’occhiuto ufficiale dei carabinieri a bordo dell’elicottero mostra i territori ormai occupati dai mafiosi che “si sono inseriti in ogni ambiente della città”. Suggestivo, così come lo è l’arresto in treno del boss della ‘ndrangheta Luigi Mancuso, dopo due anni di pedinamenti. Seconda immagine di Gratteri in conferenza stampa, che conferma. Ma si capisce subito che, benché lui sia effettivamente un capo mafia di gran peso in quelle zone della Calabria, non è lui il vero protagonista del film girato dalla Rai. Si butta lì l’argomento vero che sta a cuore agli autori del film dell’orrore: Mancuso sapeva con precisione il giorno e l’ora in cui sarebbe stato arrestato, tanto che si è dovuto giocare d’anticipo. Chi gli dava le notizie? Prima dei titoli di coda, appare in video l’Autore, che ci allarma sull’esistenza di “uomini infedeli della Pubblica Amministrazione”, butta lì il nome dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ci rassicura perché all’inchiesta hanno lavorato centinaia di uomini. Terza immagine di Gratteri in conferenza stampa. Frase lapidaria: questa non è cronaca giudiziaria, questa è la democrazia. Fine dell’Anteprima.

Il 19 dicembre del 2019. “Rinascita Scott” parte come “la più grande operazione antimafia dopo quella di Palermo”. Ma dopo poco i numeri dovrebbero provocare rossore sulle guance di chi l’operazione ha condotto. Dei 334 ordini di arresto ben 203 sono stati annullati: 51 dal gip, 123 dal tribunale della libertà, 13 dalla cassazione senza rinvio e 9 con rinvio. Una disfatta. Tutto ciò accadeva oltre un anno fa. Ma l’orologio della Rai si è fermato a quel 19 dicembre, infatti parla solo dei 334 finiti in carcere omettendo il fatto che ai due terzi di loro le manette sono state rapidamente tolte. Si accenna al fatto che il procuratore di Catanzaro attua un blitz ogni due mesi. Nessun cenno ai tanti flop arrivati dai primi processi su quelle operazioni, fino a “Nemea”, con otto assolti su 15 e una sentenza che nei fatti anticipa già un giudizio di condanna nei confronti di alcuni personaggi della cosca Mancuso. Il motivo per cui, se nella corte d’appello di Catanzaro esistono giudici attenti e rigorosi, il dibattimento “Rinascita Scott” dovrebbe essere fermato per cambiare due delle tre giudici del tribunale, in quanto, come loro stesse ammettono, incompatibili per pre-giudizio: sono le stesse magistrate di “Nemea”. Tutta la ricostruzione porta a puntare la telecamera su un Nicola Gratteri in maglioncino nel suo ufficio (quarta uscita), che non parla tanto di mafia o di omicidi o di lupara bianca. Eppure nel corso degli anni anche la Calabria, come la Sicilia, non si è fatta mancare niente. Lui riferisce all’intervistatore-autore di quanto sia stato bravo a sgomberare gli uffici della procura da persone curiose e sospette, tra cui persino uno che non era calabrese e neanche sposato. Chissà che cosa mai facesse in quei corridoi. Questo non è un momento di pace, ma di guerra, dice il procuratore. La mente va subito al processo dell’aula bunker, che è poi quel che sta facendo il dottor Gratteri in questi giorni nel ruolo dell’accusa. Il processo che la Rai considera inutile ora diventa anche terreno di “guerra”. E del resto le immagini dell’ufficio del procuratore si alternano con quelle dello stesso giornalista in un altro ufficio ricco di librerie e boiserie con decine di scatoloni: sono gli atti dell’accusa, fogli e fogli intestati alla procura della repubblica. Neanche lo sforzo di consultare l’ordinanza del gip. La storia della ‘ndrangheta o la risposta alla domanda ossessiva: come hanno fatto i Mancuso a diventare i re della zona? Hanno fatto tutto da soli?

L’avvocato Giancarlo Pittelli. Giancarlo Pittelli dovrebbe essere, nelle intenzioni, il pesce grosso della pesca a strascico. Il suo arresto però non è casuale, l’avvocato era nel mirino da almeno tre anni. Il trattamento cui viene sottoposto è da subito particolare, stressante, umiliante: ore di attesa, trasferimento in Sardegna, rifiuto da parte dei magistrati di sentire la sua versione dei fatti, troppo lungo per le toghe il viaggio da Catanzaro. È accusato di tutto e di niente: prima di associazione mafiosa, poi di concorso esterno, ma soprattutto di rivelazione di atti d’ufficio. Che potrebbe sembrare poca cosa, ma non lo sarebbe, se veramente lui avesse fornito al suo assistito Luigi Mancuso un intero verbale del pentito che lo accusa. Pittelli nega che ciò sia accaduto e prove non ce ne sono. C’è piuttosto il pervicace sospetto che aleggia intorno a qualunque avvocato che difenda imputati per reati di mafia. Non solo si identifica la persona con il reato, ma si estende il sospetto anche al legale. Per dare un’idea del trattamento che, anche sul piano giornalistico, sta subendo l’ex parlamentare, quando sul suo tavolo viene sequestrato un suo foglio di appunti, persino nella trasmissione della Rai il manoscritto viene definito “pizzino”, neanche Pittelli fosse Totò Riina. Si gioca sul fatto che in Parlamento l’avvocato, come fanno tutti i suoi colleghi, ma anche i magistrati, lavorasse nella commissione giustizia (raramente i giuristi vanno all’agricoltura o alle politiche sociali) e che presentasse al ministro interrogazioni in tema di diritto penale. Si mostrano le immagini dell’aula di Montecitorio, quasi fosse un prolungamento di una situazione ambigua, e le si alterna con le riprese carpite per strada, mentre legale e assistito entrano nello studio dell’avvocato. Si arriva a dire che non è stato possibile captare il colloquio tra i due (il che sarebbe anche vietato, o comunque non utilizzabile processualmente), ma che comunque lo si può immaginare. Quindi si è anche autorizzati a virgolettare il frutto dell’immaginazione di qualche carabiniere. Dopo che il procuratore Gratteri ha fatto la sua quinta comparsata, viene finalmente data la parola per qualche minuto ai due avvocati difensori di Giancarlo Pittelli, Salvatore Staiano e Guido Contestabile. I quali cercano di spiegare che il reato concretamente non c’è, e si sforzano invano di capire che cosa l’accusa (e anche Iacona e anche la Rai) intenda per “messa a disposizione” di Pittelli nei confronti della cosca Mancuso. Ha raccomandato la figlia all’università, si è interessato perché fosse operato un bambino malato? E dove è la prova del verbale trafugato del pentito? Forse ha ragione la Rai, è inutile fare il processo, se queste sono le “prove”. O forse erano inutili le manette e tutto quel che ne è seguito? Intanto l’inconsapevole Riccardo Iacona, dopo averci propinato la sesta uscita di Gratteri, augura al procuratore “buon lavoro” e gli invia “un abbraccio forte”. Ognuno ha gli amici che preferisce.

Processo Rinascita Scott, non si trovano gli atti d’Appello della difesa di Pittelli. Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2021. Gli atti di Appello depositati dagli avvocati Salvatore Staiano e Guido Contestabile nell’interesse di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, imputato in Rinascita-Scott per concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione e utilizzazione del segreto di ufficio e abuso di ufficio, non si trovano e pertanto al Riesame che avrebbe dovuto esaminare la richiesta non è rimasto altro che rinviato l’udienza a data da destinarsi. I giudici ieri avrebbero dovuto ridiscutere la misura cautelare del penalista (attualmente sospeso dalla professione), sul presupposto delle sue precarie condizioni di salute, dovute ai 16 mesi di detenzione tra carcere e arresti domiciliari, dove attualmente si trova. Per la difesa di Pittelli il riesame avrebbe dovuto avere carattere di urgenza visto che il proprio assistito versa, come da perizia psichiatrica allegata in atti, in uno stato psicologico tra rabbia e disperazione, caratterizzata “dall’assenza di uno slancio vitale”, una “forma di annichilimento fobico” e continui “flashback” quando la mente ritorna al periodo vissuto dietro le sbarre, che lo distruggono giorno dopo giorno. Un quadro psicologico reso più grave dal parkinsonismo, contraddistinto dal rallentamento psicomotorio e da tremori negli arti inferiori. E invece i tempi di attesa per decidere sull’appello proposto contro la decisione del Tribunale di Vibo di mantenere inalterata la misura cautelare degli arresti domiciliari con un provvedimento datato 29 aprile 2021, adesso si allungano senza che vi sia una data per ridiscutere l’istanza.

Il caso dell'avvocato da due anni agli arresti. Pittelli deve marcire ai domiciliari, ormai è un sequestro di persona. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Non lo mollano, è socialmente pericoloso e va bastonato. Magari solo perché Giancarlo Pittelli è un bravo avvocato e si è un po’ messo contro un procuratore permaloso che dietro l’aspetto bonario maschera anche qualche rancore. O magari perché è l’unico politico rimasto nelle maglie dei tanti flop delle inchieste di Calabria. Fatto sta che ormai a quasi due anni da quella notte del 19 dicembre del 2019 in cui Nicola Gratteri condusse un rastrellamento con la richiesta di manette per 334 calabresi, ancora il tribunale del riesame di Catanzaro rifiuta di rendere libero l’avvocato Giancarlo Pittelli. Pare un sequestro di persona. Lo tengono ai domiciliari non perché abbia ucciso o rapinato o stuprato. E neanche perché sia sospettato di qualcuno di quei reati da “spazzacorrotti” che piacciono tanto ai tanti giacobini che siedono in Parlamento. No, lui deve stare in ceppi, anche se domiciliari (ma i primi dieci mesi li ha passati in isolamento, galera tosta, a Nuoro, proprio un luogo comodo da raggiungere per familiari e difensori) perché sospettato di aver letto e raccontato ai propri assistiti il contenuto del verbale secretato di un “pentito”. Cioè, stiamo parlando di quelle scartoffie che qualunque cronista giudiziario legge e conosce ogni giorno del suo lavoro in tribunale. Perché le carte, e le intercettazioni e le testimonianze, hanno la bella abitudine di “sfuggire” dalla proverbiale riservatezza dei pm e marciare verso le edicole, le tv e i social. Però se le vede un avvocato, vuol dire che è un mafioso. Ma del fatto che Giancarlo Pittelli abbia avuto in mano quelle carte, le abbia lette e poi promesse e infine raccontate al suo assistito, il boss della ‘ndrangheta Luigi Mancuso, non solo non c’è alcun indizio, ma anzi c’è la prova del contrario. Ci sono le captazioni del trojan inserito nel suo cellulare, per esempio. In uno lui dice al suo interlocutore: «Io non posso dare consigli al mio cliente Mancuso perché non so che cosa potrà dire su di lui il collaboratore». E in un’altra, in cui si parla ancora della deposizione del pentito Andrea Mantella, il legale afferma: «Non ho i verbali». Ci credereste? Una manina, nei provvedimenti degli inquirenti, aggiunge “ancora”. Come a dire: non mi sono ancora stati consegnati, ma li aspetto. Peccato però che una perizia, fatta disporre dagli avvocati Salvatore Stajano e Guido Contestabile, dimostri che nella trascrizione quell’ “ancora” non c’è. Quindi rimane in fatto che l’avvocato non aveva la deposizione del “pentito”. Del resto, negli anni trascorsi dal 1981 (data in cui Pittelli ha iniziato ad avere come cliente il boss Mancuso) fino al momento del suo arresto, tra lui e l’assistito ci sono state almeno un migliaio di conversazioni telefoniche, la gran parte delle quali è agli atti del processo. Sono tutte coperte dal segreto previsto dal codice per quel che riguarda i colloqui tecnici tra difensore e assistito, ma gli inquirenti ne hanno avuto accesso. Hanno mai trovato la prova del reato contestato all’avvocato Pittelli? Assolutamente no, perché la prova non c’è. Pure Giancarlo Pittelli continua a essere bastonato. A ogni ricorso – al riesame, in Cassazione – un’aggiustatina al reato e agli indizi che dovrebbero sorreggerlo, ma quell’aggravante mafiosa resta, anche se solo sulla questione del verbale “violato”. Quasi che in terra di Calabria la professione di avvocato non fosse legittima, o che si dovessero difendere solo gli innocenti. Ma in quella regione c’è questo procuratore intoccabile, che si esibì in quella conferenza stampa del 20 dicembre di due anni fa, dopo quel blitz chiamato “Rinascita Scott” che gli verrà distrutto in gran parte dai giudici di vari livelli, tanto che sarà costretto a inventarsene subito un altro dal nome bizzarro “Imponimento”. Quel procuratore aveva subito detto che «Pittelli era l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria». Gli aveva fatto eco il Gip, parlando di «Giano bifronte, Parca della nuova era». E poi giù con mazzate che rasentavano il ridicolo. Come quando si contestava all’avvocato, che difende il suo assistito dal 1981, una certa familiarità, tanto che i due si davano del “voi”, come se al sud d’Italia questo non fosse una cosa normale. Oppure il fatto che la moglie di Mancuso, parlando al telefono con l’avvocato, gli chiedesse notizie sulla sua famiglia. Cose così. Come l’elenco degli “indizi” messi insieme da procura e gip nell’ordinanza di custodia cautelare, sempre per dimostrare che il rapporto di “familiarità” tra legale e assistito dimostrava l’appartenenza del primo alla cosca. Si accusa Pittelli di aver raccomandato la figlia di Mancuso per un esame all’università, cosa non vera. Poi di aver chiesto aiuto ai medici di Catanzaro per un bambino affetto da leucemia, e anche di aver segnalato a Mancuso il nome di un cardiologo, piuttosto che l’indirizzo di un’enoteca dove vendevano una certa marca di champagne. Tutto questo condimento, mescolato al punto vero dell’accusa, la questione dei verbali del “pentito”. C’è da domandarsi che cosa stia dietro a tanto accanimento, da non concedere la libertà dopo due anni. C’è il timore che Pittelli espatrii o che ripeta il reato, essendo tra l’altro sospeso dall’Ordine degli avvocati? E quali prove potrebbe ormai inquinare? È pur sempre un cittadino in attesa di giudizio. magari invece la realtà è più semplice. E da più parti continua a esserci un certo timore reverenziale nei confronti del Grande Accusatore, il procuratore Nicola Gratteri. Intanto occorre ricordare che né lui né il gip probabilmente in futuro potranno fare quella dichiarazione nei confronti di nessun indagato o imputato, come hanno fatto con Pittelli, dopo che l’Italia ha aderito alla dichiarazione europea sulla presunzione di innocenza. E poi c’è un’altra storia da raccontare, anche se si basa sulla testimonianza di una persona che non c’è più, il direttore del quotidiano online “Corriere di Calabria” Paolo Pollichieni. Il giornalista, che aveva un buon rapporto con il procuratore, avrebbe riferito a Pittelli che il dottor Gratteri aveva una sorta di rancore nei suoi confronti, tanto che lo definiva «massone e amico dei Mancuso». Prima di morire (il 7 maggio del 2019), Pollichieni avrebbe detto a Pittelli che Gratteri lo avrebbe arrestato perché era responsabile di «aver scritto o detto qualcosa sullo stesso pm». Giancarlo Pittelli si è arrovellato a lungo su queste dichiarazioni, tanto da aver steso un promemoria difensivo, che gli è stato poi sequestrato nel suo studio dopo l’arresto. Si era poi ricordato di una sua eccezione di inutilizzabilità presentata al gup di Reggio Calabria in cui accusava il fatto che c’erano stati dei falsi nell’acquisizione di chat con sistema criptato. Possibile che Gratteri si sia offeso perché accusato di falsificazione? Possibile sì, se è vero quel che si dice sul suo carattere apparentemente cordiale ma in realtà ombroso e suscettibile. Storie di Calabria, che si intrecciano a vicende giudiziarie. Come quell’intercettazione del 2018 in cui l’avvocato Pittelli parla con un collega del suo studio e riferisce un’altra “dritta”, che viene da un collaboratore di fiducia del procuratore capo di Catanzaro, il maresciallo D’Alessandro. Anche lui gli avrebbe riferito che Nicola Gratteri aveva del “risentimento” nei suoi confronti. Storie di Calabria, appunto. Come i tanti fallimenti, le tante inchieste demolite dai giudici dopo che erano state presentate alla stampa, ogni volta, come la definitiva spallata alla ‘ndrangheta. Di politici come Pittelli, che è stato anche deputato per tre legislature, nelle mani il procuratore Gratteri non ne ha quasi più. E Pittelli è sempre un boccone prelibato. Poi ci sono le suscettibilità e i rancori, un po’ come pizzi e vecchi merletti…

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2021. Da ex senatore di Forza Italia a «postino» delle cosche. Giancarlo Pittelli, avvocato, è ritornato in carcere - era stato già arrestato nell'ambito dell'inchiesta «Rinascita Scott» - con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché considerato «faccendiere di riferimento» della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Per i magistrati della direzione antimafia di Reggio Calabria, Pittelli avrebbe «veicolato informazioni dall'interno all'esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli, detenuti al 41 bis. Si sarebbe, inoltre, «messo a disposizione» di uno degli arrestati, Rocco Delfino, legato ai Piromalli, per «aggiustare» alcune sue vicende giudiziarie e societarie e tentare la revisione di un processo, «intercedendo» con l'ex presidente di sezione della Corte d'Appello di Catanzaro Marco Petrini, già condannato a quattro anni e 4 mesi per corruzione in atti giudiziari. E ancora, si sarebbe speso per cercare informazioni riservate sull'omicidio del giudice Antonino Scopelliti, su «delega» di Pino «Facciazza» Piromalli, tra gli indagati per l'omicidio eccellente. L'inchiesta «Mala pigna» sviluppata dai carabinieri del Comando di Reggio Calabria, assieme ai colleghi della Forestale e dal Nipaaf (nucleo investigativo ambientale), ha accertato l'esistenza di un'organizzazione che si era specializzata nell'interrare rifiuti speciali. I valori nocivi rilevati dalle scorie sotterrate nei terreni erano superiori del 6.000%, rispetto ai valori consentiti. Ettari di terreno, nel cuore fertile della Piana di Gioia Tauro, sono risultati inquinati da materiale ferroso, scorie e fanghi contaminati. L'operazione ha interessato anche Brescia, la Brianza e l'Emilia-Romagna, dove sono state sequestrate 5 aziende. Diciannove le persone arrestate, dieci ai domiciliari accusate a vario titolo di associazione a delinquere, disastro ambientale e traffico illecito di rifiuti. Tra questi Salvatore Trovato, di Taurianova, imprenditore nel campo dell'autodemolizione e padre di Sissy, l'agente penitenziaria di 29 anni, in servizio al carcere della Giudecca, morta nel 2019, dopo due anni di agonia,per un proiettile esploso dalla sua pistola d'ordinanza, all'interno dell'ascensore dell'ospedale civile di Venezia. I Piromalli sarebbero stati favoriti nella gestione dei traffici di rifiuti speciali, anche da amministratori giudiziari infedeli come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi, finiti ai domiciliari. I due nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati, si erano «stabilmente inseriti nell'organizzazione e partecipavano alle attività del gruppo», con avvocati, commercialisti e un sovrintendente della polizia.

L'ex senatore coinvolto in una inchiesta sui rifiuti. Pittelli arrestato per concorso esterno, l’avvocato "sequestrato" da 2 anni torna in carcere nonostante le condizioni di salute. Redazione su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. La scure della giustizia si abbatte ancora una volta su Giancarlo Pittelli. L’avvocato ed ex senatore di Forza Italia, già agli arresti domiciliari perché imputato nel processo Rinascita-Scott, dopo aver trascorso 10 mesi nel carcere speciale di Nuoro in Sardegna e dall’ottobre 2020 ai domiciliari nonostante condizioni di salute sempre più gravi, è nell’elenco dei destinatari delle ordinanze cautelari nell’ambito dell’inchiesta dalla DDA di Reggio Calabria "Mala pigna". Pittelli è stato condotto nuovamente in carcere: con lui sono stati arrestati altri 28 indagati, tutti destinatari di ordinanza firmata dal gip Vincenza Bellini su richiesta del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Gaetano Paci e dei sostituti della Dda Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Per l’ex senatore berlusconiano, già arrestato e condotto in carcere per l’inchiesta di Gratteri ‘Rinascita-Scott’ il 19 dicembre 2019, l’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa per traffico illecito di rifiuti. L’indagine verte su un presunto traffico di rifiuti gestito dalla cosca Piromalli di Gioia Tauro. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria Pittelli, legale di fiducia della famiglia Piromalli, era “uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto "sinallagmatico"”. Un rapporto, scrivono i pm, “caratterizzato dalla perdurante e reciproca disponibilità”. Pittelli avrebbe garantito “la sua generale disponibilità nei confronti del sodalizio a risolvere i più svariati problemi degli associati, sfruttando le enormi potenzialità derivanti dai rapporti del medesimo con importanti esponenti delle istituzioni e della pubblica amministrazione”. L’ex senatore aveva secondo i magistrati della DDA “illimitate possibilità di accesso a notizie riservate e a trattamenti di favore”. Per questo “veicolava informazioni all’interno e all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti in regime carcerario ai sensi dell’articolo 41 bis”. In particolare ad usufruire dei "servizi" di Pittelli sarebbero stati Giuseppe Piromalli detto “Facciazza” e il figlio Antonio Piromalli, reggente della cosca. Giuseppe Piromalli è attualmente indagato quale mandante, in concorso con altri capi di cosche di ‘ndrangheta’ e di ‘cosa nostra’ siciliana, dell’omicidio del procuratore generale della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti.

Giancarlo Pittelli torna a casa, i magistrati lo trattano come un pacco. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Novembre 2021. Neanche fosse un pacco postale, l’avvocato Giancarlo Pittelli è stato finalmente lasciato libero di tornare a casa, dopo esser stato di fatto sequestrato indebitamente per tre giorni nel carcere di “San Pietro”, a Reggio Calabria. Mancava il braccialetto elettronico, e senza di quello gli amici del procuratore Gratteri non lo lasciavano andare. L’ex parlamentare di Forza Italia è l’unico politico ancora prigioniero delle inchieste dei magistrati calabresi, quindi su di lui si mena forte. Era ai domiciliari con il suo bel braccialetto elettronico che gli stringeva la caviglia, dopo che nel dicembre di due anni fa era stato arrestato nel blitz di cui va orgoglioso il procuratore Nicola Gratteri, quando il 19 ottobre scorso era finito di nuovo in carcere. Questa volta l’inchiesta era condotta dalla procura di Reggio Calabria nei confronti della cosca Piromalli e si chiama “Mala Pigna”. Ma come? Ma l’ultimo provvedimento votato dal governo Draghi dopo l’ampio consenso avuto anche dalle due commissioni giustizia di Camera e Senato, non dovrebbe aver abolito i set cinematografici e i nomi di fantasia delle inchieste giudiziarie? Evidentemente in Calabria non si usa così. Non si applicano le leggi, a quanto pare. “Mala Pigna” ha dunque trasformato l’avvocato di Catanzaro in pacco postale. Ricordiamo prima di tutto che Giancarlo Pittelli non è accusato di aver ucciso né rapinato né stuprato. E neanche di aver commesso uno dei reati tipici delle cosche mafiose, cioè le minacce, le estorsioni, i ricatti, piuttosto che il traffico di stupefacenti. Niente di tutto ciò. Siamo alle solite, al reato che non c’è, all’evanescenza di quel “concorso esterno” che è utile solo alla vanità di certi inquirenti per sbarcare sulle prime pagine dei giornali, e poi nei Tg e infine anche in qualche talk show. Nel caso dell’avvocato Pittelli, una volta è accusato di scambio di opinioni, di pissi pissi bau bau con gli uomini del clan Mancuso, in un’altra con gli accoliti della cosca Piromalli. Viene sempre messo in discussione il modo di svolgere la professione di difensore, quasi come si ritenesse che in Calabria sarebbe meglio che nessun avvocato debba assistere gli indagati per mafia, e si mettesse in guardia chi invece lo fa, con le inchieste giudiziarie. Nel caso di Pittelli le legnate sono a andate giù pesanti, fin dall’inizio dell’inchiesta “Rinascita Scott”. Carcere duro a Nuoro per otto mesi, lontano da familiari e difensori, poi domiciliari con braccialetto elettronico. Come se si potesse ipotizzare una fuga dell’indagato. Sempre trattato, nelle pubbliche dichiarazioni dei magistrati, come un leader, se non proprio un capo della ‘ndrangheta. Pur se esterno. Il dottor Gratteri lo considerava “…l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria”. E il gip aveva fatto eco definendolo “Giano bifronte”. Ma sono passati due anni, è anche cominciato il processo a Lamezia senza che mai uno straccio di prova sia emerso nei confronti dell’avvocato Pittelli. Poi, proprio quando qualcosa si stava muovendo a suo favore, perché almeno gli fosse restituita la sua libertà e la possibilità di difendersi nell’aula senza vincoli e senza braccialetto alla caviglia, ecco che si svegliano all’improvviso i procuratori di Reggio Calabria. E siamo alle solite, con i sospetti che un avvocato non sia un difensore ma un complice, uno che fa il trombettiere portando qua e là notizie riservate delle inchieste giudiziarie. Come se l’Italia non fosse da molti anni il luogo dove alcuni pm e rappresentanti delle forze dell’ordine dedicano un po’ del loro tempo a depositare atti d’indagine riservati direttamente in edicola. O, sempre più spesso, sulla scrivania di Marco Travaglio e dei suoi “complici” di redazione. Complici in bravura, naturalmente! C’è da domandarsi, da chiedere al gip di Reggio Calabria che ha disposto l’arresto e al pm che l’ha chiesto: era proprio necessaria la custodia cautelare in carcere? C’era veramente pericolo che l’avvocato Pittelli tentasse di scappare, di inquinare le prove o di ripetere il reato? Stiamo parlando di uno che, in un modo o nell’altro, era ristretto da due anni. Che cosa poteva combinare? Ma se non era libero neanche di fare una telefonata o di affacciarsi sull’uscio di casa. Eppure, alle sei del mattino –l’ora in cui nel Regno Unito di un tempo arrivava il lattaio- si erano presentati “quattro gendarmi” e gli avevano messo le manette ai polsi. Poi via in auto, o forse con il comodissimo blindato, da Catanzaro a Reggio Calabria. L’unico vantaggio nell’andare in galera, è che ti tolgono il braccialetto elettronico. Un piccolo sollievo, che infine diventerà però l’intralcio alla libertà. E sì, perché venerdi scorso il tribunale del riesame aveva accolto la richiesta degli avvocati Salvatore Stajano e Guido Contestabile e trasformato la custodia in carcere in domiciliari. Ed ecco il problema, perché per gli inquirenti del processo “Rinascita Scott” l’avvocato Pittelli avrebbe dovuto indossare ancora il braccialetto elettronico, anche se questo non era richiesto da quelli di Reggio. Come fare? Il “monile” indossato per tanti mesi dall’ex parlamentare di Forza Italia non c’era più, evidentemente era stato assegnato a un altro detenuto. Per capire come mai ciò sia accaduto, perché ci sia tanta fame di braccialetti, bisognerebbe ricordare la storia di questi strumenti dal 2001 a oggi, che nel corso di vent’anni ha visto impegnati ministri dell’interno che si chiamano Enzo Bianco, Beppe Pisanu, Annamaria Cancellieri, Marco Minniti. Fino all’ineffabile Alfonso Bonafede. Sono stati spesi centinaia di milioni e non ce ne sono mai a sufficienza. L’ultimo appalto da 45 milioni di euro per 12.000 pezzi nel 2017 è stato vinto da Fastweb. Il primo lotto era stato affidato vent’anni fa a Telecom. L’anno scorso però ne mancavano ancora 12.000, proprio nei mesi in cui il decreto “Cura Italia” aveva condizionato al loro uso la possibilità per detenuti condannati a reati non gravi di scontare gli ultimi sei mesi alla propria abitazione. Nel 2020 ne sono stati prodotti solo 4.700. Ma come è possibile? E, senza voler accusare nessuno, come mai a nessun pm è venuta la curiosità di capire il perché di questa grave disfunzione? Forse la risposta è una sola: si vuole più carcere. Così il pacco postale Pittelli è stato sequestrato tre giorni nell’istituto di pena “S. Pietro”. Ma stiamo parlando di un caso conosciuto. Vorremmo sapere a quanti altri prigionieri capita ogni giorno di essere privati per giorni e giorni del proprio diritto a un po’ più di libertà, di aria pura. Ogni giorno in prigione è lungo un secolo di sofferenza. Importa a qualche toga o a qualche divisa? O magari a qualche giornalista?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pittelli: «Contro di me campagna mediatica senza precedenti».  Nuova lettera di Giancarlo Pittelli dal carcere di Melfi. L'ex senatore: «Mi hanno dipinto in maniera totalmente distorta: nessuno ha voluto sentirmi». Il Dubbio il 20 dicembre 2021. Rompe il silenzio Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare imputato cardine del maxi processo “Rinascita Scott” contro la ’ndrangheta. Pittelli è intervenuto in udienza nell’aula bunker di Lamezia Terme in videocollegamento dal carcere di Melfi, dove si trova detenuto. Il primo aspetto ha riguardato la lettera inviata al ministro Mara Carfagna che gli è costata il carcere per avere violato le restrizioni degli arresti domiciliari: »Ho scritto la lettera ad una vecchia amica ed è stata vista con una improbabile e grave violazione che è stata sanzionata con durezza e severità. I contenuti di quella lettera, nella parte in cui fanno riferimento alla disattenzione della giurisdizione a favore della pubblica accusa – ha aggiunto Pittelli – non hanno nulla a che fare con il collegio. Ma si riferivano alla fase della misura cautelare lunghissima che io ho subito. Non ho mai tentato di intervenire nel processo e per il processo – ha proseguito – e vi spiegherò, quando i miei avvocati mi autorizzeranno a rendere dichiarazioni spontanee nel merito della vicenda, le ragioni per le quali lamentavo e lamento ancora un trattamento particolare e immotivato».  Pittelli, che è anche un noto penalista, ha poi detto: «Da dicembre 2019 esisto solo negli atti del processo e nei servizi televisivi e giornalistici che hanno inteso rappresentarmi in maniera completamente distorta. Sono stato sottoposto ad una campagna mediatica che in 43 anni di professione non ho mai visto. Esisto da dicembre 2019 solo negli atti e nel clamore mediatico creato anche e non solo per questioni di audience e di notorietà. La mia voce non è stata ascoltata da alcuno. L’avvocato Staiano (suo difensore, ndr) – ha concluso Pittelli – sostiene che avessero accordi sul fatto che io non venissi interrogato, io non ne conosco la ragione e pensavo diversamente».

Giancarlo Pittelli? Che aberrazione se un'implorazione diventa motivo di condanna. Libero Quotidiano il 17 dicembre 2021. Giancarlo Pittelli, che s' è fatto già un paio d'anni di custodia cautelare, e cioè da presunto innocente, è stato nuovamente mandato in carcere su delazione della ministra Carfagna, che ha girato agli sbirri la lettera con cui quel detenuto in attesa di giudizio la implorava di interessarsi alla sua vicenda. Non uso quella parola (sbirri) per mancare di rispetto agli agenti di pubblica sicurezza che, per ineludibile dovere d'ufficio, hanno a loro volta recapitato la prova del delitto (una lettera d'invocazione d'aiuto) alla piovra togata che ha rispedito in prigione Pittelli. E se poi uso l'altro termine (delazione) non è per attribuire alla onorevole ministressa chissà quale intendimento persecutorio, ma solo la spensierata per quanto non propriamente nobilissima condotta del capocaseggiato che s' intesta la protezione degli interessi nazionali denunciando il renitente al Sabato Fascista. Non spiegheremo che nel prescegliere tra il diritto dello Stato di imprigionare, prima del processo, il responsabile di una epistola mal diretta, e quello di un indagato - chiunque egli sia - di reclamare un pizzico di attenzione per la propria vita sconvolta, forse occorrerebbe affidarsi almeno al dubbio. E che se è vero che esiste l'obbligatorietà dell'azione penale, è altrettanto vero che non si è eletti al parlamento né si è nominati ministri per passare le carte, tanto meno quelle di corrispondenza privata, al pm specialista in rastrellamenti e requisitorie televisive. Che Pittelli abbia sbagliato - contravvenendo, con quella lettera, ai rigori della detenzione domiciliareè possibilissimo: anzi, visto quel che ne ha cavato, si può dire ha sbagliato senz' altro. Ma c'è qualcosa di osceno, qualcosa che ripugna al criterio minimo di umana civiltà, nella scena di quell'implorazione ripagata con quel freddo supplemento di pena.

Il retroscena. Pittelli aveva denunciato i pm di Catanzaro, che fine ha fatto l’esposto? Otello Lupacchini su Il Riformista il 21 Dicembre 2021.

«Eccellenza Lupacchini,

«Lei è l’unica persona alla quale posso rivolgermi e nella quale posso riporre tutta la mia fiducia.

«La giurisdizione calabrese e quella catanzarese, in particolare, ha abdicato completamente genuflettendosi dinanzi al potente di turno, personaggio privo di qualunque scrupolo morale e capace di qualunque nefandezza per il potere.

«…In questo lungo mese di detenzione, assieme ai miei collaboratori abbiamo ricostruito le vicende che, in un primo momento, avevamo ritenuto fossero completamente avulse dalla mia tragedia…»

Era il 20 gennaio del 2020, quando ricevetti la lettera manoscritta, datata erroneamente «Nuoro 11/3/2020», dell’avvocato Giancarlo Pittelli, all’epoca detenuto nel carcere di Badu e Carros dove era sottoposto al regime previsto dall’art. 41bis, di cui quello trascritto è soltanto l’incipit. Essa si concludeva con una disperata richiesta di aiuto: «Io La supplico di aiutarmi. Voglio che la verità si sappia e solo Lei può essere così forte e coraggioso da aiutarmi.» L’avvocato Giancarlo Pittelli, nel momento in cui, trovandosi in stato di detenzione, scriveva questa lettera, non era più, ormai da anni, l’uomo di potere di cui parlava nel 2007 Mariano Lombardi, all’epoca procuratore della Repubblica di Catanzaro, allorché aveva dichiarato, in due interviste a La Stampa e a Calabria Ora, che Luigi de Magistris sapeva da sempre dei suoi buoni rapporti con l’allora senatore di Forza Italia: «Un rapporto che in qualche occasione ha fatto comodo anche a de Magistris. Un rapporto, dunque, noto al pm e da lui anche utilizzato».

Mariano Lombardi, per dimostrare la fondatezza della sua affermazione, citò un episodio, che, pur senza dir troppo, lasciava intendere quanto, a quei tempi, «contasse» politicamente il senatore-avvocato Giancarlo Pittelli: «C’era un’indagine con parti offese magistrati di Reggio. Nell’indagine finiscono anche parlamentari di An: Angela Napoli, all’epoca vicepresidente dell’Antimafia, e Giuseppe Valentino, allora sottosegretario alla Giustizia. Capitò che vennero intercettati e registrati anche colloqui tra Valentino ed uno degli imputati, l’avv. Paolo Romeo. Il senatore Valentino era anche difensore di fiducia del Romeo, insomma quei dialoghi non potevano essere riprodotti per due gravi ragioni: lo status di parlamentare e quello di difensore di fiducia ed invece finirono sui giornali. Il presidente dell’Antimafia Centaro chiese chiarimenti e lo stesso fece il presidente della Camera, Casini. Insomma, stava montando uno scontro istituzionale terribile e noi avevamo delle difficoltà. Vengono da me de Magistris e Mario Spagnuolo, i due pm del processo in questione. Mi chiedono di fare qualcosa per saperne di più, parlo con loro e gli dico che conosco solo Pittelli ed allora gli telefono davanti a loro. Non mi faccia dire altro (…) Non so cosa fece Pittelli. So che io scrissi delle deduzioni che mandai a Camera e Antimafia. Erano deduzioni non certo esaustive, ma sta di fatto che le presero per buone».

Tutto questo non spiega, comunque, perché il detenuto Giancarlo Pittelli, ormai «fuori» dal giro politico che conta e raggiunto da accuse pesantissime, quel 20 gennaio 2020, si rivolgesse per aiuto proprio a me. Né capii allora e men che meno lo capisco oggi quale fosse l’aiuto che si aspettasse. È pur vero che quando ricevetti la sua missiva ero ancora il procuratore generale presso la corte d’appello di Catanzaro, tenuto, come tale, ad acquisire «dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti» (art. 6 d.lgs. n. 106 del 2006); ma era anche noto, specie a chi si occupasse di cose di giustizia, come il concreto esercizio di quel potere fosse pesantemente mortificato da una prassi prona agli interessi di esponenti normofobi dell’aristocrazia togata, allergici a qualsiasi forma di controllo.

D’altra parte, quel 20 gennaio 2020, era altrettanto noto come fossero in atto, addirittura in fase avanzata e irreversibile, le grandi manovre sinergiche del ministro della giustizia, della procura generale della cassazione, della sezione disciplinare e della prima commissione del consiglio superiore della magistratura, per rimuovermi dall’incarico: se mi si fosse stato contestato di aver fatto turpe mercimonio delle funzioni giudiziarie, magari ad adiuvandam concubinam, me la sarei anche potuta cavare con un trasferimento d’ufficio a una sede geograficamente «comoda», con carichi di lavoro agevolmente fronteggiabili e pure prestigiosa, ma a fronte dell’incolpazione mossami di un imperdonabile crimen lesae maiestatis, per avere dichiarato pubblicamente di non poter parlare dell’ecatombale operazione «Rinascita Scott», per il semplice fatto che di essa ignoravo tutto, visto che nessuno aveva ritenuto di informarne, come invece sarebbe stato doveroso, il procuratore generale, essendo più importante, invece, portarne a conoscenza la stampa; e, cosa ancor più grave, mi ero spinto a rivelare che il re era nudo, dichiarando che molte delle grosse operazioni contro la ’ndrangheta e la massomafia calabrese negli ultimi anni erano naufragate per evanescenza, «come ombra lunatica», dei rispettivi impianti accusatori. Insomma, affatto improvvidamente, il detenuto Giancarlo Pittelli, si rivolse proprio a me aspettandosi un non meglio precisato aiuto.

Ma perché, dopo quasi due anni dalla ricezione di quella missiva, ne parlo pubblicamente proprio e solo oggi?

Questo, naturalmente, non ha nulla a che vedere con la più recente missiva che lo stesso avvocato Giancarlo Pittelli, dal luogo di arresto domiciliare, ha indirizzato all’onorevole Mara Carfagna, già sua collega di partito, alla quale si è rivolto «In nome della vecchia amicizia» per farle presente la sua situazione giudiziaria: «Cara Mara, non potrei avere rapporti di corrispondenza con nessuno ma ti prego di credere che sono disperato. Aiutami in qualunque modo, io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente (…) Ti chiedo di non abbandonarmi perché sono un innocente finito nelle grinfie di folli per ragioni che rivelerò alla prima occasione. Grazie per quanto potrai fare». Una missiva che, finita in mano ai suoi inquisitori, ne ha determinato l’aggravamento della misura cautelare e il rientro in carcere, avendovi letto i giudici la «manifesta (…) volontà di incidere sul regolare svolgimento del processo».

La ragione è un’altra e sento di doverla disvelare. Io non tenni per me la lettera indirizzatami il 20 gennaio 2020, ma la trasmisi, ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale, alla procura della Repubblica di Salerno, competente a conoscere dei reati commessi da o in danno di magistrati del distretto di Catanzaro: essa veicolava, fra l’altro, una notitia criminis per un fatto di assoluta gravità e di indubbia rilevanza penale, che non potevo tenere per me. Una denuncia nei confronti di ben individuato magistrato operante a Catanzaro, articolata, precisa, almeno in apparenza documentata e corredata dall’indicazione di testimoni. Tutti elementi, insomma, idonei a verificarla. Dopo due anni, mi chiedo e voglio qui condividere l’interrogativo: sono mai state aperte indagini sulle gravi accuse mosse dall’avvocato Giancarlo Pittelli? Ammesso che indagini preliminari siano state avviate, due sono i casi: se la notitia criminis veicolata dalla missiva 20 gennaio 2020 fosse stata verificata positivamente, ne sarebbe dovuto conseguire l’esercizio dell’azione penale nei confronti del magistrato accusato e dei suoi eventuali complici; se, invece, la verifica della notitia criminis fosse stata negativa, la conseguenza avrebbe dovuto essere l’apertura di un procedimento per calunnia nei confronti dell’accusatore, fatto questo ben più grave della violazione meramente formale del divieto di comunicare con terzi non conviventi in corso di arresto domiciliare.

Nel silenzio tombale sulla vicenda, mi chiedo cosa sia realmente successo. E, con la logica, magari naïfe, del quisque de populo, mi chiedo come la solerte magistratura salernitana abbia proceduto in ordine a un accertamento doveroso, evitando il rischio di creare un qualche imbarazzo al potentissimo magistrato catanzarese chiamato irriguardosamente in causa dall’ avvocato Giancarlo Pittelli, per sua sventura ormai raté.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il diritto costituzionale alla corrispondenza è inviolabile. Pittelli sbattuto di nuovo in cella, l’accusa: “Ha scritto una lettera alla Carfagna”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Sequestrato, murato vivo, prigioniero politico. Scegliete voi l’espressione più adeguata a descrivere la situazione dell’avvocato Giancarlo Pittelli, sbattuto per la terza volta in galera con motivazioni di volta in volta più paradossali. Prigioniero di uno Stato democratico in cui in tanti, giustamente, protestiamo perché il regime di Al Sisi ha trattenuto per due anni in carcere un cittadino egiziano per la semplice manifestazione del pensiero. E siamo felici della scarcerazione di Patrick Zaki, tanto quanto siamo, e dovremmo essere tutti quanti, scandalizzati e pieni di orrore perché invece un cittadino italiano, un onesto e bravo avvocato, viene tenuto in ceppi, sequestrato dallo Stato italiano democratico, da due anni per l’ineffabile “concorso esterno”. Che è meno di un reato d’opinione, perché non comporta concreti atti e neanche concrete parole.

Giancarlo Pittelli è stato arrestato per la terza volta per aver scritto una lettera, mentre era in detenzione domiciliare, alla ministra e parlamentare Mara Carfagna. Ha lanciato il suo urlo disperato a un’ex collega, visto che lui stesso è stato deputato e senatore, chiedendo aiuto. È un reato? Assolutamente no. Il diritto alla comunicazione e alla corrispondenza è costituzionale e inviolabile, tanto che non ne sono privati neanche i detenuti al regime di 41bis. Pure, quando la segreteria della ministra (non se ne capisce comunque la ragione) ha trasmesso la missiva all’Ispettorato di pubblica sicurezza di Palazzo Chigi, che a sua volta l’ha inoltrata alla squadra mobile di Catanzaro e quindi al procuratore Gratteri, il reato è all’improvviso saltato fuori. Articolo 276 del codice di procedura penale, quello sulla “trasgressione alle prescrizioni imposte”.  Ma Pittelli non si è mai allontanato dal luogo della detenzione domiciliare e neanche ha comunicato, per esempio con l’uso del telefono, con persone estranee a quelle conviventi. Ha urlato la propria disperazione a una persona che evidentemente riteneva amica con parole forti ma legittime da parte di chiunque. E forse un po’ di più quando ti vedi il mondo crollare addosso e non sai neanche perché. «Sono detenuto in ragione di accuse folli formulate dalla procura di Gratteri ed asseverate dalla giurisdizione asservita», ha scritto a colei che credeva amica. È un giudizio forte, e allora? Vogliamo contestargli anche qualche reato d’opinione?

Quando il legale dice “giurisdizione asservita” si riferisce alla magistratura giudicante che nel suo caso non si è mai, prima della cassazione, discostata dalle richieste del procuratore Gratteri. Il quale aveva da subito dato un giudizio politico (e illegittimo, secondo le norme sulla presunzione di innocenza) sul boccone grosso del suo blitz, definendo il legale «l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria». In ogni caso, asserviti o non asserviti che siano gli organi giudicanti al Gratteri pensiero, fatto sta che il tribunale di Vibo Valentia, competente a decidere sulla richiesta della procura, ha stabilito che…indovinate un po’? Che Giancarlo Pittelli tornasse in carcere. Per reato epistolare, evidentemente. Non solo per aver trasgredito alle regole del silenzio imposte, neanche dovesse abitare in un convento di clausura, ma anche per la sua intenzione -così è scritto nel provvedimento- di reiterare il reato. Perché, nel tentativo disperato di sentire una voce che riteneva amica, in fondo alla lettera che inizia con “Cara Mara” (confidenza ritenuta un’aggravante), l’incauto, con comportamento da vero innocente, ha fornito il numero di telefono della moglie.

Sperando magari in una chiamata da ascoltare con il vivavoce. «Aiutami in qualunque modo –conclude- Io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente». Invece dell’aiuto sono arrivate le manette. E un giudizio sferzante da parte delle tre giudici del collegio che sta celebrando nella maxi aula di Lamezia il processo “Rinascita Scott”. Le quali (ci è consentito rimpiangere la presidente Tiziana Macrì, costretta all’astensione per un debolissimo precedente di giudizio su richiesta del procuratore Gratteri?) rilevano anche il fatto che «Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo». Dire che c’è malizia politica in questa frase è usare un eufemismo. E anche stupore. Ci siamo tuffati all’improvviso in un tribunale egiziano? O non è diritto di ogni imputato battersi per la dimostrazione della propria innocenza? E, soprattutto da parte di un esponente politico, coinvolgere amici che lo sostengano presso l’opinione pubblica per raggiungere il risultato dell’assoluzione? Che cosa si intende per “regolare processo”, forse quello in cui i giudici danno sempre ragione alla stessa parte, quella dell’accusa?

Il 19 dicembre scadono due anni da quando l’avvocato Pittelli è stato trascinato in manette di notte insieme ad altre 300 persone nell’operazione “Rinascita Scott”, quella di cui si è vantato il procuratore Gratteri il giorno dopo in una di quelle conferenze stampa che, se verrà osservata la decisione del Parlamento in ottemperanza di decisioni europee, nessun procuratore potrà più mettere in scena. A meno che non stia scoppiando una guerra nucleare o non stiano arrivando gli alieni. Mentre l’avvocato giaceva nel carcere nuorese di Bad‘e Carros, quello in cui negli anni settanta e ottanta venivano rinchiusi i sospetti di terrorismo, l’ipotesi d’accusa del 2019 si era afflosciata come un soufflé subito in cassazione. Il legale non era un affiliato alla ‘ndrangheta, avevano detto gli alti magistrati, e neanche era responsabile di rivelazione di segreti d’ufficio e di abuso in atti d’ufficio. Non era stato “promotore” di cosche mafiose neanche come soggetto esterno. Però un po’ esterno comunque era considerato, secondo quella vulgata sbirresca per cui l’avvocato è contagiato dall’assistito, così, oltre a essere considerato un intralcio allo svolgimento del processo, è per forza il sodale della persona che difende. Se assiste il mafioso, o presunto tale, in qualche modo è un po’ mafioso anche lui.

Le accuse che lo riguardavano erano frutto di intercettazioni. Nella sbobinatura di una delle quali era addirittura risultata, da una perizia di parte, l’aggiunta di un avverbio che nel testo verbale non esisteva. Non è un particolare da niente, perché Giancarlo Pittelli è sospettato di aver divulgato al proprio assistito notizie apprese dal verbale di un “pentito”. Il che, per noi giornalisti, e in particolare per chi è stato cronista giudiziario, fa solo ridere. Ancora ieri alcuni quotidiani erano invasi da intercettazioni (coperte da segreto) tra mister Viperetta e la figlia. Da Mani Pulite in avanti alcuni pm hanno continuato a depositare gli atti direttamente in edicola. E nessuno di loro è mai stato neanche indagato. Di che cosa ci scandalizziamo, dunque?  Comunque l’avverbio che non c’era è “ancora”. Perché un conto è dire non ho visto la deposizione di Tizio, altro conto è dire non l’ho “ancora” vista. Sono cose così quelle per cui Giancarlo Pittelli è un murato vivo, un prigioniero politico di un Paese democratico, il Patrick Zaki italiano. Sono le cose che aveva scritto al deputato Vittorio Sgarbi, l’unico parlamentare che lo aveva visitato nel carcere di Nuoro e che gli ha promesso un’interrogazione. Sono le stesse scritte alla ministra Carfagna in una lettera che gli è costata il terzo arresto. Tra pochi giorni è l’anniversario del blitz. E poi è Natale. Rimandate a casa l’avvocato Pittelli, se l’Italia non è l’Egitto.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pittelli scrive al ministro Carfagna, Gratteri lo arresta di nuovo. Pittelli dai domiciliari aveva scritto una lettera al ministro Carfagna, professando la sua innocenza. La Dda di Catanzaro ha chiesto e ottenuto il carcere. Il Dubbio il 9 dicembre 2021. Torna in carcere Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato imputato per associazione mafiosa nel processo Rinascita Scott, era ai domiciliari. Lo ha deciso il Tribunale di Vibo Valentia. All’origine dell’aggravamento della misura, secondo quanto si è appreso, una lettera che Pittelli avrebbe scritto ai primi di ottobre alla segreteria del ministro per il Sud Mara Carfagna nella quale chiedeva al ministro “Aiutami in qualunque modo”. Lettera che poi, secondo quanto si è appreso, è giunta alla Dda di Catanzaro che ha chiesto al Tribunale l’aggravamento della misura cautelare per violazione dei domiciliari. Nella lettera, secondo quanto si è appreso, Pittelli ripercorre le accuse che gli vengono contestate e manifesta la propria innocenza. L’ex parlamentare si sarebbe rivolto alla Carfagna, sua ex collega di partito, dandole del tu e lasciando il numero di telefono della moglie per eventuali comunicazioni. La segreteria del Ministro, sempre secondo quanto si è appreso, ha inviato la missiva all’ispettorato di Palazzo Chigi che, a sua volta, l’ha trasmessa alla Squadra mobile di Catanzaro e, da qui, è giunta alla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. I magistrati, alla luce di quanto accaduto, hanno inviato al Tribunale di Vibo Valentia che giudica il processo Rinascita Scott (Brigida Cavasino presidente, Gilda Romano e Claudia Caputo a latere) una richiesta di aggravamento della misura cautelare. Il collegio ha accolto la richiesta e ha disposto una nuova misura cautelare in carcere per Pittelli, ritenendo che la vicenda dimostri l’insufficienza degli arresti domiciliari. Pittelli torna in carcere per la terza volta: la prima è stato a dicembre 2019 quando fu arrestato nell’ambito dell’operazione Rinascita Scott. Dopo quasi un anno di detenzione a Nuoro il legale è stato destinato ai domiciliari. Il 19 ottobre è stato riarrestato dalla Dda di Reggio Calabria con l’operazione “Mala Pigna” e ha scontato altri 27 giorni di carcere prima che il Riesame lo ridestinasse ai domiciliari. Revocati adesso e trasformati in detenzione in carcere per la lettera a Mara Carfagna.

Pittelli torna in carcere per una lettera. La difesa: «Temiamo per la sua tenuta». L’ex parlamentare, imputato per concorso esterno, ha chiesto aiuto alla ministra Carfagna, che ha informato la Polizia: «Sono innocente, da Gratteri accuse folli». Simona Musco su Il Dubbio il 9 dicembre 2021. «Aiutami in qualche modo». L’ex deputato di Forza Italia e penalista Giancarlo Pittelli ha deciso di affidare il suo grido di dolore ad una lettera indirizzata alla ministra per il Sud Mara Carfagna. Un appello fuori dalle regole, disperato, che si è rivelato un boomerang, costandogli nuovamente l’ingresso in carcere. Alla base della decisione del Tribunale di Vibo Valentia, che ha accolto la richiesta della Dda di Catanzaro, la violazione delle restrizioni imposte dal Tribunale della Libertà al legale, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott.

Per i giudici, infatti, gli arresti domiciliari sarebbero del tutto inidonei «a fronteggiare le persistenti e, anzi, aggravate esigenze cautelari». Pittelli, insomma, avrebbe interferito con il processo in corso, dimostrando anche la volontà di reiterare tali interferenze, fornendo alla ministra il numero di sua moglie. E proprio per tale motivo ora si trova in carcere a Catanzaro. «Ora temiamo davvero per la sua incolumità e che possa compiere azioni estreme. Sono molto preoccupato», dice al Dubbio Guido Contestabile, uno dei legali dell’ex parlamentare. Che oggi depositerà il ricorso contro l’ennesima misura cautelare in carcere rimediata dal penalista, che da mesi denuncia di essere vittima di una «persecuzione giudiziaria».

Pittelli di nuovo in carcere, parla l’avvocato Contestabile

«Sicuramente ha fatto una scelta improvvida – spiega Contestabile -, ma secondo noi si tratta di una non lettera, perché non chiede alla ministra di fare alcunché, se non di aiutarlo per quanto è nelle sue possibilità. È sicuramente una violazione delle prescrizioni, ma secondo noi non si tratta di una comunicazione, perché la comunicazione presuppone che ci siano almeno due persone e in questo caso non è così. È la lettera di un uomo disperato e la scelta di mandarlo in carcere mi appare esagerata e opinabile».

La missiva, datata 8 ottobre 2021, è arrivata al ministero di Carfagna, compagna di partito di Pittelli, che però ha deciso – pur in assenza di obbligo di denuncia – di inoltrare la lettera all’Ispettorato di Pubblica sicurezza di Palazzo Chigi, che ha dunque inviato il tutto alla Questura di Catanzaro. Da lì l’intervento della Dda, che ha chiesto al giudice di infliggere a Pittelli una misura più dura, rafforzando la propria idea di avere a che fare con un uomo che agisce consapevolmente al di fuori delle regole. A partire dall’incipit dellla lettera: «Cara Mara – si legge -, non potrei avere rapporti di corrispondenza con nessuno ma ti prego di credere che sono ormai disperato».

Pittelli: «Sono in mano a dei folli»

L’ex parlamentare sostiene di ritrovarsi agli arresti «in ragione di accuse folli formulate dalla procura di Gratteri e asseverate dalla giurisdizione asservita. L’accusa di concorso esterno rimessa in piedi nei miei confronti consisterebbe nell’avere rivelato ad esponenti della cosca di ‘ndrangheta denominata Mancuso il contenuto dei verbali secretati delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Andrea Mantella.

L’indizio sarebbe rappresentato dal contenuto di una conversazione captata nel corso della quale, il 12 settembre 2016, io, interloquendo con un cliente, ho affermato: “Dice (dicunt) che ha scritto (il pentito) una lettera alla madre e che accusa il fratello”. La Cassazione – aggiungeva – ha preso atto del fatto che dalla lettera scritta dal pentito alla madre i quotidiani calabresi ne avevano già parlato alcune settimane prima del 12 settembre 2016. Di contro ha ritenuto efficace il riscontro costituito dall’affermazione circa le accuse mosse nei confronti del fratello: fatto che avrei potuto apprendere soltanto dalla lettura dei verbali non estesi».

Pittelli e le dichiarazioni del pentito

Ma l’accusa nei confronti del fratello, spiegava Pittelli, si sarebbe verificata mesi dopo il 12 settembre 2016, motivo per cui «vi è la prova in atti che la mia altro non era che la corretta lettura di una previsione agevolissima da compiere, attesa la caratura criminale della famiglia del collaboratore».

Nella lettera, Pittelli, sostiene l’esistenza in atti della prova della «manipolazione» di un’altra captazione ambientale, relativa alle dichiarazioni del pentito: «Io affermo di non poter dare consigli in quanto “non sappiamo cosa dirà costui”. Gli inquirenti aggiungono alla frase l’avverbio “ancora” (la perizia trascrittiva lo dimostra indicandomi quale soggetto proteso comunque, alla ricerca dei verbali)».

Ma Pittelli sostiene di aver parlato con i suoi clienti soltanto della «esistenza di verbali con 250 omissis e da qui la considerazione dell’effetto devastante che avranno le dichiarazioni del pentito sulla criminalità del comprensorio. Tutto qui. Non ti nascondo nulla, ti rappresento la verità dei fatti. Stiamo preparando una nuova istanza nel merito e un’interrogazione parlamentare che Vittorio Sgarbi proporrà come primo firmatario», interrogazione in realtà mai presentata.

Pittelli: «Sono innocente, non abbandonatemi»

«Ti chiedo di non abbandonarmi perché sono un innocente finito nelle grinfie per ragioni che ti rivelerò alla prima occasione. Aiutami in qualunque modo. Io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente – si legge ancora -. Tutto ciò non è giusto. A tutto questo aggiungi che non sono mai stato interrogato dai magistrati del Pm, né dal gip dopo essermi avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio di garanzia. Non avevo avuto il tempo di leggere le 30mila pagine di ordinanza e richiesta». Nel chiudere la lettera, Pittelli fornisce dunque a Carfagna il numero della moglie, confidando sull’immunità parlamentare che tutelerebbe la ministra, anche se «talvolta qualcuno se ne dimentica di proposito».

La decisione dei giudici su Pittelli

Per i giudici, però, «Pittelli ha consapevolmente trasgredito alle prescrizioni impostegli con il provvedimento di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nella parte in cui fa divieto di colloquiare o comunicare anche per telefono o con sistemi telematici con persone diverse da quelle che con lui coabitano. Peraltro dalla missiva emerge, altresì, la volontà di reiterare la violazione, laddove l’imputato invita il destinatario a contattarlo su un’utenza telefonica dallo stesso fornita e indicata come in uso alla coniuge – affermano i giudici -. Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo, in cui è ancora in corso la complessa istruttoria dibattimentale, consistente, tra l’altro, nella trascrizione peritale di un compendio intercettivo corposissimo e nell’escussione di centinaia di testimoni». 

Storia di un accanimento: perché l’avvocato Pittelli deve tornare in carcere? Giancarlo Pittelli non è un semplice imputato, ma innanzitutto un simbolo, un paradigma. E in ciò che gli sta capitando si coglie il sapore acre di un inaccettabile avvertimento per tutti noi, chiamati ad indossare la toga. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 10 dicembre 2021. Nessuna persona dotata di buon senso e di un minimo di onestà intellettuale può ignorare la dimensione anomala dell’accanimento giudiziario che continua a colpire l’avvocato Giancarlo Pittelli. Il tema che deve discutersi non è “se” di accanimento si tratti, talmente solare ne è la evidenza, ma “perché” l’avvocato Pittelli ne sia destinatario.

Sul “se”, basterà ricordare i lunghi mesi di detenzione cautelare al 41 bis nel carcere più duro ed irraggiungibile d’Italia, Bad’e Carros, voluti ed ottenuti dalla Procura di Catanzaro. Quindi, dopo mesi di arresti domiciliari, la nuova misura cautelare, per una diversa inchiesta questa volta della Procura di Reggio Calabria, pretesa da quella Procura e disposta dal GIP nuovamente in carcere, pur riguardando ipotesi di reato ovviamente precedenti a quelle per le quali era da molti mesi ormai ai domiciliari. Una assurdità talmente eclatante da averne determinato l’intervento correttivo da parte del Tribunale del Riesame (ma altro carcere, intanto).

Ora siamo raggiunti dalla notizia di un nuovo aggravamento della misura cautelare, che ha precipitato l’avv. Pittelli per la terza volta nell’inferno del carcere preventivo (che, secondo Costituzione, deve essere la più estrema ed eccezionale delle soluzioni). Il motivo? Ha scritto una disperata lettera ad una Ministra della Repubblica, Mara Carfagna, supplicandola di occuparsi del suo caso, che lo vede privato della libertà prima ancora del giudizio da circa due anni, lui che – dettaglio generalmente avvertito come irrilevante – si protesta del tutto innocente.

Diciamo subito che Pittelli era ristretto in un regime di arresti domiciliari con divieto di comunicazione con persone diverse dai conviventi. Perfino se volessimo considerare la lettera di denuncia ad un Ministro della Repubblica come violativa di quel divieto – e formalmente lo è – è bene si sappia che non ogni infrazione dei divieti cautelari giustifica l’aggravamento della misura. La vita giudiziaria è quotidianamente segnata da casi anche più gravi, che ciascun giudice è chiamato a valutare nella loro concreta idoneità a mettere in discussione il quadro di adeguatezza della misura cautelare in esecuzione. Nessun automatismo, dunque. Ora, quale grado di allarme cautelare può suscitare un appello di un detenuto ad un Ministro, perché si occupi del suo caso? È forse messa in pericolo l’acquisizione della prova dibattimentale? O magari è indicativo di una intenzione di reiterare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa? O tradisce forse un progetto di fuga? Insomma, perché l’imputato Pittelli deve tornare in carcere, pur dopo aver infranto quel divieto?

Lo smarrimento di ogni proporzione tra l’azione e la reazione è talmente evidente da non meritare ulteriori illustrazioni. E dunque, perché? Ecco il punto. Giancarlo Pittelli non è un semplice imputato, ma – suo malgrado – innanzitutto un simbolo, un paradigma. Rappresenta, nel modo più estremo e drammatico, l’idea del difensore che si rende complice del proprio assistito, cioè una idea dominante in modo quasi ossessivo nella cultura poliziesca e nella vulgata giustizialista. Io non so se l’avv. Pittelli, tradendo in tal caso la sua funzione ed i suoi doveri professionali, si sia reso responsabile di una complicità con i propri assistiti, ciò che naturalmente è ben possibile che accada e che, sebbene in modo statisticamente eccezionale, accade e sempre accadrà nella comune esperienza forense. Non è mio, non è nostro il compito di giudicarlo, egli è affidato ad i suoi giudici. Ma è difficile pensare che questa durezza così sproporzionata e reiterata, questa tempesta perfetta che sembra voler annientare e distruggere un uomo prima ancora dell’accertamento delle sue ipotizzate responsabilità, sia indifferente al ruolo simbolico che, sventuratamente, egli si trova ad interpretare. E quando la giustizia penale abbandona il terreno suo naturale del giudizio sui fatti e sulle responsabilità, per lasciare spazio al valore simbolico ed esemplare dei suoi atti, essa apre la strada alle ingiustizie più feroci.

L’avvocato penalista assolve ad un compito straordinariamente difficile, che è quello di tutelare la presunzione di non colpevolezza dei propri assistiti, e di veder garantito il principio fondamentale per il quale l’onere della prova è in capo all’Accusa. Tra questo suo compito, vitale in ogni società civile, e la collusione criminale con il proprio assistito, corre uno spazio enorme, fatto anche – come in una tavolozza di colori dal bianco al nero – di comportamenti superficiali, avventati, negligenti, imprudenti, arroganti, deontologicamente censurabili, prima che schiettamente illeciti. La incomprensibile durezza di questo obiettivo accanimento cautelare sembra in realtà voler negare, sul piano ben più ampio dei principi generali, quei margini, avvicinando brutalmente il bianco al nero, nella inconfessata e magari inconsapevole idea che il difensore rappresenti comunque un ostacolo sulla strada della Giustizia, piuttosto che un protagonista indispensabile della giurisdizione. Non so cosa abbia fatto davvero l’avvocato Pittelli, e quali siano le sue eventuali responsabilità. Ma faccio fatica a non cogliere, in ciò che gli sta accadendo, il sapore acre di un inaccettabile avvertimento per tutti noi, chiamati ad indossare la toga con rigore etico e professionale certamente, ma con piena ed intangibile libertà, chiunque sia il nostro assistito, per consentire al Giudice la massima riduzione possibile dei suoi margini di errore. E questo noi non possiamo accettarlo. Abbiamo anzi il dovere di non accettarlo. 

Sgarbi: «Il caso Pittelli? È tortura. Da Carfagna azione indegna». L'ex parlamentare di Forza Italia torna in carcere per la terza volta dopo la lettera-appello a Mara Carfagna. La dura reazione di Sgarbi: «Dalla ministra gesto vergognoso». Il Dubbio il 10 dicembre 2021. «Arrestare Pittelli per una lettera è un’enormità, la misura di una forma prepotenza, una forma di tortura applicata dai magistrati, che dai domiciliari mettono in carcere una persona per punirla, quando il carcere dovrebbe rieducare». Non si dà pace Vittorio Sgarbi. Che dopo i nuovi risvolti nel caso dell’ex parlamentare di Forza Italia e penalista Giancarlo Pittelli, affida a un video su Facebook tutta la sua indignazione: «Mara Carfagna è indegna di essere un parlamentare, dovrebbe essere cacciata dal partito di Berlusconi, condannato da magistrati che hanno applicato una loro visione politica alla loro attività giudiziaria».

Imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott, Pittelli aveva deciso infatti di scrivere una lettera alla ministra per il Sud Mara Carfagna per chiederle aiuto. Un appello che si è rivelato un boomerang, costandogli nuovamente l’ingresso in carcere, per la terza volta. Alla base della decisione del Tribunale di Vibo Valentia, che ha accolto la richiesta della Dda di Catanzaro, la violazione delle restrizioni imposte dal Tribunale della Libertà a Pittelli. Ma come è arrivata la lettera nelle mani della Dda? Dalla scrivania della stessa ministra, che l’avrebbe trasmessa all’ispettorato di Palazzo Chigi che, a sua volta, l’ha inviata alla Squadra mobile di Catanzaro. E, da qui, la missiva è giunta alla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Secondo un percorso e un’azione da parte della ministra Carfagna «vergognosa», anzi «inqualificabile» secondo Sgarbi, per il quale scrivere a un deputato rientrava perfettamente nelle garanzie difensive di Pittelli. Garanzie più volte violate, ribadisce il politico e critico d’arte. Che sul caso si era già espresso nel 2020 dopo aver subito un’ispezione a sorpresa nel carcere di massima sicurezza di Badu ‘e Carros, a Nuoro, dove al tempo Pittelli si trovava detenuto in regime di isolamento. «La carcerazione di Pittelli – denunciava Sgarbi – viola la Costituzione e lo stato di diritto perché viene tenuto in carcere senza che sia stato mai interrogato e senza che sia stato celebrato un processo. Nei suoi confronti accuse fumose, frutto di ipotesi senza prove, in spregio a ogni principio di civiltà giuridica». Le condizioni dell’ex parlamentare venivano definite «preoccupanti». «È visibilmente gonfio – riferiva – in uno stato di forte depressione, psicologicamente provato: condizioni di salute oggettivamente incompatibili con la detenzione». Nel mirino di Sgarbi il procuratore Gratteri, titolare di un’inchiesta che, sottolineava il parlamentare, è «nota per l’inconsistenza dei capi d’accusa e abuso della carcerazione preventiva». Per questa ragione, Sgarbi aveva quindi deciso di presentare un esposto al Csm contro Gratteri, per abuso di potere e violazione dei diritti umani. 

Caso Pittelli, l’Ocf: «Rimetterlo in carcere è un accanimento aberrante». Per l'Organismo Congressuale Forense il caso dell'ex parlamentare rispedito in carcere dopo la lettera alla ministra Carfagna, è «l'ennesima riprova della deriva giustizialista che pervade taluni uffici giudiziari». su Il Dubbio il 9 dicembre 2021. «L’Organismo Congressuale Forense stigmatizza l’accanimento giudiziario mostrato dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia, che ha deciso di rimandare in carcere l’ex deputato di Forza Italia, avvocato Giancarlo Pittelli, colpevole soltanto di aver cercato di difendersi scrivendo una lettera a un esponente politico per chiedere di interessarsi del suo caso». È la dura nota con con cui l’Ocf denuncia la «nuova aberrante circostanza» contro Pittelli. «Protagonista di una vicenda surreale, era finito in carcere il 19 ottobre scorso nell’inchiesta “Mala Pigna” della Dda di Reggio Calabria ed era stato rimesso ai domiciliari dal Riesame di Reggio Calabria, ma era stato trattenuto in carcere più del dovuto per mancanza di braccialetti elettronici», spiega l’organismo forense. Imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott, ora Pittelli è tornato in carcere per la terza volta perché secondo i giudici – scrivendo al ministro Mara Carfagna – l’ex deputato avrebbe violato gli arresti domiciliari ai quali era sottoposto. Un’aggravamento della misura cautelare che per l’Ocf è «l’ennesima riprova della deriva giustizialista che pervade taluni uffici giudiziari».

Il nuovo arresto dell'ex senatore. Conosco le carte del processo Pittelli, per Travaglio sono un rompicoglioni: “I veri giornalisti credono ai Pm”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Il nuovo arresto dell’ex senatore Giancarlo Pittelli non ha indignato molto il mondo politico. Il mondo politico si indigna se arrestano qualcuno in Venezuela, o in Turchia, o in Thailandia, o in Egitto. Se in Italia prendono un avvocato, ex parlamentare, e lo sbattono in cella perché ha scritto una lettera alla ministra Mara Carfagna, il mondo politico non si indigna. O forse si indigna, ma l’indignazione se la tiene nell’intimo. Perché? Perché se la fa addosso di fronte ai Pm, cioè a quei Pm che sanno il fatto loro e che considerano la possibilità – grazie alla compiacenza di un Gip – di arrestare la gente e metterla, più o meno, alla tortura, come uno degli aspetti più interessanti e forse eccitanti del proprio lavoro. La storia di Pittelli l’ha raccontata benissimo Tiziana Maiolo, ieri, su questo giornale. Non serve tornarci. In sintesi, questo avvocato Pittelli è stato arrestato con accuse gravissime, incorniciate dal reato fantasma di concorso esterno in associazione mafiosa; poi le accuse si sono sgretolate una ad una ed è rimasto solo il reato cornice, che in queste condizioni diventa ancora più surreale. Non solo è un reato associativo (che già di per sé è un reato molto discutibile) non solo questo reato associativo esiste fino a un certo punto perché comunque in realtà è solo “concorso” (si potrebbe dire “concorso in concorso”), e non solo questo strano reato associativo è contraddetto – in punta di diritto e di vocabolario italiano – dall’essere l’imputato esterno (estraneo) all’associazione, e quindi, evidentemente, innocente; ma per di più, con la caduta di tutte le altre imputazioni di merito, si scopre che questa associazione era una scatola vuota. Dico io: ma se una associazione a delinquere non commette delitti, e tu comunque non ne fai parte, ma come è possibile considerarti colpevole di qualcosa?

Colpevole o no, Pittelli è stato tenuto un anno in isolamento a Badu e Carros, carcere di massima sicurezza per terroristi e mafiosi. Lontanissimo da casa. Mai interrogato dal suo Pm. Ridotto allo stremo delle forze e poi, finalmente, mandato ai domiciliari. Ma siccome dai domiciliari ha scritto una lettera a Mara Carfagna lo hanno arrestato di nuovo, accusandolo, credo, di epistolaggio illecito. Ma se il governo di un paese straniero venisse a scoprire che in Italia si arresta così la gente, e si perseguita un ex senatore, secondo voi ci sarebbe poi da scandalizzarsi se questo governo decidesse qualche sanzione economica nei confronti dell’Italia? L’unico che si è indignato per la vicenda Pittelli è Marco Travaglio. Il quale le ha dedicato molto spazio sul suo giornale e anche il suo editoriale. Ma non s’è indignato per l’eccesso di manette ma per il difetto di manette. Dice Travaglio che il delitto di Pittelli è spaventoso. Perché? Perché – e questa è anche la motivazione del giudice che ha dato il via libero all’arresto – con quella lettera Pittelli ha tentato di inquinare il processo. E come lo avrebbe inquinato? Forse Mara Carfagna ha il potere di influire sulle decisioni di Gratteri o dei giudici? Oppure è stato stabilito il principio che un imputato, accusato di reati infamanti, anche se si ritiene, e forse è, innocente, non ha il diritto di difendersi pubblicamente e deve comunque accettare la gogna come privilegio inalienabile dei pubblici ministeri, cioè degli inquisitori? Perché mai – mi dovrebbe spiegare qualcuno – un imputato non può scrivere a una sua ex collega raccontandogli le angherie subite o che ritiene di aver subito? E come questo può essere considerato un crimine? Credo che ormai neppure a Cuba sia negato questo diritto di parola agli imputati, ma forse mi sbaglio. Travaglio poi – ho visto, e la cosa mi ha fatto sorridere – se la prende anche con me perchè nella lettera di Pittelli c’è scritto che io non lo ho mai abbandonato e che conosco perfettamente le carte del processo. Dice il mio amico Marco: Scandalo, Scandalo, dunque un giornalista ha messo il naso nella carte del processo invece di accontentarsi delle dichiarazioni dei Pm? Dice Marco che questa è una vergogna, perché i giornalisti che cercano di capire consultando la difesa invece dell’accusa, sono dei gazzettieri…

Francamente non so come spiegarglielo il mio punto di vista. Il fatto è che tra me e lui c’è una fortissima differenza generazionale. Quando io ho iniziato a fare questo mestiere mi hanno insegnato che il giornalista deve fare le bucce al potere. Non a chi subisce il potere. In un processo, il potere lo hanno i Pm e gli imputati lo subiscono. Allora – mi hanno insegnato in quell’epoca lontana – bisogna stare bene attenti che i magistrati non approfittino del loro potere, e non bisogna dare mai per buone le cose che dicono, ma cercare di vedere le carte e capire che c’è dentro.

Il mio amico Marco, che è molto più giovane di me, ha iniziato a fare il giornalista, credo, dopo “mani pulite”. E dopo “mani pulite” è cambiato tutto: si è stabilito che il giornalista perbene doveva credere al Pm e non rompere i coglioni. Lui è cresciuto così, difficile fargli credere che fosse più ragionevole il vecchio metodo. Probabilmente Montanelli – che spesso lui dice sia stato il suo maestro – si è dimenticato di dirglielo. E lui, Marco, non si è accorto che Montanelli fu uno dei pochi – per esempio in occasione del caso Tortora – che usò il vecchio metodo che ora lui aborre, e non si fidò né dei Pm né dei giudici.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2021. Poi Patrick Zaki ha aperto bocca a margine delle tremila interviste rilasciate dopo la sua liberazione: e si è visto che non parla una parola d’italiano. Tutti di sale, ma guai a dirlo. Rispondeva in inglese. Cioè: «Zaki uno di noi», «cittadino italiano», le luci dei municipi accese, le candele alle finestre, centinaia di comuni a conferirgli la cittadinanza onoraria, una mozione in Senato per dargli la cittadinanza italiana, la richiesta al Governo di motivarla con «meriti speciali», quasi 300mila firme, l’appello della conferenza dei rettori, 26 europarlamentari e una lettera all’ambasciata del Cairo, una risoluzione a Bruxelles, studenti mobilitati, Patrick «affamato di conoscenza», appassionato di «letteratura napoletana, «Zaki il bolognese», la maglietta della «sua» università recapitata dall’Ateneo, la borsa di studio per lui «sempre teso alla condivisione, quell’ansia di conoscere e di sapere», il master frequentato nella «sua» Bologna: anche se non è chiaro in che lingua. Poi capisci che l’unica cosa che conta è che abbiano liberato un detenuto per un reato di opinione, anche se è accaduto in Egitto con un detenuto egiziano. Andrea Costantino e Marco Zennaro, invece, accusati di reati indefiniti, sono due detenuti incarcerati rispettivamente negli Emirati Arabi e in Sudan, ma, dopo il caso Regeni, sono solo italiani e non egiziani. 

Dalla rubrica delle lettere de “la Repubblica” l'11 dicembre 2021. Caro Merlo, il tunisino Wissem Ben Abdel, morto a 26 anni al San Camillo, secondo la famiglia e tre testimoni è stato picchiato dalla polizia nel Centro di accoglienza, il Pm è stato avvisato tardi e l'autopsia è stata fatta senza avvocati. La Tunisia protesta e nelle strade manifestano chiedendo giustizia. Lo abbiamo ucciso di botte! Pietà l'è morta. Ada Bolognesi - Roma

Risposta di Francesco Merlo

È morto legato a un letto, vedremo se di botte. L'Italia che aveva sognato si è rivelata una trappola di disumanità e i tunisini pretendono la trasparenza che noi pretendiamo dall'Egitto per Zaky e Regeni. Non ci si può indignare contro le violenze degli altri e balbettare quando di violenza siamo accusati noi.

Patrick Zaki, Nicola Porro e il paradosso della giustizia in Italia: "Quello che non viene scritto". Il Tempo il 09 dicembre 2021. Dopo 22 mesi di detenzione, il tribunale egiziano di Mansura ha ordinato il rilascio, in attesa del processo, per Patrick Zaki, l'attivista per i diritti umani e studente incarcerato a febbraio 2020. La prossima udienza si terrà il 1 febbraio, ma mentre difesa e pubblici ministeri prepareranno le loro argomentazioni finalmente Zaki sarà libero, probabilmente da mercoledì o nei giorni seguenti. Zaki, studente dell'Università di Bologna oggi 30enne, è stato arrestato nel febbraio 2020 poco dopo essere atterrato al Cairo per un breve viaggio di ritorno dall'Italia. Da allora è stato detenuto e accusato di aver diffuso notizie false sull'Egitto a livello nazionale e all'estero. Le accuse derivano da articoli di opinione scritti da Zaki nel 2019 e che parlano della discriminazione contro i cristiani copti in Egitto.  Nicola Porro, nella sua rassegna stampa mattutina segnala gli articoli più importanti della giornata evidenziando che su tutti i quotidiani c'è solo la notizia di Zaki fuori dal carcere dopo mesi di apprensione e di interessamento da parte dell'Italia: "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina" commenta il giornalista che evidenzia un particolare di cui invece pochi parlano: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". Porro ritiene "giusta l'indignazione nei confronti di Zaki ma poi - evidenzia - in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". "La cosa straordinaria - spiega Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". 

Patrick Zaki, Nicola Porro: "Sapete come funziona la giustizia in Italia?", quello che i giornali non dicono. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2021. "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina": Nicola Porro, nella sua consueta rassegna stampa della mattina, annota gli articoli e gli argomenti più importanti della giornata. Oggi in primo piano c'era, appunto, la scarcerazione dello studente egiziano, dopo 22 mesi di detenzione. Il giornalista, però, ha voluto far notare un dettaglio, che molti giornali non hanno riportato: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". E' un discorso di giustizia e garantismo quello fatto da Porro, che poi sull'argomento chiosa in questo modo: "Giusta l'indignazione nei confronti di Zaki, ma poi in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". Specificando: "Che nemmeno conosco". 

Il sistema giudiziario italiano come quello egiziano. Il caso Pittelli è come quello Zaky, l’Anm si infuria con il Riformista. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Il sindacato dei magistrati, quello così ben descritto nelle sue trame politiche nel libro Il Sistema di Palamara e Sallusti, se la prende con il Riformista. Perché abbiamo paragonato il sistema giudiziario italiano a quello egiziano e il caso di Giancarlo Pittelli a quello di Patrick Zaki. E anche perché abbiamo ironicamente qualificato come “malizia politica” e anche “stupore” le parole delle tre giudici del tribunale di Vibo che ha riportato in carcere l’avvocato calabrese, quando affermano che «Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo». Se qualcuno si fosse aspettato una bella vigorosa lavata di capo da parte di un sindacato forte e con voce in capitolo, un ruggito alla Landini con le sue bandiere rosse, dobbiamo subito deluderlo. Anzi, possiamo persino buttarla in ironia, anche se chi indossa la toga, forse per deformazione professionale, in genere ne ha un po’ pochina. Pare quasi che nella sede centrale dell’ Anm, il sindacato dei magistrati, esistano delle schede prestampate a schema fisso, con scritto “autonomia e indipendenza” (quella da tutelare) e poi “finalità politiche”, quelle che gli altri attribuiscono alle toghe suscitando la loro indignazione. Come se non ci fosse più, nell’era post-Palamara, qualcuno in grado di elaborare un pensiero, non dico originale, ma almeno alfabetizzato. Mai una volta, per esempio, che il sindacato dei giudici e dei pm parli, oltre che di indipendenza e autonomia della magistratura anche dell’imparzialità, al pari degli altri due, valore costituzionale. Avrebbero potuto, i sindacalisti dell’Anm, descrivere le tre giudici del tribunale di Lamezia come “imparziali” soprattutto, visto anche che lo stesso avvocato Pittelli, nella lettera a Mara Carfagna che gli è costata la sua terza carcerazione, affermava che in Calabria esiste una giurisdizione “asservita” al volere del potente procuratore Nicola Gratteri. Noi stessi, che siamo maliziosi e non abbiamo reputazione di essere amici delle toghe, abbiamo avanzato dubbi sul fatto che la sciagurata contiguità tutta italiana tra giudice e accusatore sia sempre anche complicità. A maggior ragione dai vertici del sindacato impegnati nella difesa (un po’ anomala, perché mettono insieme il procuratore e i giudici) dei colleghi, ci si aspetterebbero parole del tipo: come vi permettete, voi del Riformista, di insinuare che le nostre giudici di Vibo non siano imparziali? Sarebbe stato un argomento –in questo caso sbagliato, perché noi non l’abbiamo messo in dubbio- ma in qualche modo sensato. Ma a chi pensate possa interessare invece la loro “autonomia e indipendenza”? Soprattutto affiancata a quella del procuratore Gratteri? E veniamo così all’indignazione più politica, quella che prende spunto dal paragone fatto dal Riformista tra il sistema giudiziario egiziano e quello italiano. Brucia, certo, è comprensibile. Ma brucia soprattutto a noi cittadini di uno Stato democratico, ogni volta che dobbiamo constatare quanto arretrata e contraddittoria e ingiusta sia la pratica quotidiana del nostro sistema processuale penale. La custodia cautelare, prima di tutto. Abbiamo scritto e riscritto gli articoli 273 e 274 del codice di procedura penale (mi permetto di dire “abbiamo” perché mi ci sono impegnata da presidente della commissione giustizia della Camera), ma il legislatore poco può fare di fronte al modo con cui la norma viene poi applicata. La verità è che nella testa di gran parte della magistratura, e in particolare dei pubblici ministeri, alberga ben poco il concetto del principio di non colpevolezza previsto dall’articolo 27 della Costituzione. E anche del fatto che per misura cautelare non debba necessariamente intendersi la detenzione in carcere. Prendiamo l’onorevole Pittelli, per esempio. È da Stato democratico o da regime totalitario il fatto che due anni fa, dopo il glorioso blitz del procuratore Gratteri, l’avvocato sia stato sbattuto (sì, sbattuto, non trovo altri termini che definiscano meglio) nel carcere speciale di Bad ‘e Carros, lontano dalla famiglia e dai difensori ma soprattutto dal suo giudice naturale e lì ristretto per quasi un anno? Stiamo parlando di un cittadino innocente secondo la Costituzione, e stiamo parlando di custodia cautelare. Siamo sicuri che il regime di detenzione di Patrick Zaki sia stato peggiore? Inoltre: nel frattempo i reati specifici per i quali l’avvocato Pittelli era stato arrestato, sia l’abuso d’ufficio che la rivelazione di atti d’ufficio e infine quello di essere una sorta di “capo” esterno dall’organizzazione mafiosa, erano caduti. È rimasta un’unica imputazione, il concorso esterno in associazione mafiosa. Il reato che non c’è nel codice penale italiano, e probabilmente neanche in quello egiziano. Un reato molto più evanescente rispetto a quelli d’opinione contestati a Zaki, accusato, oltre che di propaganda sovversiva anche di aver diffuso notizie false. Dando per scontato che siano comunque contestazioni infondate, hanno pur sempre in sé una concretezza maggiore rispetto a quelle su cui si basano le accuse contro l’avvocato calabrese. E questa è solo la fase uno della storia giudiziaria di Giancarlo Pittelli. Con la fase due si entra nel paradossale, perché la procura di Reggio Calabria arresta a sua volta e dopo Catanzaro l’avvocato –che nel frattempo era infine, dopo un anno, approdato alla detenzione domiciliare- con un’altra accusa. E porta in carcere una persona già in custodia cautelare, che il tribunale del riesame poi rispedisce, come un bel pacco postale, ai domiciliari. Ma c’è un intoppo: il vecchio braccialetto elettronico dell’avvocato nel frattempo è stato assegnato a un altro detenuto e per lui non ce ne sono più. Così l’onorevole Pittelli subisce anche l’umiliazione di restare quattro giorni in carcere più del dovuto nell’attesa di un nuovo braccialetto. Se la fase due è paradossale, la tre è semplicemente ridicola. È il terzo arresto, per “trasgressione alle prescrizioni imposte”, articolo 276 del codice di procedura penale. Quello che viene usato in genere nei confronti di quei detenuti che si allontanano dal domicilio coatto, o che comunque comunicano in modo diretto con persone estranee a quelle conviventi. Giancarlo Pittelli non è scappato, non ha neanche fatto un salto al bar per riassaporare un caffè ben fatto, e non ha neanche comunicato in forma diretta con nessuno, non ha telefonato, per esempio. Ha scritto una lettera. Ma la lettera non è un’interlocuzione, una forma immediata e diretta di dialogo, di conversazione, di rapporto con un’altra persona. È un foglio che viene imbucato e cui il ricevente può, se vuole, rispondere in modo diciamo sfasato rispetto a chi lo ha scritto e spedito. In che modo quindi Giancarlo Pittelli avrebbe comunicato con la ministra Carfagna destinataria della lettera? In nessuno, anche se lei gli avesse risposto. Cosa che non ha fatto, preferendo consegnare la missiva alla polizia. Con ciò sottraendosi anche all’ipotesi un po’ ridicola e ingenua, avanzata dal tribunale, che l’intervento di una vecchia amica e collega di partito avrebbe potuto turbare lo svolgimento regolare del processo. Questa è la storia. Ma un’ultima precisazione va fatta e ribadita. Giancarlo Pittelli non è solo un cittadino trattato da uno Stato democratico alla stessa maniera degli Stati totalitari, è anche e soprattutto un avvocato. Un penalista che svolge la propria professione in una regione del sud d’Italia dove, se non vuoi occuparti solo di furti d’appartamento, incontri facilmente persone imputate di associazione mafiosa. Vien quindi da domandarsi –e ne ha parlato diffusamente il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza– se dietro la persecuzione subìta da Giancarlo Puttelli non ci sia anche un pregiudizio di procuratori e giudici che porta a far coincidere la reputazione dell’avvocato con quella del suo assistito. E quindi, in definitiva anche con il reato. Mafioso l’assistito e mafioso chi lo difende. In questo l’Italia non è seconda a nessun altro Stato, democratico o totalitario che sia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Terzo anniversario dell'arresto. Il Riesame scarcera Pittelli e rovina il Natale a Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Dicembre 2022

Giancarlo Pittelli potrebbe tra poco essere libero, con il solo obbligo di dimora. Per le sue imputazioni di Catanzaro, quanto meno. Perché tra un carcere e una detenzione domiciliare si è infilato anche un piccolo concorso esterno di Reggio Calabria. Ma provvederanno oggi i suoi avvocati Caiazza, Contestabile e Staiano a chiedere la revoca anche di quella misura cautelare. Perché intanto il tribunale del riesame di Catanzaro lo ha scarcerato. Ricorreva ieri l’anniversario di quel 19 dicembre di tre anni fa, quando l’avvocato fu trascinato in manette fuori dalla sua vita, dai suoi affetti, dalla sua professione. Forse per Natale sarà libero, o forse no. Perché il personaggio è simbolico, in questi processi. Senza di lui, crollano i teoremi. Ma per il momento, quanto meno il procuratore Gratteri, che lo vorrebbe addirittura rimandare in carcere, ha perso la partita.

Infatti il processo Rinascita Scott langue. La cassazione ha già tirato le orecchie perché chi di dovere non ha tenuto conto delle condizioni di salute dell’imputato, poi ha anche ridimensionato il quadro indiziario relativamente al concorso esterno in associazione mafiosa. Pure l’avvocato Giancarlo Pittelli veniva ancora tenuto agli arresti. Anzi, pare giunto il momento di ravvivare un po’ il processone di Lamezia, che è maxi solo per il numero degli imputati, non certo per l’importanza auspicata il giorno del blitz di Nicola Gratteri, il 19 dicembre del 2019. Ecco dunque spuntare all’orizzonte la squadra di soccorso: dieci, dicasi dieci, nuovi pentiti freschi di giornata, tutti concordi nell’accusare l’avvocato di essere uno che “aggiustava i processi”. Pare che, ce lo racconta la Gazzetta del sud con molta dovizia di particolari, neanche fosse un giornale diretto da Marco Travaglio, la Dda di Catanzaro sia pronta a portarli in aula, i dieci piccoli indiani. Lo si deduce (o lo si sa?) dal fatto che il procuratore Alfonso De Bernardo abbia depositato ai giudici del collegio una richiesta di nuove acquisizioni, prove da ritenersi “assolutamente necessarie”. Naturalmente i “pentiti” non sono apparsi all’improvviso all’orizzonte, tanto che le loro deposizioni sarebbero risalenti addirittura al gennaio scorso, e farebbero parte di un’informativa dei Ros depositata allora al processo.

Che cosa di nuovo dunque, tanto urgente da far entrare a cavallo lo squadrone di soccorso nell’aula di Lamezia? Una sola parola: cassazione. Il luogo dove non ci sono procuratori antimafia, ma normali giudici che leggono le carte, ascoltano le parti, si riuniscono e deliberano. Un altro mondo. Che ha già in due diverse occasioni rimandato il fascicolo sull’imputato Pittelli a Catanzaro. Una prima volta quando i difensori avevano fatto ricorso contro la richiesta di aggravamento delle misure cautelari avanzato dal procuratore Gratteri. Perché alla Dda di Catanzaro non bastava tenere l’ex parlamentare prigioniero da tre anni, lo voleva proprio veder marcire in galera dopo aver buttato le chiavi. Le sue imputazioni? Oltre al concorso esterno, l’ineffabile reato inesistente nel codice, l’abuso d’ufficio, oltre a utilizzazione e rivelazione di segreto d’ufficio. Bagatelle, se non ci fosse il carico da novanta del reato associativo.

Pure, questa sfilza di persone, quei dieci piccoli indiani che appartengono alla sfera di coloro che hanno già venduto i loro amici per salvare qualche centimetro della propria pelle, e quindi sono disponibili a raccontare anche di esser stati su Marte, arriverà prima o poi nella ormai deserta maxi-aula di Lamezia. E diranno che Pittelli aggiustava i processi. Che loro l’hanno sentito dire. Ma siamo sicuri che i giudici, e lo stesso pm, saranno scrupolosi nel chiedere loro in quali date e in quali processi siano stati fatti gli “aggiustamenti”? Vorremmo anche sapere (ma questa è una nostra curiosità, non è detto sia condivisa dai giudici) in quali carceri questi “pentiti” siano rinchiusi. Tutti insieme, magari? A meno che non siano liberi. Perché la maledizione di avere una discreta memoria ci riporta indietro nel tempo, fino a quelle caserme dove venivano portati i picciotti di camorra che dovevano infamare l’innocente Enzo Tortora. E in quelle caserme venivano concordate le versioni. Piano piano gli accusatori erano diventati 17, o forse 19, e tutti dicevano la stessa cosa, con il pollice verso: il giornalista-presentatore è un camorrista. Proprio come Pittelli è un mafioso.

Infatti era rinchiuso. E lo è ancora, perché i concorsi in associazione mafiosa non si negano a nessuno. A Catanzaro come a Reggio. Al domicilio, certo, dopo esser stato anche in carcere. Ci sono motivi di salute e di età, se dei giudici lo hanno mandato a casa. E la cassazione lo ha fatto notare ai pm che vorrebbero rimettergli le manette, rinviando gli atti al tribunale del riesame. Ma intanto un altro ricorso era pendente al tribunale del riesame, quello deciso ieri in suo favore, e che assorbe anche il primo. Ed è la richiesta di far cessare comunque le misure cautelari, anche domiciliari, avanzata dagli avvocati di Giancarlo Pittelli sulla base dell’insussistenza delle “prove” che sosterrebbero l’accusa. Nel documento si spiega in modo dettagliato come certe argomentazioni siano infondate, oltre che sciatte. Come il fatto che l’avvocato avrebbe rivelato segreti investigativi su notizie che invece erano già uscite sui giornali. Se vere, vanterie, altrimenti falsità infondate. Su cui si basa anche la contestazione del concorso esterno in associazione mafiosa.

Perché, è la logica, se hai rivelato a un mafioso notizie che solo tu potevi conoscere, hai agevolato la cosca. La mancanza di nesso di causalità è stata però già rilevata anche da una pronuncia della corte di cassazione, la seconda dopo quella sulla salute, che ha ridimensionato il quadro indiziario. E’ per tutto ciò che sono stati chiamati i dieci “pentiti” a dare manforte a un quadro un po’ traballante. A dire cose del tipo “Era per noi cosa risaputa che l’avvocato Pittelli era in grado di fornirci informazioni” sulle indagini. E un altro dire che gli avevano riferito che il legale era in grado di “poter aggiustare la sentenza di primo grado”. Ma dal momento che il tribunale del riesame ha già deciso di scarcerare Giancarlo Pitelli, sarà ancora utile far passare in aula a intorbidare il processo i dieci piccoli indiani?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il carcere prima del processo. il caso Pittelli riapre la battaglia “Pene contro la Costituzione”. Redazione su L'Identità il 21 Dicembre 2022

di UMBERTO BACCOLO

Lunedì sera, a tre anni dal suo arresto, l’ex senatore Giancarlo Pittelli si è visto accogliere dal Tribunale di Vibo, presso il quale è in corso Rinascita Scott (la maxi inchiesta che avrebbe dovuto rendere il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri più famoso di Giovanni Falcone), una nuova istanza del suo collegio difensivo che ha attenuato in obbligo di dimora la misura cautelare degli arresti domicilari alla quale era sottoposto. “La difesa – fa sapere il Comitato di cittadini che era nato in sua difesa, presieduto da Enrico Seta e di cui sono portavoce, che aveva raccolto un anno fa circa 3mila firme a suo sostegno, tra cui quella del ministro della Giustizia Carlo Nordio – chiederà l’adeguamento a questa nuova valutazione dei giudici anche per l’inchiesta Malapigna, il secondo processo al quale Pittelli è sottoposto”. Questo vuol dire che probabilmente Pittelli potrebbe passare il Natale da uomo imputato, ma libero. La sua complessa vicenda giudiziaria, intanto, ha assunto un valore simbolico riguardo temi, come gli abusi nelle custodie cautelari e l’utilizzo mediatico delle intercettazioni per distruggere l’immagine degli indagati, sui quali il governo sta mostrando grande sensibilità e attenzione. Temi sui quali come membro degli organi dirigenti dell’Associazione Nessuno tocchi Caino, mi batto ogni giorno della mia vita, credendo che siano fondamentali per la nostra democrazia. Come lo credono anche alcuni magistrati illuminati: uno di essi è Otello Lupacchini, già Procuratore Generale di Catanzaro, che fu vergognosamente trasferito e processato per lesa maestà dal Csm per aver messo in dubbio l’inchiesta di Gratteri. Ho pensato, quindi, fosse il caso di chiedergli una dichiarazione: “Dopo tre anni dall’instaurazione della custodia cautelare a seguito dell’operazione Rinascita Scott, dopo alterne vicende tra carcere al 41 bis, arresti domiciliari, di nuovo carcere, quindi di nuovo arresti domiciliari, l’avvocato Pittelli è stato rimesso in libertà (anche se resta detenuto per altra causa) dal Tribunale che lo sta giudicando nella monumentale aula di Lamezia Terme. Non entro nel merito della penale responsabilità dell’imputato, ma dopo tanti anni di custodia per concorso esterno in associazione mafiosa, sarebbe preoccupante se le esigenze di cautela non fossero ancora cessate. Saremmo di fronte per un verso a un plateale fallimento del sistema cautelare stesso, che si sarebbe dimostrato assolutamente inutile, e per l’altro a un’inammissibile e intollerabile anticipazione della pena ante iudicium”. Questa riflessione del pm, severo ma garantista, che ha inchiodato la Banda della Magliana è importante perché mette il dito nella piaga: al giorno d’oggi la custodia cautelare è spesso abusata dalla magistratura per motivi che non hanno nulla a che fare con quelli, pericolo di fuga, inquinamento prove o reiterazione, previsti dalla Costituzione. Invece, viene usata per spingere persone a confessare o a fare nomi, per fare audience in inchieste mediatiche, per colpire avversari politici (come ha spiegato Palamara) o anche per far scontare la pena in anticipo a coloro che pm e gip ritengono colpevoli, quando credono sia facile che questi saranno assolti in seguito o che da condannati potranno evitare il carcere: così glielo si fa fare in modo preventivo. Tutte cose, non serve dirlo, contro la Costituzione. Cose che in Calabria avvengono quasi quotidianamente: tanto che il vecchio Comitato per Pittelli ha deciso di trasformarsi in un’associazione, Riforma Giustizia per la difesa dello Stato di Diritto, con il suo focus sul “caso Calabria”, dando la presidenza onoraria proprio a Lupacchini. Il problema è veramente nazionale, e una conseguenza è la situazione drammatica delle nostre carceri, dove quest’anno ben 81 detenuti si sono suicidati. Il numero più alto da decenni, tanto da far indignare persino Giorgia Meloni: e molti di essi erano in custodia cautelare, quindi presunti innocenti. Quindi urge intervenire, cioè che Nordio riesca a fare quello che a Marta Cartabia non è riuscito, e che il nuovo capo del DAP Giovanni Russo porti avanti, e non indietro, il percorso avviato dal suo predecessore Carlo Renoldi. Le parole del ministro su carcere, intercettazioni e Giustizia sono in buona parte quelle che noi da sempre speriamo di sentire. Speriamo che diventino fatti, per fermare un’emergenza che ha dato vita a un massacro e che non è accettabile in uno Stato di Diritto. Ha la nostra fiducia e avrà tutto il nostro sostegno.

La replica del deputato. Nota Anm contro il Riformista, Sgarbi: “Ennesimo inchino a Gratteri”. Angela Stella su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. L’Anm ieri con un duro comunicato non solo attacca la nostra Tiziana Maiolo per aver criticato il nuovo arresto di Giancarlo Pittelli ma punta il dito anche contro Vittorio Sgarbi: «Inammissibile – scrive la Giunta esecutiva centrale – è la violenza verbale usata dall’onorevole Vittorio Sgarbi, il quale, tramite alcuni video postati sulla propria pagina Facebook, ha rivolto pesanti accuse alla collega Brigida Cavasino con parole (“usa la carcerazione come strumento di tortura… non si può torturare un cittadino innocente”) che mai dovrebbero essere pronunciate nei confronti della giurisdizione, specie da un esponente delle Istituzioni della Repubblica». Brigida Cavasino è la presidente del Tribunale di Vibo Valentia che giudica il processo Rinascita Scott e che ha accolto la richiesta di aggravamento della misura cautelare per Pittelli arrivata dalla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, dopo aver saputo che Pittelli aveva inviato una lettera a Mara Carfagna in cui chiedeva aiuto perché innocente. Abbiamo raccolto la replica dell’onorevole Sgarbi: «ll mondo va alla rovescia: quello che ho detto è il minimo sindacale per quanto accaduto. La nota dell’Anm è solo l’ennesimo atto di ossequio a Gratteri da parte di un organismo oramai noto per la cieca difesa corporativistica dei propri iscritti e di un Procuratore che è solito arrestare persone che poi vengono scarcerate. L’Anm, ipocritamente, non dice nulla contro l’abuso della carcerazione preventiva utilizzata come strumento di tortura contro imputati, com’è il caso di Pittelli, che non hanno subìto alcun processo. Non si può utilizzare il carcere come ritorsione, è da dittature sudamericane. Il carcere dovrebbe rieducare, non essere usato come strumento di punizione. Io l’ho visto Pittelli, era prostrato, umiliato. Se Pittelli dovesse morire, dovesse suicidarsi di chi sarà la responsabilità? Lo vogliono indurre ad un gesto estremo. Invece l’Anm farebbe bene a pensare ai problemi che ha internamente con le degenerazioni delle correnti». E poi arriva all’altro nodo cruciale della vicenda: «Che Paese è quello in cui si va in carcere per aver scritto una lettera e il giudice s’inventa che con quella lettera Pittelli vorrebbe influenzare il processo? Tra l’altro ha scritto a un parlamentare, la cui corrispondenza non dovrebbe essere violata in alcun modo». E qui l’attacco finale alla Ministra Carfagna: «Di fatto è stato il ministro e parlamentare ad aver fatto arrestare Pittelli consegnando, come i peggiori delatori, alla Polizia la lettera del suo ex collega parlamentare: un gesto di una vigliaccheria inqualificabile. Ed è ancora più inqualificabile il silenzio di Forza Italia sull’intera vicenda. Sono tutti dei cacasotto». Angela Stella

Lo schiaffo della Rai alla presunzione di innocenza. Sigfrido Ranucci sfida Cafiero de Raho: per Report la legge non conta, l’imputato è colpevole. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Bel colpo della Rai, nel giorno in cui entra in vigore la legge sulla presunzione di innocenza, nelle stesse ore in cui il procuratore nazionale antimafia denuncia come “patologia del giustizialismo” e “sollecitazione a una giustizia sommaria” certa stampa. Proprio nello stesso giorno il servizio pubblico emette una sentenza di condanna nei confronti dell’avvocato Giancarlo Pittelli, oltre a tutto per fatti per cui non è neppure indagato. Bel colpo, da parte di chi ci estorce ogni mese il canone in bolletta, cioè il servizio di cui ogni cittadino è finanziatore. Dobbiamo per forza sostenere economicamente Report e la sua puntata di lunedì sera, così come quella di Presa Diretta del marzo scorso? E la Commissione di vigilanza ha qualcosa da dire?

Giancarlo Pittelli è un cittadino innocente. Non colpevole secondo la Costituzione, per la precisione. Imputato solo del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. Arrestato tre volte con una pervicacia torturatrice di stile egiziano. Vittima costante di gogna mediatica, nonostante la Costituzione, nonostante le leggi. Viviamo in un Paese in cui, per costringere la magistratura ad applicare i principi della Carta fondamentale, dobbiamo aspettare le ripetute condanne da parte della Corte Europea e poi anche far approvare dal Parlamento leggi specifiche. In poche parole, per convincere il procuratore di Catanzaro, che ha già dichiarato di infischiarsi della Cedu e delle leggi sulla presunzione di innocenza (e almeno lui non è un ipocrita) a non denunciare in conferenze stampa gli indagati come già colpevoli, dobbiamo metterlo nero su bianco. Se no, né lui né i suoi colleghi lo capiscono. Quindi tutto continuerà come prima, nelle aule di giustizia così come in quelle dei cronisti giudiziari? A giudicare da quel che è successo il primo giorno dell’entrata in vigore della nuova legge, pare proprio di si.

Giancarlo Pittelli entra nella puntata di Report mentre una musica assordante, di quelle dei più trucidi film di Netflix, accompagna la parola “Potere”. Si parla di Monte dei Paschi, di Banca D’Italia, di traffico di diamanti e c’ è sempre il Buono contro i Cattivi, quando improvvisamente si annuncia l’ingresso di “Lui”, il Potere. E ha la faccia dell’avvocato Pittelli. Il viso compare e resta sullo schermo per un bel po’. Non è tanto rilevante la storia che viene narrata, che non pare aver nulla di illegale, e che parla di un progetto di costruzione di un centro turistico su terreni di sua proprietà a Copanello, sulla costa jonica della Calabria, quanto la presentazione del personaggio. Una sorta di scheda biografica che pare un mattinale di questura. Il conduttore Sigfrido Ranucci, che pare sempre accaldato nella fatica della sua lotta di Puro contro gli Impuri, è accompagnato da un altro giornalista di quelli che amano e si indentificano con la toga del pm, Pietro Comito dell’emittente calabrese Lactv.

Ecco come il combinato-disposto giornalistico presenta il cittadino innocente Giancarlo Pittelli: anello di congiunzione tra poteri forti, massoneria, ‘ndrangheta e finanza. Naturalmente pare obbligatorio citare esponenti delle famiglie Piromalli e Mancuso come persone assistite professionalmente dall’avvocato “fin dal 1980”. Il che deve essere un grave reato, secondo la solita vulgata sbirresca dell’ottocento, per cui se l’imputato deve essere identificato con il reato per cui lo si accusa, a maggior ragione tale commistione deve valere per il legale. Mafioso l’assistito, mafioso l’avvocato. Peggio ancora se questi è anche “anello di congiunzione” tra ambienti sospetti quanto la ‘ndrangheta, cioè la massoneria e la finanza. Tutti delinquenti. E chi lo dice che l’avvocato calabrese svolge questo ruolo così importante? Lo dice il procuratore Gratteri, naturalmente. Ah, ma parliamo della stessa persona che nei giorni scorsi ha già detto di considerarsi “legibus solutus” e di conseguenza di non tenere in nessun conto le decisioni del Parlamento? Lo stesso che nella trasmissione di Riccardo Iacona del marzo scorso ha parlato in lungo e in largo, intervistato ben sei volte nel corso della puntata, dell’inchiesta “Rinascita Scott” di cui lui stesso è titolare?

Le premesse ci sono tutte perché la svolta garantistica sulla presunzione d’innocenza fortemente voluta dalla ministra Cartabia sia una strada tutta in salita. Troppo antica, almeno trentennale, è la complicità tra la casta dei pubblici ministeri e quella dei giornalisti fondata sul mercato nero delle notizie coperte da segreto e delle intercettazioni. Tanti cronisti ci campano e ci fanno carriera, anche perché ormai nessun editore o direttore chiede più loro di saper scrivere e parlare in buon italiano per essere assunti e poi emergere nella professione. Si chiede lo scoop, e quello te lo può dare solo il rappresentate del vero potere, il magistrato. La moneta di scambio per il pm che ti rifila le notizie sottobanco, che ti passa le intercettazioni, che ti fa virgolettare le ordinanze (così si sommano i due analfabetismi) è la sua visibilità.

La popolarità che un domani lo può portare anche alla carriera politica. Sarà possibile spezzare questo vincolo “mafioso” con una legge che vieta le conferenze stampa ma, come ogni forma di proibizionismo (anche quello più ricco di buone intenzioni) non può rompere il contrabbando e il mercato nero? Difficile, a vedere quel che è successo il primo giorno. Difficile, ma non impossibile, se è sceso in campo addirittura il procuratore nazionale antimafia. Ora aspettiamo i vertici dell’Ordine e dell’Associazione dei giornalisti. Coraggio, colleghi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La storia dell'avvocato. Deposizione spontanea di Pittelli: “Sono stato massone, mai mafioso: mi avete lapidato”. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

«Sono un massone, ma non ho mai avuto nulla dalla massoneria». Inizia con il botto la deposizione spontanea di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, durate l’udienza questa settimana del processo “Rinascita Scott” dove è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. Pittelli, in video collegamento dal super carcere di Melfi dove è detenuto dallo scorso dicembre dopo la revoca dei domiciliari per aver scritto alla ministra Mara Carfagna, ha esordito affermando di non essere “un folle e un visionario” e che le sue parole “saranno pietre in questo processo”. «Ho scritto a Mara Carfagna – ha esordito – perché dal giorno del mio arresto, il 19 dicembre 2019, io esisto nei servizi giornalistici che hanno trattato anche argomenti di gossip sulla mia vita privata. Si è fatto strame della mia vita, della mia famiglia, di 40 anni di attività professionale. Una campagna di stampa senza precedenti nella storia di questa regione. Mi è stata tolta la pelle, sono un uomo per bene e onesto».

Il racconto di Pittelli ai giudici del tribunale di Lametia inizia dal 1983 quando, poco più che trentenne l’avvocato cosentino Ernesto D’Ippolito gli propose di candidarsi al Parlamento nel Partito liberale e di iscriversi nella sua loggia massonica. «Ho rinunciato a uno scranno sicuro ma decisi di iscrivermi alla loggia nella quale erano presenti medici, avvocati, funzionari, professori universitari. La frequentazione dei confratelli non fu, però, di particolare gradimento per Pittelli in quanto le attività e la gamma di argomenti trattati «non era cosa per me interessante». Pittelli, allora, chiese e ottenne il trasferimento nella loggia di Catanzaro. Ma in questa sede le riunioni erano “una perdita di tempo”. Nel 1999 arriva la svolta con la proposta da parte di Forza Italia «di candidarmi alla presidenza della Regione Calabria». E anche questa volta, come nel 1983, Pittelli rifiuta la proposta per indicare Chiaravalloti. Uscito dalla massoneria, nel 2001 «sono candidato al Parlamento dove rimasi fino al 2013, tra Camera e Senato». «A me la massoneria non ha mai dato nulla, così come la politica, neppure quando il mio presidente della Regione distribuiva centinaia di migliaia di cause», ha puntualizzato Pittelli.

L’ex parlamentare ha quindi raccontato come nasce il termine “massomafia”. Un termine che a suo dire era stato coniato nel 2007 in seguito agli scontri, giudiziari e non, avuti con l’ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris. Scontri che, tra l’altro, portarono a un processo a Salerno, competente per i reati commessi dai magistrati calabresi, durato 12 anni, fino a quando a de Magistris venne tolta l’inchiesta Poseidone. Secondo Pittelli fu de Magistris a coniare il termine massomafia per indicare una borghesia corrotta e i cosiddetti poteri forti. Argomenti che l’ex pm, poi divenuto politico e sindaco di Napoli per dieci anni, ha portato sui giornali e nelle trasmissioni televisive. Con questi argomenti, ha detto Pittelli, «de Magistris si è fatto quattro campagne elettorali. Ecco dove nasce il mito di Pittelli massomafioso capace di aggiustare i processi». Per Pittelli sarebbe questo il momento in cui i pentiti hanno appreso della vicenda e l’hanno riportata nelle loro dichiarazioni.

«È da vergognarsi sentire le parole dei vari Virgiglio e Mantella (due collaboratori di giustizia, ndr)», ha detto Pittelli che ha aggiunto: «Io non sono mai entrato nella stanza di un magistrato se non per un saluto o una richiesta più che lecita». Poi, riferendosi a quei magistrati intercettati a cena a casa sua ha detto: «andate a guardare di cosa abbiamo parlato, citateli tutti, uno per uno». Qualche anno fa, prosegue il racconto, «mi sono iscritto di nuovo alla massoneria del Grande Oriente d’Italia su sollecitazione di un amico chirurgo di Soverato». «Una sola volta – prosegue – mi sono rivolto a un vertice della massoneria per una truffa subita a Ravenna», una questione che non risolse e che si concluse per altre vie. L’ex parlamentare ha anche sostenuto che nel periodo in cui era intercettato, sua figlia studiava alla Luiss e che mai ci sono state intercettazioni su richieste di raccomandazioni per lei, «eppure, forse, qualche conoscenza l’avrei avuta per arrivare ai suoi professori. Ma non l’ho fatto».

I suoi cognati sono costruttori e in 40 anni non hanno mai partecipato a un appalto pubblico, ha ricordato Pittelli. E per quanto riguarda Mantella e le sue dichiarazioni contro di lui, ha definito il collaboratore di giustizia “un furbo” che ha capito «che l’obiettivo in questo processo ero io». In merito, quindi, ai rapporti con il boss Luigi Mancuso, Pittelli ha detto di averlo difeso la prima volta nel 1981 e fino al 2007. «Mai avuto con lui screzi di alcun genere – ha detto – mai ricevuto richieste illecite da parte sua». Poi, per una incomprensione Mancuso gli revocò la nomina. I rapporti si riallacciano nel 2016. Altro capitolo delle sue dichiarazioni spontanee, i rapporti con l’ex agente dei Servizi, già in forza della Direzione investigativa antimafia Michele Marinaro, anch’egli imputato: «Un giorno mi disse che un magistrato della Procura, di cui non farò mai il nome, gli riferì di non frequentarmi più».

A questo punto, Pittelli spiega cosa scrisse su un foglio di carta intestata del suo studio la notte dell’arresto e poi sequestrato dal Ros. Un documento che svelerebbe, secondo l’accusa, come egli fosse stato a conoscenza dei dettagli dell’indagine che lo riguardavano, prima del blitz: «Ho scritto nel tempo tutto quello che mi veniva nella testa e che poteva riguardarmi, solo perché ero preoccupato e perché cercavo di capire». La deposizione spontanea si chiude con i verbali delle dichiarazioni di Mantella portati a conoscenza del boss Mancuso: «È un falso macroscopico, volgare, che non ha precedenti. Io non ho mai parlato di verbali integrali, letti, visti o dei quali ho avuto conoscenza». Paolo Comi

Calvario infinito per l’avvocato Pittelli: per il Riesame deve tornare in carcere. I giudici cautelari hanno accolto l'ennesima richiesta di arresto presentata da Nicola Gratteri. L'ordinanza non è esecutiva, in attesa della decisione finale della Cassazione. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 aprile 2022.

I giudici del Tribunale del Riesame di Catanzaro hanno accolto la richiesta della Dda di Catanzaro di ripristinare la custodia cautelare in carcere per l’avvocato Giancarlo Pittelli, 69 anni, ex parlamentare di Forza Italia, revocando il beneficio dei domiciliari concessi al penalista nel febbraio scorso dal Tribunale di Vibo Valentia.

La Sezione riesame, presieduta da Filippo Aragona, definisce la decisione del Tribunale di Vibo Valentia con la quale erano stati concessi i domiciliari a Pittelli «affetta da vizi di logicità, ragionevolezza e coerenza argomentativa», con l’aggiunta che il provvedimento era stato adottato «senza nemmeno attendere il termine di due giorni perché l’ufficio del Pubblico ministero esprimesse il suo parere». Il dottor Aragona lo ricordiamo perché all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione Camere penali italiane di quest’anno, proprio a Catanzaro, si disse d’accordo tra chi in dottrina spinge per inserire i delitti di associazione mafiosa tra i crimini contro l’umanità, «il che – spiegò – significherebbe introdurre nello statuto della Corte penale internazionale un nuovo crimine contro l’umanità che sarebbe quello di associazione mafiosa», il cui « valore simbolico sarebbe molto forte».

Gli replicò, con il suo stile inconfondibile, l’avvocato Nicolas Balzano, sostenendo che quelle parole mostrano «che la sua prevalente attenzione, la sua attenzione di giudice, non è quella, come dovrebbe essere, alla tutela dei diritti fondamentali delle persone che compaiono dinanzi al suo giudizio, ma la sua prevalente preoccupazione è alla lotta alla mafia, che è estranea alle sue competenze, non la dovrebbe impegnare più di tanto». Pittelli non deve tornare subito in carcere in quanto occorrerà attendere adesso la pronuncia della Corte di Cassazione, alla quale ricorreranno i difensori dell’ex parlamentare, gli avvocati Salvatore Staiano e Guido Contestabile, come hanno già preannunciato, per chiedere l’annullamento dell’ordinanza del Riesame.

Il Comitato per Pittelli (presieduto da Enrico Seta, portavoce Umberto Baccolo) stigmatizza la decisione del Riesame: «Il verdetto si appiattisce sulle posizioni della Dda. Sembra ormai che la persecuzione, fino al rischio di annientamento della persona fisica dell’imputato, rappresenti l’unico strumento in mano alla pubblica accusa. Lascia molto delusi e perplessi che anche l’organo giudicante abbia assecondato una linea irragionevole e una grave confusione fra rigore e ferocia». Intanto il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, la cui interrogazione sul caso Pittelli, firmata insieme a Magi di +Europa e Bruno Bossio del Pd, era tra gli allegati della Dda nel ricorso contro i domiciliari, ha presentato un’altra interrogazione alla ministra Cartabia, insieme ad esponenti di Forza Italia e Coraggio Italia, per sapere se «non intenda acquisire ulteriori elementi sulla vicenda, per quanto di competenza, valutando la sussistenza dei presupposti per l’eventuale avvio di iniziative ispettive».

La decisione del Riesame. Giancarlo Pittelli deve tornare in carcere, calvario infinito per l’avvocato accusato da Gratteri. Redazione su Il Riformista l'8 Aprile 2022.

Giancarlo Pittelli deve tornare in carcere. L’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, a processo nell’ambito dell’inchiesta Rinascita Scott con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, deve lasciare gli arresti domiciliari e tornare dentro una cella.

Lo ha deciso il tribunale del Riesame di Catanzaro accogliendo l’appello presentato dalla locale Direzione distrettuale antimafia firmato da ben quattro pm, tra cui il capo della procura di Catanzaro Nicola Gratteri.

Una decisione, quella del Riesame, che però non è immediatamente esecutiva in attesa di una decisione nel merito anche della Corte di Cassazione.

La Sezione riesame, presieduta da Filippo Aragona, ha definito la decisione del Tribunale di Vibo Valentia con la quale erano stati concessi i domiciliari a Pittelli “affetta da vizi di logicità, ragionevolezza e coerenza argomentativa“, con l’aggiunta che il provvedimento era stato adottato “senza nemmeno attendere il termine di due giorni perché l’ufficio del Pubblico ministero esprimesse il suo parere“.

La colpa di Pittelli? Quella di aver scritto una lettera al ministro per il Sud e la coesione territoriale Mara Carfagna, trasgredendo così all’obbligo di non avere contatti con l’esterno tranne le persone con le quali abita, oltre ad essere apparso su uno speciale di Italia1 mentre era in regime degli arresti domiciliari.

Per l’avvocato potrebbe dunque ricominciare a breve un nuovo calvario: Pittelli negli ultimi due anni e mezzo è stato prima recluso carcere speciale di Badu ‘e Carros, in Sardegna, poi a casa, poi ancora in un istituto di massima sicurezza a Melfi, in Basilicata, fino a uno sciopero della fame estremo che lo ha infine rimandato a casa.

Le accuse del ‘Comitato Pittelli’

Un verdetto, quello del Riesame, fortemente criticato dal “Comitato promotore dell’appello per Giancarlo Pittelli”. Il gruppo, presieduto da Enrico Seta, nelle ultime settimane, aveva raccolto oltre 2.500 firme in favore dell’ex senatore di Forza Italia, tra cui quelle di 29 parlamentari in carica.

“In primo luogo – spiega il Comitato nella nota – la ferocia di una macchina giudiziaria, guidata dalle iniziative della Dda, che sembra avere smarrito ogni buon senso ed equilibrio. L’imputato ha quasi 70 anni, è in condizioni di salute precarie e viene sbattuto senza pietà da 28 mesi da un supercarcere all’altro. La seconda cosa rilevante è la mancanza di equilibrio nei rapporti fra accusa e difesa che ormai si respira nei Distretti giudiziari calabresi e che ha suscitato ripetute prese di posizione collettive degli avvocati penalisti. La celerità con cui, inoltre, è stata fissata l’udienza sull’appello proposto dalla Dda è stata oggetto di una richiesta formale e pubblica di spiegazioni da parte della Camera penale di Catanzaro, a cui gli organi giudiziari interpellati, per quanto si sappia, non si sono ancora degnati di rispondere“.

“Ma l’elemento più inquietante di tutti – si sostiene ancora nella nota – è il terzo: la ferocia persecutoria nei confronti di Giancarlo Pittelli risalta in modo inquietante su uno sfondo processuale fatto di ‘indizi’ quanto mai labili di un reato, già di per sé, sfuggente: il famoso, o famigerato, ‘concorso esterno”. Sembra ormai che la persecuzione, fino al rischio di annientamento della persona fisica dell’imputato, rappresenti l’unico strumento in mano alla pubblica accusa per drammatizzare e ‘tenere in piedi’ un processo e un’imputazione che rischiano di franare sulla loro stessa fumosità. Lascia molto delusi e perplessi che, in questo caso, anche l’organo giudicante abbia assecondato una linea irragionevole ed una grave confusione fra rigore e ferocia“.

Il caso Pittelli alla Camera

Nei giorni scorsi alla Camera, il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti in un intervento aveva denunciato che la DDA di Catanzaro nel presentare ricorso aveva allegato nel deposito degli atti al tribunale della Libertà “alcune interrogazioni parlamentari”.

“Interrogazioni che sono tutte dentro l’attività parlamentare e che sono figlie di quello che facciamo da una vita in quanto stabilito dalla Legge che prevede che i parlamentari possano fare le ispezioni in carcere per verificare le condizioni dei detenuti. L’articolo 68 della Costituzione difende la libertà dei parlamentari. Stiamo parlando di una persona non condannata. La domanda è: perché viene messa agli atti una precipua, specifica e anche dovuta attività di un parlamentare? Sono stati messi dentro anche articoli di giornale fatti da Il Riformista, uno dei pochi giornali che rispetto alla giustizia e alla magistratura ha una posizione di un certo tipo”, aveva spiegato in Aula Giachetti, evocando il dubbio che dietro il comportamento della DDA vi fosse “una forma di intimidazione” o “un tentativo di gettare ombra su un’attività parlamentare inserendola in un contesto come quello del processo a Pittelli”.

Come ai tempi degli Aragona. Vogliono uccidere Pittelli, il riesame chiede l’arresto dell’avvocato e offende le tre giudici che lo avevano scarcerato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Aprile 2022. 

Finirà di nuovo in galera – a meno che non ci sia ancora un giudice a Berlino, cioè in Cassazione – l’avvocato Giancarlo Pittelli. Lo ha deciso il tribunale del riesame di Catanzaro, presieduto da Filippo Aragona, il giudice che vorrebbe far inserire il reato di associazione mafiosa tra i crimini contro l’umanità. E di lui si è capito come la pensa quando, l’11 febbraio scorso, ospite, proprio nel capoluogo calabrese, dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, ha anche alluso al fatto che il mafioso non possa pretendere diritti per i propri figli, visto che lui non rispetta quelli degli altri, quando spara e uccide. Il che sta a significare che lo Stato debba comportarsi come un boss assassino. O anche che la “razza” mafiosa non debba godere di diritti. Neanche per i bambini.

Pochi minuti per la decisione, e sole settantadue ore in tutto per la discussione, al termine della quale il tribunale ha accolto l’appello del procuratore Gratteri contro la decisione con cui i giudici di Vibo Valentia avevano rimandato a casa l’avvocato calabrese, e ha stabilito che, “nel momento in cui la presente decisione diverrà definitiva, nei confronti di Pittelli Giancarlo venga ripristinata la misura della custodia cautelare in carcere”. Dando per scontato che la corte di Cassazione, deputata a dire la parola finale sugli appelli dei pm, si appiattirà, proprio come il tribunale del riesame, sulle richieste della Procura. Sempre immobile sulla propria ipotesi accusatoria, che suona più o meno così: Pittelli è troppo importante per dimostrare la tesi dell’inchiesta ”Rinascita Scott”, la trattativa calabrese tra gli uomini della ‘ndrangheta, la massoneria e la società civile. Se ci scappa via dalle mani l’avvocato, si sbriciola il maxiprocesso in corso nell’aula bunker di Lametia. Ecco perché il prigioniero deve essere rinchiuso e isolato, mentre il procuratore Gratteri è in attesa di sapere dal Csm se diventerà il numero uno a capo della Procura nazionale Antimafia. E anche ieri avrà potuto mettere una nuova tacca alla cintura. Tutto fa curriculum.

Gli avvocati Salvatore Staiano e Guido Contestabile, che si sono spesi con interventi per tre ore e mezzo per poi vedere un’ordinanza bella pronta e confezionata nello spazio di pochi minuti, sono sempre più sconcertati. Decisione “eccentrica ed eccessiva”, commenta Contestabile, “non ci sono ragioni consistenti per giustificare il carcere. Siamo ancora fermi alla lettera di Giancarlo all’onorevole Carfagna, su cui peraltro il tribunale di Catanzaro non si è mai pronunciato”. Sgomenti gli amici di Pittelli del Comitato presieduto da Enrico Seta, che denunciano “l’appiattimento” del tribunale sulle posizioni della Dda e la “ferocia di una macchina giudiziaria…che sembra aver smarrito ogni buon senso ed equilibrio”. Il concentrato del discorso è sempre lo stesso: la paura che il potere relazionale e comunicativo di Giancarlo Pittelli sia in grado di condizionare il tribunale che sta celebrando il processo nei confronti suoi e di altre trecento persone a Lametia.

Un collegio composto di tre donne, dopo che l’iniziale Presidente Tiziana Macrì era stata ricusata dalla Procura con una motivazione formale veramente secondaria. E sarà un caso che sulle tre giudici del tribunale di Vibo Valentia – Gilda Danila Romano, Germana Radice e Francesca Lofffredo, quelle che, mentre Pittelli era oltre il ventesimo giorno di sciopero della fame, ne avevano disposto il ritorno alla detenzione domiciliare – abbiano infierito nell’udienza del riesame sia gli uomini della procura che quelli del Tribunale di Catanzaro. Anche con l’ordinanza. Che definisce il provvedimento delle colleghe come affetto da “vizi di logicità, ragionevolezza e coerenza argomentativa”. Eppure gli argomenti che avevano ridato la vita all’avvocato (Volete fargli fare la fine di Cagliari? avevamo scritto) erano molto semplici: il trascorrere del tempo e il comportamento dell’imputato.

Il tic-tac del tempo ci riporta a quel blitz del dicembre 2019 –è passato un secolo – in cui Pittelli fu arrestato e sbattuto nel peggior carcere speciale italiano. Poi l’orologio si sposta su un anno dopo, con la concessione degli arresti domiciliari da parte del tribunale della libertà, che aveva tenuto conto della sua età e del fatto che fosse incensurato. Elementi che permangono, anzi quello dell’età si è, per fatti naturali, aggravato. Ma oggi paiono non contare più. Poi in mezzo c’è stato il breve arresto da parte dei giudici di Reggio Calabria, che però si sono ravveduti subito. E intanto l’uomo-pacco postale andava avanti e indietro. Poi ancora carcere speciale per la maledetta lettera alla ministra Carfagna. Poi il ritorno a casa e infine le bizze (ci scusi procuratore, ma non è più una cosa seria) di Nicola Gratteri e infine la decisione di ieri del tribunale guidato dal presidente-profeta Aragona. E poi, e poi, e poi. Ma vi pare una cosa seria, nella sua tragicità?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Presentata istanza di revoca agli arresti. Processo Rinascita Scott, Pittelli va liberato: ecco perché è innocente. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Aprile 2022. 

Giancarlo Pittelli deve tornare a essere un uomo libero, perché è innocente. Inoltre è un settantenne molto provato sul piano fisico e psicologico, come evidente dalla cartella clinica del carcere di Melfi, dove era stato lanciato un allarme sulle condizioni dell’avvocato, quando era detenuto. E la situazione non è certo migliorata, dopo che il tribunale del riesame ha accolto la richiesta della procura del dottor Gratteri di rispedirlo in prigione. Gli avvocati Giuseppe Stajano e Guido Contestabile sono partiti all’attacco. Lo hanno fatto nell’aula di Lamezia dove si sta celebrando il processo “Rinascita Scott”, in cui hanno annunciato di aver presentato un’istanza di revoca degli arresti, di qualunque forma di detenzione. Giancarlo Pittelli deve tornare a essere un uomo libero, è la sintesi della richiesta, perché è innocente e ve lo dimostriamo con prove, scrivono i due legali.

C’è una telefonata-chiave, nelle migliaia di atti che sempre accompagnano ogni imputato di questo tipo di processi, cioè quelli fondati soprattutto sui reati associativi. Una telefonata registrata che fa cadere la principale imputazione, cioè nella sostanza l’unica di cui deve rispondere l’avvocato Pittelli nel processo di Lametia. Un unico indizio, ha detto la Corte di Cassazione che, con la sentenza del 25 giugno del 2020, aveva spazzato via una serie di ipotesi un po’ fantasmagoriche della procura, come l’aiuto dato dall’avvocato a un ricovero ospedaliero per un bambino malato o una raccomandazione per un esame universitario o il darsi del “voi” tra legale e assistito. Piuttosto che intercettazioni della conversazione tra due interlocutori in cui uno indicava all’altro la casa di Pittelli. Il secondo diceva: “Mafioso?” e il primo: “No, avvocato”. Tutto ciò ha poca rilevanza, avevano scritto i giudici della Cassazione. E avevano concentrato l’attenzione su quello che consideravano l’unico supporto a un’imputazione come il “concorso esterno in associazione mafiosa”.

Cioè il sospetto che Giancarlo Pittelli avesse fatto avere al suo assistito Luigi Mancuso i verbali di interrogatorio del “pentito” che lo accusava, Andrea Mantella, un boss di rilievo della criminalità organizzata nella zona di Vibo Valentia. O comunque avrebbe rivelato i contenuti di interrogatori coperti dal segreto investigativo. Gli avvocati Stajano e Contestabile, prima di presentare l’istanza al tribunale, hanno svolto un lavoro molto accurato sulle carte, esaminando anche atti o intercettazioni che la stessa accusa aveva trascurato. E hanno anche trovato abbondante rassegna stampa a dimostrazione del fatto che, come sempre accade, i giornalisti ne sanno più degli avvocati e le indiscrezioni sui verbali dei “pentiti” da sempre riempiono le pagine dei giornali. Il che ha un po’ innervosito nell’aula di Lamezia il pm De Bernardo, il quale si è affrettato a sciorinare un elenco di nomi di nuovi “pentiti” che la procura intende far sentire nel corso del processo per verificare se hanno qualcosa da dire su Giancarlo Pittelli. Un po’ il solito sistema della pesca a strascico, per cui l’accusa si modifica in corso d’opera come un castello di sabbia che si ricostruisce ogni volta che, quando le prove si dimostrano inconsistenti, si sta sgretolando.

I “pentiti” vengono quindi chiamati a raccolta se le intercettazioni non sono più sufficienti per l’accusa? Prendiamo per esempio la conversazione del 12 settembre 2016 tra Pittelli e un altro suo assistito, in cui l’avvocato riferisce che il solito “pentito” Mantella avrebbe scritto una lettera alla madre e avrebbe accusato il proprio fratello. La notizia della lettera era stata già pubblicata dal “Quotidiano del sud” e diffusa da “Zoom 24” il 26 giugno, quindi ben tre mesi prima. E in luglio altri organi di stampa avevano scritto letteralmente la seguente notizia che riguardava Andrea Mantella: “Dopo essersi deciso nei mesi scorsi a collaborare con la giustizia, il quarantaquattrenne vibonese non risparmia nessuno, neanche i parenti più stretti”. Ci voleva tanta fantasia a immaginare una chiamata in correità del fratello piuttosto che del nonno?

Ma il vero colpo di teatro dei legali di Pittelli consiste nell’aver ripescato la carta fondamentale. La trascrizione di una conversazione del 31 ottobre 2016 (cioè successiva a quella imputata a Pittelli) tra due affiliati di nome Giamborino e Ceravolo, e che nel processo non è stata presa in nessuna considerazione benché contenesse la notizia chiave. I due affermano senza ombra di dubbio che le informazioni coperte da omissis “non le ha nessuno”. Nessuno, capito, dottor Gratteri? Capito, giudici del tribunale? Che cosa aspettate a rendere Giancarlo Pittelli, innocente secondo le prove, un uomo libero?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da gazzetta.it il 7 giugno 2022.

Fabrizio Miccoli è tornato in libertà lo scorso 13 maggio dopo 6 mesi di detenzione. Il tribunale di sorveglianza di Venezia (l'ex capitano del Palermo era detenuto nel carcere di Rovigo) gli ha concesso l'affidamento in prova. L'ex calciatore salentino fu condannato in via definitiva a 3 anni e 3 mesi di reclusione con l'accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso. In queste settimane di libertà Miccoli sta rispettando alcune prescrizioni come quella di rientrare in casa prima di mezzanotte e non frequentare pregiudicati. Ma per lui è arrivato comunque il momento di tracciare un bilancio e di fare mea culpa. E così è stato...

E allora ecco che l'ex attaccante di Lecce, Palermo, Juve e Nazionale ha postato una lunga lettera con cui ha rotto il silenzio. Ecco le sue parole: " Due anni fa ho fatto un grosso errore. Uno di quelli che ti cambiano la vita. Avevo tutto. Ero il capitano del Palermo, facevo il lavoro che avevo sempre sognato di fare fin da bambino e la gente di Palermo mi faceva sentire a casa. In questi 12 lunghissimi anni ho sempre preferito il silenzio. Ho letto di tutto ma non ho mai replicato. Quando sei un calciatore in Serie A hai tante attenzioni. Tante persone vogliono un pezzo di te.

Tanti ti conoscono ma tu non conosci nessuno. Non sai di chi ti puoi fidare. In realtà ho fatto più di un errore. Il primo grosso errore è stato quello di essere sempre disponibile con tutti. Chi viveva a Palermo in quegli anni.. sa. Il secondo errore è stato quello di usare delle parole sbagliate, parole che non pensavo e mai penserò (come da intercettazione in cui si esprime in termini oltraggiosi su Giovanni Falcone, ndr). Spesso quando sei al top ti senti invincibile.. invece sei solo umano".

"Ho chiesto scusa tempo fa - continua Miccoli nella sua lettera - per quelle parole e lo faccio nuovamente. L’anno scorso è arrivata la sentenza. Sentenza che non ho condiviso perché mi sentivo lontano e sono lontano da quel mondo, ma sentenza che ho rispettato presentandomi spontaneamente il giorno seguente in un carcere di massima sicurezza, sempre per scelta mia, per scontare la mia pena. Un giorno li dentro sembra infinto, 6/7 mesi, un'eternità. La pena più grande l’ho scontata in questi 12 anni, ogni giorno, nel vedermi accostato ad un qualcosa che non sono e che non mi appartiene".

Miccoli: «Falcone? Ho sbagliato. Il carcere? Un giorno lì è eterno. Mi credevo invincibile, sono umano». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2022.

L'ex attaccante del Palermo rompe il silenzio dopo la condanna per estorsione aggravata dal metodo mafioso e la prigione pubblicando una lunga lettera su Instagram: «Ho fatto alcuni errori, spero di recuperare e mostrare chi sono davvero».

Nel novembre 2021 è diventata definitiva, come stabilito dalla seconda sezione della Cassazione, la condanna di Fabrizio Miccoli, ex capitano del Palermo con un passato anche nella Juventus (2003-04), a tre anni e sei mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Miccoli è tornato in libertà il 13 maggio scorso, dopo quasi sei mesi di detenzione. Il tribunale di sorveglianza di Venezia (Miccoli era detenuto nel carcere di Rovigo) gli ha concesso l’affidamento in prova. Adesso, sul proprio profilo Instagram, l’ex calciatore fa mea culpa per quanto accaduto: «Dodici anni fa ho fatto un grosso errore — inizia così la confessione di Miccoli —. Uno di quelli che ti cambiano la vita. Avevo tutto. Ero il capitano del Palermo, facevo il lavoro che avevo sempre sognato di fare fin da bambino e la gente di Palermo mi faceva sentire a casa. In questi 12 lunghissimi anni ho sempre preferito il silenzio. Ho letto di tutto, ma non ho mai replicato».

«Quando sei un calciatore in serie A hai tante attenzioni — prosegue —. Tante persone vogliono un pezzo di te. Tanti ti conoscono, ma tu non conosci nessuno. Non sai di chi ti puoi fidare. In realtà ho fatto più di un errore. Il primo grosso errore è stato quello di essere sempre disponibile con tutti. Chi viveva a Palermo in quegli anni, lo sa. Il secondo errore è stato quello di usare parole sbagliate, parole che non pensavo e mai penserò (come da intercettazione in cui si esprime in termini oltraggiosi su Giovanni Falcone, ndc). Spesso quando sei al top ti senti invincibile. Invece, sei solo umano».

E ancora: «Ho chiesto scusa tempo fa per quelle parole e lo faccio nuovamente. L’anno scorso è arrivata la sentenza. Sentenza che non ho condiviso perché mi sentivo lontano e sono lontano da quel mondo, ma sentenza che ho rispettato presentandomi spontaneamente il giorno seguente in un carcere di massima sicurezza, sempre per scelta mia, per scontare la mia pena. Un giorno lì dentro sembra infinito, sei-sette mesi, un’eternità. La pena più grande l’ho scontata in questi 12 anni, ogni giorno, nel vedermi accostato a un qualcosa che non sono e che non mi appartiene».

Secondo la giustizia Miccoli commissionò un’estorsione aggravata dal metodo mafioso a Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa (quartiere di Palermo) Antonino «Scintilla», già condannato a sua volta in via definitiva a sette anni di carcere. La vicenda giudiziaria nacque dal tentativo di Miccoli di recuperare 12mila euro, con violenza e minacce, dall’ex titolare della discoteca «Paparazzi» di Isola delle Femmine, Andrea Graffagnini. Si tratta di un episodio che risale a più di 10 anni fa e fece scalpore perché Miccoli e «Scintilla» parlavano nelle intercettazioni del giudice Giovanni Falcone — assassinato da Cosa nostra il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci — come di un «fango». Parole che scatenarono un’ondata di indignazione e per le quali l’ex capitano rosanero si scusò pubblicamente. Miccoli era stato condannato sin dal primo grado (celebrato con il rito abbreviato). Una sentenza che ha retto in tutti i gradi di giudizio, anche se Miccoli ha sempre escluso di sapere che l’amico Lauricella fosse imparentato con dei mafiosi. Il giorno dopo, come raccontato anche dall’ex attaccante, si presentò nel carcere di Rovigo e dopo quasi sei mesi fu scarcerato. Da qui la lettera sui social.

Miccoli, insomma, è pronto a ricominciare: «Non chiedo di essere capito, non chiedo che venga dimenticato ciò che è successo. Voglio solo, dopo 12 lunghi anni, chiarire la mia posizione, dire la mia anziché farla dire ad altri — conclude nella lettera —. Come in campo, dopo una sconfitta non puoi rigiocare la partita appena persa, ma puoi allenarti e cercare di fare meglio nella partita successiva. Ho quasi 43 anni e spero di avere ancora tante “partite” per recuperare e mostrare il vero Fabrizio Miccoli».

Il leccese Miccoli non prese soldi dall'estorsione ma non la condannò. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Marzo 2022.

La Cassazione non mette in discussione la condanna di tre anni e sei mesi dell'ex bomber della Juve. Anche se non ha tratto alcun vantaggio economico dall’aver affidato a un suo amico, figlio di un boss mafioso, l’incarico di riscuotere un credito «lecito» da un imprenditore in favore di un suo conoscente, per la Cassazione non è da mettere in discussione la condanna a tre anni e sei mesi per concorso in estorsione aggravata dal metodo mafioso nei confronti di Fabrizio Miccoli, l’ex attaccante leccese (di Nardò esattamente) di Juventus e Palermo Fabrizio Miccoli. Ad avviso dei supremi giudici - che hanno depositato le motivazioni del verdetto emesso il 23 novembre 2021 - Miccoli sapeva delle «pressioni» che avrebbe fatto il suo amico Mauro Lauricella, figlio del boss della famiglia palermitana di Brancaccio Antonino detto 'Scintillonè, per ottenere la riscossione dei 12mila euro che l’ex fisioterapista della squadra rosanero Giorgio Gasparini, che si era rivolto all’ex bomber, vantava nei confronti dell’imprenditore Andrea Graffagnini per la cessione di quote della società che gestiva la discoteca «Paparazzì» a Isola delle Femmine.

Per i giudici, a scagionare l’ex calciatore - che dal 24 novembre scorso si è consegnato nel carcere di Rovigo e attende di sapere l’esito della sua richiesta di affido ai servizi sociali per svolgere lavoro socialmente utile - non servono gli sms nei quali, secondo la sua difesa, invita Lauricella a «parlare tranquillo» senza «minacciare nessuno» dal momento che ha seguito passo passo tutta l’attività svolta dal figlio del boss per recuperare il credito e poi ha lui stesso restituito la somma contesa a Gasparini, decurtatà di quanto spettava a Lauricella. In proposito la Cassazione rileva che «quanto poi alle modalità con cui si è sviluppata la risoluzione della questione per cui Miccoli si era detto «disponibile con Gasparini», la ricostruzione convalidata dalla Corte di Appello di Palermo «dà puntualmente conto del costante controllo della vicenda da parte di Miccoli, che partecipò ad alcuni degli incontri predisposti da Lauricella con i debitori». L’ex capitano del Palermo, proseguono gli «ermellinì» nella sentenza 8326 della Seconda sezione penale, «veniva informato da Lauricella su ogni dettaglio quanto agli ulteriori incontri programmati con i debitori, agli ostacoli insorti, alle reazioni e alle scelte di far intervenire personaggi di primo piano della criminalità palermitana».

Inoltre, la Suprema Corte aggiunge che «allo stesso modo, è pacifico che Miccoli intervenne personalmente sia nel rappresentare a Gasparini le «condizioni economiche per conseguire l’auspicata riscossione dei crediti (incluso il riconoscimento di una somma a favore di Lauricella), sia nel consegnare la somma ottenuta in pagamento dai debitori, conoscendo le modalità - più volte rappresentate da Lauricella - con le quali era stato ottenuto il pagamento». A Gasparini, Miccoli - alla fine di tutta l’operazione di riscossione - diede una busta con dentro tre assegni per ottomila euro. In primo grado l’ex calciatore - che risponde di concorso «morale», Lauricella è stato invece condannato con rito ordinario in via definitiva a 7 anni come esecutore materiale dell’estorsione - era stato condannato a tre anni e sei mesi dal Gup di Palermo, con rito abbreviato, il 20 ottobre 2017. Decisione confermata dalla Corte di Appello di Palermo l’8 gennaio 2020. Prima di consegnarsi nel carcere veneto di Rovigo, considerato uno dei migliori d’Italia, Miccoli viveva da anni a Lecce.

Fabrizio Miccoli in carcere: «Sta resistendo, è un detenuto come gli altri». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2022.

La vita dell’ex calciatore dietro le sbarre a Rovigo dal 24 novembre 2021 dopo la condanna a 3 anni e 6 mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso. L’avvocato: «Sta cercando di affrontare la situazione nel migliore dei modi. E, pur non condividendola, rispetta la sentenza»

«Non è contento, ovvio, ma sta resistendo cercando di affrontare nel miglior dei modi la situazione. Pur non condividendola, rispetta la sentenza. Sarà pure Fabrizio Miccoli, ma è un detenuto come tutti gli altri». Così l’avvocato Antonio Savoia ha raccontato a Palermo Today lo stato d’animo dell’ex attaccante, tra le altre, di Juventus, Fiorentina, Palermo e Lecce (e della Nazionale), detenuto dallo scorso 24 novembre nel carcere di Rovigo per scontare la condanna a tre anni e sei mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso, diventata definitiva dopo la sentenza della Cassazione. Il 42enne ex campione non ha potuto beneficiare di alcuna misura alternativa alla galera proprio per l’aggravante di tipo mafioso e dunque sarà costretto a restare in cella fino al 2025.

«Ha preferito andare a Rovigo perché ritiene che lì nessuno lo conosca – aveva detto all’epoca lo stesso legale circa questa decisione –. Un modo per stare lontano da tutti». Secondo la giustizia, Miccoli commissionò un’estorsione aggravata dal metodo mafioso a Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa (il quartiere di Palermo) Antonino «Scintilla», già condannato a sua volta in via definitiva a sette anni di carcere. La vicenda giudiziaria nasce dal tentativo di Miccoli di recuperare 12 mila euro – per conto dell’ex fisioterapista del club rosanero Giorgio Gasparini – con violenza e minacce, dall’ex titolare della discoteca «Paparazzi» a Isola delle Femmine, Andrea Graffagnini. Si tratta di un episodio che risale a più di 10 anni fa e che fece scalpore perché Miccoli e «Scintilla» nelle intercettazioni disposte dagli inquirenti avevano parlato del giudice Giovanni Falcone come di un «fango». Parole che scatenarono un’ondata di indignazione e per le quali l’ex capitano rosanero si scusò pubblicamente. Miccoli era stato condannato sin dal primo grado (celebrato con il rito abbreviato) e la sentenza ha retto in tutti i gradi di giudizio, anche se Miccoli ha sempre escluso di sapere che l’amico Lauricella fosse imparentato con dei mafiosi. 

CONDANNATO A 3 ANNI E MEZZO

Miccoli si è presentato spontaneamente al carcere di Rovigo

«È tutto assurdo, mio figlio sta pagando per qualcosa che non ha fatto. Gli hanno voluto dare una lezione per quella parola che pronunciò durante quella telefonata, riferendosi al giudice Falcone», ha raccontato Enrico Miccoli, padre di Fabrizio, al «Corriere del Mezzogiorno». E ancora: «Tutto il mondo del calcio è con lui, così come tutti coloro che lo conoscono veramente. Lui ha sempre fatto del bene: da 11 anni, con la scuola calcio che ha fondato a San Donato, organizza le ”partite del cuore” per raccogliere fondi e donare strumentazione medica agli ospedali; durante la prima fase della pandemia, insieme al suo amico Checco Moriero, ha distribuito generi alimentari a chi era in difficoltà e tanto altro. Ha tolto tanti ragazzi dalla strada: stavolta, però, per fare del bene, si è trovato nei guai. La condanna è stata confermata anche dalla Cassazione, ma credo che non abbiano neppure letto le carte. Agli atti c’è un’altra telefonata, in cui Fabrizio qualche giorno dopo chiese a Lauricella di “lasciarlo perdere”, ma non è stata presa in considerazione dai giudici».

Il Caso Miccoli. L'ex attaccante condannato per estorsione. Miccoli, la vita in carcere del “Romario del Salento”: “Resiste, tanti tifosi sono dalla sua parte”.

Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

Fabrizio Miccoli, ex calciatore di Juventus, Perugia, Fiorentina, Palermo e Nazionale, dalla fine di novembre è detenuto nel carcere di Rovigo. Il suo avvocato Antonio Savoia ha raccontato in un’intervista a Palermo Today lo stato d’animo e le condizioni del “Romario del Salento” che scelse di costituirsi in Veneto per stare lontano da tutti, dove meno gente possibile potesse riconoscerlo.

“Non è contento di questa condizione, è ovvio, ma sta resistendo”, ha detto l’avvocato. Miccoli rispetta la sentenza anche se si era sempre detto innocente. “Sono deluso, sto pagando per qualcosa che non ho fatto”, aveva dichiarato in passato. Lo scorso novembre la Cassazione aveva confermato la condanna a tre anni e sei mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso.

Miccoli era stato accusato di aver recuperato un credito di 12mila euro per conto dell’ex fisioterapista del Palermo Giorgio Gasparini presso l’imprenditore, al tempo titolare della discoteca “Paparazzi” di Isola delle Femmine Andrea Graffagnini. Per la vicenda l’ex atleta era stato accusato di essersi rivolto a Mauro Lauricella, figlio del boss del quartiere Kalsa Antonino Lauricella detto “U’ Scintilluni”. Miccoli nel processo a Lauricella aveva detto che “mi divertivo con lui, ma non sapevo fosse il figlio di un mafioso. Comunque è una persona alla quale voglio bene”.

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La vicenda, risalente a oltre dieci anni fa, ebbe eco mediatica per la registrazione in cui il calciatore, in auto con Lauricella, aveva definito il giudice Giovanni Falcone, ucciso nell’attentato di Capaci del 1992, con la moglie e i membri della scorta, “quel fango”. Il padre dell’attaccante, Enrico Miccoli, in un’intervista a Il Corriere della Sera, aveva avanzato il sospetto: “Non voglio pensare che sia così, ma credo che la magistratura gli abbia voluto dare una lezione, per quella parola che pronunciò durante quella telefonata, riferendosi al giudice Falcone. Per quella parola ha chiesto scusa davanti a tutte le televisioni, lo ha fatto in lacrime, a cuore aperto, ma c’è stato chi non lo ha perdonato. Lui è in carcere, mentre chi ha sciolto i bimbi nell’acido è libero”.

Proprio per l’aggravante mafiosa Miccoli si trova in carcere, non sono previste misure alternative alla pena. Tanti tifosi intanto sono dalla parte del “Romario del Salento”: ritengono esagerata la condanna sia la pena da scontare dietro le sbarre. “Ha saputo di questa vicinanza e questo non può che avergli fatto piacere”, il commento dell’avvocato che ha aggiunto che nessun trattamento di favore è destinato al calciatore. “Certamente non è contento, ma sta cercando di affrontare nel miglior dei modi la situazione. Pur non condividendola, rispetta la sentenza”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Lecce, il calciatore Fabrizio Miccoli torna in libertà.  Concesso affidamento in prova all'ex capitano del Palermo, fu arrestato per estorsione. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Maggio 2022.

 Torna in libertà l’ex capitano del Palermo Fabrizio Miccoli dopo più di sei mesi dal suo arresto. Accogliendo il ricorso del suo legale, il tribunale di sorveglianza gli ha concesso la misura alternativa dell’affidamento in prova. Il calciatore salentino fu condannato in via definitiva a 3 anni e 3 mesi di reclusione con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso.

A restituirgli la libertà è stato il tribunale di sorveglianza di Venezia (Miccoli era detenuto nel carcere di Rovigo) che ha accolto il ricorso del suo avvocato, il legale Antonio Savoia. Sulla base dell’affidamento in prova che il Tribunale gli ha accordato, Miccoli potrà tornare ad allenare nella scuola di calcio. Dovrà rispettare alcune prescrizioni come non rientrare in casa dopo la mezzanotte e non frequentare pregiudicati. Miccoli è già in viaggio verso il ritorno in Salento. 

«E' stato accolto il ricorso dal tribunale di sorveglianza di Venezia - dice l’avvocato Savoia ed è stato accordato l’affidamento in prova». L’ex bomber era stato condannato dopo essere finito in un’indagine per aver chiesto a Mauro Lauricella, figlio di Nino, esponente della famiglia mafiosa del quartiere Kalsa, a Palermo, la restituzione di somme di denaro a un imprenditore per conto di un suo amico, già fisioterapista della squadra rosanero. Nel corso di una telefonica, intercettata dagli investigatori, Miccoli e Lauricella, parlando del giudice Giovanni Falcone usavano parole e toni offensivi.

Accolto il ricorso, l'ex calciatore scarcerato dopo sei mesi. Fabrizio Miccoli lascia il carcere e torna ad allenare i bambini: ottenuto l’affidamento in prova. Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2022.

Dopo sei mesi di carcere, l’ex calciatore Fabrizio Miccoli torna in libertà e finirà di scontare il resto della pena (3 anni e 3 mesi la condanna definitiva per estorsione aggravata dal metodo mafioso) con la misura alternativa dell’affidamento in prova. Il tribunale di sorveglianza di Venezia ha accolto il ricorso presentato da Antonio Savoia, legale dell’ex capitano del Palermo, 42 anni, che lascia così il carcere di Rovigo.

Sulla base dell’affidamento in prova che il Tribunale gli ha accordato, Miccoli potrà tornare nel suo Salento ad allenare nella scuola calcio di famiglia. Dovrà rispettare alcune prescrizioni come non rientrare in casa dopo la mezzanotte e non frequentare pregiudicati.

“E’ stato accolto il ricorso dal tribunale di sorveglianza di Venezia – spiega all’Ansa l’avvocato Savoia – ed è stato accordato l’affidamento in prova”. L’ex bomber era stato condannato dopo essere stato coinvolto in un’indagine per aver chiesto a Mauro Lauricella, figlio di Nino, esponente della famiglia mafiosa del quartiere Kalsa, a Palermo, la restituzione di somme di denaro (circa 12 mila euro) a un imprenditore che gestiva una discoteca per conto di un suo amico, già fisioterapista della squadra rosanero. Nel corso di una telefonica, intercettata dagli investigatori, Miccoli e Lauricella, parlando del giudice Giovanni Falcone usavano parole e toni offensivi. Nello specifico l’ex calciatore di Juve, Benfica e Fiorentina definiva Falcone, ucciso dalla mafia assieme alla moglie e agli agenti di scorta in un attentato a Capaci il 23 maggio 1992, un “fango”.

L’ex calciatore aveva chiesto scusa in lacrime per quelle parole ed espresso il desiderio di incontrare Maria Falcone, sorella del giudice.

Nei mesi scorsi, il suo avvocato ha raccontato in un’intervista a Palermo Today lo stato d’animo e le condizioni del “Romario del Salento” che scelse di costituirsi in Veneto per stare lontano da tutti, dove meno gente possibile potesse riconoscerlo.

“Non è contento di questa condizione, è ovvio, ma sta resistendo”, ha detto l’avvocato. Miccoli rispetta la sentenza anche se si era sempre detto innocente. “Sono deluso, sto pagando per qualcosa che non ho fatto”, aveva dichiarato in passato. Lo scorso novembre la Cassazione aveva confermato la condanna a tre anni e sei mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso.

Miccoli era stato accusato di aver recuperato un credito di 12mila euro per conto dell’ex fisioterapista del Palermo Giorgio Gasparini presso l’imprenditore, al tempo titolare della discoteca “Paparazzi” di Isola delle Femmine Andrea Graffagnini.

·        I tifosi.

Annullata l’esibizione a Roma. Niko Pandetta, ancora un altro concerto vietato: “Sono un cantante non un mafioso”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Settembre 2022 

Il Municipio VI di Roma, sulla base delle indicazioni della Questura, ha vietato l’esibizione del neomelodico Niko Pandetta annunciata per il 17 settembre nel parcheggio di un bar della zona. Non è la prima volta che l’artista riceve un diniego. “L’Italia ha deciso di non farmi lavorare”, ha scritto Pandetta in una story su Instagram accanto alle immagini della sua esibizione un locale di Mykonos.

Il motivo che si legge nell’ordinanza del Municipio è che il concerto “Potrebbe avere ripercussioni di ordine e sicurezza pubblica”. Una nota della Questura di Roma, informa infatti il Municipio che nei confronti del neomelodico catanese pende una “proposta di sorveglianza speciale” emessa dalla polizia di Catania e che “nel 2018 lo stesso veniva trovato in compagnia di alcuni soggetti pregiudicati in zona Tor Bella Monaca tra i quali uno con cattura in atto emessa dal Gruppo Carabinieri di Frascati”. Già a luglio del 2021, ricorda il Municipio, il prefetto di Latina aveva impedito una manifestazione che prevedeva la presenza di Pandetta.

Non solo: “La Questura di Roma ha infine rilevato che taluni testi della rassegna canora in questione – argomenta l’ordinanza – in passato hanno perfezionato ipotesi di reato, tanto da essere motivo di divieto preventivo da parte delle autorità competenti”. Ergo, si evince “la necessità di evitare lo svolgimento del concerto” visto che “potrebbe avere ripercussioni di ordine e sicurezza pubblica”.

Ma il cantante ha sempre preso le distanze dal mondo della criminalità. “Mentre discutete di quanto io sia mafioso e cercate di impedirmi di lavorare, io faccio parlare i miei sacrifici: Pistole nella Fendi è disco d’oro. Ringrazio tutti quelli che hanno partecipato al progetto e tutti i fan che mi sostengono sempre e comunque. Quando smetterete di combattere una guerra che non esiste e aprirete gli occhi chiamatemi – ha scritto giorni fa su Instagram – Io non sono a favore della mafia e non sono contro lo stato e la legalità. Nei testi racconto il mio disagio personale e la mia storia che non ho mai nascosto dietro veli di ipocrisia. Io ero un criminale non un mafioso. Ora sono un cantante non un mafioso”.

A spiegare la questione dell’ultimo concerto annullato è Nicola Franco Presidente Municipio Roma 6 sulla sua pagina Facebook: “I testi delle canzoni , al cui interno sono presenti messaggi fuorvianti e fortemente diseducativi che fanno esplicito riferimento ad azioni criminose e contesti delinquenziali tipici di organizzazioni criminose di stampo mafioso, non davano altra possibilità che negare tale evento. Fin dal primo giorno del nostro insediamento abbiamo detto in maniera chiara ed esplicita che la lotta alla criminalità e il ripristino della Legalità per noi sarebbero state le battaglie madri su questo territorio. Così è e così sarà per i prossimi 4 anni di Governo di Centrodestra su questo Municipio”.

“Certi messaggi non devono essere permessi in nessuna parte del nostro paese , ancor di più nel Municipio Roma VI delle Torri che risulta essere il Municipio di Roma con il maggior numero di reati commessi – continua Franco su Facebook – La firma su quell’ ordinanza l’ ho messa con dispiacere, perché ritengo che la musica debba restare fuori da certe logiche e soprattutto rappresenti felicità e senso di libertà. Ma è stato un dovere averlo fatto. Quello che però mi crea sconcerto è quanto accaduto riguardante l’ assoluzione di un altro cantante di nome Fedez. A lui è permesso di cantare nei suoi testi: ‘Carabinieri e Militari , io li chiamo infami / tutti quei figli di cani / tu come li chiami’”.

E continua: “E così mentre a Roma, in quel di Torbellamonaca, ci sono istituzioni ( Prefetto, Questore, Presidente di Municipio, Forze dell’ Ordine ) che con determinazione fanno sentire la presenza forte dello Stato, a Milano vi è una parte dello Stato che ritiene che ciò non rappresenti un reato. Ci sono Cantanti e cantanti. Per questo motivo io preferisco stare dalla parte di Rita Dalla Chiesa perché anche per me , caro Fedez , ‘I Carabinieri non possono essere toccati in nessun modo”.

Come riportato da Dire, nell’ultimo periodo a Pandetta è stato impedito di esibirsi anche nel concerto fissato per il 10 settembre a Poggio Mirteto, in provincia di Rieti, senza possibilità di appello. Nelle scorse settimane, Pandetta ha dovuto rinunciare a live in varie città- tra queste Frosinone, Brescia, Messina- per lo stesso motivo.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi. 

(ANSA il 14 luglio 2022) – Prima un selfie con la moglie sulla lapide di Totò Riina, poi un omaggio sulla tomba di Bernardo Provenzano. Sono diventate virali sul web le storie postate sul proprio profilo Facebook da Pompeo Piserchia, foggiano vecchia conoscenza delle forze di Polizia per i suoi precedenti penali per reati contro il patrimonio. 

Insieme alla moglie, vennero arrestati a settembre del 2019 perché nella loro casa trovarono nascosta sotto la culla del figlioletto una pistola. 

Ieri la famiglia Piserchia al completo si è recata al cimitero di Corleone in Sicilia dove sono sepolti proprio i due boss di "Cosa Nostra". 

"Rimani sempre nei nostri cuori" - dice nel video Piserchia - immortalando la tomba di Provenzano. Poi il ricordo della sua morte: "oggi è il 13 luglio, oggi il suo anniversario. Il 13 luglio 2016 è venuto a mancare il grande Provenzano". 

Piserchia commenta ancora, "oggi in questo giorno famoso ho avuto l'onore di stare sulla sua tomba". 

Mentre la moglie invita tutti a portare "una rosa a zio Totò" e il figlioletto di 4 anni bacia le lapidi dei due boss.

Da Foggia a Corleone per i selfie sulle tombe di Riina e Provenzano: il video è virale. Hanno fatto il giro del web i contenuti postati da Pompeo Piserchia, pugliese già noto alle forze dell'ordine, che insieme alla famiglia è andato a 'omaggiare' i boss di Cosa Nostra. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Luglio 2022.

Prima un selfie con la moglie sulla lapide di Totò Riina, poi un omaggio sulla tomba di Bernardo Provenzano. Sono diventate virali sul web le storie postate sul proprio profilo Facebook da Pompeo Piserchia, foggiano vecchia conoscenza delle forze di Polizia per i suoi precedenti penali per reati contro il patrimonio. Insieme alla moglie, vennero arrestati a settembre del 2019 perché nella loro casa trovarono nascosta sotto la culla del figlioletto una pistola. Ieri la famiglia Piserchia al completo si è recata al cimitero di Corleone in Sicilia dove sono sepolti proprio i due boss di «Cosa Nostra». «Rimani sempre nei nostri cuori» - dice nel video Piserchia - immortalando la tomba di Provenzano. Poi il ricordo della sua morte: «oggi è il 13 luglio, oggi il suo anniversario. Il 13 luglio 2016 è venuto a mancare il grande Provenzano». Piserchia commenta ancora, «oggi in questo giorno famoso ho avuto l’onore di stare sulla sua tomba». Mentre la moglie invita tutti a portare «una rosa a zio Totò» e il figlioletto di 4 anni bacia le lapidi dei due boss.

Potenza, i cantanti neomelodici nel mirino. Libera: niente concerti di chi inneggia ai clan. Ogni volta che uno di loro deve esibirsi in Basilicata si alza un muro. Vengono attaccati soprattutto perché ritenuti dispensatori di messaggi negativi, inneggianti alla vita criminale. Massimo Brancati su la Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Luglio 2022.

POTENZA - Sembra esserci un conto in sospeso tra la Basilicata e i cantanti neomelodici. Artisti idolatrati dal sottobosco musicale italiano, capaci di riempire teatri, locali e piazze pur essendo ignorati da tv e radio nazionali. Girano con Porsche o Ferrari e si comportano da rockstar. E come le rockstar, quelle vere, cavalcano l’onda di un’immagine selvaggia, maledetta. Violenta. Ogni volta che uno di loro deve esibirsi in Basilicata si alza un muro. Vengono attaccati soprattutto perché ritenuti dispensatori di messaggi negativi, inneggianti alla vita criminale. È accaduto a Niko Pandetta il cui concerto, previsto nel mese scorso a Scanzano Jonico (Matera) - Comune, tra l’altro, commissariato per mafia - è stato annullato in fretta e furia dal titolare di un locale sommerso dalle polemiche. Pandetta, che ha precedenti con la giustizia, è stato accusato di scrivere testi in linea con un pensiero malavitoso. A nulla sono valse le giustificazioni dell’entourage dell’artista, degli organizzatori e dello stesso cantante che ha parlato esplicitamente di censura. Il suo concerto è saltato e gli è stato vietato anche di promuovere un sit-in con i suoi fan per contestare la decisione.

In queste ore i lucani stanno assistendo a un deja-vù con un altro cantante del mondo neomelodico, Daniele De Martino...

Da palermotoday.it il 14 luglio 2022.

Esattamente un mese dopo l'annullamento del concerto di Niko Pandetta a San Cesareo, la storia dei cantanti neomelodici stoppati prima di salire sul palco si ripete nella vicina Artena (Roma). 

Questa volta ad essere annullato è stato il concerto del palermitano Daniele De Martino che si sarebbe dovuto esibire venerdì 15 luglio al Colubro, la frazione del comune lepino diventata famosa in tutta Italia in quanto qui vi abitano e sono cresciuti con i loro familiari i fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, che qualche giorno fa sono stati condannati all’ergastolo per l’omicidio del giovane Willy Monteiro Duarte. 

De Martino si sarebbe dovuto esibire in occasione dei festeggiamenti di San Giovanni Battista. Il “no” all’esibizione del cantante è arrivato dal commissario prefettizio Antonio Orecchio con apposito atto (ordinanza n.44 del 12/07/22) che cita l'avviso orale emesso nei confronti di De Martino nel giugno 2021 dal questore di Palermo.

L'artista, oltre 600 mila follower su Facebook e più di 155 mila brani scaricati su Spotify, era già finito nel mirino del questore di Palermo per alcuni selfie con persone vicine a Cosa nostra e per i testi di alcune sue canzoni "contro i pentiti". 

Ha firmato un brano musicale contro i pentiti di mafia e pubblicato diversi selfie in compagnia di membri di famiglie mafiose. Inoltre nel 2021 ha diffuso, attraverso i suoi profili social, seguiti da molti fan, svariati messaggi che istigano alla violenza, esaltano azioni criminali e attaccano l'operato di chi lotta contro Cosa nostra. 

Per tutti questi motivi il questore di Palermo nel giugno del 2021 a seguito di attività svolta dalla Divisione anticrimine, emise nei confronti del noto cantante neomelodico la misura di prevenzione dell’avviso orale. 

"I messaggi - spiegarono dalla questura - appaiono in grado di influenzare le coscienze di numerose persone. Pertanto il questore ha invitato formalmente il cantante a modificare il proprio comportamento sociale nel rispetto della legge a tutela della sicurezza pubblica".

·        Femmine ribelli.

Zeudi Di Palma eletta Miss Italia: «Sono di Scampia: Gomorra dà un’idea distorta, qui tanti ragazzi vogliono emanciparsi». Elvira Serra il 14 Febbraio 2022 su Il Corriere della Sera.

Vent’anni, studentessa di Sociologia: eletta in ritardo a causa del Covid. Il padre l’ha abbandonata a 2 anni. Il pasticcio in finale: eliminata per errore, poi la gioia.

Miss Italia 2021 (eletta con cinque mesi di ritardo causa Covid) ha vent’anni, occhi scuri, capelli castani. E la grazia di chi non ha avuto una vita facile, ma non ha mai indossato i panni della vittima. Si chiama Zeudi Di Palma, come l’attrice (Araya) che tanto piaceva al padre che l’ha abbandonata quando aveva due anni. Ha un fratello e una sorella di poco più grandi, Asia e Giuseppe, cui è molto legata. Vive a Scampia e studia sociologia all’Università di Napoli. 

È stata eletta dopo più di tre ore e mezzo di diretta streaming dell’edizione più pasticciata della storia del concorso, andata in onda sulla piattaforma web Helbiz Live, condotta con non pochi svarioni dal pur simpatico inviato delle Iene Alessandro Di Sarno e da Elettra Lamborghini, coraggiosamente in viola, nella sede del Casinò di Venezia. 

Zeudi, arrivata tra le tre finaliste, sembrava essere stata eliminata. Ma si era trattato di un errore. Se non altro la sua sorpresa è stata ancora più grande quando è stata incoronata Miss Italia numero 82 dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e dalla patron Patrizia Mirigliani, tenace nel tenere in vita il concorso nonostante le difficoltà degli ultimi anni. 

Zeudi, a chi dedichi la vittoria? 

«A mia madre Maria Rosaria, donna fortissima, che mi ha insegnato la resilienza. Mio padre, Pasquale, ci ha abbandonati quando avevo due anni, lei ha cresciuto tre figli da sola e quando avevo dieci anni ha anche dovuto affrontare la morte di sua madre, mia nonna. È stata licenziata, ha fatto i lavori più umili, ma non si è mai arresa. Oggi è consigliera dell’ottava Municipalità di Napoli (Piscinola, Marianella, Chiaiano, Scampia) e ha fondato “La lampada di Scampia”, un’associazione che aiuta i ragazzi a esprimere il loro talento». 

Hai aiutato anche tu tua madre con dei lavoretti? 

«Beh, ho cominciato a 12 anni a fare la modellina, per “Le Vele in moda”. Poi ho lavorato anche come mascherina al San Carlo». 

Vivere a Scampia può essere difficile. Come hai fatto? 

«Ho convissuto con la realtà in cui sono nata e cresciuta. A Scampia ho frequentato le elementari e le medie. I ragazzi qui fanno il doppio della fatica per emanciparsi da certi contesti e proprio per questo lo Stato dovrebbe essere più presente per aiutarli. Vale per tutte le realtà più complicate, non solo per la nostra». 

Qual è stato il momento più difficile della tua vita? 

«Veder andar via di casa mia sorella. Non ero pronta, avevamo sempre avuto un rapporto bellissimo. Non eravamo contente che andasse via come ha fatto, ma è stata una sua scelta e va rispettata…». 

Hai visto «Gomorra»? 

«No, mai. Forse per un quarto d’ora una volta. Dà un’immagine di Scampia che non riconosco. Non mi interessa vederlo. Scampia è una realtà degradata, ma ci sono tanti ragazzi che vogliono emergere e vogliono emanciparsi». 

Come ti immagini nel futuro? 

«Penso di avere un talento artistico a tutto tondo. Mi piace l’arte, disegnare, so suonare il clarinetto, le percussioni, il pianoforte. Mi piacerebbe recitare, anche quella è una forma d’arte. E vorrei continuare a lavorare per gli altri, aiutare i ragazzi del mio territorio». 

Sei golosa? 

«Sì, delle polpette che prepara mia madre. Ma anche io so cucinare, ho dovuto imparare presto». 

La tua serie tv preferita? 

«Euphoria». 

Hai un cantante, una cantante preferita? 

«Mi piace tutta la musica, la melodia, farmi trasportare dalle emozioni. A Sanremo mi è piaciuta molto la canzone Elisa e poi, certo, Brividi: Blanco e Mamhood hanno trasmesso un messaggio molto moderno». 

Maria Corbi per "la Stampa" il 15 febbraio 2022.

Miss Italia quest' anno viene «orgogliosamente», come dice lei stessa, da Scampia. Ha il volto di una bellissima ragazza di 20 anni, Zeudi Di Palma, ma anche di tutti coloro che non si rassegnano, che combattono per far tornare dignità e legalità nella loro terra. «Una terra bellissima», sottolinea questa studentessa di sociologia che certo non ha avuto vita facile ma non si è mai arresa, presidente di un'associazione che opera nel sociale per aiutare i giovani del territorio a realizzare sogni e talenti. E adesso a Scampia le stanno organizzando i festeggiamenti, un po' come se uno di loro avesse segnato il gol decisivo in campionato.

Come è crescere a Scampia?

«Io ho avuto la fortuna di avere una madre speciale, che con grandi sacrifici ci ha insegnato da subito la strada giusta, anche se la più difficile. E io non ho avuto bisogno di evitare brutte compagnie, ci ho convissuto, mi sono adattata, mantenendo però saldi i miei principi e cercando nel mio piccolo, anzi piccolissimo, di cambiare le cose, iniziando da me. E adesso raccolgo questa grande soddisfazione». 

Il tuo sogno era diventare miss Italia?

«Ne ho tanti di sogni, ma per chi come me non nasce con la camicia e nel posto giusto è più difficile trovare qualcosa o qualcuno che ti agevoli, o comunque ti mostri la strada. Io ci ho messo del mio, mia madre anche, la natura pure, regalandomi la bellezza e allora ho provato un concorso che è come un talent per noi ragazze, che ci da l'occasione di provarci, almeno, a raggiungere, o anche solo a capire, qual è veramente il nostro sogno». 

Sai che ci sono state tante polemiche sul concorso, che la Rai non lo ha più voluto per paura che fosse poco inclusivo e femminista?

«E perché? Lo trovo assurdo, tante ragazze sono diventate famose, hanno lavorato nel cinema, in tv, partendo da Miss Italia. E' un'ipocrisia dire che la bellezza non conta o non esiste. Altro è discriminare in base alla bellezza o offendere. Tutte siamo belle a modo nostro». 

Dedichi la vittoria a tua madre?

«Mia madre Maria Rosaria è la mia eroina. Adesso è consigliere della ottava municipalità di cui fa parte Scampia. Un traguardo importante perché in territori così complicati può provare a cambiare le cose, cercando di organizzare ad esempio eventi per noi ragazzi, per toglierci dalla strada. Ha cresciuto me e i miei fratelli da sola con tante difficoltà; quando avevo 10 anni ha perso il lavoro e nello stesso giorno è morta mia nonna che ci aiutava economicamente e anche moralmente. Ha fatto mille lavori, anche i più umili. Nei momenti bui mi ha insegnato a essere resiliente. Io ho cercato sempre di aiutarla, e anche se lei non mi ha mai chiesto niente, ho lavorato fin da piccolina, come modella e anche come mascherina al teatro San Carlo. E in ufficio per mantenermi all'Università».

Tuo padre?

«Mio padre è da quando ho due anni che non lo vivo. Se ne è andato di casa e non si è più occupato di noi. Da lui ho avuto solo il nome, Zeudi, perché era affascinato dall'attrice Zeudi Araya. So che ha creato anche altre famiglie e ha lasciato anche quelle, ha fatto un po' un macello ma è sempre mio padre anche se non abbiamo rapporti. Se vuole chiamerà lui». 

Volevi fare la modella?

«La prima sfilata l'ho fatta a 12 anni proprio a Scampia, si chiamava "Le Vele e la moda", ma sapevo che comunque avrei dovuto studiare».

Hai detto che non hai visto Gomorra. Perché?

«Solo dei pezzetti, ma mi sono innervosita e ho lasciato perdere. Tanto è sempre la stessa storia, raccontano una realtà che non conoscono. E' tutto troppo enfatizzato. E' sicuramente un quartiere degradato dove la malavita ha sovrastato i ragazzi, cavalcato la loro debolezza causata dalle poche opportunità che gli si offrono. Ma per chi viene da tante difficoltà è più difficile scegliere la strada meno facile, quella "giusta". Scampia è solo un esempio di tutti luoghi che hanno meno». 

Raccontaci la tua Scampia.

«Ci sono tante persone, tanti giovani, la maggioranza bravissimi, coraggiosi e che non c'entrano niente con la malavita ma devono vergognarsi di dire che sono di Scampia perché ormai è diventato un marchio. Noi siamo cresciuti in una casa popolare con pochissimi mezzi, ma io e i miei fratelli abbiamo studiato. Mio fratello Giuseppe ha 23 anni e si deve diplomare in flauto al conservatorio a Napoli dove studia anche ingegneria informatica. Mia sorella Asia studia Belle Arti, io Sociologia. Anche noi siamo Scampia. Lo Stato deve dare di più ai giovani perché sono loro il futuro di questo territorio».

Quali sono le tue passioni?

«L'arte in tutte le sue forme ma anche la musica. Ho suonato il clarinetto per cinque anni, anche un po' di percussioni e sono autodidatta di pianoforte». 

Vuoi fare l'attrice?

«Anche la recitazione è una forma d'arte, perché no».

 Sei fidanzata?

«No». 

Come eri da bambina?

«Molto diversa, uno spirito libero giocavo a calcio». 

Tifi Napoli?

«Certo e il mio calciatore preferito è Insigne». 

Cantante preferito

«Non ho un cantante preferito, mi piace tutta la musica. Mi è piaciuta molto la canzone di Elisa a Sanremo. Ma anche Brividi di Mahmood e Blanco che meritava di vincere. Due ragazzi eccezionali che hanno fatto trapelare cosa sono i ragazzi di oggi e cosa vogliono».

Da casertanews.it il 16 febbraio 2022.

"Roberto Saviano è un personaggio di spettacolo, tanti altri giornalisti che hanno la scorta fanno vera lotta alle mafie senza fare spettacolo". E' il giudizio, durissimo, di Graziella Accetta, la mamma del piccolo Claudio Domino, il bambino ucciso con un colpo di pistola alla testa il 7 ottobre del 1986. La donna, che con il marito Ninni chiede da 36 anni la verità sull'assassinio del proprio figlio di appena 11 anni, critica aspramente il giornalista e scrittore Roberto Saviano che sabato sera è tornato in tv con il suo nuovo programma 'Insider, faccia a faccia con il crimine'. 

Quattro puntate di prima serata faccia a faccia con le organizzazioni criminali, intervistando pentiti, testimoni di giustizia e agenti infiltrati che le hanno vissute dall'interno. Saviano ricostruisce nel programma, anche grazie al materiale di repertorio, i contesti in cui la storia dei protagonisti ha preso forma. 

Commentando i risultati del programma, in onda su Rai3, che ha raccolto davanti al video 941.000 spettatori pari ad uno share del 4.7%, Graziella Accetta dice sui social: "La gente non lo segue perché non ha fiducia in lui, non gli crede". E aggiunge: "Se la stessa trasmissione fosse stata fatta da un giornalista credibile e con familiari che non si sono arricchiti, ma che hanno fatto vera lotta alla mafia, saremmo stati davanti alla tv". 

E ancora, replicando a una donna che lamenta il suo comportamento, Graziella Accetta dice: "Questo imprimere il proprio pensiero e il modo di pensare non è una bella cosa, rispetto tante altre persone che rischiano la vita senza fare "pomata" e stai tranquilla che io sono proprio l'ultima persona che possa favorire le mafie, e non faccio figli e figliastri". "Saviano è l'ultima persona che possa capire e non sta proprio dalla mia parte - dice -io sono rimasta in prima linea a Palermo a combattere e non voglio soldi. Lo faccio a titolo gratuito sempre, sai perché? Perché il sangue di mio figlio non ha prezzo e tanti anni fa ho rinunciato alla scorta, invece...lui?".

Nella prima puntata Saviano ha parlato dei Casalesi, mentre sabato 19 febbraio si continuerà con la testimone di giustizia e parlamentare del Gruppo Misto, ex M5S, Piera Aiello, vedova di mafia che si è ribellata a Cosa Nostra denunciando gli assassini del marito. Il 26 febbraio con Giuseppe Misso, boss del Rione Sanità, oggi collaboratore di giustizia; e, infine, sabato 5 marzo con l'agente della polizia italiana infiltrata in un'organizzazione criminale sotto copertura Maria Monti.

"Ho vinto Miss Italia. La mia Scampia non è quella di Saviano". Edoardo Sirignano il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Zeudi Di Palma, vincitrice del concorso di bellezza più importante in Italia, sottolinea come la politica, negli ultimi anni, ha fallito in una terra dove i giovani devono essere aiutati e che a suo parere non corrisponde a quanto descritto da Saviano

Per Zeudi Di Palma, Miss Italia 2021 e presidente di un’associazione che si occupa di recuperare i giovani di Scampia, la politica a Napoli, come nelle grandi città del Sud Italia, ha fallito.

Che consiglio si sente di dare ai suoi coetanei rimasti a Scampia?

"Devono cambiare ambiente, nel senso non fuggire dalla propria terra, ma frequentare persone in grado di liberarli dalle paure e di farli sentire sé stessi. Devono avere autostima. Senza di questa ci si scoraggia e si tende a delinquere".

Presiede un’associazione che si occupa di sociale. Come intervenire?

"Il mio impegno, come quello di tanti, è fare in modo che questi ragazzi possano esprimersi in tutte le forme possibili. Adesso, con questa vittoria, spero di dare una mano ancora maggiore. Sono in tanti che lottano ogni giorno".

A cosa si riferisce?

"Parliamo di famiglie, che a causa della pandemia, si sono trovate in difficoltà economica e il tutto si ripercuote sui più fragili, i ragazzi, che spesso finiscono con lo scegliere la strada più semplice per risolvere subito i propri problemi. Hanno, invece, bisogno di un ambiente sicuro in cui possono davvero essere sé stessi, senza essere giudicati".

Ha frequentato elementari e medie a Napoli. Qualcuno come lei ce l’ha fatta?

"Una mia amica, tramite l’associazione che presiedo, ha avuto la possibilità di raggiungere il suo sogno, portare al pubblico i suoi sketches. La sua famiglia non aveva i soldi per mantenerla, ma avendo avuto il coraggio di aprirsi e di farsi aiutare oggi ce l’ha fatta. Storie simili a quella del pugile Maddaloni".

Ha mai pensato di fare politica?

"Se mai dovessi farla è solo per avere più permessi per realizzare cose sul territorio. Troppo spesso la burocrazia è un ostacolo".

Scampia è quella descritta da Saviano?

"Non ho letto il libro, né visto la serie, ma rispetto a quanto sentito, la vera Scampia è tutt’altro".

Chi ha governato Napoli negli ultimi anni poteva fare di più?

"Molto di più. Basti pensare alle iniziative per stimolare le persone a migliorare il luogo in cui vivono. A parte le chiacchiere, che ne abbiamo sentite fin troppe, qui sono mancati i progetti, ovvero opportunità concrete per i giovani, che soprattutto in contesti come questo, che non è differente da quello di tante altre città del Sud Italia, dovrebbero sentirsi prima realizzati. Altrimenti non dobbiamo meravigliarci se poi hanno altri modelli".

Ha mai subìto scippi, rapine e quant’altro?

"La microcriminalità e le persone con le cattive intenzioni ci sono ovunque. Napoli oggi non è meno sicura di Milano".

È stata vittima di violenza?

"Mai! Non posso nascondere, però, di aver visto diversi ragazzi subirla e facendomi coraggio qualche volta ho fatto anche la mia parte. Tra le nuove generazioni è all’ordine del giorno".

Si è mai trovata di fronte a facili promesse da parte di qualcuno che voleva avere un tornaconto?

"Ho partecipato a cinque concorsi e li ho sempre vinti. Ciò è la prova di come non ho mai dovuto ricorrere a raccomandazioni o a qualcosa di simile".

Cosa pensa di fare per il futuro?

"A venti anni non si sa cosa si vuole dalla vita. Spero che qualsiasi cosa farò, possa farla al meglio, seguendo quel modello di educazione, datomi da mia mamma, che ha fatto venir su una persona semplice, a modo e soprattutto con dei valori".

Edoardo Sirignano. Sono nato a Mirabella Eclano il 4 gennaio 1990, in tempo per le “notti magiche”, che pur non ricordandole, ho sempre portato dentro di me. Sono diventato giornalista professionista a 22 anni, ma ho iniziato a scrivere molto tempo prima di politica locale. La mia palestra è stata il Mattino e in Irpinia mi sono allenato per dieci anni mangiando pane e politica, infatti, non è conferenza quella dove dopo non c’è cena. Da pochi mesi, su intuizione della Macchioni, sono sbarcato a Roma in quel di Spraynews. Adesso mi ritrovo nel Giornale.it e spero di rimanerci ancora per un po'…

"Una femmina" ribelle si vendica e svela i segreti della 'ndrangheta. Pedro Armocida il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il regista Francesco Costabile racconta il coraggio di Rosa in una Calabria magica.

Curiosamente non sono tante le opere cinematografiche che hanno raccontato una delle nostre associazioni criminali più forti e, per certi versi, più «familiari»' della stessa mafia siciliana molto protagonista al cinema, la calabrese ndrangheta che, appunto, basa la sua potenza sui legami di famiglia, di sangue. Così, dopo il recente capolavoro di Jonas Carpignano A Chiara (2021), con una quindicenne che si ritrova a scoprire la vera attività della sua famiglia, e Anime nere (2014) di Francesco Munzi, dall'omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, è un altro libro e un altro sguardo, tutto al femminile, a portare lo spettatore nell'abisso di usi e costumi così atavici e primordiali da sembrare quasi non appartenerci. Ma Una femmina, diretto da Francesco Costabile e presentato l'altro giorno al Festival di Berlino prima di uscire nei cinema giovedì grazie a Medusa, è tratto da Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla n'drangheta di Lirio Abbate, un libro inchiesta formato da una raccolta di testimonianze «di donne, come Giusy Pesce e Maria Concetta Cacciola, che hanno avuto il coraggio di rompere con i legami di sangue e i codici d'onore della ndrangheta, l'organizzazione criminale che ha saputo, più di tutte, costruire il suo impero sulle fondamenta più solide e archetipiche al mondo: la famiglia. Se la ndrangheta oggi è così potente è proprio grazie a questa struttura e alla sua forza», dice il regista che, due anni fa, con Federico Savonitto ha diretto il bellissimo documentario In un futuro aprile. Il giovane Paolini anticipando il centenario del grande intellettuale che si celebra quest'anno.

Il film di Costabile, al suo esordio nel lungometraggio di finzione, si concentra sulla storia solo di Una femmina che racchiude anche quella di tante altre, ossia Rosa, una ragazza inquieta e ribelle, che vive con la nonna e lo zio in un paesino della Calabria. La madre è morta misteriosamente quando lei era bambina e poco alla volta quel passato inizia a venire a galla, accompagnato da un trauma che emerge dalle pieghe della memoria e nonostante i silenzi tombali dei suoi familiari. Ma, di fronte a un destino già segnato, Rosa cercherà di fuggire dalla famiglia ordendo una vendetta micidiale.

Sceneggiato dal regista con Lirio Abbate, Serena Brugnolo e Adriano Chiareli, Una femmina prende le mosse dal soggetto, sempre di Abbate, scritto con Edoardo De Angelis, il regista di Indivisibili, qui anche produttore con la sua, e di Pierpaolo Verga, O' Groove e Trump Limited di Attilio De Razza e Ficarra e Picone.

Una presenza, quella di De Angelis, che si sente sia nella scelta della straordinaria ed esordiente protagonista, Lina Siciliano che ricorda molto Pina Turco, moglie di De Angelis e attrice nel suo film più recente, Il vizio della speranza, sia nella deriva «visionaria» del film che trasfigura il realismo del racconto con la forza di immagini che giocano, ad esempio, con il fuori fuoco usato quasi come filtro «instagrammabile» per mettere al centro la femmina ribelle: «Al di là del realismo - dice il regista che la realtà calabrese conosce bene perché è nato a Cosenza nel 1980 - ho cercato zone più profonde, connettendomi con l'esperienza traumatica vissuta da queste donne, facendone percepire il sentimento di oppressione, di impotenza, per far sì che questo film diventasse innanzitutto un'esperienza intima, quasi irrazionale, per lo spettatore. Ho cercato quindi di restituire l'immagine di una Calabria magica, ipnotica, territorio inconscio di qualcosa che è sommerso, che fatica ad emergere e a mostrarsi in tutta la sua bellezza». Pedro Armocida 

''Fimmine ribelli'', donne e madri contro la 'Ndrangheta. Karim El Sadi il 05 Marzo 2021 su La Repubblica.

Giusy, Rosa, Simona, Elvira, Maria Concetta. Sono nomi di donne di diversa età e provenienza ma che condividono un dramma comune e una lotta comune: quella contro i loro parenti e compagni ‘ndranghetisti. Storie difficili le loro, di grande sofferenza e solitudine, che il giornalista e scrittore Lirio Abbate ha raccolto in un libro dal titolo “Fimmine ribelli” da oggi in uscita per due mesi con Repubblica e L’Espresso. Un racconto dei vissuti di giovani donne, forti e coraggiose, che hanno trovato la forza di ribellarsi e denunciare quelli che un tempo erano loro cari minando dall’interno il loro mondo di prepotenza e omertà e restituendo a loro stesse e a tante altre come loro il diritto alla libertà di vita, d’amore, di carriera. Insomma restituendo a loro stesse la libertà di poter scegliere il proprio destino. “Madri, mogli, sorelle schiacciate da leggi arcaiche e retrive che fanno pagare il tradimento con la vita. Perché ancora oggi ci sono vittime di una brutalità antica che ha cambiato volto ma resta atavica nella sua ferocia atavica: il delitto d’onore. Nel ventunesimo secolo, come nel remoto Afghanistan dei talebani, anche in Calabria resiste ancora il codice che punisce con la morte il tradimento femminile”, scrive Lirio Abbate. “Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere minorile e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomini di ‘Ndrangheta e saranno costrette a seguirli”, dice Giusy Pesce, figlia e nipote dei mammasantissima di Rosarno e madre di tre figli, il primo avuto in giovanissima età tra solitudine e botte del marito a lei promesso sposo prima che compiesse 18 anni. “Mio padre ha due cuori, la figlia e l’onore. In questo momento dice che vuole la figlia, però dentro di lui c’è anche quell’altro fatto”, afferma Maria Concetta Cacciola (30 anni) anche lei madre di tre figli, condannata a morte dalla sua famiglia per aver tradito il marito.

E se non possono più avere le figlie ribelli provano a tenersi i nipoti, a ricattarle portandogli via quello che più conta per loro. È stato così per Rosa, per Simona, persino per Elvira Muborakshina, giovane russa finita nella rete del clan Pesce dopo aver conosciuto a Milano un loro emissario.

L’auspicio è che sia proprio il coraggio di queste “fimmine ribelli” a salvare la Calabria dalla ‘Ndrangheta. “Ognuno deve avere una seconda possibilità scegliere di cambiare è un dovere. Essere ‘ndranghetisti non conviene”, scrivono Annarita Molè e Roberta Bellocco, 17 anni, figlie di due boss, il primo ucciso, l’altro detenuto, vincitrici di un concorso a scuola sulla legalità. Un monito, il loro, che lascia ben sperare.

Le donne che minacciano i clan. SILVANA MAZZOCCHI il 22 maggio 2013 su La Repubblica.

Le storie delle donne che si sono ribellate all'organizzazione criminale calabrese pagando un prezzo altissimo, nel libro di Lirio Abbate. Le 'ndrine hanno paura che possano essere imitate.

Sono schiacciate da leggi arcaiche e retrive, spesso costrette a sposarsi bambine con mariti scelti dai maschi della famiglia. Ma a volte, all'opposto, perfino spinte a concedersi al boss latitante. Sono le fimmine nate nelle 'ndrine, considerate possesso dei clan e con il futuro segnato. Molto però sta cambiando e, per la n'drangheta, le donne rappresentano ormai la grande minaccia: il cuneo disgregatore di un modo di vivere , di essere e di delinquere impastato di omertà, obbedienza e sopraffazione.  Sono le fimmine che si ribellano. Quelle che decidono di parlare, di collaborare con la giustizia. Sono madri, sorelle, figlie che lo fanno non per fiducia nello Stato o nelle istituzioni che anzi spesso, almeno all'inizio, ancora disprezzano. A spingerle è il desiderio di liberarsi, di spianare una strada diversa per sé o per i propri figli. Dicono basta al sangue e ai delitti. 

Il prezzo che le ribelli devono pagare è però alto; i famigliari  le puniscono con la morte e se grazie al sistema di protezione, scampano alla vendetta, vengono isolate, minacciate ed è frequente che gli 'ndranghetisti facciano pressione sui figli, specie se piccoli, per ricattare madri o sorelle e convincerle a desistere. Le loro storie sono state raccolte da Lirio Abbate in Fimmine ribelli (in libreria per Rizzoli). Ecco Maria Concetta  Cacciola, madre di tre bambini , che ha accusato il marito e che si tolse la vita; Giuseppina Pesce, giovane madre di Rosarno che collabora per liberare i figli dalle 'ndrine. E ancora Rosa Ferraro, Simona Napoli e tante altre che hanno avuto il coraggio di dire no a padri, fratelli, mariti, zii e cugini. E, intorno a loro, l'attività criminale, collante di un sistema culturale ostile a ogni soffio di modernità. 

Lirio Abbate, che da giornalista ha raccontato tante storie di 'ndrangheta e ricostruito nei dettagli i  patrimoni illegali e le collusioni di cui godono i boss, in Fimmine ribelli, analizza il contesto patriarcale e antiquato in cui le donne sono educate da sempre a sottomettersi alle leggi delle 'ndrine. Chi tradisce il marito, chi tradisce la'ndrina, paga con la morte. E se, dopo che padri e mariti finiscono in carcere, accade alle donne di prendere in mano le redini degli affari e dei traffici, appena i loro uomini tornano liberi, devono subito restituire il timone e tornare subalterne. Non c'è via di scampo, è il messaggio. Perché grande è considerato dalle 'ndrine,  il pericolo che queste donne ribelli infrangano il muro dell'ordine atavico della 'ndrangheta. Ma ormai il processo è cominciato: le fimmine ribelli danno l'esempio, dimostrano che si può fare. E si moltiplicano.   

Donne che parlano, donne che alzano la testa, quale l'effetto dentro la 'ndrangheta?

E' secondario quanto le donne possono raccontare ai magistrati dei segreti dei boss calabresi; molto più grave è il fatto che tradiscono e dunque il messaggio di ribellione che trasmettono alle altre fimmine. Spesso non si è davanti a dichiarazioni che possono comportare condanne all'ergastolo, eppure la collaborazione delle donne, come quella di Giusy Pesce, ha scatenato una massiccia reazione della famiglia e di alcuni ambienti professionali collegati agli 'ndranghetisti. Una reazione sproporzionata rispetto al contributo processuale della collaboratrice, perché la 'ndrangheta non ha paura del contenuto delle dichiarazioni e del loro esito processuale. Il pericolo che la ’ndrangheta teme di più non è solo che il contributo processuale di queste donne si trasformi in prova e possano esserci condanne pesanti. I mafiosi temono soprattutto il fatto in sé e non le conseguenze del fatto: temono la scelta della collaborazione, non soltanto il contenuto della collaborazione. La ’ndrangheta ha paura della forza imitativa di una scelta di rottura manifesta e pubblica, pertanto riconoscibile da chiunque si trovi nella stessa posizione di Giusy Pesce. Così come è avvenuto negli ultimi anni. La collaborazione di questa donna è la prova provata e tangibile che disintegra quanto sostengono le organizzazioni mafiose: dimostra la fragilità del falso mito per cui l’indefettibilità dell’appartenenza alla mafia è conseguenza dell’essere parte di una certa famiglia di sangue. Rispetto all’impatto sociale, non c’è prova scientifica o intercettazione che riesca a conseguire questo risultato. 

Che cosa spinge tante donne ad affidarsi allo Stato "nemico"?

Le donne in Calabria cercano aiuto solo quando comprendono che la loro vita è in pericolo. O quando per amore vogliono cambiare vita. Quando una fimmina non solo riesce a scampare al destino che i familiari le hanno assegnato, ma si affida allo Stato, ovvero al nemico, in cerca di protezione, gli effetti del suo tradimento si amplificano. Perché voltare le spalle al clan è un’eclatante infrazione di un loro codice, di una legge criminale che sancisce il dominio assoluto degli uomini sulle donne. È un atto di ribellione che sgretola l’immagine di compattezza che i boss hanno bisogno di ostentare all’esterno, che mette in dubbio i valori, e rivela i limiti e l’impotenza di uomini incapaci di tenere in riga le loro donne. E, soprattutto, rischia di accendere in altre fimmine la consapevolezza della propria condizione, e il desiderio di scrollarsela di dosso. Una donna che si affranca dalla condizione di sudditanza imposta dal clan può diventare per tutte le altre un modello allettante, fa intravedere un’alternativa di vita, una concreta prospettiva di riscatto. Anche se è pericoloso, e a volte costa davvero tanta fatica. 

Perché richiede di rompere con padri, madri, fratelli, e può anche imporre di separarsi dai propri figli. È questa la ferita più dolorosa per le donne di ’ndrangheta che scelgono di collaborare con la giustizia, è l’amore materno che più le rende vulnerabili. I familiari lo sanno, e non si fanno scrupoli a sfruttare i bambini per fiaccare la forza d’animo di queste giovani madri, e convincerle a tornare sui propri passi. Alcune donne hanno deciso di collaborare anche per dare ai propri bambini un futuro diverso, alcune ci sono riuscite, altre non ce l’hanno fatta, e ci hanno rimesso la vita. 

'Ndrangheta e Mafia, quali differenze per le fimmine ribelli? 

 La reazione delle donne siciliane ai clan mafiosi è iniziata molto tempo fa. E per questo ci sono diverse donne che hanno scelto di collaborare con la giustizia, ma la loro ribellione è ben diversa da quella delle donne calabresi che ancora oggi, in molte zone, come Rosarno e la Piana di Gioia Tauro o la Locride, vivono costrette a sposarsi bambine e a subire in silenzio violenze e soprusi. Madri, mogli, sorelle schiacciate da leggi arcaiche e retrive che fanno pagare il tradimento con la vita. Perché ancora oggi ci sono vittime di una brutalità antica che ha cambiato volto, ma resta identica nella sua ferocia atavica: il delitto d’onore. Nel ventunesimo secolo esiste ancora. Come nel remoto Afghanistan dei talebani, anche in Calabria resiste il codice che punisce con la morte il tradimento femminile. La ’ndrangheta ignora la modernità, anzi la trasforma in una colpa. Oggi ci sono donne che hanno trovato la forza di ribellarsi e denunciare padri, mariti e fratelli, minando dall’interno il loro mondo di prepotenza e omertà. Queste ragazze hanno acceso luci di speranza in nome della legalità e del diritto di scegliersi la vita, e molte altre stanno oggi seguendo la loro strada. 

Ci vorrà ancora del tempo prima che in Calabria si accenda una diffusa coscienza antimafia che porti la gente a scendere in piazza, a denunciare, a rompere il muro dell’omertà. A Palermo è successo, dopo la stagione delle stragi, quando la mafia ha macchiato le strade con il sangue di giudici, sindacalisti, politici, e gente comune.

La società civile si è ribellata, sollevando un coro di voci indignate e schierandosi apertamente contro il potere violento di Cosa nostra. Un contributo fondamentale perché questo risveglio possa verificarsi anche in Calabria può darlo indubbiamente la scuola, che in molte realtà della regione svolge un prezioso e capillare lavoro di educazione alla legalità. Aiutare i ragazzi ad aprire i loro orizzonti andando oltre i confini della cultura imperante, a giudicare con spirito critico ciò che accade ogni giorno anche all’interno delle loro famiglie può diventare uno strumento molto potente per contrastare il dominio della 'ndrangheta. E i successi finora non sono mancati. Un esempio importante è il liceo di Rosarno dove alcune figlie dei boss hanno preso pubblicamente le distanze dalla cultura mafiosa della famiglia. 

Lina Siciliano, "Una femmina" all'esordio del Festival del cinema di Berlino. ISABELLA MARCHIOLO su Il Quotidiano del Sud il 13 febbraio 2022.

È arrivata a Berlino per il 72esimo Festival internazionale del cinema insieme al compagno Fabio, che è le sempre accanto, ma ha lasciato a casa il figlio Luca, troppo piccolo per le rigide temperature tedesche.

La ventiseienne Lina Siciliano, protagonista di “Una femmina”, è al suo esordio cinematografico e questa esperienza per lei non è stata solo cinema.

Originaria di Cariati e cresciuta in una casa famiglia di Cosenza, Lina è stata il motore del film, riconosciuta con intuito sicuro dal regista Francesco Costabile, nonostante quel provino fosse stato uno dei primi. Ma lo aveva capito subito: Rosa era esattamente lei, e così è stato.

Costabile l’ha scelta partendo dalla ricerca di un’attrice non professionista ma di una donna, che portasse sul set le proprie ferite e potesse connettersi spiritualmente con le donne vittime di famiglie di ‘ndrangheta. Cosa ha dato al personaggio di Rosa e cosa ne ha ricevuto?

«È stata soprattutto Rosa ad aiutare me, ha fatto uscire la parte migliore della mia personalità e mi ha guidata dal primo momento. Potrei dire che Lina e Rosa hanno camminato mano nella mano facendo insieme un percorso che mi ha lasciato emozioni fortissime. Abbiamo molto in comune, eravamo due predestinate: la vita aveva deciso per noi e ci aveva assegnato un posto nel mondo, e un destino, a cui noi ci siamo ribellate. Grazie a Rosa ho accettato le mie ferite, che mi sembravano così aperte e dolorose da non poter essere curate. So che alcune non guariranno mai del tutto, restano dentro per sempre. Ma grazie a questo personaggio ho imparato a non nasconderle, a esternarle senza averne paura, ad affrontarle»

Il film si ispira a vicende terribili e crudeli, quelle delle donne che hanno pagato con brutali violenze e con la morte la loro ribellione alle famiglie di ‘ndrangheta. Ha mai avuto paura di fare questa esperienza, di immergersi nella brutalità di quelle storie?

«Ho letto il libro di Lirio Abbate e sono stata colpita da quelle storie, ma ho deciso di non farmi condizionare per il personaggio di Rosa. Il film non trae ispirazione da un singolo fatto ma mette insieme tante donne. E anche io volevo comunicare questo, Rosa non è un’unica donna ma rappresenta un messaggio globale, è un urlo di ribellione che abbraccia tutte le donne che subiscono violenza nel mondo, sottomesse o private di libertà e dignità, e anche quelle che non sono biologicamente donne ma si sentono tali. Questo film è dedicato a loro».

La lavorazione del film ha incrociato il felice evento della nascita di suo figlio. Pensando alle connessioni con il rapporto tra Rosa e la madre scomparsa, ma anche al finale della storia, cosa ha cambiato in lei l’essere diventata madre??

«La considero un’altra affinità, il più importante punto di unione tra me e Rosa. Mi sono accorta di essere incinta alla vigilia dell’inizio delle riprese e Francesco ha voluto rinviare il film per aspettarmi. Ho partorito a dicembre, a maggio ero sul set con mio figlio Luca, che è stato il cardine della mia motivazione, il motivo più forte per gridare al mondo questo personaggio, incentrato sulla potenza della maternità. Come Rosa, ho fatto tutto per lui, mio figlio è il centro della mia vita e in questo film la reciproca appartenenza tra una madre e i suoi figli è la molla del cambiamento. E’ per i figli che vogliamo costruire un futuro migliore».

Una Calabria selvatica e amara, con le sue contraddizioni, è l’altra protagonista di “Una femmina”. Lei oggi ha lasciato Cosenza e vive a Napoli, riconosce i sentimenti di amore e odio dei personaggi del film verso questa terra?

«Credo che chi nasce qui non odi mai la sua terra, non sarebbe possibile. Nessuno meglio di noi sa quanta bellezza e cultura esista in Calabria, ma il problema è che l’immagine che esce fuori è sempre quella dell’abbandono, di ignoranza e miseria, soprattutto nei piccoli paesi. Il resto lo conoscono pochi ed è perché lo stato non è presente nel modo forte di cui la Calabria ha bisogno. La mancanza di cultura e in molti casi il disinteresse dello stato sono da sempre i motivi per cui la ‘ndrangheta continua ad esercitare il suo potere. Dove c’è cultura la ‘ndrangheta ha perso».

Lina Siciliano si prepara al suo primo red carpet al insieme al cast al completo, per la proiezione ufficiale di stasera del film, nella sezione Panorama del festival. E come capita sempre ai calabresi, ci sarà qualche compaesano tra addetti ai lavori, artisti e ospiti, oltre a una nutrita comitiva di supporter da Verbicaro, sede principale del set. «Me ne sono accorta sull’aereo – racconta l’attrice – ho riconosciuto il nostro dialetto». Quello che nel film è la lingua ancestrale di Rosa, calda di rabbia e passione.

«Nel mondo della mafia è l’amore il vero elemento sovversivo». Le leggi della ’ndrangheta e quelle del patriarcato. La sopraffazione, i pregiudizi di un mondo arcaico. E il coraggio di opporsi. Al Festival del cinema di Berlino arriva la cronaca più dura. E la voce ribelle delle donne. Parla Enza Rando, avvocato, attivista, vicepresidente di Libera

di Chiara Valerio. L'Espresso il 7 febbraio 2022.

Uno dei film in concorso nella sezione Panorama del Festival del Cinema di Berlino di quest’anno si intitola “Una Femmina” ed è l’esordio nel lungometraggio di Francesco Costabile, classe 1980. Il film è liberamente ispirato a un libro di Lirio Abbate, “Fimmine Ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla ‘ndrangheta”, pubblicato da BUR nel 2013. Il libro di Abbate, che raccoglie storie di donne che si sono ribellate al regime mafioso, parte dal principio che la verità non è un ornamento ma una necessità degli esseri umani e che i giornalisti arrivano là dove talvolta non arriva neppure la giustizia.

Una femmina. La ’ndrangheta raccontata attraverso gli occhi di una donna. Benedetta Barone su L'Inkiesta il 14 Febbraio 2022.

Il film di Francesco Costabile si concentra nella realtà chiusa e violenta dell’organizzazione criminale calabrese e mostra come la sopraffazione sia l’unica dimensione mentale possibile, anche per chi si ribella.

«Non ci meritiamo tutta questa bellezza», dice Gianni, interpretato da Mario Russo, poco prima di venire ammazzato. Lui e Rosa, l’esordiente Lina Siciliano, sono in cima a un versante da cui si vede un promontorio calabrese stendersi sotto di loro in una disperata e desolata immobilità.

È il luogo scelto da Francesco Costabile per ambientare “Una femmina”, film presentato nella sezione Panorama del festival di Berlino: un paesino circondato dalle montagne in cui le logiche di potere dei clan ’ndranghetisti tengono in ostaggio la vita e le sorti di intere famiglie. Una croce ereditaria dalla quale è impossibile fuggire.

In “Corpo Celeste” (2011), una delle opere meno conosciute di Alice Rohrwacher, la Calabria faceva da sfondo alla ricerca spirituale di una ragazzina di 13 anni, che viene ostacolata, intralciata dal degrado e dalla corruzione che la circonda – una sorta di riproposizione evangelica in cui il miscredentismo dei Giudei si oppone alla fede illuminata di Gesù. Anche in “Una femmina”, la terra è maledetta ed entrambi i film, forse, tentano di raccontare ciò che è vietato, cioè la presa della ’ndrangheta sul territorio calabrese.

È quindi un gesto coraggioso quello di Costabile, che si ispira liberamente al romanzo “Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla ’ndrangheta” dello scrittore e giornalista Lirio Abbate, edito da Rizzoli nel 2013.

Rosa perde la madre quando è ancora una bambina, uccisa dallo zio e dalla nonna per avere tentato di ribellarsi e scappare. L’omicidio si consuma nelle prime sequenze della narrazione, alterate, sfocate dalla resa dei ricordi di Rosa, che non riconosce, non realizza subito ciò che vede. Un rimosso che riemergerà quando diventa adolescente, in un mondo già infestato di presagi di violenza.

La ‘ndrangheta appare non solo come una continua e impietosa regolazione di conti e traffici illeciti, ma come un microcosmo chiuso a chiave dove l’identità di chiunque ne faccia parte viene, per forza di cose, deviata: la famiglia di Rosa accetta l’omicidio e la morte, anche quando avviene per loro stessa mano, come inevitabile conseguenza di chi si sottrae alle regole; il cugino di Rosa, Natale, interpretato da Luca Massaro, è votato quasi geneticamente allo stupro e alla brutalità a causa delle atmosfere che respira, che sono anche le uniche che conosce. E la stessa Rosa, per vendicare l’uccisione della madre, si affida al solo metodo che le sia stato insegnato: la sopraffazione.

L’isolamento del luogo riflette dunque e soprattutto una dimensione mentale, un abito psichico: non produce altro che se stesso, è tappato, non ha vie di uscita. È un ordine primitivo e animale quello che affrontano i personaggi ed è anche, paradossalmente, l’unico possibile.

Tuttavia, il film si intitola “Una femmina” e la scelta non è casuale. Una femmina, una donna, una storia come tante, sembra voler dire. E infatti, il senso di soffocamento che si avverte per tutta la durata del film, che il paesaggio esaspera e che le inquadrature continue sul volto di Rosa sottolineano, è lo stesso che sperimenta qualsiasi donna all’interno di un contesto di abusi, o in una condizione di lesione della sua libertà.

Forse dietro la ‘ndrangheta di Costabile si nasconde anche l’espediente narrativo perfetto per raccontare il silenzio, l’umiliazione e la lotta di migliaia di donne prigioniere di volta in volta di organizzazioni criminali, delle famiglie, della provincia: realtà sociali più o meno estese dove subentra una gerarchia di rapporti che non si può scegliere perché capita in sorte, è imposta dall’ordine naturale delle cose e dalle coincidenze più o meno fortunate della vita.

E per una donna, per “una femmina” troppo spesso questo destino apparentemente imparziale non produce altro che implicite condanne. 

Una voce contro al Festival di Berlino: «Ribellatevi. Qualcosa cambierà». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2022.

Francesco Costabile, 41 anni, dirige «Una femmina», storia di Rosa che si vendica della ‘ndrangheta e metafora di altre rivolte. «Conosco il dolore dei corpi “non conformi”: solo quando ho avuto i capelli lunghi, come le streghe, mi sono trovato». 

Questa intervista è stata pubblicata sul numero di 7 in edicola venerdì 11 febbraio. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it. Buona lettura

Tutto ha inizio dal libro inchiesta di Lirio Abbate Fimmine ribelli - come le donne salveranno il paese dalla ‘ndrangheta (edizioni Bur - Rizzoli), da cui il soggetto scritto dallo stesso Abbate insieme a Edoardo De Angelis. Quindi la scelta di De Angelis — anche produttore insieme a Attilio De Razza, Pierpaolo Verga e Nicola Picone — di affidare la regia a Francesco Costabile, 41 anni, esordiente. «Francesco conosce il dolore che comporta il riconoscimento della propria identità, la lotta strenua e costante che richiede la sua affermazione», dice De Angelis di Costabile.

«Una femmina», al Festival di Berlino nella sezione Panorama, è la storia di Rosa, giovane donna cresciuta dalla nonna e dallo zio in un paese della Calabria — contesto di campagna e di miseria. D’ignoranza e di mistero. Tutto è mistero a cominciare dalla morte della madre. E proprio i dubbi su questa morte, insieme ai frammenti di ricordi che le tornano alla mente, portano Rosa a capire cosa sia successo davvero. Da qui la disubbidienza alla ‘ndrangheta — a cui la sua famiglia appartiene — e la vendetta. Tuttavia Una femmina diventa storia universale in quanto metafora di altre ribellioni come quella del regista, anche lui calabrese, anche lui in lotta fin da bambino con quella cultura che lo voleva maschio forte mentre lui si sentiva altro, «un essere non conforme».

In che modo non conforme?

«Decapitavo le Barbie di mia sorella a cui tagliavo i capelli a caschetto su modello della Carrà. Davanti alla televisione imitavo Heather Parisi, mi facevo vestiti luccicanti con i nastri della cassette musicali. Ho distrutto una cassetta di Vasco Rossi per creare un abito».

Cosenza anni 80?

«Nell’infanzia è stato abbastanza facile: vivevamo in campagna, noi bambini ci arrampicavo sugli alberi, facevamo la guerra di pomodori. La mia eccentricità si notava meno».

Dopo?

«Trasferendoci in città tutto si è complicato. Il tragitto da casa a scuola era un percorso di guerra. Se alzavi lo sguardo, ti menavano. Sebbene io venissi picchiato meno dei miei amici».

Perché?

«Credo che i bulli percepissero la mia femminilità, e mi scartavano. Quella era una faccenda tra maschi, una formazione al maschile».

Il suo stato d’animo di allora?

«L’ansia di dover essere uomo e la coscienza di non essere in grado».

Come la ribellione di Rosa coincide con la sua?

«Nel voler essere altro da quello che eravamo destinati per nascita - identità di genere, cultura».

La nascita è stato uno dei parametri nella scelta dell’attrice (non professionista) che interpreta Rosa?

«Volevo una ragazza dal vissuto simile a quello del personaggio, qualcuno che conoscesse la repressione, e che avesse rabbia».

«FIN DA BAMBINO HO SENTITO I MASCHI DI CASA USARE SPESSO UN TERMINE RIVOLTO ALLE DONNE: SERVIRE. “SERVI TUO FIGLIO”, “SERVI TUO MARITO”»

Dove trova Lina Siciliano?

«Abbiamo girato tante case famiglia calabresi, e incontrato ragazzi, molti strappati proprio alla ‘ndrangheta».

Cosa ha significato per lei questa ricerca?

«Avvicinarsi a situazioni analoghe a quelle del film. Vedere nei ragazzi le conseguenze della violenza subita insieme alla voglia di riscatto».

Il film come riscatto?

«Noi per loro eravamo il cinema, “il cinema arriva da noi”. Il cinema inteso come cosa grande. Succedeva che, non facendo veri provini, chiedevo di rivedere qualcuna per chiacchierare davanti alla telecamera. In genere si presentavano trasformate: capelli piastrati, vestiti belli. Quando io le avevo scelte per come erano davvero».

Sua reazione?

«Di tenerezza».

Un ricordo legato ai mesi di ricerca dell’attrice?

«La lezione di cinema in una casa famiglia, coi ragazzi attentissimi che facevano domande».

Tipo?

«Come si fa il sangue finto?».

Questo è anche un film sul corpo: Rosa prende coscienza del suo corpo rendendolo strumento di vendetta.

« Una femmina è una storia di violenza sulle donne, violenza a vari livelli: nei gesti, nelle parole».

Ovvero?

«Fin da bambino io ho sentito usare un termine dai maschi di casa rivolto alle donne: servire. “Servi tuo figlio”, “servi tuo marito”».

Nel senso?

«Le donne dovevano mettersi a servizio degli uomini, era la loro funzione. Impossibile autodefinirsi in altro modo».

Rosa ci riesce?

«Capendo la verità sulla morte della madre, capisce quello che non vuole essere lei, persino quello che non vuole che sia il suo corpo».

Il corpo per Francesco Costabile?

«Ho girato il primo cortometraggio a sedici anni, in camera mia che avevo dipinto di rosa. Il centro ero io, nudo, un modo di dire: “Questo sono io, coi miei capelli lunghi”».

Quanto lunghi?

«Come quelli delle streghe: cominciavo a essere me».

Il momento in cui decide di fare il regista?

«A nove anni, guardando Twin Peaks . La mia fortuna è stata vedere Twin Peaks , anzi a monte: avere in casa due televisori, così io e mia sorella potevamo vedere quello che volevamo».

Mai desiderato essere Laura Palmer?

«Più l’amica, quella che cercava di emanciparsi e di essere disinibita come Laura ma non ce la faceva».

Quando si emancipa Francesco Costabile?

«A diciott’anni vado a studiare cinema al Dams. Ricordo l’istante in cui arrivato a Bologna, disteso sul letto, mi dico: ce l’ho fatta».

Ce l’aveva fatta?

«Era l’inizio».

Di cosa?

«Bologna è stata conquista e autodeterminazione. Per esempio: sapevo di non essere maschio, ma non mi sentivo neppure femmina. È in quegli anni che ho trovato l’equilibrio perfetto, ciò che desideravo essere: un corpo androgino».

«A BOLOGNA HO CONOSCIUTO I PRIMI TRANSGENDER. LA SERA ANDAVO IN UN BAR DOVE, FINITO DI LAVORARE, ARRIVAVANO LE PROSTITUTE E LE TRANS. PERSONE CHE USAVANO CON ORGOGLIO IL PROPRIO CORPO»

Quegli anni.

«Il sesso vissuto liberamente, le feste nei locali, e le feste clandestine. La comunità queer. A Bologna ho conosciuto i primi transgender. La sera andavo in un bar dove, finito di lavorare, arrivavano le prostitute e le trans. Persone che usavano con orgoglio il proprio corpo, che amavano prostituirsi».

Una scoperta?

«Gli altri sono stati lo specchio per comprendere il mio corpo e la mia identità artistica».

In che modo?

«Ho sperimentato a livello personale e professionale, già con le feste. Facevamo delle vere e proprie regie, gli allestimenti delle case, ogni camera un mondo. E poi i vestiti».

Finalmente si veste come vuole?

«Tacchi, borse, trucchi».

Intanto la sua famiglia?

«Non sapeva niente. Ogni tanto mia madre trovava qualcosa di eccentrico».

E?

«Una volta trova la pelliccia leopardata. Scansandosi impaurita come fosse un leopardo vivo, mi chiede: cos’è?».

Primo acquisto a Bologna?

«L’orso di peluche».

Motivo?

«Mia madre mi aveva buttato quello dell’infanzia, così me lo sono ricomprato. Oggi lo uso, l’ho trasformato in borsa».

Perché buttare l’orso?

«”Faceva polvere” si è giustificata lei. La verità è che negli anni Ottanta la Calabria ha vissuto una spaccatura profonda. Il popolo dedito alla terra fa il salto, e diventa ceto medio. Arriva il consumismo. Questo comporta da una parte la rimozione del passato povero, dall’altra l’adesione totale alla mentalità del consumo. Si compra e si butta. Di colpo si buttava tantissimo».

«MIO ZIO CARLO ERA IL DIVERSO DELLA FAMIGLIA: SI È CHIUSO IN CAMERA DA DOVE È USCITO, SCHELETRICO, SOLO QUANDO È MORTO»

La rimozione del passato è tema centrale del film.

«Nel film volevo che il passato rimanesse soprattutto nei corpi. Perciò a ogni attore ho chiesto di somatizzare. Berta, la nonna di Rosa, si concentra sulla bocca. Dall’inizio ha la tosse. Una tosse che piano piano la divora, il mostro interiore della colpa. Natale, il cugino di Rosa, ha invece lavorato sul deperimento fisico».

Il personaggio di Natale.

«In Natale ci sono io e c’è mio zio Carlo, il fratello di mia madre che ringrazio nei titoli di coda. Lui era il diverso della famiglia, aveva un lieve ritardo mentale che i miei nonni non hanno avuto gli strumenti per riconoscere e gestire».

Quindi?

«Crescendo si è isolato, fino a chiudersi in camera da dove è uscito solo da morto. Mia nonna gli lasciava il cibo fuori. Quando andavo a trovarli di lui vedevo l’ombra dietro il vetro della porta, oppure sentivo le voci della televisione, guardava la televisione tutto il giorno».

Un’immagine di lui?

«L’ombra ormai scheletrica, e i movimenti rallentati. Vivendo a letto, aveva disimparato a camminare».

L’importanza di suo zio?

«È stato il pezzo di famiglia più somigliante a me. Anche lui unico figlio maschio, anche lui lontano dal modello maschile previsto dalla famiglia. Siamo stati entrambi un grande dispiacere per mio nonno».

Eppure con la sua diversità lei è arrivato qui.

«Con questo film sento di aver riscattato me stesso e mio zio. In un altro contesto lui avrebbe avuto una vita diversa. Ho ricordi di lui prima che si chiudesse. Iperattivo, logorroico. Amava il cinema di serie b, Pierino, le commedie porno soft con Edwige Fenech, ripeteva le battute a memoria».

Poi?

«Alla sua morte siamo entrati in camera sua e abbiamo trovato una specie di discarica, era un accumulatore seriale: tra le tante cose bustine di merendine dal 1989 al giorno della morte».

Ha tenuto qualcosa di lui?

«La raccolta di tappi nascosta sotto il letto».

·        Il Tesoro di Riina.

Vespa fu linciato per il figlio di Riina. Ma Saviano può propinarci il boss camorrista. Francesco Storace su Il Tempo il 25 febbraio 2022.

Chissà se Pietro Grasso protesterà come fece allora. Quando Bruno Vespa osò intervistare in studio il figlio di Totò Riina per un’esclusiva di Porta a Porta venne giù il finimondo.

Era l’aprile del 2016 e quello che allora era il presidente del Senato contribuì al un pandemonio contro il giornalista e altri furono ancora più duri: "Non mi interessa se le mani di #Riina accarezzavano i figli, sono le stesse macchiate di sangue innocente. Non guarderò @RaiPortaaPorta", scrisse in un tweet Grasso.

Ma in generale fu tutta la sinistra a tentare di intimidire Bruno Vespa, a diffidarlo dalla messa in onda dell’intervista al figlio del boss mafioso. 

Chissà chi contesterà oggi a Roberto Saviano il suo faccia a faccia con Giuseppe Misso, celebre boss del rione Sanità di Napoli.

Negli anni Novanta Giuseppe Misso fondò uno dei più potenti e feroci cartelli criminali di Napoli. È stato condannato per associazione mafiosa, anche se ha sempre rifiutato l’etichetta di camorrista. Ma la giustizia lo ha sentenziato.

Insider su RaiTre ce lo mostrerà nella sua veste di pentito, chissà quanto per convinzione e quanto per convenienza.

In quella sede, Saviano ci rifila la sua galleria di personaggi – racconta la Rai nel suo comunicato - per descrivere il “mondo oscuro del crimine italiano e straniero”.

Misso ha compiuto nella sua vita tanti reati. Il figlio di Riina, all’epoca, era solo il figlio di Riina. Varrebbe la pena di scommettere sul silenzio degli ipocriti che all’epoca linciarono Bruno Vespa. E Grasso fu almeno tra i più “gentili” a criticare il conduttore di Porta a Porta…

Ma Saviano, come è noto, non si tocca...

Diamanti, struzzi e acque minerali: in Sudafrica il tesoro del cassiere di Riina. Ancora bloccata l'inchiesta di Falcone. La storia e i misteri di Vito Roberto Palazzolo, il finanziere che il grande magistrato voleva arrestare già nel 1988 accusandolo di riciclare in Svizzera i fondi della Pizza Connection. In carcere ci finirà solo nel 2012 per sparire di nuovo sette anni dopo. Si dice che ora sia in Thailandia e nessuno risponde ai pm di Palermo. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 15 Gennaio 2022.

I misteri finanziari di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra morto nel 2017, portano ancora al Sudafrica, al rifugio dorato del manager siciliano Vito Roberto Palazzolo. Questa è la storia dell'indagine più lunga e travagliata dell'antimafia: nel 1988 l'allora giudice istruttore Giovanni Falcone chiese di arrestare il finanziere originario di Terrasini, piccolo paesino affacciato sul mare di Palermo, aveva scoperto che c'era lui dietro la colossale operazione di riciclaggio messa in piedi in Svizzera per ripulire i soldi della Pizza Connection, il traffico di droga gestito da Cosa nostra fra il Medio Oriente, la Sicilia e gli Stati Uniti.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Caporalato.

Pochi soldi, lavori precari e concorsi miraggio ma la cultura vale ancora la lotta. Silvia Andreozzi su L’Espresso il 13 Dicembre 2022.

Il ministro Sangiuliano ha indetto per la prima volta dal 2016 un concorso per archivisti e bibliotecari. Ma le associazioni di categoria lo considerano insufficiente. E i giovani addetti si barcamenano tra speranze e criticità

Gli archivisti sono 268. E poi 130 bibliotecari, 35 storici dell’arte, 32 architetti, 20 archeologi, 15 restauratori, 10 demoetnoantropologi e 8 paleontologi. Questa la «notizia folgorante» annunciata a inizio novembre dall’allora neo sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Questi i numeri del bando indetto dal ministero di Gennaro Sangiuliano in scadenza il 9 dicembre (e proprogato al 9 gennaio).

Non si può dire che il mondo della cultura non stesse aspettando un segnale dal dicastero di riferimento. Quello annunciato dal critico d’arte, ricordano i referenti di Mi riconosci – associazione che rappresenta i lavoratori del settore – è «il primo concorso per funzionari pubblicato dal 2016». Così, «non solo il ministero, ma anche le migliaia di persone che speravano di poter mettere a disposizione la propria professionalità, vi riponevano grandi aspettative».

Aspettative deluse, per diversi motivi. A cominciare dai numeri «che risultano del tutto inadeguati rispetto alle carenze e ai bisogni del ministero», per continuare con l’esclusione di alcuni titoli di laurea dal concorso e il fatto che venga richiesta una certificazione post laurea «per partecipare a un normale concorso da funzionario».

Nessuna “folgorazione”, quindi, per i diretti interessati. La maggioranza dei lavoratori dei musei, bibliotecari, archeologi, continueranno a vivere la propria condizione lavorativa alle prese con esternalizzazioni, cooperative, partite Iva. Come Federica P., 28 anni, che lavora in una galleria nella provincia di Gorizia e si racconta a L’Espresso.

«Ormai si ricorre all’esternalizzazione per qualsiasi ruolo, per cui si invia il curriculum alle cooperative o comunque alle società che gestiscono i musei. In particolare per la didattica, che è l’ambito in cui lavoro io, le strade sono due: o si lavora a prestazione occasionale/Partita Iva, oppure a contratto con la cooperativa. Il contratto, poi, non sempre corrisponde al livello di istruzione e di competenze e al livello di compiti svolti all'interno del museo. Per cui molto spesso si è sotto inquadrati. È stato il mio il caso».

Dopo il primo impiego presso una galleria in cui la paga oraria corrispondeva al netto di poco più di 6 euro, adesso Federica è stata assunta con un contratto a tempo «molto determinato» presso un museo privato. «Le condizioni sono migliori, sicuramente, però sono sotto-inquadrata tanto quanto prima. Svolgo anche delle mansioni di segreteria e prenotazione dei gruppi, che non sono riconosciute all'interno del mio contratto. Anche se il museo è privato, poi, sono assunta tramite un intermediario». La sua paga oraria, ancora, non tocca la soglia minima dei 10 euro, ma «corrisponde a circa 8.50 euro».

L’esperienza di Federica P. è condivisa da molti colleghi, non solo lavoratori dei musei. In un sondaggio promosso da Mi riconosci nel 2019, la maggioranza degli addetti alla cultura intervistati, corrispondenti al 34.2 per cento, dichiarava di avere una paga oraria compresa tra i 4 e gli 8 euro. Al secondo posto, con il 27.2 per cento, chi percepiva una retribuzione tra gli 8 e i 12 euro all’ora. L’11.4 per cento aveva dichiarato di essere pagato meno di 4 euro l’ora.

Queste le retribuzioni più diffuse per lavoratori cui spesso è richiesto un alto livello di specializzazione. Come Gabriele Magnolfi, che lavora in una biblioteca a Prato, assunto da una cooperativa. Dopo anni di contratti rinnovati a cadenza trimestrale è stato assunto a tempo indeterminato. «Ho iniziato alla biblioteca con il servizio civile», racconta. «Con il primo contratto ero stato assunto per 23 ore, ma i primi tempi mi sono trovato spesso che a fine mese ero arrivato a fare anche 40-42 ore senza maggiorazione sullo straordinario. Ancora adesso faccio ore in più rispetto a quelle che ho di contratto. Questi extra vengono pagati, ovviamente, però, per la malattia e le ferie la base su cui ti pagano è quella dell’orario previsto dal contratto».

Durante il suo colloquio con L’Espresso la voce di Gabriele racconta la passione per il proprio lavoro. Nonostante le difficoltà, che pure sono tante. Oltre alla paga, anche la tipologia di contratto inadeguata che spesso viene applicata a lui e ai suoi colleghi: «Federculture, che sarebbe il contratto di categoria, è raccomandato ma mai applicato». Al suo posto, al vertice del questionario dell’associazione Mi riconosci, figurano Multiservizi (22.8 per cento), Commercio (18.5 per cento), Pubblica amministrazione (16.6 per cento), cooperative sociali (14.7 per cento). L’ultima è anche la tipologia con cui è stato assunto Magnolfi che a 33 anni è riuscito a fare un mutuo, «e comunque c’è sempre il pensiero di dire “speriamo che regga la baracca” perché quando si ha a che fare con le cooperative non si è mai davvero sicuri».

Se molti all’interno del settore possono avere storie simili, per la maggior parte degli archeologi si pone anche un tema diverso. Secondo il rapporto Archeocontratti, promosso dalla Confederazione italiana archeologi, i cui risultati verranno resi pubblici all’inizio del 2023, circa il 78 per cento di questi professionisti è un lavoratore autonomo a Partita Iva. Dato che, secondo Giovanna Calabrò, archeologa e referente di Archeocontratti, non rappresenta necessariamente un problema: lo diventa però nel momento in cui «nell’84 per cento degli accordi non c’è nessun rimando al contratto nazionale per l’edilizia che sarebbe quello di riferimento per la maggioranza dei professionisti che lavorano nell’assistenza archeologica in corso d’opera e nell’edilizia preventiva». Se si pensa che nel 2016, anno del precedente monitoraggio di Archeocontratti, il numero di persone che veniva ingaggiata senza menzione al contratto nazionale corrispondeva al 77 per cento, si vede come le condizioni, nonostante un aumento di disponibilità di posti di lavoro, non sono andate migliorando.

Contattata da L’Espresso, Angela Abbadessa, presidente della Confederazione italiana archeologi, conferma l’analisi della collega. «Quando ho cominciato a lavorare, prendere la Partita Iva è stata una necessità, e poi ha continuato a esserlo. Andando avanti mi sono resa conto che essere una libera professionista può avere i suoi lati positivi, ti permette di scegliere la tipologia di lavoro che preferisci. Questo a patto di una base retributiva adeguata. Però, anche se per molti di noi può diventare un’opportunità, non è mai una scelta».

Quando si tratta di definire cosa significhi «base retributiva adeguata», Abbadessa non ha dubbi: «Per poter essere considerata realmente conveniente la paga dovrebbe essere almeno di 30 euro lordi all’ora». Questo perché, oltre al livello di competenza richiesta, bisogna considerare la quantità di spese che un libero professionista deve affrontare rispetto a un dipendente. Nella realtà questo non avviene. La maggioranza degli archeologi riceve una paga giornaliera tra i 100 e i 150 euro a fronte di 8-9 ore di lavoro. Quasi la metà della soglia di convenienza. Non è un caso, quindi, se il campione del sondaggio di Archeocontratti è rappresentato perlopiù da persone fino ai 35-40 anni di età. Molti dopo un certo periodo, commenta Calabrò, «scelgono di cambiare mestiere, a volte campo di lavoro, per mancanza di prospettive di stabilità».

Nessuna richiesta di pietismo, però, nelle parole di Federica, Gabriele, Giovanna, Angela. Tutti, semmai, accettano di mettere a disposizione la propria storia, che è un frammento di quella di tutti, perché credono nell’importanza di sviluppare una «coscienza collettiva», per il futuro di un mondo professionale per cui vale la pena lottare.

Daouda Diane scomparso ad Acate, i carabinieri perquisiscono il cementificio dove lavorava. Il 37enne mediatore ivoriano aveva denunciato lo sfruttamento degli operai nei cantieri della zona. Le sue ultime immagini riprese da una telecamera di sorveglianza il 2 luglio. Il caso anche a «Chi l’ha visto». Felice Naddeo su Il Corriere della Sera il 7 Dicembre 2022

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2022.

«Se fino a qualche anno fa su dieci rider controllati ne scoprivamo uno che per lavorare usava l'account di un caporale, adesso il rapporto è di uno a cinque, anche se in certi casi anche di uno su due». A lanciare l'allarme è il generale di brigata Antonio Bandiera, alla guida del Comando carabinieri per la tutela del lavoro. 

Un fenomeno in crescita in tutta Italia, sul quale - conferma l'alto ufficiale dell'Arma - «stiamo indagando ovunque, perché rappresenta anche un grave pericolo per gli stessi lavoratori da un punto di vista di sicurezza stradale: spesso gli sfruttatori forniscono ai fattorini clandestini biciclette a pedalata assistita modificate per andare più veloce in modo da indurli a effettuare più consegne in un lasso di tempo inferiore e far guadagnare di più proprio i caporali. La conseguenza è che gli stessi lavoratori in nero utilizzano mezzi pericolosi per loro e per gli altri utenti della strada».

Secondo una stima recente, in Italia il popolo dei rider è composto da circa 570 mila persone, quelli assidui sarebbero almeno 350 mila. Si tratta di una cifra altissima, come gli abitanti di una città di provincia. Oltre che dalle organizzazioni sindacali, che hanno combattuto a lungo con le grandi multinazionali del settore per assicurare ai lavoratori contratti e regole a cui attenersi, una fotografia della situazione attuale arriva proprio dai controlli su strada dei carabinieri scattati fin dal 2019 dopo un incidente stradale. 

All'epoca la delega a compiere accertamenti fu firmata dai magistrati della Procura di Milano, la prima in Italia ad affrontare la questione della figura giuridica del rider, non considerato fino ad allora un lavoratore subordinato a tutti gli effetti, con diritto non solo al versamento dei contributi ma anche a vedere rispettate le norme della legge sulla sicurezza sul lavoro.

Il finto account «Adesso, con i caporali più attivi che mai - sottolinea il generale Bandiera - i diritti vengono di nuovo negati sempre di più a chi è clandestino e più diffusamente a chi si trova in stato di bisogno». Due sono i «pacchetti» che gli sfruttatori riservano alle loro vittime: il primo prevede la cessione dell'account del caporale, aperto da lui stesso su una delle tante piattaforme di registrazione online dei lavoratori, dove bisogna inserire foto, documento d'identità (anche il permesso di soggiorno), informazioni personali e richiesta del kit dell'azienda (borsa, fratino, dotazioni di sicurezza oggi previste per legge). Una volta ottenuto l'«Id courier», viene subito ceduto al rider clandestino che, con il secondo «pacchetto», viene equipaggiato anche con bici o monopattino.

Nel primo caso il caporale trattiene il 20% dei guadagni, nel secondo anche il 50%. In media ognuno di loro può avere una decina di sub-fattorini, ciascuno dei quali può effettuare anche 15 consegne al giorno per un guadagno di 60-70 euro ciascuno. Si stima che un caporale arrivi a incassare così anche 400 euro al giorno, ottenendo due vantaggi. «Scalare rapidamente il ranking dei fattorini dell'azienda per cui risulta impiegato, assicurandosi così il diritto a lavorare nelle fasce orarie migliori (di sera) e in un raggio più vicino a lui - sottolinea il comandante -, e di poter guadagnare anche una volta tornato nel Paese d'origine, perché con questo sistema è come se fosse rimasto in Italia».

Il caporalato tra i fattorini: «Forniscono bici e account in cambio del 50% della paga». Storia di Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2022.

«Se fino a qualche anno fa su dieci controllati ne scoprivamo uno che per lavorare usava l’account di un caporale, adesso il rapporto è di uno a cinque, anche se in certi casi anche di uno su due». A lanciare l’allarme è il generale di brigata Antonio Bandiera, alla guida del Comando carabinieri per la . Un fenomeno in crescita in tutta Italia, sul quale — conferma l’alto ufficiale dell’Arma — «stiamo indagando ovunque, perché rappresenta anche un grave pericolo per gli stessi lavoratori da un punto di vista di : spesso gli sfruttatori forniscono ai fattorini clandestini biciclette a pedalata assistita modificate per andare più veloce in modo da indurli a effettuare più consegne in un lasso di tempo inferiore e far guadagnare di più proprio i caporali. La conseguenza è che gli stessi lavoratori in nero utilizzano per loro e per gli altri utenti della strada».

I contratti negati

Secondo una stima recente, in Italia il popolo dei rider è composto da circa 570 mila persone, quelli assidui sarebbero almeno 350 mila. Si tratta di una cifra altissima, come gli abitanti di una città di provincia. Oltre che dalle organizzazioni sindacali, che hanno combattuto a lungo con le grandi multinazionali del settore per assicurare ai lavoratori contratti e regole a cui attenersi, una fotografia della situazione attuale arriva proprio dai controlli su strada dei carabinieri scattati fin dal 2019 dopo un incidente stradale. All’epoca la delega a compiere accertamenti fu firmata dai magistrati della Procura di Milano, la prima in Italia ad affrontare la questione della figura giuridica del rider, non considerato fino ad allora un lavoratore subordinato a tutti gli effetti, con diritto non solo al versamento dei contributi ma anche a vedere rispettate le norme della legge sulla sicurezza sul lavoro.

Il finto account

«Adesso, con i caporali più attivi che mai — sottolinea il generale Bandiera — i diritti vengono di nuovo negati sempre di più a chi è clandestino e più diffusamente a chi si trova in stato di bisogno». Due sono i «pacchetti» che gli sfruttatori riservano alle loro vittime: il primo prevede la cessione dell’account del caporale, aperto da lui stesso su una delle tante piattaforme di registrazione online dei lavoratori, dove bisogna inserire foto, documento d’identità (anche il permesso di soggiorno), informazioni personali e richiesta del kit dell’azienda (borsa, fratino, dotazioni di sicurezza oggi previste per legge). Una volta ottenuto l’«Id courier», viene subito ceduto al rider clandestino che, con il secondo «pacchetto», viene equipaggiato anche con bici o monopattino.

Fino a 400 euro al giorno per i «caporali»

Nel primo caso il caporale trattiene il 20% dei guadagni, nel secondo anche il 50%. In media ognuno di loro può avere una decina di sub-fattorini, ciascuno dei quali può effettuare anche 15 consegne al giorno per un guadagno di 60-70 euro ciascuno. Si stima che un caporale arrivi a incassare così anche 400 euro al giorno, ottenendo due vantaggi. «Scalare rapidamente il ranking dei fattorini dell’azienda per cui risulta impiegato, assicurandosi così il diritto a lavorare nelle fasce orarie migliori (di sera) e in un raggio più vicino a lui — sottolinea il comandante —, e di poter guadagnare anche una volta tornato nel Paese d’origine, perché con questo sistema è come se fosse rimasto in Italia».

Il razzismo nel mercato del lavoro: «Assumiamo pachistani nel tessile e senegalesi per le mansioni di fatica». Molti imprenditori italiani selezionano in base alla nazionalità. E le discriminazioni per chi è straniero iniziano dai colloqui. Come dimostrano i dati e i fatti di cronaca. La denuncia di una recruiter a L’Espresso, tra irregolarità e sfruttamento. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 25 Ottobre 2022.

Aggredita perché ha chiesto di essere pagata. È successo lo scorso agosto in un lido di Soverato, in Calabria, a una lavoratrice nigeriana che reclamava il compenso concordato con il proprietario dello stabilimento. Il video in cui il datore di lavoro, prima di picchiare la lavoratrice, le ricorda: «Questa è casa mia, rivolgiti agli avvocati e ai carabinieri», è diventato virale e ha scatenato indignazione. Ma non è un caso isolato.

Come spiega Antonio Jiritano, dirigente regionale dell’Unione sindacale di base in Calabria: «Quello che è successo a Beauty Davis quest’estate è esemplificativo di un sistema diffuso e strutturato. C’è un personaggio, ad esempio, un professore conosciuto da queste parti, che ogni anno, grazie alla sua rete di conoscenze, “aiuta” i ragazzi poco più che maggiorenni del centro di accoglienza di San Sostene a trovare lavoro in ristoranti e balneari nella zona di Soverato. Solo che puntualmente, alla fine della stagione estiva, questi non ricevono la paga che avevano pattuito. Ad alcuni viene dato un acconto di due o trecento euro, ad altri proprio nulla. Sto preparando un esposto da portare in Procura per denunciare la vicenda. Oggi seguo nove lavoratori, nigeriani, della Nuova Guinea e del Burkina Faso, rimasti senza compenso: da quando si è sparsa la voce che li stiamo aiutando, i datori di lavoro non ritirano più neanche le raccomandate con cui il sindacato invita alla conciliazione bonaria. Così procedo segnalando i casi all’ispettorato del lavoro».

Le discriminazioni per chi è straniero, soprattutto se extra Unione europea, infatti, avvengono per la maggior parte durante la vita lavorativa. Non per forza violenze fisiche ma disparità di trattamento che iniziano dal colloquio per l’impiego e si ripetono ogni giorno. Lo dimostrano i dati secondo cui gli stranieri residenti in Italia, tra irregolarità e sfruttamento, lavorano in condizioni degradanti o senza contributi sociali. Oltre che accettare occupazioni che in molti casi i lavoratori nazionali preferiscono non svolgere. Come nel settore agricolo dove il 29,3 per cento delle giornate lavorate è ascrivibile a stranieri. Secondo i report di Openpolis, il tasso di irregolarità supera il 30 per cento, mentre nell’84 per cento dei casi i contratti, quando vengono fatti, sono a termine.

Ma lo dimostra soprattutto il divario salariale, come si capisce dal rapporto “The migrant pay” pubblicato a dicembre 2020 dall’Ilo, l’organizzazione internazionale del lavoro. Nei Paesi ad alto reddito i lavoratori migranti guadagnano in media il 12,6 per cento in meno all’ora rispetto ai lavoratori nazionali. In Italia guadagnano il 30 per cento in meno. La situazione è anche peggiorata dal 2015 quando la differenza era del 27 per cento.

Una parte di divario deriva dalla struttura del mercato del lavoro e dalle differenti competenze dei lavoratori. Anche se è molto diffuso il fenomeno dell’overqualification, cioè il fatto che una persona accetti un'occupazione che richiede una preparazione tecnica o accademica inferiore a quella posseduta. Succede al 67,5 per cento degli stranieri residenti in Italia.

L’altra parte di una così grande differenza tra i salari, però, resta inspiegabile. O meglio, è probabilmente il risultato delle discriminazioni.

«Spessissimo le aziende quando ricercano il personale indicano anche la nazionalità dei lavoratori che vorrebbero assumere. Sempre a voce, mai scrivendolo», spiega una dipendente di una delle tre più importanti agenzie per il lavoro del Paese, che preferisce rimanere anonima. «Siamo una multinazionale quindi abbiamo a che fare con aziende piuttosto grandi perché si possono permettere i costi d’agenzia. Di solito hanno più filiali sul territorio». Come racconta la recruiter, «lavoratori d’origine rumena o albanese sono i più cercati nel settore dell’edilizia. Senegalesi o in generale africani vengono richiesti per la produzione quando le mansioni sono di fatica o in luoghi piuttosto caldi. Nel tessile si prediligono i pachistani. Noi ignoriamo le richieste illegali dei datori di lavoro ma purtroppo non cambia niente. Alla fine del processo di selezione mi rendo conto che molte assunzioni avvengono sulla base della nazionalità. “Gli altri profili non erano in linea con i bisogni dell’azienda” mi viene detto».

Un’altra opinione condivisa da molti datori di lavoro, a quanto spiega la recruiter, è che «i lavoratori stranieri accettino paghe più basse. Così, ad esempio, nel settore delle pulizie le imprese multiservizi richiedono che la selezione del personale avvenga tra questi». Eppure, spiega l’avvocato Stella Piergiacomi, specialista in diritto sindacale, del lavoro e della previdenza sociale: «Ci sono numerose norme finalizzate a contrastare la discriminazione razziale nell’attività di ricerca di personale, come l’art. 15 Statuto dei Lavoratori che sancisce la nullità di qualsiasi atto che abbia tra le altre finalità quella di discriminazione razziale. O l’articolo 43 del d.lgs 286/1998 che identifica come discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, un determinato gruppo etnico o linguistico. Ma è evidente che queste norme non sono in grado di contrastare le scelte ideologiche scellerate e discriminatorie di alcuni datori di lavoro. Secondo me è l’assenza di una tutela specifica che consente il raggiro dell’attuale assetto normativo. Si pensi - conclude - all'esempio delle quote rosa che hanno obbligatoriamente introdotto la figura femminile nella vita politica e sociale superando quelle arcaiche forme di pensiero sull'inferiorità lavorativa delle donne».

Le scuse dell'azienda e il contributo per il funerale. Sebastian Galassi, il rider morto in un incidente licenziato da Glovo: “Mail partita per errore”. Il papà: “Non era sfruttato”. Redazione su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

“Il tuo account è stato disattivato per il mancato rispetto dei Termini e condizioni”. E’ la mail inviata, in automatico, da Glovo a Sebastian Galassi, il rider di 26 anni morto a Firenze mentre stava effettuando in scooter una consegna per la società di delivery. A denunciare l’episodio è la famiglia del giovane studente toscano che lavorava la sera per mantenersi e pagarsi gli studi.

La mail inviata dalla società spagnola di consegne a domicilio è un testo standard e arriva in automatico quando non vengono rispettati i tempi tecnici di consegna. Dopo l’invio, sono poi arrivate le scuse e le condoglianze di Glovo ai familiari di Sebastian. Un testo inviato per errore ci tiene a precisare l’azienda così come riporta il quotidiano Repubblica. “Il suo account è stato sospeso per proteggere l’identità del suo profilo e quel messaggio è partito in automatico – viene spiegato – Siamo profondamente dispiaciuti e ci scusiamo per l’accaduto“. Dopo le scuse, anche la promessa di inviare nell’immediato un contributo per le spese del funerale.

Orfano di madre, a parlare è il papà di Sebastian che vuole solo sapere cosa è successo nella serata di sabato 1 ottobre quando lo scooter Honda Sh del figlio si è scontrato con un Suv nei pressi di un incrocio. “Vogliamo sapere se ci sono state responsabilità” racconta Riccardo Galassi, avvocato civilista in pensione, a Repubblica. L’uomo alla guida dell’auto è stato al momento denunciato per omicidio stradale e la sua posizione è al vaglio della procura fiorentina.

I rilievi sono stati effettuati dalla polizia municipale che ha acquisito le immagini delle telecamere di videosorveglianza presenti nella zona. Attesa anche per gli esiti degli esami tossicologici e alcolemici a cui è stato sottoposto il guidatore della Land Rover.

Sebastian “era un ragazzo serio, che amava tutto quello che faceva e che si voleva realizzare, anche lavorando. Ci mancherà tantissimo” ricorda il padre che ora pensa all’altro figlio, Jonathan, fratello gemello del rider tragicamente scomparso. “Erano legatissimi, sarà molto dura per lui. Ora è in camera a riposare, è distrutto”.

Per il papà “Sebastian aveva iniziato un corso di design e quei soldi extra gli facevano comodo per la retta. Ero contento che facesse quel lavoretto, alleggeriva anche me che sono pensionato”. Chiarisce poi che “l’immagine del lavoratore sfruttato non lo rappresenta” perché Sebastian “era contento di rendersi autonomo e io approvavo quella scelta”. 

Un cugino del giovane rider spiega che “lavorava la sera e durante i festivi per guadagnare di più, perché altrimenti la paga (circa 600 euro al mese) sarebbe stata da fame”.

Il sindaco di Firenze Dario Nardella chiama in causa le campagne di delivery: “Un giovane rider di 26 anni, Sebastian, è morto in un incidente nella mia città Firenze mentre correva a fare una consegna. Zero tutele, zero diritti. Le compagnie di delivery food non hanno niente da dire? E’ normale tutto questo in Italia nel 2022?”.

Vite ai margini, terza puntata. Gargano, terra di migranti “Noi, braccianti ora liberi dal giogo del caporalato”. Karima Moual su La Repubblica il 28 Maggio 2022.  

Nel ghetto di Rignano Garganico, in Puglia, gravitano 1.300 persone l'anno. I fondatori della cooperativa: "Questo è un ponte di approdo per chi non ha nulla. Perché non cadano nelle braccia dei caporali, facciamo noi da intermediari, gestendo anche i contratti".

Cosa puoi fare quando non sei più una persona ma solo due braccia da sfruttare? Quando hai rischiato la morte per arrivare in un Paese, col sogno di una vita decente, e invece ti svegli in un luogo dove le tue competenze e ambizioni non contano niente perché sei solo braccia e mani; mani d'oro da sfruttare. 

I nuovi schiavi, clandestini e prigionieri del lavoro nero. Da un’inchiesta della procura di Prato su una presunta truffa per la produzione di tute mediche anti covid, illecitamente subappaltato ad aziende cinesi, è emerso un grave sfruttamento di manodopera irregolare. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 luglio 2022.  

Privi di diritti, lavorano senza nemmeno un giorno di ferie o festivo, vivono in dormitori sovraffollati e degradati. Una condizione, di fatto, dove la libertà viene privata. È ciò che emerge da un uno dei tronconi dell’inchiesta condotta dalla procura di Prato sulla presunta truffa condotta da un consorzio romano in merito alla produzione di milioni di tute protettive mediche anti covid che avrebbe illecitamente subappaltato ad aziende cinesi. Ed è lì che gli ispettori del lavoro hanno scovato un grave sfruttamento della manodopera clandestina, aprendo ancora una volta uno squarcio sulle condizioni disumane e degradanti dei lavoratori più vulnerabili e dove talune aziende cinesi, attraverso lo sfruttamento della manodopera, dimostra di riciclarsi anticipando i tempi in base alle emergenze.

Il caso di Prato è emblematico di una situazione diffusa in tutto il Paese

Il risultato è che in Italia ci sono realtà lavorative che imprigionano, di fatto, la manodopera più vulnerabile, spesso invisibile perché in nero e privi di permesso di soggiorno. Quindi più ricattabili. Il caso di Prato è emblematico perché gli ispettori del lavoro hanno scoperto che il dirigente cinese dell’impresa ha avuto tutti impiegati a nero, anche alloggiandoli presso i locali dormitorio al fine di garantirsi un continuo controllo dei dipendenti. In questa maniera potevano rimanere perennemente disponibili. Parliamo di manodopera soprattutto pakistana e africana, privi di stabili legami familiari, con scarsa comprensione della lingua italiana e limitato processo di integrazione socio culturale. Condizioni che li inducono ad accettare le condizioni imposte unilateralmente dai datori di lavoro. Nel caso specifico cosa hanno trovato gli ispettori del lavoro? Retribuzioni mensili corrisposte in modo irregolare, in violazione dei tempi prescritti dalla contrattazione collettiva e in contanti con modalità di accredito non consentite, e comunque per entità sproporzionata per difetto rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Turni di lavoro fino a 13/14 ore giornaliere, rispetto alle 8 previste per i contratti a tempo pieno.

Costretti al lavoro nero, senza riposi, ferie e festività

Violazione del riposo settimanale, costretti a lavorare 7 giorni su 7 e anche in giorni festivi, così privati del prescritto riposo settimanale, oltre che nei giorni festivi di Natale, Santo Stefano e Capodanno. Riposo giornaliero limitato a brevi pause di pochi minuti per consumare i pasti, nel medesimo ambiente di lavoro deputato alla produzione. Svolgimento delle attività di lavoro in locali privi delle minimali condizioni di sicurezza ed igiene sul luogo di lavoro. I prestatori di lavoro sono sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, essendo costretti a lavorare e mangiare negli stessi spazi deputati alle lavorazioni, oltre ad essere alloggiati in un locale dormitorio – alcuni di loro anche all’interno del vano sottotetto -, destinato funzionalmente a pertinenza del sito di produzione e caratterizzato da condizioni igienicosanitarie carenti, sovraffollamento e numerose criticità impiantistiche.

Si tratta di un vero e proprio processo di etnicizzazione dello sfruttamento lavorativo

Al di là di questo caso specifico, a Prato, le piccole aziende, in larga parte a conduzione cinese, si sono sviluppate molto rapidamente nel settore delle confezioni e del pronto moda, oltre che nei tradizionali ambiti del commercio, dei servizi, della ristorazione. Queste imprese, molto competitive, impiegano in larga parte lavoratori stranieri, inizialmente connazionali, ma da alcuni anni sempre più nuovi migranti di altre nazionalità. Un vero e proprio processo di etnicizzazione dello sfruttamento lavorativo: mentre i contratti di lavoro degli operai cinesi sono perlopiù a tempo indeterminato o si adeguano alle esigenze dei lavoratori cinesi di rinnovare il permesso di soggiorno per lavoro o di accedere al ricongiungimento con i familiari, i contratti dei lavoratori immigrati non cinesi sono di breve durata, quando ci sono. Ma non è solo a Prato. Lì emerge con più chiarezza perché esiste da tempo una collaborazione interistituzionale tra il Comune, Procura della Repubblica, Questura, Prefettura, Asl, Regione e forze dell’ordine. Servirebbe anche in altre realtà, solo così si potrà “liberare” la manodopera sfruttata.

Caporalato, con l'aumento delle indagini il Nord si scopre fuorilegge. MICHELE INSERRA su Il Quotidiano del Sud il 28 Maggio 2022.

Caporalato e sfruttamento del lavoro si diffondono sempre più nelle regioni del Nord. È quanto emerge dal IV Rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo, realizzato da “L’altro Diritto” insieme alla Flai Cgil. Il caporalato non riguarda solo l’agricoltura, ma anche molti altri comparti produttivi. E tra le vittime crescono gli italiani e i minorenni.

A distanza di cinque anni dall’entrata in vigore della legge della legge 199 del 2016 contro lo sfruttamento lavorativo e il caporalato, sono cresciute in maniera esponenziale le inchieste in tal senso. Sono 458 rispetto alle 214 del 2019: è uno dei primi dati eclatanti che emergono dal report.

All’aumento delle inchieste giudiziarie, però, non corrisponde un aumento delle segnalazioni dei lavoratori che, stando a quanto emerge dallo studio, sono solo 49 su 458. A livello nazionale, infatti, solo poco più del 10% dei procedimenti è basato su denunce e, qualora i lavoratori decidano di segnalare le loro condizioni, questo accade nei territori dove sono presenti sistemi di collaborazione con le procure o altri enti sul territorio. Due esempi di tipo diverso sono quelli delle province di Foggia e Prato. Nel primo caso, su sette procedimenti avviati nel 2019 e nel 2020, quattro sono infatti basati su denunce. Così come a Prato dove, nello stesso biennio, si registrano 8 denunce che hanno portato a 4 dei 6 procedimenti individuati e 4 archiviazioni.

Da sottolineare che a partire dal 2019, sono sicuramente cambiate le modalità di intervento degli organi di Polizia che, spesso, agiscono con task force provinciali o interregionali (come, del resto, impone la frequente “migrazione interna” dei lavoratori, che si spostano da una regione all’altra alla ricerca di occasioni di lavoro che, soprattutto in agricoltura, seguono il ciclo biologico delle colture) e che coinvolgono l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (nel cui ambito opera il personale del Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro), gli altri reparti dell’Arma dei Carabinieri, forze ispettive della Guardia di Finanza, servizi di Polizia Giudiziaria variamente combinati e, infine, il personale delle Aziende Sanitarie Locali.

La sinergia operativa delle Forze di Polizia appare fondamentale tanto nel corso dei primi controlli, quanto durante le indagini. Il concorso di competenze (in parte) diverse, infatti, consente di decodificare in maniera più efficace le strategie di sfruttamento, specie quando queste sono complesse come, ad esempio, nei casi in cui alcuni lavoratori sono impiegati in nero ed altri con contratto (per cui occorre ricostruire con attenzione le singole posizioni contrattuali, contributive e previdenziali, anche in considerazione del fatto che pure la manodopera regolare, in realtà, è generalmente impiegata per un monte ore superiore a quello sancito dal contratto).

Il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori non riguarda, a differenza di come spesso si crede, solo il Mezzogiorno: le inchieste sono distribuite in maniera abbastanza omogenea su tutto il territorio italiano. Analizzando il report in maniera più dettagliata emerge che per quanto riguarda l’ubicazione geografica delle inchieste, la loro distribuzione sul territorio nazionale è abbastanza omogenea: complessivamente, sono 138 i procedimenti di competenza di Procure del Nord Italia, 138 quelli del Centro Italia e 182 quelli del Meridione. Le proporzioni interne di questa ripartizione, però, sono cambiate nel corso deltempo: considerando il numero di procedimenti attivati di anno in anno, inizialmente le inchieste erano prevalentemente incardinate al Sud (nel 2017, ad esempio, su 25 casi di sfruttamento, 13 riguardavano il Sud, 9 il Centro e solamente 3 le regioni del Nord).

A partire dal 2019 è cresciuta in maniera consistente la cifra delle indagini nel Centro e nel Nord Italia (su 121 vicende, 51 erano relative al Meridione, mentre le restanti si ripartivano in maniera identica tra Centro e Nord Italia) e, nel 2020, le proporzioni si sono addirittura invertite, tanto che, su 127 inchieste, sono state ben 45 quelle delle Procure del Nord, a fronte di 41 vicende relative alle regioni centrali e altrettante nel Sud Italia.

Nel 2021 i dati indicano che le inchieste nel Mezzogiorno sono tornate a essere leggermente maggioritarie: sono 40 i procedimenti incardinati al Sud, contro 31 inchieste nel Nord e 30 del Centro della Penisola. Questo dato però, essendo riferito all’ultimo anno di rilevazione, è soggetto ad assestamento. “Numeri che comunque non devono essere considerati indicatori di un cambiamento della distribuzione geografica dello sfruttamento nel corso degli anni. Più probabilmente a mutare è stata la prospettiva degli inquirenti, che sembrano aver smesso di concepire il fenomeno come prevalentemente localizzato nel settore agricolo del meridione e hanno iniziato a guardare allo sfruttamento come a un’inaccettabile strategia produttiva attuata in ogni regione italiana” si legge nel report.

Il rapporto conferma la tendenza allo sfruttamento dei cittadini stranieri: delle inchieste di cui si è riusciti a ricavare la nazionalità dei lavoratori, il 74% riguarda essenzialmente persone non nate in Italia. Un dato che, però, come si legge, non deve far passare in secondo piano il fatto che cresce lo sfruttamento nei confronti di italiani: sono infatti 58 i procedimenti in cui è coinvolta manodopera italiana. E dal 2018 in poi le inchieste che riguardano gli italiani sono tre le 10 e le 15 all’anno. Emerge, poi, un altro dato allarmante. Tra le persone sfruttate crescono i minorenni: sono ben 15 le inchieste in cui protagonisti sono gli under 18 e la metà di questi casi si riferisce a fatti avvenuti negli ultimi 2 anni. Il maggior impiego di lavoratori italiani e minori di età sembra sia stato accentuato dalla pandemia: a fronte di un aumento della disoccupazione, molte famiglie si sono trovate a sperimentare una situazione di povertà e questo anche a causa del non agevole accesso agli ammortizzatori sociali.

Lo sfruttamento lavorativo e il caporalato non riguardano solo l’agricoltura, anche se resta il settore numericamente più rilevante, ma è in crescita anche in altri settori e comparti produttivi. Stando al rapporto, sono consistenti i casi in cui lavoratori e lavoratrici sono impiegati in attività di volantinaggio (12 inchieste, distribuite tra il Centro e il Nord Italia) nei distributori di benzina o negli autolavaggi (13 procedimenti, tutti di competenza di procure del Centro e del Nord Italia, salve due vicende di competenza, rispettivamente, delle procure di Bari e Catania), nella logistica o nei trasporti (19 procedimenti, ancora una volta prevalentemente seguiti da procure del Centro-Nord, ad eccezione di 3 inchieste di competenza di Siracusa e Lamezia Terme). Significativo lo sfruttamento relativo al settore dell’industria, in particolare della manifattura tessile, gestita quasi esclusivamente da imprenditori cinesi.

Numericamente consistenti sono pure le inchieste relative alla lavorazione del pellame su scala industriale (8 procedimenti) e quelle che riguardano la cantieristica navale (ben 7 procedimenti). Al contrario, continuano a riscuotere scarsa attenzione i settori dell’edilizia (con 9 inchieste), del turismo (con 15 processi) e dell’attività di cura (con 7 processi) che, rispetto a quanto ci si aspetterebbe, presentano meno inchieste e meno processi di quanto dovrebbe emergere secondo le ricerche sociologiche e i sindacati, che rilevano, invece, una presenza più diffusa di caporalato e sfruttamento lavorativo.

In questi settori emerge quindi l’incapacità di rilevare lo sfruttamento esistente, cosa ancora più comprensibile nel settore della cura, operativo nelle case private e quindi difficile da intercettare. Quello del lavoro agricolo rimane, comunque, il comparto dove si sviluppa la maggior parte delle inchieste: sulle 458 totali, sono 220 quelle legate all’agricoltura e alle attività connesse. Se ci si limita ai casi in cui è stato avviato un processo penale, il rapporto è di 208 procedimenti su 401.

Un altro dato che emerge in modo chiaro è che le inchieste sull’agricoltura sono prevalentemente legate alle procure delle regioni meridionali. Questo aspetto si nota negli anni 2017-2018, ma trova conferma anche nel monitoraggio dal 2019 al 2021, anche se con una leggera flessione, per cui i casi emersi nel Sud Italia sono poco più della metà di tutti quelli che coinvolgono lavoratori agricoli: 31 su 55 per il 2019; 24 su 51 per il 2020; 28 su 49 per il 2021.

«Non puoi andare in bagno. Falla nel secchio o tienitela per 13 ore»: storie di ordinari soprusi sul posto di lavoro. Turni infiniti senza possibilità di pausa, donne con il ciclo costrette a non cambiarsi per un’intera giornata, minacce e umiliazioni pubbliche. È quello che succede ogni giorno a troppi lavoratori in Italia. L’Espresso con Aestetica Sovietica ha raccolto le loro testimonianze. Segnalateci la vostra storia. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 18 maggio 2022.

«Io in bagno non ci posso andare. A lavoro sono perlopiù sola e quindi non posso allontanarmi. La pipì si fa una volta la mattina e poi sette ore dopo a fine turno, se ti ricordi. Recentemente durante il periodo del ciclo mi sono macchiata ovunque. Camminavo con le mani che mi coprivano il sedere, in modalità gambero, per salvare il salvabile». Così scrive Elena, nome di fantasia (come gli altri riportati in quest’articolo), a Aestetica Sovietica, un editoriale online indipendente che si occupa di analisi del linguaggio all’incrocio fra diritti civili e sociali. 

Qualche settimana fa, subito dopo che un assorbente usato trovato fuori dal cestino aveva scatenato la rabbia della direttrice di un supermercato di Pescara nei confronti delle lavoratrici, Aestetica Sovietica, insieme con L’Espresso, ha deciso di raccogliere le testimonianze di chi durante il turno non ha neanche il tempo di andare in bagno. O se ne ha, è talmente poco da dover fare tutto di corsa. Con l’obiettivo di amplificare la voce dei lavoratori costretti, ancora troppe volte, a sopportare condizioni degradanti pur di non perdere l’impiego. Perché il lavoro non è un privilegio ma un diritto. «Allargare le maglie di un episodio che balza agli onori della cronaca conduce la nostra community a condividere con noi le proprie esperienze. In questo modo trasformiamo il format dell’indignazione in quello della rivendicazione politica» dice il fondatore della pagina social.

Così dalle testimonianze raccolte emerge uno spaccato avvilente della quotidianità dei lavoratori in Italia contrassegnata da pratiche umilianti che, proprio perché così comuni, per molti sono diventate una normalità da vivere in silenzio. Non soltanto Elena ma anche Francesca, Roberta, Stefania e tantissimi altri. Sono per la maggior parte donne quelle che hanno deciso di raccontare come hanno visto violata la propria dignità sul posto di lavoro, fino a perdere la possibilità anche di usare il bagno. 

«A volte mi è capitato di fare la pipì nel secchio che utilizzavamo per lavare i pavimenti, chiudendomi nello sgabuzzino solo per qualche secondo», racconta Stefania che lavorava in un negozio di intimo molto frequentato. «Non c’erano i servizi all'interno. Dovevo uscire per raggiungere la toilette pubblica, dall’altra parte della stazione. Noi dipendenti avevamo accesso al bagno dei disabili che, però, non sempre era libero. In più, per evitare il pedaggio, dovevamo aspettare che il custode ci portasse le chiavi». Così quando Stefania aveva il turno da sola, di solito la domenica dall’apertura fino a pranzo, si organizzava: «Non bevevo tè a colazione, pochissima acqua durante il giorno. In modo da non dover lasciare il negozio incustodito per andare in bagno. Per le altre commesse era lo stesso, avevamo paura arrivasse il capo e si infuriasse per aver chiuso il punto vendita, sebbene solo per pochi minuti». 

Anche Francesca ha dovuto vivere le stesse degradanti sensazioni. «Una volta ho chiamato la responsabile chiedendole di sostituirmi, giusto il tempo di fare la pipì. Lei ha risposto, ad alta voce, davanti ai clienti in coda alla cassa: “avresti dovuto pensarci durante la pausa. O hai problemi di incontinenza?”. Mi ha umiliata». Francesca lavorava come cassiera in una catena di supermercati, in nord Italia. Racconta che, durante il turno, ai dipendenti era vietato pure bere. «Quando la responsabile ha visto una mia collega che nascondeva la bottiglietta d’acqua nella tasca della divisa, ha fatto una scenata».

Roberta, invece, pur di non far innervosire i suoi capi, ha tenuto lo stesso assorbente per oltre dieci ore. «Lavoravo in un chiosco al mare per la stagione estiva. Nei weekend c’era il pienone ed eravamo troppo pochi per accontentare tutti i clienti. Così era impossibile assentarsi per utilizzare il bagno». A causa dello sfregamento continuo dell’assorbente sulla pelle, Roberta si è ferita e nei giorni seguenti ha fatto fatica a camminare. Visto quanto accaduto si è convinta a lasciare il lavoro. «Prima pensate ai clienti e poi alle esigenze fisiologiche» era il mantra dei suoi capi. 

Sono condizioni inaccettabili. Regole non scritte, perché se lo fossero violerebbero la dignità della persona, ma che la routine volta a massimizzare i profitti e ridurre le spese trasforma in norme comportamentali che i lavoratori si sentono costretti ad accettare. Sono situazioni diffuse che attentano al benessere non soltanto del singolo ma del mondo del lavoro dell’intero Paese abbassando l’asticella dello standard minimo che un datore di lavoro deve garantire ai dipendenti.

Come spiega Raffaele Fabozzi, professore di Diritto del lavoro all'università Luiss: «Oltre agli obblighi e alle pause previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, proprio come in ogni contratto, anche in quello di lavoro le parti devono comportarsi secondo correttezza e buona fede. Il datore di lavoro è obbligato a tutelare la salute dei propri lavoratori, adottando le misure necessarie a salvaguardare l’integrità fisica e personalità morale degli stessi. In questo bilanciamento di diritti e di interessi, il datore di lavoro deve sicuramente tenere in considerazione le esigenze fisiologiche del lavoratore».

E invece, proprio mentre la Spagna sta per varare una legge per concedere tre giorni di congedo mestruale al mese a chi ha un ciclo doloroso, in Italia i diritti basilari dei lavoratori, perfino quello di andare in bagno, continuano a essere calpestati.

Conad di Pescara, la direttrice del supermercato alle dipendenti: «Ditemi chi ha il ciclo». Viene espulsa. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

L’ordine choc alle dipendenti del supermercato dopo che nel bagno era stato ritrovato un assorbente fuori dal cestino. 

«Un gesto ignobile, una violenza inaudita compiuta da una donna contro altre donne», commenta inorridito Davide Urbano, segretario provinciale della Filcams Cgil di Pescara. Il fatto è accaduto il 14 aprile nel capoluogo abruzzese: in seguito al ritrovamento di un assorbente usato fuori dal cestino di uno dei bagni del personale, la direttrice del supermercato Conad di via del Circuito, Carla Di Tecco, ha mandato un messaggio vocale su WhatsApp alle sue dipendenti. 

Messaggio raccapricciante sulla chat di gruppo: «Voglio il nome e cognome di chi oggi ha il ciclo mestruale, ok? Sennò gli calo le mutande io! Questa storia deve finire...». La donna, 50 anni, non è nuova ad episodi del genere, già due anni fa fu denunciata per estorsione dopo aver vessato, umiliato e infine costretto alle dimissioni un altro suo dipendente («Ti garantisco che ti renderò la vita un inferno qui dentro, sai che non mi fermo davanti a niente...»). 

E non si è fermata nemmeno questa volta: davanti al rifiuto delle lavoratrici del supermercato di comunicare il nome di chi aveva usato l'assorbente, la direttrice si è fatta consegnare la lista delle 12 commesse in turno e ha poi incaricato una capo-reparto donna di procedere all'ispezione corporale negli spogliatoi, invitando le dipendenti a togliersi pantaloni e mutandine. «Ma diverse di loro per fortuna sono venute da noi a denunciare l'accaduto», racconta il segretario della Filcams Cgil. Il sindacato ora sta valutando l'idea di promuovere azioni legali contro l'imprenditrice ipotizzando il reato di violenza privata. 

Ieri, poi, la vicenda è finita sul tavolo dell'amministratore delegato della Cooperativa Conad Adriatico, Antonio Di Ferdinando, che ha subito avviato un'indagine interna e, avendo raccolto precisi riscontri tra i lavoratori, ha deciso di espellere con effetto immediato la direttrice del supermercato e di risolvere il contratto d'affitto d'azienda che finora aveva legato alla Conad il punto vendita di via del Circuito. «In ogni caso - ha detto l'ad di Conad Adriatico - assicureremo continuità all'attività commerciale garantendo il servizio ai clienti e il lavoro ai collaboratori». Ma via l'insegna e via il marchio, un provvedimento inevitabile: «Il motto Conad - conclude Di Ferdinando - lo conoscono tutti: Persone oltre le cose. Una frase che riassume i nostri valori e soprattutto rispecchia il modo in cui si opera nelle nostre strutture. Il rispetto delle persone viene sempre al primo posto e il comportamento della direttrice è stato inaccettabile».

Da tgcom24.mediaset.it il 29 aprile 2022.

Conad prende le distanze, parla di "comportamento inaccettabile" e ritira il marchio al punto vendita. Questa la prima conseguenza della vicenda denunciata dalla Filcams-Cgil, che ha divulgato i contenuti di un audio shock: "Voglio il nome e cognome di chi oggi ha il ciclo mestruale, ok? Altrimenti gli calo le mutande io", avrebbe detto la titolare di un Conad Superstore a Pescara in un vocale inviato sul gruppo WhatsApp dei capireparto.

La direttrice-titolare era andata su tutte le furie dopo che è stato "ritrovato un assorbente usato fuori dal cestino del bagno all'interno degli spogliatoi", ha ricostruito il sindacato, secondo cui "nello stesso audio la titolare minaccia ripercussioni e lettere di richiamo qualora non si fosse trovata la responsabile dell'accaduto". Non si fa attendere la presa di posizione del gruppo Conad: la proprietaria-direttrice del punto vendita sarà esclusa dal sistema cooperativo della catena di supermercati.

Cosa succede con il ritiro del marchio dal punto vendita - Fonti vicine all'azienda spiegano che il rapporto tra la casa madre e le "filiali" locali è regolato da un contratto e che né la proprietaria né i lavoratori sono formalmente di Conad. Quindi la soluzione sarà quella di troncare l'abbinamento tra punto vendita e marchi. Ciò significa che le lavoratrici restano al momento sempre alle dipendenze della società privata del punto vendita pescarese di proprietà della direttrice.

Il commento di Conad: "Comportamento inaccettabile" - "Non possiamo accettare un comportamento come quello che, purtroppo, abbiamo potuto accertare nel punto vendita in questione. Di conseguenza abbiamo deciso di procedere, come previsto dal nostro regolamento, alla risoluzione del contratto di affitto d'azienda. Daremo in ogni caso continuità alle attività del punto vendita garantendo il servizio ai clienti e il lavoro ai collaboratori", afferma l'amministratore delegato della Cooperativa Conad Adriatico, Antonio Di Ferdinando.

La soddisfazione dei sindacati - "Grande soddisfazione per la decisione di Conad di recedere dai rapporti commerciali con chi si è reso responsabile del grave e ignobile atto. Oggi assistiamo alla vittoria delle lavoratrici che hanno scelto di non sottomettersi ai soprusi", affermano la Filcams-Cgil di Pescara e quella Abruzzo Molise, chiedendo che "i lavoratori del punto vendita siano tutelati". Il sindacato si sofferma sul ruolo delle lavoratrici dell'attività: "Senza la loro denuncia questo risultato non sarebbe stato possibile. Questa vittoria insegna che non bisogna mai abbassare la testa e che il muro di omertà, che spesso si crea nei posti di lavoro, si può abbattere".

Maria Corbi per “la Stampa” il 29 aprile 2022.

Certamente la responsabilità è personale ma se continuiamo a prendercela solo con «l'adorabile» direttrice del Supermercato Conad di Pescara e la sua caccia alla dipendente «strega» rea di aver gettato un assorbente dove non doveva sbagliamo, consapevoli, di farlo. Perché purtroppo per arrivare a questi abissi umani sul posto di lavoro siamo da tempo sulla buona strada. E fingiamo di stupirci.

Un plurale che parla dello Stato, del paese e dunque anche di noi che ci siamo ritirati da tempo, ben prima del Covid, in un lookdown egoista, cieco, libertario e non liberale dove le battaglie per i diritti, le tutele, si riducono troppo spesso a inutili raccolte di firme sui social. 

E assistiamo indignati a una direttrice che chiede alle sue dipendenti di calarsi le mutande per capire chi sia la colpevole del reato di mancato canestro nel cestino con l'assorbente.

« Voglio il nome di chi oggi ha il ciclo mestruale ok? Sennò gli calo le mutande», ha urlato la "signora".

Il segretario Filcams-Cgil Pescara ha poi raccontato che quell'audio è finito nelle chat di diversi capireparto tra i quali uno in particolare avrebbe riportato alla direttrice l'elenco di 12 lavoratrici in servizio quel giorno a cui sarebbe stato chiesto di far uscire il nome della colpevole «altrimenti ci sarebbero state lettere di contestazione e probabilmente difficoltà a rinnovare i contratti a termine». Perché anche il ricatto sulla pelle dei più deboli, spesso donne, nel nostro mondo del lavoro va molto forte.

«Ogni giorno riceviamo segnalazioni di soprusi e vessazioni nel settore del commercio, dice il segretario Filcams-Cgil Pescara, ma è difficile intervenire perché spesso mancano le prove, o mancano i testimoni perché hanno paura di perdere il lavoro. Fortunatamente in questo caso le prove ci sono e siamo potuti intervenire». 

Quando è stato abolito l'articolo 18 ci hanno spiegato che sarebbe arrivata una nuova era consapevole, costruttiva, responsabile senza gabbie e regole troppo strette per un'economia moderna e veloce. Quel che ci appare è invece un'era dove il lavoro è sempre più ostaggio di rapporti di forza. E oggi siamo tutti a Pescara insieme alle donne della Conad umiliate non solo da una superiore ma da una società che lo permette.

Adesso che la direttrice ha avuto sua punizione - questa volta è stato il suo contratto con Conad a finire nel cestino - vorremmo pensare che sia la soluzione. Ma sappiamo che non lo è. La vera domanda è quanto durerà l'indignazione e a cosa porterà. Stiamo assistendo da tempo a un ritorno al passato, assistendo allo sfruttamento, alla precarietà, all'insicurezza, alle umiliazioni, alle morti sul lavoro. Come dice il segretario Cgil Landini «Si è passati dalla tutela del lavoro al disprezzo del lavoro». Ed è questo il problema.

Milioni di disoccupati in balìa del caporalato e degli altri ricatti. CECILIA FERRARA E RACHELE GONNELLI su Il Domani il 28 aprile 2022.

Un mercato del lavoro senza regole sta corrodendo il tessuto sociale. Serve una mappa delle ingiustizie quotidiane frutto dell’involuzione del sistema. Ecco l’inchiesta per la quale chiediamo il sostegno dei lettori: SOSTIENI LA SUA REALIZZAZIONE! Per ogni euro versato, noi ne aggiungiamo un altro fino al raggiungimento dell’obiettivo

La nuova tendenza negli Stati Uniti è dimettersi, sbattere la porta. Se n’è accorto all’inizio della pandemia un professore dell’università del Texas, Anthony Koltz, e ha iniziato a studiare il fenomeno. Da allora si contano 50 milioni di americani che hanno deciso di lasciare il lavoro volontariamente. Hanno fatto questa scelta per curare figli o parenti malati o perché stanchi dell’impiego che avevano. Koltz l’ha denominata Great Resignation (dimissioni di massa) e gli scienziati sociali su entrambe le sponde dell’Atlantico si si interrogano su origini e conseguenze di questa generale insoddisfazione lavorativa. Ma rimane il fatto che poche di queste persone che hanno dato le dimissioni sono rimaste a casa con le mani in mano. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è stato a marzo il 3,6 per cento, il più basso degli ultimi cinquant’anni, pienamente nei limiti della piena occupazione.

Il caso italiano è opposto. Abbiamo due record negativi, il più alto tasso di inattività dell’Europa sviluppata (31,2 per cento, un terzo della popolazione in età di lavoro, tra i 20 e i 64 anni) e una delle percentuali più alte di disoccupazione, il 9,2 per cento. E bisogna ricordare che la statistica include i disoccupati tra gli attivi, in quanto figurano alla ricerca di un impiego. In Italia il lavoro non si lascia come negli Stati Uniti, più facilmente si perde. E quello che si ritrova è pagato sempre meno, più precario, intermittente. I disoccupati sono l’esercito industriale "di riserva" che serve a comprimere le condizioni di lavoro di tutti, si direbbe in base ai vecchi testi classici.

L’INCHIESTA

Fino a che punto tutto ciò è sostenibile? Quanto e come l'inselvatichimento del mercato del lavoro sta corrodendo il tessuto sociale? Con l’inchiesta “Geografia dello sfruttamento dei lavoratori”, che chiediamo ai lettori di sostenere, puntiamo a scoprire giorno per giorno, là dove si nasconde lo sfruttamento marginale, le persone e le storie intrappolate nelle pieghe di questa involuzione dell’economia. L'obiettivo è di ricostruire come la mappa delle ingiustizie si stia modificando, anche geograficamente, da nord a sud, e come le scarse tutele si stiano diffondendo per osmosi anche a settori un tempo considerati "garantiti". Anche nei servizi essenziali, quelli di cui la società non poteva fare a meno durante il lockdown e che quindi ci si aspetta di trovare più preziosi, più tutelati e meglio retribuiti.

EMERGENZA E DISUGUAGLIANZE

Le diseguaglianze si sono ampliate durante l’emergenza Covid anche dal punto di vista occupazionale. Stanno venendo a galla, come nel caso dei 4 milioni di lavoratori autonomi - o finti autonomi - la metà dei quali ha avuto bisogno dei bonus statali per sopravvivere durante la pandemia. Segnalano l'emergenza sociale i casi emblematici scoperti dalle inchieste del nucleo dei carabinieri per la tutela del lavoro: emerge uno sfruttamento che rasenta lo schiavismo, soprattutto nell'agricoltura e nella logistica, ma non solo. E suonano l'allarme le associazioni di giuristi e avvocati impegnati nelle cause di lavoro. Il lavoratore è a disposizione con sempre meno possibilità di rivendicare i propri diritti. L’associazione di avvocati del lavoro “Comma2” ha chiesto i dati al ministero della Giustizia: dal 2014 al 2020 il contenzioso presso i giudici del lavoro è calato di oltre il 32 per cento, sia nel pubblico che nel privato.

«Sempre meno persone si rivolgono al giudice del lavoro, anche perché sempre più spesso i giudici condannano il lavoratore a pagare le spese legali, anche quelle dell’azienda. Senza contare il contributo unificato, una tassa, per chi ha redditi familiari sopra i 35 mila euro, quindi solo chi è molto povero è esentato», spiega Alberto Piccinini, presidente di Comma2. «Quando è nato il nuovo processo del lavoro negli anni ‘70 l’idea era di ristabilire un equilibrio nel rapporto di potere, naturalmente impari, tra azienda e lavoratore. I giudici inizialmente avevano bene in mente questo principio quando sceglievano il tribunale del lavoro, adesso è diventata una sezione come un altra». I dati di Comma2 sono confermati dalle esperienze di un’altra associazione giuslavorista: «Si comincia ad avere timore del contenzioso e se ne fa un uso molto limitato - spiega Aurora Notarianni dell'Agi, Associazione Giuslavoristi Italiani - non ci sono più cause sulle questioni retributive, sulle mansioni, sulla sorveglianza». Fa paura la lentezza della giustizia ma anche il rischio di dover pagare le spese legali dell’azienda: «Il lavoratore pubblico demansionato si fa due calcoli, si rende conto che deve spendere 10 mila euro e rinuncia. Si tiene il demansionamento».

C'è un enorme problema salariale che discende dall’alta disoccupazione e si riflette in un gap di competitività del sistema, una competizione giocata sul taglio del costo del lavoro e sullo sfruttamento intensivo delle persone piuttosto che sugli investimenti e sull’innovazione tecnologica. Anche Carlos Tavares, amministratore delegato del gruppo Stellantis (Fca-Psa), nell’intervista al Corriere della Sera del 19 gennaio scorso ha riconosciuto che il costo del lavoro in Italia è più basso ma non impedisce alle sue fabbriche italiane di avere costi di produzione più alti rispetto a quelle in altri paesi europei. La corsa al ribasso delle retribuzioni finisce per funzionare da disincentivo per l’innovazione e per generare inefficienza.

I SALARI

I salari italiani, segnala il centro studi Inapp-ministero del Lavoro, dopo quasi un quindicennio di sostanziale stagnazione, restano in Italia molto più bassi che nel resto dei paesi avanzati. L'Italia è l'unico paese europeo in cui i salari, dal 1990 a oggi, sono diminuiti. Alla vigilia della pandemia, secondo i dati Inps elaborati dalla fondazione Di Vittorio, il salario lordo medio annuo dei 15 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato era inferiore ai 22 mila euro, inferiore grosso modo di un quarto a quello di tedeschi e francesi.

Dopo due anni di pandemia, e ora con la guerra in Ucraina, la situazione non sembra affatto migliorata. Nel 2019 l’Italia era l’unico paese tra le sei maggiori economie europee a non aver ancora recuperato il livello salariale che aveva prima della crisi finanziaria del 2008. A fronte di 19,636 milioni di lavoratori dipendenti con contratti diversi, sia a tempo determinato che indeterminato, cala il totale del monte ore lavorato. Ma l’Istat considera occupato chi lavora anche un’ora in una settimana, e stima che i dipendenti lavorano mediamente 28 ore alla settimana, quindi si dividono le ore di lavoro (e il salario) di 13,7 milioni che lavorassero normalmente otto ore al giorno. 

I CONTRATTI

La ripresa dell’occupazione dopo la pandemia c’è stata soprattutto grazie ai contratti a tempo determinato: nei primi 10 mesi del 2021 su 603 mila nuovi posti di lavoro 458.810 sono a tempo determinato, il 76 per cento. Si tratta di contratti sempre più corti. Sono 5,2 milioni (più di un quarto) i lavoratori dipendenti discontinui con un reddito medio annuo intorno ai 10 mila euro lordi. Secondo l’Istat sono per il 58,6 per cento contratti fino a 6 mesi, di cui il 39,5 per cento per meno di 30 giorni e il 13,3 per cento di un solo giorno. Solo lo 0,9 per cento dei contratti a tempo determinato ha durata superiore ad un anno. Mentre si stanno diffondendo, come segnala anche un recente studio Inapp-Luiss, contratti anche ripetuti ma di appena due o tre giorni alla volta: lavoro puntiforme.

Sappiamo dunque che l’Italia, al contrario degli Stati Uniti, soffre di una grande piaga che si chiama disoccupazione e che la statistica tende a edulcorare. Per l’Istat è disoccupato chi non ha lavoro ma lo sta cercando attivamente ed è disponibile da subito. La disoccupazione ufficiale è rimasta nel 2020 al tasso del 9,2 per cento. Nel 2021 non abbiamo recuperato i livelli di occupazione pre Covid, eppure è un dato che non dice tutta la verità. La fondazione Di Vittorio ad esempio propone di considerare un indice di disoccupazione sostanziale che include alcune categorie di inattivi assimilabili ai disoccupati - persone che sarebbero disponibili ad accettare un lavoro ma non lo cercano: spesso perché scoraggiati o bloccati dal dover prendersi cura di familiari anziani o parenti disabili, oppure ancora in attesta di una risposta. Molte sono donne e giovani sotto i 35 anni.

Seguendo la tassonomia della fondazione Di Vittorio la disoccupazione sostanziale raggiunge per il 2020 il 14,5 per cento, cinque punti più alta di quella ufficiale e molto più lontana dai paesi europei più sviluppati come Francia e Germania. Nel puzzle che si va formando la tessera successiva è quella della categoria dei lavoratori fragili. Quelli con contratti atipici, non standard, non a tempo indeterminato, che soffrono di grandi intermittenze lavorative: occupati sì, ma che per larga parte del tempo in verità sono disoccupati. Sono ad esempio le donne costrette ad accettare contratti part time involontari. O anche gli esodati e i trentenni diplomati o laureati con figli a carico costretti mansioni di bassa qualifica a meno di nove euro l’ora. 

La disoccupazione è ciò che ricatta il lavoratore, gli fa accettare ad esempio un contratto pirata che non rispetta i minimi e le tutele dei contratti nazionali siglati dai sindacati maggiormente rappresentativi. Ci sono attualmente oltre 600 contratti diversi che vengono imposti ai lavoratori per fare dumping contrattuale, mentre oltre 6 milioni di lavoratori dipendenti aspettano un normale rinnovo contrattuale e magari un ristoro dal riaccendersi dell’inflazione a tassi quasi americani.

In questi due anni di sofferenza pandemica non sono stati eliminati i paradossi italiani del mondo del lavoro: siamo ancora la nazione europea dove si lavora di più e si viene pagati di meno. In base alle rilevazioni Eurostat abbiamo la quota più alta di ore lavorate in un anno e l’incidenza più bassa del loro valore monetario sul Pil. Se i lavoratori hanno a disposizione una quota così bassa di ricchezza prodotta così bassa tutto il sistema economico rischia di farne le spese. I bassi salari significano basse contribuzioni previdenziali e mettono a rischio il sistema pensionistico, delineando un futuro nel quale insieme all’autunno demografico avremo una povertà generalizzata e un impoverimento del welfare per restringimento della base contributiva. Non una bella prospettiva neanche per mettere in cantiere un qualsiasi progetto.

·        Il Caporalato Agricolo.

Nei campi italiani un lavoratore su tre è in mano al caporalato. Gloria Ferrari su L'Indipendente l’1 dicembre 2022.

Sul nostro territorio lavorare nei campi significa ancora correre un alto rischio di trovarsi fra le mani di un caporale. Lo dice il VI Rapporto agromafie e caporalato, realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, secondo cui su 3 lavoratori agricoli, almeno 1 è irregolare. Per un totale, grossomodo, di circa 230mila addetti coinvolti (di cui 55mila donne, pagate ancora meno degli uomini e spesso vittime anche di abusi fisici), sfruttati per 300 milioni di ore di lavoro su circa 820 milioni accumulate in generale nel 2021. La filiera si muove più o meno così: "Pezzi o interi settori di produzione vengono ‘delegati’ ai caporali, attraverso la creazione di cooperative spurie e l’apertura di finte partite Iva, strumenti attraverso i quali i caporali, a loro volta, ‘subappaltano’ pezzi di produzione, irrimediabilmente incardinata sullo sfruttamento e l’intermediazione illecita di manodopera", spesso e volentieri straniera, non residente in Italia. Tale pratica, secondo il rapporto, si concentra in particolare nelle regioni del centro-sud, tra cui Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio, dove gli irregolari superano il 40%. Tuttavia non ne è esente neppure il Nord: anche in questo caso gli occupati irregolari sfiorano il 20-30% del totale. Qualche mese fa vi avevamo raccontato che in Basilicata sono stati trovati a lavorare in «condizioni inumane» all’incirca 2 mila i braccianti, soprattutto nella zona del metapontino e nel Vulture Melfese. A denunciarlo era stata Angela Bitonti, avvocato e presidente dell’Associazione diritti umani (ADU), la quale, insieme alla vicepresidente Sonia Sommacal, aveva deciso di presentare ricorso alla Corte europea per i diritti umani (CEDU) per denunciare la condizione di abbandono istituzionale nella quale vertono i lavoratori.

I braccianti «si stanziano in casolari abbandonati, specialmente nel ghetto di Boreano, dove ci sono i casolari della riforma agraria abbandonati: vivono senza luce, senza acqua, senza porte né finestre, senza arredi, con i materassi luridi appoggiati sui pavimenti, con fornelli e bombole del gas molto pericolose, qualche barile d’acqua che trasportano dalle fontane e soprattutto cumuli di spazzatura adiacenti ai casolari. Parliamo di tonnellate di rifiuti, vere e proprie discariche a cielo aperto, che insistono su territori comunali e che nessuno si preoccupa di smaltire, mettendo così a rischio la salute di queste persone, ma anche dei cittadini». Questa la denuncia fatta a Redattore Sociale.

Com’è possibile che nel 2022 si verifichino ancora condizioni lavorative come queste? In realtà, parlando di caporalato oggi –  cioè lo sfruttamento dei lavoratori irregolari, prevalentemente nel settore agricolo -, va fatta una precisazione: «Lo sfruttamento lavorativo viene perpetrato attraverso nuovi e più complessi meccanismi che vedono il coinvolgimento di attori qualificati (i cosiddetti "colletti bianchi") ed in generale figure in grado di mascherare l’illegalità attraverso un ‘gioco di scatole cinesi’, che rende ancor più complicata l’individuazione del fenomeno", hanno spiegato Carlo De Gregorio e Annalisa Giordano, curatori del rapporto. I caporali, ad esempio, si servono di contratti di lavoro solo in apparenza conformi agli standard stabiliti dalla legge. La realtà è che subentrano degli accordi verbali forzati per cui salario, condizioni lavorative e orari non corrispondono affatto a quanto stabilito nei documenti scritti. Motivo per cui, pur avendo un’occupazione spesso a tempo pieno, molti individui impiegati in questo settore hanno un reddito al di sotto dei valori medi. È questo quello che viene definito "nuovo caporalato" o caporalato industriale", un sistema che, tra le altre cose, si trascina dietro migliaia di euro di evasione ai danni dello Stato. Una situazione che sulle spalle dei lavoratori stranieri, per cui avere un contratto di lavoro è importante per ottenere o rinnovare il diritto a rimanere sul territorio, diventa un macigno ancora più pesante da sopportare.

L’Osservatorio dice che fra le 438 inchieste avviate tra il 2017 e il 2021 per motivi di sfruttamento lavorativo, quasi la metà hanno coinvolto proprio il settore primario. Si tratta tuttavia di un fenomeno talmente diffuso da coinvolgere diversi ambiti, da quello ospedaliero a quello della ristorazione. In altre parole, il caporalato c’è ovunque e c’è soprattutto dove non si vede. Per questo è necessario mettere in campo delle leggi specifiche, pensate ad hoc. La 199/2016, ad esempio, con le sue "disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura" ha introdotto delle misure indirizzate a tutelare i lavoratori stagionali in agricoltura, modificando il quadro normativo penale in quel momento in vigore. Come spiega Openpolis, tra le varie novità sono state introdotte "la sanzionabilità del datore di lavoro, l’attenuante in caso di sua collaborazione con le autorità, l’arresto obbligatorio in caso di flagranza di reato e il rafforzamento dell’istituto della confisca". Oltre alla normativa, sono stati varati poi una serie di piani che in aggiunta s’impegnano a tutelare le vittime e aiutarle a reinserirsi nel modo corretto nel mondo del lavoro. «Siamo rimasti impressionati dalla situazione di sfruttamento dei lavoratori che esiste in alcune zone, ancor più perché ci troviamo in un paese europeo con normative avanzate come l’Italia». Ha parlato in questi termini il professor Surya Deva, presidente del gruppo di lavoro Onu su Business and Human right, al termine dalla missione Onu su diritti umani e attività d’impresa portata avanti nel nostro paese.

il problema è che, come abbiamo già evidenziato, si tratta di un fenomeno alquanto difficile da individuare, a meno che non sia il lavoratore stesso a denunciare. Difficile però che questo accada quando in gioco c’è il rischio di perdere tutto, anche quel poco che si ha. [di Gloria Ferrari]

Gli invisibili dei campi la vita di chi ci sfama pagata tre euro l’ora. Michele Serra su La Repubblica il 21 Luglio 2022.

I caporali, i ghetti e le morti sotto il sole per la fatica. Il lavoro senza diritti di migliaia di stagionali agricoli.

Non si chiamano più “braccianti”, nome antico e per niente eufemistico che definiva chi, per vivere, poteva contare solo sulle proprie braccia: e quelle dava in affitto al padrone. Si chiamano operai agricoli, o lavoratori stagionali. Ma pochi lavori, pochi ruoli sociali, poche vite sono rimaste così simili nel tempo, una generazione dopo l’altra. Con una differenza: che per i braccianti ottocenteschi di Pellizza da Volpedo e quelli novecenteschi di Di Vittorio valeva un’idea di redenzione politica, e di emancipazione sociale, che oggi sembra essersi dissolta, o comunque viaggia a ranghi dispersi, senza la compattezza “di classe” del socialismo degli avi.

Caporalato in Toscana, centinaia di operai scoperti dalla Guardia di Finanza: “Pagati 2,5 euro l’ora”. Valentina Mericio il 05/05/2022 su Notizie.it.

La GdF ha scoperto centinaia di operai agricoli impiegati in tre aziende tra il 2015 e il 2019: avrebbero lavorato in nero per 15 ore al giorno. 

Avrebbero lavorato per 15 ore al giorno con una paga oraria di 2,5 euro. Queste le accuse che sono state rivolte a tre aziende agricole che, nel periodo tra il 2015 e il 2019, avrebbero impiegato centinaia di lavoratori in nero come braccianti sia italiani che stranieri e scoperti dalla Guardia di Finanza.

Stando a quanto riporta il quotidiano “La Nazione”, ad avviare l’indagine sono stati i finanzieri della Compagnia di Piombino a luglio 2019 e con il coordinamento della Procura di Livorno. 

Caporalato Toscana, scoperte centinaia di operai dalla Guardia di Finanza

I braccianti avrebbero in particolare prestato l’attività lavorativa in condizioni disumane  senza ferie e con tanto di minacce di licenziamento e aggressioni verbali. C’è di più. Questi ultimi avrebbero anche vissuto in un’abitazione dalle condizioni fatiscenti senza riscaldamento e acqua potabile.

Per questa casa i lavoratori pare che abbiano anche versato una quota per l’affitto decurtata dal loro compenso già molto basso. 

Le indagini in corso 

Nel frattempo, le persone indagate avrebbero già provveduto a versare le sanzioni amministrative a loro carico e comminate da INPS  e Guardia di Finanza per un importo di circa 5.800.000 euro. Le indagini ad ogni modo sono ancora in corso. 

Paolo Baroni per “La Stampa” il 28 marzo 2022.

C'è tanto Nord, dalle aree agricole del Mantovano e del Pavese in Lombardia, al Veneto (con una concentrazione altissima soprattutto nel Vicentino e nel Padovano) e poi tutta la Romagna e molte zone dell'Emilia e ancora il Monferrato e l'alto Cuneese in Piemonte: su 405 località dove lo sfruttamento del lavoro nei campi è più forte, «solo» 191 sono al Sud e nelle Isole, mentre ben 129 si trovano nell'Italia settentrionale. 

Questa è la «Geografia del caporalato», come recita il titolo del primo «quaderno» realizzato dall'Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, presentato venerdì scorso alla Sapienza di Roma.

La costruzione della mappa regione per regione, che in qualche modo sfata il mito del Mezzogiorno come epicentro dello sfruttamento sistematico della manodopera nei campi, è stata effettuata incrociando in maniera rigorosa e scientifica interviste on line raccolte dai sindacalisti della Flai che operano in tutto il territorio nazionale con le singole operazioni di Polizia giudiziaria e le denunce degli stessi lavoratori e del Terzo settore.

In un Paese dove, stando alle ultime statistiche, quasi 4 dipendenti su 10 risultano irregolari, la regione dove il fenomeno del caporalato è più evidente è la Sicilia, con 53 aree segnalate, a seguire Veneto con 44, quindi Puglia (41), Lazio e Calabria con 39, e poi Emilia (38), Campania (28), Toscana (27), Piemonte (22) e Lombardia 21. In totale: nel Nord Ovest risultano 45 zone, 84 nel Nord Est, 82 al Centro, 123 al Sud e 71 nelle Isole. 

«Sfruttamento, caporalato, lavoro irregolare e mancata applicazione dei contratti sono andati assumendo confini geografici sempre più ampi nel nostro Paese, annidandosi anche in comparti caratterizzati da produzioni d'eccellenza con alto margine di profitto e coinvolgendo un numero crescente di lavoratori italiani e stranieri - spiega il segretario generale della Flai Giovanni Mininni -. 

Si è radicata così in noi la convinzione sempre più forte che l'azione di denuncia dovesse proseguire e che fosse necessario avviare un percorso volto ad accendere un riflettore su questo fenomeno, per conoscerlo più a fondo e per contribuire a creare gli strumenti adatti a contrastarlo, per tutelare i tanti lavoratori coinvolti ma anche per spezzare l'odioso dumping basato sullo sfruttamento del lavoro, che fa delle aziende regolari altrettante vittime di questo sistema».

Secondo il prefetto di Reggio Emilia Iolanda Rolli, in passato commissario straordinario a Manfredonia con l'incarico della lotta al sommerso, «dietro al caporalato c'è criminalità e mafia, il caporalato è una lavatrice di soldi.

Negli ultimi anni sono state portate alla luce situazioni problematiche che confermano come nel settore agricolo italiano lo sfruttamento lavorativo sia radicato e strutturale» e colpisca soprattutto i lavoratori stranieri (il cui numero è in fortissimo aumento) «che versano in condizioni di grave vulnerabilità sociale, costretti a spostarsi tra i diversi ghetti italiani», vivendo così «in luoghi di marginalità, privi di diritti e isolati dalla società».

Per contrastare questo fenomeno, a parere del prefetto, «è necessario mettere a sistema tutte le azioni, ma bisogna partire dalla conoscenza: occorre conoscere il fenomeno campo per campo, ghetto per ghetto».

Anche per queste ragioni la Flai ha deciso di mettere a disposizione delle istituzioni e della collettività i risultati delle proprie ricerche. «Il lavoro di condivisione delle informazioni è basilare per contrastare il fenomeno e però - denuncia Mininni - dobbiamo constatare, non senza rammarico, che a distanza di oltre cinque anni dall'entrata in vigore della legge 199 lo Stato non è ancora riuscito a far rete tra le banche dati dell'Ispettorato nazionale del lavoro, dell'Inps, di Agea, così come prescritto dalla legge.

Una lacuna grave da parte delle istituzioni, a volte prigioniere di burocrazie troppo farraginose, che non permettono di trovare la giusta modalità per mettere in campo un'azione veloce ed efficace, mentre la criminalità si muove e prospera con enorme rapidità». 

Secondo Mininni è infatti «fondamentale non abbassare la guardia, in particolare in questa difficile congiuntura economica determinata dalla pandemia, perché quest'ultima non diventi ulteriore elemento di giustificazione per perpetrare illeciti e sfruttare i lavoratori».

·        Gli schiavi dei Parlamentari.

I finanziamenti fantasma alle coop: non c'è solo il ghetto dei migranti. Gli scandali che riguardano le grandi cooperative di accoglienza sono all'ordine del giorno, nel silenzio delle istituzioni. Bianca Leonardi il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

“Non ne sappiamo niente, sulla piattaforma istituzionale non riusciamo ad avere la documentazione. Non abbiamo notizie su Borgo Mezzanone, non abbiamo conoscenza di chi lo sta gestendo al momento”. Così fa sapere a IlGiornale.it Fratelli d'Italia dal Consiglio Regionale pugliese in merito all’erogazione fantasma, che non presenta l’aggiudicatario, di circa 700mila euro da parte del presidente Emiliano per la gestione dell’accoglienza nel ghetto foggiano. Un alone di mistero sulla gestione migranti che, come abbiamo già documentato, riguarda principalmente i grandi colossi dell’accoglienza. Al centro di questi pochi chiari collegamenti tra enti istituzionali e gestori, quello della Regione Puglia non è sicuramente l’unico esempio, anzi.

Altro caso eclatante è quello che riguarda l’ex coop Ecofficine Edeco di Padova, coinvolta in uno scandalo giudiziario nel 2019 che ha visto come indagati - oltre al presidente e parte del cda - anche gli allora vice prefetto, vice prefetto vicario e un funzionario sempre della prefettura. Le accuse principali erano quelle di frode nelle pubbliche forniture, tentata truffa e malagestione del hub migranti. Si scopre, però, che dalle ceneri di Edeco opera oggi una nuova società - Ekene - che presenta il solito gruppo dirigente ma opera con nuove ragioni sociali. All’interno del cda di Ekene, nata formalmente nel 2020, troviamo infatti Simone Barile, ex presidente Edeco e indagato, la moglie - anch’essa indagato ed ex vice presidente Edeco - Sara Felpati e Annalisa Carrara, già presente nel cda della vecchia coop. Nonostante ciò, la nuova creatura è al centro delle vincite di numerosi bandi: ultimo quello di quest’anno che ha portato nelle tasche di Ekene ben 847mila euro per un solo anno, erogati dalla prefettura di Nuoro per la gestione dell’unico centro permanente di rimpatrio in Sardegna.

E sempre di prefetture si parla consultando i documenti di un’altra delle più grandi realtà italiane: la siciliana Badia Grande o anche - come la definiscono i giornali locali - “asso pigliatutto dell’accoglienza. La storia di questa coop nasce con la condanna del fondatore, Don Sergio Librizzi - ex numero uno della Caritas di Trapani - per induzione alla corruzione e, si scopre, abbia gestito, accanto a Medihospes, anche il Cara di Mineo, il centro accoglienza invischiato nell’inchiesta di Mafia Capitale.

Oggi il presidente, Antonio Manca ha all’attivo un processo su richiesta della procura di Bari con l’accusa di aver frodato lo Stato, un’inchiesta ad Agrigento e un processo a Trapani per truffa allo Stato. Ed è proprio a Trapani che qualcosa non torna: nel 2021 infatti la prefettura aveva affidato un bando da 18 milioni di euro alla coop nonostante le indagini del patron Manca fossero giù terminate e dichiarato colpevole. Dal canto suo la Prefettura, quando venne fuori la cosa, disse di non sapere e che “se avesse saputo, questo fatto avrebbe potuto influire sulla scelta”. In realtà sembrerebbe che la Procura di Trapani avesse comunicato l’iter alla prefettura e proprio questa non si sarebbe costituita parte civile.

Ma c’è di più: la stessa prefettura di Trapani tra il 2021 e il 2022 ha erogato alla coop più di 778 mila euro per l’hotspot siciliano di Pozzallo. A ciò si aggiunge l’hotspot di Lampedusa che la Badia Grande ha vinto con un appalto da 2,9 milioni di euro.

Il Bestiario, il Lavorathoro. Il Lavorathoro è un essere leggendario che adora i lavoratori soprattutto la domenica. Giovanni Zola l’1 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il Lavorathoro è un essere leggendario che adora i lavoratori soprattutto la domenica.

Il Lavorathoro nasce nel 1980 a Bétroulilié, in Costa d’Avorio. La leggenda narra che la prima parola pronunciata non fu “mamma”, non fu “papà” e non fu neanche “betoniera”, bensì proprio “lavoratore”. Da piccolo, invece delle macchinine o dei soldatini, si faceva regalare strumenti da lavoro come pale, picconi e cazzuole. Già alle elementari fonda un suo piccolo sindacato “Più merende per tutti” (PMT), per condividere le merendine con i compagni di classe più poveri.

Nel 1999, a 19 anni, il Lavorathoro si trasferisce in Italia e si laurea in Sociologia nel 2010 a soli 30 anni. Per non smentire la sua passione per i lavoratori scrive una tesi dal titolo: "Analisi sociale del mercato del lavoro. La condizione dei lavoratori migranti nel mercato del lavoro italiano: persistenze e cambiamenti". Purtroppo il suo relatore muore di vecchiaia mentre legge il titolo a causa della lunghezza. Malgrado l’incidente il Lavorathoro non si perde d’animo nella difesa della sua causa.

Nel 2012 organizza una marcia dei “senza carta d’identità” che attraversano 6 paesi europei senza documenti per chiedere la libertà di circolazione, in realtà appena esce di casa non viene arrestato per miracolo. Ma il Lavorathoro continua la sua battaglia senza arrendersi.

Diventa sindacalista del Coordinamento Agricolo occupandosi soprattutto della tutela dei diritti dei braccianti. In questo frangente il Lavorathoro chiede al governo Conte un tavolo operativo di contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura. Il tavolo però ha una gamba più corta per cui la riunione si riduce alla ricerca da parte dei Ministri di un pezzo di cartone per non far traballare il tavolo.

Il 16 giugno 2020 il Lavorathoro si incatena facendo un simbolico sciopero della fame e della sete con lo scopo di essere ascoltato dal Governo. Purtroppo perde le chiavi del lucchetto e rimane incatenato per davvero per tre settimane perdendo quindici chili. Ma la sua passione per i lavoratori non si affievolisce.

Alle elezioni politiche del 2022 il Lavorathoro viene eletto nella lista Alleanza Verdi e sinistra. Grande vittoria per lui che può finalmente occuparsi dei lavoratori dall’interno del Parlamento e farsi dare del lei.

Il 24 novembre 2022 il Lavorathoro si autosospende dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra, per non aver pagato lo stipendio ai lavoratori delle sue cooperative. Del Lavorathoro non si hanno più notizie.

Aboubakar Soumahoro, le coop gestite da moglie e suocera al centro di accertamenti. Lui: «Nessuna indagine su di me». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022 

La procura di Latina ha avviato accertamenti sulle cooperative gestite da moglie e suocera di Aboubakar Soumahoro, dopo le denunce di un sindacato. Al momento non ci sono ipotesi di reato, e il deputato ha smentito ci siano indagini su di lui 

La procura di Latina, tramite i carabinieri del comando provinciale, ha avviato accertamenti sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Aboubakar Soumahoro in seguito alle denunce di un sindacato su presunte irregolarità nei pagamenti dei dipendenti. 

L’indagine è al momento puramente «esplorativa» perché non ci sarebbero profili penalmente rilevanti e il fascicolo non ipotizza reati. 

Lo stesso deputato ha precisato, in un post su Facebook, di non essere «né indagato né coinvolto in nessuna indagine», e di aver «dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione».

Gli accertamenti

Gli accertamenti in corso sono l’appendice di una vicenda fondata su presunte irregolarità amministrative e già finita davanti all’Ispettorato del lavoro che alcune settimane fa aveva portato a un accordo sul riconoscimento di pagamenti arretrati ai lavoratori della Karibù e del Consorzio Aid che ne avevano sollecitato il saldo. 

Le nuove denunce del sindacato Uiltucs, che ricalcano in parte quelle di esponenti locali di CasaPound, adombrano altre irregolarità gestionali, legate alle condizioni di lavoro all’interno dei centri di accoglienza per immigrati.

 Le denunce sulle condizioni igienico sanitarie delle strutture

Negli anni scorsi le due sigle erano arrivate a contare in totale 150 dipendenti, impiegati in progetti Sprar a Sezze, Terracina, Roccagorga, Monte San Biagio e Priverno oltre che in numerose strutture, tra Centri di accoglienza straordinari e centri per i minori in tutta la provincia.

Il sindacato ha raccolto alcune testimonianze sulle condizioni igienico-sanitarie non ottimali di queste strutture. 

I ritardi nei pagamenti delle mensilità dovute, hanno argomentato le coop al momento di essere ascoltate dall’ispettore del lavoro, sarebbero un effetto a catena legato ai ritardi nei trasferimenti dei pagamenti riconosciuti dal ministero dell’Interno per la gestione di questi servizi in appalto tramite la prefettura. 

L’assistente sociale di origini ruandesi Marie Thérèse Mukamitsindo, fondatrice della Cooperativa sociale Karibù, è stata insignita nel 2018 del primo Moneygram come imprenditrice immigrata che più si è distinta nella sua attività.

Soumahoro, i migranti e gli affari di famiglia: «Alla fine si chiarirà tutto». Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.

Stipendi mal pagati, irregolarità: il deputato parla delle accuse a moglie e suocera: «Io è 22 anni che sto in strada se non sei pulito in strada non cammini. Il fango mediatico non ci fermerà»

Dice che «nei campi dell’Agro Pontino» andava a fare «l’alfabetizzazione dei braccianti», altro che imbrogli di famiglia. E ogni tanto gli scappa di parlare di sé in terza persona, come Giulio Cesare o Berlusconi: «Aboubakar non è lì per Aboubakar, ma per volontà popolare».

Chissà se, nella laboriosa edificazione del suo ego, in certe notti di stanchezza gli ricompare davanti Soumaila Sacko, come il fantasma di Banco. In fondo proprio la morte di Soumaila, ammazzato a fucilate nelle campagne il 2 giugno 2018 da un malacarne calabrese per due tavole di legno, proietta lui, Aboubakar Soumahoro, a nuova vita. E che vita: da voce della vittima, prima, a voce di tutte le vittime dell’ingiustizia planetaria, poi; dai talk show ai salotti tv, adulato sulle copertine (lui di qua, Salvini di là, titolo «Uomini e no») fino a un seggio parlamentare celebrato presentandosi a Montecitorio con gli stivali sporchi dei campi e il pugno chiuso, «piedi nel fango della realtà e spirito nel cielo della speranza», alla faccia della retorica. Per una sinistra dal cuore di simboli affamato, uno così è quasi meglio di Mimmo Lucano.

Adesso che il mondo ingrato gli si rivolta contro e la Procura di Latina indaga su cooperative dove appaiono la moglie Liliane e la suocera Marie Terese tra storiacce di pagamenti mancati ai cooperanti e condizioni indecenti nei centri d’accoglienza dei profughi, c’è chi, come i ragazzi del Collettivo Jacob Foggia, vecchi compagni d’un tempo, lo accusa di avere «surfato» sulle disgrazie altrui, «lo sterminato esercito bracciantile di migliaia di migranti», proprio cominciando da quella campagna insanguinata dove cronisti e telecamere lo adottarono, colto e facondo, nero come Soumaila e pronto a parlarne come fosse suo fratello.

«Io ero in Calabria da prima del 2018, è ventidue anni che sto in strada, ho dormito in strada a Napoli, se non sei pulito per strada non cammini. Chi parla oggi dov’era?», replica lui, garbato ma stizzito. La grana politica è esplosa, i giornali scrivono di «cooperative di famiglia». «Sa, sono molto preoccupato. Non sottovaluto questi attacchi mediatici. Ma, a chi vuole seppellirmi politicamente, dico: mettetevi l’anima in pace, il fango mediatico non ci fermerà». Spiega di essere per «un sovranismo internazionale solidale» ma non provate a chiedergli lumi, perché Soumahoro forse non surferà sugli esseri umani ma, come tutti i veri politici, surfa sulle domande e continua nel suo copione come fosse sordo: «Non appartengo alla politica liquida», dice, «ho un’identità: sono la voce di 600 mila italiani che non riescono a curarsi. Non tentate di zittirmi!». In realtà non è da escludere che qualcuno tenti piuttosto di farlo parlare.

È lunga e ripida l’arrampicata di Aboubakar: dalla natia Costa d’Avorio alla Napoli dove riesce a laurearsi alla grande (110 in sociologia), dall’Unione Sindacale di Base al mito di Di Vittorio, sino a un sindacato a sua misura, la Lega Braccianti, e a un divorzio non proprio amichevole con l’Usb. Prima grana, una raccolta fondi al tempo del lockdown di cui non è chiarissima, secondo alcuni, la destinazione: «Macché», replica lui, «a Foggia c’è il bilancio della Lega Braccianti, è tutto online, il resto è fango. Io ho portato cibo e mascherine in giro per l’Italia, con mia moglie a sostenermi, ho lasciato un neonato a casa per accudire i bisognosi».

Dall’immedesimazione con Di Vittorio in poi, il nostro ha sviluppato una declinazione della lotta di classe modernamente trasversale: «Sono antifascista e patriota. Se “loro” hanno perso la connessione sentimentale col popolo se la prendano con sé stessi. Io ho idee diverse da Meloni e Salvini, ma darò una casa politica a partite Iva, Pmi, artigiani e operai. Sono il mio mondo, quello che incrocio alle sei di mattina quando vado in autobus in Parlamento», tuona, lasciandoci a interrogarci su chi diavolo trovi in Parlamento a quell’ora.

Infine, il suo magmatico universo s’incrocia a Latina con uno gnommero locale di cui tutti conoscono il groviglio. Dopo anni di omertà, arrivano le denunce del sindacato Uiltucs e un’ispezione parlamentare del 2019 riemersa dagli archivi, e viene al pettine la storia della cooperativa Karibu e del consorzio Aid: di fatto in mano a mamma Maria Terese Mukamitsindo, profuga ruandese arrivata trent’anni fa, e alla figlia Liliane Murekatete, che segue la madre coi fratelli poco dopo. In piena emergenza migratoria, a metà degli anni Dieci, la Karibu si allarga fino a una trentina di centri d’accoglienza nel basso Lazio, tra Sezze e l’Agro Pontino. Non si sta a guardar tanto per il sottile. «A quei tempi la Prefettura ci diceva: qualunque posto troviate, infilateci i migranti», racconta Carlo Miccio, che ha lavorato nel centro sull’Appia e ne ha tratto persino un romanzo (Copula Mundi): «Ho retto quattro mesi, poi mi hanno allontanato, ma ho visto di tutto: la pioggia nelle camerate affollatissime, i rifiuti non rimossi, il caos. Sono entrato con 48 migranti, erano arrivati a 100, ragazze della tratta e ragazzi dei barconi mischiati. Mesi di stipendio arretrati». I migranti rendono, come si diceva ai tempi del Mondo di Mezzo. «Se vuoi mettere su un impero, continui a prendere ragazzi, anche se la struttura non li regge».

Uno di quei ragazzi ha animato nel 2017 la protesta di Borgo Sabotino. È un trentenne grande e grosso, venuto dal Mali, si chiama Mahmadou Ba: «Faceva un freddo bestia, il cibo era da buttare, tanti di noi uscivano per lavorare in nero». Mahmadou sostiene di essere stato molto legato a Liliane e di avere provato grande ammirazione per Soumahoro, conosciuto in piazza a Latina l’estate del 2018: «Condividevamo gli ideali». Poi qualcosa si rompe, si finisce a diffide dai carabinieri. In questa storia è difficile scindere il pubblico dal privato: e l’incrocio privato tra le vite di Liliane e Aboubakar Soumahoro è proprio di quell’estate. Miccio ammette: «È vero, lui arriva dopo. Ma madre e figlia gli hanno nascosto tutto? Poteva non sapere? E, se sai ‘sta cosa, poi ti metti gli stivaloni in Parlamento?». La lista di guai può essere lunga. Gianfranco Cartisano della Uiltucs parla di «arretrati coi lavoratori per 400 mila euro e fino a 22 mensilità non pagate». Possibile che in casa l’argomento fosse tabù?

Soumahoro è prudente: «Non voglio eludere le domande, ma non avendo vissuto nulla di questa vicenda finirei per fare un’informazione approssimativa con un’indagine della Procura in corso». È protettivo verso il suo amore: «Mia moglie è attualmente disoccupata. Non ha nessuna cooperativa. E quando l’ho conosciuta già lavorava nel mondo dell’accoglienza. Quando vorranno sentirla, fornirà tutti i chiarimenti».

Ma la questione più grave non è penale. I referenti della memorabile ascesa sono sconcertati. Uno di loro, un parlamentare che chiede anonimato, sbotta: «Cado dalle nuvole e sono incavolato come una bestia!». Non poteva non sapere è un teorema giudiziario controverso. «E infatti non piace neanche a me», dice il sociologo Marco Omizzolo, animatore di mille battaglie per i diritti dei braccianti nel Pontino: «Però la faccenda è politica. Non si può credere a uno stato diffuso di ingenuità. E a Latina tutti sapevano». 

«Ho fatto una leggerezza». I tormenti di Bonelli che candidò Soumahoro. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022

La richiesta con Fratoianni dopo l’indagine: devi chiarire. Dopo aver visto uno dei centri la ex senatrice di Sinistra italiana Fattori disse: in quel posto manco i cani

Da qualche notte, sospira e non ci dorme. Del resto, sua moglie Chiara, una militante trentina tosta che ci crede fino in fondo, lo rimprovera a ogni sorso del caffè mattutino: «Ma che cavolo hai combinato, Angelo?». Già, ci si può intossicare una felice vita politica e familiare per uno sbaglio? Lui, Angelo Bonelli, uno che ci crede perfino più di lei (sul profilo di Wikipedia ha scritto «attivista»), proprio non si dà pace: «Ho commesso questa leggerezza», mormora agli amici, sfogandosi solo con chi gli sta vicino perché, no, in pubblico non vorrebbe proprio comparire, comprendetelo.

La «leggerezza» ha le espressioni cangianti e l’eloquio fluviale dell’ultimo eroe della sinistra radicale: Aboubakar Soumahoro, il talentuoso ivoriano che s’è imposto all’attenzione dell’Italia come portavoce dei braccianti e dei migranti diseredati e, con questa etichetta, è riuscito prima a farsi venerare dai talk show televisivi e poi a farsi eleggere deputato nella lista Alleanza Verdi e Sinistra, entrando a Montecitorio con gli stivali sporchi del lavoro nei campi («piedi nel fango della realtà e spirito nel cielo della speranza», ha spiegato su Facebook, con tanto di foto a pugno chiuso).

Insomma, vagli a dar torto, ad Angelo. Imbarcare un simile fuoriclasse (in tandem con Ilaria Cucchi) sul fragile battello condotto assieme a Nicola Fratoianni verso le elezioni del 25 settembre gli pareva un’apoteosi benedetta dal sol dell’avvenire o dal sole che ride, vedete voi. Il 10 agosto, quando ne annunciò la candidatura, si commosse persino: «Sono molto emozionato nel dirvi che Aboubakar Soumahoro ha accettato di presentarsi con noi: è una figura importante, un attivista che difende da vent’anni gli Invisibili».

Tutto giusto, tutto vero. Non fosse che per quei fastidiosi dettagli saltati fuori dalle campagne del Basso Lazio, tra Latina e Sezze, noti già da molti anni ma diventati di stringente attualità ora che Soumahoro è un politico eletto e dunque ha rilievo pubblico ciò che prima era solo privato: la sua compagna Liliane e la suocera Marie Terese appaiono dominanti dentro una cooperativa, la Karibu (con la cognata Aline nel collegato consorzio Aid). Su questo magma societario e contabile indaga la Procura pontina, tra croniche storiacce di pagamenti mancati ai cooperanti e cicliche rivolte dei profughi per le indecenti condizioni dell’accoglienza, dalla qualità del cibo alle camerate gelide e sovraffollate. Posti dove «non avrei messo manco i cani», secondo l’ex senatrice Elena Fattori di Sinistra italiana dopo un sopralluogo. Soumahoro non c’entra nulla con Karibu ed è entrato nella vita di Liliane solo nel 2018: dunque non è indagato e evidentemente non lo sarà. Però è un po’ come se un guardacaccia mangiasse, politicamente parlando, selvaggina di frodo. Attenzione: sul piano giudiziario la massima cautela è d’obbligo verso Marie Terese, Liliane e Aline, siamo alle indagini preliminari.

Ma le tante voci di protesta dei ragazzi venuti fuori imprecando dai centri Karibu non sono un bel viatico per una vita da neodeputato degli oppressi. E non aiutano le foto da vamp di Liliane, tra borse e occhiali di lusso in hotel pluristellati, che fanno capolino perfino dai profili social della Karibu. Non aiutano i suoi rimandi continui a marchi di alta moda, che le hanno guadagnato a Latina il nomignolo di Lady Gucci. È questo il punto cruciale. Sicché il grande freddo cala nella gauche, s’insinua nell’anima dei due leader che hanno messo in lista chi si presentava come una specie di nuovo Di Vittorio. Fratoianni, formazione comunista, verga un’austera nota dei rossoverdi in cui ribadisce rispetto e vicinanza a Soumahoro e alla «sua storia» ma riconosce «il rilievo politico dei fatti contestati» per chi come lui «riveste un ruolo pubblico», chiedendogli un incontro di chiarimento. Fuori dal gergo da comitato centrale, lo sconcerto è palese.

Bonelli, cultura movimentista, è più incline all’emozione, che filtra come l’acqua piovana nelle camerate della cooperativa Karibu. Il primo «momento di tensione» con Aboubakar «nasce a metà settembre», quando Fanpage racconta un’altra storia che, stavolta sì, lo coinvolge direttamente ma è tutta da dimostrare e riguarda l’utilizzo degli euro delle raccolte fondi promosse dalla Lega Braccianti (la creatura sindacale da lui creata) per il sostegno ai bisognosi. Gli dicono: «Devi chiarire, gira tutto sui social». Lui replica: «Ho messo tutto in mano agli avvocati» e non spiega più nulla ai suoi compagni. Quando la grana Karibu esplode, smette anche di rispondere alle loro telefonate. Ma il momento più amaro arriva quando nelle ultime interviste l’irrequieto Aboubakar vagheggia «una nuova casa politica», dicendo «basta con questa sinistra senza identità» e strizzando l’occhio al bacino di Salvini, partite Iva e imprese piccole e medie. «Ma come? Non solo ci deve delle risposte, non solo gli abbiamo dato un seggio blindato, adesso pensa al millesimo partito personale?». E dunque, avanti così, con un’altra bandiera bruciata nel falò mitologico della sinistra radicale. E con un altro corpo a corpo con l’insonnia per Angelo, rimuginando su quando parlava di sé, Fratoianni, Soumahoro e la Cucchi come di una «bellissima famiglia allargata». Col buio certi ricordi bruciano. Perché è molto facile fare i superiori su ogni cosa di giorno, ma di notte, diceva Hemingway, è tutta un’altra faccenda.

Le accuse alla suocera di Soumahoro (e l’incontro di Alleanza Verdi e Sinistra, stamattina). Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022. 

Convocato da Bonelli e Fratoianni. Nuova interrogazione di Gasparri

La giornata è stata un susseguirsi di colpi di scena. Meglio: di colpi d’inchiesta. Ed è nel tardo pomeriggio che Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni hanno chiamato Aboubakar Soumahoro nella stanza del loro gruppo di Alleanza Verdi e Sinistra per un faccia a faccia serrato. È finito alle nove di sera. Ma è stato soltanto un primo round. Ci sarà un altro incontro stamattina.

Bonelli e Fratoianni lo hanno guardato a lungo negli occhi, Aboubarak. Per tutta la giornata lo avevano ignorato. Per capire: il pomeriggio con Fratoianni neanche uno sguardo nel Transatlantico di Montecitorio.

La vicenda scotta. La gestione delle società di famiglia è finita sotto inchiesta e la suocera del sindacalista ivoriano, Marie Therese Mukamitsindo, risulta ora indagata. Le accuse sono pesanti: non pagavano i lavoratori e non versavano nemmeno i contributi. Proprio «in casa» di Soumahoro, che sulla lotta per i braccianti ha fondato la sua carriera politica.

Un caso sempre più delicato e una giornata convulsa, quella di ieri, dopo la notizia dell’iscrizione della suocera nel registro degli indagati. Uscito dall’aula di Montecitorio poco prima dell’incontro con i suoi due leader, il sindacalista ivoriano è rimasto sempre attaccato al suo telefonino. Gli occhi a guardare il velluto del pavimento.

Da Palazzo Madama è arrivata la notizia che il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, Forza Italia, ha depositato un’interrogazione parlamentare sul caso. Un’altra. Dice Gasparri: «L’interrogazione è sulle vicende che riguardano i possibili casi di sfruttamento di lavoratori stranieri impegnati nel settore agricolo a Latina e altrove».

Altrove: per Soumahoro spuntano problemi anche in provincia di Foggia. A sollevare dei dubbi, contro il parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra, questa volta è la Caritas di San Severo, nel Foggiano, e cioè nella zona dove il neo-deputato ha condotto in passato alcune delle sue più vistose battaglie per i diritti dei braccianti. Problemi con i finanziamenti per comprare i giocattoli, in questo caso: troppi soldi per pochi bambini.

La voce più forte si leva dalla Uil. È il sindacato che ha sollevato il caso delle cooperative Karibe e Consorzio Aid, quelle che fanno capo alla moglie e alla suocera di Soumahoro. «Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale?». Gianfranco Cartisano è il segretario della Ulitucs di Latina. Dice: «Oggi per noi rimane un unico obiettivo, quello di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: vogliamo stipendi subito».

Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione, si leva in una difesa di ufficio: «Aboubakar Soumahoro potrà avere tutte le colpe del mondo, ma il processo mediatico è pazzesco».

Soumahoro, un testimone: «Io pagato due volte per due anni di lavoro, Aboubakar sapeva». Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2022.

L’unica indagata, per malversazione ai danni di dipendenti non pagati, attualmente è Marie Therese Mukamitsindo, legale rappresentante della cooperativa Karibu dedita all’accoglienza di rifugiati, molti dei quali minori. Ma da documenti, testimonianze, visure catastali, emerge il mondo di Abubakar Soumahoro: oltre alla suocera Maria Therese nella gestione della Karibu era coinvolta la compagna Liliane Murekatete, consigliera fino a settembre scorso, e nel Consorzio Aid, sempre riconducibile a Marie Therese agivano i figli di lei Michel e Aline. Ma forse non era un mondo solidale e trasparente.

Soumahoro, deputato di Verdi-Si, in lacrime, sui social ha promesso di scioperare accanto ai dipendenti di quelle cooperative se risulterà che sono stati sfruttati. Ma c’è chi accusa: «Soumahoro lo sa. Era lì, portava la spesa. Era la sua famiglia. Lui era a conoscenza di quello che accadeva lì dentro».

Youssef Kadmiri, 42 anni, è un ingegnere nato a Marrakesh e non parla per sentito dire. È un testimone e una vittima di quello sfruttamento. E racconta al Corriere qualcosa di molto più grave di ciò che è emerso. Dice di essere stato pagato «due volte in due anni». Meno di quanto pattuito: «Un totale di 6mila euro». Senza contratto, come altri suoi colleghi, alcuni dei quali ricevevano «bonifici dal Ruanda». «Ero operatore sociale, traducevo ai ragazzi che venivano dalla Libia, dall’Albania, dal Bangladesh, dal Marocco. Ma poi facevo anche manutenzione. La guardia la notte. L’orario non era giusto. Tante volte ho chiesto il contratto, sempre scuse. E lo stipendio di 1000-1200 euro non arrivava. Dicevano “mi dispiace”. Ma io dovevo pagare l’affitto. Dopo 6 mesi ho avuto 3.000 euro. Poi niente per un anno e mezzo. Poi solo altri 3.000». Ma soprattutto Yuseff accusa: i minori che erano nella struttura venivano tenuti in una «situazione grave: gli davano poco da mangiare e non gli davano il “poket money”», la diaria per le spese personali. «Avevano sempre fame. Ora sono in altre strutture, hanno luce e acqua, se stanno male li portano in ospedale, non è come era lì. E tutti sapevano». Conferma al Corriere Shick Mohammed, egiziano, 18 anni appena compiuti: «C’era poco da mangiare, non ci compravano vestiti: lavoravo nei campi per potermi comprare calzini e scarpe. Giuro. Stavo male».

Sarà l’indagine, condotta dal nucleo provinciale di Latina della Guardia di Finanza, a chiarire ogni aspetto di questa vicenda sulla quale l’ispettorato nazionale del lavoro conferma che sono «in via di conclusione ispezioni aperte in base alle denunce di alcuni lavoratori».

Ma gli indizi che ci si approfittasse dei dipendenti sembrano esserci. In un verbale della prefettura di Latina si riconosce a 4 lavoratori della società Consorzio Aid, sempre riconducibile a Marie Therese, il pagamento della retribuzione che avrebbe dovuto versare la cooperativa: «Si procederà ad attivare l’intervento sostitutivo ai sensi dell’articolo 30 comma 6 del Dl 50/2016». Un formale riconoscimento dell’inadempienza. Infatti Marie Therese era stata convocata. Aveva ammesso ma chiesto una rateizzazione. Poi, dalla prima rata, aveva continuato a non pagare. E in quel caso l’ha fatto la prefettura, ente appaltante. Ma ce ne sono altri. «C’era chi non riceveva lo stipendio da 6 mesi, chi addirittura da 22. Sono arrivati da noi in 26 ma stimiamo che in 150 non hanno avuto una regolare retribuzione», spiega il sindacalista Uiltucs Gianfranco Cartisano. E respinge sospetti di manovre: «Non abbiamo colore, chiediamo solo che il prefetto convochi un tavolo affinché tutti vengano pagati».

Coop sotto inchiesta, parlano moglie e suocera di Soumahoro: "Chi denuncia è manipolato dai sindacati. Vogliono affossare Aboubakar". Fabio Tonacci su La Repubblica il 21 Novembre 2022.

Il video in lacrime Il deputato Aboubakar Soumahoro, eletto con Sinistra italiana, in cui si difendeva dalle accuse: "Perché mi fate questo? Mi volete morto" 

Liliane Murekatete e Maria Therese Mukamitsindo rilasciano la prima intervista a Repubblica dopo la notizia dell'indagine su mancati pagamenti, malsane condizioni dei centri denunciate dai minorenni e violazioni dei contratti: "Tutto è stato speso per i rifugiati. Lo Stato non ci ha rimborsato per questo ci sono stipendi non pagati"

Qualche errore è stato fatto, ma Maria Therese Mukamitsindo giura che non un euro di denaro pubblico sia finito nelle sue tasche o in quelle dei suoi familiari. "Tutto è stato speso per i rifugiati, ai quali ho dedicato 21 dei miei 68 anni. Tutto è rendicontato e posso provarlo".

La signora, originaria del Ruanda, è presidente della coop Karibu, nata nel 2001 nell'Agro pontino, che dopo la Primavera araba gestiva 154 dipendenti per 600 posti letto, divisi in progetti Sprar e Cas.

Latina, inchiesta sulle coop della famiglia Soumahoro. Clemente Pistilli su La Repubblica il 18 Novembre 2022 

Sotto accusa moglie e suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra

Prima le vertenze per circa 400mila euro di stipendi non pagati ai dipendenti, poi le ipotesi di fatture false chieste ai lavoratori e infine le accuse di migranti minorenni che lamentano condizioni terribili nelle strutture dove sono ospitati, prive anche di energia elettrica e acqua corrente. Nel giro di un mese il quadro sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, si è fatto sempre più fosco. Abbastanza per portare la Procura di Latina ad aprire un'inchiesta e i carabinieri a indagare. 

L'onorevole, paladino dei braccianti, ha fatto ingresso alla Camera indossando degli stivali di gomma eha sostenuto che "non devono essere più intrisi dal fango dell'indifferenza e dello sfruttamento". Ora però lui stesso si è trovato a far fronte a una serie di denunce presentate dal sindacato Uiltucs e diventate oggetto di accertamenti da parte della magistratura. "L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti", ha raccontato al sindacato Nader, un minorenne ospite di una delle strutture per migranti gestite a Latina dalle coop Consorzio Aid e Karibu. "Ci hanno anche maltrattati", ha sostenuto il 17enne Abdul. E così altri. Nel corso degli anni, tra l'altro, ci sono state diverse proteste da parte di migranti ospiti delle coop di MarieTerese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, suocera e moglie dell'onorevole. Ventisei lavoratori delle cooperative, non ricevendo in alcuni casi lo stipendio da due anni, si sono rivolti all'Ispettorato del lavoro. 

Ad alcuni lavoratori, secondo le denunce, sarebbero poi state chieste fatture false per ottenere i pagamenti. Una modalità confermata da alcune chat consegnate alla Procura di Latina. "Portami la settimana prossima fattura di metà importo", veniva scritto a quanti chiedevano lo stipendio. "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?", chiede il segretario della Uiltucs, Gianfranco Cartisano. Soumahoro, che Repubblica ha cercato di contattare sia lunedì che martedì per un commento, non ha riposto ai messaggi. Ieri invece, pur senza pronunciarsi sulle accuse mosse alle coop di moglie e suocera, ha affidato la sua replica a un post sui social: "Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine. Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale. Ho dato mandato ai miei legali di perseguire chiunque getterà ombre sulla mia reputazione". 

"Il sistema dell'accoglienza ha basi solide a Latina e in provincia ma ora rischia di venire giù", dichiara intanto Angelo Tripodi, capogruppo della Lega nel consiglio regionale del Lazio.

Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 17 novembre 2022.

Sopravvissuti a viaggi infernali attraverso l'Africa e alle onde del Mediterraneo, soli e fragili, diversi migranti ragazzini arrivati nel Lazio avrebbero trovato un altro inferno. Denunciano di essere stati maltrattati e privati anche dei servizi essenziali, come luce e acqua, nelle strutture di due cooperative pontine, gestite dalla suocera e dalla moglie del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Aboubakar Soumahoro, a cui sono stati affidati progetti finanziati dalla Prefettura pontina e da altri enti. 

Le denunce al sindacato Uiltucs al vaglio della Procura di Latina

Quei racconti fatti al sindacato Uiltucs sono ora al vaglio della Procura di Latina, che ha aperto un'inchiesta. E i carabinieri stanno già indagando, partendo da quanto riferito da una trentina di lavoratori delle coop Karibu e Consorzio Aid, i quali sostengono in alcuni casi di non ricevere lo stipendio da quasi due anni, che sono stati costretti a lavorare in nero, che gli accordi raggiunti davanti all'Ispettorato del Lavoro sono stati disattesi e che alcuni di loro si sono visti anche chiedere fatture false per poter ottenere la paga.

Una vicenda torbida, su cui gli investigatori stanno cercando di far luce. Già sono stati acquisiti diversi documenti, partendo dalle denunce fatte dai minori al sindacato e dagli screenshot delle chat tra i vertici delle coop e alcuni lavoratori, oltre a documentazione sempre delle cooperative trovata in dei cassonetti a Sezze, dove ha sede la Karibu. 

La denuncia dei minorenni: "Lasciati al buio, senza cibo e acqua"

"L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti. Stavamo lavorando e poi ci hanno spostato in un posto a Napoli peggiore del primo e tutti quelli che lavorano qui sono razzisti". A lanciare un grido di dolore è Nader, un minorenne ospite di una delle strutture per migranti a Latina gestite dalle coop della suocera e della moglie dell'onorevole Soumahoro. 

Una storia simile a quella di Ziyad, 16 anni: "Il cibo non era buono e non c'era acqua né elettricità. Dopo tutto questo hanno chiuso a chiave questa casa perché non c'erano soldi". Oltre a Nader e a Ziyad, a rivolgersi a Uiltucs sono stati poi Ahmed, che ha lamentato di non aver ricevuto dalle cooperative denaro e vestiti e che il vitto "non era buono", e Abdul, 17 anni: "L'ultimo mese non c'era acqua né elettricità... ci hanno mandato tutti in posti cattivi e anche maltrattati". 

Il sindacato Uiltucs chiede chiarezza

Sinora la coop Karibu, fatta eccezione per qualche problema, è uscita indenne dalle accuse che sono state mosse a cooperative che gestiscono centri per migranti e che anche nell'agro pontino sono finite al centro di indagini con tanto di arresti, ipotizzando che gli stranieri venissero abbandonati a loro stessi e il denaro destinato all'accoglienza finisse nelle mani dei gestori delle strutture. 

Ora invece arrivano accuse pesanti e a farle sono dei minorenni, i più fragili, chiedendo aiuto a un sindacato che da tempo si sta battendo per chiedere chiarezza. Tanto sulla Karibu, guidata da Marie Terese Mukamitsindo, presidente del Consiglio di amministrazione, e che ha come consigliera Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, che nel 2021 ha anche ricevuto contributi a fondo perduto Covid per 227 mila euro ma che ha accumulato debiti milionari. 

Tanto sul consorzio Aid, che dovrebbe essere un'Agenzia per l'inclusione e i diritti, e che nel 2020 ha ottenuto l'affidamento di vari servizi per stranieri dalla Prefettura di Latina, dal Comune di Latina e da quello di Termoli, dove siede nel cda sempre Mukamitsindo. 

L'ombra delle fatture sospette

Secondo Uiltucs di Latina, che sta lottando affinché vengano pagati lavoratori che hanno operato nelle due coop e che in alcuni casi non avrebbero ricevuto lo stipendio per quasi due anni, potrebbero essere state chieste anche fatture false da utilizzare per alcuni pagamenti. Il particolare è stato riferito al sindacato da dipendenti delle cooperative che stavano cercando di recuperare somme arretrate ed è emerso da una serie di messaggi e chat che ora stanno esaminando anche i magistrati.

Ecco infatti alcune risposte date dalle coop a chi chiedeva di essere pagato: "Non ho dimenticato il tuo debito o quello di Mohamed. Dovevamo essere pagati poi hanno richiesto certificati antiriciclaggio". Ma soprattutto: "Portami la settimana prossima fattura di metà importo". Oppure: "Ti ringrazio e ti ringrazierò a vita per tutto e ti chiedo di incontrarci in ufficio per accordare il dilazionamento delle spettanze dovute e le fatture". Messaggi inviati anche, a quanto pare, dalla suocera di Soumahoro: "Lo so, hai lavorato con Aid e stanno sempre aspettando le fatture come hai detto tu". 

Si tratta di ipotesi, che gli investigatori stanno vagliando e su cui stanno cercando eventuali riscontri. Già piuttosto definito appare invece il quadro per quanto riguarda i lavoratori lasciati al verde e quelli in nero, con tanto di riconoscimento di debiti e di situazioni irregolari da parte delle coop, come emerge dai verbali delle vertenze presso l'Ispettorato del lavoro di Latina, che Repubblica ha potuto esaminare.

Ai lavoratori mancano stipendi per 400 mila euro

Le coop avevano trovato un'intesa, davanti proprio all'Ispettorato, per il pagamento dilazionato dei debiti accumulati nei confronti di alcuni lavoratori, ma quelle somme promesse non sarebbero arrivate. Mancano stipendi per circa 400 mila euro. "Tali somme - ha dichiarato già un mese fa Gianfranco Cartisano, segretario del sindacato - corrispondenti a competenze non pagate, sono state confermate dalle coop Karibù e Consorzio Aid, che dopo richieste di intervento inviate da Uiltucs all'Ispettorato avevano raggiunto accordi sul pagamento dilazionato delle spettanze, purtroppo oggi non rispettato". 

Il sindacato sta quindi insistendo affinché il prefetto di Latina, Maurizio Falco, blocchi i pagamenti alle due coop per i servizi affidati dalla Prefettura e con quel denaro paghi chi attende ancora la retribuzione per l'attività svolta. 

"Non accettiamo, come dichiarato spesso dalle affidatarie, che il ritardo dei pagamenti delle retribuzioni è causa dei ritardi degli enti che forniscono ed aggiudicano i servizi. Gli enti - ha sottolineato Cartisano - compreso l'Ufficio territoriale del Governo, non hanno ritardi sul pagamento dei servizi". "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?", continua a chiedere il segretario di Uiltucs.

Aboubakar Soumahoro: "No comment"

Soumaharo, ex sindacalista, paladino dei braccianti e autore di Umanità in rivolta, da sempre sostiene di battersi contro lo sfruttamento e a difesa della dignità dei lavoratori stranieri. Ha fatto ingresso alla Camera indossando degli stivali di gomma, specificando che "non devono essere più intrisi dal fango dell’indifferenza e dello sfruttamento". Si sta battendo contro la nuova guerra alle Ong e agli sbarchi portata avanti dal governo di Giorgia Meloni, per cui si è recato anche al porto di Catania mentre i naufraghi erano bloccati sulla Humanity 1. 

Su quanto sta emergendo con le coop della suocera - vincitrice del Moneygram Award 2018 come imprenditore dell'anno di origini straniere in Italia - e della moglie, più volte impegnata sul tema dei migranti sia con le autorità nazionali che europee, però sinora non è arrivata una parola da parte sua.

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 novembre 2022. 

Quella sulle coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro è più di un'indagine esplorativa. I carabinieri stanno indagando ma sulla Karibu e sul Consorzio Aid, incaricate da numerosi enti di assicurare servizi di accoglienza per richiedenti asilo, già da mesi stanno lavorando anche i finanzieri del Nucleo di polizia economico- finanziaria e gli accertamenti sono in una fase avanzata.  

Il procuratore capo di Latina, Giuseppe De Falco, in una nota ha specificato che le Fiamme gialle sono state incaricate di far luce su «eventuali profili di rilievo penale connessi ai diversi temi di rilevanza della complessa vicenda» . E ha aggiunto « che le indagini sono sviluppate con il dovuto riserbo». 

Fonti qualificate assicurano intanto che a breve verrà chiuso il cerchio e che già sono stati messi in luce diversi aspetti su un caso esploso con 26 lavoratori che reclamano 400mila euro di stipendi non pagati, sollevato dalla Uiltucs all'Ispettorato del lavoro, e che si è poi allargato a ipotesi di richieste di fatture false per effettuare i pagamenti e a migranti minorenni che hanno riferito di condizioni pessime delle strutture in cui erano ospitati, senza acqua né luce.

 I finanzieri stanno inoltre indagando a fondo sulla gestione delle due coop, sui debiti milionari accumulati, partendo da quelli con l'erario, sull'ipotesi di denaro transitato in istituti di credito del Ruanda, la terra d'origine di Marie Terese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, suocera e moglie dell'onorevole di Alleanza Verdi e Sinistra, e sui contatti degli esponenti delle cooperative. 

Soumahoro intanto, dopo aver reagito alla notizia sulle indagini parlando di «falsità» contro di lui, per la prima volta interviene su Karibu e Consorzio Aid, ma soltanto per sostenere che non sa nulla di quello che fanno moglie e suocera e per ribadire che lui comunque è estraneo alla vicenda. 

L'onorevole, tramite l'avvocato Maddalena Del Re, sostiene che i presunti maltrattamenti nei confronti dei minori se si rivelassero veri rappresenterebbero una vicenda «molto grave», che ha fiducia nella magistratura, ma che lui ha appreso la stessa solo dalla stampa, «nonostante il rapporto affettivo» con moglie e suocera e dunque non può rilasciare dichiarazioni in merito. Il deputato poi conclude ribadendo che è «estraneo alle vicende narrate».

 «Sono state poste in essere le azioni necessarie per procedere alla riscossione dei crediti che la cooperativa vanta nei confronti della pubblica committenza, nel tentativo di soddisfare le posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori» , assicura invece Marie Therese Mukamitsindo. «Il nostro interesse rimane quello di tutelare la forza lavoro e il riconoscimento delle retribuzioni non corrisposte», sottolinea Gianfranco Cartisano, segretario Uiltucs.  

Il caso è però oggetto di dibattito all'interno della stessa Alleanza Verdi e Sinistra. Tanto che la senatrice Ilaria Cucchi specifica che, se confermata, la vicenda è gravissima: «Riguarderebbe la violazione dei diritti fondamentali dell'essere umano, tema sul quale, io, non faccio sconti a nessuno, anche perché l'ho vissuto, drammaticamente, sulla mia pelle».

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 novembre 2022. 

«C'era sempre poco cibo e i ragazzi avevano fame». Luisa, chiameremo così una 36enne che lavorava come cuoca e come interprete in una struttura gestita dal Consorzio Aid nel capoluogo pontino, conferma le denunce- shock fatte dai migranti minorenni sulle condizioni in cui erano costretti a vivere nei centri portati avanti dalle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro, operanti nelle province di Roma e Latina. 

«Parlo arabo e ho lavorato lì fino al 31 maggio scorso » , racconta la donna. In quella casa erano ospitati dieci minorenni, 5 egiziani e altrettanti tunisini, di età compresa tra i 14 e i 17 anni. «Le condizioni - assicura - erano pessime. Non compravano vestiti ai ragazzi. Quando gli ospiti sono arrivati hanno ricevuto una tuta, un pigiama, un paio di scarpa, uno di mutande e una giacca. Poi basta. «Dovevano uscire e lavorare per potersi vestire » , aggiunge.  

Ragazzini che sarebbero stati costretti a soffrire il freddo. «Chiedevano coperte - ricorda Luisa - i termosifoni non funzionavano bene e la caldaia spesso andava in tilt, col risultato che non c'era sempre acqua calda».

Ai minori non sarebbe stato garantito neppure il pocket money di 10 euro a settimana. Proprio come era stato denunciato in passato da migranti adulti ospiti di altre strutture gestite dalla Karibu, che nel corso degli anni si sono resi protagonisti di proteste eclatanti. «A quei ragazzini - assicura la cuoca - non davano quasi mai la cosiddetta paghetta e quando sono stati trasferiti erano 4 mesi che non la vedevano » .  

I minori avrebbero però dovuto fare i conti anche con la fame. «C'erano sempre difficoltà col cibo - sostiene la cuoca - e a volte la responsabile spendeva di tasca sua per far mangiare qui minori. Io mi dovevo arrabbiare per far portare degli alimenti. Ma la spesa non bastava » . 

 Luisa afferma che di quel problema ha parlato spesso con la stesa suocera di Soumahoro: «Doveva provvedere lei alle forniture, ma il cibo appunto era poco e non dava spiegazioni. Quando la chiamavo diceva di far mangiare ai ragazzi il riso in bianco». Senza contare che, come appunto denunciato da diversi minorenni, la struttura sarebbe rimasta anche senza luce. 

« Non pagavano le bollette, dicevano che non avevano soldi - dichiara la 36enne - e per dieci giorni siamo rimasti senza corrente elettrica». Infine la piaga dei mancati pagamenti ai dipendenti. « A noi - conclude Luisa - i pagamenti non arrivavano mai. Io ero anche incinta. Ho quattro bambini e senza soldi è difficile sopravvivere » . La risposta data dalla coop? « Lo Stato non ci paga e noi non possiamo pagare».

 Stesso quadro tracciato da Monica, 37 anni, di origine eritrea e residente a Roma. «Lavoravo come operatrice in una struttura per minori a Latina - sostiene - ho tre bambini e sono in attesa di dieci mesi di stipendio. Marie Terese mi ha sempre detto che non ha soldi » .  

Le condizioni del centro pontino? « Mancava tutto, dal cibo alla corrente, fino all'acqua. Sul cibo dicevano che dovevamo farci bastare quel poco che portavano. Poi, senza avvisarci, hanno mandato i ragazzi in altre strutture a Napoli, Frosinone e pure in Calabria ».

Fabio Tonacci per repubblica.it il 21 novembre 2022.

Qualche errore è stato fatto, ma Maria Therese Mukamitsindo giura che non un euro di denaro pubblico sia finito nelle sue tasche o in quelle dei suoi familiari. "Tutto è stato speso per i rifugiati, ai quali ho dedicato 21 dei miei 68 anni. Tutto è rendicontato e posso provarlo".

La signora, originaria del Ruanda, è presidente della coop Karibu, nata nel 2001 nell'Agro pontino, che dopo la Primavera araba gestiva 154 dipendenti per 600 posti letto, divisi in progetti Sprar e Cas. E per i quali riceveva dallo Stato fino a 10 milioni all'anno.

Accanto a lei, in quest'intervista a Repubblica che è la prima concessa dopo la notizia dell'indagine della procura di Latina su mancati pagamenti, malsane condizioni dei centri e violazioni dei contratti, siede la figlia, Liliane Murekatete, 45 anni, compagna del sindacalista Aboubakar Soumahoro, deputato indipendente della lista Verdi-Sinistra Italiana. 

"Lui non si è mai interessato alla coop, né al Consorzio Aid di cui fa parte Karibu", premette Liliane. "In famiglia non ne parliamo mai". 

All'Ispettorato del lavoro risultano 400 mila euro di stipendi arretrati e i dipendenti di Karibu si sono rivolti al sindacato Uiltucs. Hanno ragione?

Maria Therese: "Non abbiamo soldi da dargli perché lo Stato non ci paga in tempo! Nel 2019, quando Salvini ha ridotto da 35 a 18 euro il rimborso per migrante tagliando assistenza sociale, corsi di italiano e psicologi, ho lasciato l'accoglienza per dedicarmi a progetti di integrazione. Ho diminuito i dipendenti, ma 54 li ho tenuti.  

Karibu ha vinto i bandi 'Perseò dell Viminale, 'Perla' della Regione Lazio e un altro con l'8 per mille. Tuttavia, tra burocrazia e Covid i fondi arrivavano anche dopo un anno e mezzo". Marie Therese Mukamitsindo Non così in ritardo da giustificare il mancato stipendio, sostiene il sindacato. 

M.T.: "Ho i bonifici con le date e una lettera di sollecito della prefettura al comune di Roccagorga che ci deve 90 mila euro. Quello di Latina 100 mila. Per il progetto 'Perla' contro il caporalato ci hanno dato la metà degli 80 mila dovuti, da quello sull'8 per mille del 2019 abbiamo ricevuto 80 mila su 157 mila solo nel 2022. Siamo andati in cassa integrazione, non ci dormivo la notte". 

Liliane: "Sono quattro anni che mia madre non ha stipendio, è un operaio dello Stato e nessuno la difende. Quando si parla del business dell'accoglienza si casca nella narrazione di Salvini e ci sta cascando anche la sinistra".

M.T.: "Attingendo ai miei risparmi ho versato alla coop 45 mila euro. Il contesto in cui operiamo è complicato, CasaPound da anni ci attacca e ci minaccia". 

Come pensavate di andare avanti senza pagare gli operatori?

M.T.: "Il mio errore è stato non licenziarli prima. Quando ci siamo accorti che gli anticipi dello Stato arrivavano con lentezza avrei dovuto avere il coraggio di farlo, ma li conosco da vent'anni e ho preferito aspettare". 

Pare che ci siano tracce di pagamenti effettuati da conti esteri. A chi fate gestire la contabilità?

M.T.: "Barbara, una commercialista indicataci dalla Lega delle cooperative. Conserva le fatture della spesa, le ricevute dei pocket money, i registri... Siamo sottoposti a controllo della Prefettura, che autorizza il saldo delle fatture solo dopo verifica. Pagamenti dall'estero? Impossibile, abbiamo un unico conto con Banca Intesa".

"Manca l'elettricità e l'acqua", "il cibo è scadente", "non ci danno i vestiti", "ci trattano male", "sono razzisti": sono alcune delle testimonianze dei minorenni del vostro centro di Latina finite in procura e di cui ha dato conto Repubblica. Cosa rispondete?

M.T.: "I ragazzi, che hanno un tutore legale, non si sono mai lamentati con noi. A luglio si è rotto l'impianto idraulico e abbiamo chiuso quello elettrico per precauzione, quindi abbiamo chiesto al comune di trasferirli in altra struttura". 

L.: "E quella frase sul razzismo è riferita a uno dei posti dove sono stati portati dopo". 

Però di cibo non sufficiente parlano anche due dipendenti, tra cui la ex cuoca. Come lo spiegate?

M.T.: "La cuoca è arrabbiata perché deve essere ancora pagata, il contratto le è scaduto. Dei ragazzi non me lo spiego, forse sono manipolati". 

Da chi?

M.T.: Dal sindacato. È il sindacato che è andato da loro, e mi chiedo se sia corretto raccogliere testimonianze senza il permesso del tutore legale". 

Agli atti c'è una chat in cui un lavoratore del Consorzio Aid è invitato a spedirvi una fattura "per metà dell'importo". I pm credono sia un contratto irregolare.

M.T. : "Del Consorzio sono consigliera, ma questa storia l'ho saputa per caso. Cercavamo un mediatore che parlasse arabo e si è presentato un egiziano, diceva di avere i documenti in regola. Ha lavorato per noi per un mese come manutentore nel centro per i dieci minorenni che abbiamo a Latina, faceva anche da mediatore. Abbiamo scoperto solo dopo che non aveva documenti e, supponiamo, neanche il permesso di soggiorno". 

Il Consorzio della famiglia del sindacalista Soumahoro che fa lavorare qualcuno al nero e senza permesso di soggiorno. È un pasticcio, si rende conto?

M.T. : "Quel caso è stato gestito con leggerezza, se l'avessi saputo non l'avrei permesso".

L.: "Il mio compagno non è al corrente di niente. Oltretutto la Karibu non è mia, contrariamente a quanto leggo sugli articoli dei giornali. Ci sono entrata solo alla fine del 2017 per dare una mano a mia madre con la riorganizzazione. Prima lavoravo per il rappresentante della Presidenza del consiglio per l'Africa, sia durante il governo Berlusconi sia con Prodi. Per un anno sono stata alla Karibu gratis, poi ho conosciuto Aboubakar, sono rimasta incinta e sono andata in maternità. A luglio di quest'anno il rapporto di lavoro si è concluso". 

La Lega dei Braccianti di Soumahoro ha sede allo stesso indirizzo di Latina della Karibu. Possibile che lui non sapesse proprio niente di questi problemi?

M.T. : "È una sede come tante altre, lui non veniva mai. Ci ha messo un ragazzo per fare campagne di sensibilizzazione sui braccianti sfruttati".

L.: "L'obiettivo è chiaramente Aboubakar, vogliono affossarlo. Guarda caso un mese dopo il suo ingresso in Parlamento, e subito dopo essere andato a Catania per difendere lo sbarco dei migranti, scoppia questo scandalo".

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 21 novembre 2022.

Ieri è stata la giornata di Aboubakar Soumahoro. Il deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana si è difeso sia sui social network, sia sui giornali. 

Al centro dell'attenzione per l'inchiesta della procura di Latina sulle due Cooperative riconducibili alla sua famiglia- Karibu e Consorzio AidSoumahoro, che risulta estraneo ai fatti, adesso sta cercando soprattutto di allontanare le nubi da sua moglie, Liliane Murekatete, tirata in ballo per il suo ruolo all'interno di una delle due società finite nel mirino dei pm e del ministero delle Imprese (la Karibu, appunto) per presunte irregolarità gestionali. 

Il Corriere della Sera definisce l'atteggiamento del deputato nei confronti della consorte classe 1977, ruandese, «protettivo». «Mia moglie è attualmente disoccupata. Non ha nessuna cooperativa. Quando vorranno sentirla, fornirà tutti i chiarimenti». 

Analoga affermazione Soumahoro ha fornito a Repubblica, negando ancora una volta qualsiasi ruolo di Liliane nelle società: «Liliane non possiede nessuna cooperativa, non fa parte di nessun Cda e non è mai stata all'interno del Consorzio Aid. È vero che è stata una dipendente della Karibu, ma allo stato attuale è disoccupata».

Le visure storiche scaricate dalla Camera di commercio di Frosinone e Latina, però, raccontano un'altra storia. Almeno fino al 17 ottobre scorso, quando è stato estratto il documento. 

La Karibu è presieduta da Marie Terese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro (che, peraltro, secondo quanto riferito dal quotidiano La Verità sarebbe indagata dalla procura di Latina con l'ipotesi di malversazione di erogazioni pubbliche). Ma Liliane Murekatete, moglie del deputato, al 17 ottobre scorso risultava in possesso della carica di «consigliera» di amministrazione.

Spulciando la visura camerale, balza agli occhi che Liliane, lungi dall'essere una semplice «dipendente», è stata nominata nel Cda il 9 marzo 2022, ma la sua prima iscrizione nel registro della società risale addirittura all'8 maggio 2018, come conseguenza della «nomina alla carica di consigliere con atto del 3 aprile 2018». 

Non solo: Liliane risultava anche socia amministratrice della Venere The Wedding planer s.n.c, società operante nell'«organizzazione di convegni e fiere». Incarico ricoperto dal 21 giugno 2002. 

Insomma, se di disoccupazione si tratta, questa è intervenuta dopo il 17 ottobre scorso, meno di un mese fa. E Liliane non risultava inquadrata come «dipendente», bensì in un caso come «consigliera», e nell'altro come «socia amministratrice».

Le stranezze non finiscono qui. Basta dare un'occhiata al profilo Twitter della Karibu per imbattersi, tra gli account seguiti dalla società specializzata nei «servizi domestici a sostegno del bisogno familiare» e nelle attività di «accoglienza e integrazione» degli immigrati, in marchi di alta moda come Missoni, Fendi, Valentino, Gucci, Ferragamo, Armani, Versace, Vogue Italia, Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Prada. 

Nomi che c'entrano poco, per non dire nulla, con l'attività istituzionale della Karibu, che nella presentazione del proprio profilo inserisce solo tre parole: «Accogliere, formare, integrare». E qui arriva in soccorso un altro social, ovvero Instagram, che forse spiega da dove arriva l'interesse di Liliane Murekatete per i marchi di lusso e abbigliamento.

L'account della moglie di Soumahoro - seguito ovviamente anche dal marito, come mostriamo nella foto pubblicata a sinistra - mostra una serie di immagini che testimoniano la passione di Liliane perla griffe. 

Si possono ammirare pose di Liliane con borse, valigie di lusso e occhiali. Lady Murekatete non fa nulla per nascondere la sua inclinazione al buon gusto, con istantanee che la ritraggono in quelli che sembrano ascensori e hall di hotel.

Lo stesso accade su LinkedIn, dove nella foto profilo si nota la custodia di un telefono targata Luis Vuitton. Vera o tarocca che sia, conferma la predisposizione per i marchi del lusso. Una ricerca dell'eleganza, con il perfetto abbinamento vestito-valigia-scarpe, che però cozza non solo con la missione della sua Cooperativa, ma anche con l'immagine diffusa dal marito deputato, celebre per essersi presentato in Parlamento, nella seduta che inaugurato la nuova legislatura, con gli stivali usati dai lavoratori nei campi. «Portiamo questi stivali in Parlamento, gli stessi che hanno calpestato il fango della miseria», spiegò proprio su Instagram, lo stesso social dove la moglie Liliane sfoggia i suoi capi, il deputato di sinistra.

“Minori pagati a nero e sfruttati” nelle coop legate a Soumahoro. Via all'indagine. Tommaso Carta su Il Tempo il 18 novembre 2022

Un'inchiesta rischia di offuscare l'immagine di Aboubakar Soumahoro, dallo scorso ottobre deputato dell'Alleanza Sinistra Verdi ma da molto prima volto simbolo della difesa dei diritti dei lavoratori immigrati in Italia. Sono in corso accertamenti da parte dei carabinieri di Latina dopo la denuncia del sindacato Uiltucs che ha presentato un esposto su presunte irregolarità nei pagamenti e nei contratti stipulati con alcuni migranti impiegati in due cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera del sindacalista e deputato. Progetti, tra gli altri, finanziati anche dalla Prefettura di Latina. Al vaglio dei militari dell'Arma e della procura di Latina ci sarebbero alcuni documenti trovati all'esterno della sede di una delle cooperative mentre era in corso un trasloco. Verifiche, anche in collaborazione con l'Ispettorato del Lavoro, sugli incartamenti. L'accusa della procura di Latina riguarda le coop Karibu e Consorzio Aid. Alcuni minorenni hanno denunciato al sindacato Uiltucs di essere stati maltrattati, privati di acqua e luce, altri di non ricevere lo stipendio da due anni e di lavorare a nero.

Soumahoro ha dedicato alla vicenda un lungo post su Facebook: «Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine dell'arma dei carabinieri, di cui ho sempre avuto e avrò fiducia». «Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale - ha continuato il parlamentare - per questo, dico a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico, di mettersi l'anima in pace. A chi ha deciso, per interessi a me ignoti, di attaccarmi, dico: ci vediamo in tribunale! Ho dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione». Nonostante la precisazione di Soumahoro, Fratelli d'Italia ha annunciato un'interrogazione alla Camera dei deputati sulla vicenda al ministro del Lavoro Marina Elvira Calderone «per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative. I fatti riportati dagli organi di stampa, se confermati, sono gravi e meritano un'immediata azione di trasparenza».

Dura la nota della deputata leghista Simonetta Matone: «Vorremmo sapere dall'onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all'onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare "chi vive nel fango della miseria e del caporalato", la "miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l'affitto"». Attacca anche il capogruppo leghista nel Consiglio regionale del Lazio Angelo Tripodi, ricordando come la coop su cui indaga la procura di Latina sia stata «sbandierata da anni dagli amministratori del Pd e dall'ex sindaco di Latina Damiano Coletta come modello dell'accoglienza in Italia», in linea «con il segretario del Pd, Enrico Letta, e il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che ha elargito fondi regionali al sistema dell'accoglienza». Uno scenario preoccupante, in cui si interseca il legame tra la coop e alcuni Comuni governati dal Pd e dalla sinistra ormai da anni: gli affidamenti diretti per centinaia di migliaia di euro e il sistematico ricorso alle proroghe, qualche amministratore locale dipendente della coop e, addirittura, alcuni funzionari pronti ad affittare i propri immobili» conclude Tripodi. 

Cooperative gestite dalla famiglia di Soumahoro, scatta l'interrogazione parlamentare. Il Tempo il 17 novembre 2022

Il gruppo Fratelli d’Italia della Camera dei Deputati depositerà nelle prossime ore un’interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone, «per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid», che sarebbero oggetto «di inchiesta da parte della Procura di Latina, legate alla suocera e alla moglie del parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. »«I fatti riportati dagli organi di stampa, se confermati, sono gravi e meritano un’immediata azione di trasparenza». Lo comunica in una nota il gruppo FdI della Camera dei deputati.

Insorge anche la Lega. «Vorremmo sapere dall’onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all’onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare "chi vive nel fango della miseria e del caporalato", la "miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l’affitto". Perché apprendere, ove le notizie fossero confermate dall’inchiesta dei magistrati di Latina, di minorenni lasciati in condizioni di sofferenza senza cibo, acqua o luce rischia di ridimensionare, e di molto il suo ruolo di paladino degli ultimi». Lo dichiara in una nota la deputata della Lega Simonetta Matone.

Soumahoro, il Pd lo scarica: "Avevamo sollevato dubbi ma siamo stati ignorati". Dario Martini su Il Tempo il 24 novembre 2022

Solo adesso il Partito democratico batte un colpo su Aboubakar Soumahoro, il "deputato con gli stivali" eletto con l'Alleanza Verdi-Sinistra finito al centro delle polemiche per le cooperative attive nell'accoglienza dei migranti gestite dai suoi familiari. In particolare la moglie Liliane Murekatete, consigliera d'amministrazione della coop Karibu, e la suocera Marie Therese Mukamitsindo, presidente della stessa Karibu e consigliera del consorzio Aid. Quest' ultima è indagata dalla Procura di Latina per malversazione.

Gli inquirenti vogliono capire se i fondi pubblici erogati dallo Stato e dagli enti locali per assistere gli immigrati siano serviti ad altri scopi. «Alcuni elementi di criticità e di opacità rispetto alle cose emerse circolavano anche in precedenza», svela Roberto Solomita, segretario dem a Modena, dove Soumahoro era candidato nel collegio uninominale come nome di punta di Verdi e Sinistra italiana in coalizione con il Pd. Il responsabile locale del partito di Enrico Letta aggiunge un particolare significativo: «Io ne ho parlato con il Pd e gli elementi sono stati portati all'attenzione. Nei pochi giorni che avevamo a disposizione prima delle elezioni abbiamo immaginato che le condizioni della candidatura fossero state verificate. Noi non abbiamo fatto un'indagine approfondita, ma abbiamo fatto presente ai responsabili del Pd che già circolavano cose sul conto di Soumahoro. Abbiamo semplicemente detto: "Gira questa roba qui, siamo proprio sicuri?". Ce lo avevano evidenziato in particolare anche alcuni rappresentanti dei sindacati confederali che con lui hanno rapporti più stretti. Questa vicenda è semplicemente lo specchio della gestione delle candidature nell'ultima tornata elettorale, che ha prodotto gli esiti cui abbiamo tutti assistito». Come sottolinea la Repubblica, Solomita vuole specificare che la scelta fu operata «dagli alleati di Sinistra Italiana e Verdi» e che non c'era alcuna riserva sulla figura di Soumahoro. I leader di Verdi e Sinistra italiana hanno sollecitato più volte Soumahoro ad incontrarli per fornire i dovuti chiarimenti. Il paladino dei braccianti ha sempre rimandato. Ieri, però, non ha potuto sottrarsi ulteriormente al confronto. Soumahoro, Bonelli e Fratoianni, infatti, si sono visti a Montecitorio, dove si trovavano per partecipare alla seduta pomeridiana della Camera. Il clima non era dei migliori. Dopo i lavori dell'Aula, i tre si sono riuniti negli uffici parlamentari per due ore, fino alle 21. Ma non è stato sufficiente.

I tre si rincontreranno oggi. Bonelli e Fratoianni sono rimasti molto irritati per il video pubblicato su Facebook alcuni giorni fa con cui Soumahoro, piangendo a dirotto, si scagliava contro chi lo «vuole morto». Un'iniziativa non concordata che non ha contribuito a fare chiarezza su quanto sta accadendo. Ha affermato che la consorte non lavora più alla Karibu da giugno scorso, quando invece almeno fino ad ottobre era ancora consigliera d'amministrazione. Ha detto anche di non avere mai avuto nulla a che fare con le due cooperative, quando invece alcuni operatori sociali hanno raccontato la sua presenza negli uffici della suocera. Negli stessi locali dove si trova la sua Lega dei braccianti, il sindacato con cui porta avanti le battaglie in difesa dei profughi sfruttati. Un movimento da sempre molto attivo nel Foggiano. Ed è proprio da San Severo in Puglia che arrivano le accuse della Caritas locale, secondo cui l'attività di Soumahoro «è solo virtuale». È bene ricordare che il deputato non è indagato. E che la sua versione merita di essere credute fino a prova contraria. Proprio per questo motivo Bonelli e Fratoianni non capiscono per quale motivo fino a ieri si sia sempre sottratto ad un incontro. «Siamo un'alleanza che fa del garantismo un principio importante - spiega il leader dei Verdi - Certo è che abbiamo detto che c'è una questione politica su cui Aboubakar deve delle spiegazioni non solo a noi ma anche a chi ci ha votato». Comunque, fa sapere Bonelli, non è prevista né la sospensione né l'espulsione dal partito.

Soumahoro in lacrime su fb,"sono persona pulita, mi volete morto". (ANSA il 20 Novembre 2022) - "Mi dite cosa vi ho fatto? Da una vita sto lottando per i diritti delle persone. Vent'anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto. Ho sempre lottato". Lo dice in lacrime Aboubakar Soumahoro, deputato eletto con l'alleanza Verdi-Si in un video postato su Facebook. Con la voce rotta dal pianto, Soumahoro - dopo l'indagine su eventuali irregolarità in due cooperative nelle quali hanno avuto dei ruoli la moglie e la suocera - aggiunge: "Ma figuratevi se questa regola non sarà rispettata da parte mia anche nei confronti della mamma della mia attuale compagna".

 "Voi avete paura delle mie idee, di chi lotta", aggiunge. "Pensate di seppellirmi ma non mi seppellirete. Sono giorni che non dormo. Io non lotto solo per Aboubakar, non ho mai lottato per Aboubakar. Ho lottato per le persone che voi avete abbandonato. Mia moglie è attualmente disoccupata, è iscritta all'Inps, non possiede allo stato attuale nessuna cooperativa. Perché non parlate con lei? Quando l'ho conosciuta lavorava già nell'ambito dell'accoglienza. Parlate con mia suocera, chiedete a lei che è proprietaria della sua cooperativa, e io sarò il primo ad andare lì, a lottare, a scioperare con i dipendenti e difendere i loro diritti", prosegue. 

"La montagna di fango non seppellirà le mie idee, probabilmente riuscirete a seppellirmi fisicamente, ma non riuscirete mai a seppellire le nostre idee, le idee degli invisibili", di "quel mondo che voi avete abbandonato". "Io sono una persona integra, pulita", rivendica il parlamentare.

DAGOREPORT il 23 novembre 2022.  

Il caso Soumahoro e lo scandalo che ha investito (l'ex) paladino dei braccianti sta facendo impazzire i “sinistrati” Fratoianni e Bonelli. Cioè i leader di Sinistra Italiana e Verdi che hanno voluto candidare l'ivoriano alla Camera dei Deputati, e che ora vengono sbeffeggiati sui social (e dai militanti) che li attaccano per la scelta improvvida.

Dalle stelle dello scranno in parlamento alle stalle delle inchieste dei pm di Latina, che indagano sulle cooperative della suocera, il passo è stato brevissimo. E la situazione peggiora perché i giornali, di giorno in giorno, pubblicano nuovi imbarazzanti dettagli sulla vicenda, tra borse Vuitton della moglie Liliane e testimoni che parlano di sfruttamento avvenuti nelle coop, fino alla Caritas che sostiene che Soumahoro andava nei centri di accoglienza vestito da Babbo Natale portando doni a bambini che non esistevano. E poi ci sono i controlli del ministero e i tanti dubbi sui bonifici della cooperativa verso il Ruanda, dove i familiari di Aboubakar avevano un resort con piscina.

Bonelli però si giustifica con gli amici: non è lui il vero colpevole della scelta dell’ivoriano. Il suo nome è stato “spinto”, lo hanno raccomandato in tanti. Chi? I soliti tromboni della sinistra romana e milanese. Ha ragione il povero Bonelli, preso in giro ieri da un perfido articolo del “Corriere della Sera” firmato da Goffredo Buccini. Soumahoro è diventato un'icona della sinistra per colpa di altri. E’ stato inventato da L'Espresso, allora guidato da Marco Damilano. L’ivoriano fu spiattellato in copertina in contrapposizione a Salvini (il titolo era tutto un programma ideologico: “Uomini e no”).

Soumahoro ha scritto un libro per Feltrinelli, la casa editrice della gente che piace e si piace, ed è diventato famoso grazie alle ospitate a “Propaganda Live” il circoletto romanello di Zoro, Makkox e Damilano (ora a Raitre). In poco tempo, Soumahoro è diventato “icona”. Volto spendibile alla bisogna per ogni intemerata “anti”: anti-Salvini, anti-razzista, anti-destra e via politicando. Dal palchetto votivo, Aboubakar è cascato in lacrime spiegando, in un video diffuso sui social, che eventuali sfruttamenti di minori sono avvenuti a sua insaputa. Non il massimo per il paladino dei diseredati.  

Il programma di Zoro, che piace tanto a Enrico Letta (uno che la politica dovrebbe studiarla e non farla), di solito fa la morale ai “cattivoni” con le lezioncine di onestà-tà-tà. Avrà sbertucciato Soumahoro, dopo le tribolazioni giudiziarie? Macché! Dopo aver eretto l’ivoriano a nuovo Berlinguer, “Propaganda Live” non ha dedicato nemmeno un minuto allo scandalo del sindacalista.

Poverini, bisogna capirli quei maestrini di etica (e cotica) di Zoro & friends. Devono essere rimasti scottati dai “precedenti”. Tempo fa un altro volto della trasmissione, il chitarrista Roberto Angelini, è finito nella polvere. Il musicista, proprietario di un ristorante, aveva frignato sui social raccontando di avere ricevuto una multa per il tradimento di una dipendente cattiva. Tutti a dargli solidarietà, fino a quando si è scoperto che la ragazza lavorava in nero, e che l'amico di Zoro si era comportato come uno dei tanti paraculi che “Propaganda Live” ama mettere alla berlina. Consiglio spassionato: la prossima volta, caro Zoro, prima di mazzolare qualcuno butta prima un occhio alla polvere sotto il tappeto dei tuoi ospiti…

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 20 Novembre 2022. 

Non è solo la procura di Latina ad aver acceso un faro sulle cooperative gestite dalla famiglia di Aboubakar Soumahoro. A volerci vedere chiaro, dopo le presunte irregolarità denunciate da alcuni lavoratori, è anche il ministero delle Imprese e del Made in Italy, l'ex ministero dello Sviluppo economico, che ha deciso di fare un'ispezione sulle due società amministrate rispettivamente dalla suocera, Marie Terese Mukamitsindo (presidente della Karibu), e dalla cognata, Aline Mutesi (numero uno del consorzio Agenzia per l'inclusione e i diritti, Aid), dell'attuale deputato dell'Alleanza Verdi Sinistra, che risulta estraneo ai fatti.

Proprio dall'Aid prende le mosse la vicenda che sta imbarazzando la sinistra. Sono alcuni lavoratori del Consorzio impegnato nei «servizi di assistenza e integrazione» sul territorio della provincia di Latina di «richiedenti asilo, rifugiati e immigrati» a rivolgersi, nel giugno scorso, alla sede provinciale del sindacato Uiltucs, guidata da Gianfranco Cartisano, per lamentare il mancato pagamento degli stipendi. Alcuni dipendenti lamentano addirittura un ritardo di 15 mesi. Il totale delle retribuzioni non pagate, ha rivelato venerdì scorso Cartisano, arriva a «ben 400mila euro».

L'ultimo bilancio disponibile del consorzio Aid, però, chiuso al 31 dicembre 2020, certifica che la società, si legge nella Nota integrativa abbreviata, «ha ricevuto incarichi retribuiti nel corso del 2020 da diversi Enti appartenenti alla pubblica amministrazione» per un totale di 749.301,68 euro.

Nell'elenco spiccano i 111.464,50 euro incassati il 10 dicembre 2020 dalla prefettura di Latina. Ente che il precedente 27 ottobre ha versato altri 107.717 euro, preceduti dai 105.395,17 euro del 21 settembre e dai 103.672,40 euro del 24 giugno. Data in cui Aid ha incassato altri 99.282,67 euro.

Ma non è stata solo la prefettura di Latina ad affidare incarichi al consorzio guidato da Aline Mutesi: nella lista ci sono anche gli importi versati dal Comune di Termoli e da quello di Latina. La causale spazia, a vario titolo, dal «servizio di gestione dei centri di accoglienza» per la prefettura di Latina, all'«acconto progetto Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr)» per il Comune di Termoli. Il Comune di Latina, invece, ha versato 10mila euro il 7 agosto 2020 per il «bando multimisura per la concessione di contributi in ambito sociale».

Nel bilancio c'è anche l'indicazione degli emolumenti percepiti dal presidente del consiglio di amministrazione, Mutesi: «È previsto un compenso pari ad euro 4.000 mensili al lordo delle trattenute previdenziali e fiscali». In totale per salari e stipendi nel 2020 il Consorzio ha versato, emerge dal conto economico della società, 164.815 euro. 

Quanto a Karibu, presieduta dalla suocera di Soumahoro e amministrata anche dalla moglie, Liliane Murekatete, che risulta residente a Sezze, in provincia di Latina, nello stesso indirizzo indicato da Mutesi, rappresentante di Aid, i numeri sono meno lusinghieri. La società, impegnata nei «servizi domestici a sostegno del bisogno familiare, servizi di accoglienza e integrazione sul territorio di richiedenti asilo, rifugiati politici e immigrati», ha accusato per l'anno 2021 «un cambiamento nell'ambito lavorativo specifico della Cooperativa».

I progetti per l'assistenza degli immigrati, infatti, «sono stati quasi tutti messi da parte all'infuori della categoria minori». Il periodo successivo all'emergenza Covid, mettono nero su bianco gli amministratori, è stato negativo, al punto che Karibu «ha dovuto licenziare parecchi dipendenti, visto il cambiamento organizzativo del lavoro». 

Un «risultato negativo», come riconosciuto dalla stessa società, che contrasta con quanto percepito, a titolo di emolumento, dalla presidente del Cda, Marie Terese Mukamitsindo, che a quanto riferisce il quotidiano La Verità avrebbe incassato oltre 100mila euro.

Non solo: dalla Nota integrativa al bilancio di esercizio al 31 dicembre 2021, emerge che la spesa per il personale è stata di 865.930 euro (in calo rispetto ai 1.486.308 euro del 2020). E il costo delle prestazioni lavorative dei soci - la Karibu è una cooperativa sociale e quindi a mutualità prevalente di diritto - ha pesato per 392.801 euro. Numeri che rinfocolano le polemiche politiche. 

«Aumentano gli indizi di colpevolezza nei confronti dei familiari del deputato Soumahoro, eletto con una formazione politica che a parole predica accoglienza e solidarietà. Bene la procura della Repubblica di Latina sugli accertamenti in merito all'operato delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid», attacca Marta Schifone di Fratelli d'Italia. 

 Il collega di partito Massimo Ruspandini applaude invece alla decisione del ministro Adolfo Urso (Imprese) di «di disporre un'ispezione sui presunti casi di sfruttamento ed irregolarità. Fratelli d'Italia intende alzare l'attenzione su ogni forma di sfruttamento e violazione dei diritti sui luoghi di lavoro. Andremo avanti per accertare la verità».

In Onda, Paolo Mieli: "Soumahoro? Sono orripilato", cosa non torna. Libero Quotidiano il 20 novembre 2022

“Sono orripilato da questa vicenda”. Paolo Mieli non usa mezzi termini per descrivere quanto sta accadendo ad Aboubakar Soumahoro, massacrato per una vicenda giudiziaria in cui non è coinvolto: al massimo c’entra la famiglia della moglie, ma sarà tutto da accertare. L’onorevole eletto tra le file di Sinistra Italiana non si dà pace: “Perché questo fango? Perché vogliono colpire me? Hanno così paura delle mie idee?”. 

Lo sfogo a In Onda, su La7, ha dato il via a una discussione tra gli ospiti presenti in studio. Tra cui proprio Mieli, che si è detto “orripilato” dagli attacchi subiti da Soumahoro: “È vero, come diceva Concita De Gregorio, ci sono dei precedenti sui familiari dei politici, però c’è una velocità sorprendente se consideriamo il rapporto tra quando gli italiani hanno conosciuto Soumahoro e l’inizio di questa iniziativa giudiziaria. Tra l’altro vorrei ricordare che di recente il suo nome è entrato in ballo come possibile segretario del Pd: si è detto che sarebbe una svolta”.

Secondo Mieli l’onorevole sta pagando troppo velocemente il prezzo della notorietà: “Renzi e Boschi sono stati casi scandalosi perché è stato un picchiare per mesi e anni, ma questo caso è troppo veloce anche per chi come me è nel giro da tempo. Appena compare un protagonista nuovo nella politica si mette in moto un giochetto di questo tipo, ma stavolta è tutto troppo veloce”.

Soumahoro si vanta: “Saviano e Lucano sono con me”. Ma chiede aiuto alla Meloni per l’Africa. Lucio Meo su Il Secolo d’Italia il 20 Novembre 2022.  

I giornali di oggi grondano di interviste ad Aboubakar Soumahoro, il deputato eletto con i Verdi e Sinistra italiana (nelle liste del Pd) considerato il paladino dei braccianti schiavizzati, ma al centro di una bufera giudiziaria per un’inchiesta della Procura di Latina sull’attività di due coop gestite della moglie e dalla suocera. Maltrattamenti e sfruttamento, perfino di minorenni, queste le pesantissime accuse dalle quali oggi Aboubakar Soumahoro prova a difendersi sui giornali. Chiamando in causa, ovviamente, un presunto disegno politico, su cui Soumauhoro annuncia di aver ricevuto il sostegno di Saviano e del condannato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace…

Gli affari della moglie e della suocera: non ne sapevo nulla…

Su Repubblica a Sohumahoro viene chiesto cosa sapesse degli affari della moglie. “Liliane non possiede nessuna cooperativa, non fa parte di nessun Cda e non è mai stata all’interno del consorzio Aid. È vero che è stata una dipendente della Karibu, ma allo stato attuale è disoccupata- Cosa c’entro io con quella cooperativa? Perché non sono andati a chiedere notizie a mia suocera o a mia moglie? È la dimostrazione che è solo fango per delegittimare me e la mia lotta…“, dice il deputato di sinistra. Che si rifiuta di entrare nel merito delle accuse: “La mia resistenza a rispondere a queste domande non è dovuta a una volontà di eluderle. Però, non avendo io vissuto nulla in merito a questa vicenda, non posso fare affermazioni approssimative o per sentito dire con delle indagini della procura in corso”.

Soumahoro però fa sapere che Saviano e Mimmo Lucano sono con lui…

Guarda caso, in questa vicenda spunta anche Roberto Saviano, protagonista dell’incontro tra Soumahoro e la moglie, conosciuta nel corso di un evento pubblico proprio a Latina, “dove ero andato insieme al mio amico Roberto Saviano”. “Lei + la donna che amo e per amarla non mi serve il suo casellario giudiziario. Liliane è la persona che, quando l’Italia era in lockdown, stava da sola a casa con un neonato, mentre io giravo il Sud per distribuire mascherine ai braccianti e alle persone bisognose. Adesso, quando esco di casa, mio figlio mi dice: papà, vai a fare la libertà”. Inutile dire che il deputato ha incassato la solidarietà del suo amico, e non solo. “Ringrazio Saviano, ringrazio il mio fratello e compagno Mimmo Lucano, ringrazio le attiviste e gli attivisti della comunità Invisibili in Movimento, ringrazio tutta la comunità virtuale che si è schierata dalla mia parte. Persino Maurizio Gasparri ha scritto che non ho alcuna responsabilità. Aspetto le prese di posizione degli altri”, dice, poi fa la vittima politica. “Io sono un nemico e un bersaglio ideale per la destra, ma anche per una certa sinistra sono scomodo. Una sinistra che non riesce a schierarsi dalla parte del lavoro, che si ricorda delle donne solo l’otto marzo, che non ha un orientamento chiaro sulla pace, che non dà seguito alle promesse sullo ius soli, che non sa la fatica di un operaio, la precarietà…”.

L’appello alla Meloni per una battaglia comune sull’Africa

Con Giorgia Meloni, fu protagonista di una polemica nel giorno della fiducia al governo, quando si “offese” perché il presidente del Consiglio gli si era rivolto con tu, salvo poi scusarsi. La  Meloni ha proposto un piano per l’Africa, la convince? No, ma apre a una collaborazione con il governo. “Per un africano, fatevelo dire da un italiano diversamente abbronzato, quel piano ricorda troppo i tempi della colonizzazione. Nessun governo africano farà accordi con chi esprime ostilità verso i figli e le figlie del continente. Non bisogna costruire un piano per l’Africa, ma un piano insieme agli africani. Se Meloni è d’accordo, sono pronto a farlo con lei in Parlamento...”.

La precisazione di Gasparri

“Leggo una intervista dell’onorevole Soumahoro nella quale afferma che il sottoscritto avrebbe escluso ogni sua responsabilità nelle vicende relative a un presunto sfruttamento di lavoratori stranieri nella zona di Latina. – afferma il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. – Io da garantista mi sono limitato a prendere atto che allo stato non risulta nessun coinvolgimento del neo parlamentare in queste vicende di cui abbiamo appreso. Però dico con analoga franchezza che risulta difficile immaginare che l’onorevole Soumahoro non si fosse accorto del disordine che avrebbe accompagnato vicende di lavoro che potrebbero aver coinvolto sue familiari. Inoltre la vicenda fa emergere l’ipotesi di gravi forme di sfruttamento di lavoratori stranieri da parte di organizzazioni gestite da loro connazionali. Quindi non posso lanciare accuse verso il neo deputato, tuttavia gli consiglio con pacatezza di indossare nuovamente gli stivali di gomma che ha usato all’esordio parlamentare, per visitare nuovamente le zone dove hanno agito le sue familiari, così conoscerà i fatti che dice di ignorare. Io fino a prova del contrario resto convinto della sua estraneità a condotte non corrette. A tutte le sue altre narrazioni credo un po’ meno. E lo invito a riflettere sulla opportunità di politiche più severe in materia di immigrazione, utili a impedire vergognose forme di sfruttamento del lavoro”.

Soumahoro massacrato perché è negro, le lacrime e la caccia a testate unificate. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Novembre 2022

Anche se fossero soltanto la parte più artefatta di una patetica messinscena, come pure in tanti gli hanno rinfacciato, le lacrime di Aboubakar Soumahoro rispondevano a un fatto invece verissimo: e cioè che molti gli vogliono male, e pretendono di giudicarlo volendogli male, e gliene vogliono perché è un negro (non si scriva “nero”, per favore, almeno in questo caso). È un negro che ambisce al seggio parlamentare e lo ottiene, e da lì osa denunciare l’ingiustizia che affligge i diversi di pelle e di etnia, i quali solo a causa di questa diversità, non per altro, sono violentati ed emarginati.

È un negro che si permette di mettere in faccia al Paese la verità e l’attualità di un’ingiustizia concentrata su condizioni essenziali, vale a dire anche più intime e originarie rispetto al rango, all’impostazione religiosa, alla formazione culturale; e cioè la verità e l’attualità di un’ingiustizia riassunta in una dicitura tanto facile da pronunciare finché non è questione di sentirsene responsabili, e questa dicitura è “razzismo”: perché di questo e non di altro si tratta. E, su tutto, Aboubakar Soumahoro è il negro preso finalmente in castagna: a cianciare di diritti dei migranti mentre la suocera affarista e la moglie in ghingheri affamavano i minorenni e non pagavano i lavoratori nelle strutture di accoglienza.

Se è vero che quel parlamentare ha reagito in modo poco temperante e forse inopportuno alle prime notizie su questa faccenda (l’annuncio indiscriminato di querele non è mai un granché), è altrettanto vero che a investirne la reputazione e l’immagine, di lì in poi, è stato tutto tranne che la presunta ricerca della verità: e davvero tutto, ma proprio tutto, tranne che l’indignazione per il maltrattamento di cui sarebbero stati destinatari quei migranti e quei lavoratori. Gli uni e gli altri, è il caso di dirlo, solitamente non degni delle cure di attenzione in cui ci si esercita, vedi tu la combinazione, quando neppure il negro, ma anche solo il suo circolo familiare, è lambito da qualche ipotesi di irregolarità.

A quest’evidentissima realtà, ed è un capitolo della stessa ignominia, si risponde osservando che no, che c’entra il colore della pelle?, qui ci sono dei fatti da accertare e non è che si può far censura giusto perché l’implicato è un africano. Col triplice dettaglio che i fatti da accertare son dati per certi, che non risulta che l’africano sia implicato e, soprattutto, che se non fosse stato africano non sarebbe partita la caccia che invece è partita.

Che non era la caccia – che non si è mai vista – al marito e al genero di due tipe ipoteticamente disinvolte, e magari anche qualcosa di peggio, nella gestione di qualche cooperativa, ma puramente e semplicemente la caccia al negro travestita da una specie di Mani Pulite dell’immigrazione: per fare giustizia di certi manigoldi che ancora trattano male gli immigrati in un Paese abituato ad accoglierli felicemente, a farli sentire a casa loro, a non discriminarli mai mai mai, a riconoscere loro ogni diritto, a non dire mai, nemmeno per scherzo, “prima gli italiani”. Aboubakar Soumahoro merita solidarietà non per come è lui: ma per come siamo noi. Iuri Maria Prado

Soumahoro e ipocrisie: dello schiavismo non interessa a nessuno. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 28 novembre 2022

Le piantagioni schiaviste, con gli immigrati incurvi sotto il sole a raccattare ortaggi per un emolumento miserabile, e poi i dormitori di lamiera con le fogne a cielo aperto, e le baraccopoli e i casermoni di periferia che a fine giornata si affollano di quella gente lacera, coinquilina dei ratti in festa in un trionfo di immondizia e deiezioni, non sono episodiche vicende scandalose sfuggite al controlli civile di chi blatera di diritti: sono la realtà risalente e sistematica che offre buona materia elettorale e da comizio a chi non saprebbe che fare senza la riserva di quel degrado. Il regime schiavista cui sono sottoposti quei disgraziati non è l'effetto del neoliberismo selvaggio e dell'oscena logica del profitto che li tiene incatenati al proprio destino derelitto: è l'effetto di un dirittismo declamatorio, analogo alla retorica operaista che ha garantito agli operai italiani i salari più bassi d'Europa, e che trae alimento proprio dall'irreversibilità di quella condizione miserabile. Perché piuttosto che inserirli in un circuito virtuoso della produzione, competitivo, concorrenziale, anziché limitarsi a caricarli sul conto di un welfare simultaneamente insostenibile e straccione, il poverismo della Repubblica fondata sul lavoro preferisce farne una massa in attesa dell'assegnazione del diritto acquisito al sussidio, e per i più meritevoli un posto in lista. Questi giorni di polemica hanno reso solo più spettacolare una realtà manifesta da sempre, e cioè che di quella gente non frega niente innanzitutto a quelli che fanno le mostre di tutelarne i diritti.

Il caso e la gogna. Chi è Aboubakar Soumahoro e perché è stato aggredito da tutti. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Novembre 2022

L’aggressione razzista ai danni dell’onorevole Aboubakar Soumahoro sta proseguendo con il contributo o nell’acquiescenza di pressoché tutto l’arco politico-giornalistico, e ogni giorno che passa si carica di prove a propria denuncia: cioè a denuncia del fatto che appunto di quello si tratta, di una campagna aggressiva che ha molto poco a che fare con l’accertamento della verità, con le propugnate esigenze informative, con il rendiconto cui è chiamato il paladino dei deboli che invece faceva soldi e carriera sulle loro spalle, e ha piuttosto molto a che fare con un pregiudizio ben misurato sul colore della pelle del “talentuoso ivoriano”, come lo chiama qualcuno adoperando il protocollo giudiziario che rinfacciava “furbizia orientale” alla testimone magrebina.

La riprova più tonda e scandalosa di quel tratto razzista, posto a contrassegnare in modo evidente quanto denegato tutto il circo di questi giorni, sta nell’uso, cui ci si è abbandonati a destra e a manca, del più classico argomento difensivo puntualmente impugnato dal razzismo inconsapevole o no: vale a dire che quella matrice sarebbe esclusa considerando che a strillare contro quel signore sarebbero innanzitutto gli stessi che egli pretendeva di tutelare. “Ma quale razzismo?! Sono i migranti, sono gli stessi braccianti neri ad accusarlo!”. Che è quel che dice l’antisemita preso in castagna: “Io ho tanti amici ebrei! E anche loro dicono che sono avari! Anche loro dicono che Hollywood e Big Pharma è tutto un magna magna della lobby ebraica!”.

È comprensibile che questi razzistelli sentano sulla propria coda lo scomodo tallone di chi fa osservare che possiamo girarla come vogliamo, ma siamo il Paese in cui un signore impugna il rosario e lo agita in faccia ai migranti da ributtare in mare in nome di Gesù Cristo, il Paese in cui il medesimo signore annuncia l’invio delle ruspe contro la “zingaraccia”, il Paese in cui la stampa coi fiocchi mette in prima pagina il controllore del treno che fa la ramanzina “Agli africani senza biglietto” (notoriamente gli italiani lo pagano tutti, il biglietto, e quando capita che non lo paghino finiscono in prima pagina col titolo “Acciuffati due di Treviso che viaggiavano gratis”), il Paese in cui il deputato in fregola si fa cronista della razza bianca violentata strillando su Twitter che lo stupratore “È un immigrato”, e sarà evidentemente una pura combinazione se non fa altrettanto quando il bruto è di Abbiategrasso o di Macerata.

E nel Paese in cui queste cose (per non dire di quelle ben peggiori) succedono regolarmente, e senza che esse siano avvertite come l’indice molto preoccupante di un rapporto gravemente disturbato con il diverso, lo straniero, l’appartenente a culture e a ranghi sociali in zone di sospetto, ebbene in un Paese così è comprensibile che non si riconosca, per inconsapevolezza o più spesso per malafede, che a fare le pulci al rogito e alle mutande griffate della moglie di Soumahoro non è la brama di verità ma la tigna razzista che si occupa dei diritti dei migranti, vedi tu la combinazione, quando è il nero a maltrattarli.

La tigna che gli rimproverava di non aver ripudiato pubblicamente la cerchia familiare, di non aver reclamato un po’ di giustizia democratica sulle spalle della moglie oltraggiosamente rivestite di capi alla moda, e che ora gli rinfaccia di non aver ancora rinunciato allo stipendio parlamentare di decretata scandalosità dai palchi dell’informazione che razzola nella trincea dell’onestà, quella che cura il diritto di sapere dei cittadini perbene che tirano la carretta mentre quello là sale a Montecitorio con il fango fasullo sugli stivali. Torni al posto suo, questo impostore, e trionfino finalmente i diritti dei migranti che lui e la suocera hanno messo nel nulla. Evviva il giornalismo tutto d’un pezzo che invece li difende, questi derelitti nelle piantagioni schiaviste e nelle periferie sbrindellate, li difende dalla mafia nera del clan Soumahoro. Iuri Maria Prado

Giustizialismo due punto z. L’aggressione razzista a Soumahoro arriva dagli stessi che si bevono la propaganda putiniana. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 3 Dicembre 2022.

Chi non distingue invasore e invaso in Ucraina, guarda caso, attacca senza pietà il parlamentare nero, in un modo che non c’entra nulla con la ricerca della verità ma molto con il colore della pelle

Vorrei parlare del caso di Aboubakar Soumahoro parlando di qualcosa che apparentemente non c’entra nulla e invece è proprio in argomento. Avete presente la guerra all’Ucraina? Non la guerra "in" Ucraina, come molto spesso si dice, ma la guerra all’Ucraina: perché uno l’ha fatta e continua a farla e l’altro l’ha subita e continua a subirla.

Bene, abbiamo letto in questi mesi che sì, d’accordo, c’è un aggredito e c’è un aggressore, ma dopotutto anche questo Volodymyr Zelensky non è che sia proprio uno stinco di santo, zittisce gli oppositori, introduce la legge marziale, limita la libertà di stampa, insomma è un mezzo dittatore.

In questi mesi di guerra "in" Ucraina, mentre c’era la guerra "all’Ucraina", abbiamo letto e sentito tante volte che sì, va bene i russi, però attenzione perché tra gli altri ci sono tanti nazisti, il battaglione Azov, i soldati che si fanno fotografare con la svastica, quella non è mica una vera democrazia, eccetera.

Ecco, tutte queste cose – se anche esistono – cessano di essere rilevanti quando c’è di mezzo il bombardamento degli ospedali, degli asili, dei mercati, quando di mezzo ci sono gli stupri, la deportazione di centinaia di migliaia di bambini, la sistematica distruzione delle centrali elettriche, dei depositi di cibo, delle infrastrutture che garantiscono gli approvvigionamenti e appunto tutto ciò non per caso, ma sistematicamente, per fare l’Holodomor n. 2 mentre qui qualche cialtrone parla del bambino nella grotta che chiede la pace.

Ma si vuole un altro esempio caldo? Eccolo: è ben possibile che tra i ragazzi e le ragazze con la testa maciullata dalla polizia morale in Iran ci sia anche qualche mascalzone, ma questo che cosa significa? Che cosa c’entra? E avviciniamoci al caso di cui stiamo discutendo, a Soumahoro. È molto probabile che tra i neri incatenati nelle piantagioni schiaviste ci fossero anche dei brutti ceffi, anche dei bei delinquentoni: ma questo che cosa c’entra? Questo forse giustificava la schiavitù?

E quindi Soumahoro: che lui o la sua famiglia abbiano fatto qualcosa di sbagliato o perfino illecito a me non interessa più nulla se vedo che si ingrossa quest’aggressione. Un’aggressione che non c’entra nulla con la ricerca della verità ma soprattutto – non voglio dire soltanto, ma soprattutto – c’entra con il colore della pelle di chi la subisce.

L’obiezione del cretino è pronta: ma tu paragoni il caso di questo magliaro che fa carriera sulla pelle dei migranti mentre la moglie e la suocera li affamano? Paragoni il caso di questo impostore alle sofferenze del popolo ucraino o alla repressione dei giovani iraniani? Non si possono sentire certi paragoni!

Meditare: a rispondere in questo modo è innanzitutto chi durante ormai quasi un anno di guerra all’Ucraina ha parlato di guerra "in" Ucraina; è in primo luogo chi raccomanda di guardare anche alla parte che rifiuta e vanifica la pace perché si difende; è grosso modo chi reclama il dovere di fare accertamenti, se a Bucha non c’erano i bossoli; è pressoché sempre chi riafferma la missione informativa due punto zeta che obbliga a tener conto della versione russa, perché la propaganda notoriamente c’è dappertutto.

E sono gli stessi che rivendicano il diritto di tracciare i soldi usati per comprare le mutande della trisnonna di Soumahoro perché i diritti dei migranti sono importanti, i diritti dei migranti ben protetti in Italia finché «questo negro di merda» non si è messo a farne carne di porco.

Perché è stato candidato Soumahoro, ieri eroe oggi mostro. Davide Faraone su Il Riformista il 29 Novembre 2022

Ci sono storie che hanno il potere di mettere a nudo ipocrisia e retorica anche al di là delle vicende personali dei loro singoli protagonisti. La storia di Aboubakar Soumahoro è una di queste. Soumahoro ieri era un eroe, oggi è il “mostro”. Il tritacarne mediatico, inesorabile e spietato, come sempre stritola uomini, esistenze e storie senza curarsi di approfondire, scavare o banalmente di aspettare il giudizio della magistratura. È la clava barbara del giustizialismo che non risparmia nessuno, nemmeno coloro i quali questa clava la conosco benissimo perché, in genere, la brandiscono con ferocia contro i propri avversari.

Ovviamente non sto parlando di Soumahoro, al quale rivolgo la mia solidarietà umana per la gogna preventiva che sta ricevendo e l’auspicio che tutto possa risolversi nel migliore dei modi. Mi riferisco invece a quella sinistra radicale, farisaica e cinica, che prima consacra simboli eterei e poi, alla prima difficoltà, li brucia alla velocità della luce. Un atteggiamento meschino che rivela la cifra umana, prima ancora che politica, di chi lo adotta. Un cortocircuito morale e culturale che procura ferite profonde alla credibilità delle persone ma soprattutto alle battaglie che questi “eroi usa e getta” portavano avanti.

Qualunque sarà l’epilogo di questa vicenda, infatti, la certezza è che da domani i braccianti invisibili saranno ancora più invisibili. La loro causa è infangata, la fiducia compromessa. Eccoli i risultati ottenuti dalla sinistra radicale: un caposaldo costituzionale come il garantismo nuovamente profanato e un danno epocale inferto a quelle donne e a quegli uomini che a parole dicevano di voler difendere. Davide Faraone

Basta massacrare Soumahoro, l’ong Mediterranea si schiera col deputato: “Contro i processi sommari”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2022

Abbiamo seguito come tutti la vicenda che ha coinvolto Aboubakar Soumahoro, e con grande dispiacere, innanzitutto per ciò che implica umanamente per un amico, una persona che abbiamo conosciuto in situazioni di lotta e che ci ha sempre sostenuto. Le implicazioni politiche, culturali e sociali di questa storia rischiano di ricadere, come sempre, sulla pelle di chi soffre ingiustizie, soprusi, nei ghetti come nei “centri di accoglienza” troppo spesso dimenticati, come se non ci dovessero essere lì dentro vite di persone in carne ed ossa, esseri umani e non numeri.

Perché in molti vogliono che niente cambi per le vere vittime. Primi tra essi i grandi giustizieri: sono pronti ora a chiudere i ghetti dei braccianti dando casa e contratti dignitosi a chi anche ora vive nel fango? I grandi moralizzatori sono pronti ora a fare ispezioni a tappeto in tutti i centri di detenzione o in quelli di accoglienza, per vedere dove è possibile vivere dignitosamente e dove no? Abou è stato travolto da una gogna mediatica, e abbiamo riconosciuto le fragilità di ogni persona normale che viene massacrata sotto i colpi della lapidazione e anche sotto il peso dei propri errori. Ma noi non ci stiamo ad abbandonare nessuno. Questa storia ci fa riflettere sulla necessità, culturale e politica, di emanciparci dai paradigmi del “superuomo” (e dello show che si nutre di lui) ma anche da quelli dei “tribunali del popolo”.

Crediamo nell’imparare insieme dai propri errori, perché qui siamo tutti coinvolti anche se ci crediamo assolti. Combatteremo sempre i processi sommari che costruiscono e sbattono i mostri in prima pagina. Combatteremo sempre chi pensa che una opinione diversa giustifichi la messa in moto di campagne denigratorie, diffamatorie, di umiliazione pubblica contro il “nemico” e le sue fragilità. Non vedere che alimentare o giustificare il massacro politico e umano di Abou, con silenzi o peggio con accuse infamanti che vanno ben oltre la realtà dei fatti, equivale a seppellire anni di lotte collettive, idee, sogni di costruire un mondo diverso, è pura follia. I processi li fanno i tribunali, i percorsi politici li decide la storia collettiva di una società.

Ora per noi è il tempo di combattere contro gli sciacalli e gli avvoltoi, di ogni risma, che non aspettavano altro che vedere un cadavere da poter sbranare. Abou continuerà il suo cammino, e sarà diverso da prima. Speriamo che, per primo lui, farà di tutto per far luce su ciò che per chi lotta per la dignità e la giustizia, non può rimanere in ombra. Basta con le pubbliche umiliazioni del capro espiatorio, le trame, i complotti e il giustizialismo. Con la logica della lotta politica come guerra per bande. Con la schadenfreude per la lapidazione.

Noi non lasciamo affogare nessuno di quelli sbalzati in acqua dalla furia delle onde o dalla propria imperizia nell’affrontare il mare.

La lotta continua, e se diventiamo più umani e consapevoli, sarà tutto di guadagnato non per noi, ma per quelli che stanno peggio. È a loro che dobbiamo rispondere di ciò che facciamo, e alla nostra coscienza. È per i diritti di tutt* che siamo in mare ed in navigazione e questa è la nostra unica bussola.

Il Consiglio Direttivo di MEDITERRANEA Saving Humans

Soumahoro, il colpevole perfetto: lapidato a destra, scaricato a sinistra. Il deputato di Verdi-Sinistra italiana non è indagato ma su di lui si è scatenata una tempesta di fango. Costa: «Il processo è già stato fatto». Simona Musco su Il Dubbio il 23 novembre 2022

«Quando si dice voler eliminare l’avversario per via giudiziaria… questo mi sembra uno dei casi di scuola». Il deputato di Azione Enrico Costa non è un garantista a intermittenza. Per questo, pur essendo «lontanissimo» dall’idea politica di Aboubakar Soumahoro, non può digerire la gogna mediatica che ha colpito il deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra.

Il colpevole perfetto, l’uomo arrivato dal nulla, con l’idea di cambiare il mondo, capace di fare ingresso in Parlamento con gli stivali sporchi di fango. Un gesto simbolico che ha illuminato gli occhi di tanti e fatto storcere altrettanti musi. Un eroe o un farabutto, non c’è via di mezzo per Soumahoro, la cui pelle nera è diventata strumento per più fini: da un lato la carta da giocare a sinistra per dimostrare di credere in certi ideali e di essersi schierati tra i buoni, a destra per dimostrare che “quelli lì” buoni lo sono solo a imbrogliare.

L’inchiesta della procura di Latina

La vicenda è ormai nota: la procura di Latina ha aperto un fascicolo sulle cooperative Karibu e Consorzio Aid, nella cui gestione sono coinvolte Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e Liliane Murekatete, sua moglie, con lo scopo di approfondire aspetti contabili e verificare presunti maltrattamenti rivelati da alcuni ospiti delle due cooperative. Il deputato, però, non ricopre alcun ruolo in quelle coop e l’inchiesta non lo sfiora nemmeno. Ma sui giornali si è scatenata la caccia al “mostro”, un’occasione d’oro, per alcune testate, per declassare Soumahoro dal ruolo di difensore dei braccianti a quello di sfruttatore senza scrupoli.

La reazione di Soumahoro: «Mi vogliono distruggere»

La reazione del sindacalista diventato parlamentare non si è fatta attendere: in un video pubblicato sui suoi canali social, in lacrime, ha accusato chiunque stia speculando sulla vicenda di volerlo «distruggere», minacciando di querelare chi «sta usando i miei affetti per colpirmi». Perché attorno alla vicenda giudiziaria ancora tutta da scrivere i giornali si sono riempiti di racconti sul “falso mito” di Soumahoro, uno che, stando alla stampa di destra, sulle sfortune dei braccianti avrebbe costruito la propria carriera politica, altro che paladino della giustizia.

Non bastassero questi racconti, a fare notizia è stata anche l’attività social della moglie. Colpevole di indossare vestiti e accessori costosi, di fare foto in posa in alberghi di lusso, di essere stata ribattezzata “Lady Gucci”. «Foto da vamp» che «non aiutano», ha scritto sul CorSera Goffredo Buccini, come se per essere credibili l’unico abito adatto sia quello da suora. Altrove si chiedeva conto a Liliane di come avesse acquistato quella roba. Domande che forse nemmeno la procura di Latina si è fatta, ma nel circo mediatico ogni lembo di pelle esposto è buono da cannibalizzare.

L’inchiesta risale al 2019 e negli ambienti giornalistici non era certo una novità. Ma la bomba è esplosa soltanto poche settimane dopo le elezioni, quando Soumahoro ha iniziato ad occupare un banco che autorizzerebbe chiunque, a quanto pare, a chiedergli conto di cose che probabilmente non conosce. Che forse nemmeno esistono, se esiste ancora la presunzione di innocenza. Ma invece lui dovrebbe sapere tutto. E così il suo silenzio risulta sospetto e non basta che dica di non saperne nulla, cosa magari del tutto vera. Il motto “non poteva non sapere”, che si cuce addosso a chiunque svolga un ruolo pubblico, torna di moda, con l’autorità di un articolo del codice penale. Dimenticando che la responsabilità penale, se c’è, è personale. 

«Rappresento l’onorevole Soumahoro esclusivamente per delle azioni legali che stiamo valutando di porre in essere per le avvenute diffamazioni nei suoi confronti – ha spiegato al Dubbio l’avvocato Maddalena Del Re -. Ribadisco che non è destinatario di alcun tipo di indagine, ma si è trovato costretto ad avere una difesa legale per gli attacchi ricevuti dai media. Quello che gli si chiede è di entrare nei dettagli di una indagine di cui non si conoscono i contorni: la procura di Latina ha rilasciato una dichiarazione stringatissima nella quale si dice espressamente che sta valutando eventuali profili penali di determinate condotte nel massimo di riserbo. Si è creato un cortocircuito mediatico per il quale a un personaggio politico e pubblico che è del tutto estraneo a una vicenda giudiziaria si chiede conto di qualcosa che non conosce, come se fosse una colpa non avere dettagli precisi di date o circostanze. Qualunque condotta assuma, per una malintesa interpretazione della comunicazione, in qualche modo rischia di risultare responsabile».

L’occasione era infatti troppo ghiotta per non lanciarsi sul deputato e dedicargli titoloni da far accapponare la pelle. Ne citiamo uno solo: «Gli schiavisti in casa sua», copyright di Libero. Perché se il poveretto finito nel mirino – anzi, nemmeno: nei paraggi – di un’inchiesta giudiziaria non è del proprio partito di riferimento, il garantismo – “che è nel nostro dna”, si sente dire di solito – può pure andare a farsi benedire.

Soumahoro, lapidato a destra e scaricato a sinistra. Bonelli: «Ho commesso una leggerezza»

Così a destra sono subito partite le macchine delle interrogazioni e l’indignazione senza via di scampo, ma anche nel partito di Soumahoro non si è perso tempo: «Ho commesso una leggerezza», avrebbe confidato ad amici il leader dei Verdi Angelo Bonelli, dando ragione a chi ha malignato che la scelta di candidare Soumahoro non fosse legata alla sua storia, ma al fatto che fosse una figurina buona da giocarsi alle elezioni. Costa, dal canto suo, non lesina critiche a politica, stampa e inquirenti. «C’è stato un attacco molto feroce a Soumahoro dal punto di vista “giudiziario”, anche se non interessato direttamente, e dalle notizie frammentarie pubblicate si capisce chiaramente che qualcosa è trapelato dagli uffici giudiziari o dagli organi inquirenti. Ed è una cosa non particolarmente edificante. Siamo in fase di indagini – ha commentato al Dubbio -, ma queste persone sono già praticamente passate come responsabili, anche e soprattutto sulla stampa. Il fatto che si tratti di un avversario politico non fa venir meno certi principi, anzi valgono il doppio. E ho letto molti commenti definitivi da parte di persone normalmente “garantiste”, solo perché ad essere coinvolto è uno che siede dall’altra parte. Il processo è già stato fatto e la sentenza è già stata emessa».

Parlare a nuora, perché suocera intenda. Il caso Soumahoro è un miscuglio tossico di razzismo, classismo e giustizialismo. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 23 Novembre 2022.

Sul deputato di Sinistra italiana si sono scagliati due tipi di giustizialismo: quello accattone della destra, che fruga nei cassonetti di qualunque inchiesta per infangare un sedicente “buono” e quello mistico della sinistra, che transustanzia la persona dell’accusato

Se non ci fosse niente da ridere e molto da piangere, verrebbe da dire ad Aboubakar Soumahoro: «Benvenuto in Italia». Non c’è infatti nulla di più tipicamente nazionale – di più «italo-italiano», avrebbe detto Marco Pannella – del vizioso virtuismo da apericena della sinistra e del garantismo a geometrie razzialmente variabili della destra che, appena partita l’indagine su presunte malversazioni nella cooperativa sociale Karibu e nel consorzio Aid, hanno appiccato l’incendio in cui il parlamentare nero si è già bello che bruciato, al di là degli esiti di una vicenda giudiziaria, che peraltro non coinvolge neppure lui, ma la compagna e la di lei madre.

È da giorni in corso una sfilata di “io sono garantista, ma…” che ha unito praticamente tutti, da Angelo Bonelli a Maurizio Gasparri, nell’unità nazionale della cattiva coscienza, a dare lezioni di accoglienza, di correttezza sindacale, di giuslavorismo cooperativistico al genero nero dell’indagata nera, cinica sfruttatrice di diseredati.

A rendere tutto ancora più grottesco è che le lezioni riguardano un tema su cui nessuno degli onorevoli inquisitori dell’onorevole indagato per interposta suocera ha le carte in regola, avendo tutti loro imposto o accettato che la gestione dell’accoglienza, dai rimpatriabili nei Cie, ai richiedenti asilo nei Cara, avesse caratteristiche sostanzialmente detentive (e dunque inevitabilmente criminogene) e bilanci risicati (e quindi condizioni di vitto e alloggio miserabili), per non irritare la brava gente scandalizzata che lo Stato per i disperati ripescati in mare spendesse ben 35 euro al giorno cadauno.

Nella vicenda di Soumahoro, cioè non nell’indagine sui suoi congiunti, per cui neppure sappiamo se ci sarà mai un processo, ma nel processo già celebrato e concluso contro di lui, si sono sommate nell’azione e moltiplicate negli effetti il giustizialismo accattone della destra, che fruga nei cassonetti di qualunque inchiesta per pescare le carte buone a infangare un sedicente “buono” e il giustizialismo mistico della sinistra, che transustanzia la persona dell’accusato, anche se “compagno”, nel fantasma della sua colpa presunta, ipotizzata o, come in questo caso, addirittura trasferita per via familiare, perché ovviamente Soumahoro non poteva non sapere.

Poi a fare il vuoto attorno a Soumahoro ancora più perfetto e più rotondo e il discredito più condiviso e unanime, c’è il particolare che quello, che uno dei tanti articoli-esecuzione di questi giorni definisce il «talentuoso ivoriano», è un nero, anzi diciamola tutta, un “negro”. Poi non è neppure un nero che fa il povero nero e a cui si possa dare paternalisticamente del tu – come è scappato anche a Meloni – ma è uno consapevole e orgoglioso di sé, che venendo da una storia abbastanza emblematica, ampiamente sfruttata dai suoi ex amici e sempre screditata dai suoi nemici, si è messo a fare il sindacalista dei braccianti schiavi dei caporali: mestiere più complicato del negoziato sui buoni pasto in un ufficio parastatale.

Ora, dicono i suoi ex amici e i suoi nemici, si è montato la testa, ha altre ambizioni e quindi questa inchiesta è arrivata proprio a fagiuolo. Il suo gruppo parlamentare ha vergato un comunicato oscenamente curiale invitandolo a un incontro per «avere da lui elementi di valutazione su questa vicenda che contribuiscano a fare chiarezza»: cioè, non deve essere la procura a dimostrare che le sue congiunte sono colpevoli di qualcosa, bisogna che lui in un processo preventivo e parallelo dimostri ai sopracciò politico-parlamentari (che fino a due mesi fa si aggrappavano ai suoi stivali infangati e alla sua storia per scavallare il 3% alle elezioni) la personale estraneità a una vicenda che potrebbe pure essere fatta di nulla.

Rimango in attesa che Bonelli, Nicola Fratoianni e compagnia rivolgano analogo sollecito all’amato Giuseppe Conte, a proposito dei vecchi impicci del suocero, beneficiato da un provvido emendamento del genero. E sapendo che questa attesa sarà vana, rimango persuaso che il caso Soumahoro sia solo una storiaccia di classismo, razzismo e giustizialismo assortiti e combinati in modo tossico.

L'ennesimo "santino" della sinistra. Il caso Soumahoro è un monito per la destra e una lezione per la sinistra. Il monito per la prima è di non imitare la sinistra nel giustizialismo. Marco Gervasoni su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Il caso Soumahoro è un monito per la destra e una lezione per la sinistra. Il monito per la prima è di non imitare la sinistra nel giustizialismo. Al momento, il parlamentare non pare indagato, diversamente dalla suocera. E anche quand'anche lo fosse, ciò non vorrebbe dire nulla. Lascia poi perplessi vedere gruppi di maggioranza agitare l'interrogazione parlamentare, a seguito di una inchiesta della magistratura, contro un deputato dell'opposizione. Non è infine il massimo che la stampa si sia scatenata solo dopo l'intervento della magistratura: a rimorchio, benché talune voci su irregolarità nelle cooperative ora indagate già girassero da tempo. Insomma, essere ultragarantisti con i propri e forcaioli con gli altri, non è il non plus ultra del garantismo. E ancora più grave è essere manettari sempre, come sono usi a sinistra. I Verdi di Bonelli e Sinistra Italiana di Fratoianni, già infatti stanno approntando una specie di processo politico, e anche qui, non prima, ma solo dopo l'intervento della magistratura, nonostante un ex parlamentare di quell'area, Elena Fattori, si fosse dimostrata perplessa sulla candidatura del sindacalista. Possibile che ci si svegli solo quando si muovono i magistrati? Ma la lezione che il caso impartisce alla sinistra è un'altra. Smettetela di cercare i santini. Di andare a scovare figure che, per la loro immagine, rappresentano, su un piano mediatico, la correttezza politica, che incarnano il partito dei «buoni», e che appartengono alla cosiddetta «società civile», considerata chissà perché sempre pura e incontaminata. Finitela poi di farne dei fenomeni: non era grottesco che, fino al giorno prima della inchiesta, Souamahoro fosse presentato, dalla stampa di sinistra, come un possibile nuovo segretario del Pd, partito a cui peraltro neppure appartiene? Gli stessi giornali che, non appena si sono mosse le procure, lo stanno abbandonando. La teoria di «papi stranieri» buoni che si sono rivelati dei flop sarebbe lunga: basti ricordare Mimmo Lucano (che però è stato condannato), le sardine e Santori, la Boldrini, per non parlare della stagione dei Pm, inaugurata da Di Pietro e finita con Ingroia. Innamorarsi sempre delle persone sbagliate è un grave segno di fragilità: ancora più se, dopo un giorno che le si conoscono, si offrono loro le chiavi di casa. Alla sinistra serve un buon psicanalista collettivo, altrimenti a breve chissà quanti altri Soumahoro nasceranno.

Il razzismo di chi si finge non razzista. Soumahoro vittima del razzismo della sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo: persino Salvini difese Morisi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Novembre 2022

Seguirò l’azzardoso esempio di Iuri Maria Prado e parlando dell’on. Soumahoro e anziché dire “nero” dirò anch’io negro, perché il razzismo, come la mafiosità, conta su due sistemi comunicativi. Il “black” importato dall’America come “nero” che in Italia sostituisce “negro”, ma in America l’appellativo schiavistico “nigger” o “negro” (pronunciato nigro) certifica un fatto storico: l’abolizione della schiavitù e quella sempre parziale dell’apartheid, e cioè di far credere che il razzismo sia stato vinto, assecondando l’ipocrisia politica. E dunque smettiamo di dire nero e assumiamo il negro, come del resto hanno imposto i black americans, che hanno riservato a sé stessi il diritto esclusivo di usare l’aggettivo “negro” per parlare da negro a negro, senza l’intromissione del bianco.

Un nero americano si rivolge a un nero americano dicendogli “Hi, my nigger,” e my nigger è il nome di una fratellanza nella razza. Chi ricorda l’autobiografia di Malcolm X ricorda le temerarie parole con cui il leader mise a nudo l’infezione razzista all’interno delle comunità nere dove immancabilmente i neri più chiari perseguitano quelli più scuri. Sì, ciò che sta accadendo in questi giorni all’onorevole Soumahoro è razzismo. Una prova? Io stesso. Chiamato in televisione a commentare la vicenda di quest’uomo sul cui conto indagano i carabinieri anche se in mancanza di una sola ipotesi di reato – intanto mettiamo tutto sotto inchiesta, setacciamo ogni frammento della sua vita, famiglia, affari, pensieri, azioni e poi vediamo – io stesso ho emesso parole che biasimavano o almeno sconsigliavano il deputato Soumahoro dal piagnucolare, querelare, farsi venire attacchi di nervi esagerati perché con paternalistica superiorità. intendevo dirgli: eddài, non fare il negro piagnone, con moglie e suocera che non pagano i dipendenti e non danno abbastanza cibo ai ragazzi. Fai invece il negro buono, che rallegra gli antirazzisti da salotto di casa nostra, della nostra ipocrita sinistra, sempre pronta a sporcarsi poco le mani e ancor meno la coscienza, avendo sempre la mascherina sul naso e l’amuchina giusto in caso il cosiddetto nero non fosse proprio un campione d’igiene, di questi tempi non si sa mai, mica per razzismo, per carità.

E invece, fratelli bianchi, guardiamoci e guardatevi in faccia – e mi ci metto anch’io – siamo affetti da doppio razzismo, che è la versione del razzismo di sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo, perché abbiamo paura sia dell’essere umano verniciato di melanina che vuoi o non vuoi è sempre un soggetto particolare anche se in nome della nostra ipocrisia lo esaltiamo mentre invece quello, o quella, chiede di essere trattato normalmente, sia dal nostro razzismo di dentro, quello che madre natura mette dentro a tutti come diffidenza del diverso, sia per motivi animali che non risparmiano nemmeno noi, figli delle belve della savana e non degli angeli. Nel Lessico Famigliare Natalia Ginzburg, ebrea piemontese, ricordava l’innocenza ingannevole di suo padre che quando voleva dire qualcosa di sbagliato, ridicolo e incettabile, diceva è una “negrigura”, parola peraltro italianissima che sta anche sul dizionario Treccani. Far finta di essere esenti dal peccato originale del razzismo (quello subdolo, sudicio, travestito, come quello degli antisemiti che prima o poi ti dicono che il loro miglior amico è ebreo) è far finta di essere razzialmente superiori. Dunque, è una confessione di razzismo. E allora, tanto per essere chiari e sfrenati, ricordiamo un coraggioso che in genere non ci viene in mente ed è Matteo Salvini, il quale di fronte ai guai del “bestia”, il suo fedele collaboratore Morisi accusato di traffico o di droga, si buttò a corpo morto per difendere un suo uomo portato sotto la gogna mediatica e linciato. Salvini ebbe fegato, anche se poi si esibiva nel numero dei citofoni chiamati dalla strada: “Pronto? È lei lo spacciatore? Mi dicono che lei spaccia”.

Lasciatemi spendere qualche parola da vecchio reazionario politicamente scorretto: ci hanno rotto per decenni le palle sulla retorica del diverso. Io sono stato diverso a causa dei miei capelli rossi quando mi terrorizzavano chiamandomi roscio malpelo. Figlio di un padre, rosso anche lui che, come ogni padre Dc, mi avvertiva e raccomandava di stare con la testa bassa, non reagire, portare un cappello che nascondesse l’anomalia. Oggi può far ridere ma negli anni Quaranta e Cinquanta i razzisti non avevano nessuno di meglio da linciare, che i rossi e coloro che avessero qualsiasi difetto fisico. È il principio odioso del capro espiatorio per cui sono sempre i diversi, non importa quanto, a finire giù dalla Rupe Tarpea o sulle fascine accese, legati a un palo, accusati di essere streghe, stregoni, figli rossi (di nuovo) del diavolo, ebrei marrani, eretici e devianti sessuali. Chiunque non sia del proprio gregge, del proprio sugo e delle proprie spezie, chiunque abbia un odore di ascelle che non è come il nostro. Bisogna viverci davvero in una società multirazziale, multiculturale, con più di venti varianti di possibili identità di genere, colore, accento, etnia…

E allora diciamolo chiaramente, che tutta la storia del deputato della Repubblica Soumahoro è la schiuma del razzismo incorporato e paternalistico, della rabbia per il fatto che questo sindacalista africano che difende quelli della sua stessa storia ci avrebbe delusi perché in definitiva anziché comportarsi come un candido cavaliere senza macchia e senza paura, si comporta come un uomo che ha paura, si indigna, avverte il peso della propria pelle nera, si ritrova gli investigatori in casa e finisce sulle prime pagine e sui telegiornali per una e una sola ragione: perché è negro. Diceva la vecchia canzone napoletana sui figli nati dalle relazioni sessuali fra ‘e signurine napulitane e i soldati americani: “Chillo, o fatto, è niro, niro. Niro, niro comm’a che!”. Tutti quei figli neri napoletani io li ricordo benissimo perché vivendo a Napoli erano affidati alle buone suore che li picchiavano senza pietà e poi sparivano. Chissà che fine hanno fatto. Noi non siamo mica razzisti. Ricordate la storiella del cumenda milanese che dice: “Razzista mi? L’è lù che l’è negher”. Con la differenza che oggi non abbiamo di fronte il cumenda milanese, ma l’intera sinistra italiana che bela, che biascica, che mormora, che distingue, che vorrebbe prendere almeno un pesce e non sa che pesce prendere.

E non può, perché non sa guardarsi allo specchio e dire: fosse che in fondo i razzisti siamo noi con tutta questa carità pelosa, questa carità ignobile di chi vorrebbe dare ai negretti tutte le mutande senza elastici, le calze spaiate, le camicie lise, e per loro vuoterebbero le cantine, si libererebbero della bici senza una ruota e di tutte le scatole di cibo scadute solo da un mese? Li ho visti in Calabria i negri che neanche in Alabama: ammassati nelle case sfondate i cui padroni viaggiavano in Ferrari e che nutrivano i negri con farina per maiali arricchita di vitamine e davano loro cessi di cartongesso. Erano tutte inchieste se non ricordo male del procuratore Gratteri. E ora c’è questo rompiscatole che si trova pure nei guai per una madre e una suocera e che piagnucola, minaccia querele, fa una debolissima voce grossa e nessuno della sinistra finta ha il fegato di dire: Soumahoro è un uomo ed è nostro, mentre noi invece siamo una massa di opportunisti razzisti. Non uno. Sono tutte anime candide, cioè bianche.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il caso Soumahoro e l’ipocrisia della sinistra che lo ha abbandonato. Messa di fronte alla scelta tra l’opportunismo e i principi dello Stato di diritto, ha scelto l’opportunismo del ‘"non sapevamo". Giuliano Cazzola su Il Dubbio il 2 Dicembre 2022

Aboubakar Soumahoro si è autosospeso dal gruppo di Sinistra&Verdi che lo aveva candidato nella coalizione dei democratici e progressisti e fatto eleggere (nel proporzionale) alla Camera dei deputati, dove si era presentato il giorno dell’insediamento calzando, sotto un abito di buon taglio, gli stivali di gomma, da lavoro, sporchi di fango. Probabilmente li aveva acquistati apposta per esibirli in quell’occasione, in evidente polemica con il ‘’potere’’ che non si cura dei ‘’dannati della terra’’ dei quali il neo deputato si considerava legittimo rappresentante e interprete dei loro bisogni.

Io non conoscevo neppure l’esistenza di questo ex sindacalista, ma da quel gesto all’ingresso di Montecitorio mi sentivo offeso, come in tante altre occasioni in cui sono stati esibiti cappi con tanto di nodo scorsoio, fette di mortadella, pesci e quant’altro è entrato a far parte della cronaca minore della politica. Poi, seguendo le polemiche sollevate dalle campagne di stampa e televisive riguardanti l’attività della sua famiglia, della suocera e della moglie, in assenza di qualsiasi indagine giudiziaria su Soumahoro, ho avvertito l’esigenza di prendere posizione pubblica contro l’ennesimo linciaggio mediatico a cui mi toccava di assistere. Così i principi hanno prevalso sull’antipatia.

Le colpe delle suocere – mi sono detto – non possono ricadere sui generi. La magistratura – speriamo – farà chiarezza, anche se si stanno concretizzando fatti e circostanze testimoni di un ambiente di lavoro e di vita in cui, per commissione od omissione, Aboubakar si trovava a proprio agio. Io ho un’inguaribile tendenza a sostenere le cause perse (anche perché, arrivato alla mia età, ho scoperto che sono le uniche per le quali vale la pena di combattere). Anche per questa propensione voglio dare al neo deputato autosospeso un consiglio non richiesto: quello di rimanere al posto dove l’hanno mandato i suoi concittadini.

Chi legge il suo curriculum si accorge che Soumahoro dispone dei mezzi culturali e politici, oltreché dell’esperienza, per fare bene il lavoro da deputato. Penso che per lui sia stato uno shock precipitare, da un momento all’altro, dal piedistallo degli eroi, del difensore dei giusti per trovarsi sbattuto in prima pagina alla stregua del ‘’feroce Saladino’’, con gli amici di prima che fingevano di non conoscerlo. Non gli fanno onore né la reazione piagnucolosa né i tentativi di depistaggio di coloro che si erano precipitati a saccheggiare la sua vita. Ma il suo caso può essere utile al Paese, perché è rivelatore dei guasti che la canea mediatico-giudiziaria ha determinato (nel suo come in tanti altri casi) nella convivenza civile del Paese.

Soprattutto Soumahoro è la denuncia vivente di una politica ormai priva di principi, che va alla ricerca dei ‘’simboli’’ per riconoscere in essi se stessa o i propri avversari. Soumahoro rappresentava il simbolo della lotta contro il caporalato, contro lo sfruttamento dei braccianti e in questo ruolo (l’immagine è sostanza nel Paese del ‘’percepito’’) dava un’efficace copertura alla sinistra che non vedeva l’ora di ‘’spendere’’ quel profilo nella lotta politica. In seguito – quando sono iniziate le notizie che rendevano sfuocato e dubbio l’alone eroico del personaggio – Soumahoro è diventato, questa volta per la destra, il simbolo dello ‘’nero periglio che vien da lo mare’’, la prova provata che gli immigrati (ancorché cittadini italiani) sono dei profittatori che arrivano da noi a cercare la pacchia e che, per sopravvivere (nel caso in esame piuttosto bene) non esitano a delinquere.

Purtroppo per il neo deputato della lista del Cocomero (ora in stand by) la sinistra si considera come la moglie di Cesare che deve essere al di sopra di ogni sospetto. La ‘’ditta’’ si guarda bene dal difendere quanti dei suoi incappano nella gogna mediatico-giudiziaria. C’è una lunga fila di militanti, finiti nel mirino di una giustizia assatanata, che sono stati lasciati per anni a difendersi da soli, messi da parte come appestati, anche quando le accuse sembravano assurde. Con Soumahoro la destra, con i suoi giornali, si è impegnata in una campagna di inchieste degna di quella della procura di Milano su Berlusconi e le sue cene galanti. La sinistra messa di fronte alla scelta tra l’opportunismo e i principi dello Stato di diritto, ha scelto l’opportunismo del ‘’non sapevamo’’. Come sempre. Bettino Craxi è stato l’unico che ‘’non poteva non sapere’’.

Il prodotto doc di questa sinistra. Non confondiamo la vicenda di Aboubakar Soumahoro, il neo parlamentare di sinistra autoproclamatosi difensore dei braccianti, con una questione giudiziaria. Nicola Porro il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non confondiamo la vicenda di Aboubakar Soumahoro, il neo parlamentare di sinistra autoproclamatosi difensore dei braccianti, con una questione giudiziaria. È chiaro che la magistratura indagherà sui fondi raccolti dalla sua organizzazione, sulla gestione delle cooperative a lui riconducibili, e forse anche sui mutui e i prodotti di lusso acquistati. Ma non facciamoci distrarre. Non cadiamo neanche nella tentazione di pensare che cosa sarebbe successo se i medesimi sospetti avessero riguardato un simbolo delle battaglie del centrodestra. Resistiamo a questa tentazione primordiale. Ben comprensibile, per carità.

Soumahoro è il prodotto della politica di sinistra. È l'alibi che gli eletti nelle zone a traffico limitato si sono costruiti al fine di sembrare popolari. Soumahoro è la copertina dell'Espresso che lo raffigurava accanto a Matteo Salvini, con il seguente titolo: «Uomini e no». Come a dire: il primo appartiene alla nostra specie animale, il secondo, e cioè Salvini e la destra, non ne fanno parte. State certi che nessun Ordine dei giornalisti censurerà questo insulto, nessun intellettuale si scandalizzerà.

Soumahoro è la vittima di una sinistra incapace di essere se stessa. Ha detto in un video parafrasando Malcolm X: «Non sarò il negro del cortile». Dai suoi compagni di strada politica è stato utilizzato in modo molto più spudorato: il negro del Parlamento. Quello che con i suoi stivali infangati doveva ricordare ogni giorno alla destra, anzi alle destre come va di moda dire oggi, la loro disumanità. Una parte della sinistra aveva addirittura pensato a lui come possibile leader.

Lo scandalo non sono i suoi affari da traffichino, non è il suo entourage minaccioso e la sua famiglia allegra. Lo scandalo è che un pezzo di sinistra ritenga che si possa governare questo Paese dando della «bastarda» alla Meloni, rinfacciandole l'articolo sempre e perennemente al femminile; una sinistra che ritiene la Murgia la propria intellettuale di cortile; la stessa sinistra che per un ventennio non ha neanche potuto concepire che gli italiani votassero Berlusconi.

Soumahoro è la nostra sinistra, e la nostra sinistra è Soumahoro. Sono alla ricerca di un simbolo che riempia quel vuoto di idee che li ha condannati per decenni a governare senza avere mai vinto le elezioni. Nel favoloso paradosso per cui tutto vale: il bracciante con gli stivali infangati, l'intellettuale con schwa, il banchiere della Bce e le Carola Rackete che riempiono i campi dove i Soumahoro prosperano fino ad arrivare in Parlamento.

Il tribunale della sinistra ha condannato Soumahoro. Il deputato si autosospende su ordine di Bonelli e Fratoianni. Il leader verde ammette: "Turbato". Francesco Boezi il 25 Novembre 2022 su Il Giornale. 

Come molte delle vicende che interessano la sinistra italiana, il caso Soumahoro si trasforma in un appuntamento semi- processuale. Lui, l'imputato dall'alleanza che lo ha eletto in Parlamento, non è neppure indagato per il caso delle coop. Lo stesso che coinvolge la moglie (che però non è più nel cda) e la suocera (indagata) e che rimane pesante sotto il profilo politico. Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, ed Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde, non possono permettersi passi falsi. L'ambientalista viene descritto come «di pessimo umore» e «inavvicinabile» per via quanto emerso, mentre il post-comunista in questi anni si è speso, e parecchio, sul tema immigrazione. E ora può sorgere un problema di coerenza. Circola un po' di rabbia. Ambienti vicini ad entrambi raccontano: «Si sta cercando un punto di equilibrio tra la colpevolizzazione e l'assoluzione a prescindere». La riunione, che è durata due giorni e che a qualcuno è apparsa come una riproposizione del Tribunale del popolo, dà un esito attorno al primo pomeriggio di ieri: Aboubakar Soumahoro si autosospende dal gruppo parlamentare. All'esterno si dice che la scelta sia dipesa dall'interessato. Dall'interno ci rivelano come la mossa sia stata imposta: «Ne va della tenuta dell'alleanza tra Europa Verde e Sinistra italiana», assicurano. Si racconta pure che anche la Cgil abbia caldeggiato il passo di lato dell'ex sindacalista di base. La versione pubblica non può che percorrere il canone di circostanze come questa: «L'autosospensione, lo dice la parola, è una scelta autonoma, è una scelta di tutela: della sua libertà, di organizzare la risposta alle questioni che gli sono state contestate in questi giorni», dice a stretto giro Fratoianni. Sarà. Bonelli è meno morbido: «Questa vicenda mi ha profondamente turbato, vedere che c'è un'inchiesta, di cui ringrazio l'autorità giudiziaria, da cui emergono maltrattamenti ferisce e indebolisce chi ogni giorno si impegna per garantire quei diritti» , dichiara a Otto e Mezzo, su La7, rimarcando come Soumahoro non sia indagato. Arrivano le parole della capogruppo Laura Zanella: «Rispettiamo la scelta di Aboubakar e gli siamo vicini, il gruppo è solidale con lui nella convinzione e nella speranza che tutto si risolva nel migliore dei modi». Esiste una consapevolezza: qualora dall'inchiesta dovesse emergere qualcosa di serio, specie con un coinvolgimento diretto del parlamentare, la semplice autosospensione potrebbe essere attaccata. Del resto a sinistra è pieno di mondi che hanno fatto del giustizialismo l'unico metro.

Anche dalle parti della maggioranza analizzano gli avvenimenti. Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia che ha presentato un'altra interrogazione sul caso delle coop, invita Soumahoro a piangere meno e a dire delle verità: «Da garantisti non vogliamo essere drastici nei confronti di una persona su cui tra l'altro non ci sono nemmeno accuse giudiziarie. Ma il contesto in cui lui ha agito - aggiunge Gasparri - ha fatto emergere molte contraddizioni tra i principi esposti e i fatti che vanno emergendo». Poi l'azzurro si rivolge pure ai vertici dell'alleanza Verdi-Sinistra: «Vedremo come evolverà questa vicenda. Però si dimostra ancora una volta come la sinistra su certi temi alimenti falsi miti e sia più incline all'arroganza che alle verifiche. Bonelli e Fratoianni faranno bene ad essere più accorti».

Dopo la due-giorni di faccia a faccia, viene fuori che Soumahoro è «determinato» e «sereno». E che ha intenzione di «rispondere punto su punto». L'autosospensione è la soluzione individuata per il momento. Continuano a descriverci Bonelli e Fratoianni come «non tranquilli» rispetto all'ipotesi che la vicenda possa allargarsi. Il politburo intanto ha deciso il da farsi col deputato Soumahoro.

Verdi e Fratoianni prendono tempo. E Soumahoro si fa "processare" da La7. Il sindacalista non vuole dimettersi e sceglie un talk show di sinistra per difendersi. L'imbarazzo dei suoi sponsor politici. Bonelli: "Valuteremo cosa fare". Ma un suo deputato attacca: "Va cacciato". Pasquale Napolitano su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Il «paladino» degli ultimi, Aboubakar Soumahoro, dopo gli scandali che stanno travolgendo le cooperative di famiglia, ha deciso: si farà processare. Ma ha voluto scegliersi il giudice: Corrado Formigli. E anche il Tribunale: la trasmissione «Piazza Pulita» che andrà in onda questa sera.

Dopo il video strappalacrime e la fuga dai riflettori, il parlamentare dell'alleanza Verdi-Sinistra Italia vuole riapparire in pubblico per sottoporsi all'interrogatorio di Formigli.

Il giornalista incalzerà il sindacalista emblema della nuova sinistra, tutta chiacchiere e distintivo. Dimissioni dal Parlamento? Per ora non se ne parla manco lontanamente.

Si resta ben saldi sulla poltrona. I suoi leader di riferimento, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che per presentare la candidatura di Soumahoro, il pezzo pregiato della campagna elettorale di fine agosto, bloccarono addirittura la sala stampa della Camera dei Deputati, fanno melina. Soumahoro fu presentato come il classico colpo di calciomercato. Che poi dopo le prime partite si è rivelato un brocco. In questo caso una gatta da pelare che provoca imbarazzo (tanto) nella sinistra. Claudio Velardi, che di talenti politici se n'è intende, lo voleva addirittura alla guida del Pd. Lacrime e resistenza sono le due parole d'ordine. Ma il caso politico c'è. Eccome. I due padri di Soumahoro dribblano. Cercano di prendere tempo. Cacciarlo dal partito? Il leader dei Verdi Angelo Bonelli non è convinto: «Siamo grati all'autorità giudiziaria per il lavoro l'importante che sta facendo evidenziare forme di sfruttamento nei confronti dei migranti è un fatto estremamente importante e ci rasserena che lo Stato è in grado di intervenire. Noi però facciamo politica, quindi abbiamo chiesto un incontro con Soumahoro che avverrà presto in cui chiederemo il suo punto di vista, e insieme a lui valuteremo le decisioni politiche da prendere». Bisogna trovare una via d'uscita. «Va cacciato», riferisce al Giornale un deputato dei Verdi.

Anche perché emergono sempre nuovi elementi. La Caritas denuncia un altro episodio: la raccolta di 16 mila euro da parte di persone vicine al parlamentare per giocattoli destinati a un ghetto di migranti con pochi bambini. Migliaia di euro raccolti, precisamente 16 mila, per donare giocattoli in un ghetto di migranti in cui però i minori sono pochissimi. Altre accuse. Altri chiarimenti da fornire. È un vortice. Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italia, è più duro: «Come abbiamo detto lo incontreremo in queste ore, in questi giorni per un confronto. Io penso che si debba sempre tenere distinta, in molto netto, la vicenda giudiziaria, che peraltro da quel che leggiamo pare che neanche lo coinvolga direttamente e comunque sul terreno giudiziario lavora la magistratura, lavora chi fa le indagini, non interviene per quel che mi riguarda, almeno direttamente, il dibattito politico. C'è poi la dimensione della politica che riguarda le questioni del diritto del lavoro e su questo io credo sia giusto avere un confronto diretto. Quando lo avremo avuto nelle prossime ore ognuno farà delle valutazioni». Si continua a prendere tempo. Ma dalla maggioranza il centrodestra attacca.

Soumahoro in lacrime: «Mi volete morto ma non ucciderete mie idee». La parola alla Caritas pugliese: «Troppe tensioni». Dubbi su una raccolta fondi pro-minori dello scorso Natale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Novembre 2022.

 Impazza sui social il video che ritrae in lacrime, Aboubakar Soumahoro che si difende dalle accuse piovute sulla sua famiglia, dopo l'inchiesta aperta dalla procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nelle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera. 

"Mi dite cosa vi ho fatto? E' da una vita che sto lottando per i diritti delle persone, da una vita... Vent'anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto", dice l'onorevole. "Voi mi volete distruggere ma avete paura delle mie idee", attacca il sindacalista e deputato dell'Alleanza Verdi Sinistra in un video postato sulla sua pagina Facebook.

Una raccolta fondi da 16 mila euro per donare a Natale giocattoli in un 'ghetto' di migranti del Foggiano dove vivono pochissimi minori, ma anche tensioni nei confronti di chi voleva portare aiuti da parte di persone che facevano riferimento al mondo di Aboubakar Soumahoro, il parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra le cui parenti sono ora sotto la lente della Procura di Latina per la loro gestione di due cooperative pro-migranti. E’ quanto emergerebbe dall’intervista, pubblicata su Repubblica, a don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo.

L’iniziativa natalizia è dello scorso anno. Soumahoro, che proprio in quella zona ha condotto alcune delle sue battaglie in favore dei braccianti, si fece riprendere mentre portava regali ai bambini vestito da Babbo Natale. Dice don Pupilla: «Nel ghetto di Torretta non ci sono bambini, mentre a Borgo Mezzanone, l’insediamento oggetto del video, i bambini sono molto pochi. C'erano dunque ben pochi giocattoli da distribuire, non essendoci bambini a cui poterli donare». Secondo il sacerdote, inoltre, ci sarebbero stati «problemi, e li abbiamo avuti anche noi, con alcune persone che facevano riferimento prima a Usb e poi a Lega Braccianti. Ci hanno impedito di fare corsi di italiano, scuola. Noi ci rechiamo a Torretta Antonacci ogni settimana per ascoltare e aiutare persone. In alcuni periodi sale la tensione, perché ci sono sempre personaggi che vengono da fuori a fomentare gli animi. E magari ci costruiscono una carriera politica sopra. Davanti a fenomeni complessi non c'è bisogno di navigatori solitari ma di risposte corali. Non serve un sindacalista che viene da fuori, urla, fa i selfie e magari costruisce una carriera politica, soprattutto quando c'è anche un pò di incoerenza. Non puoi dire a tutti che il business della solidarietà non va bene - conclude il religioso - e poi ce l’hai a casa tua».

Gli stivali sporchi e la doppia morale di Soumahoro. Ed ecco il corto circuito: lui si dichiara paladino dei deboli, ma ora che il (presunto) sfruttamento è stato ricondotto alla responsabilità (presunta) di sua suocera, Soumahoro riduce tutta la vicenda a livello di complotto e la butta in bagarre. Massimiliano Scagliarini La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Novembre 2022.

Una beffarda coincidenza fa sì che proprio mentre il Consiglio regionale della Puglia discute delle emergenze del Foggiano, uno dei protagonisti delle lotte per i braccianti della Capitanata sia finito nel mirino delle polemiche per via di ciò che sarebbe accaduto nelle cooperative gestite dalla madre della compagna. È diventato virale sui social il video in cui Aboukabar Soumahoro prima piagnucola («Che cosa vi ho fatto?») e poi attacca citando nientemeno che Martin Luther King. Ora, con il massimo rispetto per Soumahoro, parlamentare della Repubblica candidato in Puglia ed eletto a Modena, il micidiale cortocircuito politico-mediatico in cui è finito dovrebbe insegnare qualcosa pure a lui.

È infatti lecito porsi almeno una domanda. Da settimane i mezzi di informazione riferiscono delle (presunte) irregolarità che si sarebbero verificate in una cooperativa di migranti a Latina, tra stipendi non pagati, maltrattamenti, fatture false e gente tenuta in nero. Sembrerebbero irregolarità gravi, confermate da più fonti coincidenti e contenute in un esposto della Uil che ha indotto la locale Procura ad aprire un’inchiesta, al momento senza indagati. Viene da chiedersi cosa avrebbe detto il sindacalista Soumahoro contro un «padrone» che dimentica di pagare gli stipendi, tiene i lavoratori al freddo e utilizza modi che appaiono, francamente, ingiustificabili. Nel video che ha invaso i social, l’esponente di Sinistra Italiana ricorda che la sua vita «è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento». Ed ecco il corto circuito: lui si dichiara paladino dei deboli, ma ora che il (presunto) sfruttamento è stato ricondotto alla responsabilità (presunta) di sua suocera, Soumahoro riduce tutta la vicenda a livello di complotto e la butta in bagarre.

Non funziona e non può funzionare così. Lo stesso Soumahoro, nel suo recente passato da militante Usb (Unione sindacale di base), ha lottato senza quartiere contro i caporali, ha urlato contro la vergogna dei ghetti che «accolgono» (per modo di dire) migranti di ogni colore, ha insomma più volte segnalato casi come quello che potrebbe riguardare la cooperativa Karibu gestita dalla suocera e in cui lavorava, al tempo, anche la compagna che della coop era consigliere.

Nonostante abbia mantenuto gli stivali sporchi di terra, il nostro ha varcato le porte del Parlamento con i suoi privilegi (dovuti). Ma tra gli inevitabili oneri che il suo nuovo ruolo comporta, c’è anche lo scrutinio dell’opinione pubblica che a volte può arrivare fin dentro il tinello di casa.

Il Paese ha discusso per mesi della cuccia del cane della Cirinnà, del curriculum dell’avvocato Giuseppe Conte, del titolo di studio della ministra Valeria Fedeli e più di recente dell’addetto stampa in nero della sottosegretaria Bellanova. Polemiche feroci innescate senza che questi fatti fossero reato ma, al più, costituissero peccato, a volte quello più grave per chi si affaccia alla vita pubblica. Ovvero l’incoerenza che spesso sconfina nella doppia morale.

Il confine tra pubblico e privato è tanto più labile quanto più si vive sotto i riflettori, e la critica è meccanismo democratico soprattutto quando fa emergere quelle che appaiono come insanabili contraddizioni. Nessuno pensa di seppellire lui o le sue idee, come pure Soumahoro ha detto in preda a un vittimismo cosmico. Un’esibizione che non serve, è controproducente ed è a tratti grottesca. Né tanto meno è necessario scomodare Giuseppe Di Vittorio per ricordare che esistono esempi di sindacalisti rimasti sempre, orgogliosamente, dalla stessa parte. Ma qui viene in soccorso un altro socialista, Pietro Nenni: «Chi gareggia a fare il puro, troverà sempre uno più puro che lo epura». Vale anche per l’onorevole Soumahoro, nonostante i suoi stivali sporchi di terra.

Il Grande Indifferenziato. Il pianto di Soumahoro è la versione più avanzata di quello di Bella Hadid. Guia Soncini su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.

Il deputato di Sinistra italiana si difende dalle accuse piangendo in favore di follower perché sa che in questo secolo ci si fa notare accendendo la telecamera del telefono e spingendo sull’emotività

Benvenuti al corso introduttivo al Grande Indifferenziato. Per un equivoco percettivo, i corsi per principianti erano stati fin qui sospesi. Vengono ripristinati in tutta fretta dopo aver assistito alle reazioni del pubblico ieri, domenica 20 novembre, allorché il deputato Aboubakar Soumahoro ha pianto in favore d’obiettivo sul proprio canale Instagram.

La parte di pubblico per la quale questo fatto è stato stupefacente è stata valutata, dalla Commissione internazionale per lo studio del presente, inattrezzata a capire il tempo in cui vive, e quindi bisognosa di corsi d’aggiornamento pagati dallo Stato.

La Commissione è ovviamente interessata a capire gli errori da parte della scuola dell’obbligo nella formazione dei cittadini: è plausibile che in un prossimo futuro venga istituita una seconda commissione, che indaghi sulle gravi mancanze per cui parte della cittadinanza è stata lasciata indietro e punisca i responsabili di questo sfacelo educativo.

Per ora, ci limiteremo a cercare di capire quali tasselli manchino, ai cittadini incapaci di capire il mondo in cui vivono, e come sia possibile ch’essi non abbiano compreso le basi del Grande Indifferenziato.

Siete pregati di mettere una crocetta a una delle ipotesi seguenti: credevo che tra l’essere personaggio pubblico di Bella Hadid – che instagramma gli autoscatti che si fa in lacrime quand’è triste – e quello di Aboubakar Soumahoro ci fosse una qualche differenza; sì, avevo visto Adele in lacrime annunciare che il suo tour era stato rimandato, ma credevo che da un ex bracciante divenuto deputato e da un’ex grassa divenuta cantante multimilionaria ci si potessero aspettare modalità comunicative diverse; sì, avevo visto Cristina Fogazzi con gli occhi lucidi annunciare che la sua azienda di cosmetici sponsorizzerà l’albero di Natale in Duomo, ma pensavo fosse perché non è temprata dalla vita quanto un ivoriano che ha avuto sufficiente forza d’animo da riscattarsi da un destino di sciuscià.

Qualunque sia la ragione per cui vi ha sorpreso vedere un deputato, uno le cui congiunte sono accusate di aver maltrattato i loro dipendenti, difendersi sull’Instagram in lacrime, invece che nei luoghi che il Novecento vi aveva convinto essere acconci, fermatevi e riflettete: quali erano quei luoghi?

Il parlamento? I giornali? La cara vecchia comunicazione intermediata? E allora, miei cari allievi dell’ultimo banco, ditemi: come mai nessuno di voi ha notato le compite interviste a Soumahoro uscite ieri sul Corriere e su Repubblica, ma tutti avete raccolto la mandibola dal parquet (i più sfortunati: dal grès porcellanato) ascoltando Soumahoro singhiozzare «mi dite cosa vi ho fatto» e «voi mi volete morto» e «sono giorni che non dormo» sull’Instagram?

Siete qui per imparare, e quindi questo corso vi svelerà il perché. L’avete notato dove dovevate, e dove lui si è giustamente posizionato, perché Soumahoro è meno impreparato a questo secolo di voi, e sa dove ci si fa notare, e come farlo: accendendo la telecamera del telefono, e spingendo sull’emotività e sul doppiaggese (che cos’è «volevate il negro di cortile», se non la frase di chi ha studiato la lotta di classe su Via col vento, mica sui Soliti ignoti).

È tra l’altro molto interessante che, mentre Soumahoro frignava paragonandosi a Peppino Impastato (se questo fosse un corso sull’integrazione, vi direi che nessuno meglio di Soumahoro ha introiettato il carattere italiano, quel nodo di vittimismo e mitomania che nessun Alessandro Magno potrebbe sciogliere), sullo sfondo piangesse un qualche neonato. La competizione allevata da lui stesso, la concorrenza da dentro casa, ma anche quell’atmosfera da domenica in famiglia che fa vicino-alla-gente-qualunque.

È altresì interessante che, nei quattro minuti di lacrimoni e vibranti accuse, paragoni fuori scala e accuse ai poteri forti (o al pensiero debole), ci sia un lapsus di quelli che vien da pensare che Freud fosse un grande sceneggiatore. Dice Soumahoro che lui ha sempre lottato per i deboli, e insomma «lotterò contro i dipendenti dei miei genitori, qualora i loro diritti non fossero rispettati».

È interessante che nessuno – un assistente parlamentare, una moglie, un fantasma di Peppino Impastato – gli abbia detto «Abou, tocca rifarla, hai detto che lotti contro quelli i cui diritti non vengono rispettati, se a non rispettarli sono i tuoi parenti». O forse, nel formulare questa ipotesi, questa commissione si dimostra inattrezzata quanto voialtri ripetenti a decodificare il presente.

Se somigliassimo più a questo secolo, sapremmo quel che sa Soumahoro: che le parole sono volatili, quel che resta è l’emotività. Che a nessuno interessa l’avverbio sbagliato, di fronte al singhiozzo giusto. «Abou, ti viene così bene il pianto una seconda volta? No? E allora ’sti cazzi del lapsus».

Dice Bella Hadid che gli autoscatti di pianto che instagramma sono quelli che s’è fatta, lungo tre anni, per spiegare alla mamma o allo psicanalista come si sentiva. È chiaro che Aboubakar Soumahoro, che il pianto lo produce direttamente per il pubblico di Instagram, nel Grande Indifferenziato risulta essere una Bella Hadid di produzione assai più avanzata.

L'inchiesta avanza. Soumahoro ci risparmi per un po' lezioni di vita. Andrea Soglio su Panorama il 18 Novembre 2022.

 Guardia di finanza, carabinieri e la Procura alla ricerca di nuovi riscontri sulle accuse di stipendi mancati e lavoro nero nelle due cooperative della moglie e della suocera del parlamentare nuovo paladino dei diritti di migranti

Un bel guaio, una bella macchia su una legislatura in cui era partito in maniera scoppiettante. Sono ormai due giorni che le luci puntate su Aboubakar Soumahoro non sono quelle degli studi tv dove era abituato a pontificare su lavoro, migranti, dignità e diritti dei lavoratori e dei più deboli, ma quelle degli investigatori, che stanno indagando sulle cooperative della sua famiglia. I fatti. La Procura di Latina ha aperto un’inchiesta a proposito di eventuali irregolarità per due cooperative; Karibu e Consorzio Aid che si occupa di lotta al caporalato, difesa dei diritti dei migranti e servizi di accoglienza per i richiedenti asilo nel territorio pontino.

Non si tratta di due cooperative qualunque perché a gestirle le strutture si sono la moglie e la suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. Si capisce bene che la cosa ha scatenato reazioni di vario tipo dato che Somauhoro ha fatto proprio della legalità il suo cavallo di battaglia e della difesa dei diritti dei più deboli il suo credo. In una nota, la procura laziale, visto anche l’inevitabile assalto di cronisti, ha chiesto il massimo riserbo ma ha raccontato come le verifiche della Guardia di finanza sono cominciate mesi fa e starebbero verificando eventuali reati di truffa, ad esempio il mancato pagamento degli stipendi, come avrebbero denunciato una trentina di lavoratori. Altro materiale sarebbe stato invece raccolto dai carabinieri all’esterno di una delle cooperative durante un trasloco. Dalle parole raccolte da alcuni sindacati emerge che le prime denunce sono arrivate da una decina di lavoratori (tra cui alcune donne); a quel punto altri hanno trovato coraggio di raccontare e così si è arrivati a 26 casi (tra cui due lavoratori senza contratto, in nero). Gli stipendi sarebbero stati in ritardo non di poco, almeno di 12 mesi, ma per alcuni anche di un anno e mezzo e più. Somauhoro ha parlato di fango e minacciato querele, spiegando come lui non abbia nulla a che fare con le due cooperative. Aboubakar Soumahoro @aboubakar_soum · Segui Grazie per la solidarietà che mi state manifestando, in privato e in pubblico. Stanno provando a infangare e screditare la mia persona su una vicenda in cui non c'entro nulla. A chi sta usando i miei affetti per colpirmi dico solo: ci vedremo in tribunale. Non ci fermeranno.

La suocera oggi invece in una nota ha spiegato che i mancati pagamenti sarebbero legati ai crediti non riscossi con lo Stato: «Sono state poste in essere le azioni necessarie per procedere alla riscossione dei crediti che la Cooperativa vanta nei confronti della pubblica committenza, anche per attività già rendicontata, ciò nel tentativo di soddisfare le posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori». Tra i cronisti che stanno seguendo la vicenda (indubbiamente succosa e curiosa) c’è la convinzione che ci saranno novità, forse interrogatori, nuovi controlli e perquisizioni. Tutto questo per dire che siamo solo all’inizio di questa inchiesta e che la parola fine arriverà tra molto tempo. Ma la macchia resta perché, come ammesso dalla stessa suocera del parlamentare, ci sono state decine di persone non pagate per il loro lavoro. Soumahoro si è presentato alla prima seduta indossando gli stivali degli agricoltori; un segnale a uso e consumo dei fotografi (e per certi versi poco rispettoso verso il Parlamento) che oggi gli si ritorce contro. In questo primo mese di legislatura la stampa di sinistra lo ha subito elevato a uomo immagine, a simbolo di onestà, legalità, uguaglianza. Di sicuro oggi, e per un po’ , gli sarà difficile poter dare lezioni alla maggioranza di governo dato che non è riuscito a far capire le stesse cose in casa propria.

Caso Aboubakar Soumahoro, cosa sappiamo delle cooperative di famiglia. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 18 novembre 2022

I lavoratori non pagati, due impiegati in nero, l’ombra delle false fatture e le condizioni dei centri di accoglienza.

Sono questi i quattro fronti aperti che riguardano le cooperative Karibu e consorzio Aid, operanti nel sud del Lazio e gestite da Liliane Murekatete e Marie Terese Mukamitsindo, moglie e suocera del deputato Aboubakar Soumahoro dell’Alleanza Verdi e Sinistra.

Tutto questo sembra trovare conferma in un dossier realizzato dopo una ispezione di una parlamentare della Repubblica, avvenuta in uno dei centri nel 2019. Chi sono gli accusatori?  A che punto è l’indagine della procura di Latina?

Nello Trocchia per editorialedomani.it il 22 novembre 2022.

«In quel centro non avrei messo manco i cani». La testimonianza su uno dei centri gestiti dalla cooperativa Karibu è di Elena Fattori, ex senatrice di Sinistra Italiana, esponente politico che da sempre si batte per i diritti e per l’ambiente. È entrata in parlamento nel 2013 con il M5s, è stata poi nuovamente eletta anche nel 2018 e ha abbandonato il movimento l’anno successivo per transitare nel gruppo misto, prima di chiudere la legislatura nel partito di Nicola Fratoianni.

Proprio l’alleanza Verdi-Sinistra ha candidato Aboubakar Soumahoro, marito di Liliane Murekatete e genero di Marie Terese Mukamitsindo che gestiscono le cooperative Karibu e consorzio Aid, realtà sociali al centro di un’indagine della procura di Latina che approfondisce la situazione contabile e le denunce degli ospiti dei centri.

 Proprio Domani, qualche giorno fa, aveva pubblicato l’esito di un dossier realizzato nel 2019 e che oggi Fattori rivendica come una delle sue attività parlamentari. «Sono andata a visitare questo centro ad Aprilia dopo che mi erano arrivate diverse segnalazioni, c’erano problemi economici con i dipendenti, ma quello che ho visto era una struttura indecente dove non ospiterei manco i cani. Ricordo ancora i paramenti sconnessi, la muffa, condizioni invivibili», dice Fattori.

L’ex senatrice, che non è stata ricandidata e oggi fa politica sul territorio, ricorda anche l’incontro con Marie Terese Mukamitsindo, suocera del deputato. «La responsabile si lamentava dei tagli prodotti dai decreti sicurezza (che erano stati approvati dal primo governo Conte), eravamo nel 2019, ma un posto del genere in mezzo alla campagna di Aprilia e in quelle condizioni non era sostenibile, lì non potevano vivere persone indipendentemente dai decreti approvati. Ho visitato molti centri, anche di altre cooperative, e devo dire che tranne pochissimi casi erano tutti in condizioni disagevoli».

L’allora senatrice ha scoperto in quella visita la parentela della responsabile con il sindacalista Soumahoro. «A un certo punto mentre visitavamo il centro, io e i miei collaboratori, la responsabile mi dice “Abu ti stima molto, io sono la suocera”, così scopro in quel momento la parentela e sono rimasta sconcertata perché io aveva fatto alcune iniziative proprio con Soumahoro». 

Una in particolare la ricorda benissimo e riguardava proprio i finanziamenti indirizzati ai centri per migranti, ma all’epoca Fattori non sapeva della parentela e degli interessi dei familiari nel settore. 

«Avevo portato Soumahoro e altri attivisti dal presidente della Camera, Roberto Fico, per porre la questione dei decreti sicurezza e dell’importanza di aumentare i fondi e gli stanziamenti quando poi ho scoperto, successivamente, quella parentela non ho voluto più affrontare la questione con Soumahoro». 

Il dossier ricostruiva la visita al centro durata circa 45 minuti che era stata preceduta da una segnalazione proveniente da alcuni dipendenti. «La struttura gestisce la presenza di 60 immigrati richiedenti asilo. Mediamente rimangono due anni circa in questa struttura formata da alcuni casolari con stanze che contengono 4 ospiti ciascuna, anche se la sensazione è che ve ne siano di più.

Sembrava evidente come in attesa della visita ci sia stato un maldestro tentativo di ripristinare una situazione strutturale di dignità ma mal riuscito. La struttura risulta sporca con parti al limite del fatiscente. Dai pavimenti con radici che divelgono il pavimento, soffitti con macchie evidenti di muffa, malfunzionamento della caldaia a pellet, sporco generale e gli esterni (ci sono tettoie con presenza di eternit) tenute quasi a discarica (...) Se la gestione strutturale e sanitaria sembrano essere lasciate al caso, anche quella economica lascia perplessi», si legge nel dossier. Un documento nel quale si riferisce di un corso sicurezza per dipendenti fantasma, di ospiti con scarpe sporche di fango, di segnalazioni all’Asl, di un silenzio diffuso dei dipendenti. 

Soumahoro non aveva alcuna responsabilità e neanche ruolo nella cooperativa.

Ma lei questo dossier non l’ha consegnato a nessuno? «Certo, mi preoccupai di consegnarlo ad alcuni esponenti dell’allora sottogoverno, ma non ci sono stati sviluppi», dice Fattori. 

Ha raccontato tutto questo ai vertici di Sinistra Italiana? «Ma questa vicenda è nota, è vecchia, certo che l’ho segnalata, ma non è stato tenuto conto della mia segnalazione anche se la candidatura è stata spinta dai Verdi di Angelo Bonelli con il quale non ho parlato».

«Non ho tessere di partito e questa vicenda è molto triste, ma ci dice una cosa importante. Io penso che l’accoglienza debba essere gestita dallo stato e non affidata ai privati, i privati possono sbagliare anche senza cattiva fede, ma noi non possiamo permetterci di tenere persone in quelle condizioni», conclude Fattori.

Al freddo e senza stipendi alla coop dei Soumahoro. I particolari dell'inchiesta sulle società di moglie e suocera del deputato. "Niente soldi da un anno". Massimo Malpica il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.

Aboubakar Soumahoro, il deputato indipendente eletto con l'alleanza Sinistra-Verdi si è affrettato a prendere le distanze dall'inchiesta della procura di Latina sulle società di sua suocera, Marie Therese Mukamitsindo, la coop Karibu e il consorzio Aid, accusati di non aver pagato i dipendenti da un anno e più. Soumahoro ha minacciato querele, ribadendo di non essere «né indagato né coinvolto in nessuna indagine». Non ha però commentato i fatti, né negato che l'indagine esista. Lo ha confermato la stessa procura di Latina, spiegando, «in ordine all'attività irregolare di cooperative incaricate di assicurare servizi di accoglienza, e servizi connessi, per i richiedenti asilo», di aver delegato gli accertamenti di «eventuali profili di rilievo penale», alla Gdf. Già al lavoro su due diversi filoni per truffa e distruzione e occultamento di materiale contabile, dopo che gli investigatori hanno trovato carte e documenti buttati in un cassonetto dalle parti di una delle sedi delle società.

Soumahoro, oltre a chiamarsi fuori, non ha parlato dell'inchiesta, non ha parlato di sua suocera e nemmeno di sua moglie, Liliane Murekatete, che della coop dovrebbe essere ancora socia e che, sul proprio profilo Linkedin, risulterebbe addirittura presidente della Cooperativa Sociale Karibu. L'affaire pontino riguarda mancati pagamenti (alcuni risalirebbero a ben oltre l'anno: da 12 a 22 mesi) degli emolumenti che le società avrebbero dovuto versare a 26 dipendenti, ai quali le coop avrebbero chiesto fatture false. I dipendenti si sono licenziati per giusta causa la scorsa estate. Ora, tramite il sindacato, stanno cercando di ottenere il dovuto. Karibu e Aid, al 7 novembre scorso, sarebbero debitori di circa 400mila euro nei confronti dei lavoratori. E complessivamente a circa 400mila euro. L'altra brutta storia, riguarda la gestione dell'accoglienza dei minori, che sarebbero stati ospitati in case senza acqua né luce. Anche qui, pare, perché la coop era in ritardo con le bollette.

L'indagine sarebbe partita però già un anno fa. Di certo le cose, per la coop, non vanno bene già da un po': la sua pagina Facebook non è aggiornata da oltre due anni e mezzo. Eppure nel 2018 Therese Mukamitsindo era stata premiata da Laura Boldrini come imprenditrice straniera dell'anno, e la coop Karibu andava alla grande, passando in due anni da 50 a 150 dipendenti. Si fa vedere in quel periodo anche la moglie di Soumahoro, Liliane, che tra l'altro promosse nel 2017 il lancio di «K mare», una linea di costumi e pareo realizzati dai rifugiati ospiti delle loro strutture. L'iniziativa venne presa di mira come «business di finta solidarietà» da Casapound, che attribuiva alla coop, al dicembre 2017, 11 milioni di euro di ricavi. La donna, che alterna abiti tradizionali a selfie con vestiti e accessori griffati, replicò rivendicando anche la sua passione per le firme del lusso: «Non prendo soldi da questa coop, ma ho avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono potuta permettere abiti firmati. Siccome sono una donna di colore, non li posso indossare? Mi si accusa di averli comprati con i soldi della cooperativa? Non è così, vengano a vedere gli scontrini».

Ma l'ascesa è finita. Già a maggio 2019 il giornalista pontino Emanuele Coletti raccontava, su Latina Tu, come dopo il boom «inizia la parabola discendente e il Ddl sicurezza sembra accelerare questo corso». Gli stipendi cominciano a tardare, i dipendenti calano, un decreto ingiuntivo pignora 139mila euro di crediti vantati dalla coop nei confronti di Viminale e Regione. La crisi, nera, non ha però fermato le attività della società. Forse perché, stando alle denunce, avrebbe smesso di pagare molti dei suoi lavoratori.

Dagli osanna ai silenzi: il caso Soumahoro imbarazza la sinistra. Dagli osanna intonati a gran voce ai silenzi imbarazzati. Dopo le notizie dalla procura di Latina, da sinistra è calato uno strano mutismo attorno al deputato Soumahoro. Gli unici a difenderlo, Ilaria Cucchi e Mimmo Lucano. Marco Leardi il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.

Dagli osanna intonati a gran voce ai silenzi imbarazzati. Dalle lodi sperticate ai sussurri. Di colpo attorno a Aboubakar Soumahoro è calato uno strano silenzio. E il colmo è che a tacere sono stati proprio i progressisti nostrani che fino all'altro ieri lo elogiavano senza mezze misure. Il parlamentare di origini ivoriane era diventato una vera e propria icona, sin dal suo arrivo a Montecitorio con degli stivaloni da lavoro. La sua recente visita sulla nave Ong Humanity 1, poi, lo aveva reso un paladino degli anti-Meloni: un emblema dell'opposizione al nuovo governo di centrodestra. Ora, tuttavia, a fronte delle notizie arrivate dalla Procura di Latina, quelle voci entusiastiche di sono di stranamente spente.

Il silenzio della sinistra sul caso Soumahoro

Il fascicolo esplorativo, al momento senza ipotesi di reato, aperto sulla gestione delle due cooperative della moglie e della suocera di Soumahoro ha forse innescato qualche disagio tra i progressisti, di colpo indecisi sul da farsi. Commentare la vicenda o tacere in attesa di eventuali sviluppi? Così il deputato ivoriano si è ritrovato a difendere la propria famiglia in totale solitudine. "Stanno provando a infangare la mia persona su una vicenda in cui non c'entro nulla. A chi in queste ore sta usando i miei affetti per colpirmi dico solo: ci vedremo in tribunale. Non ci fermeranno", ha affermato il parlamentare su Facebook, precisando di non essere indagato né coinvolto nella vicenda. Ma dai colleghi che fino all'altro ieri lo incensavano, sino al punto da considerarlo il "Papa straniero" tanto atteso dal Pd, nessuna espressione pubblica di sostegno. Enrico Letta? Non pervenuto. Orfini e Orlando? Spariti anche loro. Boldrini? Assente. Il tutto, a fronte di discussioni e polemiche che non accennano ad affievolirsi (Fdi ha annunciato un'interrogazione parlamentare sull'inchiesta esplorativa della procura di Latina).

La difesa di Ilaria Cucchi

L'unica personalità di sinistra a far sentire la propria voce è stata Ilaria Cucchi. "La vicenda che pare coinvolgere la famiglia di Abubakar Soumahoro se vera, sarebbe gravissima. Riguarderebbe la violazione dei diritti fondamentali dell'essere umano, tema sul quale, io, non faccio sconti a nessuno, anche perché l'ho vissuto, drammaticamente, sulla mia pelle", ha affermato la parlamentare, dicendosi "certa che Abubakar Soumahoro saprà fare chiarezza". E ancora: "Anche io, come lui, sono fiduciosa nel lavoro della magistratura. I miei valori sono la mia storia e, posso permettermi di dirlo, la 'nostra' storia. La storia di chi, insieme a me, ha lottato passo dopo passo per portare alla luce le istanze di chi non ha voce. E su questi principi andremo avanti, insieme. Sempre".

Il graffio del centrodestra a Boldrini e Soumahoro

Il silenzio dei progressisti sulle notizie trapelate è stato però notato nel centrodestra. La deputata della Lega Simonetta Matone, al riguardo, ha incalzato: "Vorremmo sapere dall'onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all'onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare 'chi vive nel fango della miseria e del caporalato', la 'miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l'affitto'. Perché apprendere, ove le notizie fossero confermate dall'inchiesta dei magistrati di Latina, di minorenni lasciati in condizioni di sofferenza senza cibo, acqua o luce rischia di ridimensionare, e di molto il suo ruolo di paladino degli ultimi".

Il sostegno di Mimmo Lucano

A difendere apertamente Soumahoro e la sua famiglia, in compenso, ci ha pensato Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace. "È una delegittimazione mediatica che si ripete sempre uguale quando qualcuno si batte per la tutela dei diritti delle persone più deboli. È un conto da pagare, quasi un effetto collaterale obbligato", ha contestato l'ex primo cittadino condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere per le sue politiche sull'accoglienza dei migranti.

Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento. Nel mirino dei pm irregolarità e minori maltrattati nella società della moglie del paladino dei migranti. Stefano Zurlo il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.  

L'ombra dello sfruttamento dei minori sulle cooperative della famiglia Soumahoro. Lui, Aboubakar Soumahoro, deputato dell'Alleanza Sinistra e Verdi, solo pochi giorni fa tuonava dal molo di Catania: «Si stanno effettuando sbarchi selettivi, in violazione della Costituzione». E se la prendeva con la linea scelta dal Governo Meloni che tradirebbe le più elementari norme di civiltà.

Adesso però è lui a trovarsi in difficoltà: la procura di Latina ha aperto un fascicolo esplorativo, al momento senza ipotesi di reato, sulla gestione delle due cooperative della moglie e della suocera del politico di origine ivoriana.

Si parla di denunce di alcuni minorenni, raccolte da un sindacato della destra e finite in procura: i ragazzi, provati da migrazioni estenuanti e drammatiche, avrebbero subito vessazioni e umiliazioni nei luoghi e nelle strutture in cui avrebbero dovuto trovare finalmente un nuovo equilibrio.

E invece per due anni non avrebbero preso lo stipendio e sarebbero stati confinati in topaie senza luce nè acqua. Insomma, nei centri della coop Karibu e del consorzio Aid si sarebbero violate le regole del lavoro e pure quelle penali.

Ma naturalmente l'inchiesta è solo agli inizi e non ci sono indagati, insomma bisogna vedere come evolverà. Lui si difende con le unghie: «Non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine. Ho dato mandato ai miei legali di perseguire legalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama e getta ombre sulla mia reputazione».

È presto per trarre conclusioni, anche perché gli accertamenti dei carabinieri sono appena cominciati. E però gli elementi che affiorano sono piuttosto crudi: maltrattamenti, mancanza di luce e acqua e poi lavoro nero. Fatture false e due anni senza stipendio.

Condizioni durissime, ancora più pesanti in alcuni capannoni fra il Lazio e la Campania: qui i giovani sarebbero rimasti senza cibo né vestiti. Sono una trentina i minorenni che hanno raccontato le loro storie di disperazione ai sindacalisti dell'Uiltucs e a questo punto solo la procura potrà chiarire le eventuali responsabilità.

Soumahoro intanto è diventato un personaggio mediatico, sempre nel segno della polemica con il nuovo esecutivo di centrodestra, e moltissime persone hanno visto il video della Meloni che gli dà del tu e poi gli chiede scusa.

«Tutti ci sentiamo scolari della storia, sai?», aveva attaccato lei. E lui le aveva risposto per le rime: «Durante la colonizzazione i neri non avevano diritto al lei». Poi aveva affondato il colpo. «Forse quando un underdog - aveva aggiunto giocando sulla definizione che il premier aveva dato di sè - incontra un under-underdog viene naturale dare del tu».

Insomma, l'opposizione in prima linea, con la battaglia fra Roma e le ong, ha trasformato il parlamentare in una star nel giro di poche settimane. il Foglio gli ha dedicato un articolo e un riconoscimento: «Ci è capitato di notare che Soumahoro ha la stoffa del politico di primo piano». E in queste settimane si è perso il conto delle sue esternazioni. «Avete proceduto con sbarchi selettivi - le sue parole dal porto di Catania, dopo essere salito a bordo della Humanity 1 - in piena violazione della legalità e degli obblighi internazionali, avete selezionato i migranti come fossero oggetti galleggianti in mare». E ancora: «Antonio Gramsci scrisse che se l'uomo politico sbaglia nella sua ipotesi è la vita degli uomini ad essere in pericolo. Voi avete messo in pericolo la vita dei naufraghi».

I migranti che lavoravano per la moglie e la suocera del deputato non avrebbero rischiato la vita, ma certo avrebbero vissuto in condizioni indecorose e intollerabili.

«Non c'entro niente con tutto questo», si inalbera lui minacciando fuoco e fiamme. Ma l'ombra dello sfruttamento dei minorenni aleggia oggi sulle coop della famiglia Soumahoro.

"400mila euro di arretrati". L'indagine sulle coop della famiglia Soumahoro. Sulle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro pesano le accuse di false fatture e debiti per 400mila euro per stipendi non pagati. Francesca Galici il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.   

Per raccontare la vicenda della coop Karibue e del consorzio Aid occorre partire dal presupposto che, per il momento, la procura di Latina ha aperto un fascicolo esplorativo e non ci sono ipotesi di reato. Detto questo, sempre per il momento, non ci sono ovviamente nemmeno indagati. Ma l'accensione di un faro sulle due realtà cooperative è inevitabile, dal momento che sono gestite da Marie Terese Mukamitsindo e dalla figlia Liliane Murekatete, rispettivamente la suocera e la moglie di Aboubakar Soumahoro, deputato per i migranti e contro lo sfruttamento del caporalato.

Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento

Le indagini sono iniziate lo scorso giugno, come ha spiegato il segretario Uiltucs Latina, Gianfranco Cartisano, da cui è partita la segnalazione che ha portato all'indagine. Cartisano, raggiunto dai giornalisti, ha dichiarato di essere venuto a conoscenza della situazione quando si sono presentati negli uffici del sindacato "un gruppo di lavoratori rivendicando di essere stati lasciati da 11, 12 fino a 18 e 22 mesi senza stipendio". Inizialmente si trattava di 10 persone, che sono gradualmente aumentate fino a diventare circa 30. Nelle denunce dei lavoratori, però, non ci sono le denunce per il mancato pagamento. Secondo quanto è emerso, infatti, ad alcuni sarebbero state chieste fatture false per ottenere i pagamenti, una denuncia che troverebbe riscontro anche in alcune chat che sono state consegnate alla procura. "Portami la settimana prossima fattura di metà importo", pare venisse scritto a chi chiedeva il pagamento, come spiega la Repubblica.

Il primo passo di questa vicenda è stato presentare istanza all'ispettorato del Lavoro per raggiungere un accordo in tempi rapidi: "Sia Aid che Karibu hanno condiviso l’esposizione di circa 400mila euro di stipendi non pagati. Sono stati fatti accordi individuali con rateizzazione ma già al primo step il patto è stato disatteso". I 400mila euro di debito con i lavoratori sono stati ammessi dalle due coop, che però hanno addossato tutta la colpa allo Stato, a loro dire colpevole di non aver versato nei tempi dovuti le spettanze per le associazioni che si occupano dei migranti. Circostanza smentita dallo stesso sindacato Uiltucs: "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?".

Ora, un mucchio di 8 sacchi neri abbandonati all'esterno di una struttura di Sezze, in provincia di Latina, sono diventati un vero e proprio tesoro per i carabinieri che hanno ricevuto l'incarico di condurre l'indagine. Qui dentro ci sono documenti, fatture, bilanci e ricevute sui quali portare avanti la ricerca. I sacchi sono stati abbandonati quando le coop hanno lasciato una delle loro sedi per traslocare altrove. La realtà sotto indagine da parte della procura è una delle più importanti della provincia di Latina e Marie Terese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro e presidente del Cda, nel 2018 ha vinto il Moneygram Award, premio come imprenditore dell'anno di origini straniere in Italia.

"Ci hanno anche maltrattati". Le accuse alle coop legate a Soumahoro. Il sindacato Uiltucse ha portato in procura i racconti degli stranieri che sono passati per le strutture gestite dalla moglie e dalla suocera di Aboubakar Soumahoro. Francesca Galici il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.

Fanno ancora discutere le denunce contro le coop Consorzio Aid e Karibu gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, che ha costruito la sua immagine pubblica sulla propaganda pro-migranti e contro il caporalato. Lui, il deputato di dell'Alleanza Sinistra e Verdi, è estraneo alle due coop e non è indagato. Per il momento la procura di Latina ha aperto un fascicolo conoscitivo partendo dalla denuncia del sindacato Uiltucse, che ha ricevuto le testimonianze di circa 30 migranti.

Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento

E c'è di tutto in quelle denunce. Si va dagli stipendi non pagati per un totale di circa 400mila euro alla richiesta di fatture false, passando per presunte violenze e vessazioni da parte degli stranieri, alcuni di questi minorenni ospiti delle strutture. "L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti", ha denunciato Nader, un giovane migrante ospite delle strutture delle coop Consorzio Aid e Karibu. Ma non è il solo, perché Abdul, un altro minore, ha aggiunto un carico da novanta: "Ci hanno anche maltrattati". Ovviamente, tutte le testimonianze dovranno essere verificate e per questo motivo sono in corso le indagini da parte della procura e dei carabinieri.

"400mila euro di arretrati". Bufera sulla famiglia Soumahoro

Intanto, Aboubakar Soumahoro ha condiviso un post di forte indignazione: "Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale. Per questo, dico a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico, di mettersi l'anima in pace. A chi ha deciso, per interessi a me ignoti, di attaccarmi, dico: ci vediamo in tribunale! Ho dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione". Ma la polemica si è accesa e Fratelli d'Italia alla Camera depositerà nelle prossime ore un'interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Calderone per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid.

Senza acqua né cibo: ecco la coop-ghetto gestita dai Soumahoro. A San Severo i migranti lo conoscono: "L'onorevole? Solo business e non paga..." Bianca Leonardi su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

Puglia, San Severo. Una lunga strada immersa tra i campi delle campagne foggiane ci porta fino al ghetto dei braccianti.

Tetti in lamiera, minimarket, bar, ristoranti e alimentari: è tutto improvvisato nella baraccopoli di Torretta Antonacci, che ci accoglie tra saluti curiosi e sguardi più titubanti.

Il ghetto che accoglie circa 2500 persone - anche se è impossibile avere un dato esatto in quanto la maggior parte dei migranti non vuole essere registrata - si divide in due parti: la grande tendopoli autogestita e la parte di competenza della Regione.

Fuochi, musica e uomini che ci guardano con sospetto: il regno di nessuno è praticamente inavvicinabile. I camper lungo la strada e le «guardie» - coloro che hanno il compito di controllare chi entra e chi esce - si allertano subito per il passaggio di qualche «straniero».

Pochi metri più avanti è tutto diverso: nella foresteria - scenario di tutti i video dell'onorevole Soumahoro - è presente l'Associazione Anolf, vincitrice del bando della Regione Puglia lo scorso agosto.

«Qui sto bene, ho un letto», ci racconta un giovane bracciante. La zona è infatti allestita con moduli abitativi dati dalla protezione civile: ogni modulo ospita 4 persone per un totale di 250. «Questi posti sono pochi, tutti gli altri restano di là al freddo e a dormire per terra», continua Sangari che da anni vive nel ghetto.

È quasi ora di cena e, mentre nello spazio autogestito riecheggiano grida e urla, Dudè ci invita ad entrare «in casa». È piccola, due letti a castello e un tavolino in mezzo. Ci sono 30 gradi e il riso è sul fuoco, sui fornelli elettrici sotto il tavolo. «Oggi non lavoro perché piove. Tutte le mattine mi alzo prestissimo per andare nei campi, ci sono i taxi che ci portano e ci riportano dai campi». In realtà la questione trasporto è molto più complessa ed ha a che fare con la criminalità e il caporalato. «Tutte le mattine ci chiedono 3-4-5-6 euro»- prosegue un altro che preferisce non dirci il suo nome.

«Sono della Lega braccianti, gli uomini di Soumahoro che controllano tutto», aggiunge. Una dichiarazione importante che giustifica infatti tutte le volte che gli abitanti del ghetto ci hanno allontanato quando abbiamo chiesto proprio della Lega braccianti.

Già, l'onorevole Aboubakar Soumahoro, nei guai per l'apertura da parte della procura di Latina dell'inchiesta che vedrebbe coinvolte moglie e suocera nello sfruttamento dei migranti all'interno delle cooperative di famiglia. Significativo il servizio andato in onda ieri sera su «Quarta Repubblica», il programma di Nicola Porro, a firma di Giancarlo Palombi. La testimonianza è quella infatti di un mediatore culturale che lavorava per la cooperativa Karibu e si occupava di minori non accompagnati. L'uomo racconta di essere stato pagato dai parenti di Soumahoro soltanto due volte, di aver sempre lavorato in nero e di essere stato «accolto» e fatto vivere in condizioni di vita al limite, senza acqua né cibo. A ciò si aggiunge, quindi, la controversa visione dei braccianti pugliesi che hanno da sempre lavorato con lui. «Soumahoro non ha fatto niente, solo chiacchiere e business», dicono.

Guardandoci intorno, in effetti, la condizione del ghetto non è cambiata rispetto agli anni passati nonostante i 250mila euro raccolti con la campagna crowfunding «Cibo e Diritti». La «Casa dei Diritti e della Dignità», inaugurata nel 2020 dall'ex sindacalista, non la vediamo. Non c'è niente se non una palestra improvvisata. «Abbiamo recuperato qualcosa per tenerci in forma», raccontano. In realtà si tratta di uno spazio sotto un tendone pieno di buchi dove però, dopo il lavoro, i braccianti trovano sfogo.

Lasciamo infine il ghetto tra ululati di cani di randagi, fuochi accesi in mezzo al niente e sguardi sospetti che ci invitano ad andarcene velocemente. A prescindere dagli slogan propagandistici, dalle urla di facile consenso, dalle eventuali indagini - se la magistratura farà il suo corso - ciò che resta sono gli occhi di questa umanità dimenticata che, tra arroganza e dolcezza cerca di sopravvivere tra le macerie di un ghetto e di un passato scomodo.

"Poi vedono la realtà...". Cosa diceva nel 2018 la suocera Soumahoro sui "migranti economici". Protagonista del caso delle cooperative del Pontino, Maria Therese Mukamitsindo quattro anni fa definiva l’emergenza migranti “una bomba a orologeria”. Massimo Balsamo su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

C’è grande disagio a sinistra per il caso Aboubakar Soumahoro. La vicenda delle cooperative del Pontino coinvolge la moglie e la suocera del deputato di Verdi-Sinistra Italiana. Qualche errore è stato fatto, ha ammesso Maria Therese Mukamitsindo, ma non ci sono stati raggiri: “Tutto è stato speso per i rifugiati”. Le indagini delle forze dell’ordine su Karibu e Consorzio Aid vanno avanti da mesi dopo - riflettori accesi su eventuali irregolarità nei contratti e sulle cattive condizioni di assistenza dei minori ospitati in quelle strutture - ma c’era un tempo in cui la titolare delle coop parlava dei migranti come di “vittime dell’inganno”.

Cosa disse la suocera

In un’intervista rilasciata a Lazio Tv nel 2018, ripresa oggi su Libero, la suocera di Soumahoro utilizzò termini più vicini al vocabolario di centrodestra che a quello di sinistra per parlare di immigrazione. In riferimento all’emergenza sbarchi, Maria Therese Mukamitsindo parlò senza mezzi termini di migranti economici:“Arrivano con la speranza di migliorare le condizioni di vita. Poi vedono la realtà, ma non possono tornare indietro perché la loro famiglia ha investito su di loro, ha pagato su di loro e loro devono rimborsare questi soldi”.

Senza acqua né cibo: ecco la coop-ghetto gestita dai Soumahoro

La presidente del cda della cooperativa Karibu rimarcò inoltre che il viaggio della speranza era finalizzato a “migliorare le condizioni di vita delle loro famiglie e loro si ritrovano che non possono più fare, non possono più andare in Germania, dove si trova lavoro, o in Francia o altrove per cercare lavoro”. E ancora, sempre dritta al punto, ammise che l’emergenza migranti era “una bomba a orologeria”.

La cooperativa nei guai

Oggi suocera e moglie di Soumahoro devono fare i conti con le accuse di dipendenti ed ex ospiti delle cooperative. Dai mancati pagamenti alle condizioni choc delle strutture, addebiti piuttosto pesanti. Interpellata da Repubblica, la Mukamitsindo ha puntato il dito contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, reo di aver dimezzato il costo per il rimborso per migrante, passato da 35 a 18 euro, senza dimenticare i tagli di assistenza sociale, corsi di italiano e psicologi.

"Alzarsi, Resistere e Andare avanti come mi state dicendo in tanti in queste ore. L'impegno deve andare avanti perché è il mandato popolare ricevuto e la nostra missione di vita. Da membro Commissione Agricoltura sono venuto qui nelle campagne pugliesi dai contadini e braccianti", la posizione di Soumahoro. Ma il paladino della sinistra deve fare i conti con qualche malumore nel suo schieramento. Verdi e Sinistra Italiana hanno chiesto un incontro per avere elementi di valutazione che contribuiscano a fare chiarezza, ma c'è anche chi inizia a manifestare imbarazzo.

"Una leggerezza...". Sinistra disperata dopo il caso Soumahoro. Tra i Verdi di Angelo Bonelli circola imbarazzo per quanto avvenuto. E il partito va in pressing: chiesto un incontro per fare chiarezza sulla vicenda. Luca Sablone su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

Il caso Aboubakar Soumahoro sta continuando ad agitare la sinistra. Il deputato di Verdi-Sinistra non è coinvolto direttamente nella vicenda, ma quanto venuto a galla in questi giorni ha messo in forte imbarazzo la galassia rossa e tutti coloro che erano convinti di impartire lezioni morali su accoglienza e immigrazione dall'alto della propria presunzione. Ed ecco che il combattente portavoce degli "invisibili" si è lasciato andare a un durissimo sfogo con tanto di piagnisteo. Nel frattempo nel partito circola amarezza.

Il disagio nel partito

È bene ribadire che Soumahoro non risulta essere coinvolto in prima persona, così come va rimarcato che ovviamente la giustizia farà il proprio corso. Ma non ci si può esimere dal far notare che la spavalderia sempre ostentata dalla sinistra rischia di rivelarsi l'ennesima nube inconsistente di semplici parole al vento. Che volano via. Un senso di soggezione inizia a serpeggiare tra Verdi e Sinistra italiana, che guardano con apprensione agli sviluppi di un caso che ha già causato qualche mugugno interno.

Ad esempio il giornalista Goffredo Buccini dà conto che Angelo Bonelli si sarebbe sfogato solo con le persone a lui più vicine, evitando dunque di trattare pubblicamente la questione. "Ho commesso questa leggerezza", è la dichiarazione che il Corriere della Sera attribuisce al co-portavoce di Europa Verde. E pensare che lui stesso, annunciando la candidatura di Soumahoro, con la voce rotta dall'emozione lo aveva giudicato "una figura importante, un attivista che difende da vent'anni le persone invisibili".

"Errori ma...". Suocera e moglie gridano alla "manipolazione" contro Soumahoro

È comprensibile l'impaccio verso chi è stato dipinto come l'assoluto difensore delle persone senza voce e dimenticate, come le lavoratrici e i lavoratori della filiera agroalimentare. Sia chiaro: non è tanto una questione giudiziaria (su cui occorre sempre la massima cautela), ma una scena di imbarazzo politico che ha rappresentato un colpo basso per chi riteneva di possedere - in via del tutto esclusiva - lo scettro di puro sostenitore delle buone cause contro i "pericolosi cattivoni" del centrodestra.

L'imbarazzo della sinistra

Una brutta scossa per la sinistra, che aveva individuato nell'italo-ivoriano il suo potenziale leader e che addirittura aveva sognato di avere davanti "il Meloni" della galassia rossa. Soumahoro riveste un ruolo pubblico che non può passare inosservato: i fatti contestati nella vicenda hanno un rilievo politico e dunque aumenta il pressing per arrivare a un chiarimento. Va in questo senso la nota diramata a firma - tra gli altri - di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.

Nel comunicato è stata espressa personale vicinanza al deputato, ma allo stesso tempo viene fatto sapere che è stato chiesto un incontro per poter avere "elementi di valutazione su questa vicenda che contribuiscano a fare chiarezza". L'auspicio è che sul caso "venga fatta piena luce nel minor tempo possibile". Ogni parola è stata soppesata: da una parte il sostegno personale; dall'altra la richiesta di un chiarimento ritenuto indispensabile.

Non c'è solo questo. Tra i rossoverdi più di qualcuno ha notato una certa propensione al protagonismo da parte di Soumahoro che, non a caso, ha espresso la volontà di dare "una nuova casa politica a tutti quelli che non si sentono più rappresentati da questa sinistra fluida, senza identità e senza idee". Parole che, come riporta La Repubblica, hanno scatenato la reazione di un parlamentare di Verdi-Sinistra italiana: "Siamo appena arrivati e già pensa a fare altro, ma stiamo scherzando?!". Con il passare delle ore non si placano le perplessità rossoverdi.

Soumahoro, Alessandro Giuli: il contrappasso, ora è lo "Zio Tom". Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 19 novembre 2022.

Ovvio che non poteva prenderla bene, Aboubakar Soumahoro, e infatti ha proclamato che porterà in tribunale chiunque osi ricamare sull'inchiesta della procura di Latina circa l'incresciosa vicenda di sfruttamento minorile che riguarda le cooperative gestite da moglie e suocera del neo onorevole rossoverde. Una storia d'inclusione finita male, diciamo, per due società finanziate l'anno scorso con oltre duecentomila euro a fondo perduto e accusate di averne fatti mancare il doppio ai propri lavoratori (una trentina), affamandoli senza stipendio e trattandoli - sostengono loro - grosso modo come schiavi, talvolta nemmeno in regola.

INACCETTABILE

Al netto d'ogni possibile e doverosa indulgenza garantista verso gli indagati (lui non lo è), l'iniziativa dei magistrati proietta un'ombra feroce sulla vita dell'ex sindacalista di origini ivoriane che ha modellato la propria immagine sulla necessità del riscatto per gli ultimi della Terra, i deboli e gli sfruttati dal dominio colonialista occidentale. «Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine dell'arma dei carabinieri, di cui ho sempre avuto e avrò fiducia», ha scritto Soumahoro in un lungo post corredato da una foto che lo ritrae nella posa gagliarda delle gloriose Black Panthers, braccio destro svettante con pugno chiuso, sebbene in giacca e cravatta in omaggio al dress code parlamentare da lui impreziosito indossando stivali di gomma nel primo giorno a Montecitorio («non devono essere più intrisi dal fango dell'indifferenza e dello sfruttamento»). Nelle intenzioni quello voleva essere il gesto simbolico che restituiva l'onore negletto del bracciantato mondiale, un colpo di teatro umanitario perfettamente in linea con il suo stile di combattente mediatico prestato al Palazzo dei potenti. 

«Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale», solennizza Soumahoro, quasi ad arieggiare l'incipit d'un romanzo di Paul Nizan o del più noto pied noir Albert Camus, genotipo letterario dell'Umanità in rivolta (è anche il titolo di un suo libro per Feltrinelli) contro l'ingiustizia sociale e il razzismo, costretto adesso a ricorrere agli avvocati per «perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione».

Guai, dunque, «a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico». Poiché, ecco il gran finale in crescendo, «nessuno mi fermerà e nessuno ci fermerà. Il nostro cammino di speranza e di una politica al servizio del NOI non si fermerà né si farà intimidire. Siamo un'umanità che ha deciso di dare una rappresentanza politica a chi ha sete di diritti e dignità. Io sarò al servizio di questa nobile e alta missione». 

Soumahoro deve aver letto i motteggi derisori dei suoi avversari, quelli che ora gli danno del sedicente puro in via d'epurazione per l'invalicabile e paradossale legge del contrappasso formalizzata a suo tempo dal leader socialista Pietro Nenni e di lì in poi abusata per contrassegnare i rovesci d'ogni suprematismo morale. Quel virtuismo che il nostro deputato ha saputo mirabilmente cangiare in virtuosismo dialettico e indignata rivendicazione militante: «Non ho mai barattato e non baratterò mai la mia ricchezza spirituale con le ricchezze materiali, perché per me la ricchezza spirituale ha la supremazia su quella materiale. Siamo qui di passaggio...». Soltanto poche settimane fa, Soumahoro otteneva le scuse della premier Giorgia Meloni che gli aveva dato del "tu" in Aula nel corso delle controrepliche al discorso d'insediamento per il voto di fiducia: i media fiancheggiatori ebbero buon gioco nell'enfatizzare una punta di retropensiero demonizzante: come potrebbe, in effetti, una postfascista non declassare il suo interlocutore di pelle nera? Da ultimo, il paladino degli stranieri è stato avvistato al porto di Catania intento a monitorare le condizioni dei naufraghi bloccati sulla nave Humanity 1. I suoi social ospitano una piccola galleria di pose pugnaci e accigliate, financo in compagnia di papa Bergoglio (in questo caso, però, con un sorriso aperto di soddisfazione). 

UNA VITA DI DENUNCIA

Ma tutta la sua biografia è un manifesto programmatico di dolente denuncia radicata nella precarietà dell'esistenza grama. Sicché non deve stupire che il suo contrattacco sia intonato all'idea di poter guardare con fierezza negli occhi, «quando giungerà la mia ora di lasciare la terra», tutti coloro che hanno creduto nella sua «buona battaglia». È il grido di dolore del sans-papier avvezzo agli scioperi della fame contro il caporalato, del macroscopico "invisibile" che s' incatenò ai cancelli di Villa Pamphilj durante gli Stati generali della vanità pandemica organizzati da Giuseppe Conte... Il Giuseppe Di Vittorio africano che, proprio no, non ci sta a passare per un ipocrita Zio Tom circondato da schiaviste.

Verso la manovra: le indiscrezioni vi convincono? 

Il Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini entra ai gruppi della Camera per la riunione sull'immigrazione a cui hanno partecipato tra gli altri la Premier Meloni e il Vicepremier e Ministro degli Esteri Tajani e il Ministro della Difesa Crosetto. 

Il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi va via dai gruppi della Camera dopo la riunione sull'immigrazione a cui hanno partecipato tra gli altri la Premier Meloni, Matteo Salvini Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Vicepremier e Ministro degli Esteri Tajani e il Ministro della Difesa Crosetto.

Soumahoro, "neanche i cani": cos'hanno trovato nelle coop. Libero Quotidiano il 22 novembre 2022

La posizione di Aboubakar Soumahoro vacilla. Il deputato di Alleanza Verdi Sinistra italiana è al centro della cronaca, politica e giudiziario. Le cooperative di moglie e suocera sono sotto la lente di ingrandimento della Procura di Latina. Le accuse sono delle più pesanti se si considera che il sindacalista si è presentato come il difensore dei diritti dei più deboli. Karibu e il consorzio Aid sono state denunciate per presunte irregolarità nei pagamenti degli stipendi e per aver fatto lavorare alcuni lavoratori in condizioni pessime. 

Quanto basta a sollevare il polverone fuori e dentro il suo partito. "Ho commesso questa leggerezza", sarebbe stato lo sfogo riportato dal Corriere della Sera del co-portavoce Europa Verde, Angelo Bonelli. È stato lui infatti a spingere per una sua candidatura. Ma non è tutto, perché a dire la sua ci pensa anche l'ex senatrice di Sinistra Italiana, Elena Fattori, che nel 2019 fece un sopralluogo nelle due cooperative al centro dell'indagine della procura di Latina. Si tratta di posti "indecenti, al limite del fatiscente dove non ospiterei neanche i cani" afferma Fattori. 

A peggiorare la già grave situazione di Soumahoro e famiglia alcune foto. Mentre il deputo piangeva a favor di social network spiegando che la moglie era attualmente disoccupata, Liliane Murekatete pubblicava scatti con tanto di borse e occhiali di lusso in hotel pluristellati. Quanto basta a farle guadagnare a Latina il nomignolo di Lady Gucci. Intanto si respira un clima tesissimo tra Verdi-Sinistra e il deputato, tanto che stando a diverse indiscrezioni domani Soumahoro dovrebbe essere convocato per un chiarimento.

Soumahoro e gli stivali: "Non sono suoi, deve ridarmeli", bomba-Striscia. Libero Quotidiano il 22 novembre 2022

Striscia la Notizia vuole far luce sul caso che sta travolgendo Aboubakar Soumahoro. Il neodeputato di Alleanza Verdi e Sinistra è al centro della cronaca per le cooperative di moglie e suocera. Queste ultime sono state accusate da alcuni lavoratori di non aver pagato diversi stipendi e di aver fatto lavorare loro in condizioni pessime. E così il tg satirico in onda su Canale 5 nella puntata di martedì 22 ottobre ha raggiunto Soumaila Sambare, ex socio dell'attuale parlamentare.

È lui a parlare di Soumahoro con Pinuccio: "Durante la pandemia con la Lega Braccianti abbiamo raccolto circa 250mila euro di fondi per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti", riferisce. I due, infatti, avevano dato vita all'ente a tutela dello sfruttamento delle maestranze che lavoravano nei campi. "Circa 60-70mila sono stati effettivamente spesi, ma quando abbiamo chiesto ad Aboubakar i resoconti delle rimanenze siamo stati fatti fuori". Che fine hanno fatto dunque gli altri soldi?

Ma non finisce qui, perché Sambare si scaglia contro l'ex socio con il quale ci sarebbe un'altra contesa. "I famosi stivali che Aboubakar ha indossato in Parlamento - conclude al vetriolo - glieli ho comprati io. Lui adesso è un signore: me li può restituire? A me sì che servono per andare a lavorare".

Da liberoquotidiano.it il 23 novembre 2022.

Striscia la Notizia vuole far luce sul caso che sta travolgendo Aboubakar Soumahoro. Il neodeputato di Alleanza Verdi e Sinistra è al centro della cronaca per le cooperative di moglie e suocera. Queste ultime sono state accusate da alcuni lavoratori di non aver pagato diversi stipendi e di aver fatto lavorare loro in condizioni pessime. E così il tg satirico in onda su Canale 5 nella puntata di martedì 22 ottobre ha raggiunto Soumaila Sambare, ex socio dell'attuale parlamentare.

È lui a parlare di Soumahoro con Pinuccio: "Durante la pandemia con la Lega Braccianti abbiamo raccolto circa 250mila euro di fondi per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti", riferisce. I due, infatti, avevano dato vita all'ente a tutela dello sfruttamento delle maestranze che lavoravano nei campi. "Circa 60-70mila sono stati effettivamente spesi, ma quando abbiamo chiesto ad Aboubakar i resoconti delle rimanenze siamo stati fatti fuori". Che fine hanno fatto dunque gli altri soldi?

Ma non finisce qui, perché Sambare si scaglia contro l'ex socio con il quale ci sarebbe un'altra contesa. "I famosi stivali che Aboubakar ha indossato in Parlamento - conclude al vetriolo - glieli ho comprati io. Lui adesso è un signore: me li può restituire? A me sì che servono per andare a lavorare".

Soumahoro, alle coop di moglie, suocera e cognata oltre mezzo milione per i rifugiati ucraini. Dario Martini su Il Tempo il 23 novembre 2022

Non pagavano più gli stipendi ai lavoratori delle coop attive nell'accoglienza dei migranti, ma nello stesso tempo partecipavano e vincevano i bandi della Regione Lazio per assistere i rifugiati ucraini. Più di mezzo milione di euro, per la precisione 557mila euro, aggiudicati a giugno scorso e volti a finanziare i progetti delle società che fanno capo a suocera, cognata e moglie di Aboubakar Soumahoro, parlamentare dell'Alleanza Verdi Sinistra. Tutto ciò mentre le buste paga arretrate ammontavano a circa 400mila euro, come denunciato dagli stessi dipendenti al sindacato Uiltucs.

La prima approvazione regionale risale al 6 aprile scorso, quarantuno giorni dopo l'invasione russa dell'Ucraina. Nell'elenco dei progetti ammessi al finanziamento - come si legge nei documenti pubblicati dalla Regione - compare anche quello presentato dalla coop Karibu, di cui è amministratrice la suocera di Soumahoro, Marie Therese Mukamitsindo, e in cui compare come consigliera d'amministrazione la moglie Liliane Murekatete.

Il progetto si chiama I.C.A.R.U.S., «Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa». Importo: 259mila euro. L'altro progetto ammesso è quello del Consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti), di cui è presidente la cognata del deputato, Aline Mutesi, e consigliera Mukamitsindo. Si chiama B.U.S.S.O.L.A., «Bisogni degli ucraini per il sostegno socio-lavorativo», per un finanziamento di 298,300,48 euro. I due progetti in questione sono stati approvati definitivamente con determinazione regionale del 3 giugno. Il giorno seguente ne ha dato annuncio il Comune di Latina, dove hanno sede le due cooperative. Anche altre due società, Ninfea e Il Quadrifoglio, che nulla hanno a che vedere con la famiglia Soumahoro, sono riuscite ad aggiudicarsi i finanziamenti regionali. Come ricordava l'amministrazione del capoluogo pontino, l'iniziativa era volta «alla realizzazione di interventi e di reti per la presa in carico e l'inclusione socio-lavorativa della popolazione ucraina sul territorio della Regione Lazio». «Auspichiamo che tali interventi - dichiarava la vicesindaca e assessora al Welfare Francesca Pierleoni - permettano ai rifugiati accolti sul nostro territorio di essere rapidamente autonomi, perché la dignità e la speranza che si riacquista con il lavoro è impagabile. Oggi queste persone hanno bisogno di essere sostenute per credere in un futuro possibile di pace e di sviluppo». I progetti di integrazione dei rifugiati ucraini si svolgono in viale Corbusier, al centro direzionale di Latina, dove si trovano, appunto, sia la coop Karibu che il consorzio Aid. E dove ha una sede anche la Lega dei braccianti, il sindacato che fa capo a Soumahoro. Stesso indirizzo, stesso numero civico, stessi uffici al piano terra. Come ha detto recentemente la suocera, «è una sede come tante altre, Aboubakar non ci veniva mai, ci ha messo un ragazzo per fare campagne di sensibilizzazione sui braccianti sfruttati».

Il parlamentare, è bene ricordarlo, non è indagato e non ha ruoli né in Karibu né in Aid. Lo ha ribadito lui stesso in un video pubblicato su Facebook tre giorni fa, con cui si è scagliato contro i suoi accusatori: «Mi volete morto - ha detto piangendo - mi volete distruggere, pensate di seppellirmi ma non ci riuscirete. Mi dite cosa vi ho fatto? È da una vita che lotto per i diritti delle persone». Il suo stesso partito, però, si interroga se sapesse delle presunte malsane condizioni dei centri denunciate dai migranti e degli stipendi non pagati su cui indaga la Procura di Latina.

Dimartedì, Sallusti spiana Soumahoro: come un personaggio di Checco Zalone. Il Tempo il 22 novembre 2022

La vicenda di Aboubakar Soumahoro è sui generis, con il sindacalista eletto alla Camera dei deputati con Sinistra Italiana che passa dal pianto alle accuse alla stampa, senza spiegare davvero cosa è successo nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie, e finite nell'inchiesta della procura di Latina (dove il suo nome non compare). Ma la storia è anche tipica di certi "innamoramenti" della sinistra che spesso finiscono, sempre per stare sul fil di metafora, con cuori spezzati e tradimenti. Alessandro Sallusti è ospite di Giovanni Floris a Dimartedì e spiega come la figura di Soumahoro stia diventando giorno dopo giorno sempre più simile a un "personaggio di un film di Checco Zalone". "Anche nella fisionomia", dice il direttore di Libero mentre scorrono le immagini del pianto sui social del sindacalista "con gli stivali sporchi di fango". 

"Sta rendendo ridicolo un problema serissimo", tanto che "avrebbe bisogno di un consulente mediatico. Anche perché non spiega" nulla nelle sue dichiarazioni, ricorda Sallusti. "La moglie va in giro vestita Prada e Luis Vuitton ma non paga i dipendenti, fatti una domanda e datti una risposta" è la stoccata nella puntata di martedì 22 novembre. 

Ma la vicenda mette in luce anche un altro aspetto, ossia "che la sinistra cade in facili infatuazioni, si innamora di personaggi senza verificare" se le aspettative corrispondano alla realtà.  "È successo col sindaco di Locri e con certi comandanti di navi di Ong" afferma il giornalista. In studio c'è Gianrico Carofiglio, scrittore, che ricorda come in certi casi bisognerebbe limitarsi a dire di essere fiduciosi nei confronti della magistratura e di voler chiarire tutto. "Non ho apprezzato la comunicazione di Soumahoro in cui c'è un vittimismo che si collega a un concetto inglese, entitlement, come se si venisse privati di una cosa che spetta di diritto a sé e non agli altri". 

Soumahoro, Sallusti: "Perché lo scandalo della moglie non mi stupisce". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 18 novembre 2022.

Maltrattamenti, privazioni, persone sottopagate o addirittura non pagate, soldi pubblici ricevuti ma gestit iin modo opaco. Aboubakar Soumahoro, il neo deputato del centro sinistra paladino dei diritti degli immigrati, prima di salvare il mondo mi sa che dovrà provare a salvare la sua famiglia e se stesso. Moglie e suocera sono infatti finite al centro di una inchiesta giudiziaria sulla gestione delle loro cooperative di Latina che si occupano di dare lavoro agli immigrati, una brutta storia di presunti abusi, vessazioni e fatture false ancora tutta da chiarire. Come andrà a finire lo vedremo ma già oggi, date le testimonianze raccolte dai pm, si può dire che nella migliore delle ipotesi in quella famiglia – personale e politica – si predica bene ma certamente si razzola male.

Detto che il deputato anti Piantedosi non è coinvolto, c’è da chiedersi come c’è da credergli quando dice di voler controllare le politiche migratorie del nuovo governo se non è neppure in grado di controllare moglie e suocera. La cosa non mi stupisce, sia vedendo il soggetto in questione sia perché uno dei tanti non detti riguarda proprio il grande business della gestione degli immigrati che è quanto di più opaco e infiltrato da gente senza scrupoli ci sia oggi sul mercato. Lo è dalla sua origine – le milizie libiche che gestiscono il traffico e riciclano i proventi in armi e droga – e per tutta la filiera della gestione dell’emergenza prima e dell’accoglienza poi. Clamorosa, nel 2021, fu la condanna in primo grado a 13 anni di carcere per truffa, peculato, falso e abuso di ufficio di Mimmo Lucano, sindaco di Locri che con il suo modello di accoglienza spregiudicato era diventato anche lui un idolo della sinistra.

Ecco, invece che pontificare ogni giorno contro chi vorrebbe mettere un po’ di ordine in tutta la faccenda, invece che insultare – vedi il “bastardi” di Saviano – e accusare di razzismo e cinismo Giorgia Meloni e Matteo Salvini la sinistra bene farebbe a guardare in faccia la realtà e a fare pulizia in casa sua. Continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto del buonismo non giova né agli immigrati né all’Italia.

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2022.

"K Mare 2018". Laddove 2018 è l'anno di lancio della collezione di costumi, parvi e kaftani proprio alla vigilia della stagione estiva. Stilista d'eccezione: Liliane Murekatete, la moglie di Aboubakar Soumahoro, fresca di nomina come consigliere della cooperativa sociale Karibu, impegnata nei sevizi di accoglienza dei migranti nella provincia di Latina. 

Quella stessa Karibu che oggi, insieme al Consorzio Aid, dove risultano amministratori la cognata e la suocera del deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana (estraneo ai fatti), è sotto «accertamenti» da parte della procura di Latina per presunte irregolarità gestionali.

Ebbene Liliane, quando viene chiamata nel Cda della società, lancia l'idea di una linea di moda realizzata dai richiedenti asilo della sua Coop. Una sorta di «made in Italy africano», riferirono all'epoca le cronache, che se da una parte ebbe il merito di favorire l'integrazione dei richiedenti asilo e degli altri ospiti della struttura, dall'altra suscitò polemiche per le modalità scelte da Liliane per la presentazione dell'iniziativa. 

Con tanto di sfilata per il casting per la selezione dei modelli chiamati a indossare i capi di abbigliamento. In una foto si vede lady Soumahoro al tavolo della giuria che dà i voti alle modelle. CasaPound affisse uno striscione - «Per una moda che ti veste ce n'è una che ti spoglia», - e attaccò Karibu, «questa cooperativa che riesce in un colpo solo a coniugare il più spregevole consumismo con un business di finta solidarietà».

Il movimento politico denunciò le iniziative fashion della Coop, «sponsorizzate su Facebook da foto piene di marche costose utilizzate dalla presidente». 

Liliane contrattaccò con queste parole: «Non prendo soldi da questa Coop, ma ho avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono potuta permettere abiti firmati. Siccome sono una donna di colore non li posso indossare?». Fatto sta che è in quel momento che in rete iniziano a circolare le foto di lady Soumahoro circondata dalle griffe. 

Nel passato di Liliane, che su Repubblica rivendica il ruolo di «rappresentante della presidenza del Consiglio per l’Africa, con Prodi e Berlusconi» (dal 2004 al 2011), c’è anche la partecipazione in una società che con la gestione dei migranti non c’entra nulla: la Venere the Weeding planer s.n.c., avete per missione «l’organizzazione in proprio o con l’ausilio di terzi di cerimonie, convegni, matrimoni e manifestazioni».

Nella società, costituita il 21 giugno 2002, è presente un secondo amministratore, Fabiana Rossi. Tuttavia al momento, come emerge dalla visura storica effettuata presso la camera di commercio di Frosinone e Latina, risulta «inattiva». Qualcuno, però, dietro assicurazione di anonimato, la ricorda: «La utilizzavano per le cerimonie in ambito istituzionale, per gli eventi nei Comuni». 

Altra circostanza: la Lega dei braccianti, fondata da Soumahoro il 12 agosto 2020 in concomitanza con l’anniversario della nascita di Giuseppe Di Vittorio, ha una propria sede anche a Latina. Nello stesso stabile che ospita la cooperativa Karibu.

La Uiltucs, il sindacato che ha raccolto le denunce dei lavoratori delle Coop per il mancato pagamento degli stipendi - nonché le segnalazioni dei minori per le cattive condizioni dei centri di accoglienza -, alla luce di quanto sta avvenendo è pronto a chiedere un «incontro ufficiale, con tutte le parti, al prefetto di Latina. Vogliamo un tavolo permanente», spiega il segretario provinciale, Gianfranco Cartisano, «perché vogliamo regolarizzare la posizione di tutti gli altri lavoratori che si sono rivolti a noi». 

In tutto sono 26 i dipendenti delle due Coop che hanno denunciato il mancato pagamento delle spettanze. Di quattro di questi, grazie a una «sostituzione alla procedura di pagamento» operata proprio dalla prefettura, la situazione è stata sanata. «Ne mancano altri 22», fa di conto Cartisano, lavoratori «in capo a ministero dell’Interno, Regione Lazio, Comuni aderenti al progetto Sprar e alle case per i minori».

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per “La Verità” il 22 novembre 2022.

L'inchiesta della Procura di Latina sulla cooperativa Karibu e sul consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti) prosegue e si sta concentrando sul consiglio di amministrazione della coop in gravi difficoltà economiche, nonostante solo nel 2021 abbia incassato 2,5 milioni di euro di commesse dalle pubbliche amministrazioni. 

Domenica il parlamentare dell'Alleanza verdi e sinistra Aboubakar Soumahoro ha dichiarato sui social: «Mia moglie attualmente è disoccupata, è iscritta all'Inps, non possiede allo stato attuale nessuna cooperativa». E ha aggiunto: «Parlate con mia suocera chiedete a lei che è proprietaria della sua coop».

E quando David Parenzo gli ha fatto notare che la compagna risulterebbe ancora dentro al Cda di Karibu, il parlamentare ha svicolato. In effetti alla Camera di commercio Liliane Murekatete è indicata come consigliere di amministrazione in carica, al pari del trentasettenne ruandese Michel Rukundo, consigliere in entrambe le società sotto inchiesta. 

Anche quest' ultimo farebbe parte della famiglia: «Sin dal primo giorno Rukundo si è presentato a noi dichiarandosi rappresentante dell'azienda e figlio della presidente Marie Therese. Un'altra sorella, Aline Mutesi, è, invece, presidente del consorzio Aid» ci ha spiegato Gianfranco Cartisano, il sindacalista della Uil Tucs che ha fatto esplodere il caso della Karibu portando avanti le vertenze di 26 lavoratori che reclamavano retribuzioni non corrisposte da mesi per 400.000 euro.

In realtà già dal 2019 la Procura di Latina, guidata da Giuseppe de Falco, aveva avviato un'inchiesta sulle attività della coop e del consorzio. Inizialmente il fascicolo era in mano alla polizia di Stato che era stata coinvolta per un'ipotesi di sfruttamento dopo un accesso degli ispettori del Lavoro di Latina, ufficio oggi guidato da Anna Maria Miraglia.

Dopo alcuni mesi l'indagine è stata trasferita alla Guardia di finanza che ha iniziato ad approfondire la pista dell'utilizzo dei fondi pubblici che la cooperativa incassa per la gestione dei migranti.

E così agli indagati (sono più di uno) è stata contestata la malversazione di pubbliche erogazioni. Gli accertamenti si sono concentrati sugli amministratori di fatto e di diritto della Karibu e quindi sull'intero Cda che comprende la presidente Mukamitsindo e, come detto, i suoi due figli. 

Alla Verità risulta che inizialmente al centro delle indagini ci fossero solo la madre e il figlio, particolarmente coinvolto nella gestione delle attività (per esempio guida un pullmino per il trasporto dei minori). Ma più recentemente l'attenzione è stata spostata anche su Liliane.

E la decisione non deve sorprendere. Infatti nell'ultima assemblea della Karibu, indetta lo scorso 30 agosto per l'approvazione del bilancio, c'erano solo due nomi scritti nero su bianco: quella della Mukamitsindo e della figlia, «chiamata a fungere da segretario».

Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e che dopo «una breve, ma approfondita discussione» l'assemblea dei soci ha deliberato «all'unanimità di approvare il bilancio». 

In quell'incontro, in cui erano presenti «il consiglio di amministrazione al completo» e un numero indefinito di soci non identificati, è stato stabilito di «coprire la perdita mediante l'utilizzo della riserva legale e per la restante parte mediante la rinuncia dei soci ai versamenti infruttiferi». Nel verbale si legge anche che «l'esercizio evidenzia un utile di 175.631 euro al netto di imposte di competenza per euro 26.325 euro». Ma nonostante questo la situazione è tutt' altro che rosea. 

«La cooperativa Karibu negli ultimi anni ha contratto di molto il proprio fatturato predisponendo un corrispondente piano programmatico che prevedesse contestualmente la riduzione dei costi fissi, riduzione dell'organico; progressiva riduzione dei debiti prevalentemente erariali e nei confronti dei collaboratori» hanno messo per iscritto Marie Therese e Liliane. 

Nella nota integrativa del bilancio è puntualizzato: «L'anno 2021 ha visto un cambiamento nell'ambito lavorativo specifico della cooperativa. I progetti in essere per l'assistenza agli immigrati sono stati quasi tutti messi da parte all'infuori della categoria minori e si è cercato di avviare nuovi progetti sia con la Regione Lazio che con l'ente LazioCrea».

E anche se nel 2021 si parla di 2,5 milioni di euro di incassi da clienti e di 227.000 euro ricevuti a fondo perduto per l'emergenza Covid, nei conti della Karibu non mancano le note dolenti. Per capirlo basta scorrere il bilancio. 

Le voci passive più significative sono sostanzialmente quattro: debiti verso le banche (437.000 euro), verso i fornitori (207.000), debiti tributari (1.050.000 euro) e previdenziali (107.000). 

I «buffi» ammontano in tutto a 2.060.000 euro e lo stato patrimoniale è pressoché azzerato. Un quadro che gli organi di vigilanza del ministero delle Imprese e del made in Italy considerano molto preoccupante.

Ma nonostante questo sono stati segnati a bilancio 865.930 euro come spesa per il personale e 392.801 come costo delle prestazioni lavorative dei soci. Oltre 100.000 sono toccati alla presidente, mentre il figlio Rukundo nel 2021 ha incassato circa 50.000 euro dalla coop e 15.000 dal consorzio; nel 2020 80.000 in tutto e circa 100.000 l'anno prima.

Emolumenti fuori target per una cooperativa sociale in difficoltà, ma che, secondo un ex consulente della coop, venivano decisi dal cda e non dall'assemblea dei soci. 

In conclusione per Soumahoro la compagna «attualmente è una disoccupata», ma, almeno sino a pochi giorni fa, faceva parte di un consiglio di amministrazione che, ancora nel 2021, distribuiva emolumenti che oscillavano tra i 50.000 e i 100.000 euro l'anno. Ieri abbiamo provato a chiedere a Liliane a quanto ammontasse il suo gettone, ma non siamo riusciti a metterci in contatto con la donna. 

Adesso la Procura dovrà verificare se fosse tutto in regola. Anche il ministero delle Imprese e del made in Italy sta facendo i suoi controlli. Oggi gli ispettori inviati da Adolfo Urso dovrebbero entrare ufficialmente nella sede delle ditte sotto i riflettori, al centro commerciale Latinafiori. Uffici condivisi con la Lega braccianti di Soumahoro, che, però, sostiene di non sapere nulla delle attività delle sue affini.

Un giro d'affari milionario nella coop di famiglia. La suocera sotto indagine. Bianca Leonardi su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, è indagata dalla procura di Latina. E adesso per l'onorevole si mette male.

Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, è indagata dalla procura di Latina. E adesso per l'onorevole si mette male. Anche se lui si dichiara estraneo, ormai è coinvolta tutta la famiglia che, come ironizza Bechis è «povera ma con villa a Casal Palocco». Il deputato, infatti, nello scorso luglio - quando ancora non era in Parlamento - avrebbe aperto un mutuo di 250mila euro intestato per metà a lui e per metà alla moglie. Quella moglie nullatenente di cui parla lui stesso nel video in lacrime. Un mutuo trentennale per una villa da 450mila euro.

La domanda resta sempre la stessa: da dove arriva tutto quel denaro? Sicuramente guardando i bilanci delle due coop, Karibu e Aid - che Il Giornale ha consultato nonostante non siano pubblici anche se la legge lo impone, trattandosi di enti del terzo settore - è chiaro che il giro di soldi fosse molto alto, soprattutto grazie ai finanziamenti delle pubbliche amministrazioni. Al 31 dicembre 2020 il Consorzio Aid, presieduto dalla cognata di Soumahoro, ha rendicontato ben 1 milione e 165 mila euro solo dalla Prefettura di Latina che bonificava all'azienda somme mensili dai 70 ai 107 mila euro per la gestione dei servizi di accoglienza migranti e richiedenti asilo.

Il Comune di Latina, invece, ha erogato una sola somma nello stesso anno pari a 10mila euro, accompagnati però da bonus fiscali dal Mise, un contributo a fondo perduto di circa 35mila euro e - ciliegina sulla torta - 480 euro di bonus affitto. Per quanto riguarda la Karibu invece si parla - al 2020 - di ben più di 2 milioni di euro di debiti, tra cui 590mila euro da saldare alle banche e 774mila circa di tasse.

Il 2021 invece si chiude negativamente per 175 mila euro circa ma, si legge ancora nel bilancio, sul costo totale del personale, circa 866mila euro, più del 45% e cioè circa 393mila euro, sono destinati ai soci. Motivo per cui, probabilmente, i dipendenti aspettano ancora lo stipendio. Bugie anche da parte della suocera Mukamitsindo. Se a Repubblica ha dichiarato di «non dormire la notte» perché ha dovuto licenziare alcuni dipendenti e metterne altri in cassa integrazione, sulla nota integrativa del bilancio in nostro possesso - a sua firma - si legge: «Non si è potuto licenziare il personale non necessario, né tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione». Da qui la decisione di «intraprendere nuovi progetti». Quei nuovi progetti che, probabilmente, si traducono nel bando della Regione Lazio - lo scorso aprile - per il soccorso ai profughi ucraini. Intascati da Karibu 259 mila euro e 289 mila da Aid.

Su ciò la Gdf, come riporta Domani, ha scoperto che soldi della Karibu finivano su un conto africano riferibile a Richard Mutangana, cognato di Soumahoro. L'uomo avrebbe lavorato alla coop per circa 1000 euro al mese, fa sapere la madre Mukamitsindo, sufficienti però a mettere in piedi un resort in Ruanda, dove ora vive. E se è vero che Soumahoro si dichiara estraneo ai fatti è vero anche che la sede legale Aid in Lazio è la stessa della sua Lega Braccianti, protagonista di una seconda raccolta fondi fuffa in Puglia. I 16mila euro per i regali di Natale dei bambini del ghetto vengono subito smentiti da Francesco Mirarchi, coordinatore di Anolf, associazione che gestisce la foresteria di Torretta Antonacci. «Qui non ci sono bambini, nei ghetti ci sono uomini braccianti e pochissime donne», ci racconta. E sempre Torretta Antonacci è lo sfondo di un'aggressione nei confronti di Mohammed Elmajidi, presidente Anolf che dichiara: «Sono stato aggredito il primo giorno che sono arrivato al ghetto, ho riconosciuto alcuni ed erano Usb e Lega Braccianti».

Sulla denuncia che ha presentato, di cui siamo in possesso, compaiono infatti proprio i nomi dei responsabili del ghetto nominati dall'ex sindacalista: Sambarè Soumaila, Balde Mamadoue e Berre Alpha. «Non so più niente di quella denuncia, nessuno mi ha fatto sapere gli sviluppi», conclude Elmajidi. Molte le denunce, infatti, che sono rimaste nel cassetto ma su ciò il Procuratore Capo di Foggia, Ludovico Vaccaro dichiara: «Portiamo avanti decine e decine di inchieste, alcune le abbiamo concluse mentre su altre sono in corso le indagini».

Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia per “Domani” il 23 novembre 2022.

La vicenda giudiziaria che ha travolto la famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro, eletto alla Camera dall’Alleanza Verdi e Sinistra, è solo all’inizio. Le indagini della Guardia di Finanza sulle due cooperative Karibu e Consorzio Aid, gestite dalla suocera del parlamentare Marie Therese Mukamitsindo e dalla moglie Liliane Murekatete, hanno finora mappato solo i finanziamenti pubblici per milioni ottenuti dal 2018 al 2020, per capire se sono stati spesi o meno secondo le regole. 

Ora i militari dovranno setacciare pure bonifici, entrate e uscite degli ultimi due anni durante i quali il conto economico delle attività di famiglia è precipitato, provocando la crisi che ha portato 26 lavoratori a cui non venivano pagati gli stipendi per 400mila euro («è colpa degli enti che a loro volta sono indietro con le erogazioni», risponde Mukamitsindo) a rivolgersi al sindacato UilTucs, che ha fatto scoppiare il caso sui giornali.

Come ha anticipato La Verità, indagata da tempo con l’ipotesi di malversazione è per ora la suocera del deputato, presidente del cda della Karibu. Ma gli inquirenti stanno vagliando altre posizioni, per capire eventuali illeciti di altri consiglieri (anche la moglie di Soumahoro sedeva nel cda) e soggetti che hanno gestito negli anni le realtà no profit. Come Richard Mutangana, altro figlio della fondatrice e cognato di Soumahoro. Mutangana si presentava come direttore dei progetti della Karibu, coop specializzata in progetti per l’accoglienza dei richiedenti asilo sul territorio pontino. 

Quello del fratello della moglie del deputato è un nome che ricorre spesso nelle carte della Gdf di Latina, che ha analizzato i conti della Karibu ed enti satelliti. Scoprendo che denari pubblici finivano anche su un conto in Ruanda, riferibile a Mutangana (che ad oggi non risulta indagato), e che oltre a lavorare nella cooperativa aveva messo in piedi in Africa altre attività.

Nel suo profilo LinkedIn l’uomo risulta manager dell’associazione Jambo Africa, che si occupa di promozione sociale, ma gli ex dipendenti di Karibu - sentiti da Domani - ricordano anche altre iniziative. «Nel 2018 eravamo già in forte difficoltà. La coop ritardava i pagamenti, e alcuni colleghi non riuscivano a pagare più nemmeno le rate dell’auto. A luglio Liliane Murekatete conosce Soumahoro durante un’iniziativa pubblica. Cercammo di approfittarne per parlargli della nostra situazione, ma non ne abbiamo avuto la possibilità. Proprio in quell’anno, però, scopriamo che Mutangana aveva aperto un ristorante a Kigali, in Ruanda», dice un’ex dipendente.

Su Tripadvisor esiste un ristorante a Kigali che si chiama “Gusto italiano”: è proprio il fratello di Liliane a caricare le foto delle prelibatezze preparate dagli chef, come il filetto di pesce agli spinaci e il pollo arrostito, e a mostrare le immagini della piscina. «Ottimo ristorante, adatto anche ad eleganti aperitivi all’aperto, personale gentile ed accogliente e la miglior pizza di Kigali», si legge in una recensione. Tra chi ha messo like sul profilo del resort ci sono anche alcuni ex dipendenti della Karibu. 

Al numero di telefono del ristorante non risponde nessuno, e inutili sono stati anche i tentativi di contattare il titolare via social. Domani voleva chiedere della decisione di occuparsi di un locale in Ruanda mentre era dipendente della Karibu, e il perché dei denari accreditati dalla cooperativa su un conto africano a lui riferibile.

Sappiamo, però, che Mutangana è pure il manager di Kiwundo Entertainment, una realtà che organizza serate live, karaoke, concerti e visione di partite di calcio nell’ampio giardino del ristorante ruandese. Il primo post caricato sui social risale al luglio 2018. In un video dell’agosto 2019 viene presentata una serata con lo slogan «Don’t miss», non perdertela. Nel video gli ospiti ballano in piscina, una coppia si diletta a bordo vasca e i camerieri portano delizie ai tavoli. 

Al tempo la notizia dell’apertura del ristorante del figlio della presidentessa non piacque a chi non riusciva a ottenere il pagamento degli stipendi dalla Karibu. «Noi non vedevamo un soldo, mentre veniva aperto un locale dall’altra parte del mondo», conclude l’ex dipendente. 

Abbiamo provato a chiedere alla moglie di Soumahoro se il fratello incassasse bonifici in Africa come pagamento dello stipendio per il suo lavoro in cooperativa, o se i bonifici fossero di altra natura. «Non faccio più parte della Karibu. Sarebbe opportuno rivolgersi direttamente alla legale rappresentante, la dottoressa Marie Terese Mukamitsindo (la madre, ndr) per tutti i chiarimenti», ci scrive Murekatete, che dalle visure camerali risulta però ancora consigliera di Karibu.

La suocera di Soumahoro, contattata, invece spiega: «Mutangana è mio figlio ma non ha ruoli direttivi nella Karibu. Richard ha lavorato come un dipendente normale nella nostra cooperativa, si occupava di informatica per il nostro server: il suo impegno è durato tre anni», dice Mukamitsindo. Però in varie interviste Mutangana si presentava come direttore dei progetti. 

In merito al ristorante aperto in Ruanda, invece, la donna chiarisce: «Mio figlio ha aperto quel ristorante con la moglie chiedendo un prestito in banca. È tutto tracciabile, penso lo abbia aperto forse anche prima del 2018». Poi segnala anche un progetto, finanziato con i soldi della cooperazione, che il figlio ha seguito in Ruanda per Karibu. Ma quanti soldi in tutto la cooperativa di Latina ha bonificato a suo figlio? «Non ricordo, non ho le carte davanti. Lui prendeva uno stipendio sui mille euro e qualcosa al mese. E poi c’è quel progetto di cui le ho parlato». Altri dettagli non vengono dati ai cronisti, ma può darsi che il direttore-ristoratore Mutangana abbia avuto soldi dalla Karibu del tutto lecitamente. Si vedrà dalle indagini della finanza.

La polemica politica su Soumahoro, invece, non accenna a placarsi. Finora il deputato, diventato negli ultimi anni simbolo della lotta dei braccianti, ha spiegato che lui non solo non c’entra nulla con l’inchiesta penale (fatto vero), ma che non ha nulla a che fare nemmeno con le coop di famiglia. 

Le questioni più rilevanti per il deputato esulano però dalle strette vicende giudiziarie. Se Soumahoro rischia di vedere la sua immagine appannata per via di un oggettivo conflitto d’interessi (le sue battaglie sui migranti e sull’accoglienza insistono proprio su quello che è anche un business della sua famiglia), è un fatto che a Latina la sede della Lega Braccianti da lui fondata coincide con quella del Consorzio Aid («poteva davvero non sapere?», si chiedono in molti). Mentre le foto con borse e capi firmati postate dalla moglie rischiano di oscurare l’iconica fotografia dell’ex sindacalista che entra in parlamento con gli stivali da lavoro e il pugno chiuso alzato.

Senza parlare del fuoco amico del suo partito («deve chiarire»), di quello dell’ex senatrice di Sinistra italiana Elena Fattori («in quelle coop non avrei ospitato nemmeno i cani», ha detto a Domani dopo averle visitate). Secondo alcuni preti della Caritas, poi, il deputato è soltanto uno «che viene da fuori, urla, fa i selfie e magari costruisce una carriera politica». Al netto degli esiti dell’inchiesta penale sulla suocera e la Karibu, politicamente il danno è insomma già fatto, e – nonostante sia Soumahoro un combattente - non sarà facile rimediare.

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per la Verità il 23 novembre 2022.

La verifica degli ispettori del ministero dell'Imprese e del Made in Italy è iniziata e finita in pochi minuti. Davanti alla porta sbarrata della sede legale della cooperativa Karibu, la coop dei familiari del deputato dell'Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. Nelle prossime ore gli 007 di via Veneto si recheranno anche presso il quartier generale del consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti), ma considerato come è andata la prima visita le premesse non sono delle migliori. 

La sede chiusa si trova a Sezze (Latina), città che la leggenda vuole fondata da Ercole. Il piccolo centro storico è attraversato da corso Umberto e al civico 106 c'è una saracinesca abbassata. Sulla cassetta della posta nera c'è un'etichetta strappata su cui restano poche lettere («soc. c»). Ieri sulla cittadina pioveva a dirotto e chi scrive è stato costretto a cercare riparo mentre la strada si trasformava in un torrente. Gli ispettori son passati negli stessi minuti e hanno dovuto prendere atto di trovarsi davanti a una sede inattiva. Motivo sufficiente alla divisione ministeriale incaricata della vigilanza sulle cooperative per chiederne lo scioglimento. 

Vedremo se andrà così. Nel frattempo il destino sembra segnato per l'altra creatura degli affini di Soumahoro, il consorzio Aid. Una notizia che abbiamo raccolto all'interno di Confcooperative, l'associazione delle cosiddette cooperative bianche.

Il 17 marzo 2022 la funzionaria Loretta Mobilia ha firmato una relazione di mancata revisione del consorzio Aid. 

Una prassi normale, visto che tutte le organizzazioni di questo tipo, periodicamente, effettuano ispezioni ordinarie per verificare che le coop associate siano in regola.

Ma la Mobilia avrebbe tentato inutilmente di prendere contatti, «per le vie brevi», con il legale rappresentante dell'Aid. Stiamo parlando della presidente, Aline Mutesi, sorella di Liliane, la compagna di Soumahoro. La donna, nata nel 1989 in Ruanda, per il suo incarico, nel 2021, avrebbe percepito un reddito di poco più di 40.000 euro. Gli altri due consiglieri sono la madre, Marie Therese, e il fratello Michel.

Ma torniamo alla procedura di Confcooperative. In assenza di riscontri, la Mobilia avrebbe inviato una Pec, regolarmente consegnata, per informare il consorzio della revisione in corso. Successivamente sono state esaminate la visura storica e l'ultimo bilancio da cui emerge che «la cooperativa risulta attiva, le cariche sono regolari, ma il bilancio 2020 non risulta depositato». A questo punto la funzionaria è riuscita a parlare con la Mutesi per informarla della documentazione che era necessario predisporre. Ma l'imprenditrice africana non si sarebbe più fatta sentire. Per questo, otto mesi fa, Confcooperative ha avviato l'istanza di «scioglimento per atto dell'autorità con nomina di un liquidatore».

Ma da allora che cosa è successo? Questa la versione di Confcoperative: «Il 17 marzo abbiamo registrato l'indisponibilità del consorzio a farsi revisionare. Nei tempi previsti gli abbiamo ulteriormente intimato, come previsto dalla normativa, di mettersi in regola e dopo un'iniziale collaborazione sono spariti di nuovo. 

Così, pur avendo tempo sino al 31 dicembre, nei giorni scorsi, abbiamo deciso di richiedere al ministero di avviare la procedura di cancellazione dell'Aid dall'albo». Istanza che dovrebbe diventare immediatamente esecutiva e che è pervenuta in via Veneto a inizio settimana. Ovvero dopo che la vicenda del consorzio era diventata di pubblico dominio e aveva raggiunto una risonanza nazionale.

Intanto, ieri mattina, nella sede operativa di Latina della Karibu c'erano sia la presidente, Marie Therese Mukamitsindo, della Karibu (la suocera di Soumahoro), che il figlio consigliere Michel. Poi i due, prima delle dieci, si sono allontanati e gli uffici sono rimasti chiusi a chiave. Un po' più tardi abbiamo ritrovato la donna presso l'ispettorato del lavoro, dove aveva appuntamento con due ex operatrici che da mesi chiedono il pagamento di retribuzioni arretrate. S.S. reclama 8.000 euro, S.D. 

(l'ultima a lasciare il posto di lavoro il 31 ottobre scorso) 22 mensilità, tredicesime e Tfr, per un totale di circa 30.000 euro. La presidente si è seduta al tavolo anche con la funzionaria dell'ufficio, Giulia Caprì, e con Gianfranco Cartisano, il sindacalista della Uiltucs che sta portando avanti le vertenze per 26 lavoratori.

La Mukamitsindo durante l'incontro si sarebbe consultata a lungo con il figlio e poi avrebbe provato a smarcarsi, pronunciando una frase che Cartisano riassume così: «Verrà il commissario, gli ispettori, quindi è inutile che facciamo questi accordi». Come se desse per scontato che la sua cooperativa sia destinata a chiudere o a passare di mano. 

Ma l'esponente della Uil avrebbe ribattuto che al momento il datore di lavoro resta la Mukamitsindo. La donna non ha portato con sé le buste paga delle dipendenti, così come le era stato richiesto, e per questo le parti si sono riaggiornate al 29 novembre.

«La sensazione è che queste persone attendano che le istituzioni facciano pressioni per far loro ottenere il pagamento di quei crediti che sostengono di avere nei confronti degli enti pubblici», spiega Cartisano. 

Che continua: «Stiamo cercando di avere un nuovo confronto in prefettura vista l'accelerazione degli eventi. Un tavolo prefettizio a cui far sedere le parti coinvolte, a partire da tutti gli enti che avevano in appalto i servizi della cooperativa Karibu e del consorzio Aid».

In queste ore stanno emergendo ulteriori novità. Per esempio abbiamo scoperto che in diversi Comuni della Provincia di Latina starebbero affiorando presunte irregolarità nell'affidamento e nella gestione dei servizi di cui erano incaricati la Karibu e il consorzio Aid.

Per esempio i consiglieri comunali di Priverno, Umberto Macci e Marcello Vellucci, hanno depositato presso la locale stazione dei carabinieri un esposto destinato alla Procura penale, a quella della Corte dei conti del Lazio e per conoscenza al prefetto di Latina, Pierluigi Faloni.

Nell'atto i consiglieri ricordano in che modo, secondo l'Autorità nazionale anticorruzione, debba essere gestito l'affidamento dei servizi d'accoglienza da parte dei Comuni destinatari di fondi del ministero dell'Interno. A partire dalla necessità di organizzare gare di evidenza pubblica e, sopra certe soglie, con pubblicazione a livello comunitario. 

Cosa che a Priverno non sarebbe accaduto. Infatti, subito dopo aver richiesto un finanziamento al fondo nazionale per le politiche e i servizi di asilo, il Comune avrebbe ritenuto «opportuno individuare nella cooperativa Karibu di Sezze quale soggetto del terzo settore avente le caratteristiche necessarie per la progettazione e la gestione del servizio di accoglienza integrata a favore del richiedenti asilo e del rifugiati, in linea con il progetto Spar, in quanto soggetto che gestisce analoghi servizi nel distretto del Monti Lepini».

 Così in tre anni alla coop sono stati assegnati circa 550.000 euro. Alla fine, Macci e Vellucci evidenziano che tutto questo è avvenuto «senza nessuna gara a evidenza pubblica» e chiedono alla Procura e alla Corte dei conti di «verificare la correttezza o meno dei comportamenti assunti».

Fabio Amendolara per la Verità il 23 novembre 2022. 

Più si scava nella storia delle coop pontine della Grande signora di Umuganda, Marie Therese Mukamitsindo, suocera del già sindacalista e ora deputato con gli stivali di gomma Aboubakar Soumahoro, più il profilo della cooperatrice sembra trasformarsi in quello di un capitano d'industria. E non solo dell'accoglienza. 

Quando Karibu e Consorzio Aid nel 2021 sono andati a picco con i bilanci, cominciando ad accumulare debiti con il fisco, con i fornitori e con i dipendenti (aspetto sul quale si sono concentrate le indagini della Procura della Repubblica di Latina), Marie Therese, da imprenditrice con esperienza ventennale, ha subito registrato una nuova impresa. Il 4 marzo 2021 a Nola (Napoli) nasce la Edelweiss. Non una semplice società, ma un «contratto di rete dotato di soggettività giuridica». Il presidente del Cda è Marie Therese (che è anche rappresentante d'impresa).

La sede è in via Monsignor Paolino Menna, nel Parco Stella Maris, zona quasi centrale della città, famosa per il suo polo commerciale. Gli obiettivi strategici: «Acquisizione e offerta di servizi che per complessità e difficoltà sarebbero altrimenti al di fuori della portata di ogni singola società». E, così, Marie Terese, da cooperatore si è trasformata in una specie di Mr Wolf, l'iconico personaggio di Pulp fiction, celebre per questa frase: «Sono il signor Wolf, risolvo problemi». Ma oltre a risolvere i problemi complessi per le società aderenti alla rete, Edelweiss si propone anche di gestire e realizzare case di riposo, residenze per anziani, residenze sanitarie assistenziali e di riabilitazione, centri vacanze per persone anziane e per disabili. Asciugato il business dell'accoglienza, insomma, la novella Mr Wolf ha diversificato i suoi interessi.

Proponendosi perfino di lavorare nel settore dell'assistenza domiciliare, del telesoccorso e anche di facchinaggio e vigilanza antincendio. Infine, ispirandosi a Federica Sciarelli, la conduttrice della trasmissione Rai Chi l'ha visto?, vorrebbe cercare «persone scomparse». Nello statuto di Edelweiss c'è entrato di tutto: dall'impiantistica agli interventi di restauro, fino al giardinaggio e alla falegnameria. 

Edelweiss per ora risulta inattiva. Ma quello di offrire servizi a una rete di imprese deve essere un po' un pallino di Marie Terese. Sempre nel 2021, ma a maggio, nasce anche Impresa comune Geie Arl, con un sottotitolo: «Imprese e professionisti per il bene comune». Questa volta l'impresa è attiva. Registrata a Roma, con sede in via Antonio Bertoloni e forma giuridica da «gruppo europeo di interesse economico». La costituzione, proprio per la forma giuridica scelta, è finita in Gazzetta Ufficiale il 25 maggio 2021, con la pubblicazione di uno stralcio dell'atto registrato dal notaio Pasquale Farinaro l'1 aprile 2021. Il presidente del Cda è il lobbista palermitano Nicola Colicchi, classe 1956, già componente del comitato nazionale della Compagnia delle Opere e consulente della Camera di Commercio di Roma.

Nel 2001 fu indagato dalla Procura di Milano in una grossa inchiesta sulla realizzazione di un depuratore, e fu assolto. Poi a Potenza, intercettato con Gianluca Gemelli, l'ex compagno dell'allora ministro Federica Guidi (che si dimise), nell'inchiesta in cui Guidi si lamentò per i continui favori che gli avrebbe chiesto il fidanzato: «Con me ti comporti come un sultano... oh mi sono rotta... mi tratti come una sguattera del Guatemala». La conversazione finì su tutti i giornali. Come quelle di Colicchi, che sembrava brigare per fare un grosso favore a un ammiraglio della Marina militare italiana. Finì in cavalleria. Il suo nome è saltato fuori ancora una volta in un'inchiesta giudiziaria solo qualche anno dopo.

Nell'indagine sul Sistema messo su dall'ex professionista dell'Antimafia Antonello Montante finirono anche alcune telefonate di Colicchi con Paolo Quinto, all'epoca braccio destro della senatrice del Pd Anna Finocchiaro. I documenti furono acquisiti, ma servirono agli investigatori solo per ricostruire una rete di relazioni. Che Colicchi deve essere un fuoriclasse a tessere. Nella sua nuova avventura imprenditoriale, non si sa come, ha ingaggiato anche Marie Terese. Che nella Arl presieduta da Colicchi è consigliere d'amministrazione. Nella società Marie Terese ci è entrata con la Karibu, versando 1.000 euro (come tutti gli altri associati, 20 in tutto) e acquisendo il 5 per cento delle quote. Rimarrà in carica fino al 2023.

Questa volta la sfida è ambiziosissima: Impresa comune Geie si propone di «realizzare un nuovo protagonismo delle imprese, dei professionisti, degli enti giuridici anche pubblici o non profit, nei processi di sviluppo delle loro attività, orientate anche alla sostenibilità». Marie Terese, insomma, sta sul pezzo. Nello statuto della società compaiono più volte termini quali «digitalizzazione», «efficienza ecologica», tecnologia» e, addirittura, «intelligenza artificiale». Gli obiettivi? «Cogliere opportunità sul mercato attraverso l'elaborazione, la realizzazione e la gestione di progetti complessi». Operazioni, queste ultime, nelle quali la Grande signora di Umuganda ha dimostrato di sapersi muovere con una certa disinvoltura, grazie all'esperienza maturata con il grande affare dell'accoglienza pontina.

Indagata la suocera di Aboubakar Il caso partì nel 2017. Edoardo Sirignano su L’Identità il 24 Novembre 2022

L’avviso di garanzia, alla fine, è arrivato. Indagata dalla procura di Latina Marie la suocera di Aboubakar Soumahoro, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. Marie Terese Mukamitsindo è coinvolta nell’inchiesta sulla gestione delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Il fascicolo viene aperto per ipotesi di malversazione. A parte l’inchiesta giudiziaria, da mesi, sarebbero in corso accertamenti dell’Ispettorato del lavoro sulle società gestite dai familiari del deputato. Queste ultime, finite sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza per presunti mancati pagamenti ai dipendenti e contratti non regolari, sul territorio erano conosciute da anni. L’assessore Francesca Pierleoni del Comune di Latina, intervenuta su queste colonne, non è l’unica ad aver messo in evidenza una serie di anomalie, come quella sul progetto Ucraina, dove i soliti noti prima si sarebbero fatti avanti e poi scomparsi. A queste latitudini, i fatti di cui parla oggi nei principali talkshow non sorprendono affatto. L’europarlamentare della Lega Mario Borghezio addirittura nel 2017, su spinta di un movimento locale, aveva presentato un’interrogazione in cui sollevava perplessità rispetto alla gestione dei migranti di tale Coop. Per tale ragione, aveva inviato addrittura una lettera al Prefetto, in cui chiedeva un urgente e repentino intervento: "In una recente occasione di incontro con cittadini ed associazioni del territorio di Aprilia – aveva scritto nella missiva indirizzata all’Ufficio Territoriale di Governo – lo stesso ha ricevuto numerose segnalazioni critiche nei riguardi delle attività di alcune società dedite all’accoglienza di immigrati extra-Ue e in particolare della Coop Karibù. Sembra opportuno disporre approfonditi controlli, in relazione all’attività delle stesse, circa il numero degli immigrati ospitati, il rispetto dei protocolli di sicurezza sanitaria e l’adozione delle necessarie profilassi, in particolare nei riguardi delle malattie infettive". In quel documento si parlava anche di due occupazioni abusive, più volte segnalate alle autorità competenti. Sulla questione ci furono diversi articoli di giornale, nonché una conferenza stampa dove appunto si parlava delle condizioni precarie in cui versavano tante persone ospitate in quelle residenze. Emanuele Campilongo di Apl e Mariantonietta Belvisi, addirittura nel 2015, erano stati protagonisti di confronto pubblico in cui, come riportano diverse testate locali, si chiedeva di sapere in che condizioni versavano i migranti gestiti da Karibù e soprattutto perché venissero assegnati ulteriori fondi a chi, pur ricevendo già tante risorse, avrebbe lasciato i propri ospiti in condizioni di povertà. "Come mai – era l’interrogativo posto da Campilongo a chi di dovere – a questi ragazzi, per cui vengono assegnati 38 euro al giorno alle Coop che li gestiscono, si vogliono dare ulteriori 150 euro per la pulizia dei parchi, da affidare agli stessi soggetti, mentre poi li vediamo girare per i cassonetti".

Soumahoro e i fondi per l’Ucraina. Rita Cavallaro su L’Identità il 22 Novembre 2022 

Non ci sono solo i migranti, ma anche gli ucraini che fuggono dalla guerra nei progetti di Karibu e Consorzio Aid, le cooperative dei familiari del deputato dell’alleanza Verdi-Si Aboubakar Soumahoro, finite nella bufera a seguito di alcuni accertamenti della Finanza e dei carabinieri per presunte malversazioni di erogazioni pubbliche nell’accoglienza.

Il 3 giugno 2022, infatti, la Regione Lazio, con determinazione numero G07165, ha erogato un finanziamento del valore complessivo di 1 milione 151mila euro in favore di quattro cooperative sociali. C’è la Karibu di Sezze, presieduta dalla suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo, e amministrata fino al 17 ottobre scorso anche dalla moglie del parlamentare, Liliane Murekatete. Poi il Consorzio Agenzia per l’Inclusione e i Diritti (Aid) del capoluogo pontino, di cui è presidente la cognata di Soumahoro, Aline Mutesi, e la suocera è consigliera d’amministrazione. C’è il Quadrifoglio, la coop di Latina presieduta da Fabrizio Gasparetto. E infine Ninfea di Sabaudia, al cui capo c’è Achille Allen Trenta. Quattro organizzazioni che lavorano nel terzo settore del territorio pontino che, con le loro proposte, la scorsa estate hanno partecipato al bando per la “realizzazione di interventi e di reti per la presa in carico e l’inclusione socio-lavorativa della popolazione ucraina sul territorio della Regione Lazio”. E l’hanno vinto. Tant’è che il Comune di Latina, appreso dell’erogazione, ha subito avviato un coordinamento per offrire opportunità e sostegno ai tanti rifugiati in fuga dalla guerra in Ucraina e contribuire all’inclusione socio-lavorativa. Con grande soddisfazione del vice sindaco e assessore al Welfare, Francesca Pierleoni, che ha dichiarato: “Auspichiamo che tali interventi permettano ai rifugiati accolti sul nostro territorio di essere rapidamente autonomi, perché la dignità e la speranza che si riacquista con il lavoro è impagabile. Oggi queste persone hanno bisogno di essere sostenute per credere in un futuro possibile di pace e di sviluppo”. Un comunicato ufficiale ospitato anche sulla pagina Facebook della coop Karibu, che non è nuova a ricevere fondi per gli ucraini.

Già il 15 aprile 2021, quando la gestione era nelle mani pure della moglie di Soumahoro, la cooperativa, stavolta unica beneficiaria, aveva incassato oltre un milione di euro, per la precisione 1.059.463,46, dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, come anticipo di pagamento del finanziamento per due milioni e 135.705 euro che la Karibu si è aggiudicata nell’ambito del programma Amif 2021-2027, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea e volto a migliorare l’approccio ai fenomeni migratori nel rispetto dei diritti dei cittadini europei ed extra-europei. Proprio l’anno finito nel mirino della denuncia di una trentina di migranti, che sostengono di non essere stati pagati e di aver vissuto in una condizione degradante, senza acqua calda, con il cibo che scarseggiava. E perfino di essere stati maltrattati. Per questo si sono rivolti al sindacato Uiltucs che, attraverso il segretario Gianfranco Cartisano, ha acceso i riflettori sulle due coop fondate da Maria Therese e già interessate dalle verifiche. Ora addirittura sotto la lente del ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, che ha deciso di mandare gli ispettori. “Mi dite cosa vi ho fatto? Voi mi volete morto”, ha detto tra le lacrime Soumahoro, in un video condiviso sui social. “Ma non ucciderete le mie idee”, ha aggiunto, ribadendo che lui non c’entra nulla con le coop di sua suocera. Mukamitsindo, che nel 2021 avrebbe incassato come emolumenti oltre 100mila euro, ha sempre suscitato stima per il suo impegno, tanto che fu vincitrice del premio MoneyGram Award come imprenditrice straniera. E Liliane, in un’intervista, ha detto: “Prima lavoravo per il rappresentante della Presidenza del Consiglio per l’Africa, sia durante il governo Berlusconi sia con Prodi”. Per portare avanti progetti e rapporti, nel 2009,la moglie del deputato ha avuto una consulenza tecnica da Palazzo Chigi per 17mila euro.

Tutti gli appalti di casa Soumahoro. Rita Cavallaro su L’Identità il 23 Novembre 2022.

Migranti, vittime della tratta sessuale, ucraini in fuga dalla guerra. È su questa umanità che si sono concentrati gli affari della famiglia del deputato di sinistra Aboubakar Soumahoro. Attività che, finora, hanno porta nelle casse della coop Karibu, fondata dalla suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo, quasi 65 milioni di euro.

LA CERTIFICAZIONE

È la stessa presidente della cooperativa sociale di Sezze, gestita fino al 17 ottobre scorso anche dalla moglie del parlamentare Liliane Murekatete, a dettagliare il fiume di contributi pubblici incassati nel corso degli anni, in un documento presentato al ministero dell’Interno per il programma Amif 2014-2020, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea e volto a migliorare l’approccio ai fenomeni migratori nel rispetto dei diritti dei cittadini europei ed extra-europei. Una domanda di ammissione al finanziamento in cui sono rendicontati ben 63 milioni 645mila euro di incassi della Karibu per le sue attività di accoglienza dei rifugiati e l’integrazione sociale dei migranti. La somma più cospicua che compare nel documento è il pagamento di 25 milioni di euro, in sei anni, versati dal ministero dell’Interno per il bando “CAS- Centri di Accoglienza Straordinaria Bando Prefettura” di un totale di 500 milioni, vinto da Karibu come soggetto singolo, quindi senza alcun partenariato, per “l’emergenza migranti richiedenti protezione internazionale – progetto di accoglienza, servizi per l’alloggio, tutela socio-legale, aiuto psicologico, assistenza e orientamento legale”, scrive Mukamitsindo nel prospetto delle azioni per le quali era stata finanziata tra il 2013 e il 2019. Dal 2004 al 2019, invece, la coop della suocera di Soumahoro ha intascato ben 30 milioni da due progetti Sprar per accogliere i rifugiati a Sezze e a Roccagorga. In questo caso la società si è presentata come partner del progetto. Dal 2014 al 2019, quindi un lasso di tempo di 5 anni, Maria Therese ha ottenuto 5 milioni, un milione l’anno dunque, per i richiedenti protezione internazionale e rifugiati nello Sprar di Monte San Biagio. Un altro milione e 386mila euro sono confluiti in due anni, tra il 2019 e il 2021, sotto la voce “Prima il lavoro -On 2- Integrazione/Migrazione legale – Autorità Delegata – PRIMA: Progetto per l’Integrazione lavorativa dei Migranti”. Si tratta del fondo FAMI del ministero dell’Interno e di quello del Lavoro, al quale la coop della suocera di Soumahoro ha partecipato in collaborazione con l’Anci, con un prospetto per un totale di 2 milioni 349mila euro.

IL CAPORALATO

Non solo migranti, ma anche lotta al caporalato, il tema tanto caro ad Aboubakar. Così Mukamitsindo, nel 2019, partecipa a “Caporalato no grazie” e prende un milione di euro per orientamento, assistenza e mediazione per cittadini “di paesi terzi regolarmente soggiornanti sul territorio italiano, vittime o potenziali vittime di sfruttamento lavorativo”. Maria Therese, con un passato di donna in fuga dal Ruanda arrivata in Italia con i suoi figli, non poteva non pensare anche alla vittime di tratta a scopo sessuale. Il contributo, tra il 2016 e il 2019, è finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, che versa nelle casse della Karibu 104.593 euro. Ci sono poi una sfilza di importi per tutta una serie di attività che coinvolgono la cooperativa di Sezze in formazione di dipendenti Italpol, in aggiornamento degli imprenditori del turismo, in percorsi di istruzione formativa per artigiani. Voci in bilancio che spaziano da 125mila euro a 50mila e che man mano concorrono a raggiungere quegli oltre 63 milioni riportati nel prospetto per l’ammissione ai contributi Amif 2014-2020. Per Amif 2021-2027 la Karibu, il 15 aprile 2021, otterrà oltre un milione di euro. A questi vanno aggiunti gli ultimi progetti presentati da Mukamitsindo, stavolta sia per Karibu che per Consorzio Aid di cui è presidente la cognata di Soumahoro Aline Mutesi, alla Regione Lazio, che il 3 giugno 2022, con determinazione numero G07165, eroga un finanziamento del valore complessivo di 1 milione 151mila euro in favore delle due coop e di altre due del territorio, Ninfea e il Quadrifoglio, per l’inclusione nel mondo del lavoro degli ucraini in fuga dalla guerra. Infine, negli atti inviati all’Interno, c’è un dettaglio: tra i documenti allegati alla richiesta c’è la scheda antimafia di Murekatete. La moglie del deputato, all’epoca, compariva ancora nell’organico della coop, ora sotto la lente della Finanza per malversazioni di erogazioni pubbliche sull’accoglienza dei migranti.

Cosa sapeva Soumahoro, appalti e milioni. Rita Cavallaro su L’Identità il 24 Novembre 2022

Tutti sapevano dell’enorme fiume di soldi che arrivava nelle casse di casa Soumahoro. Dal ministro dell’Interno Matteo Salvini al suo successore Luciana Lamorgese, che misero nero su bianco i milioni dei contributi pubblici per l’accoglienza erogati a Karibu e Consorzio Aid, le coop del pontino fondate da Maria Therese Mukamitsindo, suocera del deputato di sinistra, e nella cui gestione, fino allo scorso 17 ottobre, era coinvolta anche la moglie del parlamentare, Liliane Murekatete. Lo sapevano quelli della Lega Braccianti, che durante la pandemia chiesero dei resoconti su una raccolta fondi ad Aboubakar Soumahoro senza ricevere alcunché. E non poteva non saperlo neppure lo stesso esponente di Alleanza-Si, che aveva impiantato la sede del suo sindacato per la lotta contro il caporalato, fondato nell’estate del 2020, proprio nello stesso ufficio di Latina dove si trovano Karibu e Aid.

IL SINDACATO

Un palazzo bianco con delle porte a vetri nere, in quello che è diventato il centro direzionale di Latina, in un piazzale desolato in viale Corbusier. Stesso indirizzo, stesso numero civico, stessi uffici al piano terra sia per Karibu e Aid sia per la Lega dei Braccianti. L’etichetta della sede legale, con la scritta sezione di Latina, è apposta accanto a quella della coop, finita nel mirino della UilTucs per le accuse di una trentina di dipendenti e migranti che lamentano il mancato pagamento degli stipendi, con arretrati fino a 18 mensilità. Pagamenti che sarebbero saltati con il pretesto che quelle coop non avevano più soldi perché, sostengono Maria Therese e Liliane, vantavano crediti per l’accoglienza che non sarebbero arrivati nelle loro casse. Eppure, come vi abbiamo certificato ieri su L’identità, il business delle cooperative create da Mukamitsindo era enorme se si calcola che solo Karibu, negli ultimi anni, ha incassato quasi 65 milioni di euro di contributi pubblici per le gare vinte al Ministero dell’Interno, alla Regione Lazio, alle Pari Opportunità. E quei documenti, con le cifre milionarie e i progetti da avviare, erano in bella vista sulle stesse scrivanie dove, si ipotizza, anche Aboubakar deve essersi seduto, visto che quella era pure la sede del suo movimento sindacale. Fermo restando che, negli accertamenti che gli investigatori stanno svolgendo sui conti delle società della suocera, il deputato non è assolutamente coinvolto.

LA RELAZIONE

È proprio sul fiume di soldi passati sui bilanci di Karibu e Consorzio Aid che si concentrano le indagini della Guardia di Finanza di Latina, volte a verificare se ci sia stata o meno una malversazione di erogazioni pubbliche sull’accoglienza. Un business che, viste le cifre, rende ancor più granitiche quelle intercettazioni di Mafia Capitale, quando il Mondo di mezzo diceva che gli immigrati rendono più della droga. A dettagliare le cifre incassate dalla coop di Sezze, d’altronde, è stata proprio Maria Therese, in un documento presentato al Ministero dell’Interno per il programma Amif 2014-202o, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea. Ben 63 milioni 645mila euro sono gli incassi della Karibu per le sue attività di accoglienza dei rifugiati e l’integrazione sociale dei migranti.

La somma più cospicua è il pagamento di 25 milioni di euro, in sei anni, versati dal Viminale per il bando "CAS- Centri di Accoglienza Straordinaria Bando Prefettura". Un progetto per un totale di 500 milioni, vinto da Karibu come soggetto singolo, quindi senza alcun partenariato, per "l’emergenza migranti richiedenti protezione internazionale – progetto di accoglienza, servizi per l’alloggio, tutela socio-legale, aiuto psicologico, assistenza e orientamento legale", scrive Mukamitsindo nel prospetto delle azioni per le quali era stata finanziata tra il 2013 e il 2019. E perfino il progetto, per un totale di due milioni per l’inclusione nel mondo del lavoro degli ucraini in fuga dalla guerra, in un bando vinto a giugno scorso. A suggellare la veridicità dei pagamenti, oltre all’autocertificazione della suocera di Soumahoro, c’è la "Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza predisposto al fine di fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale", presentata al Senato dal ministro Lamorgese il 29 ottobre 2019, relativa all’anno 2018. Centocinquantasette pagine in cui il ministro del governo giallorosso traccia la situazione esplosiva sui migranti, che era venuta alla luce in tutta la sua drammaticità durante il Conte 1, con il pugno duro di Salvini sui porti chiusi. Lamorgese, che nel rapporto annuncia un nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei servizi di accoglienza e disciplina modalità di controllo e monitoraggio degli standard qualitativi dei Cas, riporta il "dettaglio dati finanziari relativi ai pagamenti effettuati dalle prefetture in favore di ciascun ente gestore dei centri di accoglienza". E solo nel 2018, a Karibu sono stati pagati 5.080.261,63, mentre il Consorzio Aid ha incassato 794.243,18. Numeri che confermano il trend di quei 25 milioni, su un totale di mezzo miliardo, spalmati in sei anni nelle casse della coop di Sezze e che contribuiscono a raggiungere la quota importante dei 65 milioni.

Bocce cucite e imbarazzo la vicenda si fa grottesca. Maurizio Zoppi su L’Identità il 24 Novembre 2022

Suda freddo in queste ore la sinistra in Italia ed in particolare il leader di SI, Nicola Fratoianni e il responsabile nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli. L’imbarazzo è concreto rispetto al caso che sta coinvolgendo il neo deputato Aboubakar Soumahoro. Bocche cucite nella serata di ieri, rispetto ad una storia che scotta politicamente e che già sta facendo molto male ai "compagni" ed "ambientalisti". In queste ore dovrebbe essere ascoltato il sindacalista della Lega dei braccianti, da parte degli esponenti del suo gruppo parlamentare, i quali hanno chiesto una ricostruzione dettagliata dei fatti che hanno portato la procura di Latina a indagare sulla gestione di due cooperative pro-migranti, la Consorzio Aid e la Karibu amministrate a vario titolo dalla suocera e dalla moglie di Soumahoro. Nel mirino, eventuali irregolarità nei contratti e presunte cattive condizioni di assistenza dei minori ospitati in quelle strutture. Queste le ombre sul sindacalista di origini ivoriane che ora rischia una sospensione da parte del movimento con il quale è arrivato alla Camera il 25 settembre. "Mi volete morto" affermava piangendo l’attivista, in un video pubblicato sui social, il quale da subito si è dichiarato estraneo ai fatti. Ma numerose sono le ricostruzioni da parte di alcuni ex ospiti nelle strutture gestite dalle coop in interviste alla stampa che parlano di "condizioni di vita inaccettabili". "Incontreremo in queste ore Soumahoro per un confronto. Penso che si debba sempre tenere distinta, in molto netto, la vicenda giudiziaria, che peraltro pare che neanche lo coinvolga direttamente, e la dimensione della politica che riguarda le questioni del diritto del lavoro. E su questo io credo sia giusto avere un confronto diretto. Quando lo avremo avuto nelle prossime ore ognuno farà delle valutazioni". Queste le ultime parole di Nicola Fratoianni, prima di entrare in un silenzio che sa di disagio. La vicenda di Aboubakar Soumahoro si fa sempre più grottesca.

La relazione Lamorgese sulla coop e i 5 milioni del Viminale di Salvini. Redazione L'Identità il 24 Novembre 2022

È in questa relazione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, da poco succeduta al posto di Matteo Salvini al Viminale, che vengono certificate le cifre erogate alle coop Karibu e Consorzio Aid, fondate da Maria Therese Mukamitsindo, per l’accoglienza dei rifugiati nei due Cas per adulti di Latina gestite dalla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro.

Nella relazione, presentata al Senato il 29 ottobre 2019 per illustrare l’emergenza migranti, viene messo nero su bianco che la Karibu, nel solo 2018 quando era ministro Salvini, ricevette dal Viminale oltre 5 milioni di euro per la gestione dei centri di accoglienza. Il Consorzio Aid, invece, incassò, in quello stesso anno, 794.243,18 euro. Insomma, le due cooperative sociali che si occupavano di rifugiati erano accreditate tra le strutture verso le quali venivano inviati i migranti che sbarcano sulle nostre coste e che vengono smistati nei Cas di tutta «Italia. Il rapporto di 157 pagine, in cui vengono affrontati diversi nodi relativi agli sbarchi, in quel momento, tracciava la situazione alquanto esplosiva degli arrivi, scaturita durante il Conte 1 dal pugno duro di Salvini sui porti chiusi. Il ministro Lamorgese, nel documento, annunciava un nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei servizi di accoglienza e disciplinava modalità di controllo più serrati e di monitoraggio degli standard qualitativi dei Cas. Controlli che da Karibu e Aid, probabilmente, non sono mai stati fatti.

DAGONEWS il 24 novembre 2022.

Angelo Bonelli dà ragione a Dagospia: durante l’intervista rilasciata a "Metropolis" (al minuto 3.30), il video-podcast condotto da Gerardo Greco sul sito di Repubblica, ammette di aver scelto di candidare Aboubakar Soumahoro perché trasformato in eroe da Propaganda Live di Zoro, l’Espresso di Damilano e Fabio Fazio! La politica a sinistra è come un talent show, ma la selezione la fanno i giudici dei telecircoletti che non capiscono una mazza!

Da repubblica.it il 24 novembre 2022. 

Non nasconde la delusione Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde, quando si parla di Aboubakar Soumahoro, deputato eletto nelle sue file e finito nel ciclone mediatico dopo l'inchiesta aperta su moglie e suocera nella gestione della coop Karibu. "Abbiamo parlato con lui - dice Bonelli a Metropolis - ci ha confermato l'estraneità ai fatti. Ma io sono una persona trasparente, ci sono rimasto male".

 Da liberoquotidiano.it il 25 novembre 2022.

Aboubakar Soumahoro chiede scusa. Lo fa da Corrado Formigli, a PiazzaPulita. "Sono stato poco attento, mentre giravo per il Paese, a quello che c’era a casa mia", le parole del deputato che si è auto-sospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra. "Non sapevo nulla - ha aggiunto - se fossi stato a conoscenza di una indagine sulle cooperative gestite da mia suocera non mi sarei candidato".

Nel corso della trasmissione Soumahoro ha avuto modo di rispondere agli attacchi degli ex colleghi della Lega Braccianti riguardo a 56.500 euro che non sarebbero stati rendicontati su un bilancio di 220mila euro. "Sono nelle condizioni di poter produrre tutte le prove - ha affermato Soumahoro - i soldi sono stati spesi per l'acquisto di generi alimentari, gel disinfettante, trasporti, e i rimanenti 56.800 sono andati nell'esercizio 2021. Il bilancio è disponibile sul sito della Lega Braccianti".

Il parlamentare è poi passato al contrattacco: "Chi mi accusa oggi è tornato a far parte della Usb, organizzazione con cui ho un contenzioso, dopo essere passato con me nella Lega Braccianti. Sono tornati indietro perché mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio i soldi delle donazioni. Ho rifiutato". Infine Soumahoro ha negato di aver mai usato i soldi delle donazioni per finanziare l’ascesa politica: "Assolutamente no, mai. Anzi, ci ho rimesso".

Alessandra Arachi per corriere.it il 25 novembre 2022.

«Sono qui perché credo fermamente nei valori dell’integrità, della dignità umana e per il rispetto e tutela della storia che mi porta qui, che è la storia di migliaia di persone. Sono pronto alla trasparenza e dirò tutta la verità, risponderò punto per punto». Aboubakar Soumahoro ha esordito così, ospite da Corrado Formigli negli studi di Piazza Pulita, la faccia visibilmente tesa. 

Nel pomeriggio il neo deputato ivoriano si era autosospeso dal gruppo di Alleanza Verdi Sinistra italiana, quello che lo ha portato alla Camera. Era successo dopo due giorni di un faccia a faccia serrato con i due leader dell’Allenaza rosso-verde Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli.

La vicenda che ha travolto Soumahoro è legata alle cooperative di braccianti gestite dalla sua famiglia. Lui non è indagato, ma lo è sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, l’accusa: malversazione. Un colpo davvero duro per Soumahoro che sulle battaglie con i braccianti ha fondato la sua carriera sindacale prima e politica poi.  

Corrado Formigli gli ha sciorinato tutti i capi d’accusa, lo ha incalzato, gli ha chiesto: «Ma lei non sapeva quello che succedeva nelle cooperative?». Soumahoro ha balbettato: «Innanzitutto diciamo dove ero... prima ancora di conoscere la mia attuale compagna ero sempre nei luoghi dove si combattono queste situazioni.... Poi l’ho conosciuta e sono venuto a sapere che ci sono degli stipendi non pagati e la risposta che ho ricevuto e che c’erano ritardi di pagamento da parte della pubblica amministrazione». Formigli non sembra convinto.

Lui aggiunge: «Ho commesso una leggerezza: avrei dovuto fare meno viaggi e stare accanto ai lavoratori verificando cosa succedeva». Formigli ha insistito: «Non poteva non sapere...». E lui: «Io ho sempre vissuto a Roma con la mia compagna e la cooperativa era a Latina». E le foto di sua moglie con vestiti eleganti, con oggetti molto costosi? «Nessuna forma di imbarazzo: c’è il diritto all’eleganza e alla moda. E le immagini sono datate». E’ un continuo di botta e risposta, il deputato ivoriano continua ad arrampicarsi sugli specchi, soprattutto quando Formigli gli chiede se alcuni dei fondi erano serviti per la sua ascesa in politica.

Bonelli e Fratoianni erano stati pacati nell’annunciare l’autosospensione di Soumahoro: «La decisione di autosospendersi è stata presa in totale libertà», hanno commentato Bonelli e Fratoianni. «Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni e del valore dell’impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi».

Il fascicolo dei magistrati di Latina riguarda le presunte irregolarità nella gestione di due cooperative pro-migranti della provincia pontina: la Karibu e il Consorzio Aid che almeno fino a due mesi fa erano gestite anche dalla moglie Liliane Murekatete. Ci sarebbero presunti mancati pagamenti ai dipendenti e contratti non regolari, indiscrezioni, cifre a sei zeri che le cooperative hanno ricevuto dagli enti statali con bandi o erogazioni già nel 2020».

Grazia Longo per "la Stampa" il 24 novembre 2022. 

Non solo non pagavano i braccianti impegnati nelle campagne dell'agro pontino, ma non versavano neppure i loro contributi né pagavano le tasse per l'impresa. Accumulando così 1 milione e mezzo di debiti a cui se ne aggiunge un altro milione nei confronti di banche e fornitori. 

Nuovi guai per la cooperativa Karibu dei familiari del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. La coop gestita da sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, sua moglie Liliane Murekatete e suo cognato Michel Rukundo, ha maturato, al 31 dicembre 2021, un passivo di 2 milioni e 425 mila euro. «È veramente grave che una società che riceve appalti da enti pubblici abbia un'esposizione così elevata», tuona Gianfranco Cartisano, sindacalista della Uiltucs che per primo ha denunciato il caso dei lavoratori non retribuiti dai parenti di Soumahoro. 

La procura di Latina ha avviato due inchieste, una prima in collaborazione con la Guardia di finanza che vede indagata per malversazione la suocera del parlamentare, e una seconda che si avvale delle indagini dei carabinieri di Latina appena avviata per distruzione e occultamento di documenti contabili. 

Ma a questi due filoni d'inchiesta potrebbe a breve aggiungersene un terzo per maltrattamento di minori, a seguito delle segnalazioni che alcuni ragazzini hanno presentato al sindacato Uiltucs di Latina: «Non ci davano da mangiare e abitavamo in case senza acqua e senza luce».

L'altro ieri, infatti, queste denunce sono state raccolte anche dagli ispettori del Ministero per lo sviluppo economico che hanno effettuato un sopralluogo a Latina. È quindi verosimile che anche la Procura accenda i fari su questo aspetto e indagare su quanto accaduto nelle case per i minori. 

Il fatto, insomma, è che come la si giri e la si rigiri, questa storia fa acqua da tutte le parti. A partire dalla moglie del deputato paladino dei braccianti che sfoggia sui social media abiti e accessori super griffati e costosi e poi non paga i dipendenti. Fino a un altro cognato di Soumahoro, Richard Mutangana, altro fratello della moglie, che si presentava come direttore dei progetti della Karibu e che riceveva in Ruanda (dove ha altre attività) bonifici al vaglio della Guardia di finanza di Latina. E poi c'è, appunto, la questione delle tasse non pagate.

Scorrendo le varie voci del bilancio si scopre, peraltro, che la Karibu per il 2021 aveva ricevuto contributi a fondo perduto Covid per 227 mila euro. Come ha usato questi soldi? Perché non li ha spesi per pagare i dipendenti? Tra trattenute sulle buste paga dei dipendenti, contributi Inps e tasse per l'impresa non è stato versato 1 milione e mezzo di euro. «È scandaloso che oltre a non saldare il conto con i braccianti non abbiano pagato neppure il fisco» incalza Gianfranco Cartisano. Il quale aggiunge: «Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov' erano prima gli enti, e la politica in generale? Oggi rimane per noi l'unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell'immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: stipendi subito».

Per questo, ribadisce il segretario della Uiltucs di Latina, «stiamo predisponendo una lettera per chiedere un incontro urgente al prefetto di Latina, perché convochi d'urgenza tutte le parti e i soggetti interessati, come per esempio la Regione Lazio e i Comuni che assegnavano i progetti, perché si raggiunga un accordo. Questa vertenza, e il disagio di questi lavoratori per noi non hanno colore politico». 

Non si fermano, intanto, anche gli accertamenti dell'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) sulle cooperative Karibu e consorzio Aid. Gli atti sono in via di conclusione, e sono stati avviati in base alle denunce di alcuni lavoratori. «Proprio martedì - precisa Cartisano - abbiamo ottenuto la rateizzazione per una lavoratrice Karibu che era creditrice di 8 mila euro di stipendi. Per altri tre lavoratori ci siamo riaggiornati al 29 novembre. Ciò che vogliamo è che sia applicata per i lavoratori non pagati la procedura di intervento sostitutivo di pagamento delle retribuzioni già applicato per quattro dipendenti della Aid».

La coop Karibu dei familiari dell’on. Soumahoro eletto dai Verdi e Sinistra Italiana, non ha pagato tasse per più di oltre un milione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Novembre 2022

Una tipica vicenda italiana quella di Aboubakar Soumahoro, il campione dei centri sociali, l’eroe degli stivali da lavoro portati in parlamento la cui moglie, la disoccupata Liliane Murekatete – una sorta di Ferragni – sfoggia sui social borse e accessori griffati costosissimi malgrado l’indagine sulle malsane condizioni dei rifugiati e i mancati pagamenti ai dipendenti della coop di migranti di cui è responsabile mammà, la suocera dell’onorevole, signora Maria Therese Mukamitsindo

Nuovi guai per la cooperativa Karibu dei familiari del deputato Aboubakar Soumahoro (eletto nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra). La coop Karibu gestita da sua moglie Liliane Murekatete, sua suocera Marie Therese Mukamitsindo , e suo cognato Michel Rukundo, ha maturato, al 31 dicembre 2021, un passivo di 2 milioni e 425 mila euro. Scorrendo le varie voci del bilancio 2021 della Karibu, che secondo la relazione degli amministratori, "negli ultimi anni ha contratto di molto il suo bilancio", evidenzia un utile di 175.631 euro al netto di imposte. Le entrate comprendono 2milioni e mezzo di ricavi da clienti e 227.000 euro ricevuti "a fondo perduto" per emergenza covid. E come hanno usato questi ricavi e contributi, come mai non li hanno spesi per pagare i dipendenti ?

Non solo non pagavano i braccianti impegnati nelle campagne dell’agro pontino, ma non versavano neppure i loro contributi né pagavano le tasse per l’impresa. Così hanno accumulato oltre 1 milione e mezzo di debiti a cui si va sommata un’esposizione debitoria di un altro milione nei confronti di banche e fornitori. "È veramente grave che una società che riceve appalti da enti pubblici abbia un’esposizione così elevata", dice Gianfranco Cartisano, sindacalista della Uiltucs che per primo ha denunciato il caso dei lavoratori non retribuiti dai parenti di Soumahoro. 

Tra trattenute sulle buste paga dei dipendenti, contributi Inps e tasse per l’impresa dalla cooperativa dei familiari di Soumahoro non è stato versato 1 milione e mezzo di euro. "È scandaloso che oltre a non saldare il conto con i braccianti non abbiano pagato neppure il fisco" aggiunge Gianfranco Cartisano "Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale? Oggi rimane per noi l’unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: stipendi subito". Per questo, il segretario della Uiltucs di Latina, annuncia che "stiamo predisponendo una lettera per chiedere un incontro urgente al prefetto di Latina, perché convochi d’urgenza tutte le parti e i soggetti interessati, come per esempio la Regione Lazio e i Comuni che assegnavano i progetti, perché si raggiunga un accordo. Questa vertenza, e il disagio di questi lavoratori per noi non hanno colore politico".

La cooperativa Karibu è oggi presieduta da Marie Terese Mukamitsindo, madre di Liliane Terese, nel 2018, vinse il premio imprenditrice dell’anno e fu premiata da Laura Boldrini. Il magistrato Simonetta Matone, attuale senatore della Lega, ex magistrato ed ex vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, si chiede: "se l’onorevole Boldrini oggi premierebbe di nuovo la Moukamitsindo che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli".

Marie Therese Mukamitsindo premiata dalla Boldrini

La procura della repubblica di Latina ha avviato due procedimenti, avvalendosi degli accertamenti delegati alla Guardia di finanza a seguito dei quali è stata vede indagata per malversazione la suocera del parlamentare, ed un secondo procedimento con delega di indagine ai Carabinieri di Latina, che è stata appena avviata per distruzione e occultamento di documenti contabili. Volevano forse nascondere gli stipendi da 100mila euro l’anno che si davano i familiari dell’ on. Soumahoro, il quale sostiene che sua moglie è "disoccupata" ?

Marie Therese Mukamitsindo suocera dell’on. Soumahoro

Questa vicenda fa acqua da tutte le parti, a cominciare dalla moglie del deputato il quale si spacciava per difensore dei diritti dei braccianti, la quale che sfoggia sui socialmedia vestiti ed accessori di lusso mentre poi i dipendenti non vengono pagati . Persino un altro cognato di Soumahoro, Richard Mutangana, un altro fratello della moglie, si presentava come "direttore" dei progetti della Karibu e che riceveva in Ruanda (dove ha altre attività ) contributi pubblici e bonifici al vaglio della Guardia di finanza di Latina. E per concludere…. le tasse non pagate. Non si fermano anche gli accertamenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro sulle cooperative Karibu e sul consorzio Aid. Gli atti sono in fase di conclusione, avviati a seguito delle denunce di alcuni lavoratori. "Soltanto martedì – precisa Cartisano – abbiamo ottenuto la rateizzazione per una lavoratrice della cooperativa Karibu che era creditrice di 8 mila euro di stipendi. Per altri tre lavoratori ci siamo riaggiornati al 29 novembre. Ciò che vogliamo è che sia applicata per i lavoratori non pagati la procedura di intervento sostitutivo di pagamento delle retribuzioni già applicato per quattro dipendenti del consorzio Aid".

Aquesti due filoni d’inchiesta se ne potrebbe aggiungere a breve un terzo, questa volta per maltrattamento di minori, a seguito delle segnalazioni che alcuni ragazzini hanno presentato al sindacato Uiltucs di Latina: "Non ci davano da mangiare e abitavamo in case senza acqua e senza luce". L’altro ieri, infatti, queste denunce sono state raccolte anche dagli ispettori dell’ex- Ministero per lo sviluppo economico che hanno effettuato un sopralluogo a Latina per far luce sulla gestione delle cooperative della famiglia Soumahoro. È quindi probabile che a questo punto la Procura accerti anche su questi aspetti ed indaghi su quanto è realmente accaduto nelle case per i minori. 

Ma chi è in realtà Liliane Murekatete la moglie di Aboubakar Soumahoro ? Quella che appare tutta "griffata" nei selfie dove ostentava il lusso o quella delle battaglie per i migranti? Se lo stanno chiedendo in tanti, anche gli investigatori della guardia di Finanza. La donna che era sempre in prima fila calata nella sua nuova vita accanto a Soumahoro nel villino che i due hanno acquistato nel giugno scorso a Casal Palocco composto da sei vani in zona residenziale dopo aver lasciato la sua casa nel centro di Latina dove abitava quando gestiva le sue cooperative, adesso invece sembra sparita.

Raccontano che conosceva il nome di tutti i migranti che arrivavano nei centri di accoglienza, li aspettava quando arrivavano con i pulmini dal casello autostradale di Frosinone dove suo fratello Michel li andava a prelevare. L’appuntamento era in una stazione di servizio appena usciti dall’autostrada, era il 2017 e Michel Rukundo aveva 32 anni e tante vite già alle spalle, dal suo arrivo dal Ruanda, quando era poco più che bambino, insieme alla madre Marie Thérèse e alle sue sorelle, fino alla fondazione della cooperativa Karibu che dagli inizi degli anni Duemila si occupa di accoglienza? 

La moglie Liliane Murekatete, non disdegna il lusso sfrenato e l’amore per le grandi firme viaggiando tutta griffata Louis Vuitton… Lui fa lo show in parlamento presentandosi con gli stivali di gomma sporchi di fango. Lei viaggia con valigie e vestiti griffati. E postando sul suo profilo social una vita tra viaggi, alberghi e ristoranti di lusso. Ipocrisia a tonnellate. E poteva mancare una fotografia abbracciata a Roberto Saviano ? Ma certo che no ! 

In quegli anni le cose sembravano andare per il verso giusto bene: accoglienza, integrazione, impegno. Ad un certo punto il meccanismo si è inceppato, e si è fatta molti amici e molti nemici. Dai suoi detrattori Viene quasi subito soprannominata "Lady Gucci" , anche perchè la moglie del deputato Soumahoro ha sempre messo in evidenza la sua passione per la moda e il lusso. Liliane è bella ed appariscente grazie ai vestiti, borse e accessori, portati su un fisico che si fa notare. Grandi occhiali da sole, molte foto e selfie più da "influencer" sui socialnetwork che da imprenditrice nel sociale. Insomma non passa inosservata, e gli "amici" su Facebook la chiamano la regina d’Africa.

Una passione la sua per la moda che trasferisce anche sul lavoro, organizzando nel 2018 una sfilata al centro commerciale LatinaFiori, dove lei stesso indossava un abito in stile africano con il turbante. Oltre ad un casting per selezionare ragazze e ragazzi che saliranno in passerella in occasione del lancio del marchio K, un made in Italy africano ideato dai richiedenti asilo della cooperativa Karibu. CasaPound l’attacca, la mattina del 16 maggio compare uno striscione davanti alla sede cooperativa: "Per una moda che ti veste ce n’è una che ti spoglia" riferendosi chiaramente alle foto sui social in cui Liliane compare con marche costose di abbigliamento, sostenendo che questo consumismo sia figlio dell’enorme introito che deriva dall’affare dell’accoglienza dei richiedenti asilo è quasi una certezza. 

La moglie di Soumahoro così replicava: "Provo profondo rammarico come donna per le frasi che mi sono state rivolte. Il mio istinto mi spingerebbe a rivolgermi alle autorità ma la razionalità mi induce a sperare in un confronto costruttivo". Ma lei non si ferma: partecipa al matrimonio di due ragazzi ospiti della cooperativa Karibu che si sposano a poche settimane dall’uscita dal progetto Sprar di Monte San Biagio, nei giorni successivi partecipa alla pulizia delle spiagge in jeans e t-shirt con i ragazzi delle cooperative e gli amministratori comunali. E su Facebook alterna selfie in abiti eleganti, borse di lusso, vistosi cappelli, a tute da lavoro e ramazza tra le mani. Una vita che oscilla "mediaticamente" tra luccichio e impegno sociale. L’ultimo post di Liliane Murekatete è dedicato al marito Soumahoro incatenato davanti a Montecitorio la scorsa estate, la sua protesta per il salario minimo, scrive: "Fiera di come sei". Niente altro.

Provate ad immaginare se questa vicenda avesse riguardato la sorella ed il marito della Meloni, o i figli di Berlusconi cosa sarebbe accaduto in Parlamento, in televisione e sui giornali "sinistrorsi"! Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco quando definisce sul Quotidiano del Sud questa "Una tipica vicenda italiana quella di Aboubakar Soumahoro, il campione dei centri sociali, l’eroe degli stivali da lavoro portati in parlamento la cui moglie, la disoccupata Liliane Murekatete – una sorta di Ferragni – sfoggia sui social borse e accessori griffati costosissimi malgrado l’indagine sulle malsane condizioni dei rifugiati e i mancati pagamenti ai dipendenti della coop di migranti di cui è responsabile mammà, la suocera dell’onorevole, signora Maria Therese Mukamitsindo. Una storia molto italiana – ma proprio molto – su cui un Rodolfo Sonego di oggi potrebbe cavarne una sceneggiatura, il Pd farne un’altra punta avanzata del pensiero progressista, Fabio Fazio una serie di ospitate oppure la Ue, in giusto completamento con Luigi Di Maio, un altro inviato speciale nel Golfo Persico. L’arte d’arrangiarsi, infatti, è la stessa. Giggino integra l’altro. E viceversa".

Ecco come parlava di Aboubakar Soumahoro la stampa di sinistra, prima dello scandalo giudiziario che ha travolto la sua famiglia la quale stranamente oggi tace. Qualcuno si meraviglia ? Noi no ! 

Esiste in questa vicenda un problema di credibilità politica compromessa, quella di Soumahoro, e un tema di fiducia tradita, quella di Fratoianni e Bonelli, che pare non fossero a conoscenza dei guai "familiari" del sindacalista. Anche se, almeno nel caso di Fratoianni, un campanello d’allarme poteva accendersi. "Lo avevo avvisato", dichiara don Andrea Pupilla, responsabile della Caritas di San Severo, da anni impegnato a "Torretta Antonacci", uno dei ghetti di migranti nella provincia di Foggia, dove Soumahoro ha concentrato la sua attività sindacale. Un’attività "solo virtuale e tesa ad accendere fuochi, ma non l’abbiamo denunciata ora – spiega il sacerdote -. Quando è stato candidato, ho scritto personalmente a Fratoianni in privato, dicendogli che stavano facendo un autogol, ma non mi ha risposto".

Soumahoro, deputato di Verdi-Si, ha promesso in lacrime sui social di scioperare accanto ai dipendenti di quelle cooperative se risulterà che sono stati sfruttati. Ma c’è chi accusa: "Soumahoro lo sa. Era lì, portava la spesa. Era la sua famiglia. Lui era a conoscenza di quello che accadeva lì dentro". Youssef Kadmiri, 42 anni, è un ingegnere nato a Marrakesh e non parla per sentito dire. È un testimone e una vittima di quello sfruttamento. E racconta oggi al Corriere della Sera qualcosa di molto più grave di ciò che è emerso. Dice di essere stato pagato "due volte in due anni". Meno di quanto pattuito: "Un totale di 6mila euro".

Come altri suoi colleghi, alcuni dei quali ricevevano "bonifici dal Ruanda" senza contratto, "Ero operatore sociale, traducevo ai ragazzi che venivano dalla Libia, dall’Albania, dal Bangladesh, dal Marocco. Ma poi facevo anche manutenzione. La guardia la notte. L’orario non era giusto. Tante volte ho chiesto il contratto, sempre scuse. E lo stipendio di 1000-1200 euro non arrivava. Dicevano "mi dispiace". Ma io dovevo pagare l’affitto. Dopo 6 mesi ho avuto 3.000 euro. Poi niente per un anno e mezzo. Poi solo altri 3.000". Ma soprattutto Yuseff accusa: i minori che erano nella struttura venivano tenuti in una "situazione grave: gli davano poco da mangiare e non gli davano il "poket money"" la diaria per le spese personali. Redazione CdG 1947

Soumahoro e le denunce di aggressione (rimaste nel cassetto). L'associazione Anolf smentisce la raccolta fondi di Soumahoro: "Nel ghetto non ci sono bambini". E denuncia le aggressioni subite dai suoi uomini. Bianca Leonardi il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

Altre donazioni altra presunta campagna fasulla - avviata nel 2021 e ancora attiva - per la Lega Braccianti di Aboubakar Soumahoro. Su GoFundMe sono stati infatti raccolti 16mila per comprare regali ai bambini dei ghetti pugliesi di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone.

"A Natale possiamo regalare speranza. Con il vostro aiuto organizzeremo un festa per le bambine e i bambini nati e cresciuti negli insediamenti": si legge nella richiesta di aiuto di Soumahoro. A smentire la questione è Francesco Mirarchi, coordinatore Anolf, l’associazione che ha vinto il bando regionale lo scorso agosto per la gestione della foresteria di Torretta Antonacci, che racconta a IlGiornale.it: "Nei ghetti non ci sono bambini. Qui a Torretta Antonacci nemmeno uno e la stessa cosa a Borgo Mezzanone. Anche le donne sono poche, in questi posti vivono solo uomini braccianti".

In effetti, nel video social postato dalla Lega Braccianti a pochi giorni dall’inizio della campagna si vede un Soumahoro vestito da Babbo Natale, qualche aiutante che sistema l’albero di Natale e dei pacchetti presumibilmente mai consegnati. Nessun bambino e nessuna donna appare nel video che riprende molti abitanti del ghetto.

Pochi giorni dopo, un nuovo aggiornamento sulla pagina relativa alla campagna dei regali di Natale in cui la Lega Braccianti - ringraziando i donatori - alza l’asticella delle pretese, chiedendo un aiuto in più. "La vera lotta contro il caporalato nella filiera del cibo è permettere alle lavoratrici e ai lavoratori braccianti di vivere dignitosamente. Per fare ciò occorre permettere ai braccianti di avere un giusto salario che consenta un’abitazione dignitosa che permetterebbe di ottenere una residenza in modo da poter accedere ai vari servizi tra cui quelli sanitari. Inoltre, occorre aver un permesso di soggiorno", si legge sulla pagina della campagna.

Tutte le richieste avanzate dai fedeli di Aboubakar Soumahoro risultano però solo fuffa in quanto gli stessi sono ormai famosi per opporsi ad ogni gestione esterna del territorio. Chi invece agisce concretamente sul territorio è prorprio Anolf: sul posto è presente - come IlGiornale.it ha potuto verificare - un presidio aperto tutti i giorni che accoglie i migranti aiutandoli nelle procedure di ottenimento del permesso di soggiorno e residenza. Molti di quelli che vivono nei container della protezione civile, con cui abbiamo parlato a Torretta Antonacci, ci hanno mostrato i propri documenti che l’associazione gli ha permesso di avere. Tanto più, sempre Anolf ha stipulato un accordo con l’ufficio dell’impiego in modo da facilitare le pratiche di inserimento professionale, nella speranza così di contrastare il caporalato.

Tutte queste azioni non sono state viste bene dall'"esercito di Soumahoro" tanto che, come ci raccontano sia Mirarchi sia un agente della polizia presente sul posto, le aggressioni nei confronti dei nuovi arrivati non sono mancate. Una su tutte quella a Mohammed Elmajdi, presidente dell’Associazione Anolf e Segretario territoriale della Cisl Foggia. L’accoglienza che ha ricevuto, a pochi giorni dalla vincita del bando quando si è recato nella foresteria di Torretta Antonacci, non è stata delle migliori e adesso non gli è più permesso mettere piede lì. "Sono stato aggredito il primo giorno che mi sono recato a Torretta Antonacci, c’erano molte persone ma alcuni li conoscevo e li ho riconosciuti e denunciati. Sono del sindacato Usb e della Lega Braccianti - ci racconta Elmajidi - mi hanno intimato di andare via battendo sulla mia macchina".

Sulla denuncia, di cui ilGiornale.it è entrato in possesso, si leggono infatti i nomi di Balde Mamadoue, Berre Alpha e Soumaila Sambarè: proprio quei tre uomini che, come ci hanno raccontato al ghetto, sono i responsabili indicati da Soumahoro per gestire il ghetto e tutte le attività connesse. "In particolare - continua il Preidente Anolf - il signore Berre Alpha mi diceva che io, come associazione, non potevo essere presente lì e che a loro non interessava la nostra convenzione sottoscritta con la regione Puglia".

"Non so più niente di quella denuncia - conclude - mi avevano detto che mi avrebbero fatto sapere ma sono passati mesi ormai".

Altro male di questa realtà sono proprio tutte le denunce - come quella della Cgil - che restano chiuse nei cassetti. Nonostante questo, sembra esserci comunque la speranza che le cose vengano approfondite. "Portiamo avanti decine e decine di inchieste, alcune le abbiamo concluse mentre su altre sono in corso le indagini", ci racconta il Procuratore Capo di Foggia Ludovico Vaccaro. "Il caporalato e le dinamiche annesse a questo fenomeno sono una priorità, tanto che siamo tra i pochi che agiamo con lo strumento del controllo aziendale. Questo per far capire ai braccianti che non siamo noi i nemici e che il problema va risolto dalla radice".

Soumahoro fa finta di nulla: "Viaggiavo molto..." Il mea culpa mediatico del deputato con gli stivali a Piazza Pulita. "Sono stato poco attento, ma mia moglie mi disse solo che gli enti avevano dei ritardi nei pagamenti". Bianca Leonardi il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Approfondirò tutti i vari contorni della vicenda e lo farò come parlamentare della repubblica": questa la conclusione di Aboubakar Soumahoro che ha deciso di confessarsi a Piazza Pulita davanti a Formigli.
Molte le domande che il giornalista ha posto all’onorevole, quelle che tutti gli italiani si chiedono. Poche le risposte di Soumahoro che, attraverso giri pindarici e idealismi del sindacalismo vecchia scuola, non è riuscito a dare nessuna giustificazione se non un "sono stato poco attento".

Sulla questione delle coop di famiglia, Karibu e Aid, il deputato di Verdi e Sinistra Italiana sostiene che nel 2020 la moglie disse lui che c’erano dei problemi di stipendio con i dipendenti delle cooperative, ma che erano legate ai ritardi delle pubbliche amministrazioni nei pagamenti.

"Conosco quelle dinamiche di chi da gli appalti e non ci feci caso. Sono stato una volta nella coop ma assicuro che le condizioni non erano quelle che ora vengono descritte", risponde Soumahoro.
Condizioni denunciate dalla senatrice Fattori che era stata personalmente in uno dei centri trovando una situazione estremamente precaria, avvertendo anche i vertici di sinistra italiana che però glissarono - come la stessa racconta - .

"Avrei dovuto fare meno viaggi e restare vicino a quel lavoratori, dovevo fare visite improvvisate", prosegue Sumahoro facendo mea culpa sul fatto di non essere stato presente sul posto e tende a sottolineare che è l’unica scusa che si sente di fare alle persone. Fa strano - certo - visto che la sede di Latina della sua Lega Braccianti è la stessa di quella della Karibu e di Aid.

Nota di buonismo, poi, in cui l’onorevole - almeno a parole - prende le difese dei lavoratori sfruttati: "Hanno fatto bene i lavoratori a parlare e chi ha sbagliato dovrà pagare".

La domanda è sempre la stessa, ed è anche quella che chiede Formigli al deputato: "Ma poteva davvero non sapere niente vivendo con sua moglie?". Soumahoro non cede: "Sapevo solo di alcuni ritardi", "vivevamo a Roma", "C’era il bambino" e "C’era il lockdown". Insomma, niente chiacchiere a tavola per l’ex sindacalista e lady Suomahoro, a quanto pare.

Ma alla fine, come ha chiesto il padrone di casa di Piazza Pulita, di cosa viveva Aboubakar prima di entrare in parlamento? "Ho scritto un libro", ha risposto. Un solo libro che ha permesso all’ancora deputato di accendere un mutuo di 250 mila euro per la durata di 30 anni solo pochi mesi prima di entrare nei palazzi del potere.
E se durante il video in lacrime che ha fatto il giro del web affermava di avere una moglie nullatenente - con borse di fendi e scarpe di Gucci - stasera, in diretta, confessa che "la situazione economica familiare di mia moglie ci ha aiutato (riguardo alla casa ndr)" e che "mia moglie oltre alla cooperativa ha sempre avuto la sua carriera professionale". Quale non si sa, ma certo è che la Gdf, che già sta controllando i conti, farà chiarezza su questi aiuti da parte di suocera e familiari.

E sulla Lega Braccianti, un po’ come in tutta la confessione, una serie di risposte a caso a domande precise.
"E’ in grado di documentare i movimenti?" chiede Formigli riguardo ai finanziamenti raccolti con la campagna "cibo e diritti" - quei famosi 250mila euro che sembrerebbero, a quanto dicono i braccianti, mai arrivati nei ghetti - .
"Ci ho rimesso, nessuno ci ha imposto di fare queste lotte", risponde Soumahoro completamente estemporaneo, aprendo però la vicenda della denuncia degli ex soci: Sambarè, Alfa e Mamadoue.
Soumahoro non fa i nomi ma essendo stati sul posto è facile capire il riferimento: "Chi mi accusa oggi, aveva lasciato l’Usb e poi ci è tornato perchè mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio parte dei fondi, ma io mi sono rifiutato".

In realtà, una persona molto vicina all’onorevole e che ha passato gran parte della vita con lui ha raccontato a IlGiornale.it - come abbiamo già documentato nel reportage su Torretta Antonacci - la storia in modo dettagliato, smentendo Soumahoro. "Alpha Barre, Sambarè Soumalia e Mamadoue Balde sono stati pagati da Soumahoro per non dire dei fondi trattenuti. Soumahoro ha aperto tre conti alle poste a Foggia e ha messo 10mila euro per ognuno. Dopo hanno mangiato tutti da quella torta".
 Versioni contrastanti che in questa vicenda sono all’ordine del giorno.

Ma, a prescindere da ciò, la cosa che veramente fa pensare è che Aboubakar Soumahoro abbia deciso di dire la sua, di rispondere alle domande di un’Italia indignata dall’incoerenza del paladino dei diritti, senza dare una vera a propria spiegazione su nessun fatto.
 Sulle coop Karibu e Aid "è stato leggero" - un po’ come Bonelli quando ha deciso di candidarlo, anche se ora sembrerebbe ritrattare -, sulla Lega Braccianti nemmeno ha accennato alle pesanti accuse che hanno mosso, non quei tre con cui ormai - con tutta probabilità - si è creata una guerra tra clan (dove anche Usb è coinvolta, tutti lo tirano in ballo e dal sindacato solo il silenzio), ma tutti i braccianti di Torretta Antonacci, che noi abbiamo intervistato, impauriti e terrorizzati dall’egemonia dei suoi uomini che controllerebbero tutto.

Questo era il chiarimento che l’Italia si aspettava: probabilmente non sarebbe bastato, ma sicuramente sarebbe stato apprezzato.

Invece no. Se c’è però una cosa di cui Soumahoro è sicuro è che non rifarebbe mai quel video in lacrime: "Chiedo scusa, è stato un momento di debolezza". Peccato che le scuse le fa ai suoi "fan" e non ai lavoratori sfruttati delle coop o ai braccianti ai quali ogni mattina i suoi uomini ritirano i soldi per farli lavorare.

Spuntano i bilanci: ecco tutti i conti (e i debiti) delle coop dei Soumahoro. Bilanci non pubblicati, maxi finanziamenti dalle pubbliche amministrazioni e addirittura il bonus affitto. Tutti i conti di Aid e Karibu. Bianca Leonardi il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

Con l’apertura dell’inchiesta della Procura di Latina le coop della famiglia di Soumahoro sono ormai al centro del ciclone. Ancora di più adesso che la suocera del deputato, Maria Therese Mukamitsindo, è ufficialmente indagata. Da precisare, però, che le indagini vanno avanti addirittura dal 2019 e, con quanto emerso nelle ultime settimane, il denaro che negli ultimi anni gira intorno alla Karibu e al Consorzio Aid appare ora quantomeno sospetto.

I bilanci delle due cooperative non sono pubblici. Il sito della Karibu risulta infatti inattivo e su quello dell’Aid non sono presenti. Già questo non è conforme alla legge dal momento che i movimenti degli enti del terzo settore hanno l’obbligo di rendere pubblica la consultazione. Noi de IlGiornale.it, però, siamo comunque riusciti ad entrarne in possesso e abbiamo potuto vedere le cifre esorbitanti che le cooperative hanno ricevuto dagli enti statali, mediante bandi o erogazioni.

Ma entriamo nel dettaglio. Leggendo il bilancio del 31 dicembre 2020 di Aid si scoprono i bonifici che proprio la Prefettura di Latina ha erogato ogni due mesi come incarichi retribuiti per la gestione dei centri di accoglienza e dei richiedenti asilo. Il 27 marzo di quell’anno la coop ha ricevuto, infatti, due tranche da 78mila euro e 35 mila euro che - come scritto nella causale - avrebbero dovuto coprire i mesi di ottobre e novembre 2019. Stessa cosa nel mese di giugno, il 24 sono arrivano nelle tasche dell’azienda 99mila euro più altri 103mila euro. I finanziamenti sono andati avanti fino al 10 dicembre, ultimo giorno in cui il consorzio ha incassato più di 111 mila euro, dopo i bonifici precedenti di settembre e ottobre, rispettivamente di 105mila euro e 107 mila euro. Riassumendo: la Prefettura di Latina, nel solo anno 2020 - quindi a indagini già iniziate -, ha dato al Consorzio Aid circa 1 milione e 165mila euro. Nello stesso anno anche il Comune di Latina ha bonificato 10mila euro attraverso il bando multimisura per la concessione di contributi in ambito sociale. Ma c’è di più: l’azienda ha ricevuto bonus fiscali dal MISE, un contributo a fondo perduto di circa 35mila euro e altri 480 euro come bonus affitto.

Per quanto riguarda la Karibu invece si parla - al 2020 - di ben più di 2 milioni di euro di debiti, tra cui 590mila euro da saldare alle banche e 774mila circa di tasse. A tal riguardo le dichiarazioni della presidente Maria Therese Mukamitsindo - da ieri ufficialmente indagata-, suocera di Soumahoro, che ha rilasciato a Repubblica: "I ritardi dei pagamenti dipendono dagli appalti. Non abbiamo soldi da dargli (ai dipendenti ndr) perché lo Stato non ci paga in tempo". E ancora: "Siamo andati in cassa integrazione, non ci dormivo la notte" e "abbiamo dovuto licenziare dei dipendenti". Ciò che però afferma la protagonista sulla relazione di bilancio è esattamente il contrario: "Non si è potuto licenziare il personale non necessario, ne tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione". Smentita da sola la mamma della "first lady" Soumahoro che a Repubblica dice di "non dormire la notte" - dalla preoccupazione, s'intende - ma al consiglio d’amministrazione avverte che "gli sbarchi sul territorio nazionale sono diminuiti drasticamente (dopo il Covid, ndr)" e quindi si è presa la decisione "di intraprendere nuovi progetti che faranno vedere i loro risultati nei prossimi esercizi". Il tutto per risollevare l’azienda.

Questi nuovi progetti si sono concretizzati questo'anno evidentemente, quando entrambe le coop hanno partecipato al bando per l’aiuto dei profughi ucraini nell’aprile 2022. A vincere - dopo nemmeno due mesi dall’inizio della guerra - sono state entrambe, ottenendo così 259mila euro per la Karibu e 298mila euro per Aid.

Soumahoro, ascesa e caduta dei personaggi mediatici. Storia di Aldo Cazzullo su Il  Corriere della Sera il 24 novembre 2022.  

Caro Aldo, rappresentanti della Caritas, gruppo Emmaus e Cgil hanno accusato le esose congiunte dell’onorevole Soumahoro (14 mila euro netti al mese come deputato di Sinistra italiana) di aver sottratto fondi alla cooperativa pro-migranti e di gravi ambiguità. Il colosso d’argilla del… politicamente corrotto...? Dopo gli articoli, tra cui quello di Buccini, sul Corriere, sui presunti «arraffoni» vicini al «deputato con gli stivali», Bonelli e Fratoianni avrebbero dovuto chiedergli di scrivere una letterina di dimissioni da deputato per lasciare il seggio a una persona con congiunti più trasparenti. Alla fine lui si è auto sospeso, dopo un confronto con loro... Pietro Mancini

Caro Pietro, Sul conto di Aboubakar Soumahoro ormai ne esce una al giorno. La moglie soprannominata Lady Gucci, il proprietario degli stivaloni con cui si presentò a Montecitorio che li rivuole indietro, la sceneggiata vestito da Babbo Natale in un centro dove bambini non ce n’erano, le denunce di don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo, Foggia. Come è stata repentina la costruzione del personaggio, altrettanto si rivela la distruzione. Forse si è esagerato prima, forse si sta esagerando adesso. La politica e la magistratura faranno le loro verifiche, e ne sapremo di più. C’è però una riflessione che possiamo già tentare. E riguarda il sistema mediatico. Siamo alla continua ricerca di scorciatoie. Andare nelle campagne di San Severo è una faticaccia? Ma non ce n’è alcun bisogno: il personaggio è già pronto, grazie alle reti sociali e a leader politici promotori di se stessi, che con il territorio non hanno più alcun rapporto ma con i social media manager sì. Nascono così personaggi mediatici del tutto privi di consistenza, a volte con zone d’ombra, ma perfetti per la Rete e i talk. Dire una parola contro di loro diventa complicato, perché diventi razzista o comunque politicamente scorretto. Facciamo un esempio concreto. Soumahoro è stato candidato nel collegio uninominale di Modena, che nel 2018 la sinistra aveva tenuto per pochi voti. Stavolta l’ha perso, a favore di un’esponente locale di Fratelli d’Italia. Perdere il collegio di Modena è una sconfitta politico-culturale disastrosa per la sinistra. Non credo sia accaduto per il colore della pelle di Soumahoro, ma perché la sua era una candidatura paracadutata, in seguito all’accordo politico tra il Pd e Bonelli-Fratoianni; forse un militante radicato sul territorio, magari anche un vecchio arnese delle coop, quella sconfitta l’avrebbe evitata. Eppure nessuno ha fiatato, per non sembrare razzista o comunque retrogrado. Ma il segretario della Cisl di Foggia, che ha denunciato di essere stato preso a pugni e a testate dagli uomini di Soumahoro, si chiama Mohammed Elmajdi. Sarà xenofobo pure lui?

Dritto e Rovescio, Renzi contro la sinistra: "Radical chic, ipocriti, faisei". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

La nuova bandiera della sinistra ammainata a tempo record. Si parla della parabola di Aboubakar Soumahoro, eletto deputato con gran fracasso tra le fila dell'Alleanza Verdi Sinistra e abbandonato senza nemmeno tentare una difesa dopo che è esploso il caso-coop che riguarda la moglie e la cognata. Un caso che lo ha travolto e lo ha porttato all'autosospensione.

Già, il punto è che nessuno, dei suoi, lo ha difeso. Ma proprio nessuno. E proprio su questo aspetto insiste Matteo Renzi, ospite in studio di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, il programma del giovedì sera in onda su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 24 novembre.

"C'è un punto che non riguarda lui ma chi lo ha candidato - premette l'ex premier -. E questo punto è un punto su cui si deve parlare liberamente. C'è una certa filosofia di sinistra, la chiamerei radical-chic, che prima ha costruito il personaggio e poi lo ha mollato alla velocità della luce con un'ipocrisia e un atteggiamento farisaico che io reputo squallido", conclude Matteo Renzi picchiando durissimo.

Un punto di vista molto simile a quello espresso da Paolo Mieli a PiazzaPulita, la trasmissione di Corrado Formigli in onda su La7 e che aveva come ospite in studio proprio Soumahoro. Mieli, infatti, ha espresso tutto il suo stupore per il fatto che pubblicamente la sinistra non abbia nemmeno provato a difendere Soumahoro. E ancora, Mieli ha ricordato al deputato come il vero attacco, in un certo senso, non sia quello ricevuto dalla stampa di centrodestra, ma proprio quello di una sinistra che ha scelto di tacere.

La difesa in tv dell'ex sindacalista e l'attacco di Renzi: "Creano e distruggono totem". Processo a Soumahoro (non indagato), sedotto e abbandonato dalla sinistra "radical chic e con la puzza sotto il naso". Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Novembre 2022 

Da una parte c’è la sinistra che prima crea il personaggio, lo candida, sfruttando la sua popolarità, e poi alla prima occasione dubbia lo scarica, prende le distanze e lo lascia in pasto alla gogna mediatica e social. Dall’altra c’è lui, Aboubakar Soumahoro, neo deputato della Repubblica italiana, che prova a difendersi, a chiarire vicende che riguardano la moglie e la famiglia di quest’ultima in una indagine (sulle cooperative che danno lavoro ai braccianti in provincia di Latina) che non lo vede coinvolto ma i cui rumors sono bastati a Sinistra Italiana ed Europa Verde per allontanare l’ex sindacalista Usb, mostrandosi già pentiti e imbarazzati.

Siamo in Italia dove clamore mediatico e dito puntato contro alla prima occasione buona sono il pane quotidiano. Soumahoro lo sa bene e dopo essersi (speriamo senza pressioni) autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra italiana dopo 48 ore (quarantotto!) di confronto con i leader Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, a Piazzapulita sente di scusarsi ancora una volta, perché ormai per tutti è già colpevole. "Mi scuso perché sono stato poco attento, mentre giravo per il Paese, a quello che c’era a casa mia. Io non sono in quella coop, ma approfondirò tutto come deputato della Repubblica" ribadisce il deputato di origini ivoriane, oggi 42enne. "Non sapevo nulla, se fossi stato a conoscenza di una indagine sulle cooperative gestite da mia suocera non mi sarei candidato" aggiunge.

Rispetto ai ritardi nei pagamenti degli stipendi Soumahoro ha ammesso che "doveva scattare da parte mia un ulteriore approfondimento. Essermi limitato a questa situazione non me lo perdono. E’ vero, la mia famiglia gestisce centri di accoglienza, ma quella gestione ha una ventina di anni e la mia attuale compagna l’ho conosciuta nel 2018 quando la coop già esisteva".

A Soumahoro è stato chiesto conto delle immagini con accessori costosi e firmati che la sua compagna, che gestiva una coop assieme alla suocera oggi indagata per malversazione, sfoggiava sui social a fronte di 400mila euro di stipendi non pagati e di circa 200mila distribuiti alla dirigenza della coop e un resort che la sua famiglia avrebbe aperto in Ruanda. "Quelle immagini non mi hanno creato imbarazzo – ha risposto -. Il diritto all’eleganza e alla moda è libertà, la moda non è né bianca né nera. Poi quelle immagini vanno datate. Mia moglie ha la sua vita. Non lavora più nelle coop".

Soumahoro ha poi spiegato, precisando che "tutti gli atti sono trasparenti", che grazie al lavoro della moglie hanno comprato casa accendendo un mutuo trentennale. Agli ex colleghi della Lega Braccianti, poi tornati in Usb, che chiedevano conto di 56.800 euro non rendicontati su un bilancio di 220mila euro, il parlamentare rilancia: "Sono nelle condizioni di poter produrre tutte le prove. I soldi sono stati spesi per l’acquisto di generi alimentari, gel disinfettante, trasporti, e i rimanenti 56.800 sono andati nell’esercizio 2021. Il bilancio è disponibile sul sito della Lega Braccianti. Chi mi accusa oggi è tornato a far della Usb, organizzazione con cui ho un contenzioso, dopo essere passato con me nella Lega Braccianti. Sono tornati indietro perché mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio i soldi delle donazioni. Ho rifiutato".

"Ho lottato contro il caporalato, lo possono testimoniare funzionari dello Stato, questori e prefetti. Quando i braccianti furono presi a fucilate sono stato fino alle due di notte col questore" ricorda Soumahoro che precisa poi di non aver mai usato i soldi delle donazioni per finanziare la sua ascesa politica: "Assolutamente no, mai. Anzi, ci ho anche rimesso. A chiedermi di candidarmi sono stati Sinistra Italiana ed Europa Verde. Ma il mio curriculum è la storia di centinaia di braccianti. Non sono un iscritto di Sinistra Italiana, quello che è avvenuto all’interno dei partiti prima del voto io non lo so. Ma non sono certo andato io ad autocandidarmi perché la mia storia non è uno show di Hollywood ma quella che ha dato vita al primo tavolo contro il caporalato". Infine ricorda: "Sono nato per strada. Sono sempre stato nell’angolo. Ma l’essermi mosso dall’angolo non è stato un percorso individuale, è stato collettivo".

La difesa di Renzi: "Sinistra radical chic, costruisce totem e poi li distrugge"

In difesa di Soumahoro il senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex segretario del Pd. Durissime le sue parole nel corso della trasmissione "Dritto e Rovescio" su Rete 4. "C’è una certa filosofia della sinistra che io chiamo radical chic che prima ha costruito il personaggio e poi l’ha mollato alla velocità della luce con una ipocrisia e un atteggiamento farisaico squallido. È tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso" commenta Renzi a proposito della vicenda di Aboubakar Soumahoro.

"Io sono stato garantista con Berlusconi, Virginia Raggi e con quelli del Pd che non sono stati garantisti con me. Io sono garantista davvero e poi lui non è nemmeno indagato, quindi si aspetta la giustizia non si anticipa la giustizia e non si fa una strumentalizzazione politica"  spiega Renzi prima di ribadire che "l’atteggiamento della sinistra sulle vicende di altri familiari, e io ne so qualcosa, è stato vergognoso".

Con Soumahoro "oggi hanno preso e distrutto quello stesso totem che hanno costruito, è tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso. Io oggi gli do la mia solidarietà ma mi fa ribrezzo chi oggi specula su questa vicenda dopo aver fatto la morale agli altri".

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da moralizzatori a moralizzati la parabola di Propaganda Live. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 25 novembre 2022

Prima le accuse di Rula Jebreal. Poi il «caso Angelini». Infine, in rapida successione, la «palpatina» di Memo Remigi e, come se non bastasse, la bufera che ha travolto Aboubakar Soumahoro. Tempi grami, quelli che si vivono nell'entourage di Propaganda Live, il talk di La7 che rilegge con sguardo ironico la settimana politica e che, soprattutto, rappresenta ai massimi livelli il tempio della sinistra radical chic. Quella che dà patenti di presentabilità e lezioni di moralismo a tutti ma che, ultimamente, è costretta a fare i conti con una miriade di piccoli e grandi casi che travolgono protagonisti fissi e ricorrenti della trasmissione guidata da Diego «Zoro» Bianchi. Che c'azzecca Soumahoro con Propaganda Live? C'azzecca, perché è stato proprio il talk in onda ogni venerdì sera su La7 a portare sotto la luce dei riflettori il sindacalista in lotta contro lo sfruttamento del lavoro dei migranti. Era il giugno del 2018 e il tema salì alla ribalta a causa dei colpi di fucile esplosi a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, contro alcuni migranti. Uno di loro - Soumaila Sacko, attivista sindacale dell'Usb - perse la vita. E a raccontare l'inferno del lavoro in nero e sottopagato degli immigrati Diego Bianchi chiamò proprio Aboubakar Soumahoro.

Che tornò in seguito in trasmissione e divenne un volto sempre più conosciuto, al punto da guadagnarsi anche una copertina de l'Espresso in cui era contrapposto a Matteo Salvini con il titolo eloquente «Uomini o no». Il primo colpo ai campioni del moralismo era arrivato però qualche tempo prima. Esattamente nel maggio 2021, quando la giornalista Rula Jebreal annullò all'ultimo momento la sua partecipazione alla trasmissione dopo essersi accorta di essere l'unica ospite donna in scaletta. Ne seguì polverone mediatico e una lunga arringa difensiva in trasmissione da parte del gruppo Bianchi-Makkox-Damilano. Peccato che, nel frattempo, di bomba ne era esplosa un'altra, quella del chitarrista della band del programma, Roberto Angelini, multato per aver fatto lavorare in nero una dipendente del suo ristorante di sushi. Come Soumahoro, anche Angelini pubblicò sui social un video mentre era in lacrime. La classica toppa peggiore del buco, perché arrivò a dare della «pazza incattivita» alla dipendente di cui sopra. Seguì sospensione (temporanea) dalla trasmissione. Poi, dopo un po' di tempo, il ritorno in prima fila. Perché ciò che si rimprovera ai «nemici» viene facilmente perdonato agli «amici». 

Infine il caso Remigi. Col quale, va specificato, Propaganda c'entra poco, visto che la palpata incriminata alla cantante Jessica Morlacchi è andata in onda nella trasmissione Rai Oggi è un altro giorno. Remigi, però, ha dovuto il secondo tempo della sua notorietà al rilancio ottenuto grazie a Diego Bianchi, per il quale era l'inviato a Testaccio per raccogliere la vox populi dello storico quartiere romano sui principali fatti della settimana. In seguito al clamore e all'esclusione dal programma Rai, anche Propaganda si è ben guardare di richiamare sullo schermo l'ottuagenario cantautore. «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura» diceva Pietro Nenni. Nel frattempo, i «superstiti» del cast faranno bene a fare gli scongiuri. La «maledizione dei moralizzatori» ha dimostrato di non guardare in faccia a nessuno.

Caso Soumahoro, il direttore della Caritas di San Severo: "Nel ghetto di Torretta Antonacci non ci sono bambini". Storia di Redazione Tgcom24 il 26 novembre 2022.

Continuano a emergere nuovi dettagli sull'inchiesta legata ad Aboubakar Soumahoro. Il sindacalista nelle ultime ore si è  autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra dopo la notizia del coinvolgimento della suocera,  Marie Therese Mukamitsindo, nell'inchiesta sulla gestione di due cooperative che si occupano di migranti in provincia di Latina. Il fascicolo della procura è stato aperto per l'ipotesi di malversazione. L'inchiesta è partita dopo le denunce da parte di alcuni lavoratori.

"Striscia la notizia" sta seguendo da vicino il caso e ha avuto modo di verificare l'operato di Soumahoro anche in altre realtà. L'inviato del tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio, si è occupato del ghetto di Torretta Antonacci a San Severo, in provincia di Foggia. Qui, Soumahoro avrebbe organizzato una raccolta fondi che avrebbe raggiunto la cifra di 16mila euro. Tuttavia, a Torretta Antonacci di bambini non ce ne sono, come confermato dal Direttore della Caritas don Andrea Pupilla che a "Striscia" ha dichiarato: "Frequento il ghetto da 15 anni - dice il sacerdote - per fortuna, lì, non ci sono bambini. Qualche volta è capitata qualche situazione sporadica di cui ci siamo occupati insieme ai servizi sociali".

In alcuni video postati sui social, Soumahoro lamentava di come le associazioni sfruttassero i migranti per fare business: "Non puoi accusare delle associazioni quando in casa tua sta succedendo tutto questo - prosegue don Andrea Pupilla - si tratta di un problema a livello morale".

Soumahoro, l'ex socio a Striscia: "Soumahoro pagava per fare selfie e finte proteste". Il Tempo il 25 novembre 2022

A "Striscia La Notizia" su Canale 5 l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a Piazza Pulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sottoforma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. Che aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro.

Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci. 

Striscia la notizia, l'ex socio accusa Soumahoro: "Li pagava per selfie e proteste". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Stasera 25 novembre a Striscia la notizia (su Canale 5, ore 20.35) l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a PiazzaPulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sotto forma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. 

Il quale poi aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro. 

Aboubakar Soumahoro è finito nella bufera per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia

Soumahoro, il ragazzo rivela: "Mi disse vieni domani". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Mohammed el Motarajji, appena 22 anni, è tra i migranti che hanno frequentato la struttura gestita dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, Marie Thérèse Mukamitsindo. Il racconto che fa al Corriere di quanto ha vissuto nella galassia della accoglienza gestita dai familiari di Soumahoro è agghiacciante. Non usa giri di parole: "Mi avevano promesso tante cose. Un contratto, un lavoro, uno stipendio. Ho lavorato sei mesi. Niente contratto e niente stipendio. Ma la cosa che mi fa male è avere visto quei ragazzi trattati così: poco da mangiare, tante volte senza acqua, luce e riscaldamento. Il poket money , invece che ogni giorno, solo ogni tanto". 

Parole fortissime che aggiungono ombre sul parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi che si è autosospeso. E il racconto del giovane Mohammed si fa sempre più duro nei confronti di chi gestiva la struttura. "All'inizio dovevo fare il traduttore, poi l'informatico. Ma quando chiedevo il contratto mi rispondevano sempre: "Domani"". 

Ma a quanto pare l'appuntamento non è mai arrivato. "Alla fine abbiamo fatto un accordo con Marie Thérèse per avere di meno, 5 mila euro, ma subito. Abbiamo firmato. Ho aspettato. Ma non ho avuto niente". Insomma a quanto pare le promesse non venivano mantenute e di fatto la posizione di Soumahoro si fa sempre più in bilico. I racconti su i mancati pagamenti si susseguono e l'inchiesta ha scoperchiato un vaso di Pandora che potrebbe riservare nuove sorprese. 

Soumahoro, scontro in Sinistra italiana. Si allarga l’indagine sulle cooperative. Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.

La crepa si allarga. E Aboubakar Soumahoro ora è al centro di sospetti e oggetto di un scontro politico in Sinistra italiana: tra chi lo ha voluto candidare, Nicola Fratoianni, e chi sostiene di aver avvertito delle situazioni poco chiare che circondavano il deputato ora autosospeso. Situazioni delle quale Soumahoro ha sostenuto su La7 di aver «commesso la leggerezza» di non accorgersi.

Prima di tutto le cooperative gestite dalla suocera indagata per malversazione, Marie Therese Mukamitsindo e, fino a due mesi fa, dalla moglie Liliane (che dal 2008 al 2011 ha lavorato come consulente della presidenza del Consiglio nella «gestione dei dossier inerenti le relazioni bilaterali con l’Africa» per 53 mila euro).

Le segnalazioni su Karibu e Consorzio Aid, ora si moltiplicano. E così gli accertamenti. «Lasciateci lavorare», ha scritto il procuratore di Latina Giuseppe De Falco in una nota dove spiega che sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza c’è «l’impiego dei fondi erogati, i rapporti con l’erario, i rapporti con i dipendenti, i soggetti coinvolti. Gli accertamenti provengono da notizie e comunicazioni pervenute da una pluralità di fonti, di natura pubblica e privata, e si articolano attraverso il dovuto rigoroso vaglio ed approfondimento di ogni notizia e comunicazione».

Tradotto: si passano al setaccio i conti, gli affidamenti milionari ricevuti negli ultimi 4 anni per l’accoglienza dei profughi e forse distratti altrove. Si parla di ingenti finanziamenti fuori gara. Ma non si ignorano gli allarmi inascoltati sulle condizioni igieniche in cui venivano tenuti i migranti. E in particolare i minori che, privati spesso della diaria, venivano lasciati lavorare senza contratto all’esterno della struttura, nell’orario in cui sarebbero dovuti andare a scuola. Come conferma al Corriere un diciannovenne che ha paura di rivelare il suo nome: «Volevo andare a scuola ma avevo bisogno di soldi. Per mangiare, per i vestiti, per le scarpe. Andavo a lavare le macchine. Un mio amico vendeva la frutta in un negozio di egiziani come lui. Ci dicevano anche loro di andare a scuola. Ma dopo capivano che avevamo bisogno e ci aiutavano, anche se ci pagavano poco».

Soumahoro difende sua moglie supergriffata («Ha diritto all’eleganza») e non è indagato. Ma c’è un’altra situazione che ogni giorno si fa più tesa. Altre segnalazioni stanno giungendo a Foggia alle forze di polizia. Riguardano la sua raccolta fondi molto chiacchierata, sulla quale la Procura potrebbe a breve accendere un faro. Anche sulla base delle dichiarazioni dei suoi ex soci che sostengono manchino all’appello molti dei fondi raccolti. Di attacchi all’ex bracciante ne arrivano diversi. «Con i soldi delle donazioni alla nostra vecchia associazione pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone», ha detto un ex compagno della Lega Braccianti a Striscia la notizia.

E ora? « Chi ha scelto di candidarlo deve assumersi per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto» scrivono i dirigenti di Sinistra italiana Edoardo Biancardi, Stefano Ciccone, Elena Fattori, Sandro Fucito, Claudio Grassi, Alessia Petraglia, Serena Pillozzi, Antonio Placido e Silvia Prodi. Ce l’hanno con Nicola Fratoianni. Ma lui tira dritto: «Aboubakar era un simbolo. Che una parte della minoranza interna usi questo tema non merita commenti».

Caso Soumahoro, un testimone: «Poco cibo e niente luce, così trattavano i ragazzi. Io? Mai visto lo stipendio». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

Mohammed 22 anni, studente di Ingegneria del Marocco, lavorava nella cooperativa gestita dalla suocera e, fino a due mesi fa, dalla moglie di Abubakar Soumahoro e racconta la situazione di disagio dalla quale due minori sono fuggiti in Francia

«Mi avevano promesso tante cose. Un contratto, un lavoro, uno stipendio. Ho lavorato sei mesi. Niente contratto e niente stipendio. Ma la cosa che mi fa male è avere visto quei ragazzi trattati così: poco da mangiare, tante volte senza acqua, luce e riscaldamento. Il poket money, invece che ogni giorno, solo ogni tanto». Mohammed el Motarajji aggrotta la fronte, turbato. È poco più grande di quei minori venuti da Libia, Albania, Bangladesh accolti nella struttura gestita dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, Marie Therese Mukamitsindo: una casa famiglia dove lui, studente di ingegneria del genio civile, venuto dal Marocco per lavorare e poter continuare a pagarsi l’università, pensava di aver realizzato il suo sogno.

A prospettarglielo Aline, la figlia di Marie Therese: «All’inizio dovevo fare il traduttore, poi l’informatico. Ma quando chiedevo il contratto mi rispondevano sempre: “Domani”». Quel «domani» non è mai arrivato. «Alla fine abbiamo fatto un accordo con Marie Therese per avere di meno, 5 mila euro, ma subito. Abbiamo firmato. Ho aspettato. Ma non ho avuto niente», racconta al Corriere Mohammed . Mostra quel documento, fa spallucce e sorride lo stesso. È ripartito da zero. Con il coraggio dei 22 anni. Lo stesso che ha spinto due dei minori della struttura a scappare in Francia.

Altri, ospiti o dipendenti della struttura, non vogliono più parlare. Hanno «paura». Finora si sono rivolti solo, e non tutti, al sindacato Uil-tuc. Così le indagini della Procura di Latina si concentrano sul filone principale, quello delegato alla Guardia di Finanza, che vede indagata per malversazione Marie Therese Matsukindo, con l’ipotesi che i fondi ministeriali destinati all’accoglienza dei migranti siano stati distratti e destinati ad altro. Nessuna denuncia è stata presentata in Procura, alla Finanza e nemmeno ai carabinieri, invece, di episodi come quelli descritti da Mohammed che, se verificati, potrebbero far ravvisare i contorni di una sorta di sfruttamento di quei minori.

Resta per ora un mistero anche la frettolosa eliminazione di documenti: otto sacchi di plastica nera zeppi di fascicoli e carte relative agli immigrati accolti. Un passante, incuriosito dal via vai sotto la sede legale delle cooperative riconducibili a Marie Therese, li ha notati e segnalati ai carabinieri del comando provinciale di Latina che li hanno subito sequestrati. Anche per la coincidenza temporale tra lo scoppiare del caso e il repulisti di documenti.

Sul fatto che diversi dipendenti siano stati pagati poco e male invece le evidenze sembrano farsi più chiare. Ci sono testimonianze, carte e documenti ufficiali che attestano accordi violati, prestazioni non contrattualizzate, interventi del sindacato per ottenere il pagamento «sostitutivo» della retribuzione da parte della prefettura avvenuto in quattro casi di dipendenti non pagati dopo aver lavorato alla cooperativa gestita dalla suocera e, fino a due mesi fa, dalla moglie di Soumahoro.

Oltre alla Guardia di Finanza su questo sono all’opera, in questi giorni, gli ispettori del ministero del Lavoro. Stanno concludendo un’attività iniziata, dicono, da mesi sulla base di denunce di alcuni lavoratori.

Mentre al ministero delle Imprese e del Made in Italy si vagliano i risultati di quella revisione che è stata fatta da Confcooperative e caricata sul portale del Mise solo qualche giorno fa: doveva essere conclusa entro marzo. Al termine di questi accertamenti si valuterà se la situazione è sostenibile o se Karibu e Consorzio Aid sono passibili di commissariamento.

Grazia Longo per “la Stampa” il 25 novembre 2022.

Angela C. ha 44 anni, gli ultimi 8 dei quali impiegati a lavorare come operatrice sociale nella cooperativa Karibu dei familiari del deputato eletto nelle fila di Alleanza Verdi-Sinistra italiana, Aboubakar Soumahoro. La coop è gestita da sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, sua moglie Liliane Murekatete e suo cognato Michel Rukundo. 

Da quanto tempo non percepisce più lo stipendio?

«Da 22 mesi, inoltre mi spetta anche il pagamento di tre tredicesime, quella del 2020 più le altre del 2021 e del 2022». 

La Karibu si occupa dell'accoglienza migranti nella zona dell'agro pontino, in provincia di Latina. Sono tanti i dipendenti italiani come lei?

«Almeno l'85 per cento. Sono tutte professioni del terzo settore per aiutare, nel processo di integrazione, i migranti che spesso lavorano come braccianti». 

E siete tutti senza stipendio da 22 mesi?

«Praticamente sì, chi qualche mese in più, chi meno. In 26 ci siamo rivolti al segretario del sindacato Uiltucs Gianfranco Cartisano per ottenere giustizia. Ora mi sono licenziata per giusta causa».

Quando ha iniziato a lavorare per la Karibu?

«Alla fine del 2014». 

E le era già capitato di non ricevere regolarmente la retribuzione mensile?

«Sì, più di una volta mi era successo di non percepire lo stipendio anche per 4 o 5 mesi di fila, ma poi arrivava il bonifico con tutti gli arretrati». 

E qual era la giustificazione per questi ritardi?

«Me la forniva direttamente Marie Therese Mukamitsindo. "Non sono arrivati i soldi dal ministero" mi diceva, o "dalla prefettura", in base a chi era affidato l'appalto. Poi quando arrivavano i pagamenti la suocera di Soumahoro mi saldava tutto. Proprio per questo all'inizio del 2021 non mi sono preoccupata più di tanto». 

Pensava si trattasse del solito ritardo?

«Proprio così. Ma poi più trascorrevano i mesi e più mi allarmavo. Anche perché le scuse accampate non si reggevano in piedi».

Che cosa le diceva Marie Therese Mukamitsindo?

«Giustificazioni banali: "Non arrivano i soldi da Roma, appena arrivano ti pago", oppure "Ho problemi con il bonifico, dammi dieci giorni e sistemo tutto" o ancora "È cambiato il direttore della filiale della banca e ho qualche difficoltà". Insomma la tirava per le lunghe e alla fine ho capito che quei soldi non sarebbero mai arrivati, così ho chiesto aiuto al sindacato». 

Quanti soldi le spettano?

«Intorno ai 20 mila euro». 

Qual era l'atteggiamento di Marie Therese Mukamitsindo?

«Sempre molto gentile. È una donna di grande cortesia, capace di offrire sostegno e solidarietà. Per questo io all'inizio mi fidavo. C'era un'atmosfera bella, quasi familiare e mai avrei pensato di ritrovarmi a questo punto». 

Ha mai incrociato Aboubakar Soumahoro alla coop?

«No mai. Anche con sua moglie ho avuto sporadici contatti. Io mi rapportavo sempre con Marie Therese o con l'altro figlio Michel Rukundo». 

Oltre a non pagarle lo stipendio non le hanno neppure versato i contributi.

«Un ulteriore danno a cui peraltro si aggiunge anche la beffa». 

Perché?

«Perché per il 2021 sono stata anche obbligata a pagare il Cud. Nonostante non avessi ricevuto un euro dalla Karibu, sono stata costretta a pagare le tasse nella dichiarazione dei redditi. Una follia. E non è l'unica amarezza che provo». 

A che cosa allude?

«Non mi capacito del fatto che gli enti che appaltavano i lavori non hanno mai fatto un controllo per verificare se fosse tutto in regola. Abbiamo dovuto aspettare il sindacato per far venire a galla la verità».

La denuncia dei dirigenti di SI: "Fratoianni sapeva tutto su Soumahoro ma lo ha candidato". Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

Nobile e Barbieri scrivono al segretario di Sinistra Italiana: "Era al corrente delle ombre attorno al sindacalista, ma lui mostrò indifferenza". Chiesta la convocazione urgente di un'assemblea che rischia di trasformarsi in un processo al leader

Un atto di accusa molto duro e l'obiettivo non è tanto o più Aboubakar Soumahoro ma i vertici di Sinistra Italiana che avallarono la sua candidatura. Perché - è la denuncia - sapevano tutto, la scorsa estate durante le riunioni di partito erano stati messi al corrente delle ombre attorno al sindacalista; ombre che avrebbero suggerito di non coinvolgerlo nell'avventura elettorale.

Fratoianni: "Ombre su Soumahoro, ma non mi sono pentito di averlo candidato". Giovanna Vitale su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

Il segretario di Sinistra italiana: "Nessuno mi ha mai parlato di questioni di natura penale"

Non è pentito di averlo candidato in Parlamento: Aboubakar Soumahoro era l'icona perfetta per il messaggio che l'alleanza Verdi-Si intendeva trasmettere, quello di una sinistra ecologista attenta ai migranti, agli sfruttati, agli ultimi. Ma certo Nicola Fratoianni fatica a nascondere l'imbarazzo e il malumore provocati dall'inchiesta che ha coinvolto suocera e moglie del leader dei braccianti.

Le coop di Liliana Murekatete: dalla regione Lazio 500 mila euro alla moglie di Aboubakar Soumahoro.  Clemente Pistilli su La Repubblica il 26 Novembre 2022.

Andato in crisi il business legato ai richiedenti asilo e agli altri migranti giunti in Italia dall'Africa con le carrette del mare, moglie e suocera del deputato si sono lanciate in quello legato agli ucraini in fuga dalla guerra

Un affare tira l'altro. Andato in crisi il business legato ai richiedenti asilo e agli altri migranti giunti in Italia dall'Africa con le carrette del mare, le cooperative della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro si sono lanciate in quello legato agli ucraini in fuga dalla guerra.

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 25 novembre 2022.

Cinque milioni e mezzo di euro in 18 anni e quasi tutti senza gara, andando avanti di proroga in proroga. Una somma imponente quella che ha incassato la cooperativa Karibu dal Comune di Sezze, in provincia di Latina, dove ha sede la coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo. E non è diverso il quadro nella vicina Roccagorga, un centro di appena quattromila abitanti, dove in passato a lavorare con la cooperativa sono stati anche pubblici amministratori e dove ad affittare immobili in cui ospitare i migranti sono stati pure funzionari comunali.

Del resto la cooperativa è arrivata a gestire il 40% dei centri per migranti in terra pontina. Nel 2018 erano ben 51 su 129, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo. Coop su cui sta indagando la Procura della Repubblica di Latina, cercando di far luce su stipendi non pagati ai dipendenti, migranti costretti a tirare avanti con poco cibo, senza acqua e senza luce, ipotesi di fatture false, raggiri e flussi di denaro diretti all'estero e in parte rientrati in Italia. Accertamenti a cui si sono uniti quelli dell'Ispettorato del lavoro e del Ministero delle imprese e del made in Italy, che una volta esploso lo scandalo hanno portato l'onorevole Soumahoro ad autosospendersi dal gruppo Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera.

La Karibu a Sezze, dove i carabinieri di recente hanno anche sequestrato numerosi documenti della cooperativa inspiegabilmente buttati nei cassonetti prima della dismissione della sede, ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Da allora è poi andata avanti senza vincere altre gare, tra una proroga e l'altra. E attorno al 2015 ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Un sistema andato avanti fino al 2019 […] 

E gli affidamenti senza gara? Tutti con semplici determine comunali. Con un sistema che non è stato bloccato neppure dalle numerose proteste compiute da migranti ospiti delle strutture Karibu, che come nel caso delle denunce oggetto attualmente di indagini lamentavano cibo scarso e di cattiva qualità, pochi vestiti, strutture precarie e la mancata erogazione dei pocket money, le somme destinate agli ospiti come previsto dalle apposite convenzioni. […]

Problemi analoghi a Roccagorga. Nel piccolo centro il progetto Sprar è stato avviato nel 2004 e affidato all'associazione setina "La Campanella". L'anno dopo è subentrata la Karibu ed è andata avanti, sempre con il sistema delle proroghe, fino a due anni fa. Per quindici anni. La convenzione veniva rinnovata automaticamente alla scadenza di ogni triennio, fino ad arrivare all’ultimo rinnovo per il triennio 2016-2019. Solo nel 2014 Roccagorga ha ottenuto oltre 300mila euro di fondi per i rifugiati e, solo tra il 2017 e il 2019, ben 535mila euro l'anno. 

"Abbiamo detto noi basta a quel sistema. Avevamo raccolto numerose segnalazioni sui troppi problemi con le case in cui erano ospitati i migranti", specifica l'ex assessore al turismo e al decoro urbano Andrea Orsini, della Lega.

"La coop Karibù ha avuto un legame forte con il Pd e i Comuni amministrati: dagli affidamenti con fondi pubblici, spesso senza una gara, alle proroghe puntuali a ridosso delle scadenze, dagli immobili affittati dai dipendenti pubblici alla coop, fino all'assunzione di un amministratore democratico nella società della suocera di Soumahoro. Accadeva a Roccagorga, ma il modus operandi, difeso con le unghie e con i denti dalla sinistra, si è diffuso a macchia di leopardo a suon di affidamenti e proroghe anche a Sezze e Priverno", afferma Angelo Tripodi, capogruppo della Lega in consiglio regionale. […]

Estratto dell'articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 25 novembre 2022.

Chi è Aboubakar Soumahoro? La domanda comincia ad avere un fascino letterario: un idealista ingenuo e un po' naïf? Un volgare imbroglione? La sua è la storia di un accidentale e inconsapevole inciampo o è la truffa politica del decennio? 

Il fascino sta ovviamente anche nella possibilità che una pista non escluda del tutto le altre, come sa chi ha amato L'impostore di Javier Cercas, libro che racconta la vicenda umana e politica di Enric Marco, militante antifranchista, capo del sindacato anarchico negli anni Settanta e presidente dell'Associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di sterminio, dove in realtà - a dispetto dei suoi racconti inventati - Marco non aveva trascorso un solo giorno della sua vita. 

Abou, come lo chiamano gli amici, diventa un personaggio pubblico nel 2009, quando interviene da oratore a una manifestazione antirazzista e colpisce molti per la nettezza della denuncia dello sfruttamento e per il suo italiano forbito, lui arrivato a 19 anni dalla Costa d'avorio e laureato in sociologia alla Federico II di Napoli. 

Si arruola nell'Usb, piccola ma agguerrita sigla del sindacalismo di base, occupandosi di braccianti e caporalato. I media si accorgono presto di lui. Propaganda Live , tempio della sinistra catodica, lo elegge punto di riferimento per la ricostruzione del campo di valori e programmi del disastrato progressismo nazionale. Una copertina dell'Espresso lo mette a fianco di Matteo Salvini, allora ministro dell'Interno, sopra il titolo Uomini e no. Intellettuali, artisti, influencer lo aiutano e finanziano.

Quindi Abou lascia l'Usb, già accompagnato dalle accuse dei suoi compagni su scarsa trasparenza e affarismo, e fonda la Lega dei Braccianti, mezzo sindacato e mezzo associazione per i diritti, che aveva sede proprio alla Karibu, la coop di suocera e moglie con sede a Latina, dove sotto i suoi occhi - inconsapevoli secondo la versione familiare, omertosi o complici secondo la logica - accadeva molto di ciò che Abou dichiara di combattere da sempre: stipendi non pagati o in nero, uso opaco di fondi pubblici, maltrattamenti e condizioni indegne di un'accoglienza umana e solidale agli immigrati. 

«Sapevo solo degli stipendi non pagati, avrei dovuto viaggiare meno e visitare più spesso la struttura», è stata la versione difensiva data ieri a Piazzapulita . Il conduttore Corrado Formigli gli ha anche chiesto: «Ma lei come si manteneva?». La risposta: «Ho scritto un libro». La replica: «E con i soldi di un libro ha comprato una casa?». La risposta: «Insieme a mia moglie». 

Come una slavina che aspettava solo un varco per precipitare a valle, sono spuntate altre denunce su episodi poco chiari della biografia politica di Abou. Improvvisamente pare tutti sapessero che qualcosa non tornava. Cominciano ad affastellarsi episodi oscuri, alcuni già pubblici e altri no: bonifici della coop di famiglia verso il Ruanda, dove il cognato di Abou ha aperto un resort, una sottoscrizione per portare cibo nei ghetti in pandemia - oltre 250 mila euro raccolti che non si capisce bene se e come sia stata spesa. Caritas e Cgil locale raccontano di come nel 2020 squadracce agli ordini di Abou abbiano impedito con la violenza l'avvio di un programma di lezioni di italiano agli immigrati di Borgo Mezzanone. 

Un prete della Caritas, don Pupilla, spiega di aver avvisato Nicola Fratoianni che Abou non era quello che sembrava e che sarebbe stato un "autogol" candidarlo. Fratoianni, che alla fine Abou l'ha portato in Parlamento insieme al leader del Verdi Angelo Bonelli, spiega di essersi perso il messaggio di don Pupilla su Instagram e di aver chiarito al telefono con lui l'equivoco solo due giorni fa.

Dalla Flai, ramo braccianti della Cgil arriva un'accusa addirittura più grave: gli uomini della Lega braccianti a Borgo Mezzanone sono quelli che hanno in mano la gestione del caporalato locale. Accuse da provare, e che potrebbero anche rientrare nella furia dello scontro sindacale. Intanto i giornali della destra banchettano. La nemesi di Soumahoro è che ora la sua parabola si rovescia nella legittimazione del peggiore repertorio sovranista: il buonismo come copertura di attività lucrose, il progressismo come falsa coscienza. Bel danno per chi a queste tesi continua a dare il nome che meritano. 

Fratoianni e Bonelli hanno incalzato Abou nel corso di un colloquio l'altroieri alla Camera. Gli hanno chiesto: sapevi o no dei guai combinati dalla coop di tua suocera e tua moglie? I due leader di partito sono usciti dal confronto frastornati dal dubbio di essere rimasti vittima di un abbaglio collettivo, del quale però sanno di portare una quota di responsabilità. Comunque hanno insistito: devi spiegare nel merito, c'è un problema politico che non riguarda gli eventuali aspetti penali della vicenda. 

Questo è uno dei punti più spinosi, perché molti dei sostenitori a oltranza di Abou si fanno scudo della mancanza di avvisi di garanzia, parlano di "macchina del fango" e invocano il garantismo, senza rendersi conto di praticare una forma ancora più subdola e letale di giustizialismo, quella per la quale si può istruire una valutazione politica dei fatti solo se e quando ci sia una carta giudiziaria a consentirlo. In pratica, il dibattito pubblico trasformato in un enorme virtuale ufficio del gip. 

Il famigerato video di autodifesa in cui Abou sovverte anche la logica delle emozioni, parte piangendo e chiude sbraitando e lanciando accuse a imprecisati centri di complotto contro di lui, cerca di portare la sua vicenda sul piano che conosce meglio, la guerra mediatica, che ora però rischia di sfuggirgli di mano, perché anche qui, come sulle minacce di querela, la distonia culturale ha spiazzato tanti: lo show a favore di telecamera faceva più D'Urso che Zoro. «Non lo rifarei mai più il video, è stato un momento di debolezza, me ne scuso», ha detto sempre a Piazzapulita .

Nel frattempo Abou è tornato in Puglia, si è fatto fotografare di spalle, ritto come un fuso davanti a un bracciante che raccoglie olive, con gli stessi stivali di gomma che indossava il giorno del debutto in Parlamento e che un suo ex socio della Lega, espulso, sostiene essere i suoi («Me li restituisca, a lui non servono, io ci devo lavorare»). Infine, ieri, si è autosospeso dal gruppo parlamentare Si-Verdi. 

Con una mossa in cui è difficile distinguere tra sprezzo del pericolo e sprezzo del ridicolo, Abou ha detto di voler fondare un nuovo partito della sinistra, mettendosi in proprio come ha fin qui fatto ogni volta che gli è riuscito di salire uno scalino politico. (...)

Caso Soumahoro, il direttore della Caritas di San Severo: "Nel ghetto di Torretta Antonacci non ci sono bambini". Storia di Redazione Tgcom24 il 26 novembre 2022.

Continuano a emergere nuovi dettagli sull'inchiesta legata ad Aboubakar Soumahoro. Il sindacalista nelle ultime ore si è  autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra dopo la notizia del coinvolgimento della suocera,  Marie Therese Mukamitsindo, nell'inchiesta sulla gestione di due cooperative che si occupano di migranti in provincia di Latina. Il fascicolo della procura è stato aperto per l'ipotesi di malversazione. L'inchiesta è partita dopo le denunce da parte di alcuni lavoratori.

"Striscia la notizia" sta seguendo da vicino il caso e ha avuto modo di verificare l'operato di Soumahoro anche in altre realtà. L'inviato del tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio, si è occupato del ghetto di Torretta Antonacci a San Severo, in provincia di Foggia. Qui, Soumahoro avrebbe organizzato una raccolta fondi che avrebbe raggiunto la cifra di 16mila euro. Tuttavia, a Torretta Antonacci di bambini non ce ne sono, come confermato dal Direttore della Caritas don Andrea Pupilla che a "Striscia" ha dichiarato: "Frequento il ghetto da 15 anni - dice il sacerdote - per fortuna, lì, non ci sono bambini. Qualche volta è capitata qualche situazione sporadica di cui ci siamo occupati insieme ai servizi sociali".

In alcuni video postati sui social, Soumahoro lamentava di come le associazioni sfruttassero i migranti per fare business: "Non puoi accusare delle associazioni quando in casa tua sta succedendo tutto questo - prosegue don Andrea Pupilla - si tratta di un problema a livello morale".

Soumahoro: Usb, lavoratori in Lega Braccianti rimasti scottati. I lavoratori che inizialmente fuoriuscirono dall’Usb nel 2020 per aderire alla Lega Braccianti di Soumahoro «tornarono» nell’Unione sindacale di base perché «scottati da una gestione economica come quella che sta emergendo dalle indagini e dalle denunce degli stessi».

Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Ilavoratori che inizialmente fuoriuscirono dall’Usb nel 2020 per aderire alla Lega Braccianti di Soumahoro «tornarono» nell’Unione sindacale di base perché «scottati da una gestione economica come quella che sta emergendo dalle indagini e dalle denunce degli stessi». E' quanto evidenzia l’Usb in una nota in cui ripercorre i rapporti del sindacato con il deputato Aboubakar Soumahoro, al centro delle polemiche per le inchieste in cui sono coinvolte la moglie e la suocera in relazione alla gestione di alcune cooperative di migranti.

Secondo quanto precisa il sindacato, Soumahoro ha lavorato con l’Usb dal 2007 al 2020 ma nel 2018, dopo «le prime apparizioni sui media, ha mostrato una evidente insofferenza ad una relazione d’organizzazione, piegando le iniziative sindacali alla propria necessità di emergere piuttosto che alla concreta risoluzione dei problemi». «La costruzione della Lega Braccianti - prosegue l’Usb - non un sindacato ma un’associazione, avviene a marzo 2020 a nostra insaputa» e «produce una spaccatura tra i braccianti del Foggiano, tra quelli che scelsero di rimanere in Usb e quanti decisero inizialmente di seguire Abou».

Con l’iniziale esposizione mediatica di Soumahoro - prosegue l'Usb - «è iniziata la sua vita pubblica con presenze televisive, inviti a convegni, produzione di un libro, in cui l'Usb usciva definitivamente dal suo orizzonte, divenuto a quel punto del tutto individuale: la rottura definitiva è arrivata dopo un ennesimo tentativo dell’Esecutivo di costringerlo ad un confronto, risultato però del tutto infruttuoso».

«Abou - ricorda l’Usb - ha lavorato con noi dal 2007 e formalmente fino al 2020» e si occupava di diritti dei lavoratori, con azioni che inizialmente «erano frutto di scelte collettive e condivise».

Aggressioni verbali, spintoni e calci. Così venivano trattati i sindacalisti che osavano entrare nel Gran Ghetto di San Severo (Foggia) per assistere i migranti nel percorso di 'prima accoglienzà. Autori delle violenze alcuni braccianti ritenuti vicini all’Usb, sigla sindacale dalla quale è nata nel maggio 2020 la Lega Braccianti fondata dal neo deputato Aboubakar Soumahoro.

«In quel ghetto si entrava a fatica», racconta il segretario provinciale della Cgil Foggia, Daniele Iacovelli, parlando delle recenti vicende sullo sfruttamento dei braccianti in varie parti d’Italia e, soprattutto, dell’aggressione subita nell’estate del 2020 all’interno del «Gran Ghetto» (Torretta Antonacci) che si trova nelle campagne del Foggiano. «Riscontrammo - aggiunge - che non erano gradite intromissioni». «Ottenemmo dalla Regione Puglia - spiega - la gestione di uno dei container presenti nell’insediamento spontaneo. Lì avremmo dovuto offrire ai braccianti una sorta di 'prima accoglienzà indirizzandoli per l'ottenimento del permesso di soggiorno o di qualsiasi altro documento». Con la Cgil di Foggia era presente anche l'associazione BaoBab che avrebbe avviato percorsi di alfabetizzazione e di lingua italiana. «Ci aggredirono in maniera violenta. Ci minacciarono, ci dissero che dovevamo andare via e ci tolsero addirittura le chiavi del container». Per questa aggressione Iacovelli presentò una denuncia in Procura a carico di tre braccianti dell’Usb. «Nel luglio 2020, quando avviammo le lezioni di italiano, per un lungo periodo venimmo scortati dalla polizia - aggiunge Domenico La Marca, presidente di Baobab -. Erano una decina i migranti facinorosi che ci impedivano di svolgere le lezioni».

«E' almeno dal 2020 che il gruppo di Aboubakar Soumahoro ha 'monopolizzato' come sindacato» il Gran Ghetto di San Severo e "ancora oggi che quelle stesse persone hanno prese lo distanze dalle iniziative di Aboubakar per dissidi legati a un crowfounding di circa 250mila euro, nel ghetto resta una situazione di monopolio e gli altri sindacalisti continuano a non essere i benvenuti», sottolinea ancora Iacovelli.

L’altro episodio di violenza è avvenuto ai danni di Mohammed Elmajdi, presidente dell’associazione Anolf della Cisl Foggia. "Con la nostra associazione - afferma - abbiamo vinto un bando della Regione Puglia per la gestione di un container per accoglienza, vigilanza e assistenza pratiche per permesso di soggiorno a Torretta Antonacci». «Il 5 agosto scorso - ripercorre - sono stato aggredito verbalmente da una decina di migranti riconducibili all’Usb; sono ritornato l’11 agosto e, in questo caso, gli stessi braccianti mi hanno circondato ed aggredito fisicamente. Ho riportato ferite giudicate guaribili in sette giorni». Anche Elmajdi ha sporto denuncia.

Sulle aggressioni interviene anche Antonio Di Gemma, segretario provinciale Usb Foggia, che esclude che vi siano «lotte interne tra l’Usb e la Lega Braccianti». «Gli episodi di violenza - conclude - sono legati unicamente alla gestione del Gran Ghetto. I braccianti dell’Usb hanno istituito una loro associazione e chiedono alla Regione Puglia di indire un bando per la gestione dell’insediamento al quale vogliono partecipare».

Il deputato fa un passo indietro dopo le polemiche sugli appalti per i migranti. Maurizio Zoppi su L’Identità il 25 Novembre 2022

E’ entrato dalla porta ed è uscito dalla finestra. Aboubakar Soumahoro si è autosospeso dal partito Alleanza Verdi e Sinistra. Il deputato, arrivato in Parlamento come paladino dei diritti degli ultimi, dei migranti sfruttati dal caporalato, è stato costretto a fare un passo indietro.

Dopo il secondo incontro con il leader dei Verdi Angelo Bonelli e il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, l’attivista ha deciso di “congelare” il suo incarico politico, sino a quando “non si chiarirà tutto”. Il primo incontro tra Soumahoro e i suoi compagni di partito si è svolto a Montecitorio, nelle stanze del capogruppo rossoverde. É durato oltre due ore, ma è stato interrotto per proseguire ieri pomeriggio. Bocche cucite all’uscita. Ma il rinvio ha fatto capire che, nonostante il clima che viene definito tranquillo, non tutti i nodi erano stati sciolti. E che in oltre due ore, le spiegazioni del parlamentare, non erano bastate ai due leader. Tantissimi i temi sul tavolo: a partire dall’iscrizione della suocera nel registro degli indagati della procura di Latina. Ma anche le attività economiche del cognato Richard – anche lui dipendente delle coop – in Ruanda.

Stando a questa ricostruzione, sembrerebbe proprio che la verità politica, probabilmente, è un’altra. Al suo gruppo parlamentare non è mai piaciuta la tendenza che ha avuto in questi giorni il deputato con gli stivali di non rispondere alle domande rispetto alle accuse che gli venivano rivolte. Ma anche e soprattutto le testimonianze che da giorni fioccano sulla sua attività con i migranti. Parliamo dei compagni della Lega Braccianti o il capo della Caritas locale, che addirittura invitò Fratoianni a non candidare Soumahoro. Proprio Fratoianni, in questi giorni è stato lapidario, dichiarando che la faccenda stava investendo il suo partito. Evidente imbarazzo da parte di Bonelli, che proprio ieri mattina aveva affermato ai giornali: “Non è che sono in imbarazzo. Sono turbato dalle notizie, e ringrazio l’autorità giudiziaria che evidenzia fatti che però vanno verificati. Dobbiamo assumere la migliore posizione possibile, prima di tutto per lui stesso”. Il sindacalista del Coordinamento agricolo, da subito si è dichiarato del tutto estraneo al caso che coinvolge la sua famiglia. Il suo nome non compare nelle indagini. Domenica 19 novembre ha diffuso in video nel quale, in lacrime, chiedeva: “Mi dite cosa vi ho fatto? Da una vita sto lottando per i diritti delle persone. Vent’anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto. Ho sempre lottato”.

Ma alla fine della storia, è arrivata una nota stampa dal sapore di sconfitta: “Abbiamo incontrato Aboubakar Soumahoro per discutere ed approfondire le vicende che da giorni sono al centro della cronaca. Lo abbiamo trovato sereno e determinato – si legge nella nota di Alleanza Verdi e Sinistra -. Ci ha esposto il suo punto di vista e ha annunciato l’intenzione di rispondere punto su punto e nel merito alle contestazioni giornalistiche ribadendo la sua assoluta estraneità alle vicende. Naturalmente sarà lui a farlo, nelle forme e nei tempi che riterrà più opportuni. Perché questo avvenga con la massima libertà, Aboubakar Soumahoro ci ha comunicato la decisione di autosospendersi dal gruppo parlamentare”. E ancora: “Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni e del valore dell’impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi che abbiamo sempre condiviso con Aboubakar. Siamo fiduciosi, considerato quanto riferitoci, che la vicenda possa essere chiarita in tempi rapidi e senza alcuna ombra”.

Lady Accoglienza e quel battesimo fra gli applausi al Meeting di Rimini. Rita Cavallaro su L’Identità il 25 Novembre 2022

Un pozzo senza fondo. Di accuse, di contributi pubblici, di ipocrisia. Si è scoperchiato il vaso di Pandora sugli affari di casa Soumahoro, finita nel mirino degli inquirenti che hanno indagato Maria Therese Mukamitsindo, suocera del deputato, per malversazioni di erogazioni pubbliche sull’accoglienza dei centri per migranti gestiti dalle coop fondate dall’imprenditrice, il Consorzio Aid e la Karibu, e nella cui amministrazione, fino allo scorso 17 ottobre, era coinvolta anche la moglie di Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete. Da mesi, sulle due cooperative, erano in corso accertamenti dell’Ispettorato del Lavoro, che sta facendo luce sulle denunce di una trentina tra dipendenti e migranti, che attraverso il sindacato hanno lamentato di non essere stati pagati, per almeno 18 mensilità, di non essere stati assistiti, lasciati addirittura senza cibo e acqua, e di essere stati maltrattati. Eppure, come rivelato in esclusiva su L’identità, il business delle coop di Mukamitsindo era enorme, se si calcola che solo Karibu, negli ultimi anni, ha incassato quasi 65 milioni di euro per gare vinte al Ministero dell’Interno, alla Regione Lazio, alle Pari Opportunità. Un fiume di soldi passato nelle casse di quella che, inizialmente, era una piccola realtà: Karibu aveva visto la luce all’inizio del nuovo millennio e nel 2001 aveva partecipato a un bando del Viminale per donne sole e bambini richiedenti asilo. La svolta, che trasformerà Maria Therese nella grande signora dell’accoglienza da milioni di euro l’anno, arriva nel 2010, quando la fondatrice di Karibu partecipa al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dedicato all’integrazione al femminile. “L’approccio di Karibu non è nient’altro che il perfezionamento della mia esperienza di donna in fuga. Quando sono arrivata in Italia, non c’era nessuno ad accogliermi. Ho vissuto la difficoltà di una mamma che non ha niente da dare ai suoi bambini, obbligata ad andare alla Caritas a chiedere il cibo, a chiedere un vestito, a chiedere”, disse nel suo intervento dal palco. Parole emotivamente forti, che oggi fanno male a quelle donne che, come certificato dai video girati nei centri di accoglienza della famiglia di Soumahoro, chiedevano disperatamente da mangiare per i loro figli e dicevano di dover andare appunto alla Caritas perché lì non si vedevano né soldi né alimenti. E che indignerebbero perfino una famiglia ucraina, fuggita dalla guerra e ospitata a Roccasecca dalla Karibu, nell’ambito del bando sull’inclusione nel mondo del lavoro che tra il 2021 e il giugno scorso è valso alle coop un contributo di quasi due milioni. “Queste persone mi hanno contattata e hanno lamentato che non ricevevano dalla coop neppure i pocket money”, ha detto a L’Identità il sindaco Barbara Petroni, riferendosi alla diaria per i migranti. “Sono dovuta intervenire io e, con molto ritardo, gli sono stati consegnati. Alla fine questa famiglia ha deciso di andarsene”, ha precisato. E tornano le parole di Maria Therese al Meeting di Rimini: “La prima condizione per l’accoglienza, per l’integrazione, è: rispetto, fiducia e libertà. Se mancano queste tre cose, manca tutto, è inutile che offriamo su un piatto d’argento le cose che servono”. Due mesi dopo, su un piatto d’argento arrivò la fortuna di Karibu. Con la determina 308 del settore Servizi sociali del Comune di Sezze, il sindaco di centrosinistra Andrea Campoli affidò la gestione del Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati alla coop. Mukamitsindo prese prestigio, fu elogiata dall’allora ministro Mara Carfagna e iniziò la sua ascesa, bipartisan, dall’agro pontino. Finché le prime ombre si addensarono con la protesta dei migranti del Cas di Borgo Sabotino, il luogo in cui la Ericher 29 di Salvatore Buzzi mandava i rifugiati a fare gli schiavi nei campi dei caporali. Molto rumore, ma nessun intervento. Almeno fino a pochi giorni fa, quando i buoi sono scappati dalla stalla.

“Così ci cacciarono dal campo rifugiati quei braccianti usarono la violenza”. Rita Cavallaro su L’Identità il 25 Novembre 2022

È un fuoco incrociato quello contro i Soumahoro. Alle accuse sulle coop della suocera Maria Therese Mukamitsindo, e alle denunce degli ex soci del sindacato fondato da Aboubakar, si aggiunge il racconto del clima di terrore seminato da alcuni esponenti della Lega dei Braccianti nel ghetto per gli immigrati che si spezzano la schiena nei campi di pomodori del Foggiano. “Abbiamo sempre cercato di avere un dialogo con Lega Bracciant per l’attività sindacale su Torretta Antonaci”, ha detto a L’Identità Daniele Iacovelli, della Flai Cgil Foggia. “La Regione Puglia, dopo l’ultimo grande incendio, ha istituito un’area controllata attraverso dei container per 400 persone e uno di questi fu assegnato a tutte le associazioni. Ma dopo la consegna delle chiavi”, racconta, “fummo estromessi dall’uso di quella postazione, in malo molo, subendo a maggio 2021 quasi un’aggressione fisica, volarono tavoli. Abbiamo sporto denuncia alla Questura”, ha aggiunto, “ci aggredirono esponenti che facevano parte di Lega dei Braccianti, che ci dissero chiaro che lì doveva stare solo Lega dei Braccianti”. E precisa: “Soumahoro non era presente. Abbiamo provato ad avere un’interlocuzione istituzionale, ma non l’abbiamo mai incontrato né abbiamo mai ricevuto una telefonata da lui”. Sembra che ci andasse poco nel ghetto Aboubakar, giusto per farsi qualche selfie e video con i disperati per i cui diritti dice di battersi. Gli ormai ex soci del parlamentare di sinistra, Soumahoro Sambare Soumaila e Alfa Berry, assestano inoltre un pesante j’accuse con una lettera inviata alla polizia e pubblicata da Repubblica, in cui denunciano la sparizione di circa 200mila euro da una racconta fondi. Denaro da usare per aiutare gli stranieri, negli interventi tra Borgo Mezzanone, Torretta Antonacci, Riace, Mondragone, Venosa e Rosarno. Gli ex soci, con fatture alla mano, parlano di spese, tra mascherine e cibo, di 55mila euro, più i costi del trasporto e ipotizzano che il deputato abbia impiegato i restanti 200mila per viaggi e spese di missione.

Le colpe politiche di Soumahoro, di chi lo ha candidato e fatto diventare il paladino dei diritti. Federico Novella su Panorama il 25 Novembre 2022

Al netto dell'inchiesta la vicenda del deputato dei Verdi, presentatosi come paladino dei diritti, riporta ancora alla luce uno dei mali della nostra politica: la scelta delle persone Al di là della vicenda giudiziaria sulla cooperativa della moglie e della suocera, il caso Soumahoro è tutto politico. E riguarda, ancora una volta, la qualità della classe dirigente di questo paese, e dei partiti che la selezionano. E mi riferisco alla tendenza rovinosa di candidare figurine mediatiche pratiche di social, molto abili nel mettersi in posa davanti ai fotografi ma niente più, e a farsi ritrarre col pugno alzato e gli stivali sporchi di fango davanti all’ingresso di Montecitorio. Personaggi buoni per i commentatori da salotto, che amano cadere in ginocchio di fronte all’ennesima icona che piace alla gente che piace, dalle Schlein alle Ocasio Cortez. Spesso, come nel caso in questione, sotto la confezione c’è poco e niente: sono profili fragili, che di solito naufragano al primo colpo di vento. Sotto l’etichetta del difensore dei deboli, Soumahoro si è rivelato non già disonesto (non lo sappiamo, e non ci sbilanciamo), ma incredibilmente impreparato, di fronte a questioni di cui fino a ieri si professava esperto. E l’impreparazione estrema, fino alla goffaggine, è un difetto a prescindere dalle carte giudiziarie.

La sua difesa televisiva nello studio di Corrado Formigli è stata imbarazzante, per un personaggio che doveva rappresentare il futuro di una certa sinistra descamisada. Non si è accorto degli stipendi non pagati? “Avrei dovuto viaggiare di meno” , è la risposta. “Ma lei come si manteneva?” chiede il conduttore, visto che la famiglia ha comprato un villino con un mutuo da 270 mila euro. “Ho scritto un libro” , è la difesa dell’interessato. Fino al culmine del paradosso: il difensore dei braccianti sfruttati che professa il “diritto all’eleganza” , in riferimento alla moglie che posta foto con borse Louis Vuitton. Il diritto all’eleganza non è una gaffe: in bocca alla sinistra rivoluzionaria, diventa una nemesi tragicomica. Neanche Chiara Ferragni sarebbe arrivata a tanto. Vedremo gli sviluppi. Certo è che il colpevole politico non è solo Soumahoro: ma chi si è intestardito a candidarlo. Con buona pace del Pd modenesi, che pure aveva sollevato perplessità su alcune condotte del personaggio poco chiare. Solo oggi, dopo diversi colloqui riservati, Fratoianni e Bonelli (Sinistra Italiana e Verdi), si sono resi conto che forse non hanno davanti un personaggio all’altezza. E infine, forse a suscitare più rabbia è il destino delle vittime di questa storia: i braccianti sfruttati. Immigrati e non. Questa storia ferisce soprattutto i loro diritti, getta fango su battaglie che vanno comunque combattute. Loro hanno già troppi problemi, per meritarsi Fratoianni e Soumahoro come rappresentanti.

Tutte le accuse contro le cooperative dei parenti di Aboubakar Soumahoro. Linda Di Benedetto su Panorama il 25 Novembre 2022.

 Stipendi non pagati, operai che lavorano senza contratto, condizioni sanitarie estreme nelle cooperative. Tutti i guai emersi dall'inchiesta contro la moglie e la suocera del parlamentare simbolo della legalità e del rispetto dei diritti Aboubakar Soumahoro ha provato a difendersi in maniera poco convincente in televisione dalle accuse che oramai in maniera sempre più pesante hanno coinvolto le cooperative legate a sua moglie e sua suocera finite al centro di un'inchiesta da cui sono emerse accuse pesantissime. «Dove sono finiti i soldi delle retribuzioni pagate dagli enti e mai arrivati alle tante famiglie truffate da Karibu e Aid?». Una domanda quella del Sindacato Uiltucs che da oltre un anno non ha trovato risposta ma che getta delle ombre sul sistema di accoglienza dei migranti gestito dalle Coop della moglie e della suocera del deputato.

Le indagini Nei confronti Liliane Murekatete e Marie Terese Mukamitsindo moglie e suocera di Soumahoro la Guardia di Finanza del nucleo economico di Latina procede per il reato di truffa per fatturazioni false e stipendi non corrisposti ai dipendenti. In più i Carabinieri hanno aperto un altro fascicolo per il reato ipotizzato di distruzione e occultamento di materiale contabile trovato in otto sacchi della spazzatura. A queste accuse si è aggiunta la segnalazione di alcuni cittadini extracomunitari minorenni al sindacato che hanno denunciato condizioni di vita precarie, maltrattamenti e collocazioni in case per minori senza acqua e luce. Inoltre la procura di Latina ha indagato la Presidente del Cda di Karibu, anche per la gestione del Consorzio Aid, di cui presidente un’altra figlia per malversazione. Si indaga infatti sui trasferimenti di denaro effettuati in Ruanda a favore di un altro figlio della Presidente Mukamitsindo, Richard Mutangana che ha aperto un ristorante con piscina a Kigali e sui compensi dei quattro soci di Karibu che avrebbero incassato solo nel 2021 la somma di 392.891 euro. Contemporaneamente prosegue anche il lavoro dell’Ispettorato del Lavoro e del Ministero dello Sviluppo economico da cui vengono erogati i fondi verso la cooperativa. I progetti delle Coop Karibu che rischia di essere commissariata risulta affidataria anche di progetti di integrazione dei rifugiati ucraini avviati nella sede di viale Corbusier a Latina, dove si trovano la sede di Karibu ed del consorzio Aid ma anche del sindacato Lega dei braccianti a cui fa capo Soumahoro. I progetti sono due I.C.A.R.U.S “Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa” per il quale sono stati stanziati 259mila euro. Mentre l’altro progetto ammesso del Consorzio Aid di cui è presidente Aline Mutesi cognata di Soumahoro si chiama B.U.S.S.O.L.A “Bisogni degli ucraini per il sostegno sociolavorativo” con un finanziamento previsto di circa 300mila euro. A Karibu è stato affidato anche il progetto P.E.R.L.A della Regione Lazio per la somma di 80mila euro, Per.Se.O del Viminale per la cifra di 204910,75 di euro e l’8 per mille. Le accuse Si parte dalle denunce sui mancati pagamenti degli stipendi. Sarebbero 22 i dipendenti che hanno raccontato di non ricevere soldi da 18 mesi, alcuni hanno anche raccontato di non vedere la paga da due anni. Almeno 4 persone hanno poi raccontato di aver lavorato in nero, cioè senza il necessario contratto di lavoro. Uno di questi ha anche raccontato delle visite di Soumahoro nella cooperativa: «Sapevano tutti...» ha raccontato Youssef Kadmiri. Altri hanno raccontato che per ricevere la paga prevista avrebbero dovuto presentare delle non precisate “fatture" da soggetti esterni alla Cooperativa. Le condizioni di vita ed igienico sanitarie nelle strutture erano a dir poco pessime. Nelle strutture sarebbero mancate acqua, elettricità, vestiti e cibo. Alcuni minori sarebbero stati maltrattati. Ci sono poi le stranezze sul bilancio con spese anomale, soldi incassati ma non utilizzati per centinaia di migliaia di euro. I progetti delle Coop Karibu che rischia di essere commissariata risulta affidataria anche di progetti di integrazione dei rifugiati ucraini avviati nella sede di viale Corbusier a Latina, dove si trovano la sede di Karibu ed del consorzio Aid ma anche del sindacato Lega dei braccianti a cui fa capo Soumahoro. I progetti sono due I.C.A.R.U.S “Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa” per il quale sono stati stanziati 259mila euro. Mentre l’altro progetto ammesso del Consorzio Aid di cui è presidente Aline Mutesi cognata di Soumahoro si chiama B.U.S.S.O.L.A “Bisogni degli ucraini per il sostegno sociolavorativo” con un finanziamento previsto di circa 300mila euro. A Karibu è stato affidato anche il progetto P.E.R.L.A della Regione Lazio per la somma di 80mila euro, Per.Se.O del Viminale per la cifra di 204910,75 di euro e l’8 per mille.Le Coop avevano la disponibilità economica per pagare i dipendenti? «Le risorse economiche dei progetti degli enti sono arrivate alle cooperative, ai rappresentanti e ai soci delle coop. Loro hanno percepito i loro compensi, mentre i lavoratori sono senza salario nonostante siano arrivati milioni di euro. Una vera offesa a queste maestranze sfruttate ed in forte disagio perché in questa vicenda, la verità è che non c’è uno stato di crisi economica delle Coop dove nel caso Karibu i soldi sono stati correttamente corrisposti dagli enti ma purtroppo non sono mai arrivati ai lavoratori per questo siamo veramente indignati come Uiltucs Latina». Cosa avete fatto per aiutare i lavoratori? «Abbiamo fatto richiesta di un tavolo Prefettizio. È necessario che siano convocate tutte le parti interessate per rispondere al disagio e alle difficoltà in cui si trovano le tante famiglie truffate dai rappresentati della Karibu e Aid. I lavoratori vogliono subito chiarezza, confidiamo nel percorso giudiziario, perché a queste persone si deve restituire rispetto e dignità con il pagamento immediato dei salari, è questo quello che chiederemo al Prefetto Maurizio Falco. Ripeto urge di convocare tutte le parti, tutti gli enti erogatori dei progetti per il pagamento diretto ai lavoratori senza passare per le Cooperative che hanno già causato ingenti danni ai lavoratori dove accoglienza e integrazione per noi in questo caso sono stati e rimangono solo un business per le Coop Karibu e Aid» I centri di accoglienza per i richiedenti asilo sono stati aperti dalla suocera del deputato Soumahoro Marie Terese Mukamitsindo, sui Monti Lepini, tra Sezze, Roccagorga e Maenza per poi allargarsi a Latina. Una storia quella delle Coop della famiglia di Soumahoro caratterizzata nel corso degli anni come riportano le cronache locali da numerose proteste dei migranti dove il grado di accoglienza non sembrerebbe essere stato dei migliori. Un fatto confermato gia nel 2019 dall’ex senatrice Elena Fattori di Sinistra Italiana che scrisse dopo una ispezione in un centro gestito da Karibu in provincia di Latina una relazione molto dura «Ho visitato molti centri di accoglienza e solo pochi erano decenti. Questo era fatiscente e mal tenuto. L’accoglienza deve essere pubblica, non può essere affidata ai privati senza adeguati controlli. Le mie osservazioni sull’ispezione, poi le consegnai al sottosegretario agli interni nel 2019. Provai tanta amarezza per come vengono trattate le persone e su come si speculi politicamente sull’”accoglienza “con la costruzione di “eroi” senza invece invocare soluzioni strutturali»- commenta la Fattori

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 25 novembre 2022.

Nella vicenda del deputato ivoriano Aboubakar Soumahoro bisogna aggiungere una brutta storia di presunte firme false apposte alle domande di disoccupazione inviate all'Inps dai braccianti agricoli della provincia di Foggia. Una faccenda messa nero su bianco in numerosi moduli di «revoca delega e disconoscimento di firma» spedite all'istituto previdenziale dai lavoratori. 

Siamo in Puglia, e precisamente nelle campagne tra Foggia e San Severo. Una vasta area occupata circa 20 anni fa dai primi «braccianti-coloni» conosciuta come il «Grande Ghetto» di Rignano garganico. Un luogo infame senza strade e servizi igienici che è arrivato a ospitare fino a 4.000 persone Chi vi abita, la grande maggioranza, di mestiere fa il bracciante. Immigrati divenuti famosi per lo sfruttamento, il caporalato. Pestaggi, risse e anche morti.

Il sindacato Usb diventa la voce di questi emarginati e cerca di tutelarli. Nel 2019 arriva lui, Soumahoro. Ha studiato ed è sveglio. Quando intuisce di avere un seguito importante lascia l'Usb e fonda la Lega Braccianti, un sindacato tutto suo. Fa incetta di iscritti, sottraendoli all'Usb, alla Cgil, alla Cisl. 

Durante il periodo della pandemia la fa da padrone con i suoi presidi a Torretta Antonacci e a Borgo Mezzanone. Nelle tre baraccopoli sarebbero state raccolte centinaia (si parla di circa 600-700) di richieste per le misure di sostegno alle quali potevano accedere in quel momento gli immigrati impiegati in agricoltura: in primis la disoccupazione. 

Il cortocircuito, con al centro Soumahoro e il suo ex braccio destro Sambare Soumaila, si è innescato quando all'Inps, che avrebbe dovuto erogare i sussidi, sono arrivate due domande fotocopia per ciascun bracciante. 

A quel punto l'ente pensionistico ha convocato i richiedenti ed è scoppiato il bubbone: i lavoratori hanno dovuto compilare un modulo per disconoscere la loro firma su una delle due richieste. Il 17 gennaio scorso Soumahoro si era filmato davanti a un casolare e aveva annunciato: «Con gli operatori del patronato siamo a Torretta Antonacci per pratiche di disoccupazione agricola, controllo busta paga, permessi di soggiorno, eccetera. La Lega braccianti, espressione della volontà popolare senza delega, lotta e continua nel percorso di migliorare le condizioni di vita dei braccianti». 

Dietro di lui si vedevano tre persone. Probabilmente il parlamentare era lì con i funzionari del patronato. Che, si scopre adesso, è l'Inpal di Bari. Da qui, infatti, partono le pratiche inviate all'Inps. Solo due mesi dopo, però, a marzo, l'istituto di via Ciro il grande scopre le domande fotocopia. E a quel punto i braccianti inviano una comunicazione con richiesta di revoca della precedente domanda e disconoscimento della firma apposta in calce.

Un documento in cui si legge: «Con la presente si dichiara di non aver mai conferito delega o rinnovato delega ad alcun patronato per l'inoltro della domanda di disoccupazione agricola». 

Francesca Di Credico, rappresentante della Cisl di Foggia, ragiona: «Probabilmente hanno inoltrato le richieste senza il mandato di queste stesse persone. È capitato a noi ma anche alla Cgil e all'Usb. Ci trovavamo le domande duplicate dall'Inpal di Bari». 

E se per i sindacati, al momento della liquidazione del primo bonus, il bracciante autorizza una trattenuta come quota di iscrizione (e a quel punto può accedere a tutti i servizi offerti per la tutela), per i patronati funziona in modo diverso: il lavoratore deve pagare per la preparazione della pratica. 

L'aspetto da chiarire è se i braccianti abbiano anticipato soldi per le istanze e se le domande siano state inviate senza mandati. «Io», continua la Di Credico, «ho trovato appesa alla porta del container assegnato alla Lega Braccianti nel ghetto di Rignano una lista di nominativi con i codici fiscali a fianco. Una quarantina erano nel database del nostro sindacato. La stessa cosa è accaduta alla Cgil e anche all'Usb».

La questione, oltre che all'Inps, sarebbe stata segnalata per conoscenza anche alla Procura di Foggia e, per almeno un episodio, anche a quella di Catania. Il legale dell'Inpal, l'avvocato Vito Marino Verzillo, contattato dal nostro giornale, spiega: «Ci fu un accordo tra la Lega braccianti e l'Inpal nazionale, perché dicevano che nessun patronato voleva andare lì a Borgo Mezzanone e a Torretta Antonacci. 

Noi ci siamo andati diverse volte, in un paio di occasioni anche io personalmente insieme con il direttore e con un collaboratore. I braccianti firmavano il mandato per essere assistiti e le richieste venivano inviate». Per l'Inpal, insomma, sarebbe tutto in regola. A volte, spiega il legale, trovavano ad accoglierli Soumahoro, «che veniva da Roma». Spesso «c'era anche Sambare, un campano, che arrivava da Napoli». Le pratiche, insomma, erano sollecitate dalla Lega Braccianti.

«Quando dal nazionale ci hanno chiesto di andare lì», conferma Verzillo, «trovavamo loro». E le pratiche doppie? «È una prassi tra sindacati e patronati, ma anche tra patronati e patronati» assicura il professionista. E conclude: «Il lavoratore fa la domanda, poi si rivolge a un'altra sigla perché gli viene più comodo - tenga conto, per esempio, che noi siamo a Bari e i braccianti lavorano a Foggia- e revoca la delega». E le firme disconosciute? 

«Noi», afferma l'avvocato dell'Inpal, «abbiamo la documentazione con le firme prese in nostra presenza. Siamo andati lì fisicamente. E per alcune pratiche che sono tornate indietro abbiamo minacciato di rivolgerci all'autorità giudiziaria, perché se l'assistito ha firmato davanti ai funzionari dell'Inpal, mi devono spiegare quando è stata firmata la richiesta davanti all'altro sindacato».

Per capirne di più abbiamo chiesto delucidazioni a Soumaila, il vecchio compagno di lotta di Soumahoro: «Quando stavo con Aboubakar ero io a ricevere le domande di disoccupazione. E quelle erano firme vere. Ci sono anche i video della gente che fa la coda. Io raccoglievo le pratiche di tutti i braccianti e l'Inpal veniva a prenderle per inoltrare le domande a Bari». Facciamo presente che i sindacati sostengono che molte firme sono state disconosciute. La replica è immediata: «Quando c'ero io ognuno ha firmato la sua disoccupazione e non c'è mai stato problema con nessuno, ma». Ma? «Loro avendo dati e documenti dei braccianti che avevano chiesto la disoccupazione con loro, l'anno dopo hanno rifatto la domanda automaticamente senza chiedere il consenso.

Ma in quel momento io non stavo già più con la Lega Braccianti ». 

Dunque le firme false sarebbero quelle con la richiesta di rinnovo della disoccupazione. Soumaila ci spiega anche che il suo sindacato ha provato a trovare una soluzione al problema: «All'Inps hanno bloccate le domande doppie, ma grazie al nostro servizio con Usb le hanno poi sbloccate. Abbiamo chiesto all'ente previdenziale da chi fosse stato presentato il doppione e ci hanno detto che erano tutte dell'Inpal. Noi non c'entriamo nulla.

Noi abbiamo fatto 700 domande e quelli che hanno avuto la duplicazione sono molti di più di coloro che non l'hanno avuta. Si tratta di centinaia di braccianti». Soumaila sembra sicuro di quello che dice: «Io qui sono conosciutissimo e quando mi siedo tutti vengono a fare le domande da me. Io sono stato con Lega braccianti nel 2019-2020 e nel 2021 io e altri siamo andati via. La Lega Braccianti l'abbiamo creata come un'associazione per gestire Torretta Antonacci. Aboubakar l'ha trasformata in un sindacato senza informare nessuno. Lui ci ha tradito e noi lo abbiamo abbandonato».

 E il clima si è esacerbato. Come viene raccontato in un paio di comunicati firmati dagli abitanti e delegati Usb di Torretta Antonacci. In uno si chiede a Soumahoro di evitare le «intimidazioni» e in un secondo, datato 22 dicembre 2021, si legge che «un gruppo di aderenti alla Lega Braccianti Ets (Ente del Terzo Settore) ha divelto l'insegna della strada, dedicata a due braccianti arsi vivi nell'incendio della baraccopoli nel marzo 2017, per poi minacciare alcuni abitanti del luogo, rei di mantenere esposto sulla loro baracca una bandiera Usb». Una grave accusa per chi si fa vanto di difendere gli ultimi e gli invisibili. (ha collaborato Irene Cosul Cuffaro)

"Qui vivono i Soumahoro". Ecco la villa da 450mila euro. Il deputato Aboubakar Soumahoro, autosospesosi dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana, è finito nel mirino dei media anche la villetta comprata insieme a sua moglie, nota come "Lady Gucci". Francesco Curridori su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Casal Palocco, periferia Sud di Roma, è improvvisamente diventato il centro di un terremoto politico. Nelle vie principali di questo quartiere residenziale della Capitale in pochi sanno chi sia il deputato Aboubakar Soumahoro. O fanno finta di non saperlo per sfuggire alle domande dei cronisti che in questi giorni hanno assediato casa sua.

“Ho scoperto oggi, sfogliando i giornali, che questo deputato abita in zona”, dice un edicolante della via principale del quartiere che si trova non molto distante dal più noto litorale di Ostia. Trovare la “villetta della discordia” sembra una missione impossibile, ma l’incontro fortuito con un agente immobiliare del posto è risolutivo. “Ho conosciuto un anno fa la moglie del deputato, una bellissima donna, garbata e molto elegante. Ricordo che, da buona cattolica, non mancava mai di esprimere la sua devozione a Dio”, confida uno degli agenti immobiliare a cui la donna si era rivolta per l’acquisto della casa. Liliane Murekatete è proprietaria insieme al marito di una villetta da 450mila euro di cui 250mila saranno versati grazie a un mutuo trentennale.

“Una casa, di due o tre piani, in quella zona di Casal Palocco si aggira intorno a quel prezzo”, conferma l’esperto del settore. Certo, 450mila euro non è una cifra di poco conto per un umile sindacalista che ha speso la sua vita in favore degli ultimi e per una disoccupata che è stata ribattezzata “Lady Gucci” per la sua passione per gli abiti e gli accessori firmati. L’abitazione è una villetta a schiera che si sviluppa su due piani in una strada tranquilla dove i vicini sembrano essere stufi di vedere giornalisti aggirarsi nel quartiere. “Vedo una persona di colore, ma non so chi sia”, dice frettolosamente un anziano. “Scusate, ma noi abitiamo qui da poco e non conosciamo nessuno”, risponde una coppia che rientra in una palazzina che si trova proprio di fronte alla casa del deputato.

A un certo punto, i ruoli si invertono e una donna a bordo di un’auto bianca chiede il motivo della presenza della stampa sotto casa del neodeputato e, poi, se ne va indignata negando di conoscere sia lui sia sua moglie. “Soumahoro abita qui, ma io preferisco non rilasciare dichiarazioni perché non amo questo tiro al bersaglio anche se riguarda un parlamentare”, commenta uno dei pochi vicini di casa che parla, rigorosamente a telecamera spenta e a taccuini chiusi. Il dirimpettaio si limita a dire: “Sì, sì la casa di Soumahoro è questa. Oggi, però, non abbiamo visto nessuno. Le tapparelle sono abbassate e, secondo me, non ci sono. Avranno voluto evitare l’assalto dei giornalisti”. Nel dubbio, chiamiamo il parlamentare che nei giorni scorsi si è autosospeso dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana, però non otteniamo alcuna risposta.

Soumahoro, va ricordato, al momento non risulta indagato, ma l’imbarazzo per una moglie e una suocera finite nei guai per la gestione poco chiara di due cooperative di migranti deve essere notevole. Il deputato, che aveva redarguito il premier Giorgia Meloni per aver osato dargli del tu, aveva cercato di fare il suo esordio in Parlamento entrando con le scarpe sporche di fango con l’intenzione di rendere ancora più evidente la sua vicinanza ai più deboli. Ora, invece, si trova nella condizione di doversi difendere dall’accusa di vivere nel lusso.

"Io, il primo a denunciare le coop. E tutti in silenzio". Il sindacalista della Uiltucs: "Parlai già nel 2018. Dov’erano gli enti e la politica?". Tonj Ortoleva su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

«Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale?». Non c’è dubbio che se oggi c’è possibilità di fare chiarezza rispetto alla cooperativa Karibu della famiglia dell’onorevole Soumahoro, molto del merito va alla perseveranza del segretario provinciale della Uiltucs di Latina Gianfranco Cartisano. Anni di battaglie, di denunce, di difesa dei diritti dei lavoratori della cooperativa e dei braccianti impiegati dal consorzio Aid, anch’esso legato alla famiglia del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana.

Parte da lontano la storia della gestione dei centri di accoglienza per migranti nella provincia di Latina. Una storia con molte ombre sulla quale però in pochi chiedevano chiarezza mentre i più facevano spallucce, bollando come polemica a sfondo politico ogni intervento critico verso queste cooperative. E Karibu, la coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro era quella che gestiva i numeri maggiori. La coop di Sezze ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe e ha preso più o meno 5 milioni di finanziamenti. Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? No le denunce pubbliche ci sono state. Come quella del capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi: «La mia denuncia parte nel 2018 e finì sotto silenzio, nell’indifferenza di molti. Sono felice che ora magistratura e forze dell’ordine abbiano acceso i riflettori su questa storia».

La procura della Repubblica di Latina, guidata da Giuseppe De Falco, ha diramato ieri una nota che mostra in parte l’imbarazzo che si respira in via Ezio per essere arrivati solo ora ad aprire un fascicolo: «Gli accertamenti nascono da notizie e comunicazioni pervenute da una pluralità di fonti, di natura pubblica e privata, e si articolano attraverso il dovuto, rigoroso vaglio ed approfondimento di ogni notizia e comunicazione». Cosa però che nel 2018 non era avvenuta.

Ma anche la scorsa estate nulla si mosse quando Gianfranco Cartisano della Uiltucs denunciò la vicenda dei lavoratori non pagati delle coop, la medesima sui cui risvolti oggi si sta indagando. A luglio Cartisano dichiarava ai giornali: «Una storia che purtroppo abbiamo già visto altrove, con le anomalie finanziarie scaricate sugli enti pubblici finanziatori e sui lavoratori».

Dopo mesi Cartisano vede finalmente riconosciute le battaglie del suo sindacato. «Oggi rimane per noi l’unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza».

Invece di salvare i migranti importiamo il caos africano. Le storture dell'accoglienza senza limiti: la vera lezione del caso Soumahoro. Gian Micalessin su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Lui, nel suo piccolo, si è trasformato da difensore dei reietti in capobastone prima e deputato poi. Ma non c'è da stupirsi. Nella grande madre Africa, da cui anche Aboubakar Soumahoro proviene, il percorso da paladino degli ultimi a incallito cleptocrate è la norma. Pensate a Robert Mugabe in Zimbawe, a Meles Zenawi in Etiopia, a Paul Kagame in Rwanda o a Isaias Afwerki in Eritrea. Le loro storie sono segnate da percorsi comuni. Iniziano con una spassionata lotta in difesa del popolo e si trasformano in un'altrettanto appassionata difesa delle ricchezze sottratte a quello stesso popolo. La parabola dell'onorevole Souhamoro dunque non sorprende. Stupisce semmai che si sia potuta riprodurre nel nostro paese. Ma di questo dobbiamo ringraziare le «elite» buoniste e di sinistra decise a imporci l'utopia di un'accoglienza senza limiti e controlli.

Per capirlo partiamo dal paradigma africano. Dietro la parabola di tanti dittatori vi sono due ragioni. La prima è rappresentata dalle immense e attraenti ricchezze naturali di tante nazioni. La seconda da sistemi istituzionali approssimativi dove i leader non sono soggetti, come nelle democrazie occidentali, a complessi sistemi di controllo determinati dalla precisa divisione dei poteri. I problemi delle giovani nazioni africane rivivono purtroppo nel nebuloso sistema dell'accoglienza messo in piedi in Italia da Pd e cooperative di sinistra. Un sistema dove abbondanti risorse pubbliche sfuggono al controllo di governo e istituzioni. La moglie dell'onorevole Sumahoro si è ritrovata a gestire, nell'arco di 18 anni, un capitale di circa cinque milioni e mezzo di euro assegnategli grazie a procedure senza gare e senza controlli. Origini e motivi di queste carenze vanno ricercate nell'atto iniziale del fenomeno migratorio ovvero negli sbarchi gestiti non dalle nostre istituzioni, ma dai trafficanti di uomini o dalle navi delle Ong. In entrambi i casi l'obbiettivo è far sbarcare il maggior numero di persone possibile. Questo garantisce maggiori incassi non solo ai trafficanti, ma anche alle Ong pronte a esibire i numeri dei migranti «salvati» per far leva sul buon cuore dei donatori. Quel che non interessa a nessuno è invece il futuro di questi disgraziati. Abbandonati in un universo privo di norme e di controlli i migranti, primi fra tutti quelli irregolari, si trasformano in risorse alla mercé di cooperative o di sfruttatori. Le prime sono interessate ad accoglierne quanti più possibile per moltiplicare i contributi incassati a fine mese. I secondi puntano a utilizzarli in grande quantità per offrire manodopera a bassissimo costo sul fronte del lavoro nero. In tutto questo, lo dimostrano le vicende del clan Sumahoro, i controlli di governo, istituzioni e forze dell'ordine sono talmente rarefatti da risultare assenti. La mancanza di regole che caratterizza la gestione della galassia migratoria italiana finisce con il ricordare, insomma, la fragilità istituzionale di quei paesi africani dove spregiudicati cleptocrati hanno facile gioco nel trasformare in beni personali le risorse nazionali. Soumahoro, insomma, si è semplicemente comportato come avrebbe fatto nella sua Africa. E ha potuto farlo grazie alla compiacenza di un Pd e di una sinistra che partendo dalla pretesa di salvare i migranti dalle tragedie africane finisce, invece, con il riprodurre gli schemi di quelle tragedie all'interno della nostra società.

Dagospia il 25 novembre 2022. Da Un Giorno da Pecora

L’intervista ad Aboubakar Soumahoro? “Lui ha giocato le sue carte, su alcune questioni è stato netto su altre sono rimaste delle zone d’ombra. Gli ho fatto tutte le domande senza mancargli di rispetto, alcune cose non tornano ma è anche brutto vedere una persona che viene ‘menato’ da destra, sinistra e centro. Penso di avergli fatto tutte le domande ma il tono che si sceglie nel fare quelle domande è importante”. 

A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è il giornalista Corrado Formigli, che ieri a ‘Piazzapulita’, ha intervistato il deputato al centro di una bufera mediatica. "Si è fatto trasportare da un’ambizione molto forte, ha avuto delle ingenuità e qualche eccesso di furbizia, ma non credo sia un ladro, forse la missione politica che si è posto gli ha fatto perdere il contatto con la realtà”. La carriera politica di Soumahoro potrebbe esser finita qui? “Vediamo. In Italia c’è scarsissima memoria per fatti più gravi di questo. Siamo di fronte ad un parlamentare che ha omesso di dire che ci sono delle cooperative che non rispettano i diritti, cosa in contraddizione con le sue battaglie. Ma qui siamo in un Paese in cui il leader di un partito è stato condannato per frode fiscale, eppure nessuno si sogna di linciarlo tutti i giorni e dire che è finito, è ancora lì".

Dagonews il 25 novembre 2022.

Chi cerca il Cav, trova un tesoro, anzi una Soumahoro. Lo sapevate che la moglie del deputato (autosospeso) di Sinistra Italiana e Verdi ha lavorato a Palazzo Chigi per il governo Berlusconi? Era l’assistente di Alberto Michelini, nominato all’indomani del G8 di Genova, rappresentante personale del presidente del Consiglio per l’Africa. Lei poi, lanciatissima, era andata a lavorare direttamente per Bruno Archi, consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi. Gli addetti ai livori mormorano di quando la moglie di Soumahoro chiese, e ottenne, un incontro privato di lavoro con Berlusconi.

Soumahoro, per chi lavorava la moglie in Parlamento: la scoperta. Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Continua a tenere banco il caso di Aboubakar Soumahoro, che si è auto-sospeso dal gruppo parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi ed è andato a chiedere scusa a PiazzaPulita, su La7, per non aver vigilato su quanto accadeva in casa sua. La coop che era gestita dalla compagna e dalla suocera risulta indagata e Soumahoro sta pagando lo scotto a livello di immagine, pur non essendo direttamente coinvolto.

Dagospia ha aggiunto qualche dettaglio inedito su Liliane Murekatete: “Lo sapevate che la moglie del deputato ha lavorato a Palazzo Chigi per il governo Berlusconi? Era l’assistente di Alberto Michelini, nominato all’indomani del G8 di Genova rappresentante personale del presidente del Consiglio per l’Africa. Lei poi, lanciatissima, era andata a lavorare direttamente per Bruno Archi, consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi".

Nel frattempo Angelo Bonelli ha rilasciato un’intervista a Radio Popolare in cui si è detto “turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda”.Secondo il deputato di Verdi-Si, le risposte date finora da Soumahoro “non sono sufficienti, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione”.

Michelini, ex deputato di FI: «La moglie di Soumahoro con me a Palazzo Chigi. Era capace». Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022. 

Alberto Michelini, come mai Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, lavorò con lei a Palazzo Chigi durante il governo Berlusconi?

«Ero rappresentante del presidente del Consiglio al G8 dell'Africa. A un incontro organizzato da Laura Boldrini, allora all'Unhcr, lei tenne un discorso molto bello. E la mia assistente disse: "Perché non la prendiamo?"». 

E lei?

«La convocai. Mi raccontò che era fuggita dal Ruanda al tempo della guerra con i Tutsi, lei era Hutu. Disse che sua madre era un'insegnante e suo padre medico, studiava dai salesiani, parlava perfettamente italiano ed era intelligente, ci colpì e la prendemmo».

A fare cosa?

«Veniva con noi agli incontri con le delegazioni africane. Era una buona presentazione avere nel nostro staff una persona africana. E lei era molto brava nelle relazioni. Ed era di buona famiglia». 

Buona famiglia?

«Un giorno incontrammo il primo ministro del Ruanda e lei me lo presentò come suo zio». 

Era la nipote del premier?

«Così mi disse. E vidi che si salutavano in modo affettuoso». 

Da allora?

«Ha lavorato con noi 3 anni e poi non l'ho più vista». 

Era già super griffata?

«No. Vestiva con tailleur sobri. Era capace. Poi dipende come usi la tua intelligenza. Ed evidentemente c'è stata un'evoluzione. Sono sconcertato».

Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 26 novembre 2022.

«Attualmente disoccupata» e fuori dal circuito dell'accoglienza. Ma nel curriculum di Liliane Murekatete, moglie del deputato dell'Alleanza Verdi-Sinistra Aboubakar Soumahoro finito nella bufera politica per il caso coop, ci sono diverse esperienze di peso. E una pesa più di tutte: Palazzo Chigi. 

[…] L'ex dipendente della cooperativa Karibu ora nel mirino delle indagini della procura di Latina, ricorda Dagospia, ha lavorato come consigliera alla presidenza del Consiglio per più di due anni, dal 2003 al 2006, nel governo Berlusconi. Ruolo ricoperto anche con il secondo governo Prodi. E poi di nuovo quando il Cavaliere è tornato in sella nel 2008: richiamata dal governo di centrodestra come «facente funzioni» del rappresentante per l'Africa. Missione, quest' ultima, mai decollata davvero.

Nel 2003 l'esordio come assistente dell'allora inviato speciale italiano del G8 per l'Africa, Alberto Michelini, ex deputato e già giornalista del Tg1. […] Il primo incontro con Michelini è a Roma, con una sponsor d'eccezione: Laura Boldrini, ex presidente della Camera, all'epoca portavoce dell'Unhcr per il Sud Europa. 

È il 20 giugno e l'agenzia dell'Onu celebra con un convegno la giornata mondiale del rifugiato, presenti Michelini e Alfredo Mantovano (attuale sottosegretario a Chigi) nella veste di sottosegretario all'Interno. Boldrini cede la parola a Liliane, ventiseienne miracolosamente scampata con la sua famiglia all'eccidio che nel 1994 ha sconvolto il Ruanda.

Paola Ganozzi, consigliera di Michelini e tutt' ora in squadra a Palazzo Chigi, rimane colpita e lancia l'idea: la ragazza deve entrare a palazzo. «Parlava un perfetto italiano, oltre a inglese e francese madrelingua», racconta Michelini, «ha lavorato con noi più di due anni, ci seguiva nelle missioni in Africa, e i nostri interlocutori apprezzavano che nella delegazione italiana ci fosse una giovane africana preparata». 

[…] Prima di dedicarsi a tempo pieno alle coop, Murekatete ha dunque vissuto una parentesi nelle istituzioni. Un ruolo (e un lavoro) di prestigio. Defilato, certo, ma non indifferente. […]

Silenzi e contraddizioni, Soumahoro senza difesa: cosa non torna.  Dario Martini su il Tempo il 26 novembre 2022

Aboubakar Soumahoro non ha convinto neppure colui che l'ha portato in Parlamento. Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, fa capire senza mezzi termini di essere rimasto molto deluso dalle spiegazioni fornite in tv dal suo parlamentare: «Ha dato risposte insufficienti». Lo scandalo scoppiato sull'accoglienza dei migranti è tutt' altro che chiuso. La versione fornita dal paladino dei braccianti, ospite l'altro ieri sera nello studio di Piazza Pulita, su La7, lascia aperti molti interrogativi. Eppure, qualche ora prima di presentarsi davanti alle telecamere, Soumahoro aveva avuto un lungo confronto proprio con Bonelli, a cui aveva partecipato anche Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. Incontro a cui era seguita la decisione del deputato e di autosospendersi dal gruppo di Montecitorio.

Una domanda sorge spontanea: come mai è andato in televisione senza avere una linea difensiva seria? Sembra quasi che sia stato mandato allo sbaraglio. «Quella di Aboubakar è una cosa che ferisce e che indebolisce chi ogni giorno lotta per i diritti - commenta Bonelli rincarando la dose Abbiamo parlato a lungo con lui e ci ha confermato la sua estraneità ai fatti e che risponderà alle ricostruzioni giornalistiche. Questa vicenda mi ha profondamente turbato, basta guardare la mia faccia». Occorre ricordare che Soumahoro non è indagato. Lo scandalo riguarda le coop di famiglia, ovvero la società Karibu, di cui è amministratrice la suocera Marie Therese Mukamitsindo (indagata per malversazioni) e di cui è stata presidente la moglie Liliane Murekatete, e il Consorzio Aid, guidato dalla cognata Aline Mutesi e di cui è consigliera la stessa Mukamitsindo. Il caso è scoppiato quando sono affiorate le segnalazioni dei 26 dipendenti che non percepivano gli stipendi. Poi si sono aggiunte le lamentele dei migranti, che hanno denunciato le condizioni al limite in cui erano costretti a vivere: senza cibo, luce e acqua.

Negli ultimi giorni l'attenzione si è spostata sulla Lega dei braccianti, il sindacato fondato da Soumahoro. Alcuni suoi ex soci lo accusano di aver trattenuto per sé i soldi destinati ai profughi. La versione ufficiale di Soumahoro fa acqua da più parti. Per prima cosa, è evidente la giravolta compiuta in pochi giorni. In un video del 20 novembre, il deputato rossoverde rivendicava con forza di non sapere nulla. Giovedì scorso, invece, ha ammesso che la moglie lo aveva messo al corrente degli stipendi non pagati. Perché non lo ha detto subito? Incalzato da Corrado Formigli, è apparso evasivo anche su altri aspetti dell'intera vicenda. A partire dal resort aperto in Ruanda dal cognato Michel Rukundo, a cui si aggiungono i soldi della Karibu dirottati su un conto corrente africano finito nel mirino della Finanza.

Mila euro Il mutuo con cui i coniugi Soumahoro pochi mesi fa hanno comprato un villetta a Casal Palocco a Roma Formigli glielo chiede esplicitamente: «Come è stato possibile aprire quel resort quando i lavoratori delle cooperative non venivano nemmeno pagati?». Soumahoro divaga: dice che non sapeva delle indagini sulla coop, che il suo errore è stato non approfondire. Sul resort nessuna risposta.

È debole anche la spiegazione fornita in merito alla villetta acquistata qualche mese fa a Roma. Come ha fatto a comprare una casa con un mutuo da 270mila euro, e con quali garanzie, se non era ancora entrato in Parlamento e non prendeva un euro dalla sua Lega dei braccianti? La risposta lascia di stucco: «Ho scritto un libro».

L'opera in questione è "Umanità in rivolta", edito nel 2019. E non risulta che abbia scalato le classifiche di vendita. Secondo quanto appurato da Striscia la Notizia, in tre anni ha venduto appena 9.000 copie, di cui 7.900 il primo anno secondo quanto risulta a Il Tempo. Infine, Soumahoro resta evasivo pure sul confronto avuto con la moglie. Quando gli viene chiesto cosa abbia detto la moglie in merito alle contestazioni sulle condizioni di vita nelle strutture d'accoglienza, il deputato è lapidario: «Mia moglie non lavora più lì. Comunque di fronte a queste cose non c'è legame familiare che tenga». Una presa di posizione forte, che però non entra nel merito del problema. 

Soumahoro, l'ex socio a Striscia: "Soumahoro pagava per fare selfie e finte proteste". Il Tempo il 25 novembre 2022

A "Striscia La Notizia" su Canale 5 l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a Piazza Pulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sottoforma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. Che aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro.

Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci. 

Soumahoro mollato anche da Bonelli: "La moglie? Non posso credere che..." Il Tempo il 25 novembre 2022

Aboubakar Soumahoro mollato anche da chi aveva puntato tutto sul nome nuovo della sinistra. Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra italiana, in un’intervista a Radio Popolare si dice "turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda". Insomma, l'imbarazzo iniziale per l'inchiesta della procura di Latina che ha coinvolto la suocera e la moglie del "sindacalista con gli stivali sporchi di fango" (il cui nome non è nell'inchiesta) si è trasformata in una presa di distanza netta.

"Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione" afferma il verde nell'intervista. Ora "va fatta una riflessione seria - continua Bonelli - abbiamo una situazione in cui i diritti dei migranti sono sempre più calpestati e chi ha sempre condotto una battaglia, mi riferisco alla destra, per metterli all’angolo con motivazioni inaccettabili, ora usa in maniera speculare questa vicenda, su cui dobbiamo aprire una riflessione. Per questo, Soumahoro dovrebbe essere il primo a dare risposte che finora non ha dato". 

Sulla scelta di candidare Soumahoro, Bonelli spiega che "non c’è stata una sincera comunicazione da parte di chi si candida a dire ’io ho un problema di questo genere, valutate voi'. Questo non è accaduto. È una questione che non attiene la via giudiziaria, è una questione che attiene alla politica e a una comunità che ti sta facendo una proposta di candidatura. Se io avessi una moglie che ha una società che opera nelle energie rinnovabili e venisse indagata perché ha corrotto il ministero dell’Ambiente e io sono il leader dei Verdi, ho il dovere di dire al partito che mi vuole candidare che ho questo problema, per rispetto ad una comunità che ha proposto il tuo nome".

"Quello per cui mi sento profondamente ferito è proprio questo, ferito più che dal punto di vista politico, umano perché si omette di dire tutto. Io non posso credere che la moglie non parli con il marito di questo". Insomma, Bonelli lamenta che Soumahoro ha omesso informazioni che gli avrebbero precluso la candidatura, e mette in dubbio anche quanto affermato in sua difesa dal neo-deputato che, è il ragionamento del verde, non poteva non sapere.

Anni di silenzi e denunce: il caso Soumahoro imbarazza toghe e sinistra. La vicenda esplosa negli ultimi giorni ha radici lontane: già nel 2018 il capogruppo regionale della Lega sollevò dubbi sulla gestione dei soldi pubblici da parte della coop Karibu. Tonj Ortoleva su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

Una storia che viene da lontano quella della cooperativa Karibu e del fiume di denaro ottenuto dallo Stato per la gestione dei migranti. Ma ai dubbi e alle denunce presentate, fino a oggi, non era mai seguito nulla di concreto. Solo ora si sono accesi i riflettori sulla cooperativa gestita dalla suocera e (in precedenza) dalla moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire.

Gli affidamenti e le prime polemiche

La Karibu ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 la cooperativa ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe. Solo dopo 18 anni, infatti, il servizio è stato nuovamente messo a gara e ad aggiudicarselo è stata un’altra cooperativa. Inoltre la Karibu, nel 2015, ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Nel 2018 erano ben 51 su 129 i centri per l’accoglienza dei migranti gestiti da Karibu in provincia di Latina, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo.

Sulla coop sta indagando la procura della Repubblica di Latina, cercando di far luce su stipendi non pagati ai dipendenti, migranti costretti a tirare avanti con poco cibo, senza acqua e senza luce, ipotesi di fatture false, raggiri e flussi di denaro diretti all'estero e in parte rientrati in Italia. Ma i primi dubbi sul fiume di denaro elargito da governo e comuni alla cooperativa con sede a Sezze (Latina) arrivano già nel 2018. A maggio di quell’anno è il capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi a presentare una interrogazione per capire cosa stesse accadendo alcune realtà della provincia di Latina, come il comune di Roccagorga che in un anno gestiva 300 mila euro di risorse destinate allo Sprar (il sistema di protezione per richiedenti asilo) mentre il capoluogo Latina ne aveva 500 mila per tre anni. Dubbi sui quali Tripodi ha insistito molto, andando anche a incontrare l’allora prefetto Maria Rosa Trio. “La mia denuncia parte nel 2018 e finì sotto silenzio, nell’indifferenza di molti. Sono felice che ora magistratura e forze dell’ordine abbiano acceso i riflettori su questa storia e sono certo che andranno fino in fondo. E faccio anche un appello ai tanti che conoscono quel che è accaduto in questi anni: chi sa, parli”, afferma Angelo Tripodi, capogruppo della Lega in Regione Lazio.

Già nel 2018 Tripodi aveva descritto quello che considerava un sistema su cui grandi responsabilità avrebbe il Partito democratico: “La coop Karibù ha avuto un legame forte con il Pd e i Comuni amministrati dal centrosinistra: dagli affidamenti con fondi pubblici, spesso senza una gara, alle proroghe puntuali a ridosso delle scadenze, dagli immobili affittati dai dipendenti pubblici alla coop, fino all'assunzione di un amministratore democratico nella società della suocera di Soumahoro”.

Le denunce del sindacato Uiltucs

Parallelamente ai dubbi sollevati dalla politica, sulla gestione del sistema Sprar sono arrivati anche i riflettori del sindacato Uiltucs guidato dal segretario provinciale Gianfranco Cartisano, che invece si sono concentrati su aspetti lavorativi. Proprio lui ha denunciato i mancati pagamenti dei lavoratori e in altre occasioni ha raccolto i malumori dei richiedenti asilo e dei braccianti impiegati dalla Aid, consorzio nell’orbita della famiglia Soumahoro.

Quei milioni alla coop vicina a Mafia Capitale. Bianca Leonardi il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il colosso italiano dell'accoglienza Medihospes fino all'anno scorso deteneva il 63% dei centri accoglienza solo su Roma

Se il caso Soumahoro è stata una doccia fredda per i tanti affezionati, la politica ha preferito rimanere pressoché silenziosa riguardo anche gli intrecci - documentati e presunti - tra i due mondi: immigrazione e potere.

Il caso più eclatante è quello del colosso italiano dell'accoglienza Medihospes che fino all'anno scorso deteneva il 63% dei centri accoglienza solo su Roma: una condizione di quasi monopolio che si conferma anche quest'anno. La coop è strettamente collegata al Gruppo La Cascina, al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il presidente di Medihospes è infatti Camillo Aceto, ex amministratore delegato de La Cascina, indagata per infiltrazione mafiosa. Le due tutt'oggi risultano essere partner. Nonostante questo, i reclami, le denunce e le indagini da nord a sud che portano alla luce le stesse accuse tra cui sovraffollamento, condizioni disumane, gestione oscura dei finanziamenti, la Medihospes gode di una fiducia smisurata dei comuni italiani, soprattutto quello romano.

«Significa che l'amministrazione rischia di essere catturata dal proprio fornitore e di subirne la capacità di condizionamento», si legge nel dossier di ActionAid. Tra il 2021 e il 2022 la giunte 5 stelle e dem hanno infatti indetto bandi, e soprattutto affidamenti diretti, a favore della coop che ha ottenuto, così, contributi milionari. Se nel 2020 erano arrivati 20mila euro alla Medihospes per la ricerca di personale addetto covid per un solo mese, le cifre nei due anni successivi sono di tutt'altro tenore. Il 30 marzo 2021 nelle tasche di Camillo Aceto arriva 1,5 milioni per soli sei mesi di accoglienza, anche questo con affidamento diretto e fuori dal progetto Sprar e cioè dal circuito prefetture-enti. Nello stesso periodo altri 435mila euro per la gestione degli eventi climatici.

Ma c'è di più: il bando del 6 ottobre 2021, per la realizzazione di progetti in favore dei centri di accoglienza, mette sul tavolo più di 23 milioni di euro. Con 13 aggiudicatari e 36 progetti, addirittura 15 vengono affidati alla coop. Stesso discorso per l'affidamento dei C.A.R.I, questa volta nel progetto Sprar, per il triennio 2021-2024 la Medihospes si è presa la fetta più grande della torta, incassando quasi 2,6 milioni contro il poco più di un milione spettato agli altri vincitori. Ad aggiungersi a questo fiume di denaro, pochi mesi fa, un altro affidamento diretto con cui Roma ha stanziato 110mila euro per la gestione di soli 10 posti.

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per repubblica.it l’8 dicembre 2022.

Quattro anni fa era già nota la "grave" situazione in cui versavano alcuni centri per migranti gestiti dalle coop della suocera e della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Lo aveva accertato il Ministero dell'Interno e l'Ufficio III della Direzione centrale dei servizi civili per l'immigrazione e l'asilo lo aveva specificato in un documento inviato al Comune di Roccagorga, piccolo centro dei Lepini in cui la cooperativa Karibu ha mosso i primi passi. 

Tanto Karibu quanto il Consorzio Aid, a cui ora il ministro dello sviluppo economico Adolfo Urso ha deciso di staccare la spina e su cui è in corso una complessa inchiesta della Procura della  Repubblica di Latina, hanno però continuato a incassare milioni di euro fino a quando lavoratori che da due anni non prendevano lo stipendio si sono rivolti alla Uiltucs e sono spuntate storie di minorenni stranieri costretti a vivere senza cibo, acqua e luce, facendo esplodere lo scandalo.

Era il 31 dicembre 2019 quando venne inviata dal Viminale una pesante nota al Comune di Roggagorga, all'epoca amministrato dalla sindaca dem Carla Amici, sorella dell'ex sottosegretaria Sesa. Riferendosi al progetto Sprar 2014-2016, ammesso al finanziamento, il Ministero specificò che la seconda visita di monitoraggio effettuata il 26 e 28 novembre 2018 era sfociata in una serie di prescrizioni per via delle "criticità rilevate", imponendo all'ente locale di allinearsi entro 20 giorni.

Nella nota, che Repubblica ha potuto esaminare, il Viminale aggiungeva che dal Comune non era arrivato alcun riscontro a quelle prescrizioni e che, "tenuto conto della gravità della situazione emersa", lo stesso doveva ottemperare. In caso contrario, veniva evidenziato, l'ente locale avrebbe subito una decurtazione di 18 punti, "penalità che potrà comportare la revoca del finanziamento". 

Il linguaggio è burocratico, ma il quadro che aveva il Ministero dell'interno delle strutture dove erano ospitati i migranti sembra chiaro. Al dicastero, all'epoca retto dal leghista Matteo Salvini, risultava il "mancato rispetto della percentuali di posti destinati al sistema di protezione indicate nella domanda di contributo" e la "mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati", oltre soprattutto alla "mancata  applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitativi". 

Qualcosa che sembra estremamente simile a quanto riferito da diversi migranti dopo che è esploso lo scandalo e su cui sta indagando la magistratura. 

Il Viminale aveva anche sostenuto che quei problemi avrebbero potuto comportare "il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata", lamentando pure la mancata trasmissione della rendicontazione 2017, mancando il certificato del revisore "che accompagna obbligatoriamente le spese sostenute". 

Una nota durissima, che non ha però appunto ostacolato le cooperative di Maria Therese Mukamitsindo e della figlia Liliane Murekatete. [...]

Quando Salvini smontò Soumahoro sullo sciopero dei clandestini. Nel 2020 Soumahoro minacciava: "Fate la regolarizzazione o scioperiamo". Ma il segretario della Lega lo zittiva: "Mi preoccupo dei lavoratori italiani in difficoltà". Luca Sablone su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

Le ultime vicende giudiziarie e politiche hanno messo in forte imbarazzo la sinistra nostrana, che da sempre ha dipinto gli esponenti di centrodestra come dei mostri e ha coccolato con leggerezza chiunque avesse le sembianze di un nuovo leader progressista. Ma la convinzione di essere paladini morali ha presto lasciato spazio al senso di soggezione per il caso Aboubakar Soumahoro. Alla mente torna il botta e risposta, risalente a due anni fa, tra il sindacalista e Matteo Salvini in televisione.

Il dibattito in questione risale al 10 maggio 2020. La morsa della prima ondata del Coronavirus era durissima: il nostro Paese faceva i conti con i divieti anti-contagio e gli effetti economici erano devastanti. In quel periodo, però, all'interno del governo giallorosso, guidato da Giuseppe Conte, si parlava della regolarizzazione dei migranti. Un tema che aveva spaccato la maggioranza e che aveva mandato su tutte le furie l'opposizione di centrodestra.

Bellanova piange per i clandestini ma non ha lacrime per tutti gli italiani rovinati dalla crisi

Ad esempio Matteo Salvini si era da subito schierato contro una sanatoria indiscriminata. Il segretario della Lega aveva ribadito la propria posizione nel corso di un'intervista rilasciata a Mezz'ora in più su Rai 3. Era stata l'occasione per un confronto con Aboubakar Soumahoro, che non aveva usato toni concilianti e si era spinto a lanciare un avvertimento: "Il governo faccia la regolarizzazione altrimenti è sciopero".

L'uscita del sindacalista aveva innescato la reazione di Salvini che, lasciandosi andare a una risata di sconcerto, aveva espresso il proprio disappunto: "Scioperano i clandestini adesso? Ma in che Paese viviamo? Io mi preoccupo dei tanti lavoratori, italiani e stranieri, perbene che sono a casa senza pagnotta da due mesi".

Poco prima la discussione si era fatta ancora più animata. Soumahoro aveva lanciato una provocazione all'indirizzo del leghista: "Metta gli stivali, venga nei campi insieme a noi". Una frase a cui era seguita una stoccata da parte di Salvini: "Guardi, ne ho girate forse più di lei di aziende agricole e nessuno mi chiede schiavi. Il problema è che se noi continuiamo a regolarizzare immigrati irregolari abbiamo schiavi".

Ironia della sorte. Soumahoro invitava il leader della Lega a mettere gli stivali. Magari gli stivali che il deputato di Verdi e Sinistra italiana ha indossato all'esordio nel palazzo della politica. Quegli stessi stivali "simbolo delle sofferenze e speranza del Paese" (con i piedi "nel fango della realtà e lo spirito nel cielo della speranza") che stonano con la denuncia dei braccianti sul suo conto. Salvini è sempre stato etichettato come un mostro che rema contro i migranti; Soumahoro è stato invece designato come potenziale nuovo leader della sinistra. Ora, alla luce degli ultimi sviluppi, siamo sicuri che gli epiteti sull'uno e le lodi sull'altro siano corretti?

"Risposte non sufficienti". Prima lo candidano, ora i Verdi scaricano Soumahoro. Il co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli, critica il sindacalista ivoriano e lo scarica: "Dovrebbe dare risposte più compiute, la questione è politica". Marco Leardi su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

"Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti". La sinistra casca dal pero e sul caso che ha travolto il proprio deputato reagisce solo ora. L'autosospensione del sindacalista ivoriano, seguita agli accertamenti sulle coop riconducibili ai suoi famigliari, è stata un punto di non ritorno. Adesso, infatti, la questione ha assunto una consistenza politica non più trascurabile, nemmeno da parte di quanti si erano trincerati dietro un iniziale e imbarazzato silenzio. Così, a utilizzare toni severi nei confronti di Aboubakar sono stati gli stessi esponenti dell'alleanza Verdi-Sinistra italiana, a cominciare da Angelo Bonelli.

Caso Soumahoro, Bonelli: "Turbato e ferito"

In un'intervista a Radio Popolare, il co-portavoce di Europa Verde ha di fatto voltato le spalle al paladino dei braccianti sfruttati, accusandolo di non aver fornito spiegazioni esaurienti sulle controverse vicissitudini della sua famiglia. "Dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto. Quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione", ha affermato Bonelli, dicendosi "turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda". L'esponente dei verdi ha quindi chiesto una "riflessione seria", usando una perifrasi quasi d'obbligo. Col passare dei giorni, infatti, in molti hanno iniziato a sollevare rilievi di opportunità politica destinati a interrogare anche i vertici della sinistra nostrana.

"Soumahoro dovrebbe dare risposte"

"Soumahoro dovrebbe essere il primo a dare risposte che finora non ha dato", ha lamentato Bonelli, accusando poi il centrodestra di "usare" la vicenda contro i proprio avversari. L'impressione, in realtà, è che i progressisti abbiano combinato il pasticcio da soli, prima portando il deputato ivoriano in palmo di mano come un'icona e poi accorgendosi di aver forse commesso qualche imprudenza. Al riguardo il co-portavoce di Europa Verde ha scaricato le responsabilità su Soumahoro (che non è comunque indagato), rimproverandogli di non essere stato abbastanza esaustivo con il partito che lo stava candidando.

Quelle voci prima della candidatura

"Non c'è stata una sincera comunicazione da parte di chi si candida a dire 'io ho un problema di questo genere, valutate voi'. Questo non è accaduto. È una questione che non attiene la via giudiziaria, è una questione che attiene alla politica e a una comunità che ti sta facendo una proposta di candidatura. Se io avessi una moglie che ha una società che opera nelle energie rinnovabili e venisse indagata perché ha corrotto il ministero dell'Ambiente e io sono il leader dei Verdi, ho il dovere di dire al partito che mi vuole candidare che ho questo problema, per rispetto ad una comunità che ha proposto il tuo nome", ha affermato Bonelli. Tuttavia, secondo alcune indiscrezioni - rilanciate peraltro stamani da Luigi De Magistris su La7 - "c'erano già voci su Aboubkar, anche durante la campagna elettorale, e non venivano da avversari politici". Secondo l'ex sindaco di Napoli, il sindacalista sarebbe stato quindi candidato "nella perfetta consapevolezza che c'erano vicende opache che lo attraversavano".

Ma Bonelli cade dalle nuvole. "Quello per cui mi sento profondamente ferito è proprio questo, ferito più che dal punto di vista politico, umano, perché si omette di dire tutto. Io non posso credere che la moglie non parli con il marito di questo", ha dichiarato il leader di Europa Verde.

"Mollato senza rimorso". Mentana smaschera la sinistra sul caso Soumahoro. Il giornalista allude sui social all'attualità e descrive il "meccanismo" adottato con le presunte icone progressiste. "Si innalzano finché non esplodono per umane contraddizioni". Marco Leardi su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

Icone della sinistra portate in palmo di mano. Blandite e celebrate come esempi di presunta superiorità morale. Esaltate oltremodo fino a quando scoppia la bolla. A quel punto, infatti, scatta il fuggi fuggi dei compagni e degli adulatori d'un tempo. "Il meccanismo è sempre uguale". Enrico Mentana sferra una staffilata ai progressisti di casa nostra, prendendo spunto probabilmente dalle recenti vicissitudini del caso Soumahoro. Senza citare in modo esplicito il deputato di origini ivoriane, il giornalista ha affidato ai social una riflessione adattabile alle circostanze che hanno portato l'esponente politico ad autosospendersi dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra.

Il "meccanismo" svelato da Mentana

Dopo quella decisione, dovuta all'onda d'urto dell'indagine sulla suocera del deputato, Mentana ha toccato su Facebook un nervo scoperto della sinistra. "Il meccanismo è sempre uguale, nasce da uno stesso riflesso condizionato: si innalza una figura a simbolo della lotta su temi e battaglie che non ci piace né vedere né affrontare, quasi sempre nel sud non illuminato dalle fiction, la si gonfia esaltandola e lusingandola, finché invariabilmente non esplode per varie umane contraddizioni", ha scritto il direttore del TgLa7, ricostruendo l'ideale parabola percorsa da alcune personalità trasformate in icone del progressismo. Poi il giornalista ha descritto l'improvvisa traiettoria discendente a cui quelle stesse figure sarebbero condannate.

"Mollato senza rimorso"

"A quel punto la si molla all'istante, e con lei - senza alcun rimorso - le sue battaglie e le piaghe che combatteva. Come fu per l'archetipo: morto Masaniello la sua gente mazziata torna nell'ombra, senza più voce. Li chiamiamo invisibili perché in fondo siamo i primi a non volerli guardare", ha osservato Mentana. Allusiva, ma piuttosto comprensibile, la critica a quei leader politici di sinistra che ricorrono a questo "meccanismo" contraddittorio ed emblematico, rispetto al quale diversi commentatori social hanno subito colto dei riferimenti all'attualità.

Le contraddizioni politiche del caso Soumahoro

Difficile, del resto, non pensare alle traversie del caso Soumahoro. Dopo gli iniziali e imbarazzati silenzi della sinistra sulla famiglia del deputato (che - lo ricordiamo - non è indagato), qualcuno si è reso conto dei contraccolpi politici del caso. Così, il parlamentare si è dovuto autospendere dal gruppo di Verdi e Sinistra, scaricato di fatto pure da Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. "Avrebbe dovuto cercare un confronto con noi e informarci della situazione. Sono molto preoccupato", aveva fatto sapere l'esponente di sinistra.

La sinistra in caduta libera: aspettava il ko del governo ma esplode su Soumahoro. Prima creano il totem "acchiappavoti" poi lo scaricano in malo modo. De Magistris: "Da tempo c’erano voci su di lui..." Laura Cesaretti su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Ora si scopre che tutti sapevano, o almeno sospettavano: dalla Cgil alla Caritas, dai soci della cooperativa a esponenti del Pd, passando per le procure e financo per Luigi De Magistris. Tutti, tranne i due leader che hanno chiesto a Aboukabar Soumahoro di candidarsi e ne hanno fatto una delle icone della propria campagna elettorale, forti della sua popolarità a sinistra.

C'è un dolente Angelo Bonelli (il Verde) che si descrive «turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda». E che ora si mostra implacabile con l'ex candidato-simbolo: «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto. Noi quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione». C'è un irritato Nicola Fratoianni (il Rosso) che tace ma fa trapelare che si era perso il messaggio Instagram del prete che oggi - ex post - racconta di averlo «avvisato che rischiava l'autogol» a candidarlo. Che disdetta. C'è pure Gad Lerner, che sul Fatto ricorda di aver apprezzato Aboukabar e sostenuto le sue lotte, ma gli rinfaccia gli «stivali infangati» che un leader sindacale come Di Vittorio - dice - mai avrebbe usato per farsi propaganda.

Il fall-out del caso Soumahoro - peraltro non indagato - rappresenta la vera crisi post-elettorale della sinistra radical-moralista, quella che attendeva l'esplosione della (pur scombiccherata) maggioranza di destra e si trova invece a fare i conti con il crollo dei personaggi eletti a simbolo e con l'eterno male del giustizialismo verso gli altri, che ora gli si ritorce contro.

Ora c'è la gara a tirar pietre postume sull'ex icona. Spunta persino l'ormai appannato De Magistris, che non riesce mai a togliersi la toga del magistrato dell'accusa (per lo più infondata, a giudicare dagli esiti delle sue inchieste in tribunale), e che ora fa quello che la sapeva lunga: «C'erano voci ben prima della campagna elettorale, e non venivano da avversari politici di Soumahoro», racconta. Per poi prendersela con il partito rossoverde che (a differenza della sua sfortunata Unione Popolare) un po' di parlamentari, incluso il contestato sindacalista, li ha eletti: «Non voglio dire che lo abbiano usato, ma certo è stato candidato nella perfetta consapevolezza che c'erano vicende opache». Peccato, però, che appena un anno fa, il medesimo De Magistris non avesse trovato nulla di «opaco» nel sostegno offerto da Soumahoro alla sua campagna elettorale (sfortunata anch'essa) per la guida della regione Calabria. Il sindacalista aveva anche partecipato a comizi e manifestazioni a favore di Dema. Che oggi, anche lui, si ricorda improvvisamente che «c'erano voci». Mentre dalle colonne di Repubblica, Stefano Cappellini ricorda che la selezione delle candidature non va lasciata a «intellettuali, artisti, influencer» alla Saviano o a salotti della sinistra tv come Propaganda Live. E così, mentre a sinistra tutti mollano di gran carriera il proprio eroe di ieri, a non unirsi all'accanimento sul Soumahoro caduto in disgrazia sono personaggi lontani dalla retorica leftist: da Paolo Mieli, che si chiede ironico: «Come mai non gli abbiamo mai chiesto nulla prima, visto che tutti ora dicono che sapevano», a Matteo Renzi: «La sinistra radical-chic con la puzza sotto al naso prima crea i totem e poi li distrugge in un secondo. Mi fa ribrezzo questo atteggiamento».

La signora Liliane, il marito predicatore e l'assurdo diritto all'eleganza. Alla lunga lista dei diritti che la sinistra si vanta di difendere, ora ne dobbiamo aggiungere un altro, al quale, in vero, non avevamo mai pensato: quello all'eleganza. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Alla lunga lista dei diritti che la sinistra si vanta di difendere, ora ne dobbiamo aggiungere un altro, al quale, in vero, non avevamo mai pensato: quello all'eleganza. Non sappiamo se entri per direttissima nei diritti dell'uomo, di sicuro in quelli della donna. Nello specifico della signora Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, finita sotto la lente dei magistrati per presunte malversazioni e discusse cooperative e, soprattutto, finita su quotidiani, siti e rotocalchi per i suoi abiti griffati e sfarzosi. Così, il di lei marito, durante un disastroso tentativo di difendersi dalla bufera politica che si è abbattuta sulla sua famiglia, di fronte alla corte suprema di Corrado Formigli a Piazza Pulita, si è appellato al sacro e inviolabile diritto delle donne, bianche o nere, alla moda e all'eleganza. E, per carità, in tempi di sciatteria ubiqua siamo d'accordo con il novello lord Brummell sull'importanza del vestire bene. Anche se, più che un diritto, ci sembra un'opportunità. Ma sono questioni di lana caprina, non quadrupli fili di cachemire.

Epperò, con ogni evidenza, il problema è un altro. Cioè predicare povertà al limite del francescanesimo e poi razzolare male ma vestiti bene, cioè con scarpe e borse griffate. Fingersi nulla tenenti e poi avere un villino da mezzo milione di euro e un armadio da Chiara Ferragni. Non è solo una questione giudiziaria, ci penserà la magistratura a chiarire il giallo degli stipendi non corrisposti e a capire se ci sono state delle violenze. È una questione di opportunità e, ancor più, di coerenza. E il caso Soumahoro & famiglia è la rappresentazione cristallina e stupefacente di quella insopportabile doppia morale che pervade una certa sinistra che oltre a essere radical e ovviamente chic, pretende anche di avere una supremazia morale. Peggio di loro, e di gran lunga, c'è solo quel sistema mediatico e politico che li ha elevati a paradigma. E ora si nascondono pure dietro al diritto all'eleganza. Anche se più che un diritto, questo è un rovescio. Un manrovescio. Al buongusto.

Soumahoro, con il diritto all'eleganza nasce la sinistra "falce & borsetta". Pietro De Leo su il Tempo il 26 novembre 2022

Fermi tutti, il profeta fa l'update, l'aggiornamento delle proprie priorità. In questa vicenda da tragicommedia politica che riguarda la gestione presuntamente allegra della cooperativa d'accoglienza della suocera del deputato Soumahoro, quest' ultimo, alle prese con i marosi mediatici della vicenda, incappa in un apparente lapsus, che però è molto di più. È riscrittura di orizzonti, teorizzazione di nuove battaglie. Durante la rovinosa uscita televisiva a Piazza Pulita, il conduttore Corrado Formigli chiede conto al deputato dei selfie postati sui social che ritraggono la sua consorte abbigliata con griffe e borse di un certo valore. Soumahoro, candidamente, risponde: «Il diritto all'eleganza, il diritto alla moda è una libertà. La moda è semplicemente umana, non è né bianca né nera».

Già immaginiamo i volti contriti di Bonelli e Fratoianni, leader dell'alleanza che ha eletto il Nostro in Parlamento. l'uno seguace della sobrietà ambientalista, l'altro di quella del portafoglio in chiave redistributiva, tanto da esser un grande sostenitore della patrimoniale. Piantati lì, da anni. Soumahoro, invece, appena messo piede nel Palazzo, ha già fatto l'aggiornamento della propria tutela dei diritti. Non più quelli dei braccianti ad un salario dignitoso, la cui battaglia l'ha proiettato nella fama (con molti margini di dubbio sulla sua conduzione, visti gli elementi che, anche lì, stanno emergendo).

Ma il diritto della sua signora ad indossare il lusso e mostrarlo. Largo alla nuova (estrema) sinistra glamour, falce e borsetta. E siccome ogni buon rivoluzionario proietta sulla collettività il gesto politico che compie in prima persona, ci aspettiamo una serie di istanze: l'iPhone Max di cittadinanza, la fuoriserie garantita dallo Stato, il bonus-cena da Briatore. D'altronde, la strada la indicano già i social, dove Soumahoro in poche settimane è diventato da uomo-nuovo per la sinistra auomo-meme per tutti, tanto che qualche buontempone, lavorando di fotomontaggi, ha appiccicato il logo di una nota griffe sugli stivaloni di gomma con cui il Nostro ha esordito in Parlamento. D'altronde, e ora scriviamo sul serio, questi sono i contraccolpi della politica di oggi, sempre a caccia di icone, di gadget umani che abbiano un buon involucro, e chi se ne frega del contenuto. E finisce, a volte, che una risata seppellisce la farsa di imitazioni ridicole di modelli veri. «I have a dream: più yacht per tutti». È il diritto alla moda, fratello.

Stasera Italiana, Vittorio Feltri in difesa di Soumahoro: linciaggio incivile. Il Tempo il 25 novembre 2022

Il caso di Aboubakar Soumahoro ha terremotato la sinistra italiana anche se il nome del sindacalista, eletto alla Camera dei deputati con l’Alleanza Europa verde-Sinistra italiana, non è contenuto nell'inchiesta della procura di Latina che indaga sulle cooperative che fanno capo a membri della sua famiglia. Una voce che abbastanza a sorpresa si leva in favore del sindacalista paladino delle lotte dei braccianti agricoli e finito al centro delle polemiche è quella di Vittorio Feltri, intervenuto venerdì 25 novembre a Stasera Italia, il programma condotto da Barbara Palombelli su Rete 4. 

"Quello che fa mia suocera o che fa mia moglie io non lo so", afferma il direttore editoriale di Libero che attacca: "Questo signore stato linciato prima ancora di essere indagato, questo mi sembra incivile in un Paese in cui si continua a discutere della magistratura". 

Nel corso della trasmissione la conduttrice aveva sottolineato come, tra gli effetti collaterali del caso, ci sia il danno di reputazione per le persone e le associazioni che "onestamente aiutano gli immigrati". Il giornalista del Foglio Simone Canettieri pone l'accento, invece, sul fatto che questa storia è "un grande carburante per la propaganda della destra" anche grazie alla "difesa pasticciata, con delle uscite abbastanza grottesche", dello stesso Soumahoro. "Colpisce il totale silenzio di un mondo", quello delle "icone che l'avevano lanciato e protetto e che si erano anche forse coperti dietro di lui" argomenta il giornalista. 

Soumahoro, Propaganda Live: "Siamo inc*** con lui". Libero Quotidiano il 26 novembre 2022

Anche Propaganda Live scarica Aboubakar Soumahoro. Il salottino radical chic di La7, che ha contribuito a lanciare politicamente la figura del sindacalista dei braccianti immigrati nel 2018, regala uno spazio inevitabile al commento del caso della settimana, con l'inchiesta sulle coop gestite da moglie  e suocera del neo-deputato di Sinistra-verdi costretto, proprio per questo, ad auto-sospendersi. E Diego Bianchi in arte Zoro non nasconde l'amarezza per il comportamento dello stesso Soumahoro, ormai ex idolo della sinistra.  

Il leader dei verdi Bonelli aveva tirato in ballo proprio Propaganda e L'Espresso, che aveva dedicato al sindacalista una celebre copertina per contrapporlo a Matteo Salvini, Uomini e no, per motivare la scelta di candidare Soumahoro alla Camera. Come dire: con un pedigree mediatico cosi, che bisogno c'è di indagare sulle sue attività? 

Bianchi, in qualche modo, mette le mani avanti e si scagiona: "Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…". Ricordando, per altro, che il Soumahoro che loro hanno conosciuto e "lanciato" era quello che parlava con eloquio forbito ma passionale ai migranti e dei migranti, in piazza, citando diritti e denunciando angherie e soprusi. 

Poi cos'è cambiato? "Non lo stiamo scaricando - precisa Bianchi -. Ieri mi continuavano ad arrivare messaggi... Lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incaz***ti più di tutti su questa storia! Siamo inca***ti, delusi, amareggiati, non imbarazzati!". Quindi la strigliata finale: "E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong. Ma siamo inca***ti con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate".

Soumahoro, Mentana contro la sinistra: "Mollato senza alcun rimorso". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Senza mai citarlo, l'ultimo post di Enrico Mentana sembra un chiaro riferimento ad Aboubakar Soumahoro. Il deputato di Verdi-Sinistra italiana si è autosospeso dopo la pressione dei partiti, travolti indirettamente anche loro dall'indagine sulle coop di moglie e suocera di Soumahoro. "Il meccanismo - tuona il direttore del TgLa7 - è sempre uguale, nasce da uno stesso riflesso condizionato: si innalza una figura a simbolo della lotta su temi e battaglie che non ci piace né vedere né affrontare, quasi sempre nel sud non illuminato dalle fiction, la si gonfia esaltandola e lusingandola, finché invariabilmente non esplode per varie umane contraddizioni".

Poi la stoccata con ogni probabilità ad Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, leader dei rispettivi partiti, così come a tutta la sinistra: "A quel punto la si molla all'istante, e con lei - senza alcun rimorso - le sue battaglie e le piaghe che combatteva. Come fu per l'archetipo: morto Masaniello la sua gente mazziata torna nell'ombra, senza più voce. Li chiamiamo invisibili perché in fondo siamo i primi a non volerli guardare". 

L'autosospensione del sindacalista eletto in Parlamento sembra proprio una decisione quasi dovuta, arrivata dopo una spinta dei vertici dell'Alleanza di cui faceva parte. Non a caso già negli scorsi giorni si vociferava di un ripensamento da parte del numero uno dei Verdi: "Ho fatto una leggerezza". Ma non è tutto, perché Bonelli non ha mancato di puntare il dito contro il deputato: "Nel momento in cui era stato candidato, non avevamo gli elementi per capire questa situazione. Ma il tema non è giudiziario, perché lui non è indagato, è politico: avrebbe dovuto cercare un confronto con noi e informarci della situazione. Sono molto preoccupato". Da qui la decisione di lasciare a casa Soumahoro.

Marco Damilano, te la ricordi? Soumahoro, la foto che spazza via il direttore. Alessandro Gonzato Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Ops. Che figura compagni! Ci scappa da ridere, molto, ma è una risata triste, ed è un peccato. Certo, non triste come la copertina dell'Espresso del 17 giugno 2018, molto più tragica come comica, almeno per chi l'ha pensata. Titolo: "Uomini e no", come il romanzo di Elio Vittorini sulla Resistenza. L'uomo, sulla sinistra, è il sindacalista Aboubakar Soumahoro, ancora cittadino semplice, non un deputato della Repubblica. Il "no", sulla destra, è Matteo Salvini, allora neo-ministro dell'Interno. "Il cinismo", si legge sotto i due volti, "l'indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l'empatia, l'appello all'unità dei più deboli". Poi il domandone, retorico: "Voi da che parte state?".

Aboubakar paladino degli "ultimi", per Repubblica. Aboubakar strenuo difensore, forse l'ultimo, dei diritti dei neri e delle minoranze, per La7, che assieme al settimanale progressista ha costruito, elevato e idolatrato l'immagine del futuro parlamentare ivoriano con gli stivali, oggi crollata sotto i colpi di un'inchiesta giudiziaria che se al momento non lo vede indagato, fa a brandelli la narrazione portata avanti per anni da lui e dalla sinistra. 

Salvini quella copertina l'aveva criticata: «Alla faccia del giornalismo, ormai alla sinistra rimangono bugie e insulti. Mi fanno tenerezza», e aveva allegato l'emoticon di un bacio. Era il tempo dei "bacioni" inviati ad avversari politici e insultatori vari, tutti a sinistra. La replica di Marco Damilano, allora direttore dell'Espresso, era stata durissima: «Di bugie e insulti la Lega di Salvini è esperta da anni: i dati amplificati sull'immigrazione per creare la percezione di un'invasione che non c'è, il dileggio dell'avversario politico. A noi interessa reagire e rappresentare la voce di quella parte di società italiana che non si rassegna a un governo e a un politico impegnato in una campagna elettorale permanente sulla pelle dei migranti e di chi dissente. Un politico che», aveva aggiunto Damilano, «da anni discrimina tra cittadini di serie A e di serie B. Chiediamo ai lettori di giudicare chi sia l'uomo tra un ministro sicuro del suo potere politico e mediati co e un sindacalista di strada che difende i suoi fratelli e compagni». E come li ha difesi! 

Ma il "ciclone Soumahoro", dicevamo, s' è fatto sempre più potente anche grazie ad altri buonisti militanti in servizio permamente. Fabio Fazio, Roberto Saviano, Giobbe Covatta, Michela Murgia. Poi c'è il leader maximo dell'esercito, Diego Bianchi, "Zoro", il mattatore di Propaganda Live che a colpi di «Daje!» caricava il Soumahoro che guidava gli scioperi nei campi del Foggiano. Pugno chiuso e calosce. Tra le perle più pure la puntata del 22 maggio 2020, appena terminata la fase più dura della pandemia. Decine di braccianti in aperta campagna capeggiati da Aboubakar. Finisce il servizio in cui l'eroe dei due stivali viene messo a confronto col bruto Salvini il quale sollevava delle perplessità per il fatto che a scioperare fossero «dei clandestini», e Bianchi esclama: «Grazie, Aboubakar! Si batte la mano sul petto, sul cuore». Aboubakar, alla fine, lancia il grido di battaglia: «È solo l'inizio, è solo l'inizio!». Applausi dallo studio. Mah. A occhio, compagno Aboubakar, siamo più o meno alla fine. Certo, non dello stipendio da parlamentare...

La gogna e il linciaggio dei media. Soumahoro e lo scontro tra pidocchi e destrieri poco coraggiosi: la sinistra è sempre più Don Abbondio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Novembre 2022.

Mi scrive un mio amico e io trascrivo: ”Marx mise incinta la cameriera e rinnegò il bambino. Per tutta la vita ha campato coi soldi di Engels che sfruttava gli operai. Di questi tempi lo avrebbero radiato da questo sodalizio di moralisti manettari che prende il nome di sinistra. E nessuno avrebbe scritto il Capitale”. Il mio amico, naturalmente, si riferisce al processo a Aboubakar Soumahoro che si è svolto negli ultimi due giorni davanti a una giuria impersonata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, e conclusosi con le dimissioni di Soumahoro dal gruppo parlamentare (difficile pensare che siano del tutto spontanee…). Forse esagera il mio amico, anche perché è giovane.

Io che sono un po’ più vecchio ricordo processi simili a questo svolti nelle stanze di Botteghe Oscure, cioè del vecchio Pci. O di via Taurini, cioè dell’Unità, dove lavoravo. All’Unità ci fu un epico processo al più prestigioso dei suoi giornalisti. Alberto Jacoviello, accusato di maoismo (ma Mao era già morto) e che però clamorosamente si concluse con l’assoluzione, ai voti. A Botteghe Oscure invece di processi ne fecero tanti. Forse uno dei più famosi è quello ai Magnacucchi. Li chiamava spregiativamente così Gian Carlo Pajetta. Erano due deputati del Pci, Valdo Magnani e Aldo Cucchi che nel 1951 si schierarono con Tito contro Stalin. Magnani intervenne al congresso del Pci bolognese denunciando lo stalinismo, l’autoritarismo e l’idea che l’Urss fosse lo stato guida. Fu travolto dagli improperi. Si dimise da deputato e dal partito, ma il Pci lo espulse lo stesso e Togliatti tuonò: “Due pidocchi possono trovarsi anche nella criniera del più nobile destriero”. Il destriero nobile era il Pci, i pidocchi i due dissidenti.

Per fortuna i tempi sono un po’ cambiati. Non molto. I processi si fanno lo stesso però si concludono con più ipocrisia e meno violenza di una volta. Anzi con dei sorrisi e con delle soluzioni diplomatiche. La sostanza, nel nostro caso, è che la sinistra che aveva candidato Soumahoro si è rifiutata di difenderlo, pur sapendo che Soumahoro è vittima di una feroce e infame campagna di stampa e che non ha commesso nessun reato. Qual è la differenza? Allora il Pci era feroce, ma non vigliacco. La nuova sinistra è meno feroce, ma il coraggio non sa cosa sia. Assomiglia a don Abbondio, non a Cristoforo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'ipocrisia e il forcaiolismo. Il caso Soumahoro, la ricerca del colpevole e il giornalismo razzista e perbene che piace al popolo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 25 Novembre 2022

Il giornalismo pressoché unanime che non demorde e anzi insiste, anzi rivendica la doverosità della propria missione informativa, anzi mena vanto della propria oggettività investigativa, e indispettito tratta da fessi i pochi, pochissimi che hanno preso le difese di Aboubakar Soumahoro, quel giornalismo alla ricerca postuma delle prove che giustificherebbero il previo linciaggio, può rigirarla come vuole questa frittata: ma resta preparata con l’ingrediente razzista che qui abbiamo denunciato, ed era questo a renderla tanto appetibile per il pubblico in frenesia alimentare cui era offerta.

Le indagini, le vociferazioni, i testimoni d’accusa, le requisitorie a petto in fuori contro il migrante arricchito che fa carne di porco dei principi che agitava per chiedere soldi e voti, i capi d’imputazione moraleggiante venuti su come fungaie intorno all’impalcatura dell’accusa che – per carità – non ha nulla a che fare con il colore della pelle, e semmai in modo ineccepibilmente equanime chiede conto di vicende che avrebbe identicamente rinfacciato a qualsiasi persona bianca e dabbene, non destituiscono ma confermano la matrice discriminatoria e razzista (sì, lo ripetiamo: razzista) di quell’accanimento. Questo parlamentare con la colpa di un eloquio migliore rispetto a quello di chi lo giudica, questo “ivoriano talentuoso”, come l’ha chiamato un noto giornalista di certificata appartenenza di sinistra, ciò che a dire di certuni garantirebbe l’impeccabilità civile dell’investigazione, questo finto paladino dei derelitti che in realtà fa maltrattare dalla moglie, una riccastra griffata che egli non ripudia pubblicamente, diventa nel giro di ventiquattro ore il simbolo della crudeltà contro i migranti e i lavoratori, due categorie notoriamente care al cuore e alle attenzioni di quelli che gli rinfacciano le lacrime finte su Instagram, il social dove lui frigna e la consorte posta fotografie da triangolo della moda.

E questo del pianto, e della motivazione teatrale che l’avrebbe inscenato, è un profilo tutt’altro che trascurabile della vicenda. Perché quell’uomo appartiene a un rango che fino a pochissimo tempo fa era schiavo, e che ancora oggi, e anche qui da noi (o vogliamo negarlo?), è oggetto di sopraffazione, di violenza, di razzismo, appunto. E tutti dovrebbero intenerirsi, non incattivirsi, vedendo un nero che piange e dice “Che cosa vi ho fatto?”. E nessuno dovrebbe ricorrere all’argomento falso e fuorviante secondo cui bisogna guardare solo ai comportamenti, ciò per cui va trattato “come chiunque altro, bianco giallo o nero” (questa è la solita giustificazione del razzista). Perché un nero, ancora oggi e anche qui da noi, non è affatto “come chiunque altro”: un nero, ancora oggi e anche qui da noi, è per molti un “negro”. E non mi si dica che ci sono anche quelli che lo hanno massacrato, sì, ma per ragioni che non c’entrano nulla col razzismo. Perché questo importa molto poco. Quel che importa è che altri (tanti) lo hanno invece massacrato proprio per quel motivo. E senza che i primi, gli equanimi, abbiano mostrato di farsene un problema.

Ma se sei in un collegio giudicante che vuole sbattere in galera l’imputato perché è uno sporco negro, tu non è che ti assolvi argomentando che però in effetti quello ha commesso l’illecito e che tu solo per questo, per l’illecito, non per il colore della pelle, vuoi condannarlo. Se dalla piazza monta la voglia di forca per il negro, tu hai il dovere di occuparti di quella, non della moglie che però a ben guardare qualche mastruzzo l’ha fatto. Ma per chiudere, tornando al merito: io non ho mai sentito parlar tanto di migranti maltrattati e lavoratori sfruttati, mai ho letto tanto di ingiustizia e soperchierie ai danni degli emarginati, mai ho visto un giornalismo così solerte nel raccogliere le prove di tanto degrado, di tanta umiliazione, di tanta disumanità in pregiudizio dei diseredati, come da quando l’Italia cristiana e democratica ha trovato nella vita e nella famiglia di un uomo nero la causa di tutto quell’abominio. Iuri Maria Prado 

La caccia al deputato. Quello che è successo ad Aboubakar Soumahoro è forca, non buon giornalismo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

Io capisco che questa osservazione possa provocare dispetto, ma se un esercito di giornalisti si mette a difesa dei diritti dei migranti a far tempo dal 25 Settembre del 2022, e ci si mette esercitandosi nell’investigazione della marca delle mutande della trisnonna di Aboubakar Soumahoro e nello scrutinio morale del guardaroba della moglie, allora osservo che c’è qualcosa che non fila per il verso giusto. O, per meglio dire, osservo che tutto fila per il solito verso sbagliato che fa emettere al ministro delle Ruspe, Matteo Salvini, la sua requisitoria contro la “zingaraccia”.

Il solito verso sbagliato che fa dire a un noto oligarca democratico, non casualmente ammiratissimo a destra, che “tra Covid e immigrazione c’è una correlazione evidente”, che è il modo progressista per dire che i negri portano le malattie, con il rincalzo del punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti, l’avvocato Conte, secondo il quale “non possiamo tollerare che arrivano dei migranti addirittura positivi e vadino in giro liberamente”. Dove lo sfregio non sta nella macellazione dell’italiano, ma nella riproposizione del modulo discriminatorio che porta a rastrellare gli infetti su base etnica.

Che il caso Soumahoro esploda in questo Paese, cioè il Paese che fu alleato di quelli che assassinavano a centinaia di migliaia gli “zingaracci” su cui fa comizio un ministro della Repubblica, e dove i neri stanno in cosiddetti centri di accoglienza concepiti come strutture detentive forse non per colpa esclusiva della suocera di Soumahoro, oppure a raccogliere ortaggi nelle piantagioni schiaviste forse non per responsabilità concentrata nella cerchia familiare dell’ex bracciante che si è permesso di diventare deputato, e ora è convenuto a “chiedere scusa” a reti unificate, a me pare non proprio tranquillizzante e non proprio il segno dell’equanimità simulata dal giornalismo che, figurarsi, indaga perché ci sono le notizie, non certo perché c’è un nero da bastonare.

Così come è equanime e solo rivolto alla giustizia, solo rivolto a soddisfare la giusta esigenza di informazione dei cittadini, darsi alla militanza social o al titolone sullo stupro sottolineando che il criminale è magrebino, è immigrato, è clandestino, cosa che notoriamente si ripete per ogni stupro con analoga titolazione se lo stupratore è biellese o di Comacchio. Ed è normale, in questo Paese, normalissimo, che su un illustre quotidiano si racconti degli “africani senza biglietto”, com’è normale che se lo fai notare, come ho fatto l’altro giorno durante una trasmissione televisiva, una deputata pensi bene di spiegare che certo, perché quelli, i neri, non pagano il biglietto, mentre i bianchi sì. Ed ero io ad aver detto l’enormità, e cioè che in un Paese civile non ci si lascia andare a certi spropositi: io, mica quella parlamentare che ha ripetuto con un’esattezza stupefacente la fine teoria secondo cui non è che noi siamo razzisti, sono loro che sono negri.

Non so se sia il caso di compiacersi o dolersi del fatto che alcuni abbiano ritenuto di condividere e manifestare l’impressione che le cose stiano in questo modo, e cioè che quel che è successo a Soumahoro ha molto poco a che fare con la ricerca della verità e con le purezze della missione informativa, e piuttosto denuncia la solita voglia di forca ma arricchita di un evidentissimo pregiudizio razziale e classista. A parte questo giornale, il cui spazio mi capita di usurpare nel capitale difetto del titolo di giornalista, c’è stato Paolo Mieli, che ha avuto la cortesia di riconoscere alla nostra denuncia qualche indizio di fondatezza, e poi Vittorio Feltri, forse non casualmente sprovveduto del tesserino dell’Ordine fascista dei giornalisti.

È tanto, e vale il compiacimento, perché significa che non proprio tutti i plenipotenziari dell’informazione sono rimasti inerti davanti al linciaggio. Ma è poco, e vale la doglianza, perché quelle voci contrarie non sarebbero necessarie in un Paese che va per il verso giusto, quello che lo mantiene a un livello decente di civiltà. Iuri Maria Prado

Quantomeno si prepari meglio le risposte. Soumahoro e il “diritto alla moda” della moglie: va bene il garantismo ma le sue risposte fanno sorridere. Hoara Borselli su Il Riformista il  25 Novembre 2022

Non si placa il dibattito intorno a Soumahoro, il sindacalista che, ricorderete tutti, si era presentato alla camera con gli stivali infangati per empatizzare con i lavoratori, deputato di Sinistra italiana e Europa Verde, viene ospitato nei talk show come uomo di punta. Per quale motivo? Perché la Procura ha aperto un’indagine nei confronti della moglie e della suocera ree (ovviamente il garantismo è d’obbligo, sono solo indagini) di gestire le loro due cooperative – che si occupavano di migranti – sicuramente non in modo limpido.

Questo è l’appunto che viene fatto, stanno uscendo giornalmente testimonianze da parte di questi lavoratori, un egiziano diciottenne ha rilasciato un’intervista al Corriere dove ha detto: “Stavamo veramente male, non avevamo nemmeno gli abiti per lavorare“. Sicuramente una situazione a cui Soumhaoro è chiamato a rispondere. Ieri sera si è presentato davanti alle telecamere a Piazza Pulita e Formigli ha cercato di incalzarlo, di fargli più domande possibili. C’è un fatto che ha colto un po’ l’attenzione di tutti, riguardo al fatto del lusso ostentato dalla moglie, che si presentata sul suo profilo Instagram in abiti molto lussuosi, tanto che i giornali hanno ironizzato dicendo che la Ferragni sembrava una dilettante al confronto.

Borse da 4-5mila euro, borse di Gucci, Fendi, Prada, insomma, è stato chiesto a Soumahoro: “Non pensa che questo lusso ostentato da sua moglie possa stridere con la sua immagine di lotta alla povertà?“. La risposta è stata questa: “Quello che fa mia moglie è il diritto alla moda”. Ora, noi sappiamo che c’erano diritti, quali alla salute, allo studio, al lavoro. Ora abbiamo scoperto che esiste anche il diritto alla moda. Ora, si cerca di ironizzare, non voglio mettere alla gogna una persona (c’è un’indagine in corso), vero è, però, che se Soumahoro oggi ha la possibilità di presentarsi davanti alle telecamere, parlare con la stampa per rispondere della situazione, quantomeno si prepari meglio le risposte, perché “diritto alla moda” fa piuttosto sorridere.

Hoara Borselli. Inizio la mia carriera artistica come una delle protagoniste della fortunata "soap opera" CENTOVETRINE per essere poi chiamata dal Cinema a rivestire il ruolo di protagonista nel film PANAREA. Il grande successo è arrivato con la trasmissione BALLANDO CON LE STELLE, vincendo la prima edizione. Ho proseguito partecipando alle tre edizioni successive. Da lì il ruolo da protagonista nella tournèe teatrale la febbre del sabato sera, dove ho calcato, a ritmo di "sold out", tutti i più grandi teatri italiani. A seguire sono stata chiamata come co-conduttrice e prima ballerina nel programma CASA SALEMME SHOW, quattro prime serate su Rai1. In seguito ho affiancato Fabrizio Frizzi nella conduzione della NOTTE DEGLI OSCAR, poi Massimo Giletti nella conduzione di GUARDA CHE LUNA sempre su Rai1. Poi ho condotto il Reportage di MISS ITALIA. Sono stata protagonista della fiction televisiva PROVACI ANCORA PROF, otto puntate in prima serata su Rai1 e TESTIMONIAL di importanti aziende di vari settori.

Soumahoro, "otto sacchi neri nell'immondizia": cosa c'è lì dentro? Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

C'è qualcosa che non torna nella storia di Soumahoro. Il parlamentare della sinistra è stato travolto dall'inchiesta che riguarda i suoi familiari e adesso avrebbe annunciato la sospensione da Sinistra Italiana e Verdi. Ma secondo quanto riportato dal Corriere, proprio in questi giorni sarebbe accaduto qualcosa di strano. Di fatto protagonista di questa storia nella storia è un passante che avrebbe notato qualcosa di strano davanti alla struttura gestita dai familiari di Soumahoro. A quanto pare proprio subito dopo l'esplosione dell'inchiesta sarebbero scomparsi alcuni documenti. O meglio, sarebbero stati gettati tra i rifiuti.  

E proprio un passante, sempre come racconta il Corriere, avrebbe notato otto sacchi neri pieni di fascicoli e di carte che riguardano gli immigrati accolti. Subito dopo è scattata la segnalazione ai carabinieri che hanno subito sequestrato tutto. Il passante è stato insospettito da quel via vai proprio sotto le cooperative riconducibili a Maria Therese. Il comando provinciale dei carabinieri di Latina si è mosso rapidamente recuperando quei sacchi neri.

Cosa hanno da nascondere i familiari di Soumahoro e perché quella pulizia improvvisa e tempestiva? Tutte domande a cui l'inchiesta potrebbe dare delle risposte. Intanto Soumahoro si autosospeso e ha definito una "leggerezza" tutta questa storia intervenendo a PiazzaPulita da Formigli. Di certo bisognerà attendere ancora qualche settimane per avere un quadro chiaro delle indagini. Ma di certo in questo momento la suocera risulta indagata per "malversazione". Tegole su tegole che stanno distruggendo la credibilità politica di Soumahoro. 

Clemente Pistilli per “la Repubblica – ed. Roma” il 26 novembre 2022.

[…] Mentre i dipendenti della Karibu e del Consorzio Aid continuavano a reclamare invano stipendi arretrati anche di due anni e nelle strutture per i minorenni provenienti dal Maghreb sarebbero mancati sia cibo che acqua, quest' anno le due coop di Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo hanno ottenuto 557mila euro dalla Regione Lazio. Altre vicende al vaglio della Procura della Repubblica di Latina. 

[…] La Karibu ha ottenuto 259mila euro « per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa » e Consorzio Aid 298mila euro per i «bisogni degli ucraini per il sostegno socio-lavorativo». Una vicenda sempre più complessa. Tanto che ieri il procuratore capo Giuseppe De Falco ha ribadito che le indagini sono in corso «con riferimento a temi investigativi diversi e complessi, che concernono l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'erario, con i dipendenti e con i soggetti coinvolti »

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 26 novembre 2022.

Nella sede della Karibu e del Consorzio Aid, guidati da Marie Therese Mukamitsindo, ormai non si vede più nessuno da giorni. Gli amministratori sono spariti. Giovedì verso le 12 compare, però, una signora bionda. È ucraina. Fa la mediatrice culturale. «Mi hanno dato appuntamento a mezzogiorno e mezzo, ma non c'è nessuno». La signora lavora qui da due mesi. «Vengo qui ogni tanto». Chi la paga? «Le cooperative. Ma a me hanno dato solo un piccolo acconto». Alla Karibu sono arrivate cifre ben più consistenti di un anticipo. Per esempio, nel 2022, le cooperative della suocera di Aboubakar Soumahoro hanno percepito 557.300,48 euro (provenienti da fondi Ue destinati a «inclusione sociale e lotta alla povertà») dalla Regione Lazio per l'accoglienza dei profughi provenienti dall'Ucraina per sfuggir dalla guerra. La determinazione dirigenziale numero G04199 del 6 aprile scorso infatti ha approvato il progetto Icarus, acronimo di «Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa», presentato dalla Karibu e finanziato per 259.000 euro. Anche il progetto Bussola (I bisogni degli ucraini e delle ucraine per il sostegno socio lavorativo) della Aid è rientrato tra quelli scelti dall'ente guidato da Nicola Zingaretti, portando a casa 298.300,48 euro. Ma questa è solo una piccola fetta di quanto incassato. 

È lungo l'elenco delle «esperienze» su cui può contare la coop Karibu: ben 23 progetti finanziati tra il 2004 e il 2021 per un valore complessivo di 62.251.803 euro. 

Quelli più corposi sono stati approvati dal ministero dell'Interno, (ma ne compaiono alcuni della presidenza del Consiglio dei ministri e della Regione Lazio). Come uno per l'accoglienza, i servizi per l'alloggio, la tutela socio-legale, l'aiuto psicologico, l'assistenza e l'orientamento legale. Per rendere autonomi i richiedenti protezione internazionale ospitati nei Cas, i Centri d'accoglienza straordinaria, il ministero dell'Interno ha sborsato, tramite la prefettura, 25 milioni spalmati su sei anni: dal 2013 al 2019.

Ma ce ne sono anche un paio da 15 milioni di euro (30 complessivi). Uno per l'accoglienza, l'integrazione sociale, lavorativa e culturale per lo Sprar di Sezze (Latina), della durata di 15 anni (dal 2004 al 2019). E l'altro, sempre da 15 milioni di euro, per lo Sprar di Roccagorga (Latina), anche questo della durata di 15 anni (2004-2019). Le altre operazioni che Karibu ha portato all'incasso vanno dall'insegnamento delle prassi normative per fare impresa e creare startup all'aiuto psicologico, fino all'assistenza e alla mediazione per il contrasto al fenomeno del caporalato. Ovvero il cavallo di battaglia di Aboubakar. 

I dati sono contenuti in un documento del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del ministero dell'Interno, col quale la Karibu si è candidata a un ennesimo bando, finanziato dal Fondo asilo, migrazione e integrazione, elencando proprio le corpose esperienze pregresse (ma anche i partner: Anci Lazio, associazione Address, università Luiss e Osservatorio economico per lo sviluppo della cultura manageriale d'impresa).

La misura che faceva gola a Karibu era denominata Perseo (l'eroe della mitologia greca che uccise Medusa) e aveva come finalità il «potenziamento del sistema d'accoglienza». Il ministero chiedeva di sviluppare «percorsi individuali per l'autonomia socio-economica» dei richiedenti asilo. E Karibu ha presentato il suo progetto: «Orientamento all'inclusione socio lavorativa dei titolari di protezione internazionale». 

Il costo? 2.135.705 euro per soli 21 mesi. Ma non basta. In una relazione depositata alla Camera dei deputati e relativa al triennio 2018-2020, vengono citati 5.080.261,63 euro andati alla Karibu per «Cas adulti». Non sappiamo se la cifra sia compresa nei 62,5 milioni di progetti indicati dalla coop nel documento inviato al Viminale. A questo tesoretto vanno aggiunti anche i 157.680 euro l'anno per tre anni provenienti dall'otto per mille Irpef, erogati tra il 2019 e il 2021 dalla presidenza del Consiglio dei ministri per il progetto «Koala», relativo all'assistenza lavorativa e abitativa ai rifugiati nella provincia di Latina. In totale alla Karibu sono andati 473.040 euro.

Intanto a fari spenti la Procura di Latina porta avanti le indagini. Ieri il procuratore Giuseppe De Falco ha diffuso un comunicato per descrivere lo stato dell'arte: «Le indagini sono in corso con riferimento a temi investigativi diversi e complessi, che concernono, in generale, l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'Erario, i rapporti con i dipendenti, i soggetti coinvolti». Altro non è dato sapere per ovvi motivi di segretezza delle indagini. 

Ma anche da queste poche parole è possibile capire qualcosa in più. Innanzitutto c'è il riferimento al fascicolo aperto nel 2019 (il procedimento penale 2129/19) che riguarda «l'impiego dei fondi erogati». Se ne parlava già in una segnalazione all'Antiriciclaggio del 12 febbraio 2021. In quel momento aveva preso vigore l'indagine aperta dopo un intervento della polizia e che era partita con ipotesi di sfruttamento. Invece l'anno scorso l'indagine aveva iniziato a puntare sull'uso distorto di fondi pubblici. Per questo alcune fonti hanno riferito alla Verità e all'Ansa che l'accusa è di malversazione di erogazioni pubbliche.

Ma, ieri, fonti giudiziarie ci hanno spiegato che le investigazioni sono in corso e che la qualificazione giuridica del reato potrebbe essere cambiata rispetto alle prime ipotesi. Che cosa significa? 

Che agli indagati potrebbe essere contestata anche una fattispecie diversa, ma che colpisce comportamenti simili, come la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Ma si tratta di distinzioni più adatte ai cultori del diritto. Il cuore della questione non cambia.

La novità è che è stato aperto un nuovo fascicolo per i «buffi» nei confronti del fisco (la Karibu ha segnato nel bilancio 2021 debiti tributari per 933.240 euro e altri 120.951 euro sono stati segnati come «quota scadente oltre esercizio»). A questi denari bisogna aggiungere i debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale (106.905 euro). 

Gli inquirenti stanno indagando anche sui reati collegati ai rapporti con i dipendenti (si tratta probabilmente di un ulteriore procedimento), fattispecie che non concernono i mancati pagamenti, materia da risolvere con l'ispettorato del lavoro e il tribunale civile. 

I «soggetti coinvolti» sono, invece, gli indagati. In un primo momento si parlava solo della Mukamitsindo (la suocera del deputato), ma a quanto risulta alla Verità gli accertamenti sono stati estesi anche agli altri due membri del cda della Karibu, ovvero a Michel Rukundo e Liliane Murekatete, entrambi figli della Mukamitsindo. Ulteriori approfondimenti riguarderebbero anche altri due loro fratelli, Aline Mutesi e Richard Mutangana.

La prima risulta presidente del consorzio Aid, mentre il secondo, ex direttore dei progetti di Karibu, ha gestito, come rivelato dalla Verità, un cospicuo flusso di denaro (segnalato all'Antiriciclaggio) con il Ruanda. Mutangana ha aperto a Kigali, in un resort, un ristorante di cucina italiana e dai conti correnti, che gestiva in Italia ,partivano fondi per la Karibu Rwa, società che si occuperebbe di organizzare safari e di noleggiare fuoristrada.

Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti Serena Riformato per “La Stampa” il 26 novembre 2022.

Diluvia sul bagnato. La vicenda di Aboubakar Soumahoro si fa ogni giorno più pesante. Sul fronte giudiziario, con la procura di Latina che sta indagando su «temi diversi e complessi» riguardo alle due cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie. Su quello politico, scaricato di fatto dai Verdi («Le sue risposte non sono sufficienti») e casus belli di una guerra interna a Sinistra Italiana, dove un gruppo di dirigenti chiede al segretario Nicola Fratoianni di «assumersi interamente la responsabilità della candidatura». 

[...] Angelo Bonelli, leader dei Verdi, lo scarica: «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute». Sinistra italiana si divide. Una decina di dirigenti ha scritto una lettera chiedendo a «chi ha scelto di candidarlo, di assumere su di sé per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto».

Destinatario è il segretario Nicola Fratoianni, accusato di essere «perfettamente a conoscenza», e «da molto tempo prima della prima della candidatura», dei fatti che riguardano Soumahoro. Fratoianni, ospite di Metropolis, parla di «un'accusa infamante, che contesto. Se qualcuno mi avesse messo a parte di indicazioni di reato sarei andato in procura. Che sulla figura si Aboubakar ci fossero punti di vista diversi, dentro una storia di conflitti, questo sì, ma di questo parliamo»

La villetta di "Lady Gucci" tra le bocche cucite. Viaggio a Casal Palocco, dove Liliane ha acquistato l'immobile da 450mila euro. Francesco Curridori il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Abiti firmati, borse griffate e una villetta da 450mila euro. Liliane Murekatete, conosciuta anche come «Lady Gucci», è finita nei guai insieme a sua madre per la gestione poco chiara di due cooperative di migranti. E nei guai ha messo anche suo marito, Aboubakar Soumahoro, che continua a difenderla rivendicando per lei «il diritto alla moda e all'eleganza». Un diritto che la donna ostentava anche a Casal Palocco, nella periferia Sud di Roma dove ha acquistato una villetta a schiera su due piani, ben prima che il marito venisse eletto in Parlamento.

Nelle vie principali di questo quartiere residenziale in pochi sanno chi sia Soumahoro. O fingono di non saperlo per evitare le domande dei giornalisti che in questi giorni hanno preso d'assalto Casal Palocco. «Ho scoperto oggi, sfogliando i giornali, che questo deputato abita in zona», dice un edicolante della via principale del quartiere. Chi, invece, ha conosciuto bene «Lady Gucci» è uno dei vari agenti immobiliare a cui la donna si era rivolta per l'acquisto della villetta. «È una bellissima donna, garbata e molto elegante. Da buona cattolica, non mancava mai di esprimere la sua devozione a Dio», confida l'esperto che conferma l'elevato valore di quell'immobile. «Una casa, di due o tre piani, in quella zona di Casal Palocco si aggira intorno a quel prezzo», dice. L'abitazione, infatti, è una villetta a schiera situata in una strada tranquilla dove i vicini di casa non ne possono più del via vai continuo dei cronisti. «Vedo una persona di colore, ma non so chi sia», taglia corto un anziano signore. «Scusate, ma noi abitiamo qui da poco e non conosciamo nessuno», risponde una coppia che abita in un palazzo che si trova di fronte alla villetta dei Soumahoro. «Sì, abitano qui, ma non rilascio dichiarazioni perché non amo questo tiro al bersaglio anche se riguarda un parlamentare», commenta uno dei pochi vicini di casa che si ferma a parlare, rigorosamente a taccuini chiusi. Il dirimpettaio conferma, ma rivela: «Sì, sì la casa di Soumahoro è questa.

Oggi, però, non abbiamo visto nessuno. Le tapparelle sono abbassate e, secondo me, non ci sono. Avranno voluto evitare l'assalto dei giornalisti». Soumahoro, che nei giorni scorsi si è autosospeso dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana pur non essendo indagato, non risponde al telefono. Impossibile, dunque, avere una sua dichiarazione, ma d'altra parte ha già esposto la sua versione dei fatti da Corrado Formigli, lasciando perplessi anche coloro che lo hanno candidato. «Credo che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire ed è quello che noi gli abbiamo chiesto di fare. Nel merito, punto per punto, nell'interesse suo, di chi lo ha votato e della dimensione collettiva di cui fa parte», ha detto Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione», ha detto il leader dei Verdi, Angelo Bonelli. Soumahoro, l'ex sindacalista famoso per le sue lotte in difesa dei migranti e per aver esordito in Parlamento con le scarpe sporche di fango in segno di vicinanza ai più deboli, ora è costretto a difendere la sua posizione di privilegiato.

Bianca Leonardi per "il Giornale" il 26 novembre 2022.

Indagini blindate quelle sulle coop della cricca Soumahoro, al centro dell'inchiesta di Latina che vede, per adesso, come unica indagata la suocera dell'onorevole, Marie Therese Mukamitsindo. Ora spuntano però i debiti erariali - e quindi una presunta evasione fiscale - emersa dal bilancio 2020 della Karibu. Bilancio di cui ilGiornale è entrato in possesso. 

Il totale ammonta a poco più di 2 milioni di euro. Tra le voci più sostanziose spiccano i debiti verso le banche, pari a circa 590mila euro, e quelli tributari che si conquistano il primo posto. Sono quasi 774mila euro, infatti, le imposte mai pagate nei confronti della tesoreria di Stato. Oltre ad altri 232mila euro di debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale.

In sintesi, quindi, la cooperativa della famiglia Soumahoro non solo non retribuiva i dipendenti, faceva vivere i migranti in ambienti che «manco i cani» - come ha affermato l'ex senatrice di Sinistra Italiana Elena Fattori - ma nemmeno pagava le tasse, né versava i contributi a quei lavoratori che da 22 mesi non vedono un euro. 

Sulla questione, il procuratore Giuseppe De Falco non si sbilancia e in una nota condivisa afferma solo che «le indagini sono in corso con riferimento a temi investigativi diversi e complessi che concernono, in generale, l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'erario, i rapporti con i dipendenti e i soggetti coinvolti». 

Da sottolineare, però, è che le indagini della procura di Latina nei confronti dell'associazione erano iniziate nel 2019, cioè già un anno prima del bilancio che rivela i debiti e svela una perdita consistente da parte della cooperativa. «Il risultato netto accertato dall'organo amministrativo relativo all'esercizio chiuso al 31 dicembre 2020, come anche evidente dalla lettura del bilancio, risulta essere negativo per euro 171.292 euro», scrive il revisore unico incaricato, Marco Liistro nella relazione data 21 giugno 2021.

Ed è proprio il presidente della coop, la suocera di Aboubakar Soumahoro, a giustificare - o quantomeno spiegare - il motivo di tale andamento. Marie Therese Mukamitsindo, sempre nel bilancio, non fa riferimento né agli stipendi non erogati, né ai milioni di debiti, ma punta il dito contro il Covid. «Essendo un'attività assistenziale per gli immigrati è continuata anche durante il lockdown, ma al tempo stesso gli sbarchi sul territorio nazionale sono diminuiti drasticamente», sostiene. 

Meno immigrati, meno lavoro insomma. E ancora: «La perdita dell'esercizio è stata anche aggravata dal fatto che non si è potuto licenziare il personale non necessario, né tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione».

In realtà, il bilancio sottolinea che la cooperativa ha ricevuto più di 112mila euro a fondo perduto per la gestione della pandemia. Eppure lei stessa ha affermato solo pochi giorni fa in un'intervista a Repubblica di essere stata malissimo a causa dei licenziamenti che ha dovuto effettuare.

Intanto Soumahoro sostiene di aver saputo solo di alcuni «ritardi dei finanziamenti da parte degli enti», come aveva detto la moglie. Sembrerebbe proprio, però, che nel pieno della sua attività sindacale non solo sia stato «leggero» - come lui stesso ha affermato - ma non si sia reso conto di quella nave che stava affondando proprio dentro la sua casa e lo stava facendo sulla pelle di tutti coloro per cui si è battuto una vita: gli ultimi.

Soumahoro, spunta un nuovo filone dell’inchiesta: il caso dei fondi anti-caporalato. Virginia Piccolillo e Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Il progetto regionale, la coop della suocera e le accuse sui compensi. Fratoianni (Sinistra italiana): «Non sapevo di illeciti»

Si chiamava PerLa. Era un progetto contro il caporalato. La Karibu, gestita da lady Soumahoro e sua madre Maria Therese Mukamitsindo, era fra le cooperative che dovevano, con fondi regionali, sottrarre i migranti agli sfruttatori. Ma alla fine la suocera del deputato di Verdi e Sinistra italiana, ora autosospeso, non pagò chi aveva lavorato a quel progetto. Dovette intervenire il sindacato per un accordo. È la più paradossale delle storie che emergono dalle carte dall’inchiesta di Latina sulle malversazioni della presidente delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Una vicenda in cui benefattori e caporali si scambiano di ruolo. È scritta in un verbale di accordo firmato da Maria Therese che attesta come l’imprenditrice abbia ammesso di non aver pagato a un lavoratore le mensilità dovute per il progetto PerLa, né quelle per lavori precedenti né il Tfr.

La vittima di quella mancata retribuzione la racconta al Corriere chiedendo l’anonimato per paura di ritorsioni. «Ho lavorato al progetto PerLa come mediatore linguistico. Era bello. Aiutava chi, come me, era arrivato in Italia cercando lavoro e trovando gente che si approfittava. Io ero già alla Karibu dal 2017. Il progetto è durato altri 4 mesi. Poi è finito. Ma i soldi non me li davano. Mi dicevano che c’erano ritardi. Che mi avrebbero pagato al più presto. Ma non è mai avvenuto: mi sono rivolto al sindacato Uiltucs e dopo mesi, nel luglio scorso, siamo arrivati a un accordo. Spero sia rispettato».

Tra le vittime di mancate retribuzioni anche Aline. Che ricorda con rabbia: «Del resort in Ruanda venimmo a sapere nel 2018, quando si registrò un grave ritardo nei pagamenti. Avevo lavorato in varie strutture tra il 2015 e il 2021. Ma dall’inizio gli stipendi sono stati erogati irregolarmente. E quando saltavano non veniva dato neanche il pocket money ai migranti, creando spesso momenti di tensione». Lei ricorda il ruolo attivo, anche in questo, della moglie di Soumahoro, Liliane. «Alla fine noi dipendenti ci rivolgemmo ai sindacati, Anche la Karibu contattò l’Usb per tentare una mediazione. La nostra protesta venne messa subito a tacere. Ma il fatto che non pagassero i lavoratori era noto a tutti. Anche all’Usb». Sindacato del quale faceva parte Soumahoro, prima di passare alla Lega Braccianti e inaugurare una sede a Latina. Dove? Presso il Consorzio Aid.

Sarà la Procura di Latina a chiarire responsabilità penali dietro quel giro vorticoso giro di bandi, progetti, Cas, affitti, da oltre 60 milioni di euro. Sulle responsabilità politiche invece è bufera. Nicola Fratoianni, che mise in lista Soumahoro, respinge la richiesta dei dirigenti pugliesi del suo partito di «assumersi per intero la responsabilità politica» di quella candidatura da loro contestata. E dice: «Ci sono ancora zone d’ombra da chiarire, ma non mi pento». E la segreteria di Si aggiunge: «Chi sapeva perché non ha informato i pm?».

FdI, con il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, attacca: «Desta sconcerto e ripugnanza ciò che emerge dalle indagini sul clan Soumahoro. Un sistema di gestione dell’accoglienza che si configura, a volte, con scenari da associazione a delinquere». E per il ministro della Difesa Guido Crosetto «il tema non è Soumahoro ma le migliaia di persone sfruttate nell’ indifferenza, utilizzando sistemi “legali”, come alcune cooperative».

“Soumahoro? Fratoianni sapeva tutto”. Da Sinistra Italiana inguaiano il leader.  Il Tempo il 26 novembre 2022

Elena Fattori, militante di Sinistra Italiana ed ex parlamentare, ha firmato insieme altri dieci dirigenti del partito (tra cui Silvia Prodi, nipote dell'ex premier Romano) un documento indirizzato alla leadership per la scelta delle candidature del partito dopo il caso di Aboubakar Soumahoro. Fattori ha poi rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui mette nel mirino proprio Nicola Fratoianni, numero uno di SI: “Si è scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche. Di quelle storie sulle cooperative si sapeva tutto. La dirigenza di Sinistra Italiana sapeva, li avevo avvisati io. Ho visitato la cooperativa Karibu durante un giro di centri per richiedenti asilo che ho fatto quando ero con il Movimento 5 Stelle. Non sapevo nemmeno che fosse tenuta dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita. Era sporca, fatiscente, c’era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male. Ne ho viste tante di strutture ma quella è la peggiore, in mezzo al nulla com’era”.

“Ne parlai - ammette Fattori - anche con Fratoianni. Non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D’altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico. Era appena comparso su una copertina di un settimanale come futuro leader della sinistra. Nessuno è andato a vedere quali sono le sue proposte sul caporalato, sull’accoglienza pubblica, sulle cooperative. Lo hanno cercato per la candidatura sapendo chi era”.

Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 26 novembre 2022.

Non è pentito di averlo candidato in Parlamento: Aboubakar Soumahoro era l'icona perfetta per il messaggio che l'alleanza Verdi-Si intendeva trasmettere, quello di una sinistra ecologista attenta ai migranti, agli sfruttati, agli ultimi. 

Ma certo Nicola Fratoianni fatica a nascondere l'imbarazzo e il malumore provocati dall'inchiesta che ha coinvolto suocera e moglie del leader dei braccianti. Come non bastasse, due dirigenti del suo partito l'accusano pure di aver ignorato le denunce sul neodeputato arrivate dai campi del Foggiano. «Ma nessuno mi aveva mai parlato di ipotesi di reato», si difende il segretario di Si.

Onorevole, le spiegazioni di Aboubakar vi hanno convinto?

«Sino a un certo punto. Credo che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire ed è quello che noi gli abbiamo chiesto di fare. Nel merito, punto per punto, nell'interesse suo, di chi lo ha votato e della dimensione collettiva di cui fa parte». 

[…] «A ridosso della campagna elettorale mi fu raccontato dalla senatrice Fattori di una sua ispezione, fatta credo nel 2019, in una cooperativa di Latina in cui erano state riscontrate situazioni non positive. Mi disse che circolavano strane voci e io le chiesi se ci fossero elementi di certezza rispetto a queste voci. Elementi che non arrivarono. Perciò decidemmo di procedere con la candidatura, avanzata da Europa verde, che poi valutammo insieme di sostenere». 

[…] Due dirigenti di Sinistra italiana sostengono però di averla avvertita che anche lui poteva essere invischiato in qualcosa di torbido ed era meglio fermarsi.

«Assolutamente no, nessuno mi ha mai parlato di sfruttamento o lavoro nero, se fosse accaduto avrei posto il problema. Attorno a Soumahoro, come capita a tanti personaggi pubblici, c'erano giudizi positivi ma anche polemiche riguardo a un suo eccessivo protagonismo personale nelle lotte sui migranti. Ma, ripeto, mai nessuno mi ha posto questioni di natura penale come quelle che stanno emergendo a Latina, a carico della sua famiglia». 

[…] Lo avete candidato perché era diventato un personaggio vezzeggiato dai media?

«La sua era una candidatura che aveva la forza di consolidare alcune tematiche - la lotta al caporalato, lo sfruttamento dei migranti - che per noi sono centrali. Non stiamo parlando di un partito che non se ne è mai occupato e ricorre al talent show per coprirsi su un punto sensibile per l'opinione pubblica. Io da assessore in Puglia sono stato il primo a portare l'acqua potabile in quei campi». 

Si è pentito?

«No perché la scelta è stata fatta pensando che quei temi, quelle battaglie, sono essenziali per una forza come la nostra. E lo penso anche oggi. Sebbene non mi sfugga che il problema adesso è come sostenere e proteggere le lotte e le ragioni di chi quotidianamente le porta avanti dalle ripercussioni di questa vicenda. Ragioni e lotte che restano al centro della nostra iniziativa politica». 

Basta l'autosospensione dal gruppo o deve dimettersi dal Parlamento?

«Autosospendersi è stato giusto, il resto dipende da lui».

Soumahoro, dirigenti di Sinistra Italiana: dubbi espressi ma Fratoianni non lo scarichi.

È quanto si legge in una nota sottoscritta da 10 componenti della direzione nazionale di Sinistra italiana sul caso del deputato Soumahoro. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022.

«Alcuni componenti pugliesi della Direzione e dell’assemblea nazionale di Sinistra italiana hanno inviato al segretario nazionale Nicola Fratoianni una nota con la quale ricordano, con dovizia di particolari, le ragioni per le quali, a tempo debito, avevano sostenuto l’inopportunità della candidatura di Aboubakar Soumahoro. Non le ripercorriamo nel dettaglio perché non intendiamo prendere parte al linciaggio mediatico in corso, che ha ormai largamente superato il merito degli addebiti politici che gli sono rivolti. Chi ha scelto di candidarlo non può oggi scaricarlo con lo stesso disinvolto cinismo che lo ha indotto ieri a sfruttarne in termini elettorali la popolarità».

E’ quanto si legge in una nota sottoscritta da 10 componenti della direzione nazionale di Sinistra italiana sul caso del deputato Soumahoro e riferendosi (senza citarlo) al segretario Fratoianni. Sono Edoardo Biancardi, Stefano Ciccone, Elena Fattori, Sandro Fucito, Claudio Grassi, Alessia Petraglia, Serena Pillozzi, Antonio Placido, Silvia Prodi, Roberto Sconciaforni.

«Chi ha scelto di candidarlo ha prodotto un immenso danno di immagine a Sinistra italiana - proseguono - a quanti si battono tutti i giorni contro la piaga del caporalato, a chi è impegnato con correttezza e generosità nel settore dell’accoglienza. È bene quindi che assuma su di sé per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto, convocando una apposita riunione della Assemblea nazionale di Sinistra italiana».

«La segreteria nazionale di Sinistra italiana non era a conoscenza di notizie che configurassero condotte illecite o di indubbia gravità a carico delle cooperative riconducibili ai familiari di Aboubakar Soumahoro prima della sua candidatura. Chi lo afferma mente e cerca di strumentalizzare a fini politici un caso che sta amareggiando ogni cittadino di sinistra, noi per primi. Per questo respingiamo categoricamente ogni strumentale illazione: lo sciacallaggio a posteriori è sempre un brutto spettacolo, e noi non abbiamo intenzione di partecipare. Chi sostiene di aver sempre saputo, dovrebbe chiedere a se stesso come mai non ha informato i cittadini o la magistratura prima delle elezioni». E' quanto si legge in una nota della segreteria nazionale di Sinistra italiana sul caso Soumahoro.

"Fratoianni credeva che lui portasse voti..." Il filosofo: "I partiti sono ormai comitati elettorali con obiettivi di brevissimo periodo". Francesco Boezi il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Il caso Soumahoro impone alla sinistra l'ennesima domanda sulla selezione della classe dirigente. Per il professor Massimo Cacciari, il problema è strutturale e non riguarda soltanto una parte.

L'ennesimo paladino di sinistra che viene messo in discussione. Siamo alla figurina che si sgonfia?

«Guardi, io non so se Soumahoro sia una figurina. Non ho idea di chi sia questo signore e di cosa abbia fatto. Può accadere un caso poco chiaro anche nel miglior partito del mondo, in una situazione politica perfetta. Un ragionamento politico - in nessun caso - può essere declinato su una persona o su un gruppo composto da qualche persona. C'è un ragionamento di sistema da fare, semmai».

Ossia?

«Non c'è più nessuna struttura politica organizzata, nel senso che si intendeva una volta e nel senso proprio del termine. E cioè non c'è nessuna forza politica con un processo di selezione interno che abbia una sua logica e una sua forma. I partiti ormai sono gruppi di persone che hanno un solo obiettivo: sfangarsela alle elezioni prossime venture. Stanno diventando comitati elettorali, e questo vale per tutti».

Però la destra italiana ha una storia militante divenuta vincente da poco. La sinistra non più.

«Secondo me sono soltanto impressioni. Fdi due anni fa aveva il 4%. Condizioni straordinarie hanno condotto quel partito a dov'è ora. Questi voti di adesso sono scritti sulla sabbia, perché nessuna forza politica ha una strategia di lungo periodo in grado di costruire gruppi solidi e stabili».

Che consiglio darebbe però a sinistra.

«A sinistra, a destra... Cosa vuol dire? Sono concetti evaporati. Tutte le forze inseguono i voti. E di volta in volta i partiti assumono i tratti che ritengono utili per raggiungere obiettivi di brevissimo periodo. La sinistra a cui mancano i voti del centro diventa di centro, la destra a cui mancavano i voti delle periferie diventa popolare e così via. In base a che cosa? L'utilità di brevissimo periodo, quella ottenuta mediante la modifica dell'immagine, nient'altro che l'immagine».

E questo stato di salute può interessare anche la scelta delle candidature, come con Soumahoro? Bonelli e Fratoianni sembrano pentiti...

«Ma cosa vuole che pensi Fratoianni! Fratoianni è l'ultimo esponente di uno di questi comitati elettorali, un po' Pd un po' di sinistra, che, quando ci sono le elezioni va a caccia di voti, e avrà pensato che questo personaggio gli portasse dei voti. Punto».

Considerato il quadro che descrive, cosa dobbiamo aspettarci in prospettiva?

«Dobbiamo attendere qualche mutamento radicale. Ormai è evidente che viviamo in una crisi di sistema che riguarda tutti gli assetti del nostro Stato. Anche quelli che sembravano più lontani dalla crisi come ad esempio la magistratura. Dobbiamo attenderci dei mutamenti di Stato che possono avvenire in modo governato, se i partiti capiscono in che condizione si trovano e si rapportano alla società civile in modo serio e responsabile, e riformando i propri ceti dirigenti. Oppure ci sarà qualche rottura traumatica. E questo vale per l'Italia ma anche per l'Europa».

Il caso Soumahoro. “Soumahoro candidato per superare soglia 3% e poi scaricato: la sinistra indecisa e spaccata su tutto”, parla Costa di Azione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Novembre 2022

Enrico Costa è vicepresidente di Azione, per la quale si occupa di giustizia, ed è presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera. Nei governi Renzi e Gentiloni era ministro per gli Affari regionali e si era occupato di quell’abuso del diritto che è diventato l’abuso d’ufficio.

Questo governo sembra intenzionato a cambiarlo davvero.

E sarebbe ora. Perché con la paura della firma, la pioggia di abusi d’ufficio per gli amministratori locali e la Severino che colpisce e affonda chi viene indagato, di fatto la Pubblica amministrazione ha le mani legate. E quando qualche anno fa proposi di depenalizzare questa fattispecie, venne da me un giurista che mi disse: l’abuso d’ufficio non si può aggiustare, va cancellato e basta”.

Si abbatte, non si cambia. Chi era quel giurista?

Carlo Nordio. Mi ricordo quella conversazione del 2016: ‘Il reato di abuso d’ufficio non è riformabile, va eliminato perché è un mostro giuridico’. Aveva ragione, e glielo voglio ricordare adesso che è nella condizione di farlo.

Il ministro della giustizia è un ponte tra centrodestra e Terzo polo. E sulla manovra, porterete le vostre idee a Giorgia Meloni. È un soccorso?

Nordio è un galantuomo, ha idee che sposo da sempre al 100%. Al governo, che deve tirare l’Italia fuori dalle secche, vogliamo dire che secondo noi sono praticabili alcune strade. Abbiamo preparato una manovra-ombra, una controproposta di legge di bilancio. Non per aiutare Meloni. Per aiutare l’Italia, semmai. Vogliamo provare a fare opposizione costruttiva.

Azione e Italia Viva, insieme. Vi unirete?

Azione ha approvato sabato scorso il mandato per attuare la federazione con Italia Viva e altri soggetti che ne condividono i valori. È il primo passo per arrivare ad un partito unitario che metta insieme riformisti e liberali in una struttura diversa dalle coalizioni forzate. Partiamo con l’8% ma presto vedrete che diventeremo il primo partito.

Quando il centrodestra di governo avrà deluso. Da lì verranno nuovi consensi?

Non stiamo a indovinare da dove verranno. Verranno. Perché sempre più cittadini stanchi della vecchia politica si avvicinano a noi. Qualcuno da destra, altri da sinistra. E tutti quelli che non votavano più. Le indecisioni del Pd sono parte della nostra forza, perché noi abbiamo le idee chiarissime su tutto. Loro sono indecisi e spaccati su tutto.

Lei si è battuto molto sulla presunzione di innocenza. Forse andrebbe usata anche in politica, per Aboubakar Soumahoro.

Un caso imbarazzante e rivelatorio. Il suo partito l’ha usato come testimonial per superare la soglia del 3%, ora, appena aleggia qualche ombra giudiziaria l’hanno scaricato. I processi vanno fatti nelle aule di giustizia, non sui giornali. Io penso che Soumahoro possa avere tutte le responsabilità di questo mondo ma non possano essere sentenze dei giornali, e oggi ancor più quelle dei social network, a decidere.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

DAGONOTA il 26 novembre 2022.

Ora, dopo Zoro di Propaganda che si è arrampicato sugli specchi sul caso Soumahoro citando pure papa Francesco (nome usato a sproposito e destra e a sinistra, soprattutto nelle arrampicate sugli specchi) aspettiamo fidenti Damilano: è il primo che ha lanciato Soumahoro. Dandogli pure una rubrica fissa sull’Espresso. 

Su Raitre dove ogni sera fa lezioni morali ammorbando i telespettatori che aspettano "Un Posto al sole", finora non ha detto una parola sul suo eroe di carta. Né sulla copertina dell’Espresso più male invecchiata della storia. Farà ancora lo gnorri o chiederà venia?

Da liberoquotidiano.it il 26 novembre 2022.

Anche Propaganda Live scarica Aboubakar Soumahoro. Il salottino radical chic di La7, che ha contribuito a lanciare politicamente la figura del sindacalista dei braccianti immigrati nel 2018, regala uno spazio inevitabile al commento del caso della settimana, con l'inchiesta sulle coop gestite da moglie  e suocera del neo-deputato di Sinistra-verdi costretto, proprio per questo, ad auto-sospendersi. E Diego Bianchi in arte Zoro non nasconde l'amarezza per il comportamento dello stesso Soumahoro, ormai ex idolo della sinistra. 

Il leader dei verdi Bonelli aveva tirato in ballo proprio Propaganda e L'Espresso, che aveva dedicato al sindacalista una celebre copertina per contrapporlo a Matteo Salvini, Uomini e no, per motivare la scelta di candidare Soumahoro alla Camera. Come dire: con un pedigree mediatico cosi, che bisogno c'è di indagare sulle sue attività?

Bianchi, in qualche modo, mette le mani avanti e si scagiona: "Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…". Ricordando, per altro, che il Soumahoro che loro hanno conosciuto e "lanciato" era quello che parlava con eloquio forbito ma passionale ai migranti e dei migranti, in piazza, citando diritti e denunciando angherie e soprusi.

Poi cos'è cambiato? "Non lo stiamo scaricando - precisa Bianchi -. Ieri mi continuavano ad arrivare messaggi... Lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incaz***ti più di tutti su questa storia! Siamo inca***ti, delusi, amareggiati, non imbarazzati!". Quindi la strigliata finale: "E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong. 

Ma siamo inca***ti con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate".

"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro. Il conduttore di Propaganda Live mette le mani avanti: "Non siamo imbarazzati, stiamo parlando di una persona che ha incontrato il Papa". Luca Sablone il 26 novembre 2022 su Il Giornale.

Il caso Aboubakar Soumahoro continua a mandare in tilt la sinistra. A confermare la soggezione è l'atteggiamento del fronte rosso, che nel giro di poche settimane è passato dal considerare il deputato eletto con i Verdi e Sinistra italiana il potenziale leader progressista al silenzio assordante sugli ultimi sviluppi. La vicenda è stata affrontata anche nell'ultima puntata di Propaganda Live, programma in onda su La7. Il conduttore Diego Bianchi ha usato delle attenuanti per non affossare del tutto l'amico Soumahoro.

L'imbarazzo sul caso Soumahoro

Nel corso della trasmissione Zoro ha voluto trattare il caso dell'italo-ivoriano riconoscendo che nel primo mese di attività parlamentare ha portato a casa un risultato: "È stato uno dei pochissimi che, formalmente e nei contenuti, l'opposizione l'ha fatta con la Meloni ma soprattutto sulle Ong". E ha ricordato che l'attivista era presente al porto di Catania per protestare contro la decisione del governo italiano di consentire lo sbarco solo ai migranti che si trovavano in condizioni di salute precaria.

"Deve chiarire. Noi siamo incazzati più di tutti su questa cosa. Non siamo imbarazzati, l'imbarazzo è l'ultimo dei sentimenti. Siamo incazzati, delusi, amareggiati", ha ammesso Bianchi. Che però, arrampicandosi sugli specchi, ha indicato una sorta di attenuante per non scaraventarsi completamente contro il deputato che porta il timbro di Verdi e Sinistra italiana: "Ha incontrato tutti i leader di sinistra. Vi faccio vedere quello con il leader più di sinistra di tutti". E, mostrando una foto con Papa Francesco, ha aggiunto: "Stiamo parlando di questo fenomeno, stiamo parlando di questo calibro qua".

Il "ruolo" di Propaganda Live

In molti ritengono che la bufera mediatica per certi versi abbia toccato anche Propaganda Live, visto che spesso ha raccontato le azioni del sindacalista e si è rivelata essere una vetrina da cui Soumahoro ha ottenuto visibilità politica. Zoro ha voluto chiarire che l'intento non è quello di lasciare solo l'italo-ivoriano e ha respinto al mittente le accuse di aver creato il personaggio: "Noi non lo stiamo scaricando. Non vorrei sbagliarmi: lui su questo palco è salito due o tre volte: due sicuro, sulla terza ho già qualche dubbio. Da quello che leggo sembra che tutte le settimane stesse qua".

In sostanza il conduttore del programma ritiene che non abbia nulla di cui scusarsi e che non sia la causa per cui Verdi e Sinistra italiana hanno deciso di candidare Soumahoro. Tuttavia, come ha fatto notare Maurizio Gasparri di Forza Italia, la cassa di risonanza è stata evidente: "E ora chiederai scusa per aver creato il personaggio Soumahoro a Propaganda Live? Racconterai il lusso della moglie e le mille opacità che anche la Cgil rileva? O farai finta di nulla? Un po' di vergogna no?".

Estratto dell’articolo di Giorgia Iovane per tvblog.it il 26 novembre 2022.

Propaganda Live ha ‘affrontato’ il caso Aboubakar Soumahoro nella settimana che ha visto il neo-deputato di Sinistra Italiana al centro di una bufera mediatica e politica legata ad indagini sulla condotta di una cooperativa della suocera, accusata – tra l’altro – di non pagare i propri dipendenti. 

Un caso che non vede il sindacalista indagato, ma che è stato condito da foto social della moglie con beni di lusso che hanno alimentato sospetti e accuse. Una settimana di minacciate denunce e di lacrime su Instagram da parte del deputato di SI, che sono sfociate nell’intervista live a PiazzaPulita, che non ha convinto nessuno.

Neanche Diego Bianchi e la squadra di Propaganda Live che ha raccontato le azioni del sindacalista Soumahoro, che gli ha dato certo visibilità, che per qualcuno ha creato il personaggio. Ed è proprio partendo da un tweet di Gasparri in cui chiama in ‘correità’ lui e il programma che Diego Bianchi apre la pagina a lui dedicata.

Una pagina tesa, un fiume in piena. Si avverte tutto il nervosismo di Bianchi contro tutti, in fondo: contro la Destra – di cui sottolinea però la capacità di stare compatti anche di fronte a Ruby nipote di Mubarak – che però si è lasciata scappare l’occasione di scoprire gli scheletri del neodeputato; contro la Sinistra, che lo ha scaricato in un nanosecondo; in fondo sembra ce l’abbia anche un po’ con se stesso per aver sottovalutato alcuni rumors che arrivavano dalla Puglia, da Latina, dai report che sono arrivati da membri del PD, oggi impegnati a specificare che certe decisioni sono state prese da altri, all’insaputa di tutti.

Al di là della vicenda politica, si sente tutta l’amarezza e la delusione, anche il nervosismo di Bianchi nel rispondere, di fatto, al ‘convitato di pietra cui il tweet di Gasparri dà voce. La sintesi del blocco è che non ha nulla di cui scusarsi: il succo è che in tanti hanno sottovalutato le voci che arrivavano, che Soumahoro ha fatto il proprio percorso a prescindere dal programma, che lo ha ospitato in studio 2 o al massimo 3 volte e che non è colpa sua se un partito decide di candidare qualcuno perché andato a Propaganda, perché arrivata in copertina sull’Espresso di Damilano, perché ospite a Che Tempo Che Fa. Come se questi fossero i principi di garanzia sufficienti per una candidatura, come bollino di garanzia che però non è bastato. 

“Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco… stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…” dice Bianchi, sottolineando che Propaganda ha una prevalente funzione di racconto, più che di investigazione. E proprio per questo ci tiene a riproporre il filmato della prima volta in cui incrociò Aboubakar, nella Piana di Gioia Tauro, all’inizio del giugno 2018, quando il Governo Conte 1 aveva appena giurato, quando il neoministro dell’Interno Salvini aveva detto che per i migranti era “finita la pacchia”, quando i braccianti protestavano per la morte di Soumayla Sacko, “ucciso da un italiano” – ricorda Zoro – perché sorpreso a rubare delle lamiere con cui costruire una capanna che non rischiasse di andare a fuoco come successo non molto tempo prima ad altri braccianti. Quel primo intervento pubblico, immortalato da Zoro sul posto, svelò un uomo dalla proprietà di linguaggio impressionante per la media nazionale -intesa come autoctona – e una presenza politica notevole. Da lì l’ospitata a Propaganda e l’attenzione dei media.

“Non lo stiamo scaricando” dice Diego Bianchi, ma quantomeno per adesso se ne prende le distanze in attesa di capire, in attesa che Abou chiarisca la propria posizione. 

“Sì, ieri mi continuavano ad arrivare messaggi… lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incazzati più di tutti su questa storia! Siamo incazzati, delusi, amareggiati, non imbarazzati!” dice tutto di un fiato Bianchi in questo lungo segmento che sembra fatto con un’unica presa di fiato tante sono le cose da dire, tanto è difficile la posizione di dover dividere tra ‘personaggio’ e ‘battaglia’. 

Perché se c’è un motivo per cui Bianchi è incazz@to è che questa storia, come spiega, ha offerto il fianco per colpire il vero bersaglio, ovvero quel che Soumahoro ha rappresentato e rappresenta. Perché, ricorda il conduttore, il sindacalista ha condotto battaglie sul campo, era stato proprio due settimane fa a Catania per seguire la vicenda del blocco della Geo Barents e dello sbarco selettivo che ne è seguito – al centro degli ultimi due reportage di Zoro.

“E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong […] ma siamo incazzati con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate”.

Questa storia, insomma, rischia di minare anche la credibilità del programma e immaginiamo che questa sia un’altra delle ragioni della rabbia di Bianchi e dell’intera squadra. Ecco perché si è tornati all’origine, a come tutto era iniziato, a Soumayla Sacko, il cui volto campeggia sulla maglia di Zoro. Si è partiti da quello, si è partiti dal racconto di condizioni disumane. E il racconto di Propaganda Live vuole ripartire da lì.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 26 novembre 2022.

Nel giugno 2018 L’Espresso, organo ufficiale dei picchiatori mediatici, fece una copertina - che riproduciamo su questa prima pagina affiancando la foto di Soumahoro, allora astro nascente della sinistra, a quella di Salvini, allora ministro degli Interni. Il titolo era: "Uomini e no", ovviamente con la parola "uomini" sotto l'immigrato vip e il "no" appiccicato al leader della Lega.

Sono passati quattro anni e siccome il tempo è galantuomo oggi possiamo sostenere con ragionevole certezza che quella copertina aveva sì un senso ma a parti inverse: a sfruttare e umiliare gli immigrati, cioè nei codici dell'Espresso il "non uomo", era Soumahoro, la sua famiglia e il suo mondo mentre "l'uomo" era Salvini che con la sua politica di controllo dei flussi ha salvato - lo dicono i numeri - centinaia di immigrati da morte certa scoraggiandone la partenza verso l'Italia e altrettanti ancora oggi ne soccorre e salva in mare.

Sapendo che L'Espresso non lo farà mai pubblichiamo noi oggi la copertina riparatrice, ma non per gioco. La questione infatti è molto seria e riguarda l'ostinazione della sinistra e dei suoi cantori a non voler riscrivere la storia, e neanche la cronaca, neppure di fronte all'evidenza dei fatti. 

Per certi versi li capisco: farlo significherebbe ammettere che il comunismo è stato ed è una tragedia da qualsiasi parte uno giri la questione e che ancora oggi le sue ricette politiche e sociali - vedi quella sull'immigrazione - sono totalmente fallimentari. Soumahoro non è un corpo estraneo alla sinistra, un incidente di percorso come si dice in gergo.

No, Soumahoro con le sue ambiguità, furbizie e con la sua ipocrisia è la sinistra, magari un utile idiota della sinistra salottiera alla quale, diciamocelo con franchezza, gli immigrati fanno schifo, ma pur sempre pedina di quella scacchiera su cui poi i Saviano fanno milioni e di decine di giornalisti - tra i quali l'allora direttore de L'Espresso Marco Damilano, oggi star di Rai3 - campano alla grande. Fate pure, noi ci teniamo stretto con orgoglio "l'uomo" Matteo Salvini, che lui, a differenza di chi lo odia e prova a farlo passare per razzista, agli immigrati non ha mai torto un capello

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.

Elena Fattori, a cosa mirate con quel documento che lei ha firmato con una decina di dirigenti di Sinistra italiana?

«Chiediamo che ci si interroghi sul futuro. Di come vengono scelte le candidature dopo il caso di Aboubakar Soumahoro». 

Cosa si è sbagliato secondo lei con l'ex sindacalista ivoriano?

«Si è scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche».

Si riferisce al caso che ne è venuto fuori? Le inchieste sulle cooperative della sua famiglia?

«Appunto, bisogna riflettere su come vengono scelte le candidature: di quelle storie si sapeva tutto». 

Si sapeva tutto? Che cosa? Chi sapeva?

«La dirigenza di Sinistra italiana sapeva, li avevo avvisati io».

 Come faceva lei a sapere?

«Ho visitato la cooperativa Karibu durante un giro di centri per richiedenti asilo che ho fatto quando ero con i Cinque Stelle. Non sapevo nemmeno che fosse gestita dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita». 

In che stato ha trovato la cooperativa?

«Era sporca, fatiscente, c'era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male. Ne ho viste tante di strutture ma quella è stata la peggiore, in mezzo al nulla com' era. Per questo segnalai la struttura anche all'allora sottosegretario all'Interno Gaetti».

Ne parlò anche con Nicola Fratoianni?

«Sì certo».

 E lui?

«Non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D'altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico. Era appena comparso su una copertina di un settimanale come futuro leader della sinistra. Purtroppo nessuno è voluto entrare nel merito delle sue proposte». 

Cosa intende?

«Nessuno è andato a vedere quali sono le sue proposte sul caporalato, sull'accoglienza pubblica, sulle cooperative. Lui per esempio è contrario alla legge 199 sul caporalato, io personalmente sono invece a favore. Non è un dettaglio per chi della lotta al caporalato ha fondato le sue battaglie». 

Aboubakar Soumahoro si è autosospeso, voi che avete firmato il documento vorreste anche che fosse espulso?

«E a cosa serve ora? È già in Parlamento. E poi sarebbe ipocrita: lo hanno cercato per la candidatura sapendo chi era».

Pensa che si dovrebbe dimettere da deputato?

«Lui non è indagato. Sono storie che riguardano la sua famiglia. Se andassimo a vedere tutti gli scheletri nell'armadio dei parlamentari si dovrebbe dimettere mezzo Parlamento». 

Lei conosce Soumahoro?

«L'ho conosciuto durante alcune battaglie che abbiamo fatto insieme contro i decreti sicurezza». 

In questi giorni lo ha sentito?

«No. È da quando ho fatto la visita alla cooperativa di sua suocera che non l'ho più visto. Mi sembrava imbarazzante la situazione che si era creata. Non ho più voluto fare battaglie insieme a lui». 

E con Fratoianni in questi giorni ha parlato?

 «No».

Grazia Longo per “La Stampa” il 27 novembre 2022.

Un'altra tegola si abbatte sulle cooperative dell'agro pontino gestite dai familiari del deputato Aboubakar Soumahoro. Non solo non retribuivano i lavoratori né versavano i loro contributi, non solo non pagavano le tasse, ma addirittura non saldavano l'affitto delle varie case dove ospitavano i migranti adulti e quelli minorenni. 

Sono decine gli appartamenti utilizzati dalle due coop Karibu e Consorzio Aid, gestiti da Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo, rispettivamente suocera, moglie e cognato di Soumahoro. E adesso emerge che molti titolari degli immobili non ricevevano il regolare pagamento dell'affitto.

Sia nel Comune di Sezze sia in quello di Latina. Proprio in quest' ultimo c'è il proprietario di una casa che aspetta ancora di ricevere 30 mila euro. Anche in questo caso, come per i 26 dipendenti in attesa dello stipendio per un totale di 400 mila euro, le persone in credito con le due coop per gli affitti si sono rivolte al sindacato Uiltucs che per primo ha denunciato le anomalie di Karibu e Aid. Le due coop hanno ricevuto in 20 anni 65 milioni di euro per il business dell'assistenza a profughi e richiedenti asilo. 

Ma negli ultimi due anni hanno smesso di pagare dipendenti e fornitori. Il fenomeno si estende a macchia d'olio e ogni giorno che passa s' impone un problema nuovo.

«Alcune persone si sono già rivolte a noi per chiedere aiuto sul fronte affitti - conferma il segretario Uiltucs di Latina Gianfranco Cartisano -. Più passano le settimane e più ci rendiamo conto che oltre ai lavoratori defraudati c'è tutto un mondo del tessuto locale con problemi nei confronti delle due cooperative. Ultima, in ordine di tempo, è proprio la questione degli affitti non pagati».

Oltre ai dipendenti che reclamano fino a 22 mensilità, hanno sollecitato l'intervento della Uiltucs anche diversi minori extracomunitari che hanno segnalato difficili condizioni di vita nelle case: sono stati costretti a vivere senza acqua e senza luce e spesso non ricevevano neppure pasti regolari e vestiti. Al momento questo aspetto del maltrattamento dei minori non è oggetto di indagine della Procura di Latina che non ha ricevuto denunce in merito, ma non è escluso che gli inquirenti vogliano monitorare questo filone. Vanno invece avanti le due tranche di inchiesta in collaborazione con la guardia di finanza (la suocera del deputato eletto nelle fila di Alleanza Verdi-Sinistra è indagata per malversazione) e con i carabinieri che procedono per distruzione e occultamento di documenti contabili (al momento non ci sono indagati).

Parallelamente alla vicenda giudiziaria c'è poi la bufera politica che ha già indotto Aboubakar Soumahoro, ex sindacalista fondatore della Lega dei braccianti, ad autosospendersi dal gruppo di Alleanza Verdi-Sinistra. Ma c'è chi ne chiede le dimissioni dal Parlamento. 

Come il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli di Fratelli d'Italia che incalza: «Se il sindacalista è diventato deputato in virtù delle battaglie a difesa dei braccianti neri, le dimissioni da parlamentare sarebbero il minimo. La sua autosospensione dal partito è ben poca cosa». E il ministro della Difesa Guido Crosetto su Twitter chiosa: «Il tema non è Soumahoro. Il tema sono le migliaia di persone che ogni giorno vengono sfruttate nell'assoluta indifferenza, spesso utilizzando sistemi formalmente "legali", come alcune cooperative. Una concorrenza tra poveri e derelitti, per comprimere i salari verso il basso».-

Michele Marangon per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.

Si chiamava PerLa . Era un progetto contro il caporalato. La Karibu, gestita da lady Soumahoro e sua madre Maria Therese Mukamitsindo, era fra le cooperative che dovevano, con fondi regionali, sottrarre i migranti agli sfruttatori. 

Ma alla fine la suocera del deputato di Verdi e Sinistra italiana, ora autosospeso, non pagò chi aveva lavorato a quel progetto. Dovette intervenire il sindacato per un accordo. 

È la più paradossale delle storie che emergono dalle carte dall'inchiesta di Latina sulle presunte malversazioni della presidente delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Una vicenda in cui benefattori e caporali si scambiano di ruolo. È scritta in un verbale di accordo firmato da Maria Therese che attesta come l'imprenditrice abbia ammesso di non aver pagato a un lavoratore le mensilità dovute per il progetto PerLa , né quelle per lavori precedenti, né il Tfr.

La vittima di quella mancata retribuzione la racconta al Corriere chiedendo l'anonimato per paura di ritorsioni. «Ho lavorato al progetto PerLa come mediatore linguistico. Era bello. Aiutava chi, come me, era arrivato in Italia cercando lavoro e trovando gente che si approfittava. Io ero già alla Karibu dal 2017. Il progetto è durato altri 4 mesi. 

Poi è finito. Ma i soldi non me li davano. Mi dicevano che c'erano ritardi. Che mi avrebbero pagato al più presto. Ma non è mai avvenuto: mi sono rivolto al sindacato Uiltucs e dopo mesi, nel luglio scorso, siamo arrivati a un accordo.

Spero sia rispettato». 

Tra le vittime di mancate retribuzioni anche Aline. Che ricorda con rabbia: «Del resort in Ruanda venimmo a sapere nel 2018, quando si registrò un grave ritardo nei pagamenti. Avevo lavorato in varie strutture tra il 2015 e il 2021. 

Ma dall'inizio gli stipendi sono stati erogati irregolarmente. E quando saltavano non veniva dato neanche il pocket money ai migranti, creando spesso momenti di tensione». 

Lei ricorda il ruolo attivo, anche in questo, della moglie di Soumahoro, Liliane. «Alla fine noi dipendenti ci rivolgemmo ai sindacati, Anche la Karibu contattò l'Usb per tentare una mediazione. La nostra protesta venne messa subito a tacere. Ma il fatto che non pagassero i lavoratori era noto a tutti. Anche all'Usb». Sindacato del quale faceva parte Soumahoro, prima di passare alla Lega Braccianti e inaugurare una sede a Latina. Dove? Presso il Consorzio Aid.

Sarà la Procura di Latina a chiarire responsabilità penali dietro quel giro vorticoso di bandi, progetti, Cas, affitti, da oltre 60 milioni di euro. Sulle responsabilità politiche invece è bufera. Nicola Fratoianni, che mise in lista Soumahoro, respinge la richiesta dei dirigenti pugliesi del suo partito di «assumersi per intero la responsabilità politica» di quella candidatura da loro contestata. E dice: «Ci sono ancora zone d'ombra da chiarire, ma non mi pento». E la segreteria di Si aggiunge: «Chi sapeva perché non ha informato i pm?». FdI, con il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, attacca: «Desta sconcerto e ripugnanza ciò che emerge dalle indagini sul clan Soumahoro. Un sistema di gestione dell'accoglienza che si configura, a volte, con scenari da associazione a delinquere». E per il ministro della Difesa Guido Crosetto «il tema non è Soumahoro ma le migliaia di persone sfruttate nell'indifferenza, utilizzando sistemi "legali", come alcune cooperative».

Da open.online il 27 novembre 2022.

«Un cortocircuito problematico». Così il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, definisce il caso Soumahoro che vede il deputato Aboubakar al centro del dibattito pubblico a seguito dell’apertura dell’inchiesta di Latina su presunte violazioni dei diritti dei lavoratori da parte di Marie Thérèse Mukamitsindo e Liliana Murekatete, rispettivamente sua suocera e sua moglie. 

Così come l’esponente dei Verdi Angelo Bonelli, anche Fratoianni torna a ribadire di non pentirsi della candidatura di Soumahoro. A Mezz’ora In Più conferma che all’epoca venne avvisato, ma che di fronte alla richiesta di ulteriori spiegazioni non era stato tratteggiato alcun profilo illecito.

«Se qualcuno trova profili illeciti ha il dovere di dirlo alla procura, non c’è stato seguito e siamo andati avanti sulla candidatura», dice il segretario di SI, secondo il quale il tutto avrebbe avuto origine in questioni più politiche che giudiziarie. «C’è uno scontro politico che da anni si sviluppa in particolare nel foggiano su quel fronte ma non mi furono segnalati elementi di un profilo problematico. Quelle questioni riguardano le dinamiche politiche e non erano sufficienti per decidere di non mettere in campo una candidatura». 

Bonelli: «C’è una destra che specula»

Anche Bonelli ritiene che, al momento, il caso Soumahoro sia prettamente politico. «Il 10 agosto 2022 abbiamo presentato la candidatura di Aboubakar e le liste sono state presentate il 21 agosto successivo. Se qualcuno doveva segnalare un profilo illecito poteva farlo», premette per poi specificare che nessuno aveva posto il problema.

 «Era una personalità molto sostenuta dal mondo della cultura che ha fatto delle battaglie anche molto importanti, ora fare un processo ex post non è corretto: dire “potevate sapere” non è corretto perché chi sapeva doveva dirlo e non intervenire successivamente per dire “ah ma è un personaggio particolare”», spiega Bonelli. A suo dire, è fondamentale sottolineare che in tutto questo «c’è una destra che specula». E conclude dicendo: «Vivo con grande turbamento questa fase in cui c’è una questione di opportunità politica e siamo chiamati a essere estremamente rigorosi».

Da liberoquotidiano.it il 27 novembre 2022.

Don Andrea Pupilla aveva scritto a Nicola Fratoianni per sconsigliare la candidatura di Aboubakar Soumahoro. Il prete ci aveva visto lungo, dato il caso che è poi scoppiato sulla cooperativa gestita dalla moglie e dalla suocera che è finita sotto inchiesta. Il deputato non è direttamente coinvolto, ma in ogni caso la sua immagine è ormai rovinata. “È un personaggio mediatico - ha dichiarato don Andrea a Il Giorno - un grande comunicatore”.

“Però vista da qui, da San Severo - ha aggiunto - la situazione è diversa da come la descrive lui. Soumahoro non è mai andato con gli stivali nel fango, se non per farci dei video da postare sul web”. Dalla provincia di Foggia, il responsabile della Caritas locale ha svelato di aver scritto in privato a Fratoianni di stare attento: “Quando è stato candidato, ho inviato una mail all’onorevole, dicendogli che stava facendo un autogol. Ma naturalmente non mi ha risposto: evidentemente ha prevalso il racconto virtuale del leader di una nuova sinistra”.

Fratoianni ha comune difeso la sua scelta: “Non mi rimprovero di averlo candidato, non è stato un esercizio da talent show per coprire un buco su un tema di cui non ci siamo mai occupati, quello della difesa degli sfruttati. Di questi temi ci siamo occupati sempre”. Don Andrea ha però rincarato la dose: “L'attività di Soumahoro nei campi del foggiano è stata solo virtuale e tesa unicamente ad accendere fuochi polemici. La Caritas è stata attaccata, ma venire a sapere dell'inchiesta sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera mi ha amareggiato”.

Daniele Dell'orco per “Libero quotidiano” il 27 novembre 2022.

Nella psicoanalisi, quello della rimozione è il più noto e immediato meccanismo di difesa dagli effetti di un trauma. Come quello che per la sinistra da qualche giorno di nome fa Aboubakar e di cognome Soumahoro. L'onorevole Soumahoro. Dopo essere stato idolatrato per anni da un fronte compatto e straordinariamente influente fatto di autori tv, direttori di testate e segretari di partito, con l'esplosione del caso-coop gestite dalla famiglia dell'ex sindacalista dei braccianti su cui indaga la procura di Latina i suoi sponsor sono spariti più o meno tutti. Hanno rimosso. 

Fratoianni e Bonelli, che gli hanno permesso di approdare in Parlamento con gli stivali di gomma, hanno accettato la sua autosospensione dal gruppo Verdi-Si (e secondo alcuni membri del partito avrebbero ignorato le varie segnalazioni arrivate negli ultimi 3 anni). Altri, come Diego Bianchi, in arte Zoro, si sono in qualche modo autoassolti.

A Propaganda Live, il programma di La7 che ha sancito l'ascesa pubblica di Soumahoro grazie al duo Bianchi-Makkox, per scagionarsi hanno chiamato in causa persino il Papa: «Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata...».

Poi, ribaltando la situazione, hanno sostenuto di essere loro le vittime, i primi traditi, quelli a cui Soumahoro deve delle spiegazioni: «Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incazzati più di tutti su questa storia! Siamo incazzati, delusi, amareggiati, non imbarazzati!». 

Magari le spiegazioni bastava chiedergliele prima di eleggerlo a Papa Nero. Ma del resto, come si fa a provare imbarazzo con quella faccia tosta? Ancora più barbina la figura di Marco Damilano, il mentore di Soumahoro. Il suo silenzio è, sì, allo stesso tempo imbarazzante e imbarazzato. 

A Soumahoro riservò una rubrica fissa sull'Espresso e gli dedicò la celebre prima pagina del settimanale ai tempi in cui Matteo Salvini era Ministro dell'Interno. Quell'Uomini e no che a distanza di tre anni andrebbe rovesciato di netto. Su Raitre, dove ogni sera pontifica nel suo programma Il cavallo e la torre, Damilano non ha ancora detto una parola sul caso Soumahoro, che aveva ospitato-intervistato l'ultima volta il 12 ottobre (quando disse ai giovani di «non smettere mai di sognare nonostante le cadute») e che aveva moderato il 4 novembre in un incontro all'Università La Sapienza, grazie all'invito del Collettivo Sinistra Universitaria. Per inciso, quell'incontro si tenne a pochi giorni dal sabotaggio del convegno organizzato da Azione Universitaria con ospiti Daniele Capezzone e Fabio Roscani, deputato di Fratelli d'Italia.

Perché il concetto di democrazia secondo la sinistra è sempre stato questo: può parlare solo chi dice cose che piacciono alla sinistra. Finché le dice. Poi, quando diventa imbarazzante, si rimuove e si passa alla costruzione dell'eroe successivo. 

Damilano negli ultimi giorni si è dedicato alle proteste in corso in Iran, alla prima manovra finanziaria realizzata dal governo Meloni, alla guerra in Ucraina e ad interviste al governatore del Veneto Luca Zaia e alla scrittrice anch' essa frotwoman del mondo progressista Michela Murgia. Tutti temi di indiscusso valore, per quanto magari un minutino qua e là l'avrebbe potuto meritare anche la caduta del figlioccio Soumahoro. 

Ma comunque, Damilano è in buona compagnia. Silenzio di tomba anche da parte di altri sponsor, da Fabio Fazio che gli spalancò le porte della prima serata a poche ore dalla gaffe in Parlamento di Giorgia Meloni che nel discorso di insediamento gli diede del "tu" a Giobbe Covatta, che con Soumahoro ha condiviso le liste elettorali. Fino all'altro immancabile, maestro di rimozione, Roberto Saviano. Troppo indaffarato a gestire il processo per diffamazione intentato dalla Meloni, ha tenuto ben nascosto qualsiasi commento sull'ex amico Soumahoro. Se non ne parli non è mai accaduto.

"Sapeva tutto", i compagni scaricano Fratoianni. E la Rai manda subito in onda la sua autodifesa. Il leader SI "indifferente alle segnalazioni". Lui e Bonelli ospiti dall'Annunziata. Massimo Malpica il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

Delle ipotesi di reato si occupa la procura di Latina, che indagherebbe anche sui politici locali messi a busta paga dalla coop Karibu. Delle brutte figure, invece, si preoccupano un po' tutti. Il primo è stato lui, Aboubakar Soumahoro, tra videomessaggi, scuse, contrattacchi e autosospensione da Si come risultato dell'indagine alla quale lui è estraneo, ma che vede indagata sua suocera e coinvolta la coop di cui sua moglie è socia. Poi l'attenzione si è spostata sul leader di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, accusato dal suo stesso partito di essere stato «perfettamente a conoscenza, da molto tempo prima della candidatura» dei dubbi su Soumahoro, ma di aver mostrato «completa indifferenza alle notizie riferitegli». Ieri, l'ex pentastellata Elena Fattori, da febbraio 2021 in Si, torna all'attacco in un'intervista al Corriere. Accusando la leadership del suo partito per aver «scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche». E chiarendo: «Di quelle storie si sapeva tutto. La dirigenza di Si sapeva, li avevo avvisati io». Fattori aveva visitato la Karibu anni fa: «Non sapevo nemmeno che fosse gestita dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita». La struttura era «sporca, fatiscente, c'era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male», aggiunge Fattori, che per questo la segnalò all'ex sottosegretario all'Interno, Gaetti. Quest'estate, Fattori si ricordò di quella visita mentre si lavorava alle candidature. Disse tutto a Fratoianni, ma il segretario, spiega l'ex deputata, «non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D'altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico».

Fratoianni, però, nega. Proprio ieri, ospite insieme ad Angelo Bonelli di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più, ha dribblato la questione. Per Bonelli, «se qualcuno sapeva che c'erano circostanze che sconsigliavano quella candidatura avrebbe potuto dirlo», ma il suo alleato, tirato direttamente in ballo, derubrica quelle voci su Soumahoro a questione politica, non giudiziaria. «Se qualcuno trova profili illeciti ha il dovere di dirlo alla procura, non c'è stato seguito e siamo andati avanti sulla candidatura», taglia corto. Quei rumors, aggiunge, per lui erano frutto più che altro, di «uno scontro politico che da anni si sviluppa in particolare nel foggiano su quel fronte», mentre «non mi furono segnalati elementi di un profilo problematico o illecito». Insomma, nessun pentimento o mea culpa di sorta. Quanto basta a far indignare Maurizio Gasparri, che giudica «imbarazzante» che la Rai si metta a disposizione di Fratoianni e Bonelli, definiti «il gatto e la volpe» dal senatore azzurro che rimarca come nell'ospitata a Mezz'ora in più abbiano «eluso le questioni fondamentali» rispetto alla vicenda. E mentre l'Europarlamentare Massimiliano Smeriglio suggerisce creativamente di «respingere la torsione giustizialista che stritola l'anima della sinistra» come exit strategy dal pasticcio, nel mirino delle polemiche finisce anche il Pd, con un manipolo di deputati pentastellati guidati da Stefania Ascari che si domandano «come sia possibile che tutto il Pd emiliano abbia sostenuto e voluto la candidatura di Aboubakar Soumahoro quando già trapelavano eccome dubbi su tutto ciò che ruotava attorno al candidato». «C'erano già una lunga serie di accuse mosse nei suoi confronti dai braccianti», attacca Ascari, che conclude: «La responsabilità, quindi, è di chi ha proposto ai propri elettori la sua figura, senza se e senza ma».

Da Jekyll a Mr. Hyde nel ghetto dei poveri. Per uno che doveva mantenere i piedi ben saldi a terra, ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Rossella Palmieri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022

«Dal bilancio messo insieme da me e me ne venne un dubbio curioso: io ero buono o cattivo?» Nel romanzo di Svevo La coscienza di Zeno il protagonista si pone questa domanda quando assiste senza grande dolore al fallimento dell’amico-rivale Guido fino a sbagliare allegramente funerale per un eccesso di dormita proprio in quel giorno. Non sappiamo se invocare solo la letteratura, sempre in grado di dare risposte ai comportamenti umani, soprattutto a quelli più imprevedibili e assurdi, o anche la morale, la filosofia, la tragedia. Perché in tutta questa vicenda che ha ghermito Soumahoro viene da chiedersi come sia possibile credere per vero un castello di carte in cui realtà e apparenza diventano la stessa cosa come un alambicco degno del dottor Jekyll e di Mister Hyde; come sia possibile vestirsi da Babbo Natale e farsi fotografare a dare regali nel cuore di un ghetto in cui, pare, bambini non ce ne fossero affatto (almeno una buona notizia, quest’ultima). Come sia possibile sfruttare, non pagare ed essere disumani proprio con quelle persone che diceva di voler difendere dismettendo panni e stivali del buon bracciante e indulgendo a un lusso spropositato ed esibito.

Niente di male nel lusso, per carità; ognuno dei propri soldi fa ciò che vuole (se guadagnati onestamente, s’intende). Ma senza indulgere nella retorica e senza debordare in vaghe forme di classismo, sarebbe utile ricordare Chanel quando diceva che il lusso non giace nella ricchezza e nel fasto, ma nell'assenza di volgarità. Ecco, ci aspettavamo esattamente questo in una storia fatta di coop e braccianti arsi dal sole e, specularmente, di social, griffe, resort; ci aspettavamo che l’eroe in grado di non sfigurare in un romanzo post risorgimentale sapesse usare, come diceva Seneca, vasi di terracotta con la stessa dimestichezza dei vasi d’argento e facendo entrare qualcuno a casa, sono ancora le parole del filosofo latino rivolto a Lucilio, consentirgli di ammirare lui piuttosto che le suppellettili. Come in uno specchio che produce ombra e una luna oscura a metà ci appare Soumahoro nei giorni in cui l’autodifesa ha prodotto lacrime, come neanche in una tragedia di Sofocle. Ma per uno che doveva mantenere i piedi ben saldi a terra (i suoi stivali in gomma ne rappresentano una pregnante metafora) ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Del resto – è ancora il tragediografo greco a dirlo – non si può conoscere veramente la natura e il carattere di un uomo fino a che non lo si vede amministrare il potere.

Alla coop dei Soumahoro da 4 anni fondi non dovuti. Nel 2018 un decreto ingiuntivo avrebbe dovuto bloccare tutto. Ma i finanziamenti continuarono. Bianca Leonardi il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

Oggi è nel vortice dell'inchiesta sul presunto sfruttamento di migranti. Ma la coop Karibu è stata per anni la regina del progetto Sprar. Un'iniziativa gestita dal Ministero dell'Interno che prevedeva anche l'emissione di fondi da parte degli enti locali per la lotta al caporalato. L'associazione presieduta da Marie Thérèse Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, vinse il bando nel lontano 2011 con un incarico valido fino al 2013. Subito dopo venne rinnovato per un ulteriore triennio, con la determina 22 del 27 febbraio 2014. Da quel momento la Karibu ha proseguito nell'impegno senza più presentare documentazione né partecipare a ulteriori bandi, ma solo grazie al rinnovo delle proroghe di volta in volta. Nel 2018 la protagonista, Mukamitsindo, viene addirittura premiata come «Imprenditrice immigrata dell'anno», con tanto di consegna solenne da parte dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Una nomina importante che permise alla Karibu di assumere un certo prestigio.

In realtà, però, dietro a tutto ciò si nascondevano problemi economici che andavano avanti da anni, nel totale silenzio. Proprio il 27 novembre del 2018, con il decreto ingiuntivo n.2308/18, emesso dal Tribunale di Latina, si chiedeva il pagamento di 139mila euro entro 10 giorni. Un pagamento mai avvenuto e che ha portato al pignoramento, da parte dell'ufficiale giudiziario, di tutti i crediti che l'associazione vantava con Ministero dell'Interno, Regione Lazio, Comune di Latina, Comune di Sezze e tre banche italiane. In pratica, da quel momento la Karibu non avrebbe più potuto ricevere fondi pubblici. Proprio per questo, dopo 10 anni di finanziamenti ministeriali ottenuti senza bando, nel 2019 viene scelta per i fondi anti-caporalato un'altra associazione, nonostante la Karibu, non si sa come, all'apertura delle buste avesse presentato l'offerta economica più vantaggiosa. A nulla è servito il ricorso al Tar, bocciato a causa di incongruenze.

Nonostante ciò però, si scopre dai bilanci che dal 2020 l'associazione riesce ad andare avanti grazie alla vincita di bandi comunali e ministeriali. L'ultimo, proprio lo scorso aprile ha visto entrare nelle tasche della famiglia Soumahoro - con Karibu ed Aid entrambe vincitrici - la somma di circa un milione di euro per l'assistenza ai rifugiati ucraini.

Non solo. Nonostante questo curriculum non troppo limpido, le indagini della procura di Latina iniziate nel 2019 e l'inchiesta aperta qualche settimana fa, scopriamo che ancora oggi Roccagorga, piccolo paese in provincia di Latina, continua ad ospitare centri d'accoglienza - tra cui uno dedicato ai minori - gestiti da Karibu. Il Comune è commissariato e l'amministrazione prefettizia sta controllando i conti prima di erogare i finanziamenti gestiti dal ministero. Finanziamenti che, a quanto pare, non sembrerebbero essersi mai fermati nel silenzio della sinistra e delle istituzioni. Si scopre infatti che molti esponenti del Pd hanno ricoperto cariche all'interno delle coop, come l'assessore ai servizi sociali per il Comune di Roccagorga Tommaso Ciarmatore, appunto, che dal 2009 risultava anche dipendente della Mukamitsindo. L'assessore ha poi dato l'addio proprio nel 2019. E con lui decine di operatori con contratto a tempo determinato e indeterminato già ai tempi non pagati.

Così Soumahoro voleva indagare sugli sfruttamenti.  Paolo Bracalini il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.

Come primo atto da parlamentare Aboubakar Soumahoro si è subito preoccupato dei lavoratori, suo core business da sindacalista specializzato in mano d'opera immigrata, il profilo che è così piaciuto ai salotti radical televisivi (i suoi mentori Zoro, Saviano e Damilano) e alla coppia Bonelli-Fratoianni tanto da candidarlo in posizione blindata alla Camera come uomo immagine della sinistra anti-Salvini. Appena arrivato a Montecitorio il deputato con gli stivali (ma meno furbo del gatto) ha messo in opera il copione per cui era stato scritturato. E come co-firmatario (insieme a Chiara Gribaudo, deputata e membro della segreteria nazionale del Pd) ha depositato una proposta di «Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati». Un tema che Soumahoro conosce molto bene viste le condizioni di lavoro dei dipendenti delle due cooperative di famiglia, la «Karibu» e la «Consorzio Aid», gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato, sotto indagine dalla Procura di Latina e dalla guardia di Finanza per la gestione dei fondi pubblici e per verificare il reato di truffa per il mancato pagamento dei salari, così come denunciato da una trentina di lavoratori. Da tempo l'ispettorato del lavoro indagava, ma il sindacalista era distratto, convinto che la coop di famiglia fosse «virtuosa». Gli era bastato vedere un giorno sui giornali «una pagina con 70 personalità espressione della buona impresa, tra cui la Merkel, e tra quelle persone anche «la foto di mia suocera», per convincersi che fosse tutto a posto. Anche quando ha saputo che non erano stati pagati gli stipendi ai dipendenti, ha chiesto informazioni alla moglie (impegnata nel frattempo a far valere il suo «diritto alla moda e all'eleganza», come dice Soumahoro, comprando abiti e borse di lusso), che gli aveva risposto che era semplicemente dovuto al ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione che dava l'appalto: «Per me era una risposta sufficiente». Tutto ciò mentre in Parlamento chiedeva, con un atto ufficiale, di creare una commissione apposita per indagare su «condizioni di lavoro e sfruttamento» di lavoratori in Italia, cioè situazioni simili a quelle che denunciano i lavoratori delle coop della moglie e della suocera di Soumahouro. Un altro paladino dei diritti e degli ultimi finito sotto accusa per l'opposto, lo sfruttamento dei più deboli e degli immigrati. Un caso che ricorda da vicino un altro santino della sinistra accogliente, Mimmo Lucano, sindaco di Riace, assurto a modello di integrazione degli immigrati e uomo-immagine del fronte progressista (con sempre gli stessi sponsor, Saviano, giornali e programmi tv schierati a sinistra), prima di finire condannato per una lunga serie di reati a danno appunto degli ultimi («Lucano da dominus indiscusso del sodalizio - scrive il giudice nella sentenza -, ha strumentalizzato il sistema dell'accoglienza a beneficio della sua immagine politica»). I santini si rimpiazzano in fretta, caduto un Lucano è arrivato Aboubakar, che ora è in bilico e già in procinto di essere mollato dai compagni. Per ora il deputato pensa di essersela cavata con «l'autosospensione», che suona bene ma è uno stratagemma politichese per prendere tempo e per mantenere lo status quo. La «punizione» sarebbe quella di non far parte del gruppo parlamentare dei Verdi, ma di passare nel Misto. Non un grande sacrificio. Tutti i privilegi e i benefit dello status di parlamentare, a partire dallo stipendio da deputato, non vengono affatto autosospesi, ma gli restano in tasca. In attesa di far luce su quello che accadeva nelle coop di famiglia, anche senza una commissione parlamentare di inchiesta.

Da lastampa.it il 28 novembre 2022.

A Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro, sono contestati, tra gli altri, anche i reati di truffa aggravata e false fatturazioni nell'ambito della indagine dei pm di Latina sulla gestione di due cooperative. In base a quanto si apprende al momento, la donna è l'unica iscritta nel registro degli indagati. 

I magistrati hanno delegato le indagini alla Guardia di Finanza che sta analizzando, dopo alcune denunce presentate dai lavoratori delle coop che lamentano il mancato pagamento degli stipendi, in che modo siano stati impiegati i fondi ricevuti negli anni dalle due strutture.

Il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Italiana nei giorni scorsi si è autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera. Un atto politico, che non ha effetti sulla sua attività da deputato. «Con la massima libertà, Aboubakar Soumahoro ci ha comunicato la decisione di autosospendersi dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra», avevano reso noto Angelo Bonelli co-portavoce Europa Verde e deputato Avs, Nicola Fratoianni segretario Sinistra Italiana e deputato Avs e Luana Zanella, presidente del gruppo parlamentare Avs. «Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni – hanno aggiunto – e del valore dell'impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi che abbiamo sempre condiviso con Aboubakar». 

(LaPresse il 28 novembre 2022) Fari puntati sul caso Aboubakar Soumahoro, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra che si è autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera Marie Therese Mukamitsindo. «Il suo compagno, l'onorevole non sapeva veramente di tutte le attività che facevate, della situazione debitoria delle società, degli stipendi non pagati? Era all'oscuro di tutto?» chiede il giornalista di 'Non è l'Arena' alla moglie di Soumahoro, intercettata fuori dalla sua abitazione di Roma senza, però, ottenere risposta. Massimo Giletti in studio, nel frattempo, punta i riflettori sulla provenienza dei soldi utilizzati per l'acquisto della casa da parte della coppia, costata 360mila euro e pagata in parte in contanti e in parte attraverso un mutuo.

Alla suocera di Soumahoro soldi pure dall'Anci del Lazio. Antonella Aldrighetti il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ora è indagata anche per truffa aggravata. L'incarico dai Comuni da 10 milioni di euro per l'integrazione

Dopo essere indagata per malversazione, ovvero per aver distratto sovvenzioni e finanziamenti pubblici, all'indirizzo di Marie Therese Mukamitsindo - suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, è stata notificata anche l'indagine per truffa aggravata e fatturazioni false, operata dalla cooperativa Karibu e dal consorzio Aid di cui è a capo. Chissà se, comprovate queste ulteriori malefatte, verrà chiarita anche la provenienza di circa 60 milioni di euro di fondi pubblici ricevuti per l'accoglienza degli immigrati. Fatto sta che a oggi la cooperativa Karibu è ancora titolare di un progetto attivo e in corso d'opera, su incarico dell'Anci Lazio per l'integrazione lavorativa sul territorio. Trattasi del progetto «Per.se.o.», finanziato con dal Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione) per oltre 10 milioni di euro e di cui la cooperativa della Mukamitsindo risulta essere capofila per l'intero territorio laziale. Certo nulla di più facile per attirare malcapitati migranti, speranzosi di integrarsi nel mondo del lavoro, seguire corsi di formazione, imparare l'italiano e ricevere un alloggio. Già, proprio coloro che la suocera di Soumahoro avrebbe dovuto aiutare ma che, stando alle denunce presentate e alle quali Procura di Latina e Fiamme gialle hanno dato seguito, venivano bistrattati, malpagati o letteralmente sfruttati gratis, alloggiati in residenze fatiscenti prive di luce e acqua. Eppure la fiducia in lady Mukamitsindo, malgrado più di una voce circolasse da tempo sul fatto che i migranti fossero indignati del trattamento loro riservato, continuava a produrre ovazioni dalle autorità locali e non solo.

Sarà stata anche per l'eco mediatica che ritornava spesso in merito al premio Moneygram Award ricevuto come imprenditrice immigrata dell'anno 2018 e consegnatole dall'ex presidente della Camera Laura Boldrini, sarà stato anche per il numero consistente di collaboratori italiani nelle cooperative di famiglia e dal ruolo di sindacalista di base ricoperto allora dal genero Aboubakar, fatto sta che quelle stesse imprese hanno ricoperto fino a due settimane fa un ruolo di primo piano nell'accoglienza e nei servizi ai richiedenti asilo del Lazio. Negli ultimi giorni Confcooperative ne avrebbe chiesto la cancellazione dagli elenchi regionali. Il risultato di questa istanza potrebbe indurre allo scioglimento del consorzio Aid e quindi della cooperativa Karibu. Tuttavia, collegandosi al sito web, le peculiarità per gli aiuti ai migranti rimangono in bella mostra: «promozione, su tutto il territorio regionale di azioni per l'inserimento socio-lavorativo di persone titolari di protezione internazionale attraverso il rafforzamento del capitale sociale dell'individuo e del contesto in cui vive, coordinamento tra le politiche del lavoro, dell'accoglienza e dell'integrazione». Ma si offrono pure altre attività di particolare rilevanza: una sorta di sportello per mettere in relazione domanda e offerta di lavoro con tirocini e work experience, corsi di italiano L2 per la patente di guida, alfabetizzazione finanziaria, start up di impresa e addirittura un apposito servizio di supporto per l'autonomia abitativa e co-housing sociale di cui si rivendica una collaborazione con Rete casa-amica. Indubitabile; peccato che, oltre ai sostenitori della famiglia Soumahoro, a sinistra ci siano anche voci contrastanti: l'ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris afferma con evidente sicurezza che sia Fratoianni che Bonelli sapessero delle vicende poco chiare attorno alle coop.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 novembre 2022.

Quanto è successo a Roccagorga, in provincia di Latina, è emblematico di un intero sistema. Qui il Comune, un piccolo Comune di 5.000 anime, riceveva centinaia di migliaia di euro per accogliere migranti. E quel tesoretto veniva trasferito alla cooperativa Karibu di Marie Therese Mukamitsindo, la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, oggi indagata per frode e reati fiscali.

Con il sindaco Carla Amici, esponente del Pd, sorella dell'ex potente sottosegretario (in tre governi, Letta-Renzi-Gentiloni) Sesa Amici, tra la signora ruandese e il municipio filava tutto liscio. Poi il ministero dell'Interno, guidato all'epoca da Matteo Salvini, mandò un alert. Un assessore, Nancy Piccaro, presidente dell'Ordine degli infermieri di Latina, non essendo in linea, scese in campo contro il candidato dell'ex primo cittadino e vinse.

Era il 28 maggio 2019. «La Amici cercava di fare entrare tutti questi migranti rinnovando affidamenti su affidamenti. Il Comune di Roccagorga ha ospitato il progetto Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per molti anni, a partire dal 2014, rinnovando l'affidamento diretto alla coop Karibu senza mai fare una gara a evidenza pubblica anche quando ormai erano in vigore le regole del Codice degli appalti, ma durante il periodo dell'amministrazione da me guidata il servizio alla coop è stato revocato il 31 dicembre 2020. 

Ho preso le distanze non appena mi sono resa conto delle troppe commistioni e che tante cose non mi quadravano. Ma non è stato facile opporsi. Erano persone premiate e osannate. Marie Therese venne nominata imprenditrice dell'anno. Così ho fatto una lista civica contro quel sistema».

Come detto, dopo pochi mesi la Piccaro ha rinunciato ai soldi dello Sprar, ma la sua giunta è stata sciolta dopo la mancata approvazione del rendiconto. Un inciampo che per l'ex amministratrice potrebbe non essere casuale: «La mia giunta è caduta forse proprio perché non si sottoponeva a certi accordi, tanto che noi il rapporto con la Karibu e questo modello di accoglienza vizioso e viziato lo abbiamo interrotto.

La mancata approvazione del rendiconto è stata una manovra politica probabilmente legata anche al fatto che facevamo ostracismo contro queste e tante altre modalità di gestione della cosa pubblica. Evidentemente davamo fastidio, tant' è che il commissario ha approvato gli stessi bilanci e rendiconto che avevamo preparato noi». 

Ma è vero che l'ex sindaco Amici era anche la commercialista della Karibu? «Questa voce l'ho sentita anche io, ma adesso spetterà agli inquirenti accertarlo», replica la Piccaro. A cui chiediamo se le sembrasse normale che l'assessore ai Servizi sociali, Tommaso Ciarmatore, fosse anche un dipendente della coop Karibu. 

«Probabilmente non è reato, ma è quanto meno inopportuno». La Piccaro descrive la sua aspra battaglia contro il «modello Roccagorga»: «La scelta di interrompere il progetto Sprar non fu facile perché se da un lato pensavamo che accogliere soggetti fragili, in fuga da guerre o da situazioni drammatiche, fosse nostro dovere morale (anche se poi i soggetti accolti erano tutti giovani uomini), in realtà poi ci rendevamo conto che una tale gestione dell'immigrazione perpetrava in pratica uno sfruttamento di esseri umani che venivano ammucchiati in case-alloggio, con scarsi controlli e in condizioni precarie, che facevano emergere una situazione di sfruttamento della loro condizione, tanto che ricordo di aver trovato agli atti una lettera proveniente dal ministero dell'Interno, pervenuta nel gennaio 2019, che evidenziava diverse criticità emerse nelle visite di monitoraggio effettuate nel 2018».

A quanto risulta alla Verità, la missiva era datata 31 gennaio 2019 ed era stata inviata dal dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale. 

L'oggetto della segnalazione era il «Progetto Sprar 2014-2016 in prosecuzione ammesso al finanziamento del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo per complessivi 40 posti categoria ordinaria». 

Nel documento si minacciavano 18 punti di penalità che avrebbero potuto portare alla «revoca del finanziamento» per questi due motivi: «Mancato rispetto della percentuale di posti destinati al Sistema di protezione indicata nella domanda di contributo»; «mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati e/o mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitivi».

Una carenza, questa, che rischiava di comportare «il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata». Piccaro rimarca come una parte del paese, che è molto piccolo, «fosse diventato praticamente un ghetto»: «C'erano continue risse. Carabinieri e 118 intervenivano in modo incessante. Le condizioni in cui erano tenute quelle persone erano veramente immorali e per questo noi abbiamo interrotto il progetto». 

L'ex sindaco prosegue: «Devo dire che nel 2020, quando rescindemmo la collaborazione con la Karibu e il Sistema di protezione a Roccagorga ci fu una levata di scudi contro la nostra amministrazione da parte del Pd locale, che ci accusava di insensibilità, di mancata solidarietà e finanche di razzismo, ma stranamente ora non si registrano ufficialmente posizioni di condanna da parte dei dem sulla situazione di illegalità diffusa che sta emergendo, come anche nessuna difesa dei lavoratori sia italiani che stranieri. Un atteggiamento che è indice di una doppia moralità».

Da "Striscia la Notizia" il 28 novembre 2022.

Tra i “papà” del fenomeno Aboubakar Soumahoro è ormai una corsa a scaricare l’ex sindacalista travolto dallo scandalo delle cooperative e della Lega Braccianti. Venerdì sera a Propaganda Live, il conduttore Diego Bianchi in arte Zoro ha provato a smarcarsi, facendo scaricabarile addirittura con il Papa: «Stiamo parlando di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco…». 

Volutamente, però, omette che Soumahoro al Papa lo aveva presentato Marco Damilano, storico (dal 2013 al 2022) collaboratore della trasmissione di Zoro. Ricordiamo che Soumahoro è stato pure una firma del settimanale l’Espresso, diretto fino a marzo di quest’anno proprio da Damilano. Ma torniamo all’incontro: era il 1° maggio 2019, e l’allora direttore dell’Espresso aveva accompagnato Soumahoro - all’epoca dirigente sindacale della USB - dal Pontefice, per portargli in dono il libro di Aboubakar (Umanità in rivolta, Feltrinelli, 2019) e alcune copie del suo settimanale, che, guarda caso, in quel numero (a pagina 57) aveva una foto di Zoro insieme a Soumahoro. Era stata la stessa Repubblica a enfatizzare l’incontro, spiegando che l’artefice era stato proprio Damilano.

Tra l’altro, dall’immagine che avevano diffuso era stata pure tagliata fuori la sbarra d’ordinanza che separa il Papa dai coniugi Soumahoro (e dai due promoter al seguito) per far intendere che ci fosse una certa intimità. Sbarra “fantasma” che ricompare invece nelle foto che saranno mostrate questa sera in un servizio di Striscia la notizia che ricostruisce, tra le altre cose, il famoso incontro. 

Insomma, dopo aver astutamente organizzato il meeting con il Papa per accrescere la popolarità “del loro” Soumahoro, ora si dà la colpa al Pontefice di aver posato con lui in una foto. Forse, in tutta questa vicenda, Aboubakar è il più innocente. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35).

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 28 novembre 2022.

Le tre scimmiette sono due: Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, la premiata ditta che non vede, non sente, ma parla e straparla, tanto che nella loro "Mezz' ora in più", ieri su Rai3, i leader di Sinistra Italiana ed Europa Verde, pugili suonati messi alle corde da Lucia Annunziata, sono riusciti perfino a dare la colpa al Papa pur di provare a schivare i ganci del caso Soumahoro, tentativo chiaramente finito con un ko tecnico, chissà se con una scomunica.

È stato Bonelli, invero, l'autore del capolavoro, e non sarebbe giusto togliergli tale altissimo merito. Fratoianni gli ha comunque fatto da spalla, dicendo urbi et orbi - tra le altre cose - che se nel ghetto foggiano di San Severo teatro dei selfie di Aboubakar c'è l'acqua potabile il merito è suo, di quando era assessore in Puglia, e vabbè, San Nicola Fratoianni. Veniamo al Pontefice. 

L'Annunziata ha fatto presente a Bonelli che il vero problema, se come sostengono i due non sapevano nulla di questa storiaccia, è proprio questo, che dovevano sapere delle ombre sul curriculum della famiglia Soumahoro. Vai Bonelli, vai, è il tuo momento.

Ed eccolo, Bonelli: «Non solo non eravamo a conoscenza noi, ma nemmeno tanti prefetti, tanti sindaci, presidenti del Consiglio (stoccata a Giuseppe Conte che era in studio poco prima, ndr), e non voglio scomodare persone che hanno un ruolo spirituale molto importante nel mondo». Bonelli scomoda il Vaticano.

Apriti cielo. Bonelli, ovviamente, non ha nominato Francesco, e però il collegamento è stato fin troppo evidente dato che è noto che due anni fa Bergoglio in occasione dell'udienza generale del primo maggio ha ricevuto Soumahoro e l'episodio è stato ricordato appena una paio di sere fa su La7 a Propaganda Live da uno degli sponsor principali del deputato con gli stivali, ossia Diego Bianchi alias Zoro, e non è stato l'unico tra i paladini della sinistra.

La giacchetta tirata al Papa, o meglio la veste del Santo Padre, è stata il punto più alto (più basso in realtà) di un climax partito al grido di «ci sono anche altri in parlamento che hanno parenti che hanno avuto problemi con la giustizia», e «noi non sapevamo nulla», e «comunque su Aboubakar non c'è alcun procedimento giudiziario», «ma la questione politica è molto forte, perché noi siamo chiamati a essere più rigorosi degli altri», ha tenuto a sottolineare Bonelli. 

E dunque, domanda rivolta al "compagno" Fratoianni, come la mettiamo con tutti quelli che sostengono che su Soumahoro l'avevano avvertita (gli ultimi sono stati dieci dirigenti di Sinistra Italiana e prima ancora il segretario modenese del Pd dove l'ivoriano è stato candidato)? «Ma chi lo sapeva del business Soumahoro"!».

Se ho una segnalazione che non riguarda illeciti, questo mette in discussione una figura che aveva fatto lotte in quell'ambiente ma che dal mio punto di vista rafforzava un lavoro che stavamo facendo su un certo terreno?». Scusi, onorevole: quindi? «C'è un cortocircuito molto problematico tra ciò che interpreta una battaglia e comportamenti, scelte che possono mettere in difficoltà quella battaglia». 

Prematurata la supercazzola, o scherziamo? Fratoianni riprende fiato e riattacca: «Quando il 10 agosto abbiamo presentato la candidatura di Aboubakar, se qualcuno sapeva che c'erano circostanze che sconsigliavano quella candidatura avrebbe potuto dirlo. Non mi pento della scelta, e spero che l'evoluzione della vicenda porti a una soluzione e mi preoccupo di tutelare chi in questo mondo continua a lavorare».

È una risposta indiretta a Elena Fattori, esponente di Sinistra Italiana e firmataria della lettera in cui - dicevamo- dieci dirigenti del partito hanno puntato il dito contro Fratoianni. Fattori, a mezzo stampa, ha tuonato che «è stato scelto un personaggio (Soumahoro, ndr) senza andare a vedere cosa proponesse realmente al di là delle sue comparsate mediatiche». 

«Chiediamo che ci si interroghi sul futuro», ha continuato la Fattori, «su come vengono scelti i candidati: di quelle storie si sapeva tutto». Bonelli ha replicato che Soumahoro «era una personalità molto sostenuta dal mondo della cultura, che ha fatto delle battaglie anche molto importanti», e che «ora fare un processo ex post non è corretto: dire "dovevate sapere" non è corretto, perché chi sapeva, allora, doveva dirlo, e non intervenire successivamente per dire: "Ah ma è un personaggio particolare..."». Giusto: ma nel dubbio meglio dire che Aboubakar l'aveva incontrato anche il Papa, si capisce.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it/che-tempo-che-fa-il-silenzio-di-fazio-sul-caso-soumahoro il 28 novembre 2022.

Durante tutta la scorsa settimana, giornali, notiziari e talk show hanno dedicato ampio spazio alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto indirettamente il Deputato Aboubakar Soumahoro. Il 24 novembre, Soumahoro si è infatti autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra in seguito a presunte irregolarità amministrative che sarebbero avvenute nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla compagna dell'attivista e sindacalista ivoriano, e all'avvio in merito di indagini giudiziarie da parte della Procura di Latina.  

Occorre ribadire che Soumahoro, dichiaratosi del tutto estraneo alla suddetta vicenda, al momento attuale non risulta indagato. 

A margine del dibattito sulle presunte illiceità di cui sopra, un certo scalpore nell'opinione pubblica è stato suscitato dalle fotografie pubblicate su Instagram dalla compagna di Soumahoro, Liliane Murekatete. Scatti che la ritraggono paludata in abiti firmati e onusta di accessori di lusso. Contrasto piuttosto stridente con l'immagine del marito presentatosi per la prima volta in Parlamento con gli stivali "che hanno calpestato il fango della miseria... gli stivali della lotta ... per rappresentare sofferenze, desideri, speranze”. 

E contrasto altrettanto stridente rispetto alle accuse delle quali Liliane Murekatete è chiamata a rispondere, ovvero le presunte malversazioni di erogazioni pubbliche e le - sempre presunte - condizioni "malsane" in cui sarebbero stati costretti a vivere i migranti di cui si occupavano le coop gestite dalla donna e dalla madre. Migranti lasciati, secondo alcune testimonianze, senza acqua né cibo per giorni. Tutto da dimostrare, ovviamente, ma tant'è. 

Le foto griffatissime di Murekatete, sulle quali si sono gettati con avidità giornali e talk show, hanno indotto il marito a difenderla pubblicamente a Piazza Pulita, rivendicandone il "diritto all'eleganza" e "il diritto alla moda", a suo dire espressioni di libertà. Inutile dire che tali giustificazioni non hanno convinto nessuno e che, anzi, hanno attirato ulteriori strali su Soumahoro e sulla Sinistra in generale.

Sinistra che aveva fatto dell'attivista e sindacalista ivoriano uno dei suoi beniamini nonché simbolo di futura rinascita, tanto da considerarlo perfino un papabile candidato alla segreteria del Partito Democratico, prima che si presentasse alle elezioni nelle file di Alleanza Verdi e Sinistra - i cui dirigenti in questi giorni lo hanno prontamente scaricato. Questo per sottolineare quanto la bufera che ha investito Aboubakar Soumahoro si ripercuota negativamente anche su tutta la Sinistra italiana, già in crisi profonda dopo la sconfitta alle urne. 

E dire che, neppure un mese fa, egli veniva celebrato come baluardo di coraggio contro l'arroganza del "signor Presidente del Consiglio Giorgia Meloni" che in Parlamento aveva osato apostrofarlo con il "tu" sbagliandone pure il nome di battesimo. Soumahoro l'aveva immediatamente rimbrottata ricordandole che era tenuta a dargli del lei, assurgendo così a idolo incontrastato dell'Opposizione e della possibile rivalsa contro lo strapotere della Destra. 

Su tali basi il neo Deputato era stato invitato pochissimi giorni dopo, il 30 ottobre 2022, su Rai3 a Che tempo che fa nel salotto domenicale di Fabio Fazio. Tra gli applausi scroscianti del pubblico, Soumahoro aveva ribadito che la Meloni poteva chiamarlo "dottore" visto che è laureato, e si era visto salutare dal conduttore ligure come una sorta di faro di speranza per il futuro della politica italiana. Incredibile come la situazione sia radicalmente cambiata neanche un mese più tardi.

E ieri sera nel salottino perbene di Rai3, dopo una settimana di aspre polemiche che riguardavano l'ospite celebrato solo qualche puntata fa, era del tutto lecito aspettarsi che Fazio - nello spazio in cui ospita giornalisti e commentatori politici a discettare degli argomenti chiave dell'attualità - spendesse qualche parola sulla vicenda giudiziaria che ha investito moglie e suocera di Soumahoro, come hanno fatto praticamente tutti i suoi colleghi conduttori di talk show. E invece nulla. 

Forse Luciana Littizzetto, sempre pronta a infierire sulle derive "social "di politici e personaggi pubblici, ha ironizzato sulle discusse foto ultragriffate di Liliane Murekatete Soumahoro, ribattezzata malignamente in rete "la regina d'Africa"? Nulla anche in questo caso. Fosse successo a un personaggio legato alla Destra lo avrebbe fatto? Non possiamo esserne sicuri ma potremmo quasi scommettere di sì.

In compenso Che tempo che fa ha tributato il solito obolo settimanale alla concorrenza con l'immancabile citazione di Maria De Filippi, e ha regalato al pubblico che paga il canone Rai la promozione del film Improvvisamente Natale con Diego Abatantuono, Nino Frassica e il Mago Forest, disponibile in esclusiva su Amazon Prime Video dal prossimo 1 dicembre. Su questo, Fazio non delude mai.

Virginia Piccolillo e Michele Marangon per corriere.it il 29 novembre 2022.

«Si è vero. Non gli abbiamo fatto il contratto e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà». Marie Therese Mukamatsindo ha ammesso tutte le accuse che le aveva rivolto Youssef Kadmiri, ingegnere 42enne marocchino che al Corriere ha raccontato: «In due anni sono stato pagato solo due volte». 

Di fronte alla commissione dell’ispettorato del lavoro di Latina, la suocera di Aboubakar Soumahoro è giunta a un accordo. «Adesso spero che mi paghi» dice Kadmiri all’uscita. «È andata avanti sempre con scuse, sempre dicendo che aveva i soldi bloccati e non poteva pagare, anche oggi lo ha fatto. Però alla fine ha firmato l’accordo. Quindi spero che adesso tutto finisca».

 Molto amareggiato per le rivelazioni riportare dai media sui milioni di euro di fondi presi dalle cooperative Consorzio Aid e Karibu gestite all’epoca da Maria Therese e sua figlia Liliane Murekatete, dice: «Lo sapevamo. Lo sapevano tutti. Solo il sindacalista della Uiltucs ci ha ascoltato. Anche Soumahoro lo sapeva. Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo, vestiti usati ed erano costretti a lavorare fuori per comprarsi quello di cui avevano bisogno perché gli toglievano anche il pocket money e quindi non andavano a scuola».

All’ispettorato del Lavoro di Latina, Maria Therese Mukamistindo si è presentata prestissimo sfuggendo alle domande dei cronisti. Oltre a quella di Youssef Kadmiri, la suocera di Soumahoro è chiamata a sanare la posizione altri due operatori che hanno lavorato per le cooperative Karibu e Consorzio Aid e non sono stati pagati regolarmente. Stefania Di Ruocco, era in forze alla Karibu dal 2016. 

Per lei è stata definita la somma di oltre 21mila euro comprensive di Tfr. Da quasi due anni non aveva ricevuto nulla: da gennaio a dicembre 2021 e poi da gennaio 2022 sino ad ottobre di quest’anno. La speranza è che Karibu rispetti il piano di rientro stabilito in sede di accordo. Con lei a chiedere di rispettare il diritto alla paga Mohamed El Motaraji.

Le tre vertenze affrontate stamane sono solo una piccola parte. Secondo la stima di Gianfranco Cartisano di Uiltucs ammonta almeno a 400 mila euro il tesoretto di somme sottratte dalle cooperative gestiste da Mukamitsindo alla retribuzione regolare dei lavoratori, in gran parte migranti stranieri. Soumahoro aveva dichiarato nel video, in lacrime, che se fossero state accertate le accuse sarebbe stato dalla parte loro.

Estratto dell’articolo di Michele Marangon per corriere.it il 29 novembre 2022.

[…] La rete di collaborazione delle due cooperative riconducibili a Mukamitsindo nei vari comuni pontini, ha portato negli anni a consolidarsi del rapporto con la politica: assunzioni e consulenze elargite a chi aveva un ruolo di amministratore pubblico rappresentano un filone della storia, senza alcun rilievo nelle indagini ma utile, per ora, ad arricchire il complesso sistema delle cooperative. 

Episodio certo è, ad esempio, l’assunzione di un ex assessore comunale a Roccagorga, Tommaso Ciarmatore. L’uomo era stato assunto quando il comune era a guida Pd. Una vicenda che potrebbe non essere isolata e che da Roccagorga (paese di 4mila anime che interruppe nel 2020 il rapporto con Karibu), potrebbe estendersi ad altre realtà.

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 29 novembre 2022. 

Nel Pd, che finora tace sulla vicenda dei finanziamenti senza gare alle cooperative di lady Soumahoro, qualcuno già nel 2015 aveva sollevato dubbi e richiesto chiarimenti, scontrandosi con un altro pezzo di partito.

Lo scenario è rappresentato dal botta e risposta tra i due consiglieri dem Fabiola Pizzulli e Francesco Scacchetti e Carla Amici, l'allora sindaca di Roccagorga, il centro di quattromila anime in provincia di Latina, uno degli epicentri dello scandalo, insieme a Sezze, dove ha sede la cooperativa della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo. 

«Gentile sindaco - scrivono Scacchetti e Pizzulli - apprendiamo dagli organi di stampa che nell'ambito di specifiche direttive del ministero dell'Interno è stato approvato il piano di accoglienza Sprar per il triennio 2014- 2016: per la provincia di Latina si riconosce al comune di Roccagorga il finanziamento più importante, con 327mila euro l'anno».

Alla luce delle ultime vicende « che hanno sollevato il sistema di lucro con i fondi per la gestione dei migranti - aggiungono - chiediamo l'elenco di tutti i trasferimenti al Comune di Roccagorga e di conseguenza alla cooperativa Karibù». È il 15 gennaio 2015 quando i due consiglieri del Pd presentano l'interrogazione scritta alla sindaca Amici, sollevando dubbi sui finanziamenti erogati alla Karibù. 

Perché a Roccagorga, come è emerso successivamente, avevano lavorato con la Karibù anche pubblici amministratori. E ad affittare gli immobili nei quali ospitare i migranti, erano stati pure funzionari comunali. […]

Caso Soumahoro, sul ghetto di San Severo regna l'omertà. Le autorità negano di conoscere il politico che organizzò la Lega braccianti. Bianca Leonardi il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Silenzio, omertà e indifferenza: questo è ciò che abbiamo trovato a Foggia riguardo la tremenda situazione del Gran Ghetto di Rignano a Torretta Antonacci. Ettari di terreno occupati da baracche dove vivono circa 2500 persone, con solo una piccola parte - la foresteria, dove sono presenti i container - gestita ora dall'associazione Anolf che cerca di fare il possibile in una parte di mondo dimenticata da tutti.

«Chi è Soumahoro?», ci hanno risposto esponenti delle autorità foggiane alla nostra domanda su eventuali interventi, passati e presenti. Perché se è vero che solo adesso l'Onorevole è nel ciclone sul fronte dell'inchiesta sulle coop di famiglia, è anche vero che la situazione a Foggia - dove è invece coinvolto personalmente almeno sul piano politico - va avanti da anni nel silenzio di tutti.

All'inizio della strada che porta alla baraccopoli, in località San Severo, sono presenti infatti costantemente due pattuglie della polizia che però non intervengono direttamente nel ghetto e glissano, senza darci nessuna risposta precisa su di chi è competenza il controllo di quella impenetrabile zona autogestita.

L'operato delle due volanti sembrerebbe limitarsi nell'allontanamento di eventuali turisti o curiosi, lasciando il ghetto lontano da sguardi indiscreti. È noto da sempre che all'interno di quella realtà lo scontro tra «clan», guidati da sindacati e associazioni, sia al centro dei numerosi reati e traffici illeciti. Insieme alla Lega Braccianti opera infatti Usb, che ha visto nascere Soumahoro per poi dividersi quando l'ora deputato ha dato vita, nel 2020, alla sua associazione. «Lega Braccianti e Usb sono i caporali qui. Gli uomini di Soumahoro insieme a quelli del sindacato ogni mattina ci chiedono i soldi per portarci a lavoro», raccontano i braccianti. «Lo chiamano taxi e se non paghi non lavori», spiega un altro bracciante. Il business dietro a questa pratica - che caporalato altro non è - sembrerebbe infatti portare nelle tasche dei gruppi ingenti somme. I «taxi» di cui parlano i braccianti sono semplicemente macchine che «operano per conto di Usb e degli uomini di Soumahoro» nel trasporto dei lavoratori, portandoli «dal padrone bianco». La cifra chiesta si aggira intorno ai 5 euro per ogni bracciante, ogni giorno.

Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi - e documentato - le centinaia di macchine presenti nel ghetto, «la maggior parte, se non tutte, rubate» - ci spiegano dall'associazione - e tutte senza assicurazione, che trasportano fino a 6 braccianti. «Sono mesi che Soumahoro ci ha promesso un pullman per portarci a lavoro ma non è mai arrivato e i suoi uomini continuano a chiederci soldi», ci racconta un lavoratore che ammette di non avere ogni giorno i soldi necessari e, di conseguenza, non poter lavorare.

Su questa situazione, come su molte altre riportate dai braccianti, come il giro di prostituzione gestito dalla «donna, tra le pochissime presenti del ghetto, fedelissima a Soumahoro» - ci spiega un ex affezionato dell'Onorevole - le risposte da parte dei piani alti sembrerebbero quasi inesistenti. Le segnalazioni, come le molte denunce fatte, sembrerebbero ferme e non approfondite. L'ultima operazione, racconta la Procura Foggia, risulta infatti quella che ha visto arrestare un solo caporale dopo due anni di indagini.

Soumahoro, quegli intrecci con il Pd. Gli amministratori dem lavoravano per la Karibu. Dario Martini su Il Tempo il 30 novembre 2022

I politici del Pd della provincia di Latina conoscevano bene la coop Karibu di Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro. Rapporti di «antica» data, che risalgono a quando la cooperativa dedita all'accoglienza dei migranti ha iniziato la sua attività, ormai due decenni fa. Oggi la società che fa capo alla madre della consorte del deputato di Verdi e Sinistra è al centro delle polemiche per gli stipendi non pagati, per l'utilizzo dei fondi pubblici e per le carenze igienico-sanitarie in cui erano costretti a vivere i profughi. Mukamitsindo è indagata per malversazione, false fatturazioni e truffa aggravata.

Ora che lo scandalo è scoppiato, è possibile documentare casi di politici che, prima di occuparsi dell'amministrazione pubblica, hanno lavorato per conto della coop della suocera di Soumahoro in qualità di commercialisti, dal momento che erano loro stessi a presentare i bilanci. Karibu nel corso degli anni si è aggiudicata molti affidamenti nell'ambito dell'accoglienza, sia a Sezze, dal 2001 al 2018, che a Priverno, dal 2014 al 2016. Basti pensare che nella sola Sezze si è aggiudicata circa 5,5 milioni di euro. Partiamo proprio da questo Comune, dove la Karibu ha vinto il primo progetto Sprar nel 2001. Da allora ha continuato a ricevere fondi, tra proroghe e nuovi bandi, per 18 anni, fino al 2019. In alcuni casi con semplice determine, in altri attraverso gare pubbliche. Lo Sprar è il «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati», il servizio del Viminale per i progetti di accoglienza, di assistenza e di integrazione dei richiedenti asilo a livello locale. Nei suoi primi anni di attività, la cooperativa di cui è amministratrice la suocera di Soumahoro, si è affidata alla consulenza di un commercialista, Sergio Di Raimo, che ha presentato i bilanci di Karibu dal 2004 al 2006. Di Raimo è tutt' altro che sconosciuto alla politica locale. È stato consigliere comunale di Sezze nel 2003, con una lista civica, quando il Pd non era ancora nato.

Poi, nel 2007, è stato assessore al Bilancio nella giunta Campoli. Nel 2012, primo degli eletti, è andato a presiedere il consiglio Comunale, fino al 2017, quando è diventato sindaco di Sezze con una giunta di centrosinistra. Sfiduciato nel 2021, si è ricandidato nell'ottobre dello stesso anno, ma è stato battuto da Lidano Lucidi. Attorno al 2015 la Karibu si è aggiudicata anche la gestione del Cas, il Centro di accoglienza straordinaria, sempre a Sezze. A difendere la regolarità degli affidamenti in questo settore è l'ex sindaco Campoli, che alcuni giorni fa ha pubblicato un lungo post con cui ha ricordato che la comunità di Sezze «in venti anni ha accolto centinaia di donne sole e di bambini, nella massima trasparenza amministrativa e senza che mai alcun dipendente o fornitore non venisse pagato o non venisse rispettata la dignità di queste persone, almeno per il progetto gestito dal Comune, che nasce nel 2001 con i protocolli d'intesa forniti direttamente dal ministero dell'Interno e in cui la cooperativa Karibu veniva indicata come ente gestore. Questa modalità - continua Campoli - è andata avanti fino al 2008 (tra l'altro trovando d'accordo un'amministrazione di centrodestra per quattro anni) fino a quando fui io a decidere di indire una gara pubblica per selezionare un partner per la gestione di questo provetto. Karibu vinse legittimamente e mantenne il servizio fino al 2017».

A poca distanza da Sezze si trova Priverno, l'altro comune pontino dove la Karibu ha svolto per anni la sua attività. Dal 2014 al 2016 si è aggiudicata 650mila euro dal Comune: 172mila nel 2014, 187mila nel 2015, 187mila nel 2016, e altri 103mila per accogliere 15 migranti aggiuntivi oltre a quelli già previsti. Questi affidamenti sono stati decisi nell'ottobre 2013 dalla giunta Delogu. Tutte gare con affidamento diretto. Come si legge nella delibera 45 del 2014, è stata individuata «nella cooperativa Karibu di Sezze il soggetto del terzo settore avente le caratteristiche necessarie per la progettazione e la gestione del servizio di accoglienza "integrata" a favore dei richiedenti asilo e/o dei rifugiati, in linea con il progetto Sprar, in quanto soggetto che gestisce analoghi servizi nel distretto dei Monti Lepini». Il vicesindaco di allora era Anna Maria Bilancia, attuale primo cittadino di Priverno.

Tra l'altro, negli anni 2013-2015, tra i consiglieri di maggioranza figurava Enrica Onorati, assessore comunale alle Attività produttive nel 2016 e attuale assessore regionale all'Agricoltura. In queste amministrazioni figurava anche Domenico Stirpe, già assessore nelle giunte Bilancia (2016-2021) e Delogu (2015), che ha ricoperto incarichi pure sotto Mario Renzi, sindaco Pds dal 1993 al 2003. Stirpe, come Di Raimo, ha lavorato come commercialista per la Karibu, presentando il bilancio del 2007. L'anno dopo, la coop di Mukamitsindo ha cambiato commercialista, e si è affidata a Tobia Tommasi, che ha presentato il rendiconto nel 2008. Tommasi è l'attuale assessore al Bilancio di Priverno ed è stato candidato consigliere alle comunali per Delogu sindaco nel 2013. Nel 2019 ha ricoperto anche l'incarico di revisore contabile per il progetto Sprar del Comune.

Intanto, si infiamma lo scontro in Regione Lazio. Il capogruppo della Lega, Angelo Tripodi, fa notare che «tra stipendi non pagati, lavoro in nero, condizioni inumane nei centri di accoglienza», si registra «il silenzio imbarazzato» del governatore dimissionario Nicola Zingaretti, del candidato alla presidenza Alessio D'Amato e dell'assessore all'Agricoltura Enrica Onorati, la stessa che si è fatta le ossa nella politica di Priverno, dove la coop Karibu incassava centinaia di migliaia di euro.

Virginia Piccolillo per corriere.it il 30 novembre 2022.

«Non sono Lady Gucci. Non mi farò diffamare. Porto tutti in Tribunale». Dopo lunghi giorni di silenzio Liliane Murekatete, compagna del deputato Abobakar Soumahoro, è sbottata contro i media proprio mentre gli ispettori del ministero delle Imprese e del Made in Italy chiedevano lo scioglimento del Consorzio Aid, gestito dalla «suocera di Soumahoro per "irregolarità insanabili"».

«Mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking» ha proseguito Liliane in uno sfogo all’Adnkronos, anticipando di aver dato mandato all’avvocato di querelare chi ha avuto atteggiamenti persecutori nei suoi confronti. Liliane non entra nel merito delle accuse di malversazione e truffa aggravata rivolte a sua madre Marie Terese Mukamitsindo nella gestione delle cooperative Consorzio Aid e Karibu di cui lei è stata consigliere fino allo scorso settembre.

Precisa che «peraltro sono in aspettativa dall'aprile 2022» e «sono in attesa della corresponsione degli arretrati». E ovviamente il sottotesto della narrazione esclude a priori l'ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa diventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali».

E aggiunge: «Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno».

Il silenzio di Marie Therese Mukamitsindo: «Non rilascio dichiarazioni»  La Guardia di Finanza, a cui i magistrati hanno affidato le indagini, da mesi è al lavoro per scandagliare le voci di bilancio, flussi di finanziamenti e uscite di denaro per capire se, in primo luogo, i soldi che dovevano essere destinati ai lavoratori, siano stati dirottati altrove - Corriere Tv

Il silenzio di Marie Therese Mukamitsindo: «Non rilascio dichiarazioni»

Respinge il nomignolo di Lady Gucci e aggiunge: «La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata».

Perché, dice, «la gran parte delle foto» risale «al 2014/15», ovvero «quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno». Secondo Murekatete «il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la "cooperativa della moglie di Soumahoro" (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o "la cooperativa della famiglia di Soumahoro" che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell'Autodafé».

Liliane difende il compagno che si è auto sospeso dall’incarico di parlamentare: «Aboubakar - è stato messo in croce per quelle foto perché non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto».

Liliane si scaglia anche contro le «insinuazioni» e i «gratuiti sospetti» sull'acquisto della casa di Casal Palocco.«Che permeano il ragionamento socioculturale di molti articoli malevoli: la Murekatete ha certamente acquistato la casa con i soldi della cooperativa! E invece no, il prezzo non ricompreso nella somma erogata grazie al mutuo è di provenienza lecita», spiega: «E il paradosso è che la colpevolizzazione è arrivata ad un grado di intensità tale da pretendere che io debba spiegare la provenienza delle mie risorse economiche per soddisfare la curiosità pubblica».

E spiegando che se l'autorità giudiziaria glielo chiederà, non avrà problemi a dimostrare la liceità dell'acquisto, respinge «culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche». La misura, dice «è colma».

«Io Lady Gucci? Basta, porto in Tribunale chi mi diffama». Il j'accuse di Murekatete, compagna di Aboubakar Soumahoro: "Dalla stampa un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza". Il Dubbio il 30 novembre 2022

«Adesso basta, porto in tribunale chi mi ha diffamato». È un fiume in piena Liliane Murekatete, compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, finita nella bufera dopo l’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre Marie Therese Mukamitsindo.

Murekatete decide di parlare all’Adnkronos e punta il dito contro il sistema mediatico, lamentando un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti da parte della stampa. «Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno», afferma Liliane, che precisa di non ricoprire più alcun ruolo all’interno della Karibu: «Il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la "cooperativa della moglie di Soumahoro" (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o "la cooperativa della famiglia di Soumahoro" che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell’Autodafé».

A Murekatete non sono stati perdonati i selfie in cui compare con abiti e borse firmate: foto che hanno spinto i suoi detrattori a coniare per lei il soprannome « Lady Gucci». Ma la compagna di Soumahoro non ci sta: «La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata», si sfoga Murekatete con l’Adnkronos, sottolineando come «la gran parte delle foto» risalga «al 2014/15», ovvero «quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno».

Un vero e proprio tornado mediatico ha investito la famiglia Soumahoro, portando Aboubakar ad autosospendersi dal partito con il quale è stato eletto in Parlamento alle ultime elezioni politiche, l’Alleanza Verdi Sinistra: «Aboubakar – dice Liliane – è stato messo in croce per quelle foto perché non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto». E per quanto riguarda il pagamento degli stipendi ai dipendenti, rimarca la compagna di Soumahoro, «si sorvola sul fatto che anch’io (che peraltro sono in aspettativa dall’aprile 2022) sono in attesa della corresponsione degli arretrati. E ovviamente – insiste – il sottotesto della narrazione esclude a priori l’ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa di ventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali».

"Diffamata, ai limiti dello stalking". Soumahoro, la moglie Liliane Murekatete contro gogna razzista: "Lady Gucci? Fa male pensare a donna africana benestante". Redazione su Il Riformista il 30 Novembre 2022.

Ha aspettato e incassato senza dire nulla. E’ finita nel tritacarne mediatico e politico che ha massacrato il marito, e neo deputato, Aboubakar Soumahoro per una inchiesta che è ancora nella fase di indagini preliminari. Dopo settimane di silenzi, Liliane Murekatete, 45 anni, parla e non le manda a dire. Annuncia di portare "in tribunale chi mi ha diffamato" e offre la propria versione dei fatti su una vicenda, quella dell’inchiesta della procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre Marie Therese Mukamitsindo, 68 anni, che ha scatenato giornali, televisioni e politici, quasi in estasi nel massacrare il riscatto dell’ex sindacalista candidato e scaricato da una Sinistra "radical chic e con la puzza sotto il naso".

In una intervista all’AdnKronos, Liliane non ci sta e reagisce alla gogna e all’appellativo di "Lady Gucci", coniato dai suoi detrattori per alcune foto pubblicate con indosso abiti, accessori e borse firmate: "La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica ‘griffata’ e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata" sottolinea prima di chiarire che "la gran parte delle foto" risale "al 2014/15", ovvero "quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno".

In sintesi, così come sottolineato più volte dal Riformista in queste settimane, Soumahoro e la sua famiglia sono stati massacrati perché "negri", perché "vittime del razzismo della sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo". La stessa moglie dell’ex sindacalista ricorda proprio come "il sottotesto della narrazione esclude a priori l’ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa diventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali".

Altro che presunzione di innocenza in una inchiesta dove il deputato Soumahoro non è indagato. "Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno", afferma Liliane, che precisa di non ricoprire più alcun ruolo all’interno della Karibu.

"Il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la ‘cooperativa della moglie di Soumahoro’ (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o ‘la cooperativa della famiglia di Soumahoro’ che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell’Autodafé".

Soumahoro, che la scorsa settimana nel corso di Piazzapulita su La7, aveva rivendicato "il diritto all’eleganza e alla moda" perché "è libertà, la moda non è né bianca né nera", è stato "messo in croce per quelle foto perché – spiega Liliane -non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto".

Sugli stipendi non pagati ai lavoratori della Coop, la moglie di Soumahoro rilancia: "Si sorvola sul fatto che anch’io (che peraltro sono in aspettativa dall’aprile 2022) sono in attesa della corresponsione degli arretrati". Infine è chiamata anche a fare chiarezza sulla casa comprata  a Casal Palocco dopo "insinuazioni" e i "gratuiti sospetti che permeano il ragionamento socioculturale di molti articoli malevoli: la Murekatete ha certamente acquistato la casa con i soldi della cooperativa! E invece no, il prezzo non ricompreso nella somma erogata grazie al mutuo è di provenienza lecita", spiega: "E il paradosso è che la colpevolizzazione è arrivata ad un grado di intensità tale da pretendere che io debba spiegare la provenienza delle mie risorse economiche per soddisfare la curiosità pubblica".

"Io – si difende Liliane – a questo processo mediatico non mi presto né intendo prestarmi: se l’autorità giudiziaria me lo chiederà, non avrò problemi a dimostrare la liceità dell’acquisto, ma respingo culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche".

Per Murekatete la misura è colma: "In questo piano inclinato – conclude nella sua intervista all’AdnKronos – non posso quindi fare altro, al momento, che dare incarico al mio avvocato, Lorenzo Borrè, per adire le vie giudiziarie nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking", annuncia la compagna di Aboubakar.

Estratto dell’articolo di Michele Marangon e Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.

[…] Conferma Yussef Kadmiri, un altro lavoratore delle cooperative: «Marie Thérèse e i suoi figli sono andati avanti sempre con scuse, sempre dicendo che avevano i soldi bloccati e non potevano pagare. Adesso Marie Thérèse lo ha ammesso. Spero che finalmente mi paghi. Ma lo sapevano tutti. Lo sapeva anche Soumahoro.

Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo ed erano costretti a lavorare fuori e non andare a scuola perché gli toglievano anche il poket money». [...]

Virginia Piccolillo e Michele Marangon per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.

«Anche a Natale ci hanno lasciato senza stipendio». Titti guarda in basso mentre racconta quello che ancora ha «troppa vergogna» a raccontare in famiglia: la «fregatura» ricevuta da Thérèse Mukamitsindo, suocera del deputato di Alleanza verdi-Si, Aboubakar Soumahoro. Le accuse: stipendi non pagati, promesse tradite e sfruttamento di chi si prendeva cura dei migranti. Un metodo ancora sotto i fari degli ispettori del Mise in una indagine così lunga che fa temere a Mukamitsindo un esito negativo: in presenza di gravi irregolarità si rischia il commissariamento o la messa in liquidazione delle cooperative.

E anche ieri Mukamitsindo è stata convocata dall’Ispettorato del lavoro di Latina per altri lavoratori lasciati senza contratto e troppe volte senza paga. E lo ha ammesso: «Sì, è vero. Non abbiamo fatto il contratto e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà». Un metodo che ha fatto raggranellare alle cooperative gestite allora da Marie Thérèse e dai figli Michel Rukundo e Liliane Murekatete, moglie del parlamentare ivoriano, un tesoretto di almeno 400 mila euro, stima il sindacato Uiltucs.

In quel tesoretto ci sono anche gli stipendi di Titti, operatrice italiana impiegata nel progetto Perseo che con i fondi dell’Anci Lazio prometteva di rendere autonomi i richiedenti asilo che ce l’avevano fatta: la domanda era stata accettata. La cooperativa Karibu avrebbe fatto il resto: borse lavoro, autonomia abitativa e piccole somme per acquistare beni di consumo utili a una vita in autonomia. Titti, giovane mamma, era tra quanti dovevano rendere possibile questo ultimo miglio verso l’inclusione ma, racconta, «per il Perseo non sono stata mai pagata vivendo una enorme frustrazione, oltre alle difficoltà di non avere lo stipendio. Ho accumulato oltre 20 mila euro di spettanze.

Non ero la sola. E nonostante questo andavamo avanti con la presa in carico dei giovani, contattando i possibili destinatari del progetto. Quando si trattava di attivare le "work experience", però, tutto si fermava. Karibu è stata totalmente inadempiente per la propria parte». E l’amarezza cresce se si accenna a Lady Soumahoro che, «mentre noi faticavamo ad andare avanti senza stipendio lei, tra tutti, era quella che ostentava di più».

Conferma Yussef Kadmiri, un altro lavoratore delle cooperative: «Marie Thérèse e i suoi figli sono andati avanti sempre con scuse, sempre dicendo che avevano i soldi bloccati e non potevano pagare. Adesso Marie Thérèse lo ha ammesso. Spero che finalmente mi paghi. Ma lo sapevano tutti. Lo sapeva anche Soumahoro. Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo ed erano costretti a lavorare fuori e non andare a scuola perché gli toglievano anche il poket money».

«Quando vengono colpiti i simboli di battaglie vitali per i democratici e per la sinistra, si deve riflettere. Su come, soprattutto, vengono certe volte incoraggiate ed esaltate figure di cui si conosce poco o non del tutto la sostanza, la vita concreta, gli stili di comportamento», commenta il dem Goffredo Bettini. E Nicola Fratoianni, che candidò Soumahoro, a suo dire all’oscuro di tutto, comincia a prendere le distanze: «Siamo di fronte certamente a una storia non bella. C’è una dimensione che riguarda la magistratura. Per il resto c’è una dimensione politica, la vedremo nel suo sviluppo».

Caso Soumahoro, l'ex socio: "Ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega per evitare di spendere soldi in affitti di mezzi". Storia di Redazione Tgcom24 l’1 dicembre 2022.

"Striscia la Notizia" torna a occuparsi del caso Soumahoro. Dopo la risposta dell'ex sindacalista a mezzo Ansa al servizio del tg satirico in cui venivano fatte le pulci al bilancio della sua Lega Braccianti, anche il socio Soumaila Sambare ha deciso di parlare. "Ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega – dice Sambare – per evitare che di spendere un sacco di soldi in affitti di mezzi". Ma questo furgoncino non lo avrebbe acquistato la Lega Braccianti ma una delle associazioni della moglie di Soumahoro.

L'ex socio aggiunge un altro particolare: "Ci sono stati dei morti qui, Soumahoro poteva pagare il trasferimento delle salme in Africa. I soldi sul conto c'erano, perché non li usava?". Dal bilancio si evince che i soldi della raccolta fondi del 2020 e del 2021 non sono stati mai utilizzati. L'onorevole Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da "Striscia la Notizia", dei suoi due ex soci. Il tg satirico ha iniziato a contattare Soumahoro dal 25 ottobre per intervistarlo e avere la sua versione della storia. Ma fino a oggi non ha avuto risposte dirette.

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 30 novembre 2022.

Aboubakar Soumahoro non avrà fortuna nella scelta degli affini, ma ne ha sicuramente nell'acquisto delle case. Infatti il deputato con gli stivali, quando era ancora solo un sindacalista che difendeva gli interessi degli «invisibili» braccianti delle nostre campagne, ha acquistato un bel villino su due piani con taverna vicino al mare di Roma. E lo ha fatto a un prezzo davvero concorrenziale. Ha infatti comprato nel giugno di quest' anno per 360.000 euro un immobile che il vecchio proprietario aveva acquistato a 495.000 euro nel 2011. Quasi il trenta per cento in meno.

In questi giorni diversi professionisti hanno studiato il rogito e hanno notato, oltre all'ottimo prezzo, anche altre curiosità. Per esempio nel preliminare era intervenuta solo Liliane Muraketete, la compagna di Aboubakar, mentre all'atto definitivo, senza procedere alla cosiddetta electio amici (ossia la dichiarazione di nomina) è intervenuto anche il parlamentare.

Il preliminare è stato trascritto (con relativo surplus di spese) e, considerando che la caparra in parte è stata versata al notaio, alle nostre fonti è sembrato quanto meno irrituale. Nel prerogito, oltre ai 32.000 effettivamente anticipati (a cui si aggiungono i 5.000 dati in custodia al professionista), c'è una promessa di pagamento di 15.000 da eseguirsi entro i successivi 15 giorni.

Nell'atto definitivo risultano tutti i pagamenti, avvenuti in date diverse: i 32.000 di cui sopra; 10.000 euro inviati dal conto, sembra, di Liliane; 5.000 partiti da un'altra banca (erano la caparra del notaio?); un ulteriore invio da 3.000 euro probabilmente sempre della donna. Dei residui 310.000 euro, circa 264.000 provengono dal mutuo, gli altri arrivano dai Soumahoro: 96.000 euro in tutto tra preliminare e rogito definitivo. La coppia ha anche pagato 15.860 di mediazione.

L'immobile limitrofo, di analoghe dimensioni (130 metri quadrati contro 132) è stato pagato, nel 2019, 420.000 euro. Dunque non solo la casa ha visto crollare il proprio valore nell'arco di undici anni, ma è stata acquistata a un prezzo molto inferiore rispetto a un villino del tutto simile.

Tutto regolare? Facendoci un po' di coraggio abbiamo provato a chiedere al vecchio padrone di casa se per caso una parte dell'importo non sia stato corrisposto in nero.

Apriti cielo. A. V. si è molto arrabbiato: «Sono disponibile a parlare con voi purché non si facciano illazioni. Faccio l'imprenditore e non ho venduto questa casa con una parte in nero. Se andate a vedere sui siti immobiliari potrete verificare con i vostri occhi il valore di quella villetta. Con la crisi c'è stata una forte flessione sul mercato. L'immobiliare oggi non è un buon investimento.

Con mia moglie abbiamo impiegato oltre un anno per vendere quell'abitazione. Per noi era diventata piccola. Loro, come noi all'epoca, si sono innamorati di questa casa e l'hanno comprata. È stata l'offerta migliore che abbiamo ricevuto».

In realtà noi abbiamo visto che la casa adiacente è stata venduta a circa 420.000 euro «Lo ripeto: non accetto illazioni. Come avrei potuto accettare una parte di denaro in nero da uno sconosciuto portatomi dall'agenzia? Io non avevo nessun interesse a vendere una casa con una parte di soldi che non avrei potuto mai giustificare».

Gli facciamo notare che Soumahoro ha detto di aver potuto comprare il villino anche grazie ai proventi di uno suo libro. A. V. ribatte: «Io i soldi li ho ricevuti solamente dalla compagna. È lei che si è occupata dell'acquisto e ha fatto il preliminare con l'agenzia e solo dopo, al momento del rogito, è subentrato lui e hanno deciso di cointestarla. Stiamo parlando di poca cosa rispetto ai 60 milioni (quelli ricevuti dalle cooperative dei famigliari del deputato, ndr) di cui si parla tanto. La casa è poca cosa rispetto a tutto il resto. State prendendo un granchio secondo me».

E i bonifici arrivati in giorni diversi? «Credo che la signora abbia fatto ricorso a questo sistema di pagamento perché doveva racimolare dei soldi. Racimolare forse è una parola grossa. Stava mettendo insieme una riserva per poter acquistare l'immobile. Ma parliamo di poca cosa».

A. V. era al corrente di chi fosse Soumahoro? «Ho saputo solo dopo i primi incontri che era una persona famosa, molto nota. Io, però, non lo conoscevo prima. Quelli dell'agenzia mi hanno detto che era un sindacalista e che la moglie lavorava per una cooperativa.

Ma di più non saprei dire. Tutto quello che ho ricevuto, assegni e bonifici, sono stati tracciati e regolarmente riportati nell'atto».

A. V. ha incontrato i Soumahoro solo tre volte, nella fase di acquisto, e poi una quarta, quando è recato a recuperare la posta a Casal Palocco: «In quell'occasione mi sono accorto che avevano preso una cucina usata. Ognuno di noi spende i soldi come vuole e se vuole comprarsi la borsa di Gucci e poi mangiare pane e cipolle sono fatti suoi. Magari non è così.

O magari dietro a questa storia c'è tutto il marcio che sospettate, ma non lo troverete nell'acquisto di questa casa. Stiamo parlando di quattro soldi». Il denaro utilizzato per comprare la dimora è arrivato dalla stessa filiale in cui Soumahoro ha aperto un conto per ricevere i soldi delle donazioni destinate alla «sua» Lega braccianti.

Sulla piattaforma Gofundme è ancora attiva la raccolta fondi lanciata nel 2020 dal deputato (con l'oggetto «Campagna braccianti»). La raccolta è attiva dal 3 aprile di due anni fa (3 giorni prima che venisse attivata la partita iva della Lega braccianti) e a oggi risultano raccolti 225.000 euro. Il conto corrente su cui nel primo mese arrivavano i soldi non è, però, come detto, quello della Lega, bensì quello personale dell'ex sindacalista.

In quel momento l'Italia è in lockdown, ma nell'estratto conto di Soumahoro spiccano, oltre ai bonifici in entrata provenienti dalla piattaforma di raccolta fondi e una donazione di 5.500 euro fatta il 14 aprile dal presentatore televisivo Flavio Insinna, una serie di prelievi in contanti: due da 500 euro l'8 e il 9 aprile, un altro dello stesso importo il 15, 250 euro il 22 e il 27, giorno il cui Soumahoro effettua un secondo prelievo da 150 euro. Infine, 250 euro il 2 maggio.

Il 6 maggio il conto corrente aveva un saldo contabile di 101.105 euro. I movimenti dell'estratto conto in nostro possesso arrivano sino a quella data. La filiale dove venivano trasferite le donazioni, come detto, è la stessa in cui il 30 giugno di quest' anno Soumahoro e la compagna hanno sottoscritto davanti a un notaio romano il rogito per la villetta di Casal Palocco. Il parlamentare ivoriano e signora dovranno restituire il finanziamento in 360 rate mensili da 1.078 euro l'una, per un totale di 388.080 euro, garantiti esclusivamente da un'ipoteca del valore di 532.000 euro sull'immobile acquistato. Una somma davvero considerevole. Per sua fortuna l'ex sindacalista è riuscito a entrare a Montecitorio. E non per pulire le scrivanie.

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 30 novembre 2022.

In tre anni, dal 2017 al 2019, la Prefettura di Latina ha applicato circa 490.000 euro di sanzioni alla coop Karibu che sono state detratte da quanto dovevano ricevere. In quel periodo la ditta guidata dalla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro ha gestito più di 2.500 migranti. Dal 2014 al 2019 la Prefettura ha pagato, al netto delle penali, circa 26 milioni di euro per i servizi di accoglienza. Molte di queste penali sono state pagate ai tempi del governo gialloverde, precedentemente le multe erano poco consistenti. Non sappiamo se andasse tutto bene o ci fosse un approccio ideologico.

È lungo l'elenco di esperienze su cui può contare la coop Karibu, citate dalla presidente Marie Therese Mukamitsingo (la suocera di Soumahoro) in una presentazione dell'azienda inviata al Viminale: ben 23 progetti finanziati tra il 2004 e il 2021 per un valore complessivo di 62.251.803 euro. Quelli di importo maggiore sono stati approvati dal ministero dell'Interno, (ma ne compaiono alcuni della Presidenza del Consiglio dei ministri e della Regione Lazio). Per l'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale ospitati nei Cas, i centri d'accoglienza straordinaria, il governo ha versato, come detto, tramite la Prefettura, 26 milioni di euro in sei anni. Ma ce ne sono anche un paio da 15 milioni di euro l'uno (30 complessivi) della durata di 15 anni (2004-2019). Uno per lo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) di Sezze e l'altro per quello di Roccagorga.

Lunedì abbiamo raccontato della lettera proveniente dal ministero dell'Interno e datata 31 gennaio 2019 inviata proprio al Comune di Roccagorga dal dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale. L'oggetto della segnalazione era il «Progetto Sprar 2014-2016 in prosecuzione ammesso al finanziamento del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo per complessivi 40 posti categoria ordinaria».

Nel documento si minacciavano 18 punti di penalità che avrebbero potuto portare alla «revoca del finanziamento» per questi due motivi: «Mancato rispetto della percentuale di posti destinati al Sistema di protezione indicata nella domanda di contributo»; «mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati e/o mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitativi». Una carenza, questa, che rischiava di comportare «il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata».

«La vicenda della cooperativa Karibu sta portando alla luce una serie di vizi nella gestione da parte degli enti pubblici ai quali la cooperativa erogava il servizio di accoglienza degli immigrati» è il commento dell'ex assessore di Roccagorga Lubiana Restaini. La quale ha portato avanti la sua battaglia contro questo sistema insieme con l'ex presidente del Consiglio comunale Maurizio Fusco.

La Restaini è molto infastidita da quello che ha letto e sentito in questi giorni: «Per esempio l'ex sindaco Nancy Piccaro ha raccontato al vostro giornale di aver revocato il servizio affidato alla Karibu, ma non vi ha spiegato per quale ragione nello stesso giorno, il 22 dicembre 2020, con due distinte determinazioni, siano stati liquidati 13.250 euro e 24.233,49 euro per il ricalcolo dei pagamenti del progetto Sprar degli anni 2014 e 2015. Io e Fusco ci siamo domandati perché il Comune dopo 5 anni, a ridosso del Natale, abbia dovuto fare una ricognizione delle fatture pagate un lustro prima. Quando siamo venuti a conoscenza di queste operazioni poco chiare abbiamo preso le distanze. Fusco addirittura uscì dalla Lega ed entrambi ci siamo rivolti al Viminale e alla autorità preposte».

Infatti Fusco e la Restaini avrebbero presentato due esposti alla Procura di Latina, al Viminale e alla Corte dei conti sulla questione dei circa 37.500 euro liquidati alla Karibu a cinque anni di distanza «senza una precisa richiesta di ricalcolo da parte della coop» oltre che «senza autorizzazione ministeriale all'utilizzo di eventuali somme risparmiate».

Concluso il contratto per il progetto Sprar 2017-2019 il sindaco Piccaro, con una lettera firmata il 25 giugno 2019, espresse la volontà di portare avanti il progetto e il 29 ottobre 2019 la domanda di prosecuzione venne inserita sulla piattaforma ministeriale. Solitamente tale istanza viene avanzata in situazioni di particolare fragilità dei migranti oppure nel caso siano state risparmiate delle risorse, ma la proroga non può superare l'anno di durata.

«Il Comune nel 2020, con un accordo scaduto, ha liquidato quasi ulteriori 400 mila euro per i servizi di Karibu. Ma la convenzione 2016-2019 non prevedeva né estensioni, né proroghe e neanche rinnovi automatici. In base alla richiesta del Sindaco del giugno 2019, in attesa dell'esame della domanda da parte della commissione, un decreto ministeriale del 13 dicembre 2019 stanziò ulteriori 230 mila euro per sei mesi, precisando che l'affidamento dei servizi dovesse avvenire nel rispetto delle norme».

Recentemente la Karibu ha lamentato il mancato pagamento di 90.000 euro per i servizi prestati e ne ha chiesto il saldo. Un revisore sta verificando insieme con il ministero che la doglianza sia legittima. Ieri all'ispettorato del lavoro Mukamitsindo ha incontrato tre suoi ex dipendenti rappresentati dal sindacalista della Uil Tucs Gianfranco Cartisano. La vertenza di due cittadini marocchini che hanno denunciato di aver lavorato in nero sia per Karibu che per il consorzio Aid è stata rinviata, anche se la loro vecchia datrice di lavoro non ha respinto l'accusa, ammettendo di fatto le retribuzioni fuori busta.

Invece è stata chiusa la pratica di conciliazione monocratica di S.D., assistita anche dall'avvocato Fabio Leggiero. La donna è stata alle dipendenze della Karibu dal 2016 all'ottobre 2022. Reclamava 22 mensilità e il tfr per un totale di 21.600 euro. La presidente Mukamitsindo avrebbe ammesso le proprie responsabilità: «Sì è vero. Abbiamo fatto i contratti e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà» avrebbe dichiarato all'interno dell'ufficio, provando a dilazionare la rateizzazione. Alla fine le parti si sono messe d'accordo per completare il versamento del dovuto entro il gennaio del 2024. Nell'accordo si legge che la Mukamitsindo «riconosce quanto rivendicato dal lavoratore». Chissà se adesso pagherà per davvero.

Giacomo Amadori per "La Verità" l’1 Dicembre 2022.

Non c'era nessun miracolo, nessuna imprenditrice da premiare, nessuna cooperativa modello. Nonostante per anni Marie Therese Mukamitsindo sia stata coccolata dalla politica e dai media, evidentemente interessati a tutelare gli interessi che ruotano intorno all'accoglienza dei migranti, adesso la regina è nuda.

Come anticipato dalla Verità, ieri il ministro Adolfo Urso ha svelato le sanzioni applicate alla coop Karibu dalla prefettura di Latina (491.000 euro in tre anni, a seguito di 22 ispezioni) e al consorzio Aid (38.000 euro dopo 32 ispezioni); quindi ha confermato la proposta di scioglimento fatto dagli ispettori per il consorzio Aid e ha anticipato i risultati dell'ispezione alla Karibu terminata verso le 21 di martedì, dopo circa 12 ore di indagini all'interno della struttura: la richiesta in questo caso è di liquidazione coatta amministrativa.

Il ministro Adolfo Urso l'ha spiegata con l'eccessivo indebitamento (circa 2 milioni di euro, un tema già ampiamente conosciuto ai nostri lettori). Il costante trend di peggioramento dei conti non lasciava intravedere vie d'uscita.

Urso ha dichiarato, come anticipato dalla Verità, che, dopo l'ispezione straordinaria all'Aid «le circostanze rilevate e la documentazione controllata hanno consentito agli ispettori la redazione del verbale» con la proposta di scioglimento e «la immediata notifica agli amministratori presenti».

Infatti gli ispettori hanno riscontrato «irregolarità non sanabili». Che, per la precisione, sono le seguenti: «Assenza di un reale scambio mutualistico, assenza di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell'ente». Inoltre, per il ministro, «è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio in quanto l'Aid di Latina non risulta espletare attività di coordinamento di cooperative collegate».

Per lo scioglimento la procedura è un po' farraginosa: prima che diventi effettivo, la proposta dovrà passare da un comitato centrale dove vi è una rappresentanza del mondo delle cooperative che esprimerà un parere obbligatorio, ma non vincolante. Più rapidi i tempi per la liquidazione della Karibu.

Dopo un primo tentativo di accesso, gli ispettori sono riusciti ad acquisire la documentazione rilevante e trarre le proprie severe conclusioni. Adesso la settima divisione della direzione vigilanza dell'ex Mise dovrà certificare la regolarità del lavoro ispettivo e adottare il provvedimento sanzionatorio. Poi, forse già questa settimana, il ministro nominerà il commissario liquidatore.

Il quale dovrà contestare ai vecchi amministratori eventuali responsabilità patrimoniali (ammanchi, distrazioni), che potrà segnalare anche alle autorità competenti.

Ma la vera novità di tutta questa storia è che la Karibu non sarebbe stata una cooperativa, ma una ditta a conduzione famigliare o al massimo un'associazione. Che nel giro di pochi anni avrebbe gestito più di 60 milioni di euro di fondi per l'accoglienza. Denaro che non è stato concesso solo dal ministero dell'Interno.

Per esempio anche il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese del Mise ha concesso circa 100 mila euro di aiuti alla Karibu tra il 2020 e il 2021. Un fiume di denaro erogato senza che nessuno si accorgesse della reale natura delle due coop sotto inchiesta. Una piccola holding che ha potuto non pagare oltre 1 milioni di euro di tasse e più di 100.000 euro di contributi previdenziali, pur mantenendo il Durc (documento unico di regolarità contributiva) immacolato sino a non molto tempo fa.

Eppure, come avrebbe candidamente ammesso la stessa presidente Mukamitsindo, la sua creatura non avrebbe avuto una vera struttura organizzativa. Tutto ruotava intorno all'ex profuga ruandese. Che aveva trasformato se stessa in una specie di Wanna Marchi dell'accoglienza.

Un'astuzia imprenditoriale ammantata di buoni sentimenti che ha potuto macinare soldi, fuori da ogni regola e controllo, sotto gli occhi distratti di istituzioni e donatori.

Insospettabile al punto che nessuno ha preso sul serio i tanti segnali di allarme che arrivavano, a partire dalle denunce dei lavoratori e dei migranti accolti nelle strutture gestite dalla Mukamitsindo.

Gli unici soci lavoratori presenti nei libri della Karibu erano lei stessa e il figlio Michel Rukundo, rispettivamente presidente e consigliere della coop. La prima (che risulta essere anche un'assistente sociale) percepiva circa 4.500 euro netti al mese, il suo ragazzo più o meno la metà (ma i suoi emolumenti raddoppiavano grazie alla presidenza in Aid).

C'erano poi 17 soci non lavoratori che erano veri e propri ectoplasmi.

Non risultavano neanche informati delle riunioni dell'assemblea dei soci. In una coop sana questi ultimi fanno molte cose, hanno scambi mutualistici, usufruiscono dei vantaggi che la coop genera, partecipano alle assemblee dove vengono prese le decisioni nell'interesse della cooperativa, vengono informati di eventuali contratti, approvano il bilancio. A Latina non accadeva niente di tutto questo.

Gli ispettori hanno letto dichiarazioni in cui si diceva che i soci erano stati convocati tramite posta certificata. Ma nel libro dei soci accanto ai nominativi di questi signori non c'erano gli indirizzi di pec. In Aid le convocazioni avvenivano tramite l'affissione di un foglio di carta nella sede legale del consorzio. Ma non è così che funzionano le cooperative. Sono gli organi amministrativi che devono inviare raccomandata, pec, qualcosa da cui risulti che il socio è stata raggiunto dalla comunicazione.

In sostanza tutti gli accertamenti hanno verificato che si trattava di assemblee farlocche che andavano completamente deserte. I soci erano figure svuotate di qualsiasi ruolo all'interno della vita democratica della coop, stavano lì per fare numero.

Nell'ultima assemblea della Karibu, indetta lo scorso 30 agosto per l'approvazione del bilancio, c'erano solo due nomi scritti nero su bianco: quella della Mukamitsindo e della figlia, «chiamata a fungere da segretario».

Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e «il consiglio di amministrazione al completo».

Ma per gli ispettori a quell'assemblea probabilmente non c'era nessuno se Marie Therese con i figli Liliane e Michel.

Il capitolo più interessante riguarda proprio la compagna di Aboubakar Soumahoro, la quale, ieri, attraverso l'Adnkronos ha rilasciato dichiarazioni in «giuridichese». Denunciando presunte campagne diffamatorie e rivendicando la regolarità dell'acquisto del villino di Casalpalocco in cui vive con il deputato con gli stivali, ha fatto sapere di non far «più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente». E, dopo aver precisato di non essere più consigliera da settembre, ha aggiunto di essere «in aspettativa dall'aprile 2022» e di essere «in attesa della corresponsione degli arretrati».

Insomma turlupinata tra i turlupinati, sebbene dalla propria madre o forse per colpa degli enti cattivi che non liquidano il dovuto (anche se al momento non risultano pagate poche decine di migliaia di euro a fronte di milioni di finanziamenti regolarmente incassati negli anni).

Ma gli ispettori, nelle carte della Karibu, hanno trovato due lettere che in parte smentiscono le dichiarazioni della donna. Si tratta di due scritture private vergate a mano dalla signora, con una grafia molto ordinata ed elegante. Una è datata 14 aprile (era giovedì santo), l'altra 13 maggio.

Con la prima Liliane annunciava le sue dimissioni dal Cda, nella seconda esprimeva la volontà di lasciare anche il ruolo di socio lavoratore della cooperativa. In entrambe le missive ringraziava e salutava. In calce la sua firma. Per gli ispettori si tratta di documenti che non avrebbero nessun valore giuridico perché le dimissioni avrebbero dovuto essere ratificate e ufficializzate dagli organi amministrativi e avrebbero dovuto essere comunicate alla Camera di commercio.

Per questo lei risulta ancora a tutti gli effetti essere un membro del consiglio di amministrazione. «Ha preso e si è messa da una parte. Ma in una coop si entra e si esce attraverso atti ufficiali» commenta una nostra fonte . Comunque, nonostante avesse espresso la volontà di lasciare dopo essersi una breve aspettativa, ha continuato a percepire il suo stipendio netto di oltre 2.000 euro sino al luglio scorso.

Ovvero sino a quando (era il 30 giugno) ha firmato il rogito e ha ottenuto il mutuo per il villino. Un finanziamento concesso probabilmente anche grazie anche alle buste paga della Karibu, da cui aveva già deciso di andar via. Prima di incassare 266.000 euro da rifondere in 360 rate mensili da 1.078 euro l'una, per un totale di 388.080 euro, aveva comunicato alla banca che da lì a pochi giorni avrebbe rinunciato allo stipendio e sarebbe diventata una «disoccupata»? Gli ispettori hanno verificato che l'ultimo cedolino è di luglio e conteneva anche il trattamento di fine rapporto. Alla fine ispettori e collaboratori hanno avuto l'impressione che Marie Therese e il figlio Michel abbiano vissuto gli accertamenti quasi come una liberazione. Di fronte alla tempesta mediatica e alle indagini penali, avrebbero manifestato quasi sollievo di fronte alla prospettiva di essere privati del controllo due società che sono diventate autentici fardelli.

Clemente Pistilli per "la Repubblica – Edizione Roma" l’1 Dicembre 2022.

Non ci sono stati solo gli ottimi rapporti con diversi Comuni pontini a garantire la gestione dei centri per migranti alle coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro.

Le cooperative ora al centro dell'inchiesta della Procura di Latina, che sta indagando sulle decine di lavoratori lasciati senza stipendio e sugli stranieri costretti a vivere con poco cibo, senza acqua e luce, sarebbero riuscite a incassare circa 65 milioni di euro in venti anni anche grazie alle Prefetture.

Soltanto il consorzio Aid, di cui è consigliera Maria Therese Mukamitsindo, ha infatti ottenuto ben 2,4 milioni di euro in soli tre anni dalle Prefetture di Latina e Lecce.

Tra servizi di accoglienza per richiedenti asilo e richiedenti protezione internazionale, nel 2018 la Prefettura di Latina ha dato 640.449 euro al Consorzio, che nel capoluogo pontino attualmente ha sede nello stesso immobile dove l'onorevole eletto con Alleanza Verdi e Sinistra ha stabilito la sede anche della sua Lega Braccianti.

Nel 2019 la stessa Prefettura ha poi concesso ad Aid oltre 914mila euro e oltre 640mila nel 2020. Ad affidarsi alla coop della suocera di Soumahoro non è però stata solo la Prefettura di Latina, dove Aid e Karibu sono radicate e dove hanno iniziato a muovere i primi passi sia Maria Therese Mukamitsindo che la figlia Liliane Murekatete.

Il Consorzio ha infatti ottenuto anche dalla Prefettura di Lecce 184.230 euro nel 2018 e tremila euro nel 2019. In Puglia, dove ha svolto larga parte della sua attività sindacale Soumahoro, quattro anni fa la stessa coop ha infine ottenuto, come emerge dai bilanci, 27.621 euro dalla Prefettura di Brindisi. Un fiume di denaro pubblico a cui, come ipotizzano gli inquirenti, non sarebbero corrisposti i servizi previsti.

Ieri intanto, rispondendo a un'interrogazione alla Camera di FdI, il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, ha sostenuto che la Prefettura di Latina, dal 2017 al 2019, dopo 22 ispezioni ha applicato circa 491mila euro di sanzioni alla cooperativa Karibù e che, negli anni 2018- 2022, dopo 32 ispezioni ha comminato 38mila euro di sanzioni ad Aid. Ben poco rispetto ai pagamenti fatti dalla stessa Prefettura.

Urso ha poi annunciato che, alla luce di quanto emerso dalle ispezioni avviate dal suo Ministero, nel Consorzio Aid sono state riscontrate « irregolarità non sanabili » per l'« assenza di un reale e autentico scambio mutualistico, di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell'ente » , e che « è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio», per cui gli ispettori hanno proposto lo scioglimento dello stesso. Ha poi aggiunto che è stata proposta pure la messa in liquidazione coatta amministrativa della Karibu, «per eccessivo indebitamento » . Cooperative a cui lo stesso Ministero, tra il 2020 e il 2021, ha concesso 110mila euro di aiuti con il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese.

Mentre Gianfranco Cartisano, segretario della Uiltucs, ieri ha chiesto al prefetto di convocare tutti gli enti che hanno affidato servizi alle due coop affinché si trovi una soluzione per i lavoratori non pagati, Angelo Tripodi, capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio ha poi criticato i silenzi dei vertici della Regione e dell'ex sindaco di Latina: « Gli esponenti di punta del Pd del Lazio prima hanno finanziato tutto questo senza controllare, andando a fare selfie e passerelle alle iniziative della Karibu. Ora tacciono sul sistema Latina».

Soumahoro, gli affari della famiglia col Pd: il caso si ingrossa. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 30 novembre 2022

Inchieste giudiziarie, le prime ammissioni di colpevolezza, ombre nere che riguardano i legami col Pd. Il "caso Soumahoro" si allarga. Ieri è stata una giornata molto tesa: i carabinieri fuori dalla porta dell'ispettorato del lavoro di Latina, mentre altri ispettori, incaricati dal ministero delle Imprese, nella vicina sede del Consorzio Aid stavano passando al setaccio i documenti dell'altra coop presieduta da Marie Therese Mukamitsindo, la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro indagata per truffa aggravata, fatture false e malversazioni. La cooperativa sociale Karibu doveva alla 30enne Stefania di Ruocco, sposata e mamma, oltre 20mila euro, e dopo due anni di rifiuti la Mukamitsindo, nella sede dell'ispettorato del lavoro, ha ammesso i mancati pagamenti: «È vero, non le abbiamo pagato gli stipendi per due anni». È la prima svolta.

GLI OBBLIGHI

Di fronte al conciliatore monocratico la suocera di Soumahoro ha accettato di pagare alla giovane gli arretrati: 21.595,20 euro- si legge nel verbale - che corrispondono alla tredicesima del 2020, a tutte le mensilità 2021, alle retribuzioni da gennaio a ottobre 2022. Mukamitsindo ha voluto liquidarla a rate. In passato ha già disatteso promesse simili, e dunque l'avvocato Fabio Leggiero, incaricato dal sindacato Uiltucs, ha imposto una condizione: la prima rata, 4.319 euro, a stretto giro, entro il 20 dicembre. «Il mancato pagamento nei termini previsti», dice a Libero, «darà la facoltà di richiedere la somma in un'unica soluzione».

In questo caso si è trattato di una lavoratrice che la suocera di Soumahoro aveva contrattualizzato, a differenza dei marocchini Youssef Kadmiri e Mohamed El Moutaraji, per i quali parlerebbero la sfilza di messaggiWhatsApp scambiati sia con Mukamitsindo sia con la figlia Aline, e però "lady Karibu" ha negato che abbiano lavorato per lei, o meglio, l'avrebbero fatto solo per poche settimane - sostiene - e si è rifiutata di pagarli. A complicare la posizione della famiglia Soumahoro dicevamo che potrebbero essere anche i rapporti col Pd. Si sta delineando un sistema di assunzioni e consulenze elargiti dalle due coop. A Roccagorga (Latina), quando amministravano i Dem, Karibu ha assunto un ex assessore comunale del Pd ai Servizi sociali, Tommaso Ciarmatore. Lo stesso Comune nel 2015 aveva ottenuto la gestione del centro d'accoglienza migranti. «In tutto questo il governatore del Lazio Nicola Zingaretti tace», tuonano i consiglieri regionali leghisti, «e tace anche il candidato alla presidenza Alessio D'Amato». Il deputato di Fdi Giandonato La Salandra ha presentato un'interrogazione parlamentare.

GLI INTRECCI

Ma anche nello stesso Pd, già nel 2015, c'erano dubbi, diciamo così, su certe operazioni: due consiglieri dem di Roccagorga, Fabiola Pizzulli e Francesco Scacchetti, avevano presentato un'interrogazione diretta all'allora sindaco, Carla Amici: «È stato approvato il piano d'accoglienza Sprar 20142016: per la provincia di Latina si riconosce al comune di Roccagorga il finanziamento più importante, 327mila euro l'anno. Alla luce delle ultime vicende che riguardano il sistema di lucro con i fondi per la gestione dei migranti chiediamo l'elenco dei trasferimenti al Comune di Roccagorga e alla cooperativa Karibu». In un comune di 4mila anime, 327mila euro all'anno a una coop. Ci sono poi stati funzionari che hanno affittato propri immobili agli stessi migranti.

E a Sezze, dove ha sede la coop, Karibu ha incassato in 18 anni 5 milioni e mezzo, senza gare d'appalto, tutto di proroga in proroga. Tutto sospetto. Intanto l'ex socio di Soumaoro, Soumaila Sambare, lancia nuove accuse: «Con i soldi del nostro conto Abou ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega Braccianti per evitare di spendere un sacco di soldi in affitti di mezzi». Il pulmino lo avrebbe acquistato una delle associazioni della suocera Soumahoro. E poi: «Ci sono stati dei morti qui, Soumahoro poteva pagare il trasferimento delle salme in Africa. I soldi sul conto c'erano, perché non li usava?». I conti perla raccolta fondi, ha mostrato Striscia la Notizia, coincidevano con quelli di Abou. Coincidenze?

Così la coop della famiglia di Soumahoro era legata a esponenti del Pd. A Roccagorga, piccolo centro in provincia di Latina, elargiti centinaia di migliaia di euro per l'accoglienza dei migranti. E si scopre che l'assessore ai Servizi sociali era dipendente della coop Karibù. Tonj Ortoleva il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Quella della cooperativa Karibù, gestita da Marie Therese Mukamitsindo, suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, è una storia complessa fatta di proteste, denunce e gestione sui generis dell’accoglienza di immigrati e richiedenti asilo. Oggi si sono accesi i riflettori della procura di Latina che indaga Mukamitsindo per i reati di malversazione, truffa aggravata e false fatturazioni. Ma già da tempo c'erano dubbi e perplessità sulle modalità di gestione e sui rapporti con la politica in particolare in piccoli comuni della provincia di Latina.

La coop "regina" dell'accoglienza in provincia di Latina

La coop di Sezze Karibù ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe (giustificate dalla continua emergenza) nel comune setino e poi in altre realtà della provincia pontina. Inoltre la Karibu, nel 2015, ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Nel 2018 erano ben 51 su 129 i centri per l’accoglienza dei migranti gestiti da Karibu in provincia di Latina, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo. Una coop che aveva per le mani una montagna di soldi pubblici, qualcosa come cinque milioni e mezzo di euro in 18 anni.

Il caso Roccagorga

Sulle attività di questa cooperativa, gestita dalla suocera di Soumahoro e dalla moglie, Liliane Murekatete, si sono spesso addensate nubi fatte di proteste, lamentele e sospetti. Già nel 2018 balzarono alle cronache le denunce del capogruppo regionale della Lega, Angelo Tripodi, che dava eco alle domande sollevate dall’esponente del suo partito a Roccagorga, Andrea Orsini. La Lega aveva infatti “scoperto” che l’assessore ai Servizi sociali del comune di Roccagorga, esponente del Partito democratico, era anche dipendente della coop Karibù. Si tratta di Tommaso Ciarmatore che si è sempre difeso sostenendo che sì lavorava per Karibù, ma in un’altra sede. Come dire, non c’è alcun conflitto d’interesse. La cooperativa della famiglia di Soumahoro gestiva l’accoglienza dei migranti nel comune ed era “arrivata ad incassare anche 300 mila euro in un anno”, come spiega Tripodi. Il capogruppo regionale del Carroccio presentò all’epoca una interrogazione in Regione corredata di documenti, come “la determina del 13 settembre 2017 con cui, a di un progetto di accoglienza per 40 posti, l’ente riceve dal Ministero 535 mila euro all’anno per tre anni, con affidamento diretto del servizio alla Karibù”.

A Roccagorga, 5 mila anime sui Monti Lepini, Karibù ha gestito per quindici anni l’accoglienza dei migranti e quasi sempre alla guida del paese c’era una amministrazione di centrosinistra. La convenzione veniva rinnovata automaticamente alla scadenza di ogni triennio, fino ad arrivare all’ultimo rinnovo per il triennio 2016-2019. Solo nel 2014 Roccagorga ha ottenuto oltre 300mila euro di fondi per i rifugiati mentre tra il 2017 e il 2019, sono stati elargiti 535mila euro l'anno. I soldi per questo genere di servizio, ricordiamolo, sono erogati dallo Stato, non dai singoli comuni. Una gestione comunque oscura, come ricorda il capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi: “La coop Karibù ha da sempre un legame forte col Partito democratico e con i comuni che esso amministra in provincia di Latina. Affidamenti spesso senza gara, proroghe generose, immobili affittati dai dipendenti pubblici alla cooperativa o come nel caso di Roccagirga l’assunzione di un amministratore del Pd nella società della suocera di Soumahoro”.

Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” il 29 novembre 2022.

Non è tutto Soumahoro quello che luccica. Partiamo dalla vicenda del mutuo per la casa di proprietà, poi passiamo alla suocera, che da ieri è indagata anche per truffa aggravata. Ebbene l'ex sindacalista, ospite a Piazzapulita (La7), ha sostenuto di aver acquistato il villino "grazie" alla moglie. Ma lei, Liliane, è "disoccupata". Quali garanzie hanno dato alla banca per accedere al credito (270mila euro), ha domandato Corrado Formigli. Il deputato ha risposto che la sua fonte principale di reddito all'epoca del rogito era "Umanità in rivolta", il libro scritto per Feltrinelli.

Ok. Si può campare con i proventi di un manoscritto, comprandosi anche casa? Vediamo un po': il saggio in questione, uscito nel 2019, aveva un prezzo di copertina di 13 euro. Di solito le case editrici lasciano un dieci percento all ' autore, quando va bene. E diciamo che sia andata così, dal momento che Abou aveva alle spalle due padri nobili a fare da garanti: uno dei più importanti giornalisti politici italiani, Marco Damilano, e colui che è conosciuto nel mondo come il nostro più grande scrittore contemporaneo: Roberto Saviano. 

Nonostante gli sponsor e la promozione, a questo giornale risulta che "Umanità in rivolta" abbia venduto in tre anni poco più di 9mila copie. Tante per un esordiente. Poche, in relazione all'hype creato dai padrini intorno al personaggio. Ora due conti: un euro e spicci a copia (nelle librerie digitali oramai è in saldo) e viene fuori che Soumahoro ha ricavato dalla sua fatica letteraria poco meno di diecimila euro. Neanche i soldi per la proposta d'acquisto del bilivello in zona Roma Sud (quartiere dove vivono i calciatori della Roma). Insomma: "Qualquadra non cosa".

Ancora il libro: è il primo maggio 2019 e il paladino dei braccianti va dal Papa per donargli una copia. Ce lo porta Damilano, che a Francesco regala dei numeri dell'Espresso. La foto viene mostrata a Propaganda Live. Ma, sorpresa: secondo Striscia La Notizia dagli scatti sparisce la sbarra che separa Sua Santità dal nuovo "papa nero" della sinistra. Perché? Forse si vuole dare l'idea dell'intimità tra "colleghi". Forse Soumahoro è vittima inconsapevole del "caporalato" dei suoi mentori. 

Lo spintonano sulla strada che porta alla gloria. Ma lui inciampa. Sempre ieri Striscia ha raccolto le testimonianze degli ex soci di Abou nella Lega Braccianti. Mamadou Balde racconta: "Durante il Covid abbiamo fatto richiesta per l'assegno del reddito d'emergenza: l'accordo era che 25 euro sarebbero andati al patronato e 25 euro a noi braccianti". Però "quando i soldi sono arrivati e abbiamo chiesto la nostra parte, Soumahoro ha cambiato faccia e ci ha ignorato". Imbarazzante.

Ma perché i colleghi dell'uomo di origini ivoriane parlano solo ora e hanno taciuto all'epoca dei fatti? Boh. Sempre secondo Pinuccio di Striscia ci sarebbero delle irregolarità anche nelle spese per il trasporto merci della Lega Braccianti: "Gli ex soci di Aboubakar ci hanno fornito gli estratti conto di spesa e per i trasporti vengono fuori 3-4mila euro: gli altri 33mila dove sono finiti?". Va detto che Soumahoro non è indagato. 

Sua suocera invece sì. Per fattispecie penali pesantissime: truffa aggravata, false fatturazioni e malversazioni di erogazioni pubbliche. Le accuse dei pm di Latina nei confronti di Marie Therese Mukamitsindo si concentrano sulla "gestione opaca" delle coop Karibu e Consorzio Aid, che negli anni hanno ottenuto finanziamenti per cifre che superano i 60 milioni di euro. "L'indagine è a buon punto", spiegano gli inquirenti. 

La Guardia di Finanza da mesi sta passando al setaccio le voci di bilancio, i flussi di finanziamenti e le uscite di denaro per capire se i soldi che dovevano essere destinati ai lavoratori, siano stati dirottati altrove. «Una vicenda bruttissima», dice Angelo Bonelli (verdi), «mi ha colto alla sprovvista». Parlare di «diritto all'eleganza» in relazione alle Vuitton di Lady Soumahoro è «totalmente inopportuno».

Aboubakar Soumahoro, l'ex socio della Lega Braccianti denuncia: "Ci ha sfruttati per fare carriera". Storia di Redazione Tgcom24 il 30 Novembre 2022

Caso Aboubakar Soumahoro. A  "Striscia la Notizia" parla Mamadou Balde, uno degli ex soci della Lega Braccianti che denuncia il modus operandi del parlamentare di Verdi e Sinistra finito nell'occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali nel Lazio gestite dalla moglie e dalla suocera, iscritta nel registro degli indagati. «Durante il Covid abbiamo fatto richiesta per l’assegno del reddito d’emergenza: Soumahoro ci ha detto di fare tutti domanda dal nostro patronato e l’accordo con lui era che 25 euro sarebbero andati al patronato e 25 euro a noi braccianti», racconta Balde intervistato dall'inviato di "Striscia" Pinuccio.

Mamadou Balde denuncia: «Abbiamo fatto più di 600 domande, peccato che quando i soldi sono arrivati e abbiamo chiesto la nostra parte, Soumahoro ha cambiato faccia e ci ha ignorato. Ci ha sfruttato, ha utilizzato noi migranti per fare carriera».

Che fine hanno fatto i soldi per il trasporto delle merci? Pinuccio evidenzia un'altra incongruenza: nel bilancio della Lega Braccianti presentato da Soumahoro nella trasmissione "Piazza Pulita", alla voce “spese per i trasporti delle merci” risultano circa 38mila euro. «Eppure, gli ex soci di Aboubakar ci hanno fornito gli estratti conto di spesa e per i trasporti vengono fuori 3-4mila euro: gli altri 33mila dove sono finiti?», domanda l’inviato di Striscia.

Clemente Pistilli per repubblica.it il 2 dicembre 2022.

"Sull’onestà di Aboubakar Soumahoro metto la mano sul fuoco. Ha la mia solidarietà totale". Di più: "Forse nei prossimi giorni ci vedremo qui a Riace. È una persona distrutta, contro di lui c’è una strategia finalizzata alla denigrazione del valore morale e dell’impegno di una vita".

Esploso il caso delle coop della moglie e della suocera del deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, al centro di un’inchiesta della Procura di Latina su tributi evasi, lavoratori non pagati e migranti costretti a vivere in condizioni terribili, sono state ben poche le voci che anche a sinistra si sono levate a difesa del sindacalista diventato parlamentare.

L’unico che ha cercato subito di blindare Soumahoro è stato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che impiegavano migranti, e condannato lo scorso anno dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio, ritenendo che avesse messo su anche una vera e propria associazione per delinquere.

Tra il cosiddetto "Modello Riace" di Lucano e quello della famiglia di Soumahoro emerge però ora un punto di contatto e a scovarlo è stato Angelo Tripodi, capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio, il primo a sollevare una serie di dubbi sugli affari della coop Karibu e del Consorzio Aid e a denunciare un "sistema Latina".

Il presidente della coop Promidea, Carmine Federico, indagato dalla Corte dei Conti della Calabria insieme a Lucano e ad altri rappresentanti di una serie di cooperative, ipotizzando un danno erariale milionario nella gestione migratoria, è stato impegnato anche nel Consorzio Aid. Il Consorzio – come sostenuto anche da Tripodi – ha avuto la sede legale, dal 2009 al 2014, a Rende, in provincia di Cosenza, allo stesso indirizzo della Promidea. Il 31 dicembre 2009, tra l’altro, quando il Consorzio ha approvato il bilancio su quel documento c’è la firma della presidente Maria Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e dello stesso Carmine Federico, nella veste di segretario. L’emergenza migratoria calabrese – conclude – mi sembra connessa all’accoglienza nel Lazio e a Sezze, ma anche con la Lega Braccianti e i ghetti del foggiano.

La Corte dei Conti della Calabria, alla luce degli accertamenti della Guardia di finanza, ha contestato a Lucano, Federico e altre 40 persone un danno erariale di oltre 5 milioni di euro, relativo a irregolarità negli affidamenti per la gestione dei centri di accoglienza per i migranti in Calabria. Il presidente di Promidea risulta anche nel consiglio direttivo del Consorzio Sfide di Roma, costituito nel 2018 per partecipare agli avvisi di Fondimpresa, essere amministratore della società Inet, presidente del CdA della coop Atlante, amministratore di Promidea Impresa Sociale, e risulta avere quote del Cosenza Calcio.

Il Consorzio Aid, al centro dell’inchiesta della Procura di Latina e degli accertamenti dell’Ispettorato del lavoro di Latina, che solo dalle Prefetture di Lecce e Latina ha incassato 2,4 milioni in tre anni, a fronte di sanzioni per soli 38mila euro comminate alla luce di irregolarità riscontrate con 32 ispezioni, rischia ora lo scioglimento.

Lo ha sottolineato il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, al termine dei controlli inviati alle coop di Mukamitsindo e Liliane Murekatete, aggiungendo che sono state riscontrate "irregolarità non sanabili", per "l’assenza di un reale e autentico scambio mutualistico, di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell’ente", e che "è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio".

"Sostengo da tempo – evidenzia il consigliere regionale Tripodi – che c’è un sistema Latina e i fatti sembrano darmi ragione. Aid ha approvato i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibù a Sezze mantenendo la sede legale a Rende. Sono un garantista, però, ci sono processi e inchieste importanti in Calabria, nel Lazio e in Puglia".

Da nicolaporro.it il 2 dicembre 2022.

Continua ad essere il caso mediatico più importante di questi ultimi giorni, quello relativo al deputato di Verdi-Sinistra Italiana, Aboubakar Soumahoro, al centro di una vera e propria grana politica per il caos che ruota attorno alla coop della suocera.

A non convincere sono anche le posizioni del deputato con gli stivali e di sua moglie, al centro delle diatribe proprio per non essersi mai accorti di quanto succedeva nei centri gestiti dalla suocera (di cui la figlia ne risultava essere consigliere). Nel corso di queste settimane, il sito nicolaporro.it ha ripercorso, da cima a fondo, tutte le varie sfaccettature relative al caso. Dalle dichiarazioni dell’ex senatrice SI Fattori, che ha raccontato le condizioni igienico-sanitarie precarie delle coop gestite, al pianto di Soumahoro in un video pubblicato sui suoi canali social, fino ad arrivare alla sua difesa negli studi televisivi di Piazzapulita, il caso è arrivato anche tra le stanze di Radio24, dove Giuseppe Cruciani, dai microfoni de La Zanzara, ha attaccato il parlamentare con gli stivali.

Il fatto riguarda il libro di Soumahoro, Umanità in Rivolta, con il quale (a detta dello stesso deputato) sarebbe riuscito a mantenersi grazie all’ingente somma guadagnata dalla vendita di copie. Ma il dato lampante è che il saggio ha venduto circa 9mila. Facendo due calcoli, se la casa editrice avesse corrisposto a Soumahoro una cifra pari al 10 per cento del costo di una singola copia (13 euro), ecco che il parlamentare avrebbe ottenuto una somma intorno ai 10mila euro di guadagno. Un buonissimo traguardo per un esordiente (il libro è del 2019), ma sicuramente non sufficiente per riuscire a vivere senza altri proventi.

E, a questo punto, interviene Cruciani: "Il signor Bruno Vespa, cosa doveva comprarsi con gli introiti dei suoi libri allora? La reggia di Versailles, il Campidoglio, che cosa?". E ancora: "Ogni giorno ne escono di cotte e di crude, adesso la suocera ammette di non avere pagato gli stipendi. Basterebbe questo per mettere la pietra tombale sulla vicenda Soumahoro e di qualsiasi persona lo abbia portato sul palmo di mano". Ma non finisce qui, Cruciani sentenzia: "Il simbolo dell’integrazione, il simbolo dell’Italia nuova, dell’immigrazione regolare, questo era Soumahoro ed in questo modo è crollato".

Fabio Amendolara e François de Tonquédec per "La Verità" il 2 dicembre 2022.

Ha continuato a ripetere «non sono interessata» per tutta la telefonata. Inutile cercare di spiegare a Dafne Malvasi, la poetessa nata a Bari ma partenopea d'adozione che a 27 anni in seconde nozze ha sposato nel settembre 2008 Aboubakar Soumahoro, quale fosse la finalità della telefonata.

Appena ha sentito il nome di Aboubakar si è arroccata, dribblando pure le domande sul matrimonio. A un successivo messaggio, quando le abbiamo spiegato che secondo alcune fonti risulta ancora sposata con Soumahoro, ha risposto stizzita: «Io non voglio entrare in alcun modo in una vicenda che non mi riguarda. Siamo divorziati. Non ho nulla a che fare con tutto ciò».

La fine della relazione resta avvolta dal mistero. Di certo, però, quelle nozze sono un tassello importante nella scalata verso la vetta da icona dell'ultrasinistra che Aboubakar aveva già cominciato a costruire. Nel 2008 a Napoli era già un personaggio. E, così tra un corteo, una manifestazione e un sit-in con Rdb, del quale diventò subito il referente nazionale del settore immigrazione (per poi mollare poco dopo la sigla passando alla Rete antirazzista), si sposò a favore di telecamere al Maschio Angioino di Napoli.

Con una sorridente Rosa Russo Iervolino, all'epoca sindaco, visibilmente orgogliosa di celebrare l'unione tra l'intraprendente ivoriano e la cittadina napoletana Dafne.

«Nozze miste, leader immigrati sposa ragazza di Pianura (popoloso rione periferico napoletano, ndr)», titolò l'edizione napoletana di Repubblica. Che nell'articolo definì «speciale» il matrimonio. Il Corriere della sera, invece, dedicò una foto-notizia, definendo l'evento «un bel matrimonio».

«Abou, così lo chiamano gli amici, è punto di riferimento di tutta la comunità africana in città» e Dafne «è una bella ragazza bionda del quartiere di Pianura a Napoli teatro, negli ultimi giorni, di episodi di intolleranza nei confronti della locale comunità di immigrati che si è affidata proprio ad Abou per cercare soluzioni alle gravi condizioni di degrado in cui vive». Insomma, quello per Abou era il momento giusto.

Con il matrimonio a Pianura tutti i riflettori erano ormai su di lui. Tanto da diventare protagonista, ha scoperto Striscia la notizia, di una puntata della trasmissione Un mondo a colori (Rai Educational) di quello stesso anno.

«Una unione che va ben al di là del sentimento di tolleranza», pontificò Iervolino durante la cerimonia, aggiungendo: «e che prelude a rapporti ben più profondi e duraturi tra due ragazzi come voi che provengono da due mondi molto diversi».

Un particolare, quest' ultimo, che non deve aver portato granché fortuna alla coppia. Dei due ancora insieme si trovano tracce fino al 2011 (parteciparono insieme a un sit-in). Iervolino augurò comunque «tutto il bene di questo mondo» agli sposini. Chi ha partecipato alla cerimonia ricorda un Abou commosso, che alla vista di Dafne in un classico vestito da sposa completo di velo, non riuscì a trattenere le lacrime. L'emozione svanì quando alla domanda di rito rivoltagli dal sindaco sulla volontà di sposare Dafne, Abou rispose con un forte sì che rimbombò nell'antica sala del castello. A immortalare la favola di Abou e Dafne c'erano fotografi e telecamere.

«Ci siamo conosciuti il 14 luglio del 2004 nella mensa universitaria», raccontò all'epoca Dafne. Nella sua biografia disponibile online Dafne Malvasi racconta di essere nata a Napoli e di vivere «temporaneamente» a Torino da «molti anni», dove attualmente lavora come social media manager per la filiale italiana di una multinazionale tedesca.

La donna che sul web si descrive come «attenta osservatrice delle tematiche legate al gender gap e parte attivista dei movimenti femministi», è stata la vincitrice del XII Premio Poesia Città di Pesaro, per il Premio Letterario Internazionale «La Donna si racconta». Ma nella sua biografia, oltre che per la poesia, c'è spazio per «il sud del mondo».

«È stata la presa della Bastiglia e io rimasi incantato», precisò Abou. Ma già a fine cerimonia, al momento della foto di gruppo, cominciarono a mostrarsi le prime contraddizioni. Davanti alle torri del castello, riportano le cronache dell'epoca, un gruppo di ambulanti extracomunitari si allontanò di corsa con la merce raccolta in un telo al sopraggiungere di una macchina della polizia municipale.

È così da sempre: lui davanti alle telecamere, quelli che chiama «fratelli», invece, a vendere per strada o a lavorare nei campi. Ciononostante di difensori d'ufficio Soumahoro ne ha ancora più d'uno.

«Tutto quello che si sta raccontando sulla Lega Braccianti sono bugie per colpire Abou per motivi legati alla politica», afferma Zare Issa, membro della lega fondata da Soumahoro. Per lui «non esiste violenza nel campo di Torretta Antonacci e non c'è nessun esercito armato, siamo solo un'associazione che aiuta i braccianti, ci aiutiamo l'un l'atro». E rivendica: «Abou si è battuto per noi, prima di lui non avevamo neppure l'acqua potabile qui a Torretta Antonacci, mentre oggi abbiamo anche i container dove dormire».

Bufera in Campidoglio dopo la nostra inchiesta Karibu Capitale. Rita Cavallaro su L’Identità il 2 Dicembre 2022

Pubblicata oggi su L’Identità, ricostruisce il fiume di denaro, per oltre due milioni di euro, versato dal Comune alla coop della suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo. Sulla questione è intervenuta la Lega di Matteo Salvini, che sul caso presenta un’interrogazione alla Giunta Gualtieri e chiede la riunione delle Commissioni capitoline, per chiarire la vicenda.

"La Lega chiede conto di quanto emerge sui rapporti del Campidoglio con la coop Karibu che fa capo alla suocera del deputato Alleanza Verdi Soumahoro. Cifre altissime, che dal 2016 ad oggi ammonterebbero a oltre due milioni di euro di cui duecentomila solo nel 2022. È necessario che gli assessori competenti riferiscano e siano immediatamente riunite le Commissioni capitoline preposte. Quanto accade è una vergogna, un fiume di denaro uscito dalle tasche dei contribuenti per l’accoglienza e l’assistenza sociale sul cui destino si deve fare piena luce: quanti soldi, dal 2016, con la giunta Raggi, ad oggi, con la giunta Gualtieri, sono stati pagati alla coop, e che cosa è stato fatto. Vogliamo leggere i bilanci, sapere quanti bandi sono stati vinti da questa cooperativa anche a livello regionale, con la giunta Pd e M5S guidata da Zingaretti e D’Amato, e se siano mai arrivate prima lamentele dai lavoratori o da chi era loro vicino". Lo dichiara in una nota il capogruppo della Lega in Campidoglio Fabrizio Santori, a proposito delle ultime notizie pubblicate sul caso della cooperativa Karibu. "Una situazione così grave lascia pensare anche ad una pressoché totale mancanza di controlli puntuali, seri ed accurati, non soltanto sul piano economico e gestionale, ma anche su quello dei diritti del lavoro, per la sicurezza, l’igiene, la sanità e la condizione dei dipendenti. Di tutti questi dovuti controlli attendiamo di conoscere il numero, le modalità e i contenuti", conclude Santori.

Quell'inchiesta su Mimmo Lucano e l'ex collaboratore della suocera di Soumahoro. Dar. Mar. Il Tempo il 02 dicembre 2022

Il Consorzio Aid della suocera di Aboubakar Soumahoro ha avuto la sede legale dal 2009 al 2014 a Rende, in provincia di Cosenza. Nella stessa via e allo stesso civico si trovava anche Promidea, cooperativa che ha come presidente Carmine Federico, che è stato indagato dalla Corte dei Conti su un presunto danno erariale da circa 5 milioni nella gestione migratoria in Calabria, insieme all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e a un'altra quarantina di persone.

Carmine Federico è stato anche un collaboratore della coop della suocera di Soumahoro. Il 31 dicembre 2009, infatti, il Consorzio Aid approvò il bilancio in cui figuravano Marie Terese Mukamitsindo, in qualità di presidente, e proprio Carmine Federico come segretario. Inoltre, Aid approvò i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibu a Sezze, mantenendo la sede legale però a Rende.

A scoprire le connessioni tra la cooperativa di Mukamitsindo e la Calabria, è Angelo Tripodi, capogruppo della Lega alla Regione Lazio, uno dei primi a parlare del "Sistema Latina", riferendosi alla gestione delle società che fanno capo alla famiglia del parlamentare di Verdi e Sinistra su cui ha finito per indagare anche la Procura del capoluogo pontino.

Soumahoro & Lucano: un loro collaboratore indagato dalla Corte dei Conti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022

A provare a difendere Soumahoro è stato Mimmo Lucano l' ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che utilizzavano migranti, vendendo condannato nel 2021 dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per "truffa", "peculato", "falso e abuso d’ufficio"

Esploso il caso delle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, al centro di un’inchiesta della Procura di Latina su tributi evasi, lavoratori non pagati e migranti costretti a vivere in condizioni terribili, sono state ben poche le voci che anche a sinistra si sono levate a difesa del sindacalista diventato parlamentare."Sull’onestà di  metto la mano sul fuoco. Ha la mia solidarietà totale. Forse nei prossimi giorni ci vedremo qui a Riace. È una persona distrutta, contro di lui c’è una strategia finalizzata alla denigrazione del valore morale e dell’impegno di una vita".

A provare a difendere Soumahoro è stato Mimmo Lucano l’ ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che utilizzavano migranti, vendendo condannato nel 2021 dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per "truffa", "peculato", "falso e abuso d’ufficio", ritenendo che avesse messo su anche una vera e propria associazione per delinquere.

Cosa unisce il "Modello Riace" di Lucano ed il modus operandi della famiglia di Soumahoro ? Esiste un punto di contatto scoperto dal capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio, Angelo Tripodi, il primo a sollevare una serie di dubbi sugli affari della coop Karibu e del Consorzio Aid denunciando un "sistema Latina". Stiamo parlando di  Carmine Federico, presidente della coop Promidea, indagato insieme a Lucano e ad altri rappresentanti di una serie di cooperative, dalla Corte dei Conti della Calabria che ipotizza un danno erariale milionario nella gestione migratoria, il quale è stato impegnato anche nel Consorzio Aid.

Come evidenziato anche da Tripodi, il Consorzio Aid dal 2009 al 2014, ha avuto la sede legale a Rende in provincia di Cosenza, guarda caso allo stesso indirizzo della coop Promidea guidata da  Carmine Federico. Infatti quando il Consorzio Il 31 dicembre 2009 ha approvato il proprio bilancio sul verbale di assemblea compare la firma della presidente Maria Therese Mukamitsindo, la suocera dell’ on. Soumahoro, e dello stesso Carmine Federico, nella veste di segretario. L’emergenza migratoria calabrese sembra collegata all’accoglienza nel Lazio e a Sezze, ma anche con la Lega Braccianti e i ghetti del foggiano.

La Corte dei Conti della Calabria, sulla base degli accertamenti svolti dalla Guardia di finanza, ha contestato a Mimmo Lucano, Carmine Federico ed altre 40 persone un danno erariale di oltre 5 milioni di euro, relativo a irregolarità negli affidamenti per la gestione dei centri di accoglienza per i migranti in Calabria. Il presidente della coop Promidea Carmine Federico risulta anche nel consiglio direttivo del Consorzio Sfide di Roma, costituito nel 2018 per partecipare agli avvisi di Fondimpresa, essere amministratore della società Inet, presidente del CdA della coop Atlante, amministratore di Promidea Impresa Sociale, e risulta persino detenere quote di partecipazione del Cosenza Calcio.

"Sostengo da tempo che c’è un sistema Latina e i fatti sembrano darmi ragione" evidenzia il consigliere regionale Tripodi che aggiunge "Il consorzio Aid ha approvato i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibù a Sezze mantenendo la sede legale a Rende. Sono un garantista, però, ci sono processi e inchieste importanti in Calabria, nel Lazio e in Puglia". Redazione CdG 1947

Liquidazione coatta per la "Karibu". Ma la Lamorgese firmò per altri soldi. L'annuncio del ministro Urso al Question time. Intanto da gennaio partono i rinnovi firmati dall'ex ministro dell'Interno: ai migranti dovrà essere trovata una nuova sistemazione. Antonella Aldrighetti su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

La vicenda imprenditoriale di Marie Therese Mukamitsindo, suocera del deputato Alleanza Verdi Sinistra Italiana Aboubakar Soumahoro, sta volgendo al termine. Gli ispettori del ministero delle Imprese e del Made in Italy inviati a Latina, dopo aver verificato diverse irregolarità hanno proposto lo scioglimento del consorzio Aid e la liquidazione coatta della cooperativa Karibu. Lo ha riferito il ministro Adolfo Urso al question time specificando: «Il ministero dell'Interno ha informato che la prefettura di Latina, negli anni 2017-2019, a seguito di 22 ispezioni, ha applicato circa 491.000 euro di sanzioni alla cooperativa Karibu. E che negli anni 2018-2022, a seguito di 32 ispezioni, sono state comminate sanzioni nei confronti di Aid per un ammontare complessivo di circa 38.000 euro». Nel frattempo dovranno essere ripristinati i termini dell'accoglienza cui le coop della Mukamitsindo avrebbero dovuto fare fronte. Non bisogna dimenticare infatti i rinnovi firmati dall'ex ministro dell'Interno Lamorgese il 21 settembre e in vigore da gennaio 2023 a dicembre 2025. Rapporti contrattuali e appalti per Aid e Karibu a Latina, Priverno e Sezze per un totale annuo 2.868.622,27 euro ovvero 5.737.244,54 nel biennio. Prefettura, Comune e Viminale ora dovranno trovare una nuova collocazione per gli stranieri. Ci sarebbero inoltre altre 20 richieste di intervento in capo all'Ispettorato del lavoro di Latina per il riconoscimento degli emolumenti da corrispondere ad altri lavoratori migranti. Vale a dire che, sull'intero fronte, le indagini andranno avanti.

Sul fronte opposto invece la figlia della Mukamitsindo, Liliane Murekatete compagna di Aboubakar: un'intervista rilasciata all'AdnKronos punta il dito contro il sistema mediatico, lamentando un atteggiamento persecutorio e promette querele contro coloro che l'hanno diffamata «cinica griffata» per «affibbiarmi icastici titoli derisori». L'allusione è all'epiteto di «Lady Gucci», mentre spiega che: «Gran parte delle foto risale al 2014-2015, quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e non avevo ancora conosciuto il mio compagno». Già, infatti Soumahoro nel 2008 aveva sposato a Napoli Dafne Malvasi, un matrimonio a dir poco speciale al Maschio Angioino celebrato dall'allora sindaco Rosa Russo Iervolino, che gli è valso la cittadinanza italiana. Successivamente l'allora sindacalista dell'Unione sindacale di base si trasferì a Torino dove portò a frutto ulteriori battaglie pro migranti e poi a Roma, come dirigente nazionale. Qui iniziò l'ascesa politica e al contempo, nell'ambiente dell'accoglienza, iniziarono a circolare voci di gestione anomala dei ricavi raccolti, tra sottoscrizioni e fondo cassa, nelle baraccopoli di Foggia. Era il 2020 quando Abou fu attaccato frontalmente dall'Usb: «Si chiedeva conto di dove fossero finiti i soldi, alcune centinaia di migliaia di euro, raccolti attraverso ripetute sottoscrizioni finalizzate a portare cibo, durante il periodo del lockdown, nei ghetti dove vive una fetta importante del bracciantato migrante del nostro Paese, una sorta di cassa di resistenza». Di lì a poco Soumahoro fondò la Lega dei braccianti. Mentre l'Usb lo diffidò contro intimidazioni e strumentalizzazioni dei migranti nelle baraccopoli. Tant'è che a Torretta Antonacci, a Foggia, i migranti scaricarono presto Soumahoro che, di rimando, ha lasciato il seggio pugliese a Betta Piccolotti, moglie di Nicola Fratoianni.

Così Soumahoro e l'Usb Caruso dettavano legge tra i braccianti. Hanno basato entrambi la loro carriera politica sui migranti, l'uno nel Pd e l'altro in Rifondazione. Due carriere parallele poi naufragate in maniera simile. Bianca Leonardi su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

«Lo scontro nel ghetto è da sempre tra Soumahoro e Caruso»: così riferiscono a Il Giornale gli abitanti di Torretta Antonacci, il ghetto foggiano dove entrambi i protagonisti sembrerebbero aver costruito le proprie carriere. Da una parte Aboubakar Soumahoro, a capo della Lega Braccianti; dall'altra Francesco Saverio Caruso, delegato Usb a Foggia che si occupa - a nome del sindacato - delle questioni legate al Gran Ghetto.

«Gli uomini della Lega Braccianti e dell'Usb ci chiedono soldi per portarci a lavorare e per qualsiasi altra cose, anche per un materasso»: queste le principali accuse rivolte ai due «capi-clan». La loro storia si intreccia proprio all'interno del sindacato, dove Soumahoro ha militato per decenni fino all'abbandono, nel 2020, quando ha deciso di costruire la sua realtà.

Da lì, la guerra: tanto che i fedelissimi del deputato con gli stivali, ex soci della Lega Braccianti, sembrerebbero passati a Usb. Uno su tutti Alpha Barre, che è «l'uomo del ghetto che nel suo capannone ha una cassaforte per tenere i soldi chiesti ai braccianti», ci racconta una persona che vive a Torretta Antonacci da più di 20 anni. E se la storia di Soumahoro è ormai cosa pubblica grazie alla potenza mediatica che negli ultimi anni è riuscito a costruire, quella dell'ex deputato di rifondazione comunista, Caruso, non sembra poi così diversa. Entrambi a fianco dei più deboli, in lotte ideologiche a sostegno degli ultimi. Proprio il rappresentante di Usb salì agli onori della cronaca quando durante il G8 venne accusato - e poi prosciolto - insieme ad altri militanti no global, movimento a cui apparteneva, di associazione sovversiva per aver organizzato gli incidenti durante la manifestazione del 2001. L'anno dopo, nel 2022, fu arrestato su ordine della procura di Cosenza con l'accusa di «sovversione, cospirazione politica e attentato agli organi costituzionali dello Stato». Nonostante questo, nel 2006, venne candidato da Rifondazione comunista - non senza dissenso - e ottenne il mandato alla Camera.

Proprio come successo con Soumahoro (la cui candidatura è stata messa in dubbio da Bonelli), anche Fausto Bertinotti, al tempo, affermò su Caruso che la sua proposta del suo nome era stata una «mossa poco felice». Ad accomunare i due casi anche l'estrema spettacolarizzazione in nome della libertà e della giustizia: Soumahoro incatenato davanti a Montecitorio «per far sentire la voce dei braccianti» e Caruso barricato - nel 2006 - all'interno di un centro di permanenza temporanea in provincia di Crotone.

Ed anche sulla gestione dei fondi i due capi di Torretta Antonacci sembrano seguire lo stesso modus operandi. Aboubakar inchiodato per quelle donazioni sospette che «non sono mai arrivate qui», come affermano i braccianti del ghetto, e Caruso condannato a restituire un'ingente somma di denaro per aver ricevuto un finanziamento pubblico che doveva servire per la costituzione di un network e di un giornale dei centri sociali campani, ma che poi, come accertato dalle indagini, è stato usato per scopi personali.

Ad oggi, sia Soumahoro che Caruso sembrerebbero agire nell'ombra del ghetto, delegando ai loro uomini gli affari. «Abbiamo paura di Usb e di Lega Braccianti», raccontano infatti i lavoratori di Torretta Antonacci. Entrambi hanno scelto il silenzio, tanto che proprio Usb non ha risposto a nessuna delle accuse mosse nei loro confronti ma anzi, riferiscono a Il Giornale fonti Usb che preferiscono restare anonime, «non è il caso di parlare di Soumahoro visto i casini che ci sono stati tra noi e lui».

Insomma, gli slogan sono gli stessi: da «libertà e autogestione» per Soumahoro a «certe leggi hanno armato le mani dei padroni» di Caruso, in un contesto in cui - stando alle testimonianze - quei padroni sembrerebbero proprio loro.

Veleni di Selvaggia Lucarelli sull'avvocato della moglie di Soumahoro, lui la querela. Il Tempo il 02 dicembre 2022

Selvaggia Lucarelli attacca l'avvocato di Liliane Murekatete, moglie del parlamentare Aboubakar Soumahoro: "Ha difeso Priebke". La giornalista e giurata di Ballando con le Stelle si rivolge direttamente a Lorenzo Borrè: "Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione", scrive su Twitter, scatenando sui social diverse reazioni polemiche, a favore e contro, la sua presa di posizione.

Da notare l'utilizzo dell'aggettivo "griffato", chiaro riferimento alle foto che la compagna di Soumahoro ha pubblicato sui suoi profili sociali anni fa in cui sfoggiava abiti o borse firmate. Pochi giorni fa, Murekatete si è sfogata contro il "racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata".

Non si è fatta attendere nemmeno la replica di Borrè: "Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post", dice il legale. Le parole della giurata di Ballando gli non sono piaciute. "La quelererò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale. Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.

"Peraltro - punge il legale - non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".

Estratto dell’articolo di Marina de Ghantuz Cubbe per repubblica.it il 3 dicembre 2022.

L’avvocato di Liliane Murekatete, moglie dell’onorevole Aboubakar Soumahoro, è Lorenzo Borrè. Una scelta che sta facendo discutere perché il legale, noto anche per essere la spina nel fianco del M5s, in passato ha difeso il criminale di guerra nazista Erich Priebke, condannato all'ergastolo per aver partecipato alla realizzazione dell'eccidio delle Fosse Ardeatine nel 1944. 

Murekatete ha deciso di adire le vie legali "nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking" dopo la bufera scoppiata per l’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre, Marie Therese Mukamitsindo, indagata per truffa aggravata, false fatturazioni e malversazioni di erogazioni pubbliche.

Ma torniamo a Borrè: da ragazzo ha fatto parte del Fronte della gioventù […]. Poi la carriera da avvocato e lo studio in Prati da cui ha difeso trentuno ex pentastellati espulsi dal partito fondato da Beppe Grillo. Su 31 espulsioni impugnate, facendo le pulci allo statuto del M5s ha ottenuto la reintegrazione di tutti i suoi assistiti. Con buona pace di Grillo che un tempo è stato anche il suo di leader. Fino al 2012, quando è fuoriuscito dal Movimento dicendosi pentito. […]

"L'ex avvocato di Priebke...". La Lucarelli sferza la moglie di Soumahoro. Liliane Murekatete ha scelto Lorenzo Borrè come avvocato: duro l'intervento di Selvaggia Lucarelli contro la moglie di Soumahoro. Francesca Galici su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

Che i Soumahoro siano diventanti ingombranti anche per la sinistra, lo dimostra una storia pubblicata questa mattina da Selvaggia Lucarelli. La giornalista ha commentato la vicenda che da giorni riempie le pagine di cronaca con una considerazione personale: "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c'era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione". Che il suo avvocato sia Lorenzo Borrè è cosa nota, visto che è stata lei stessa a riferirlo nel corso di una lunga intervista concessa all'agenzia Adnkronos: "In questo piano inclinato non posso quindi fare altro, al momento, che dare incarico al mio avvocato, Lorenzo Borrè, per adire le vie giudiziarie nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking".

Al di là del caso di Erich Priebke, agente della Gestapo e capitano delle Ss durante la Seconda guerra mondiale, Lorenzo Borrè è spesso definito come "l'avvocato dei 5s", perché dal suo studio di Roma Prati sono passati oltre 30 ex esponenti del Movimento 5 stelle espulsi dal partito, che si sono rivolti a lui per avviare un'azione contro il Movimento. L'azione di Borrè, per quanto concerne i 5 stelle, è stata efficace, considerando che nel 2016 è riuscito a far reintegrare 20 espulsi napoletani nel partito. Liliane Murekatete Punta sulle competenze dell'avvocato per uscire dal turbinio mediatico nel quale è stata coinvolta per la gestione di due cooperative nella provincia di Latina insieme a sua madre.

"A questo processo mediatico non mi presto né intendo prestarmi: se l'autorità giudiziaria me lo chiederà, non avrò problemi a dimostrare la liceità dell'acquisto, ma respingo culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche", ha detto ancora Liliane Murekatete, che non vuole nemmeno essere chiamata "Lady Gucci", così come da tempo l'hanno soprannominata nella zona in cui operano le coop e come viene chiamata dai quotidiani da quando è esploso il caso mediatico, che la giustizia segue da ben prima che arrivasse sui giornali.

La gogna contro i familiari. Intervista a Lorenzo Borré: “Ecco perché attaccano me per la difesa della moglie di Soumahoro”. Nicola Biondo su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

Entrare nello studio dell’avvocato del Diavolo incute soggezione. E se l’avvocato si chiama Lorenzo Borré viene facile trasformare i pregiudizi in realtà: venti anni fa ha difeso, da giovane assistente di studio, il criminale di guerra nazista Erich Priebke e oggi è finito sui media perché difende Liliane Murekatete, moglie del deputato verde Aboubakar Soumahoro al centro di inchieste legate alle cooperative di famiglia. Scatenando una tempesta mediatica che rivela molto dell’idea di giustizia che scorre nell’intestino del Paese.

Iniziamo a curiosare le stanze dello studio, magari ci scappa lo scoop: un drappo nazista da collezione, qualche busto mussoliniano, un reperto da Thule. Niente di tutto questo, dannazione. Lo studio dell’avvocato del Diavolo è di una noia mortale, solo stampe tibetane e Budda. Tutto è iniziato con una domanda dell’intervistato. “Perché mi vuole intervistare?”. “Mi manda la Costituzione -è la risposta- l’art.24 in particolare: la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. E così inizia l’intervista riprendendo il giusto binario: il cronista domanda, l’intervistato risponde.

Il suo nome è ovunque avvocato, è il cattivo del giorno, il difensore dei nazisti dal quale si dovrebbe stare lontani. La signora Murekatete rimane una sua cliente nonostante il clamore?

Credo proprio di sì. Non mi ha chiesto il curriculum. Senza volerlo sono diventato un nuovo feticcio morale dell’intrattenimento populista. Il messaggio che sta passando poggia su un’aberrante logica secondo cui l’avvocato è di buona reputazione se difende le persone buone, ma è da allontanare come la peste se ha patrocinato i diritti dei cattivi. Di conseguenza è cattivo, pessimo, e stupido chiunque si rivolga all’avvocato medesimo.

Perché la signora Murekatete si è rivolta a lei?

Mi occupo da sempre di tutela della privacy e della reputazione e lei sostiene che questi suoi diritti siano stati lesi. Tutto molto semplice. Ora forse toccherà a me trovare un legale per tutelare la mia reputazione.

Perché?

Chi predica che l’avvocato che ha difeso un criminale di guerra nazista deve essere per forza un nazista, sostiene il fallimento della nostra cultura giuridica e, con esso, il collasso deontologico dell’avvocatura, con conseguente cortocircuito: applicando l’assioma della naturale contiguità ideologica tra l’avvocato e il proprio assistito si spalanca il baratro della criminalizzazione dell’avvocatura: basti pensare ai corollari che ne discenderebbero per i processi di mafia, per quelli su casi di stupro, tratta degli schiavi, traffico di stupefacenti, pedofilia. Mi dica lei se questo ragionamento possa essere quello di un difensore della legalità democratica.

Qualcuno dice che lei avrebbe addirittura protetto Priebke, è vero?

Il signore in questione, che scrive per un importante quotidiano, è incorso in un abbaglio colossale, confondendomi con un altro avvocato. Come ha visto non ho busti del ventennio in studio e nemmeno a casa, unica nota coloniale: una foto d’epoca di un guerriero dubat. Che poi sarebbe anche singolare che un nazista accetti di difendere una donna di colore, non crede? Come Lei sa ho partecipato a convegni accanto a luminari del diritto come Cassese e Onida e sa che le dico: un avvocato non democratico è una contraddizione in termini.

Forse tutto questo è spiegabile con l’espressione “business dell’attenzione”, che fa appello alle pulsioni perché è da lì che ha deciso anche di sostanziare la sua posizione nel mondo.

Conosco bene il populismo giudiziario, esercitato nelle sue varie forme. Un chirurgo opera tutti, non chiede chi è e cosa ha fatto il suo paziente. Ho la sensazione però che ciò che lamenta la mia assistita continui ancora adesso, utilizzando me come strumento.

Spieghi meglio questa sensazione.

La signora non può che essere giudicata negativamente a maggior ragione perché sceglie un avvocato cattivo, non democratico, non allineato. Perché ha scelto appunto l’avvocato del diavolo.

Lei sta facendo capire che c’è un tentativo di far apparire la sua cliente come una Circe, l’unica persona che deve pagare, al di là delle responsabilità penali che andranno accertate, per lo scandalo politico che ha coinvolto il marito, è così?

La signora Murekatete è stata gettata in un tritacarne mediatico, nella logica “colpevole a prescindere”. Una barbarie.

L’ordine degli avvocati si è fatto sentire da lei?

Già una volta intervenne in mia difesa quando venni inserito in una lista di proscrizione pubblicata su Facebook da un consigliere municipale del M5S. Oggi è tutto più grave perché è sotto attacco lo stesso concetto di libera avvocatura. Confido in una nuova ferma presa di posizione perché come disse una volta il giudice Alfonso Sabella, uno che di crimini efferati e di giustizia se ne intende, “quella dell’avvocato è una delle professioni più nobili al mondo e merita rispetto, anche i criminali peggiori hanno diritto alla difesa”. Nicola Biondo

Selvaggia Lucarelli e il vecchio vizio di sovrapporre cliente e avvocato. Dal caso Mollicone, alle polemiche su Lorenzo Borré, legale di Liliane Murekatete. Storie di avvocati “processati” dal Tribunale del popolo. Valentina Stella su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.

«Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione»: con questo tweet del 2 dicembre Selvaggia Lucarelli sembra essere caduta nel solito cliché per cui l’avvocato è assimilabile al suo assistito e al reato da lui commesso.

Basterebbe replicare come fece il famoso avvocato francese Jacques Verges: «Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis». Eppure si tratta di una distorsione culturale che interessa purtroppo una grossa fetta dell’opinione pubblica. Lo dimostrano i tanti casi che vi raccontiamo spesso su questo giornale.

Il più recente riguarda l’omicidio di Serena Mollicone ad Arce. A luglio di quest’anno la Corte di Assise di Cassino ha assolto l’intera famiglia Mottola dall’accusa di aver ucciso ventuno anni fa la giovane. Fuori dal Tribunale sia i Mottola che i loro avvocati e consulenti hanno rischiato un vero e proprio linciaggio: sono stati aggrediti dalla folla inferocita con spintoni e sputi e la situazione si è resa talmente incandescente che sono dovute intervenire le forze dell’ordine per creare un cordone intorno a loro per condurli nella sede dove era stata programmata una conferenza stampa. Come ha detto l’avvocato Francesco Germani, a capo del pool difensivo: «È molto triste vivere in un Paese dove per fare una conferenza stampa bisogna essere scortati dalla polizia, è molto triste ed amaro vivere in un Paese che non rispetta le sentenze dei giudici perché si ritiene da parte dei più che giustizia significhi solo condannare».

Poco prima vi avevamo partecipato la storia di tre avvocati viterbesi – Domenico Gorziglia, Marco Valerio Mazzatosta, Giovani Labate – colpevoli, secondo gli hater di Facebook, di assistere due giovani ex militanti di CasaPound arrestati nell’aprile del 2019 per lo stupro ai danni di una 37enne, avvenuto in un pub del capoluogo laziale. Così hanno scritto: «Ma gli avvocati sono i peggio», «i due vanno condannati in base alle leggi, vanno puniti, ma chi andrebbe arrestato seduta stante deve essere l’avvocato» e ancora «Lasciateli al popolo, saprà fare giustizia più di quella togata… non dimenticate il legale che andrebbe anche radiato». La Camera penale viterbese ha presentato anche querela con gli odiatori social e nonostante la richiesta di archiviazione del pm, il gip ha disposto nuove indagini, deducendo che la querela è stata giustamente presentata dalla Camera Penale di Viterbo che ha tra i suoi scopi statutari quello di «tutelare la dignità, il prestigio ed il rispetto della funzione del difensore».

E che dire delle minacce di morte ricevute da Massimiliano e Mario Pica, ex legali di tre indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte? Allora commentò con noi il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza: «Il clima è quello tipico di un Paese che ha smarrito la cultura civile e liberale. L’avvocato, in un contesto imbarbarito dai processi che si svolgono parallelamente sui media, diventa un ostacolo alla giustizia sommaria, quindi da minacciare ed eliminare». Ad aprile dello scorso anno vi abbiamo raccontato la storia di due avvocate di Brescia S.L. e M.M processate e insultate dal Tribunale del popolo per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale: «Ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza»; e persino più grave: «Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati».

Altro caso mediatico, altro attacco agli avvocati. Andrea Starace e Giovanni Bellisario, legali di Antonio De Marco, reo confesso del duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis, sono finiti nel mirino dei leoni da tastiera: «Anche l’avvocato dovrebbe andare in carcere», «non vi vergognate a difenderlo», «se le vittime fossero stati i vostri figli vi sareste comportati allo stesso modo?».

Nel 2017 alcuni balordi diedero fuoco alla macchina dell’avvocato Pierluigi Barone. Dopo ricevette una telefonata anonima al suo studio: «Il tuo cliente è un assassino», riferendosi ad uno dei cinque giovani, difeso da Barone, indagato al tempo con altri per omissione di soccorso per la morte del 18enne Matteo Ballardini. Proprio al Dubbio l’avvocato raccontò che nella telefonata fecero altre minacce: «Mi hanno detto che poi toccherà alla casa, e poi a mia moglie. Paura? Io sono un legale e non mollo i miei clienti. Questo modo di fare violento mina i principi base della Costituzione e della civiltà. E noi non possiamo cedere».

«Volevo complimentarmi con gli avvocati Mario Scarpa e Ilaria Perruzza, che assistono i 4 maiali stupratori di Rimini! Complimenti per la dignità che avete dimostrato nell’accettare la difesa e non aver rifiutato! Questo Stato tra qualche anno li promuoverà facendoli entrare a pieno diritto nella Casta dei Togati. Nel frattempo speriamo che il tempo regali ad entrambi l’esperienza vissuta dai due polacchi», fu invece uno dei tanti messaggi gravemente offensivi indirizzati ai due avvocati che assunsero l’incarico difensivo di quattro immigrati accusati dello stupro e della violenza avvenuti nei confronti di una giovane polacca e di un suo amico. Come scrisse Ettore Randazzo: «Tutti devono essere processati e dunque difesi. Incondizionatamente; altrimenti basterebbe un’accusa grave e infamante per giustiziare sommariamente una persona, espellendola dal consesso civile; non possiamo di certo consentire una simile barbarie».

Lucarelli censore del nulla: "Moglie Soumahoro sceglie Borrè, ex avvocato di Priebke". E si becca una querela ! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022

All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet. All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale"

L’alza-palette di "Ballando con le Stelle", Selvaggia Lucarelli pubblicista da Civitavecchia ha scritto oggi su Twitter questo commento (bloccando inutilmente la visione al nostro giornale): "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione" scatenando sui social diverse reazioni polemiche sulla sua presa di posizione.

il tweet che la Lucarelli non voleva farci vedere

"Da avvocato, questa volta non sono d’accordo con te, Selvaggia. Noi abbiamo il dovere di rappresentare e difendere legalmente l’Assistito e non siamo, in alcun modo, associabili alle condotte o procedimenti dello stesso. Ogni avvocato ha poi il proprio stile di comunicazione", la stoppa subito @MirkoMelluso. Interviene in risposta all’avvocato e alla Lucarelli, @BettoMandolini "Curiosità, è mai esistito un avvocato difensore che di fronte all’evidenza, scoperta logicamente in un secondo tempo, abbia abbandonato il proprio assistito?".

E la scia continua con Emily74: "Magari alcuni avvocati potrebbero scegliere di non accettare incarichi anche se mediaticamente importanti, se la persona è oggettivamente indifendibile (Priebke). Ognuno risponde alla propria coscienza e si c’è un problema di comunicazione". E poi con @fantprecario: "Proprio perché indifendibile deve avere un avvocato. C’è chi si è fatto ammazzare per difendere le br pur sapendo di andare al patibolo ed essere contrario alle loro idee. Si chiama giustizia".

Botte e risposte vanno avanti: "La questione personale qui è irrilevante. Libero di scegliersi il cliente. Ad es non difenderei mai uno di Italia viva. Quello che rileva è che ciascuno, anche Veltroni ove imputato debba avere diritto a un giusto processo", dice @fantprecario. La lista delle frecciate reciproche fra chi la pensa come la Lucarelli e chi no è ancora lunga. E non manca chi storce talmente il naso da scrivere, come fa @JonnyFirebead: "Ma adesso si ‘giudica’ un avvocato dai suoi clienti? E che dovremmo pensare degli avvocati della Lucarelli?".

"Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post". All’avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di ‘ex avvocato di Priebke’ come se fosse un disdoro professionale", annuncia Borrè all’Adnkronos. "La Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke…", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.

"Peraltro non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, – aggiunge il legale – della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".

Finalmente qualcuno ci auguriamo darà una "lezioncina" in tribunale alla "tuttologa-pubblicista" nota alle cronache solo per le polemiche ricercate e talvolta provocate, dissertando su tutto dall’alto del nulla.

Redazione CdG 1947

Avvocato uguale indagato”: Lucarelli precisa. Ma qualcosa forse le sfugge…La precisazione della giornalista sul caso di Lorenzo Borré, legale di Liliane Murekatete. E la risposta del direttore del Dubbio. Il Dubbio l’8 dicembre 2022.

Gentile direttore,

leggo sul suo giornale un articolo dal bizzarro titolo “Selvaggia Lucarelli e il vizio di confondere la difesa dell’imputato con la difesa del reato”. Segue una lunga lista di casi di avvocati minacciati e insultati per aver difeso assassini e stupratori. A questa lunga lista, appunto, viene associato un mio tweet che nulla ha a che fare con l’argomento trattato. Il tweet era: “Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione”. Dunque, sottolineavo il rischio di un inciampo in chiave di comunicazione, visto che la signora è accusata di aver violato diritti umani e di aver danneggiato la sinistra e ha scelto di rivolgersi a un avvocato ex Fronte della gioventù, noto soprattutto per aver difeso Priebke. La mia perplessità era per giunta sensata, visto che molti giornali hanno riportato la notizia della curiosa scelta di quell’avvocato (per giunta già data da Il Fatto prima di me), confermando una mossa comunicativa poco indovinata. Per il resto, sottolineo che io stessa in passato mi sono rivolta a uno dei tanti avvocati di Priebke, quindi direi che l’accusa di associare gli avvocati ai reati di cui si occupano non dovrebbe riguardarmi. E dovreste essere così gentili da non includermi in ragionamenti così barbari e semplicistici.

Grazie, Selvaggia Lucarelli

Gentile Selvaggia Lucarelli,

la sua “precisazione” ci fa molto piacere. Come avrà capito noi del Dubbio siamo parecchio sensibili all’argomento e “ossessionati” dai numerosi inciampi logico-dialettici per i quali gli avvocati diventano magicamente complici se non addirittura correi dei propri assistiti. È capitato spessissimo in passato, e continua ad accadere ogni giorno. E le posso assicurare che la nostra Valentina Stella, nel suo articolo, ha mostrato solo una parte della macelleria dei diritti e del massacro che subiscono sia gli avvocati sia gli indagati, la cui presunzione di innocenza è quotidianamente asfaltata da una informazione, quella sì, semplicistica e barbara. D’altra parte siamo certi che lei sia perfettamente in grado di distinguere tra le due categorie: tra chi esercita il diritto alla difesa di ognuno di noi e chi è invece accusato di aver commesso delitti spesso orrendi, come nel caso di Priebke. Ciò non toglie che anche nel suo tweet ci sembra di rintracciare un paio di sbavature. Nel momento in cui anche lei scrive che la signora Liliane Murekatete, la moglie di Soumahoro, avrebbe fatto bene a scegliersi un avvocato diverso dal difensore di Priebke, ammette implicitamente che sì: talvolta la sovrapposizione tra avvocato e cliente è fisiologica, inevitabile.

Provo ad anticipare la sua legittima obiezione: “Io non ho mai detto che la signora Liliane Murekatete avrebbe dovuto scegliere un altro legale perché identifico l’avvocato di Priebke con i reati commessi dal suo vecchio assistito; io l’ho fatto perché conosco il mondo della comunicazione e so bene che questo argomento sarebbe stato usato contro di lei”. Cosa che – gliene diamo atto – è puntualmente accaduta. E qui siamo alla seconda obiezione: ammettere che la scelta di un avvocato possa condizionare l’opinione pubblica, significa infatti cedere alla mediatizzazione del processo penale, vero male della nostra giustizia. È questo, gentile Lucarelli, che abbiamo cercato di mettere in luce. E confidando di avere una nuova alleata contro la carneficina dei diritti e il massacro della reputazione dei nostri avvocati, siamo certi che la avremo accanto nelle nostre battaglie quotidiane.

Davide Varì, direttore de Il Dubbio

«Sono una garantista. Soumahoro è innocente fino a prova contraria».  L'avvocata e deputata di Fratelli d’Italia, fa il punto, a quasi due mesi dall’inizio della XIX legislatura, sui primi passi mossi dal governo Meloni. Ma parla anche del caso giudiziario che ha travolto l'ex sindacalista. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 7 dicembre 2022.

Sara Kelany, avvocata e deputata di Fratelli d’Italia, fa il punto, a quasi due mesi dall’inizio della XIX legislatura, sui primi passi mossi dal governo Meloni. Un’analisi che tiene conto anche della vicenda dell’onorevole Aboubakar Soumahoro, nei confronti del quale è scattata la solita gogna mediatica, che, però, non deve far finire su un secondo piano alcune questioni legate alla gestione dei fenomeni migratori.

«Fratelli d’Italia – spiega al Dubbio Sara Kelany -, subito dopo le elezioni politiche dello scorso 25 settembre, ha indicato una direzione chiara. Rispetto al programma sia del centrodestra che del mio partito, il presidente Meloni ha iniziato subito a seguire delle linee programmatiche molto precise. Si tratta di un percorso individuato non solo nell’ultima campagna elettorale, ma già qualche tempo prima nella conferenza di Milano. In tutto questo vedo una grande continuità».

Onorevole Kelany, di recente la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha manifestato vicinanza ai sindaci e ha rilevato che bisogna intervenire in materia di abuso d’ufficio. Qualcuno parla di “svolta garantista” di Fratelli d’Italia. Cosa ne pensa?

Io mi stupisco quando ci si viene a dire “svolta garantista” di Fratelli d’Italia. Il partito al quale appartengo non è mai stato giustizialista. Anche rispetto alla questione specifica dell’abuso d’ufficio, come il presidente Meloni ha avuto modo di chiarire bene, durante l’assemblea dell’Anci, la linea non è cambiata affatto. Sulla questione della “svolta garantista” mi permetto sommessamente di dire che se noi non fossimo stati un partito garantista, non ci sarebbe mai stata l’indicazione come ministro della Giustizia di una persona del calibro di Carlo Nordio. Eravamo e siamo consapevoli delle qualità del ministro della Giustizia, che, tra l’altro, è stato ospite della nostra conferenza programmatica di Milano. Fratelli d’Italia sta, dunque, seguendo un percorso naturale. Con riferimento all’abuso d’ufficio il presidente Meloni ha detto quello che in realtà chiedono tutti i sindaci. Pertanto, più che “svolta garantista” parlerei di “svolta pragmatica”. Mi faccia però aggiungere un’altra cosa.

Prego, dica pure…

La necessità che l’abuso d’ufficio venga rivisto, nonostante la norma sia stata ritoccata più volte, dimostra attenzione verso i sindaci, impegnati in prima linea sui territori. Si tratta, inoltre, di una necessità bipartisan, come dimostrano, per esempio, le dichiarazioni del sindaco di Firenze e del presidente dell’Anci, da affrontare senza paletti ideologici. La percentuale delle archiviazioni e delle assoluzioni con riferimento al reato di abuso d’ufficio nei confronti degli amministratori è altissima. Si tratta di una ulteriore spia che indica la necessità di apportare dei cambiamenti per evitare che le PA vadano incontro alla paralisi con la famosa paura della firma.

Lei si è espressa in maniera chiara sul caso del suo collega deputato, Aboubakar Soumahoro, affermando la contrarietà a “sparare ad alzo zero contro un avversario su questioni giudiziarie tutte da accertare”. Una critica chiara contro la gogna mediatica?

Bisognerebbe affrontare le cose con molta più serenità e soprattutto con cognizione di causa. Il collega Soumahoro non è neanche indagato. Il problema, quindi, non deve essere considerato di natura giudiziaria. Anche perché ci sono i Tribunali che giudicano e le Procure che indagano. Occorrerebbe che anche la stampa fosse, più che meno attenta, meno strillona rispetto a quelle che sono le vicende giudiziarie. Spesso e volentieri possono trasformarsi in una bolla di sapone. Il problema del caso Soumahoro è di natura strettamente politica.

A cosa si riferisce nello specifico?

La vicenda di cui stiamo parlando ha scoperchiato, secondo me, il vaso di Pandora rispetto alla gestione dell’immigrazione a livello territoriale. Il politico ha il dovere di guardare queste vicende sotto la lente non dell’innocentismo o del colpevolismo, ma sotto la lente della dinamica politica sottesa a determinati fatti. La dinamica politica parla di una gestione sconsiderata dei flussi migratori non solo a monte. Fratelli d’Italia si approccia alla questione dell’immigrazione con grande attenzione e oculatezza. Il blocco navale, per esempio, è necessario nei termini di una missione europea congiunta di pattugliamento delle coste del Mediterraneo per evitare le morti in mare. Il problema migratorio si presenta pure a valle in merito alla gestione dei centri di accoglienza e dei migranti sul territorio. Di qui il tema delle garanzie da fornire a chi sbarca sul suolo italiano. La vicenda Soumahoro ha messo in luce una serie di situazioni ed eviterei di aizzare il caso giudiziario, mentre mi soffermerei di più sul caso della gestione delle cooperative che si occupano di immigrati.

Il successo elettorale di FdI sta mettendo in crisi l’altro partito di destra della coalizione, la Lega?

Fratelli d’Italia è anche un partito territoriale. Abbiamo tanti contenuti. La crescita di FdI si è consolidata nel tempo e non è casuale. Siamo partiti nel 2012, fra pochi giorni celebreremo i primi dieci anni di vita. Siamo eredi di Alleanza nazionale, siamo poi confluiti nel Pdl. Io personalmente cammino al fianco del presidente Meloni da quasi trent’anni, per la precisione da ventisette. Siamo abituati a pensare il partito in termini territoriali. Abbiamo tanti amministratori capaci con esperienza ultra- decennale. Per questo io credo che FdI andrà incontro ad una crescita esponenziale sui territori.

Stiamo per celebrare il Natale con la guerra in Europa, come ottant’anni fa. Il vecchio continente fa i conti con i fantasmi del passato?

La speranza è che la guerra in Ucraina si risolva il prima possibile. Come già chiarito dal presidente Meloni in più occasioni, noi siamo senza esitazioni al fianco dell’Ucraina. Se una soluzione del conflitto si può immaginare, questa può avere come base la possibilità per l’Ucraina di difendersi da un attacco ingiustificato da parte della Russia. La chiarezza della nostra posizione in politica estera è sotto gli occhi di tutti.

Giustizia, il reato non è tutto. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022.

Partiti, pm e realtà. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie 

I casi di cronaca con forte impatto politico accendono spesso un derby tra cosiddetti garantisti e cosiddetti giustizialisti. L’aggettivo «cosiddetti» qui è d’obbligo perché accade non di rado che opposte fazioni si scambino le parti secondo convenienza: chiedendo punizioni per gli avversari e invocando tutele per gli alleati. La presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio (per tutti, non solo per amici e affini) è già prevista dall’articolo 27 della Costituzione.

E tuttavia in Italia la teoria è spesso contraddetta dalla prassi. Così, dopo decenni di conferenze stampa usate da pubblici ministeri e investigatori per esibire arrestati e indagati (neppure rinviati a giudizio) quali trofei del Male sconfitto, è stato necessario correre ai ripari. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie. Abbiamo impiegato cinque anni per raggiungere il «compiuto adeguamento» dell’ordinamento interno alle previsioni dell’Unione europea e ci siamo riusciti con un decreto legislativo accorto e forse perfino più restrittivo della direttiva da cui origina, tanto da sollevare qualche perplessità tra gli addetti ai lavori.

In realtà, al netto di sempre possibili miglioramenti, non si può che essere lieti se un perimetro garantito di civiltà giuridica viene ripristinato nel rapporto tra la giustizia penale e l’informazione. E però non si può non ricordare che l’informazione ha doveri a prescindere dalla sfera giuridica di una vicenda. Il vizio consolidato di pescare a strascico dalle «carte» della Procura lacerti di verbale o di intercettazione contro l’indagato per spararli in pagina, così contribuendo a una gazzarra politica dove non si capiscono più torti e ragioni, non va confuso in alcun modo con gli obblighi che l’informazione ha verso i cittadini: il principale dei quali resta quello nei confronti del cittadino-elettore.

In democrazia i media (suoi «cani da guardia» secondo un’immagine un po’ retorica ma sempre viva) servono a segnalare a chi deve esercitare il diritto di voto se il politico che sta per essere eletto ne sia degno o se il politico già eletto stia facendo con dignità e onore il suo mestiere (ex articolo 54 della nostra Costituzione). E tutto questo, si badi, a prescindere dall’esistenza o meno di un’indagine della magistratura. Se il candidato Tizio fa campagna elettorale sostenendo di essere una bicicletta, non è inappropriato che i giornalisti vadano a controllare se abbia due ruote al posto delle suole. Se entra in Parlamento un sindacalista con gli stivali coperti del fango dei campi, per segnalare al mondo che il suo mandato sarà tutto rivolto a proteggere i diritti degli ultimi e il lavoro di braccianti e immigrati, il minimo che deve attendersi è che i media vadano nei campi e nei ghetti da cui è venuto per verificare la qualità delle sue promesse. Non lo si fa sempre, è vero, e questo è sbagliato. Ma è esattamente ciò che si è fatto nel recente caso dell’onorevole Aboubakar Soumahoro.

A prescindere dai suoi esiti, la vicenda del neoparlamentare eletto con Alleanza Verdi e Sinistra è preziosa perché segnala alcune peculiarità: ma, attenzione, non nel circuito tra giustizia e informazione quanto piuttosto in quello tra informazione e politica. A differenza di tante altre vicende in cui è sacrosanto invocare il garantismo perché la stampa si muove al traino di un’inchiesta giudiziaria, qui è l’inchiesta che s’è mossa, con cautela, al traino della stampa. I cronisti sono andati alla fonte diretta della notizia, da quei migranti e da quei rifugiati che si presumeva fossero protetti nei centri d’accoglienza gestiti dalla suocera e dalla compagna di Soumahoro e che negli anni s’erano ribellati più volte per le pessime condizioni delle strutture. Il resto, dalle borse griffate della signora Soumahoro sino alla difficoltosa autodifesa del deputato, è contorno e si iscrive alla voce delle umane debolezze. La sostanza è una finzione svelata, che chiama in causa da una parte la cronica opacità di molte cooperative che si occupano di migranti e dall’altra la difficoltà crescente nella selezione della nostra classe politica. Perché solo ora, dato che le proteste nei centri d’accoglienza erano reiterate negli anni? Perché adesso il ruolo dell’onorevole rende lecito il pubblico scrutinio anche sugli affari di famiglia.

Questa non è in alcun modo una vicenda penale (il deputato non è indagato e non ha parte attiva nelle cooperative della suocera e della compagna): è una vicenda tutta politica. E lo è anche per un altro motivo, segnalato da Alessandro Campi sul Messaggero: ci costringe a riflettere sulla costruzione in laboratorio di un falso mito ad uso di un’ideologia o di una leadership, rimandando ad altri casi, il più assonante dei quali è quello di Mimmo Lucano. Anche l’ex sindaco di Riace venne innalzato dalla sinistra radicale e dal sistema mediatico (non solo italiano) come simbolo della giustizia sociale, salvo rifiutare un seggio europeo sicuro, che pure gli era stato offerto, ed essere risucchiato poi dalle sue stesse leggerezze di gestione dentro un processo che ha già portato a una condanna in primo grado.

L’ostensione della bontà è un potente prodotto da veicolare in un mondo politico la cui profondità di visione si ferma a un tweet. Ma fa un salto di specie quando incrocia una pessima legge elettorale. Soumahoro, sul conto del quale erano già arrivati segnali di perplessità dai territori fino alle orecchie dei leader che lo hanno candidato, era stato bocciato dagli italiani nel confronto diretto: il 25 settembre aveva perso contro Daniela Dondi di Fratelli d’Italia, nel collegio uninominale di Modena, storico feudo della sinistra. Ma era stato ripescato in Lombardia nella lista plurinominale del centrosinistra grazie al proporzionale: con quel meccanismo sempre deprecato e sempre immutabile che assegna ai segretari di partito diritto di vita o di morte sui candidati in virtù della posizione nel listino. E che, di fatto, spezza il rapporto tra eletto ed elettore, base di qualsiasi dialettica democratica, almeno in teoria.

Soumahoro e il giallo della salma spedita tre volte in Mali. La Lega Braccianti ha dichiarato che parte di due raccolte fondi su GoFoundMe sono state utilizzare per spedire la stessa salma in Mali: una era quella per i regali dei bambini e l'altra per sostenere le spese di uno sciopero. Francesca Galici il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

"Striscia la notizia" continua a scavare su Soumahoro. Da quando è scoppiato il caso delle coop legate alla famiglia di Aboukabar Soumahoro, deputato eletto con Sinistra italiana e Verdi, l'inviato Pinuccio ha iniziato un'inchiesta seguendo il filone che non solo porta alle coop ma anche alla Lega Braccianti, il sindacato fondato proprio da Soumahoro. Sono state numerose le persone intervistate che hanno rivelato le proprie verità al telegiornale satirico di Antonio Ricci. Striscia la notizia ha anche dichiarato di aver più volte cercato di contattare il deputato, fin dallo scorso 25 ottobre, senza aver ancora ottenuto una risposta.

La prefettura di Latina toglie gli affidamenti alla coop della famiglia di Soumahoro

Nell'ultima puntata andata in onda, quella del 2 dicembre, Pinuccio ha intervistato la direttrice di GoFundMe, Elisa Finocchiaro, perché alcune delle raccolte fondi online promosse dalla Lega Braccianti sono state aperte proprio su quella piattaforma. In particolare, l'inviato di Striscia la notizia ne ha individuate tre, lanciate con lo scopo dichiarato di aiutare chi vive nei ghetti dei braccianti. Iniziative lodevoli da parte di Aboubakar Soumahoro, che infatti hanno ottenuto un ottimo riscontro nelle donazioni. Gli obiettivi dichiarati di ciascuna erano diversi: una era per l’acquisto di cibo durante la pandemia; una per i regali di Natale ai bambini del ghetto; la terza per organizzare uno sciopero. In tutto, sono stati raccolti così 280.000 euro.

Ma, stando a quanto riferisce Pinuccio, i conti non tornerebbero. "Come ci ha detto la direttrice della piattaforma, negli aggiornamenti che doveva pubblicare la Lega Braccianti si trovava una sorta di rendicontazione. Però siamo andati a vedere gli aggiornamenti fatti sotto la raccolta per i regali di Natale e troviamo una cosa strana", dice Pinuccio nel servizio. L'inviato riferisce che "tra gli aggiornamenti giustificativi di spesa c'è la spedizione di una salma di un migrante". Un uso diverso rispetto allo scopo per la quale è stata lanciata la campagna, confermato anche dalla direttrice, intervenuta telefonicamente: "Aboubakar Soumahoro non ha dichiarato di averli recapitati a dei bambini, ha dichiarato di averli recapitati a Borgo Mezzanone alle persone presenti in quell'occasione senza specificare l'età dei beneficiari".

Ci sarebbe un elemento ancora più particolare dall'inchiesta portata avanti da Pinuccio. "Se andiamo a vedere gli aggiornamenti fatti sotto la raccolta fondi per lo sciopero a Roma c'è un aggiornamento uguale: anche lì sono stati usati fondi per spedire una salma. Solo che la salma è la stessa. L'hanno mandata due volte, è strano", dice l'inviato. A voler essere precisi, però, le date di aggiornamento delle due raccolte fondi sono le medesime: 20 gennaio 2022. Quindi è probabile che siano stati utilizzati fondi dall'una e dall'altra raccolta per il medesimo fine, perché forse solo con una non si sarebbe raggiunto l'importo necessario per il rimpatrio della salma. Resta però il punto dell'utilizzo dei fondi dei donatori per scopi diversi rispetto a quelli dichiarati. "Sulla piattaforma abbiamo una forma di garanzia che prevede che viene dimostrato l'utilizzo improprio dei fondi rispetto a quello che viene dichiarato sul testo della campagna, tutti i donatori vengono rimborsati. Li rimborsiamo noi e poi, ovviamente, in base alla lettera di attestazione facciamo i nostri passi successivi", spiega Elisa Finocchiaro.

Ma per il rimpatrio della stessa salma, Aboubakar Soumahoro aveva lanciato una raccolta fondi dal suo profilo Facebook il 4 gennaio di quello stesso mese. In quel caso, la raccolta passava attraverso le coordinate bancarie del conto corrente intestato alla Lega Braccianti.

Soumahoro e il "grand hotel migranti". Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La suocera del deputato "sistemò" 100 persone in un albergo fallito

Nuovo triste capitolo della saga sulle coop Soumahoro. Protagonista la Karibu, con presidente la suocera del deputato di sinistra Aboubakar Soumahoro che nel 2014 decise di sistemare i «suoi» migranti all'interno di un hotel di Latina fallito.

La struttura in questione è l'Hotel de la Ville, un quattro stelle - si fa per dire, stando alle recensioni - sottoposto a fallimento nel 2013 emesso dal giudice delegato Fabio Miccio del Tribunale di Roma, a causa delle istanze di tre creditori. L'hotel sarebbe dovuto finire sotto il controllo del curatore fallimentare in attesa di un'asta ad evidenza pubblica che ne decretasse i nuovi proprietari, ma non andò proprio così. Una società privata, infatti, continuò ad affittare le stanze dell'hotel ai turisti. Ed è in questo scenario che entrò in gioco Karibu firmando addirittura un contratto di locazione con la suddetta società per accogliere i migranti. Ciò avvenne senza nessun controllo da parte dei piani alti tanto che tra il 2016 e il 2017 all'interno di quella struttura alloggiarono turisti e migranti contemporaneamente. A confermare ciò le recensioni su Tripadvisor di alcuni clienti.

«Dopo la consegna delle chiavi attraverso un corridoio coperto con tende alquanto fatiscenti - si legge in una recensione del 2016 - da una parte noto un gruppo di extracomunitari fuori a fumare. Proseguendo lungo le scale cominciano (i migranti, ndr) a scendere in ciabatte, non mi rendevo conto di dove mi trovassi. Entro nella mia camera squallida a dir poco, con moquette e mobili orrendi, la porta che non chiudeva e gli uomini fuori a guardare. Sono subito tornata alla reception per ritirare i documenti e andarmene, la signora aveva il diritto di avvisarmi della situazione».

Gli ospiti non sarebbero stati infatti avvertiti che avrebbero soggiornato in quello che, concretamente, era un casolare sporco e degradato, ma che sulla carta Karibu presentava come centro di accoglienza all'avanguardia. E ancora: «Nemmeno il tempo di entrare in possesso delle chiavi della camera, che si apre la porta della sala da pranzo e fuoriesce una quarantina di extracomunitari. Non fraintendete - si legge nella recensione di un altro ospite, sempre nello stesso anno - ma come è possibile che non vengano informati anticipatamente gli eventuali clienti?».

Si scopre, poi, che i migranti nella struttura erano quasi 100: «La struttura ospita al momento 96 migranti maschi e giovani che gironzolano per hall e corridoio», specifica un'altra recensione. Che aggiunge: «Aiutano i gestori nei lavori». La madrina per eccellenza dell'accoglienza sembrerebbe quindi, in quel caso, aver posizionato le sue «risorse» all'interno di una struttura fallita, gestita a caso da una società che, oltretutto, chiedeva ai presenti di «aiutare» senza ricevere compenso, come hanno raccontato i migranti. «Cari signori - si legge infatti in un'altra recensione - se avete deciso di guadagnare con questa povera gente chiudete la porta al pubblico. Abbiate almeno la dignità di avvisare le persone che arrivano».

Ma c'è di più: oltre a tutto questo degrado Mukamitsindo, e quindi la Karibu, è risultata inadempiente anche al pagamento dei canoni pregressi e delle indennità richieste, per cifre che si aggirano intorno a centinaia di migliaia di euro. In pratica, nemmeno pagava l'affitto. Di conseguenza il curatore ordinò per Karibu lo sfratto per morosità. Era il 2017, ma solo nel 2019 Madame Soumahoro decise di trovare un'altra struttura, il tutto senza fare rumore.

Alla coop Karibu dei Soumahoro la villetta abusiva del medico pregiudicato. Un altro caso oscuro nel passato della coop Karibu della famiglia di Aboubakar Soumahoro, sindacalista eletto deputato con la sinistra. Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Un altro caso oscuro nel passato della coop Karibu della famiglia di Aboubakar Soumahoro, sindacalista eletto deputato con la sinistra. Tutto avviene nel 2016. Un blitz della Digos scopre che in una struttura gestita dalla coop vi sono 140 migranti invece di 80, numero massimo consentito dalla legge. Scatta un'evacuazione forzata imposta alla Karibu e la presidente, suocera del deputato, è costretta a spostare i lavoratori in un'altra sistemazione. A quel punto, sotto consiglio della Prefettura di Latina, Mukamitsindo individua una nuova location a Latina, in via Nascosa, una zona buia e lontana da occhi indiscreti. La suocera di Soumahoro conclude con i proprietari della villetta - due medici del posto - un contratto di locazione da 15 mila euro al mese. Ma poco dopo i residenti della zona presentano un esposto sulle condizioni fatiscenti della struttura e gli stessi migranti denunciano condizioni igienico-sanitarie disastrose, tra cui l'assenza dell'allaccio alla rete fognaria e la mancanza di cibo, acqua, luce e il non pagamento del pocket money.

Le ispezioni dei Carabinieri portano alla scoperta del fatto che la villa scelta per accogliere i migranti era abusiva. Ma non finisce qui. Si scopre che il proprietario del casolare, Carlo Del Pero, è un pregiudicato. L'uomo era presente per lavori di manutenzione in entrambi gli incontri con le forze dell'ordine: una sorpresa in quanto Del Pero era stato arrestato anni prima e si trovava in quel momento agli arresti domiciliari, evasi proprio sotto gli occhi delle guardie. Il medico, in quel momento giudicato in appello ma poi condannato in Cassazione nel 2018 con le accuse di associazione a delinquere finalizzata al falso in atto pubblico e falso materiale ideologico, era noto in città per il suo passato quando, concretamente, distribuiva certificati falsi ai pazienti. Inoltre, sempre Del Pero, era conosciuto anche dalle autorità per aver lavorato nella questura di Latina.

Il sequestro dell'abitazione per abusivismo edilizio è stato immediato e Marie Therese Mukamitsindo ha dovuto trovare un'altra sistemazione per i «suoi» migranti. Lo scandalo, all'epoca, occupò tutte le prime pagine dei giornali locali, ma non è ancora chiaro il motivo per cui le autorità competenti non verificarono né la struttura né il «curriculum» del proprietario prima di dare l'ok.

Ombre sui sindaci che osannavano Soumahoro. La Prefettura di Latina: stop gestione dei centri. Le denunce passate sotto silenzio: "Strutture senza gas né acqua potabile". Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La vicenda delle coop di famiglia Soumahoro è ormai esplosa con l'inchiesta della procura di Latina. Ed è fresco «l'annullamento dell'affidamento dei Centri di accoglienza straordinaria affidata alla Aid e alla Karibu» da parte della prefettura di Latina per assegnarli ad altri. In realtà, nonostante solo nelle ultime settimane sia venuta a galla un'amara verità, quello dell'associazione Karibu sembrerebbe un percorso opaco già da molti anni.

La coop vinse, infatti, il bando per la gestione del progetto Sprar - in ordine alla gestione dell'accoglienza migranti - nel lontano 2011 restando l'imperatrice dei migranti fino al 2018. Tutto senza rinnovare il bando, ma solo mediante continue proroghe da parte del Comune di Sezze di cui è stata partner per tutta la gestione.

A far passare come modello di integrazione per gli immigrati la Karibu è stata la sinistra delle amministrazioni dei comuni pontini che, fin da subito, ha esibito la creatura di Madame Soumahoro come esempio da seguire.

Gli occhi puntati su Latina attirarono, infatti, molta attenzione tanto che nel 2010 anche il Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna si recò a Sezze per fare i complimenti alla fondatrice della Karibù: «Cercheremo di non farvi mancare nulla, troveremo la maniera migliore per venire incontro alle vostre esigenze», disse.

Il metodo «immigrati che gestiscono l'accoglienza di altri immigrati», nascondeva però problematiche importanti ignorate dai piani alti e, sembrerebbe, insabbiate dalle amministrazioni locali. Le proteste per le condizioni in cui gli ospiti venivano fatti vivere furono immediate e a macchia d'olio in tutte le strutture - grandi e piccole - gestite dalla coop. Nel 2018 i migranti di un centro Karibù la accusarono pubblicamente: cibo immangiabile, pocket money inesistente e strutture non conformi ai minimi requisiti igienico sanitari, come confermato anche dall'Asl.

Un gioco andato avanti fino al 2019, quando non era più possibile prorogare la gestione alla Karibu senza un nuovo bando.

A partecipare furono l'associazione Arteinsieme e la coop di Mukamitsindo. Nonostante a quest'ultima le fossero stati pignorati i finanziamenti solo l'anno precedente, riuscì a presentare l'offerta economica più vantaggiosa - non è dato sapere come - e il comune di Sezze fu in procinto di decretarla vincitrice.

È solo grazie al presidente della Commissione Appalti, l'architetto Eleonora Doga, che riscontrò anomalie nella gestione economica e incongruità nei costi di sicurezza aziendali tanto da affidare una verifica che si concluse con l'affidamento all'altra associazione.

I nuovi gestori, una volta insediatosi nei centri gestiti fino a poco tempo prima da Karibu, trovarono esattamente ciò che oggi è agli onori della cronaca: condizioni di vita degradanti, mancanza di cibo e trattamenti al limite dell'umano.

«Strutture prive di allacci per l'erogazione di acqua e metano e acqua non potabile»: queste, tra le tante, le denunce rimaste inascoltate.

La Prefettura di Latina: stop gestione dei centri. Ombre sui sindaci che osannavano Soumahoro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

Tutto quello che i "giornaloni" della sinistra si guardano bene dal raccontae: altrimenti chi li sente Marco Damilano e Roberto Saviano, i "protettori" mediatici di Soumahoro.

Aseguito dell’inchiesta della procura di Latina è ormai deflagrata la questione delle coop gestite dalla suocera e moglie di Soumahoro . E’ fresco “l’annullamento dell’affidamento dei Centri di accoglienza straordinaria affidata alla Aid e alla Karibu“ disposto della Prefettura di Latina per assegnarli ad altri. In realtà, quello della coopertiva Karibu sembrerebbe un percorso opaco già da molti anni, nonostante solo nelle ultime settimane sia venuta a galla un’amara verità sinora taciuta da molti, controllori compresi.

La coop Karibu infatti vinse il bando per la gestione del progetto Sprar per la gestione dell’accoglienza migranti nel lontano 2011 restando indiscussa fino al 2018. Tutto ciò senza rinnovare il bando, ma solo attraverso continue proroghe rilasciate dal Comune di Sezze di cui la cooperativa è stata partner per tutta la gestione.

E’ stata la sinistra delle amministrazioni dei comuni pontini che immediatamente ha esibito la “creatura” Karibu di Marie Therese Mukamitsindo come esempio da seguire, facendola passare come modello di integrazione per gli immigrati.

Gli occhi puntati su Latina attirarono molte attenzioni al punto tale che nel 2010 anche il Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna si recò a Sezze per fare i complimenti alla fondatrice della Karibù: “Cercheremo di non farvi mancare nulla, troveremo la maniera migliore per venire incontro alle vostre esigenze“, manifestando un’evidente cecità politico-amministrativa.

Il metodo Karibu “immigrati che gestiscono l’accoglienza di altri immigrati”, occultava delle importanti problematiche letteralmente ignorate dai piani alti e, sembrerebbe dalle prime indagini ed accertamenti della Procura di Latina, insabbiate dalle amministrazioni locali. Le proteste per le condizioni in cui gli ospiti erano costretti a vivere furono tante ed immediate estese a macchia d’olio in tutte le strutture gestite dalla cooperativa. I migranti di un centro di accoglienza della coop Karibù Nel 2018 la accusarono pubblicamente: strutture non conformi ai minimi requisiti igienico sanitari, come confermato anche dall’ Asl cibo immangiabile, pocket money inesistente .

Una situazione vergognosa protrattasi fino al 2019, cioè sino quando non è stato più possibile prorogare la gestione alla coopertiva Karibu senza un nuovo bando. A partecipare furono l’associazione Arteinsieme e la coop di Marie Therese Mukamitsindo. Nonostante a quest’ultima le fossero stati pignorati i finanziamenti solo l’anno precedente, riuscì a presentare l’offerta economica più vantaggiosa – non è dato sapere come – e il Comune di Sezze fu in procinto di decretarla vincitrice.

Il “giochetto” non andò in porto soltanto grazie all’architetto Eleonora Doga presidente della Commissione Appalti, la quale riscontrò anomalie nella gestione economica e incongruità nei costi di sicurezza aziendali disponendo una verifica che si concluse con l’affidamento all’altra associazione che una volta insediatosi nelle strutture gestiti fino a poco tempo prima dalla coop Karibu, trovarono esattamente ciò che oggi è agli onori della cronaca: “Strutture prive di allacci per l’erogazione di acqua e metano e acqua non potabile” ed i riscontri alle tante denunce rimaste inascoltate, con i migranti abbandonati a condizioni di vita degradanti, mancanza di cibo e trattamenti al limite dell’umano.

Ma tutto questo i “giornaloni” della sinistra si guardano bene dal raccontare: altrimenti chi li sente Marco Damilano e Roberto Saviano, i “protettori” mediatici di Soumahoro. Redazione CdG 1947

Bianca Leonardi per “il Giornale” il 6 dicembre 2022.

Erogazioni alla Karibu anche da parte del Comune di Roma. L'amministrazione capitolina avrebbe, prima con la pentastellata Raggi e poi con il dem Gualtieri, finanziato molto generosamente la creatura di Mukamitsindo, suocera dell'onorevole Soumahoro, ora indagata per truffa aggravata. 

Come rivela L'Identità, nel 2021 la Karibu avrebbe ricevuto «pagamenti dalla Capitale per 30.303 mila euro: 8mila l'11 giugno, 6200 e 2900 il 9 settembre e 13203 il 5 novembre». Nell'anno precedente, il 2020, nelle tasche della regina dei migranti, sarebbero arrivati quasi 63mila euro «con due versamenti da 31.090 l'11 febbraio e 31.531 il 21 febbraio». 

Controllando i bilanci, questo giro di soldi non compare. Nel 2020 la Karibù non ha - carte alla mano - rendicontato le entrate del Comune di Roma. Nel 2021 stessa cosa: il bilancio non mostra nessun finanziamento da parte della giunta Gualtieri. Allo stesso tempo anche i bilanci del Comune di Roma non tornano: la sezione relativa a «cooperative ed associazionismo», che corrisponde alle spese sostenute a sostegno delle associazioni del terzo settore, riporta uno zero. 

Nessun finanziamento né per il 2020, né per il 2021 agli enti del terzo settore: questo è ciò che dicono i documenti dell'amministrazione capitolina. A contestare lo strano e presunto legame tra amministrazione e Karibu è Fabrizio Santori, capogruppo della Lega in Campidoglio: «Cifre altissime, che dal 2016 ad oggi ammonterebbero a oltre 2 milioni».

E ancora: «Vogliamo vedere i bilanci, sapere quanti bandi sono stati vinti da questa cooperativa anche a livello regionale e se siano mai arrivate prima lamentele dai lavoratori o da chi era loro vicino», conclude Santori. Le lamentele c'erano, le proteste dei lavoratori nei centri di accoglienza gestiti da Karibu anche - come Il Giornale ha documentato - ma la bomba è esplosa solo adesso. 

Il leghista parla anche di «totale mancanza di controlli puntuali, seri ed accurati anche su quello dei diritti del lavoro, per la sicurezza, l'igiene, la sanità e la condizione dei dipendenti». Caso emblematico su questo fronte è proprio il blitz della polizia nel 2011, quando le forze dell'ordine trovarono in un centro Karibu 51 africani in un solo appartamento in condizioni di malnutrizione e sofferenza. La coop non venne colpita dallo scandalo ma, proprio nello stesso anno, vinse il bando Sprar assumendo la gestione di tutti i migranti sul territorio di Latina, continuando fino al 2018. Non solo: nonostante la perdita della maggior parte dei centri i finanziamenti a Madame Soumahoro sono andati avanti fino a pochi mesi fa. Che la pioggia di contributi non si sia fermata, quindi, sembrerebbe certo; più difficile capire in che modo e perché tutto quel denaro da parte del comune di Roma, non rendicontato nelle spese per le associazioni, sia arrivato nelle tasche di Karibu.

Il Comune di Roma pagava la coop della suocera di Soumahoro: 4,7 milioni in 9 anni. Martina Zanchi su Il Tempo il 15 dicembre 2022

Dal 2013 ad oggi Roma Capitale ha impegnato oltre quattro milioni e mezzo (precisamente 4.679.087,65 euro) in favore della cooperativa Karibu e di questi ne risultano già pagati alla coop di Marie Terese Mukamitsindo, suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, all’incirca tre. Le ultime due fatture, da undicimila e 49mila euro, sono state invece "congelate" dagli uffici in attesa di completare alcune verifiche sulla regolarità contributiva della cooperativa.

Il rapporto tra il Comune di Roma e la Karibu, oggi finita nella bufera a seguito dell’inchiesta della procura di Latina che vede indagata la parente del parlamentare, è iniziato quindi nove anni fa. E a ricostruire il flusso di denaro uscito dal Campidoglio ed entrato nelle casse della Karibu, a cui era affidata l’accoglienza di minori stranieri non accompagnati, è stata la direzione capitolina Servizi alla persona, la cui direttrice è stata invitata a relazionare, insieme all’assessore alle Politiche sociali Barbara Funari, nella commissione Trasparenza che si è tenuta ieri, su convocazione del presidente Federico Rocca (FdI).

Al centro della vicenda c’è ancora una volta la difficoltà per il Comune di reperire posti disponibili, nei centri d’accoglienza della Capitale, per i ragazzi stranieri che arrivano in città senza nessuno che si prenda cura di loro. Le case famiglia di cui si servono i Servizi sociali in zona sono soltanto sei, del tutto insufficienti per far fronte agli attuali 250 arrivi al mese. Così «oggi ci rivolgiamo a 102 strutture fuori territorio», ha spiegato in commissione la direttrice Angelina Di Prinzio. E tra queste c’era anche il centro di accoglienza della Karibu a Latina, dove Roma Capitale aveva collocato sette minori. Verbi da coniugare al passato, visto che pochi giorni fa i ragazzi sono stati trasferiti altrove. 

"Nonostante l’autorizzazione fosse ancora valida e nonostante, da un sopralluogo dei nostri assistenti sociali, la struttura risultasse adeguata - ha spiegato Di Prinzio - quando abbiamo saputo che la Prefettura di Latina ha annullato loro l’affidamento dei centri d’accoglienza per adulti abbiamo deciso di trasferire i ragazzi in altre strutture, anche per sottrarli all’inevitabile esposizione mediatica". 

Per cercare di ricavare altri posti letto in città, intanto, il Campidoglio sta valutando di chiedere fondi ministeriali per ristrutturare immobili pubblici e trasformarli in centri adatti a ospitare minorenni. Resta però il nodo della permanenza dei giovanissimi migranti nei commissariati romani, dove bussano dopo essere arrivati in città e in cui spesso, accuditi dai poliziotti, sono costretti ad attendere per giorni che i Servizi sociali trovino un posto in casa famiglia per loro. Una responsabilità in più per gli agenti che, dovendo vigilare sugli "ospiti", non possono dedicarsi al presidio del territorio con tutte le forze di sicurezza in servizio. Per ovviare alla situazione il prefetto Bruno Frattasi ha firmato pochi giorni fa un avviso pubblico volto a raccogliere l’adesione di "partner" - ad esempio associazioni, cooperative ed enti del terzo settore - per la stesura di un progetto da finanziare con fondi europei per massimo 650mila euro. L’obiettivo è istituire in città dei "Safe space", ovvero degli spazi idonei ad accogliere i giovani fino al loro definitivo collocamento in strutture specializzate. Al contempo, il prefetto prevede di supportare gli assistenti sociali del Comune con altri operatori incaricati di prendere in carico i minori non appena si presentano nei Distretti di polizia; di portarli nei "Safe space" - che saranno messi a disposizione direttamente dal soggetto che partecipa al bando - e infine accompagnarli nel centro d’accoglienza definitivo, una volta individuato dai Servizi sociali. Un solo operatore, da quanto si apprende, ha risposto all’appello della Prefettura e il 21 dicembre il progetto approvato sarà presentato al Ministero dell’Interno per la richiesta di finanziamento.

E sempre in tema di accoglienza, è stato pubblicato ieri dal dipartimento Politiche sociali di Roma Capitale il maxi bando di gara diviso in sette lotti per l’ospitalità, all’interno di centri collettivi o in appartamenti, di 1.751 migranti nel triennio 2023-2025. Il valore dell’accordo quadro supera gli 81,3 milioni di euro; poco più di 99 milioni considerando anche l’Iva. 

I soldi dallo Stato, il focus sulle fatture: le indagini sulla coop dei Soumahoro. La procura di Latina sta vagliando tutti i documenti contabili della cooperativa Karibù a caccia di anomalie. Intanto i sindacati continuano a chiedere un salvataggio per i dipendenti rimasti senza lavoro. Tonj Ortoleva il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il denaro ricevuto dallo Stato per l’accoglienza dei migranti e l’uso effettivo che ne è stato fatto. Su questo si concentrano le indagini della procura di Latina che nelle ultime settimane ha moltiplicato i riflettori sulla cooperativa Karibù, gestita dai familiari dell’onorevole Aboubakar Soumahoro e che sta cercando conferme alle denunce arrivate da varie fonti. Gli investigatori della guardia di finanza stanno concentrando la loro attenzione su alcuni particolari rapporti tra la cooperativa ed alcuni fornitori su fatture con importi consistenti.

Un fiume di denaro per gestire l’accoglienza

La cooperativa Karibù ha gestito almeno 5 milioni di euro in 18 anni di attività nella provincia di Latina. La coop di Marie Therese Mukamitsindo ha gestito negli anni i maggiori centri di accoglienza nella provincia di Latina e lo ha fatto non senza polemiche e sospetti. Sui quali però solo ora si sono accese seriamente le luci delle indagini. Tanto per fare un esempio, sui soldi percepiti dalla cooperativa ci sono sempre state illazioni. Alcuni dipendenti, arrabbiati perché senza stipendio, riferivano di presunti passaggi di denaro dall’Italia all’Africa, in particolare in Ruanda, terra natia di Mukamitsindo. Illazioni, chiacchiere le hanno sempre bollate dalle parti di Karibù. Sfoghi senza alcun fondamento da parte di personale dipendente che era senza stipendio. Solo che ora, a quanto pare, quella chiacchiera è finita all’attenzione degli investigatori che intendono verificare se sia vera o meno questa vicenda. Di certo gli investigatori della guardia di finanza di Latina stanno approfondendo il capitolo relativo alle fatture verso l’estero emesse dalla cooperativa e ritrovate nei documenti di bilancio.

Il nodo dei lavoratori ancora senza soldi

In queste ore continuano gli incontri tra i sindacati e il prefetto di Latina Maurizio Falco per risolvere il nodo legato alla situazione difficile in cui versano i lavoratori di Karibù e del consorzio Aid. “Abbiamo incontrato il prefetto - spiega Gianfranco Cartisano della Uiltucs - e gli abbiamo ufficializzato le nostre richieste, ossia le criticità che riteniamo opportuno affrontare nell'incontro che sarà fissato a breve. In primo luogo la necessità urgente è il pagamento degli stipendi arretrati e la ricollocazione dei lavoratori nelle società nuove affidatarie dopo l’azzeramento degli appalti applicato dalla Prefettura. Come Uiltucs Latina oltre alle problematiche causate dalla Coop Karibu e AID abbiamo la necessita' di rispristinare e sensibilizzare un modello di politiche nel settore dell'accoglienza ed integrazione diverso, virtuoso e soprattutto dignitoso per i lavoratori. Il settore le cooperative i soggetti che gestiscono i progetti possono e debbono tener conto di questa forza Il tavolo istituzionale deve servire a voltare una brutta pagina della nostra Provincia: l'obiettivo è ricollocare i veri addetti dell'accoglienza e dell’integrazione, i soli che hanno gestito con professionalità ed hanno pagato il prezzo più alto della cattiva gestione delle cooperative".

Il caso Soumahoro a parti invertite. Lacrime, sceneggiate, stivali verdi da bracciante, la solita autoanalisi della sinistra afflitta e contrita. Gabriele Barberis su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

Lacrime, sceneggiate, stivali verdi da bracciante, la solita autoanalisi della sinistra afflitta e contrita. La brutta vicenda legata alla coop di famiglia del parlamentare Aboubakar Soumahoro si sdoppia in uno psicodramma che viaggia in parallelo con una Procura, quella di Latina, decisa ad andare fino in fondo su accuse di irregolarità e sfruttamento di poveri lavoratori stranieri.

Sul piano giudiziario, visto con l'ottica garantista, c'è soltanto da lasciare operare in tranquillità i magistrati senza sollecitare o auspicare svolte clamorose. Dal punto di vista politico c'è poco da aggiungere alla figuraccia irrimediabile dell'ex sindacalista di colore, rivelatosi un opportunista lambito da tutti i fenomeni negativi legati allo sfruttamento degli immigrati. Proprio lui che ha costruito la sua resistibile carriera di paladino dei migranti su delega della solita sinistra chic e annoiata che ha costruito in salotto un anti-Salvini da erigere a esempio di disinteresse e virtù.

Forse è stata questa gogna, realizzata da Soumahoro con le sue stesse mani, a placare la sete giustizialista. Il volto nuovo del Parlamento che cade un mese dopo l'elezione, di fatto è già condannato dalla corte dell'opinione pubblica. Il Palazzo ha digerito negli anni ogni tipo di personaggio che pareva irresistibile, figurarsi un parvenu come Aboubakar.

Il dibattito sereno su guai giudiziari o paragiudiziari è senz'altro un grande segno di maturità generale. E va dato atto al centrodestra, che predica il garantismo come elemento fondante del suo Dna, di avere censurato l'esponente verde sul piano dei comportamenti pubblici senza invocare giri di manette o decadenza del seggio per indegnità. L'onorevole Soumahoro può restare tranquillamente al proprio posto e proseguire l'attività parlamentare in attesa degli sviluppi del caso.

Non occorre tuttavia una fantasia sfrenata per immaginare un caso analogo a parti invertite, con un esponente del centrodestra sfiorato da analoghe vicende penali e familiari. Il tribunale mediatico avrebbe già issato le ghigliottine con lo stesso spirito con cui gli allora ministri Federica Guidi e Maurizio Lupi furono giustiziati e costretti a dimettersi sull'onda di uno spirito giacobino che ingigantì episodi marginali alla stregua di reati da galera. Guarda caso nei confronti di due esponenti moderati di un governo di sinistra.

Le anime belle alla Soumahoro, che predicano fratellanza solo all'interno della stessa compagnia di giro, sono le stesse che hanno invocato provvedimenti per la figlioletta del premier Meloni al seguito della mamma al G20 di Bali e per le accelerate del figlio di Salvini sulla moto d'acqua della Polizia. Qualcuno è ancora convinto che i valori si annidino soltanto da una parte mentre l'altra diventa il ricettacolo di fascisti, evasori e ladri da fermare preventivamente per il bene superiore della società. La loro. Sempre più lunare e sempre più irriconoscibile per milioni di elettori normali.

Da “Striscia la notizia” il 29 novembre 2022.

Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Valerio Staffelli consegna il Tapiro d’oro a Laura Boldrini che nel 2018, in occasione della decima edizione del MoneyGram Awards per imprenditori immigrati, premiò come migliore imprenditrice straniera Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro, oggi indagata per truffa aggravata e false fatturazioni nell’ambito dell’indagine della procura di Latina sulla gestione di due cooperative. 

«Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte», si difende Laura Boldrini, che aggiunge: «La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Il Tapiro d’oro consegnatelo anche alla giuria del premio». 

«Quindi lei non aveva verificato?», chiede l’inviato. «Con una giuria di questo tipo chi non si fida? - risponde la deputata del PD - Penso che avrebbero dovuto fare loro questo lavoro. In quegli anni lì chi ha deciso di darle il premio evidentemente non sapeva nulla. Poi sono emerse queste magagne. Chiaramente oggi nessuna giuria avrebbe fatto questa scelta», conclude Boldrini. 

Caso Soumahoro, Striscia la notizia consegna il tapiro a Laura Boldrini. Striscia la notizia continua a seguire il caso Soumahoro e ha raggiunto Laura Boldrini per consegnare il tapiro d'oro. Francesca Galici il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Da quando è scoppiato il caso delle Coop della famiglia di Aboukabar Soumahoro, Striscia la notizia ha deciso di occuparsi della vicenda per andare a fondo e scoprire cosa ci sia dietro le indiscrezioni che sono uscite negli ultimi giorni. L'inviato Pinuccio si sta occupando della Lega Braccianti e delle segnalazioni di chi ha conosciuto il deputato durante le sue battaglie per i braccianti, rivelando alcuni presunti retroscena sulla sua partecipazione alle battaglie in favore dei braccianti. Ma nel servizio che andrò in onda questa sera nel corso della puntata odierna del telegiornale satirico di Antonio Ricci, Valerio Staffelli consegnerà un tapiro d'oro a Laura Boldrini.

"Usava noi migranti per fare carriera". Altre accuse a Soumahoro

Come altri prima di lei, anche l'ex presidente della Camera dei deputati si smarca dalla vicenda. Va specificato che Aboukabar Soumahoro non è indagato e che le attenzioni della procura si concentrano su sua moglie e sua suocera. Ed è proprio quest'ultima il perno del servizio di Valerio Staffelli. Marie Therese Mukamitsindo, infatti, è stata premiata nel 2018 in occasione della decima edizione del MoneyGram Awards per imprenditori immigrati, premiò come migliore imprenditrice straniera. La donna ora è indagata per truffa aggravata e false fatturazioni. A premiare la suocera di Aboukabar Soumahoro è stata proprio Laura Boldrini, raggiunta da Valerio Staffelli.

"Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte", ha dichiarato l'ex presidente della Camera, smarcandosi dal premio: "La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Il Tapiro d’oro consegnatelo anche alla giuria del premio". Davanti alle parole di Laura Boldrini, Valerio Staffelli ha punto la deputata chiedendole se avesse premiato senza aver prima verificato, ma l'esponente del Pd ha immediatamente replicato: "Con una giuria di questo tipo chi non si fida? Penso che avrebbero dovuto fare loro questo lavoro. In quegli anni lì chi ha deciso di darle il premio evidentemente non sapeva nulla. Poi sono emerse queste magagne. Chiaramente oggi nessuna giuria avrebbe fatto questa scelta".

Bianca Leonardi per “il Giornale” il 7 Dicembre 2022. 

«La situazione che emerge su sua suocera è terrificante», così la dem Boldrini a Radio 1, a «Un giorno da pecora», riguardo la vicenda Soumahoro. Quella suocera che lei personalmente ha premiato come miglior imprenditrice straniera nel 2018. E anche sulla moglie del deputato, anzi sulle famose borse, dice la sua: «Bastano 200 euro per una borsa, magari erano finte». 

E il collega deputato lo scarica così: «Non ha fatto sentire la sua voce, questo è un neo pesantissimo», «non ritengo plausibile che lui non sapesse». E sul «non sapere» citato dall'ex presidente della Camera c'è da dire che le coop di famiglia Soumahoro non sono le uniche ad aver nascosto lati oscuri, tanto più - sembrerebbe - sui rapporti diretti con esponenti Pd. 

Nel comune di Roccagorga, insieme a Karibu operava un'altra coop dal nome «Fantasie».

Un blitz dei carabinieri trovò all'interno di un appartamento, che doveva ospitare 6 persone, addirittura 46 rifugiati. A causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita disumane, i Carabinieri prima irruppero negli uffici della Regione Lazio, che aveva come presidente Zingaretti, poi presentarono un dossier sulle anomalie nei contratti tra «Fantasie» e Regione. 

Carte che sono rimaste nei cassetti e che hanno visto solo l'arresto dei padroni di casa della coop in questione. 

Ad intervenire fu la Lega, nelle parole del capogruppo in Consiglio regionale Angelo Tripodi, sui presunti legami tra dem e le coop, a partire dalla Karibu: «Ora si capisce l'attenzione del Pd per i migranti. L'assessore ai servizi con delega ai migranti di Roccagorga è dipendente della Karibu, un ex funzionario comunale - Nareste Orsini- risulterebbe consulente della stessa, il responsabile dell'ufficio tecnico comunale- Vincenzo Basilisco - ha messo a disposizione uno degli immobili di proprietà e anche il comandante dei vigili urbani- Fiorella Tolfa - avrebbe affittato alla Karibu un locale di famiglia».

E anche sui finanziamenti il consigliere del Carroccio fu chiaro, presentando anche un'interrogazione proprio al governatore Zingaretti: «Il paradosso è che Latina, con 126mila abitanti gestiva circa 500mila euro in tre anni, mentre Roccagorga, con 5mila abitanti, oltre 300 mila in un anno». Ma c'è di più: un'altra coop agiva insieme a Karibu, dividendosi i migranti da destinare alle strutture. 

La romana «Tre Fontane» è stata infatti sbugiardata da testimonianze shock da parte degli ospiti. Una su tutte quella di Mohammed Ba che racconta di un trattamento di schiavitù: «Le condizioni di vita di questo centro sono miserabili, sono disumane» e ancora «perché italiani pensano di avere il diritto di maltrattarci come oggetti senza alcun valore». Su questo, oltre a una replica della coop che smentiva tutto, è calato il silenzio. 

Si scopre però che «Tre Fontane» è la cooperativa coinvolta nel business dei migranti nell'inchiesta Mafia Capitale, che ha visto arrestati molti esponenti politici - la maggior parte del Pd - tra cui l'ex presidente dem del consiglio comunale di Roma Mirko Croatti. La coop nel 2015 ricevette infatti un'interdittiva anti-mafia, ma già agli inizi del 2016 risultò legittimata a partecipare ai bandi emessi dalle prefetture di tutta Italia. Oggi quella coop è confluita nel colosso italiano dell'accoglienza, Medihospes, che nonostante fiumi di indagini e non solo, nel 2020 solo a Roma lavorava in una condizione quasi di monopolio, gestendo il 63% di tutti i posti di accoglienza.

Da liberoquotidiano.it il 29 novembre 2022. 

"Sorprendentemente guadagna uno 0,3%": Enrico Mentana snocciola le cifre dell'ultimo sondaggio Swg condotto per il TgLa7. E sottolinea con un certo stupore la crescita di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana. Il giornalista, infatti, ha fatto presente che sarebbe stato lecito aspettarsi tutt'altro risultato considerato il caso Soumahoro, eletto proprio con Verdi-Si in Parlamento. L'Alleanza di Bonelli e Fratoianni, invece, sale dal 4 al 4,3% in una settimana.

In vetta alla classifica resta Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, che in sette giorni perde solo lo 0,1% dei consensi, arrivando così al 30,3. A seguire, con un distacco non indifferente, c'è il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, stabile al 16,9%. Ormai al terzo posto il Pd di Letta, che continua a perdere consensi. I dem, infatti, sono passati dal 16,2% del 21 novembre al 15,8 di oggi, perdendo così lo 0,4%.

Subito dopo ci sono Azione e Italia Viva all'8,1% (+0,2%); la Lega al 7,8% (+0,2%) e Forza Italia al 6,5 (+0,1%). A seguire, dopo Verdi e Sinistra Italiana, troviamo PiùEuropa al 2,8%, ItalExit al 2,2 e Unione popolare all'1,6%. Il sondaggio in questione ha registrato anche l'opinione generale dei cittadini sulla manovra approvata dal governo. Su una scala di voti da 1 a 10, la legge di Bilancio della Meloni è stata giudicata con un 5,3. In passato quella di Draghi era stata valutata 5,8; quella del Conte II 4,7 e quella del Conte I 5,3.

Piero Santonastaso per professionereporter.eu il 7 Dicembre 2022.

Ho visto cose che voi giornalisti non potreste immaginarvi… Eccomi, mi candido a essere intervistato: dal 2017 al 2020 ho lavorato insieme ad Aboubakar Soumahoro – nell’Unione Sindacale di Base – rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo – anche come autista – nelle prime uscite ufficiali. 

Era il momento della costruzione del personaggio, salito alla ribalta in contemporanea con il governo gialloverde nel giugno del 2018. Merito della famigerata copertina dell’Espresso “Uomini e no”, con i faccioni affiancati di Abou e Matteo Salvini.

Quella copertina fu il trampolino di lancio per la carriera politica di Soumahoro, una lunga rincorsa iniziata non con lo sparo di uno starter ma con le fucilate che il 2 giugno si erano prese la vita di Soumaila Sacko, bracciante maliano e attivista sindacale USB, assassinato mentre recuperava lamiere in una fornace abbandonata per costruire l’ennesima baracca nel “campo informale” di San Ferdinando, in Calabria.

Abou guidava allora le manifestazioni di protesta dei braccianti, con il suo carisma, la presenza fisica, il perfetto italiano da laureato. Poteva Diego Bianchi – in arte Zoro – non rimanere folgorato sulla via di San Ferdinando da tanta magnificenza? No, e come dargli torto? Il barometro politico a sinistra segnava “brutto stabile”, sul lato opposto un tale sentenziava che “la pacchia è finita” e un altro che la povertà era stata abolita.

La vista di Soumahoro dovette sembrare a Zoro l’apparizione di una “madonna pellegrina”, per dirla con Sergio Saviane. Fu così che il nostro bravo conduttore tornò dalla Calabria con un bel servizio e una convinzione, subito condivisa con il sodale Marco Damilano: abbiamo un leader per la sinistra. 

L’invito per Abou a Propaganda Live e la copertina dell’Espresso furono i botti di richiamo prima di uno spettacolo pirotecnico. Da quel momento si moltiplicarono le richieste di intervista dall’Italia e dall’estero. 

Non contava il contenuto, l’importante era che Abou parlasse. Così, se prima il meglio che potesse capitare era un servizio – con tutto il rispetto – di Radio Radicale, ora si mettevano in fila la BBC e Le Monde, Rolling Stone e Russia Television, Orf e Frankfurter Rundschau. Per tacere degli italiani, tra i quali solo Mediaset ci pensò su una ventina di giorni, prima di farsi viva.

Ma era solo l’inizio, tutti lo cercavano, tutti lo volevano. La regia, però, uscì pian piano dalla disponibilità di USB e passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano (consiglio, in proposito, di recuperare la spassosa pagina di Stefano Disegni sul Fatto Quotidiano di domenica 4 dicembre). 

La costruzione del personaggio da quel momento divenne una faccenda a tre, fino alla definitiva e immotivata (o motivata, questione di punti di vista) rottura con USB nel luglio 2020.

Abou svanì in lontananza, verso il suo sindacatino personale, la Lega Braccianti oggetto oggi di tanta attenzione. Sparì per un po’ dai media nazionali e internazionali, anche la sua rubrica sull’Espresso si fece saltuaria, fino al ritorno in pompa magna per le ultime elezioni politiche con la conquista di un seggio alla Camera.

Oggi è tornato sotto i riflettori, tristissimi, dei media italiani. Fatta la tara alle opinioni personali e politiche su Aboubakar Soumahoro, le varie testate – con pochissime eccezioni – somigliano a una muta di bloodhound impegnati nella caccia al negro per applicare la legge di Lynch. 

Perché di questo si tratta: quattro anni fa Abou era il nuovo che avanzava, circonfuso di luce, oggi è un politico debole e isolato, ideale per il tiro al bersaglio. Ha fatto errori a valanga, così come i suoi mentori che adesso se ne lavano le mani, ma non è oggetto di indagini giudiziarie.

Sarebbe bello – e la stampa italiana ne trarrebbe lustro – se questo incessante rovistare, anche nella spazzatura, fosse applicato con la stessa intensità e la stessa costanza a schiere di politici dalla pelle bianca che magari oggetto di indagini giudiziarie lo sono veramente.Coraggio cari colleghi, la pratica Abou vi dimostra che “si-può-fare” (cit.). Basta volerlo.

"Così Damilano e Zoro hanno creato il fenomeno Soumahoro". Piero Santonastaso svela la scalata mediatica del deputato italo-ivoriano: "Sulle sue doti si è innestata un'operazione politica, volevano un nuovo leader della sinistra". Luca Sablone l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Al di là dell'aspetto giudiziario, la vicenda Aboubakar Soumahoro è stata l'occasione che ha svelato tutta l'ipocrisia della sinistra. Il fronte rosso era convinto di aver trovato il suo nuovo potenziale leader, salvo poi abbandonarlo in un silenzio assordante alla luce della vicenda sulla cooperativa Karibu. Il deputato italo-ivoriano è arrivato in Parlamento anche grazie a una scalata mediatica che gli ha dato l'opportunità di prendersi spazi televisivi non indifferenti che l'hanno portato a essere dipinto come un estenuante difensore dei lavoratori stranieri sfruttati.

Come è nato il fenomeno Soumahoro

L'approdo alla Camera è solo l'ultima fase di un'ascesa mediatica che si è fatta via via più potente. A spiegare come è nato il fenomeno Soumahoro è stato Piero Santonastaso che, scrivendo su professionereporter.eu, ha fatto sapere di aver lavorato insieme all'italo-ivoriano nell'Unione sindacale di base dal 2017 al 2020 "rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo – anche come autista – nelle prime uscite ufficiali".

Come si è giunti alla creazione del personaggio? Santonastaso ha individuato due fulcri principali: da una parte Marco Damilano, dall'altra Diego Bianchi (in arte Zoro). Non può passare in secondo piano la nota copertina de L'Espresso risalente al 2018 dal titolo "Uomini e no" che ritraeva rispettivamente il volto di Soumahoro e quello di Matteo Salvini. Questo passaggio viene reputato il trampolino di lancio per la carriera politica del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana.

Aboubakar Soumahoro: il silenzio dei buonisti della tv di sinistra

L'italo-ivoriano è salito alla ribalta mentre era in vita il governo gialloverde, precisamente nel giugno del 2018. Guidava le manifestazioni di protesta dei braccianti, sfoggiando il suo carisma e una presenza fisica che hanno attirato l'attenzione della sinistra. Non a caso Santonastaso, intervistato da Libero, ha fatto notare che "sulle sue doti, innegabili, a livello di leadership e sulle lotte sindacali si è innestata un'operazione politica".

Il duo Damilano-Zoro

A svolgere un ruolo importante è stata anche l'intervista a Propaganda Live, programma in onda su La7 capitanato da Zoro. "Poteva Diego Bianchi non rimanere folgorato sulla via di San Ferdinando da tanta magnificenza?", ha annotato Santonastaso. Secondo cui la prima pagina de L'Espresso e l'ospitata a Propaganda Live hanno rappresentato "i botti di richiamo prima di uno spettacolo pirotecnico". Da qui "una convinzione, subito condivisa con il sodale Marco Damilano: abbiamo un leader per la sinistra". Il risultato? Una marea di richieste di interviste dall'Italia e dall'estero.

Santonastaso ha posto l'attenzione sul fatto che "la regia" uscì pian piano dalla disponibilità di Usb e "passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano". Infine ha sottolineato che Soumahoro "era molto calato nella parte e un po' di vanità l'ha coltivata", tanto che a un certo punto della sua vita da sindacalista "è stato tentato da altre sirene".

"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro

Nei giorni scorsi Diego Bianchi ha affrontato il caso e ha messo le mani avanti: "Non siamo imbarazzati, l'imbarazzo è l'ultimo dei sentimenti". Non ha fatto mancare una presa di posizione ("Siamo incazzati, delusi, amareggiati"), ma al tempo stesso ha messo le mani avanti e ha voluto accentuare i contorni di Soumahoro ricordando la foto con Papa Francesco: "Stiamo parlando di questo fenomeno, stiamo parlando di questo calibro qua". Poi ha respinto le accuse di aver creato il personaggio: "Noi non lo stiamo scaricando. Non vorrei sbagliarmi: lui su questo palco è salito due o tre volte: due sicuro, sulla terza ho già qualche dubbio. Da quello che leggo sembra che tutte le settimane stesse qua".

Soumahoro? "La vera storia della sua ascesa": chi inchioda Diego Bianchi. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano l’08 dicembre 2022

Questa è la storia della costruzione di un personaggio che pensava di spiccare il volo. Fino alla conquista della leadership della sinistra. «Aboubakar era molto calato nella parte e un po' di vanità l'ha coltivata. Diciamo che a un certo punto della sua vita da sindacalista è stato tentato da altre sirene...». Piero Santonastaso ha lavorato per Aboubakar Soumahoro per quasi quattro anni (tra il 2017 e il 2020) ai tempi dell'Unione sindacale di base (Usb). E nessuno meglio di lui può raccontare l'ascesa, e i prodromi della caduta, del deputato dell'Alleanza Verdi-Sinistra, travolto dalle disavventure che hanno colpito la sua famiglia, sotto accusa per la gestione di due Cooperative specializzate nell'accoglienza dei migranti.

COPERTINA E TV - Santonastaso ha affidato a professionereporter.eu la sua testimonianza sul caso del momento. Del resto chi meglio di lui, che ha passato tutto quel tempo con Soumahoro - «rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo, anche come autista» - può sapere cosa si cela dietro la maschera di Abou, che dall'inizio della bufera mediatica ha alternato lacrime a invettive?

Santonastaso, conversando con Libero, individua due tornanti decisivi. Il primo nel giugno 2018, quando esce la famosa copertina dell'Espresso- «Uomini e no»- che mette Soumahoro in contrapposizione a Matteo Salvini. Quello fu «il trampolino di lancio per la carriera politica» di Aboubakar. L'ivoriano già guidava le manifestazioni di protesta dei braccianti, ricorda il giornalista. «Sulle sue doti, innegabili, a livello di leadership e sulle lotte sindacali si è innestata un'operazione politica». I cui registi sono stati Diego Bianchi - alias "Zoro", conduttore di Propaganda live- e Marco Damilano, ex direttore dell'Espresso. «Tutti lo cercavano, tutti lo volevano. La regia, però, uscì pian piano dalla disponibilità di Usb e passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano», scrive Santonastaso. Propaganda live visita San Ferdinando, in Calabria, centro di azione di Abou. «Da quel momento si moltiplicarono le richieste di intervista dall'Italia e dall'estero».

Nulla pareva fermare l'ascesa di Soumahoro. «Abbiamo un leader per la sinistra», arriva a pensare il duo Zoro-Damilano. Perché ai temi tipicamente "progressisti", l'attuale deputato aggiunge carisma, presenza fisica, perfetto italiano da laureato e una certa predisposizione per la «forma. Indugiava in pomposità e ampollosità. Diciamo che era un Macron in sedicesimo», la butta là Santonastaso.

IL NUOVO SINDACATO - Il secondo snodo è l'improvviso addio all'Usb, nel luglio 2020. «Dall'oggi al domani, senza dire una parola. Non ci sono rimasto male solo io, ma tutto il sindacato, dove Soumahoro è sempre stato portato in palmo di mano». Aboubakar sceglie di correre da solo, fonda la Lega braccianti. Una rottura che Santonastaso definisce «immotivata (o motivata, questione di punti vista»). A ben guardare le avvisaglie della corsa solitaria c'erano già state con la celebre immagine di Soumahoro che si incatena a villa Phamphilij mentre sono in corso gli "Stati generali dell'economia" convocati dall'allora premier Giuseppe Conte. «Era prevista l'audizione di tutte le parti sociali, compresa l'Usb, ma lui decise di dissociarsi, chiedendo di essere ricevuto come "soggetto altro" rispetto alle sigle sindacali», ricorda l'ex collaboratore. Da quel momento inizia la cavalcata che lo porterà in Parlamento. L'inizio della fine, a guardare ciò che è successo dall'ingresso a Montecitorio con gli stivali lordati di fango. «Ha fatto errori a valanga, così come i suoi mentori che adesso se ne lavano le mani, ma non è oggetto di indagini giudiziarie», è la sentenza di Santonastaso. Già, gli errori: quale il principale? «Si è fatto prendere dal suo personaggio, si è sopravvalutato».

Il caso Soumahoro, ascesa e caduta della sinistra «televisiva» che rischia di trascurare i diseredati. Ieri i leader della sinistra ecologista Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, entrambi con un passato recente di impegno in Puglia tra Regione e consiglio comunale di Taranto, hanno provato a spiegare la loro «irresponsabilità» sulla vicenda nel salotto Rai di Lucia Annunziata. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Novembre 2022

Il caso Soumahoro? Una salita e discesa vorticosa tra «altare» e «polvere», come in un surreale verso del «5 maggio» in loop. L’inchiesta sulle presunte irregolarità a danno degli immigrati che sarebbero state commesse nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie del sindacalista eletto alla Camera da Verdi-Sinistra italiana, registra ogni giorno nuovi sviluppi. La disavventura familiare del politico italo-ivoriano, però, corre il rischio di travolgere in un colpo solo la sinistra solidarista pro migranti, il mondo generoso delle cooperative che si impegnano rispettando le regole per l’accoglienza e anche lo stesso Aboubakar, che alla tempesta mediatica ha risposto con battute di dubbio gusto, richiamando «il diritto alla moda e all’eleganza» per difendere la moglie tutta griffata nonostante i lavoratori delle sue strutture lamentassero drammatici ritardi negli stipendi.

Ieri i leader della sinistra ecologista Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, entrambi con un passato recente di impegno in Puglia tra Regione e consiglio comunale di Taranto, hanno provato a spiegare la loro «irresponsabilità» sulla vicenda nel salotto Rai di Lucia Annunziata. Il risultato, nonostante la non particolare incisività delle domande formulate dalla giornalista (evidenziata in una nota puntuta dal vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri), lo possono giudicare i lettori ripercorrendo con noi le risposte salienti dei due politici. Fratoianni in replica alla definizione di «raggiro» per definire il caso del sindacalista: «Non direi frode ma sicuramente un corto circuito, questo sì, tra chi interpreta una battaglia e comportamenti e scelte che gettano ombre. E questo pone un problema, che quelle lotte vengano messe in difficoltà. (…) Io non mi pento della scelta (di candidarlo, ndr). Spero che l'evoluzione della vicenda porti a una assoluzione e comunque mi occuperò di tutelare chi su questo fronte continua a lavorare».

Angelo Bonelli sui rilievi mediatici della vicenda: «Soumahoro non è coinvolto in nessuna inchiesta giudiziaria. Oggi, i giornali titolano “Il clan Soumahoro”. Lo trovo incredibile, perché si è garantisti con chi ha in corso procedimenti giudiziari, qui non c’è alcun procedimento». Poi aggiunge: «Noi siamo chiamati ad essere rigorosi, molto di più di altri. Non eravamo a conoscenza di queste questioni prima della campagna elettorale e non lo erano nemmeno tanti sindaci e prefetti, presidenti del Consiglio».

Soumahoro nel giro di pochi mesi è passato da icona delle lotte bracciantili, una sorta di «Giuseppe Di Vittorio di colore» ospitato da Fabio Fazio con crismi di santità, o «Un Obama di Cerignola» (Luigi Mascheroni dixit), a simbolo di tutto quello che non funziona nel sistema dell’accoglienza degli immigrati, con profili riportati dai giornali che superano anche gli argomenti propagandistici della destra sovranista. In un Paese dove l’Espresso - in una celebre e pessima copertina - aveva inscenato la dicotomia sull’accoglienza tra Soumahoro e Matteo Salvini con il titolo «Uomini e no», dove la negazione dell’umanità era l’allora vicepremier, questo caso è qualcosa di più del «cortocircuito» che evoca Fratoianni, e per questo politica e magistratura devono fare di tutto per chiarire i termini della vicenda in tempi brevi, al fine di non infangare chi opera nell’ambito delicatissimo dell’accoglienza e della difesa dei braccianti stranieri nella piena legalità.

L’autosospensione del parlamentare dal gruppo di Sinistra Italiana con l’ammissione di «aver commesso una leggerezza», si accompagna ai rilievi che emergono dalle testimonianze sulle inchieste. Chi ha lavorato per le coop ed è in attesa di soldi mai avuti è netto: «In realtà quello che pensiamo noi lavoratori è che siamo stati presi in giro - argomenta un impiegato che vuole restare anonimo -. Quando ho visto Aboubakar nei video e tutto quello che ha detto mi è venuto da ridere. Non può dire che non ha visto, non ha sentito e che non era parte della situazione».

L’ex parlamentare della sinistra Elena Fattori, inoltre, accusa Fratoianni di non essere intervenuto per stoppare la candidatura del leader della Lega Braccianti, nonostante gli avesse segnalato delle criticità emerse in un sopralluogo nelle coop di famiglia. E Fratoianni replica che la Fattori avrebbe dovuto, se in possesso di elementi, andare anche in Procura…

L’apertura dei partiti democratici alla società civile una volta si declinava con le candidature di alto profilo degli indipendenti di sinistra. È utile ricordare figure luminose come Lelio Basso, Stefano Rodotà, Mario Gozzini, Claudio Napoleoni, Ferruccio Parri o Carlo Levi. La crisi identitaria della sinistra ha trasformato gli indipendenti in «figurine», o peggio in meme come quelli che girano sui social di Soumahoro, con gli stivali da bracciante firmati Vuitton o con i piedi da hobbit. Se tutto questo è definibile un «cortocircuito», non va spiegato solo nei programmi tv di turno, ma anche nei luoghi storici della sinistra: nelle sezioni, davanti alle fabbriche e magari anche ai dimenticati che ogni giorno vivono nel ghetto dei diseredati di Borgo Mezzanone.

"I media, le lacrime, il moralismo. Così è nato il fenomeno Soumahoro". Fabio Torriero, docente di comunicazione politica alla Lumsa di Roma, considera Aboubakar Soumahoro una delle tante "fotografie ideologiche" che la sinistra ha già stracciato. Francesco Curridori il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Siamo nell’era del partito post-ideologico e informatico e tutte le candidature sono mediatiche come Aboubakar Soumahoro". Fabio Torriero, docente di comunicazione politica alla Lumsa di Roma, non ha alcun dubbio su questo tant'è vero che "la destra, oggi, viene accusata di essere il partito dei giornalisti, mentre la sinistra ha sempre avuto la peculiarità di ricorrere al papa straniero o alle fotografie ideologiche".

Può fare degli esempi?

"Aboubakar Soumahoro è figlio di questa fotografia. La sinistra, quando sceglie i candidati, fa la fotografia: la società civile, i cantanti, i filosofi, i professori universitari ecc… E di questi target prende gli esponenti che dal punto di vista mediatico sono stati più rilevanti. Non escludo che qualcuno sia anche competente però di solito la scelta va sempre verso la mediaticità. Per Soumahoro, ovviamente, non esiste un 'reato di cognome' però il cortocircuito di una realtà opaca riguardante le irregolarità sui migranti per cui la legalità che si pretende dalla destra non viene sempre rispettata dalle cooperative. Il “non poteva non sapere” vale per tutti, non solo per Berlusconi. Anche Ilaria Cucchi ha, in qualche modo, beneficiato degli effetti di una dolorosissima vicenda personale che lei, sia ben chiaro, non ha mai strumentalizzato. Certo è che è venuta alla ribalta per le sue dichiarazioni e l’hanno scelta come portatrice di una battaglia civile. Anche in questo caso, dunque, abbiamo un’altra fotografia ideologica della sinistra".

Cosa pensa del video di Soumahoro?

"Assolutamente negativo. È un giocare sul vittimismo che dovrebbe intenerire e ricalcare il messaggio per cui c’è sempre una vittima e un carnefice. Qui il carnefice è chi lo ha messo in mezzo in una sorta di tribunale d’inquisizione. È una sorta di sindrome di Caino che riguarda vari personaggi politici che fanno le vittime, ma poi in realtà uccidono proprio come fece Caino con Abele. Quel filmato ha confermato questo vittimismo, mentre quando ci sono vicende opache dovrebbe prevalere la sobrietà. Giocare sul vittimismo ideologico è stato un autogol".

Si riferisce anche all’intervista rilasciata a Formigli?

"Sì, ma d’altronde che altro poteva dire oltre a dire che non aveva vigilato? Cosa doveva dire? Forse che non si è mai accorto che non venivano pagati gli stipendi oppure che esiste un business dell’immigrazione? Ripeto, la vicenda giudiziaria è cosa ben diversa dal dato politico. Adesso i carnefici diventano i giornali che hanno trattato la vicenda, mentre chi è opaco diventa la vittima. Questo discorso, invece, vale per tutti e non solo per il governo di centrodestra. Anche quando i giornalisti chiedono alla Meloni “cosa le insegna questa vicenda?” è una specie di tribunale mediatico".

Questa vicenda rientra nella famigerata “superiorità morale” della sinistra?

"Certo, è la cosiddetta sindrome di Voltaire. La sinistra non ha ancora capito la lezione del 25 settembre, ossia che questo schema bene/male è perdente. Se continuano a rappresentarsi come i puri e i perfetti significa perseverare negli errori. È sbagliato ritenersi i professionisti dell’ambientalismo, dei migranti e dei diritti civili. Ci sono più idee e più ricette per ognuno di questi temi. Finché ci sarà questo schema ci sarà sempre un Soumahoro che dirà di difendere gli umili, quando in realtà nessuno può attestarsi questa patente".

Ma proprio Soumahoro veniva dipinto come nuovo leader del Pd o del centrosinistra. In questi giorni, invece, è stato scaricato in poco tempo. Lei cosa ne pensa?

"Perché quando si incarna il puro e il giusto e si danno lezioni etiche e morali alla destra, poi non si può negare che c’è sempre uno più puro di te che ti epura. Si obbliga tutti a seguire uno schema rigido che, alla fine, diventa un autogol come un cane che si morde la coda. In nome della purezza, infatti, Soumahoro viene sbattuto fuori. Un partito garantista avrebbe fatto un’altra comunicazione e un’altra scelta più garantista ed equilibrata".

Il Pd, invece, come opera?

"Anche le primarie del Pd risentono dello stesso casting perché se da un lato è vero che è il partito dei sindaci e degli enti locali però, anche in questo caso, Stefano Bonaccini ed Elly Schlein sono le personalità più mediatiche per cui il criterio supera il contenuto. La Schlein, soprattutto, è una bandierina che rappresenta la sinistra liberal che lotta per i diritti civili così come David Sassoli rappresentava il cattolicesimo democratico oppure cercano di difendere i migranti. Se, però, la fotografia ideologica sbiadisce viene strappata".

Ottavio Cappellani per “La Sicilia” il 27 novembre 2022.

“Esiste il diritto all’eleganza”, ha detto questo, Aboubakar Soumahoro rispondendo, durante la trasmissione “Piazzapulita”, a Corrado Formigli che gli chiedeva degli abiti griffati della moglie (che pare comprasse mentre i braccianti alle dipendenze della cooperativa gestita dalla stessa moglie e della suocera, non avevano diritto all’energia elettrica e all’acqua). 

Lo ha detto convinto, quasi indignato, a momenti gli faceva un cazziatone, al povero Formigli, che non era informato sul sacrosanto diritto all’eleganza, facendone persino una questione di colore della pelle. La risposta da dare a Soumahoro può essere una e una soltanto: “Sta minchia”. 

Perché può esistere un diritto alla libertà di vestirsi ognuno come gli pare, ed esiste senz’altro un diritto alla dignità (per questo rivolgersi ai braccianti gestiti dalla moglie e dalla suocera), ma di diritto all’eleganza non si parla in nessun codice. 

Che un parlamentare dica una cosa del genere, dai, fa ridere, soprattutto se a dirlo è un parlamentare che della “seriosità” ha fatto la sua cifra, anche nel ditino alzato e accusatorio, e al quale tutti riconoscono linguaggio forbito dove invece, adesso è chiaro, si tratta probabilmente soltanto di retorica strasentita e strasputtanata.

Perché, ove esistesse, il diritto all’eleganza obbligherebbe lo Stato a erogare contributi all’eleganza, magari anche agli sfruttati, che forse preferirebbero cibo, acqua, energia elettrica, e noi vedremmo queste file di sfruttati dal caporalato andare al lavoro ogni mattina in abiti griffati. 

Certo, pretendere che ogni parlamentare abbia una minima nozione di diritto sarebbe pretendere troppo, ma almeno qualcuno che non sia convinto che possa esistere il “diritto all’eleganza” sarebbe auspicabile. 

Peccato non ci sia un diritto al “vada affan...”.

Scontri nel ghetto: cosa c'è dietro le aggressioni degli uomini di Soumahoro. Come già denunciato da ilGiornale.it, nel ghetto di Torretta Antonacci gli uomini di Sumahoro si impongono con la forza. Ma a Latina Karibu e Anolf vanno a braccetto. Bianca Leonardi il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Era lo scorso agosto quando nel ghetto di Torretta Antonacci si insediva l’associazione Anolf, dopo aver vinto il bando regionale per la gestione della foresteria. L'associazione, che opera a livello nazionale, se a Foggia è stata presa di mira da con aggressioni da parte degli uomini della Lega Braccianti, sul fronte Latina si scopre sia stata a fianco per anni dell coop di famiglia di Soumahoro. L'arrivo di Anolf nel ghetto ad Aboubakar Soumahoro non è mai piaciuto, tanto che proprio il deputato pubblicamente manifestò, con tanto di megafono e braccianti piazzati come comparse dietro di lui, rivendicando il diritto della tanto osannata autogestione. E se sui social il "diritto alla libertà" e la "protezione della dignità dei braccianti" ha conquistato molte persone, in quella terra di nessuno le belle parole si sono trasformate fin dall’inizio in violenza.

Il presidente Anolf Puglia, Mohammed Elmajdi, che è anche segretario territoriale Cisl di Foggia, è stato il primo nel mirino degli uomini del deputato tanto da essere aggredito il primo giorno che si è presentato al ghetto, come abbiamo documentato. "Mi hanno fermato mentre andavo a ritirare le chiavi, erano gli uomini della Lega Braccianti e dell’Usb. Mi hanno intimato di andarmene e mi hanno battuto sulla macchina. Alcuni li ho riconosciuti e li ho denunciati", così raccontava a IlGiornale.it fornendoci anche la denuncia dove si leggono i nomi degli aggressori. Ad oggi Elmajdi non può entrare nel ghetto.

Una sorte simile è toccata al coordinatore Anolf che, solo qualche giorno fa - come ci ha riferito - , dopo la nostra visita a Torretta Antonacci è stato minacciato e aggredito. Una vera e propria lotta contro questa realtà che, abbiamo scoperto, sia collegata a Soumahoro più di quanto lui stesso voglia far credere a tutti. La stessa associazione, infatti, ha operato per anni a fianco proprio della Karibu, la coop di Latina che vede indagata la suocera di Soumahoro per truffa aggravata. È proprio il Comune di Latina nel dicembre 2018, quando Soumahoro era già insieme alla compagna Liliene, figlia di Mukamitsindo, a raccontare la collaborazione tra la coop di famiglia del deputato e l’associazione aggredita e presa di mira dagli uomini dell’ex sindacalista nella "sua" terra dei braccianti.

"Questa amministrazione ha sempre condiviso e incentivato la politica dell’accoglienza e dell’integrazione", spiega l’amministrazione di Latina durante il convegno Associazioni di migranti, nuove energie per il territorio. A partecipare, ed essere ringraziate, le due realtà - Anolf e Karibu - che vengono presentate come partner del nuovo progetto. La stessa Marie Thérèse Mukamitsindo, presidente della coop pontina, affermò: "Aver visto due associazioni formarsi con tanto entusiasmo e vederle muoversi sul territorio ci ha riempito di orgoglio".

Due pesi e due misure: nello scenario degradato di Foggia la Lega Braccianti, fomentata da Soumahoro, si scaglia - anche violentemente - proprio contro l’associazione che collabora con le coop della sua famiglia, a Latina lavorano insieme. Sembrerebbe quasi che quel finto alone patinato che la suocera del deputato ha dato per anni alle coop da lei gestite, rivelatosi poi film dell’orrore, fruttasse di più delle baracche del ghetto. Facile ruggire nelle terre di nessuno, ancora più facile far finta di non vedere di fronte alle istituzioni che aiutano.

"Per giorni senza cibo e riscaldamento". La denuncia sulla coop Karibu. I ragazzi ospiti nella comunità Karibu di Roccasecca si lamentano: "Oggi non abbiamo niente da mangiare". La scoperta di Non è l'arena: "Mancano cibo e acqua calda da almeno sei giorni". Luca Sablone il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il caso che ha travolto Aboubakar Soumahoro continua a trovare ampio spazio nel dibattito politico del nostro Paese. L'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda la domenica sera su La7, ha riservato grande attenzione alla vicenda relativa alla cooperativa Karibu in seguito a ciò che sta continuando a venire a galla. Tra stipendi non pagati e condizioni di quotidianità non proprio ideali, si delinea una situazione sempre più imbarazzante per la sinistra nostrana.

Silvio Schembri, inviato di Non è l'arena, si è recato a Latina per cercare di ottenere risposte sulla questione. In attesa di parlare con la signora Mukamitsindo ha notato un gruppo di ragazzi stranieri uscire dalla sede della Karibu notevolmente infastiditi, delusi e amareggiati per quanto avvenuto da poco. "Niente di buono", è stata la lamentela che un ragazzo ha palesato davanti alle telecamere della trasmissione.

Non è stato possibile instaurare una conversazione in lingua italiana a causa delle difficoltà riscontrate dai giovani, motivo per cui è stato deciso di utilizzare un traduttore vocale sul cellulare per poter dialogare. Così i ragazzi hanno spiegato il motivo della loro presenza in quel posto: "Oggi non abbiamo niente da mangiare". Uno di loro ha confermato di essere nella comunità della Karibu, precisamente a Roccasecca (provincia di Latina). La richiesta espressa è quella di avere cibo ogni giorno.

A quel punto l'inviato di Non è l'arena ha deciso di andare a verificare di prima persona la realtà dei fatti nella comunità di Roccasecca dei Volsci. Lo scenario che si è presentato di fronte alle telecamere è palese: frigo quasi vuoto, freezer completamente vuoto. "Ragazzi, ma fa freddo qua...", ha annotato il giornalista. Che poi ha fatto una scoperta di non poco conto: "In struttura mancherebbero cibo e acqua calda da almeno sei giorni".

"Aspetta, aspetta, aspetta", è la risposta che i ragazzi denunciano di ricevere quando vengono avanzate determinate richieste. I contorni della situazione si commentano da soli: un ventilatore acceso per asciugare i vestiti, riscaldamenti spenti, un coltello al posto della maniglia della porta.

Silvio Schembri è riuscito a intercettare Michel che però non ha fornito risposte ben precise al grido d'allarme dei ragazzi della comunità di Roccasecca. "Lo dicono i ragazzi che non hanno cibo...", si è limitato a dire. Allo stesso modo non è arrivata una precisazione da Mukamitsindo, entrata in macchina senza voler replicare.

Lady Soumahoro, gli scatti hot per cui non ha pagato il fotografo. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.

La moglie di Aboubakar Soumahoro avrebbe scattato delle foto hot una decina di anni fa. Scatti che sono spuntati in maniera casuale dagli archivi del fotografo Elio Carchidi: si trovano inserite nel portofolio tra le “fotografie glamour”. Sono in tutto undici scatti che ritraggono una donna che sembra essere proprio Liliane Murekatete. Intervistato da Mowmag.com, Carchidi ci ha tenuto a precisare che non è stato lui ad andare a rispolverare quelle foto, che si trovavano da anni sul suo sito. 

“Venderle? Non è il mio mestiere e non rientra nella mia etica professionale - ha dichiarato - speravo che rimanessero lì per gli amanti della fotografia e non a uso e consumo della cronaca”. Inoltre il fotografo ha svelato che il servizio è stato effettuato gratis, con Dagospia che ha subito ironizzato sul “vizietto” di lady Soumahoro di non pagare. “In questo caso non è costato nulla - ha spiegato Carchidi - perché si trovano accordi tra modella e fotografo e si spera di poter poi vendere a giornali e riviste queste foto. All’epoca non andò così e rimasero invendute”. 

Il fotografo si è detto anche piuttosto sicuro che si tratti di Liliane Murekatete nei sui scatti: “So che si chiama così, come avevo riportato sul nome del portfolio sul sito, e ho saputo di loro quando ne hanno parlato le cronache in questi giorni. Prima non sapevo chi fossero questi signori. Ho visto le loro foto sui giornali e mi è sembrata lei”.

Soumahoro, Liliane Murekatete "devastata": la mossa dopo le foto hot. Il Tempo il 06 dicembre 2022

Passa alle vie legali Liliane Murekatete, la compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, e non per l'inchiesta della Procura di Latina sulle coop gestite dalla madre. La donna, infatti, si dice "devastata psicologicamente" per la divulgazione del servizio fotografico piuttosto esplicito realizzato una decina di anni fa e spuntato sul sito del fotografo Elio Leonardo Carchidi, colui che ha scattato le immagini. 

La compagna di Soumahoro è "devastata psicologicamente" per la circolazione delle foto online e sulla stampa quotidiana, afferma il legale della donna, l'avvocato Lorenzo Borrè intervistato da Mowmag.com. "È stato come se le fosse esplosa una bomba atomica in casa. La signora è devastata psicologicamente. Si è superato ogni limite accettabile e ho ricevuto mandato, in parte già assolto, affinché i responsabili siano chiamati a risponderne nelle competenti sedi giudiziarie. Nessuna esclusa", dichiara il legale. 

Il primo a dare risalto alle immagini da molti definite "hot" è stato lunedì 5 dicembre il sito Dagospia. In seguito Mow aveva intervistato Carchidi che aveva precisato di non essere stato lui ad andare a rispolverare le foto, che si trovavano da anni sul suo sito. Borrè oggi fa sapere che non era a conoscenza che quelle foto fossero disponibili sul sito del fotografo fin dal 2012: "Assolutamente no. Né mi risulta che la signora abbia mai dato l’autorizzazione alla divulgazione. E poi a quali fini l’avrebbe data?! Non scherziamo, perché qui la vicenda è grave, gravissima", sottolinea l'avvocato.  Borrè inoltre sottolinea che i Soumahoro "sono sconcertati per quello che sta accadendo. Ma sanno che il tempo è galantuomo. Al momento sono incudine, ma ricordiamoci di cosa diceva Leonardo Sciascia sul rapporto incudine/martello", afferma l'avvocato.  

Sulla polemica lanciata da Selvaggia Lucarelli, sulla scelta di Borrè, che è stato anche difensore dell’ex Ss Priebke, come legale, l'avvocato commenta: "Fa parte del processo di mostrificazione". "Perché questo accanimento convergente, di destra e di sinistra, contro persone la cui responsabilità è tutta da dimostrare?", conclude. 

Lady Soumahoro, foto di nudo? Cosa c'è dietro davvero. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 07 dicembre 2022

È un risveglio da bollenti spiriti. Dagospia pubblica le foto hot della "Cooperadiva". La "Cooperadiva", ficcante calembour - gioco di parole giornalistico - è Liliane Murekatete, fino all'alba di ieri "Lady Gucci" per via delle foto con gli abiti griffati e del diritto all'eleganza rivendicato per lei dal marito Aboubakar Soumahoro, ma degli abiti costosi, adesso e almeno per un po', parleranno in pochi. D'altronde sono spariti. Dagospia spara come prima notizia alcuni scatti di un'avvenente signora senza veli e la somiglianza con la consorte del deputato scelto da Fratoianni e Bonelli è impressionante. «Un lettore birichino ci segnala:», scrive Dago, «"navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo"». «Quella bella signorina dai modi accoglienti», continua il sito, «sembrerebbe in effetti la compagna di Soumahoro. Sarà davvero lei o è una donna che le somiglia moltissimo?». È lei o non è lei? Ci informiamo.

A CACCIA DI FAMA

Certo che è lei. Le foto, che risalgono al 2012, lasciano poco all'immaginazione, e pubblichiamo solo quelle pubblicabili. Sono inserite, peraltro in primo piano, nella sezione "foto erotiche e di nudo" del sito Studio154 del fotografo Elio Carchidi, che nel suo ricco archivio fotografico vanta lavori di altro genere con molti volti noti dall'ex arbitro Pierluigi Collina, alla modella Claudia Koll, all'allenatore della Spagna Luis Enrique- e altri sconosciuti che però aspirano o aspiravano a diventare celebri. Tra questi Liliane Murekatete. «Ma allora è un vizio!», aggiunge Dagospia. «Per quel servizio il fotografo non ha ricevuto manco un euro (manco i lavoratori della cooperativa Karibu)». Il riferimento è a una delle due coop (l'altra è il Consorzio Aid) finite nel mirino della procura di Latina, gestite dalla mamma di Liliane - la suocera del deputato con gli stivali - indagata per frode aggravata, fatture false e malversazioni. La Murekatete è stata a lungo nel Cda di queste coop, accusate di non aver dato un euro per anni a decine di lavoratori.

L'ACCORDO

Quanto ha pagato per queste foto Lady Gucci? Parla il fotografo, Carchidi: «Niente. A volte ci si accorda tra modella e fotografo e si spera di vendere gli scatti a giornali o riviste. All'epoca però non ci siamo riusciti. È rimasto tutto invenduto. La signora non le ha pagate», ha sottolineato Carchidi, «ma si è occupata di altre cose, dell'ambientazione, del suo look».

Quindi non ha fatto lei la soffiata a Dagospia? «No, non è il mio mestiere. E poi mi sono accorto casualmente della cosa vedendo le foto che sono state pubblicate in questi giorni dai giornali. Le foto hanno 10 anni». Altra parentesi giudiziaria: dopo gli accertamenti delle forze dell'ordine, lo ricordiamo, la prefettura di Latina ha predisposto l'annullamento dell'affidamento dei centri di accoglienza straordinaria alle due coop.

Ieri Gianfranco Cartisano, segretario del sindacato Uiltucs che a Latina segue molti ex lavoratori di Karibu e Consorzio Aid, ha incontrato il prefetto, Maurizio Falco, il quale ha confermato che la prefettura è disposta a farsi da garante per i pagamenti legati agli affidamenti pubblici della Regione Lazio e dei Comuni di Latina e Roma. Il sindacato chiede anche la «ricollocazione dei lavoratori nelle società nuove affidatarie». Torniamo a Lady Soumahoro. A che scopo ha chiesto di fare le foto? «Ne faccio di ogni tipo», spiega il fotografo, «per profili istituzionali o pubblicitarie. Anche per profili Linkedin. Ci sono donne, uomini, modelle, attori e attrici che vogliono avere un archivio fotografico di un certo tipo». Foto senza veli. Nemmeno uno stivale.

Lady Soumahoro "devastata": esplode l'ira, chi porta in tribunale. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2022.

Non c'è pace per Liliane Murekatete. La moglie del deputato Aboubakar Soumahoro non deve solo fare i conti con la cooperativa indagata con l'accusa di mancati pagamenti e di pessime condizioni di lavoro in cui teneva i dipendenti. Ad oggi infatti la Murekatete è al centro della cronaca per le sue foto osé. Scatti che la ritraggono senza veli pubblicati in forma anonima e diffusi da Dagospia. Una mossa che avrebbe "devastato psicologicamente" la donna, tanto da spingerla a prendere seri provvedimenti.

Stando al Messaggero sarebbe già scattata la denuncia ai danni del fotografo Elio Leonardo Carchidi. "Come suo avvocato - commenta Lorenzo Borrè - segnalo continui appostamenti di troupe televisive davanti alla sua abitazione, furti di immagini del figlio di tre anni (attività vietata), immagini diffuse senza consenso". Per questo "reagiremo nelle competenti sedi giudiziarie". 

Eppure lo stesso Carchidi ha chiarito di non essere stato lui l'autore della soffiata. "No, non è il mio mestiere. E poi mi sono accorto casualmente della cosa vedendo le foto che sono state pubblicate in questi giorni dai giornali. Le foto hanno 10 anni". Per di più - come precisato dal fotografo - le immagini non sono mai state pagate. Dago, a scoop diffuso, ha scritto: "Un lettore birichino ci segnala: 'navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo'". Chi ci sia dunque dietro non è dato sapersi. Certo è che Liliane è pronta ad andare a fondo della questione

La donna "devastata psicologicamente". Liliane Murekatete denuncia per le foto di nudo diffuse sui media, “attacco senza precedenti” alla moglie di Soumahoro. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Dicembre 2022

Liliane Murekatete passa alle vie legali anche contro chi ha diffuso online le sue foto senza veli su media e quotidiani. Un’altra mossa che avrebbe “devastato psicologicamente” la donna finita al centro dell’attenzione mediatica per lo scandalo scoppiato intorno all’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa fondata da lei e sua madre, Marie Therese Mukamitsindo, indagata frode aggravata, fatture false e malversazioni. Caso che ha coinvolto anche il suo compagno, appena eletto alla Camera, il sindacalista impegnato a difesa dei diritti dei braccianti Aboubakar Soumahoro.

Prima del caso delle foto Murekatete aveva già annunciato querele per tutti quelli che l’avevano definita Lady Gucci. “Adesso basta, porto in tribunale chi mi ha diffamato”, aveva detto la donna ad AdnKronos accusando la stampa di un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti. “Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno“.

La donna aveva anche precisato di non ricoprire più alcun ruolo nella cooperativa. “La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica ‘griffata’ e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata“. La maggior parte delle foto, aveva precisato, risaliva agli anni 2014 e 2015, “quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno”.

Quel tornado mediatico che l’aveva travolta, e di cui la donna lamenta di essere vittima, ha tuttavia raggiunto il punto più grave nella diffusione online di alcune foto senza veli di Murekatete, scattate anni fa a quanto risulta da Il Messaggero da un fotografo che ora sarebbe stato denunciato. Quelle foto sono state riprese nei giorni scorsi anche da giornali e stampa. “Un lettore birichino ci segnala” scriveva Dagospia “navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo”.

Il fotografo, interpellato, ha fatto sapere di non essere stato lui a diffondere le foto, che sarebbero state secondo questa versione rispolverate casualmente. Striscia la notizia le aveva mandate in onda in un montaggio in cui sovrapponeva alle parti intime della donna volti di personaggi noti legati alla sinistra: come il giornalista Diego Bianchi, il giornalista Marco Damilano, Gad Lerner, i leader di Verdi e Sinistra Italiana Bonelli e Fratoianni.

L’avvocato di Murekatete ha definito l’attacco mediatico subito nelle ultime settimane dalla famiglia di Soumahoro come “senza precedenti” in Italia. “Come suo avvocato segnalo continui appostamenti di troupe televisive davanti alla sua abitazione, furti di immagini del figlio di tre anni (attività vietata), immagini diffuse senza consenso“, ha aggiunto il legale. “Reagiremo nelle competenti sedi giudiziarie”.

La donna è ” devastata psicologicamente” per la diffusione dei vecchi scatti ha aggiunto il legale a Mowmag. “È stato come se le fosse esplosa una bomba atomica in casa. Si è superato ogni limite accettabile e ho ricevuto mandato, in parte già assolto, affinché i responsabili siano chiamati a risponderne nelle competenti sedi giudiziarie. Nessuna esclusa”. Una replica all’attacco che da un’indagine, un caso politico, era arrivato al “diritto all’eleganza”, come definito in una grottesca difesa di Soumahoro a Piazza Pulita, fino al corpo di una donna diffuso sui media senza alcuna ragione.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Borse di lusso e corpo esibito: perché difendo Liliane Murekatete, lady Soumahoro. Concita De Gregorio il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

La moglie del deputato rosso-verde (che si è sospeso) è finita sotto inchiesta ed è stata irrisa perché colpevole di aver posato seminuda e di amare gli abiti di marca: ma perché Chiara Ferragni può farlo e lei no?

Questo è un articolo in difesa di Liliane Murekatete, direi in sintesi: ma prima di strillare la radical chic difende la nera, comunisti col Rolex, vergognatevi, vi pregherei di leggerlo. Sono domande rivolte a tutti — destra sinistra centro, gente che non si occupa di politica, intellettuali, semplici curiosi — e sarebbe interessante discuterne anziché insultare.

DAGONOTA il 12 dicembre 2022.

Concita nel suo articolo su Lady Soumahoro scambia lucciole per lanterne. Cosa che le riesce piuttosto bene. Si fa paladina di una  causa inesistente. Si arrabbia e rotea la sua spada ma lo fa contro i mulini a vento. Nessuno ce l’ha con Liliane Murekatete, compagna del deputato Soumahoro - che gestiva il ghetto dei migranti - perché ha posato senza veli. 

Nessuno ce l’ha per le foto della signora Liliane che avrebbero dovuto probabilmente essere riunite in un book per il mondo dello spettacolo. Nessuno ce l’ha con la signora Murekatete per il colore della sua pelle. Nessuno ce l’ha con chi si esibisce svestita e nemmeno con chi viene da paesi lontani.  

La cosa che turba e che disturba non è che la signora Liliane ami i vestiti firmati. Infatti la Murekatete non è indagata dalla procura di Latina; lo è la madre Marie Terese Mukamitsindo. 

Quello che disturba, anzi che ci fa orrore, è la coop di mammà, dove in passato Lady Gucci ha ricoperto incarichi societari. Coop dove – a insaputa dei Soumahoro - i più deboli, i più fragili, i più esposti, quelli che sbarcano dalle carrette del mare e che invece di venire accolti, coccolati, aiutati e amati vengono vilipesi, sfruttati, ospitati in case gelide e affamati. Che vengano fatti lavorare senza essere pagati. 

Concita elogia l’ipocrisia di chi si fa paladino degli ultimi per trattarci da gonzi e per utilizzare la nostra buona fede. Questo ci indigna, i milioni che sono svaniti nel nulla e la nudità delle donne o il colore della pelle niente hanno a che vedere con il nostro sdegno. 

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 12 dicembre 2022.

Questo è un articolo in difesa di Liliane Murekatete, direi in sintesi: ma prima di strillare la radical chic difende la nera, comunisti col Rolex, vergognatevi, vi pregherei di leggerlo.

Sono domande rivolte a tutti - destra sinistra centro, gente che non si occupa di politica, intellettuali, semplici curiosi - e sarebbe interessante discuterne anziché insultare. Non perdo le speranze. 

La prima domanda a cui non trovo risposta è in cosa divergano, a parte gli esiti, le aspirazioni di Liliane Murekatete (compagna del sindacalista Aboubakar Soumahoro, lui al centro di una bufera politica e reputazionale, lei esibita e irrisa in tv come colpevole di aver posato dieci anni fa seminuda e di amare, oggi, gli abiti di marca) e quelle di Chiara Ferragni, la più popolare influencer italiana al mondo, una trentina di milioni di follower su Instagram, imprenditrice di se stessa, prossima co-conduttrice del Festival di Sanremo e riferimento per milioni di giovani donne.

Ferragni, quest' estate al centro di una piccola polemica perché nelle foto aveva - cito - "le stelline sulle tettine", cioè si fotografava in mutande come è liberissima di fare, nella vita ha messo il suo corpo da Barbie al servizio della sua personale impresa. Ha esibito se stessa per avere popolarità, ha pubblicizzato abiti altrui fino a essere corteggiata dai grandi marchi e, quando è diventata abbastanza celebre, ha messo in commercio il suo. 

Un talento imprenditoriale celebrato dalle femministe come esempio di emancipazione.

Il metro del successo sono i soldi, naturalmente: è un criterio mercantile. La cercano Liliana Segre e gli Uffizi: una sua foto al museo della Shoah o davanti a un Botticelli vale oro. 

Dunque: un modello virtuoso. Non vedo perché una giovane donna arrivata in questo Paese dal Ruanda non debba prendere appunti e provare a imitarla. Chiedo. Se il gioco è questo, è così che si fa.

Anni fa, era il 2009, Lorella Zanardo curò un lavoro intitolato "Il corpo delle donne". Era un film che mostrava l'uso del corpo femminile in tv, in pubblicità, nei media. Dopo la rivoluzione degli anni Settanta una netta involuzione, sosteneva. Perché se nello stesso studio c'è un uomo in giacca e cravatta e una donna in mutande ma la temperatura è la stessa non è perché lei ha caldo, che sta nuda. Se sta accucciata sotto un tavolo di plexiglas non è perché sta comoda così.

Zanardo portò per anni il suo lavoro nelle scuole, nelle università. Ricordo che in un'aula magna, a fine proiezione, si alzò una studentessa per dire: mi scusi prof ma lei ha presente come funziona il mondo? L'abbiamo trovato così. Adesso ci dite che no, non dobbiamo usare il nostro corpo, è sbagliato: allora cosa ci resta? 

Poi certo ci sono le motivazioni. Puoi girare un film porno per militanza femminista, perché non hai come mantenere la famiglia, per allegria o per disperazione. Puoi esibire il seno e il sedere perché ti va, ti diverte la mattina mentre nel pomeriggio scrivi un saggio su Wittgenstein.

O puoi farlo perché non hai altro da vendere. Una volta Dacia Maraini mi disse che al tempo della sua gioventù dovevi "essere un po' carina e sembrare un po' cretina" per non spaventare nessuno e fare in pace quel che volevi. Lei, per dire, ha fatto Dacia Maraini. 

Ci sono giornaliste di cui conosciamo tutti le misure di reggiseno. Diletta Leotta e Giovanna Botteri fanno lo stesso mestiere, in ambiti diversi, sono entrambe amatissime - nei rispettivi rami d'impresa e da porzioni di pubblico con diverse attitudini. Però credo che Leotta guadagni di più. Che sia contesa in ragione del seguito e delle copertine che colleziona oltre che per le sue doti di cronista.

Chi ti ingaggia desidera a volte quello che sai fare bene solo tu, per esempio raccontare la guerra come Francesca Mannocchi, altre volte per i punti Auditel che il tuo seguito può portare in dote. Il seguito si ottiene più facilmente con una foto cosparsa di olio solare in piscina che con un'inchiesta sui Casamonica, su questo credo non ci siano dubbi. 

Se mostri il corpo generi consenso - o dissenso, che è una diversa forma di incremento della popolarità. Puoi persino, da quella posizione, fare campagne contro il bullismo, il revenge porn. Battaglie per le donne abusate. Essere testimonial nella lotta al cancro al seno, partendo dalla magnificenza del tuo.

Ho sentito due giorni fa Azar Nafisi, scrittrice iraniana, dire che per le ragazze di Teheran mettere il rossetto significa fare la rivoluzione. Certo, perché in Iran è proibito. Ma se vivi in un Paese dove il rossetto glitterato Ferragni te lo regalano a tredici anni per Natale che rivoluzione è. La minigonna fu eversiva quando Mary Quant dette un taglio ai gonnelloni alla caviglia, il burqa del senso occidentale del pudore.

Oggi la minigonna la indossa per andare a scuola la stessa tredicenne del rossetto. Torna sempre in auge, il tema, quando gli insegnanti invitano i genitori a far vestire i loro figli più sobriamente, in classe. Le madri insorgono in chat: censura. A proposito del concetto di libertà sull'asse Roma-Teheran. La cura del proprio corpo è un gesto di amor proprio, è un altro argomento: lo fai per te stessa.

Tuttavia non mi pare che di solito avvenga in condizioni di monachesimo: più spesso è per mostrarsi sui social di tre quarti, in quella speciale torsione in cui si vedono insieme il volto e il sedere, meglio se allo specchio. Tempo fa Elisabetta Canalis, bellissima ragazza che vive in America, fu oggetto di una polemica politica perché - di nuovo per Sanremo - un ente pubblico l'aveva chiamata pagandola assai perché sponsorizzasse la Liguria.

Ho tantissimo rispetto per il lavoro di Elisabetta Canalis, la seguo su Instagram: le ultime foto la trovano accucciata in microshort sul piano del suo lavello di cucina. Vedo il lavoro immane che fa. Bisogna correre fin dall'alba non so quante ore, boxare, bere beveroni verdi, nutrirsi di germogli di soia. Una vita di sacrifici. Lo scopo dei quali mi sembra generare reddito e intanto mostrare alle ragazze come diventare come lei. Per tornare a Maraini: "Fare quello che vuoi" in questo caso finisce qui.

Ho sentito che un regista importante sta girando un film sulla vita di Elisabetta Gregoraci, madre del figlio di Briatore. Di cosa abbia messo al servizio la sua bellezza, le domanderà di certo. Non vedo l'ora. Quindi, tornando a Liliane Murekatete. In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese. Perché è nera? Impossibile: escludiamo il razzismo.

Perché ha scelto per difendersi l'avvocato di Priebke? Ma gli avvocati migliori sono quelli che fanno assolvere gli imputati peggiori. Allora è perché qualcuno ha detto di averla sentita dire di essere la nipote del premier del Ruanda? 

È una voce di terza mano. Invece che Ruby (Karima El Mahroug) fosse la nipote di Mubarak l'ho sentito dal premier allora in carica e ho visto il Parlamento italiano, nella sua maggioranza, annuire e votare la ridicola menzogna. Ma forse è perché la madre è sotto accusa per aver commesso illeciti, reati.

Però se le malversazioni dei padri ricadessero sui figli sarebbe al collasso il sistema economico del Paese. Direte: ma lei era nel consiglio di amministrazione di quella coop. Sì, eppure non tirerei in ballo i figli delle famiglie imprenditoriali regnanti a cui sono intestate casseforti o fondazioni, che di parenti prestanome è lastricata l'italica impresa. 

Ultima ipotesi. Sarà perché è la compagna di un sindacalista e non di un miliardario? Sarà un'accusa di incoerenza (lui difende i poveri e tu ti vesti da ricca) per interposta persona?

Non entrerò nel caso Soumahoro, la giustizia dirà. Parlo di lei, persona distinta. Segnalo che la responsabilità penale è personale, l'identità inviolabile. Non puoi essere colpevole di essere la moglie di, figlia, amante, la cugina di. Donne-appendice: questa sì una grande battaglia degna del femminismo di ogni epoca. 

Il fatto è che le battaglie vinte, quelle al servizio di chi è molto popolare, sono facili da combattere: sono vinte anche se le perdi, riverberi nell'eco mediatica e nella luce di chi ne ha già molta di suo. Più difficile è mettersi dalla parte del buio. Combattere le battaglie perse. Che sono però le sole che avrebbero bisogno di voci autorevoli, argomenti cristallini e post sui propri social da milioni di follower. Costano, effettivamente: non rendono.

Estratto dell'articolo di Michele Serra per “la Repubblica” il 14 dicembre 2022.

C’è una inchiesta giudiziaria - di evidente interesse pubblico, e con forti ricadute politiche - su malversazioni, negligenze fiscali e forse maltrattamenti nella gestione di una cooperativa di accoglienza gestita dalla compagna del deputato di Sinistra italiana Soumahoro e, soprattutto, dalla madre di lei. E questa è una cosa. Poi c’è un enorme clamore mediatico attorno alle due protagoniste dirette della vicenda e al protagonista indiretto, il deputato Soumahoro. E questa è tutt’altra cosa.

Diciamo che in attesa dei risultati dell’inchiesta, che definiranno le accuse di reato mosse a madre, figlia ed eventuali terzi, i media di ogni ordine e grado, con diversi accenti, si sono molto spesi nel racconto dei tre personaggi, specie la donna più giovane, Liliane Murekatete, che le cronache hanno ribattezzato “lady Soumahoro” forse per riecheggiare beffardamente una figura del secolo scorso, quella lady Poggiolini resa celebre da un pouf imbottito di banconote. È esattamente di questo secondo aspetto – quello mediatico – che si è occupata, l’altro giorno su questo giornale, Concita De Gregorio. Non del primo. [...] 

Ma la domanda che si (e ci) faceva Concita era tutt’altra. Era come mai l’esibizione di accessori lussuosi e la disinvoltura di immagine della giovane signora ruandese le fossero rinfacciati con tanto accanimento, nonostante il loro evidente conformismo, la loro “normalità”: sono gli stessi strumenti, gli stessi orpelli che fanno furore sui social, che valgono milioni di like, che portano popolarità, successo, denaro. [...]

Lo scandalo – ha replicato sempre su questo giornale Francesco Bei – dipende dallo scarto stridente tra il ruolo di Murekatete, che almeno in teoria avrebbe dovuto occuparsi di assistere gli ultimi, e il suo sfoggio di eleganza, più consono a una influencer che a una operatrice sociale. Vero, lo scarto c’è, e infastidisce. 

Ma a parte che, lungo quella china, si rischia poi di considerare “inappropriato” anche lo shopping natalizio di Bersani (non è “di sinistra” regalare un foulard griffato alla moglie, regalino libri, ‘sti comunisti, possibilmente usati), la riflessione di Concita riguardava un altro tipo di scarto, ancora più stridente. [...]

Se la sobrietà è l’antidoto, e lo è, allora andrebbe richiesta a tutti, in specie ai più ricchi, ai più potenti e ai più famosi, che non avrebbero necessità alcuna di sgomitare e di dare scandalo per farsi notare, eppure lo fanno (vedi Elon Musk), come se il successo e i miliardi non fossero un clamoroso sollievo, ma una malattia feroce. 

Se la morale è una necessità, e lo è, sforziamoci di capire che il moralismo è il suo contrario, è un’accensione intermittente e ondivaga, molto spesso iniqua nello scegliere i suoi bersagli. Quando lo sbocco moralista si esaurisce, si torna, difatti, all’immoralità di tutti i giorni, esattamente come è accaduto dopo Tangentopoli. Anche per questo sono d’accordo con Concita.

La signora Murekatete dovrà rispondere, se chiamata in giudizio, di come ha amministrato, o aiutato ad amministrare, una cooperativa molto chiacchierata, in grave debito con i suoi assistiti. Non di come si veste, e nemmeno di come si mostra sui social, a meno di voler stabilire che una immigrata ruandese, per non infastidire noi indigeni, deve conservare quella modestia di comportamento che, dalle nostre parti, regge al massimo fino alla seconda media. 

Il direttore del quotidiano che ha importunato Bersani per l’acquisto di un foulard si è autodefinito (e ha fatto bene) “moralista cretino”, scusandosi. Di quale dosaggio di moralismo cretino ognuno di noi sia portatore, è comunque una buona domanda da farsi, specie se scriviamo sui giornali. L’articolo di Concita De Gregorio aiutava a farsela.

Lady Soumahoro, la telenovela continua. Serra difende De Gregorio. Il Tempo il 14 dicembre 2022

È diventato una telenovela il dibattito, tutto interno a Repubblica, sulla compagna di Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete, e sulle note foto sexy e con abiti e borse di lusso spuntate dopo l'esplosione del caso delle coop gestite dalla madre, finite sotto inchiesta a Latina. Il tutto è stato scatenato dalla difesa abbastanza surreale fatta da Concita De Gregorio che aveva equiparato Murekatete a Chiara Ferragni, alla quale nessuno imputa le foto griffate e finanche i servizi fotografici con pochi vestiti addosso. 

Il giorno successivo un articolo di Francesco Bei replicava con argomentazioni opposte: la compagna del deputato di Verdi e Sinistra Italia è "indifendibile" per vari motivi, il primo perché Murekatete "di mestiere non fa l'influencer, ma dovrebbe gestire una cooperativa che aiuta gli ultimi tra gli ultimi, quelli arrivati in Italia senza nemmeno un paio di scarpe".

Oggi mercoledì 14 dicembre arriva il terzo capitolo della saga, a firma di Michele Serra che corre in soccorso della conduttrice di In Onda. Da una parte, come ovvio, c'è l'inchiesta giudiziaria. Dall'altra "un enorme clamore mediatico attorno alle due protagoniste dirette della vicenda e al protagonista indiretto, il deputato Soumahoro. E questa è tutt’altra cosa", premette Serra.

"La domanda che si (e ci) faceva Concita era tutt’altra. Era come mai l’esibizione di accessori lussuosi e la disinvoltura di immagine della giovane signora ruandese le fossero rinfacciati con tanto accanimento, nonostante il loro evidente conformismo, la loro 'normalità': sono gli stessi strumenti, gli stessi orpelli che fanno furore sui social, che valgono milioni di like, che portano popolarità, successo, denaro" argomenta il giornalista che critica le posizioni di Bei. "Lungo quella china, si rischia poi di considerare “inappropriato” anche lo shopping natalizio di Bersani (non è 'di sinistra' regalare un foulard griffato alla moglie, regalino libri, ‘sti comunisti, possibilmente usati), la riflessione di Concita riguardava un altro tipo di scarto, ancora più stridente". 

Insomma, il moralismo è il contrario della morale, "è un’accensione intermittente e ondivaga, molto spesso iniqua nello scegliere i suoi bersagli. Quando lo sbocco moralista si esaurisce, si torna, difatti, all’immoralità di tutti i giorni, esattamente come è accaduto dopo Tangentopoli. Anche per questo sono d’accordo con Concita". Stringendo, Murekatete "dovrà rispondere, se chiamata in giudizio, di come ha amministrato, o aiutato ad amministrare, una cooperativa molto chiacchierata, in grave debito con i suoi assistiti. Non di come si veste, e nemmeno di come si mostra sui social, a meno di voler stabilire che una immigrata ruandese, per non infastidire noi indigeni, deve conservare quella modestia di comportamento che, dalle nostre parti, regge al massimo fino alla seconda media". È la parola fine o la telenovela continua?

Chiara Valerio per “la Repubblica” il 15 Dicembre 2022.

(…)  Corpo e oggetti devono essere trattati separatamente perché è ancora facilissimo assimilare i corpi delle donne agli oggetti. Il discorso sul corpo di Liliane Murekatete non dovrebbe esistere. Né per chi la accusa né per chi la difende e non sarà argomento di queste righe perché col proprio corpo e del proprio corpo ognuno fa ciò che vuole fino a che questa libertà non limita fisicamente la libertà degli altri. Il discorso sulla rappresentazione scelta da Murekatete è invece l'occasione che ci consente di dire quanto Liliane Murekatete siamo noi. E siamo noi perché l'immagine di una democrazia la stabiliamo tutti insieme.

Che la proprietà privata non sia mera sussistenza ma identifichi una classe sociale e che la ricchezza non sia solo una faccenda di accumulazione (come per Paperone) ma pure di ostentazione (come Gatsby) lo ha scritto Thorstein Veblen ne La teoria della classe agiata (1899, Einaudi, a cura di F.L. Viano), testo nel quale si legge che il valore estetico ed economico di un oggetto non sono distanti. Vale per Liliane Murekatete ciò che vale per i videogiochi, le raccolte punti e Bel-Ami, protagonista dell'omonimo romanzo di Maupassant: si arriva da un mondo a un altro e, per essere accettati nel nuovo, ci si innamora, si briga, si tradisce e ci si ravvede, ma soprattutto ci si circonda di certi oggetti.

Desumiamo così dalla rappresentazione che Liliane Murekatete ha dato di sé stessa il mondo al quale ha scelto di appartenere, e osserviamo che questo mondo rappresentato, pur antipodale al mondo nel quale lavora, è una aspirazione.

Un passo indietro, alla prima premessa, al tempo e alla Storia e alla politica degli oggetti. In Giovanni Leone. La carriera di un presidente (Feltrinelli, 1978), Camilla Cederna non sanziona le preziosissime sete di San Leucio che tappezzano i divani di Donna Vittoria ma il cellophane che le ricopre. Tra il 1976 e il 1986, la sinistra critica Lucio Magri per la sua storia con Marta Marzotto, ma le ville della contessa non inficiano né il marxismo né la credibilità politica di Lucio Magri. Si possono fare molti altri esempi, ovviamente.

Gli oggetti venivano notati e pur misurando economicamente un essere umano non lo misuravano politicamente. 

Scrivo da signora di mezza età cresciuta in un ambiente comunista e cattolico e da lettrice del Cardinale de Retz che, Simone Weil descrive così (S. Weil, A. Weil, L'arte della matematica, Adelphi, 2018, trad. M. C. Sala): «...un galantuomo e un animo nobile, benchè questo sia in parte occultato sotto il cumulo di intrighi abilmente orditi.

Oggi può dare l'impressione di un traditore, perché in quell'epoca felice non esistevano partiti, e la fedeltà a un'idea astratta, anche religiosa, sarebbe parsa il colmo della stupidità. Si era fedeli a esseri umani viventi a cui si era vincolati da legami di amicizia, da impegni, dal dovere di protezione o di obbedienza, oppure dalla stima. In questo senso, la preoccupazione per la fedeltà e per l'onore domina tutti gli intrighi... E così pure la preoccupazione per il bene pubblico».

Retz, è buono o cattivo?, la fedeltà agli intrighi è giusta o sbagliata? E quella a una idea astratta come accogliere gli esseri umani? Così, mentre ribadisco che il metodo di smantellamento personale e politico è peggiore di qualsiasi cosa Liliane Murekatete abbia commesso (niente ad oggi, non c'è sentenza, solo indagini), e sottolineo ciò che non dovrebbe essere sottolineato e cioè che il governo del nostro corpo è solo nostro, penso che la rappresentazione di sé scelta da Liliane Murekatete è la misura di quanto il capitalismo abbia vinto su qualsiasi ideologia, contenuto, partito politico e pratica. Che considerare il contesto nel quale si lavora e si vive è una tensione e una pratica di tipo etico. Considerare il contesto sottolinea quanto in una comunità la coerenza sia un obiettivo.

"La gauche nasce per decapitare i re non per difendere le borse firmate". L'intellettuale progressista: "I radical chic si arrampicano sugli specchi per difendere la moglie di Soumahoro. Un'offesa per tutti". Luigi Mascheroni il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Fulvio Abbate, intellettuale libertario, scrittore e marchese, è un esperto della Sinistra incapace di mettere se stessa in discussione, convinta di potere decidere torti e ragioni, sempre buona e giusta e che poi però vive di distinguo, giustificazioni e ipocrisie: con Bobo Craxi ci ha scritto un libro, uscito pochi mesi fa: «Gauche caviar» (Baldini+Castoldi).

Abbate, mi sembra che quella Sinistra nel caso Soumahoro ci sguazzi

«Quello che sta succedendo getta persino discredito sulla vera gauche caviar, che io mi picco di rappresentare. Questa cosa è un'offesa per gli stessi radical chic. Qui siamo oltre. Queste persone hanno dimenticato che la Sinistra viene al mondo con la Rivoluzione francese per tagliare la testa ai re, non per difendere la custodia firmata Louis Vuitton del cellulare di Liliane Murekatete, la moglie del deputato eletto con l'alleanza Verdi-Sinistra».

Va bene difendere i monopattini elettrici e le piste ciclabili, ma i trolley griffati è un po' troppo anche per i radical chic

«Appunto».

Per difendere l'indifendibile, cioè il diritto al lusso di Liliane Murekatete, e anche quello di mostrare il proprio corpo nudo su carta patinata, il quotidiano la Repubblica ha messo in campo le sue firme migliori: Concita De Gregorio, Michele Serra, ieri Chiara Valerio

«Premetto: io credo che anche le classi subalterne abbiano diritto al lusso, e che la Sinistra debba produrre gioia: rosa e pane. Ma Concita De Gregorio, in nome di un malinteso senso del femminismo, per difendere Liliane Murekatete, che da oggi risulta anche indagata, si è arrampicata sugli specchi. È una difesa impraticabile perché il lusso quel lusso - stride con i migranti accolti dalle cooperative dei Soumahoro, gente mai pagata e messa a vivere in luoghi così è stato detto da una voce interna alla stessa Sinistra che non meritano neanche i cani. E quando il giorno dopo la De Gregorio è stata smentita dallo stesso vicedirettore di Repubblica con un articolo di buon senso comune, ecco scendere in campo i Michele Serra non a caso proprietario con la moglie del brand di profumi Serra&Fonseca, che mette in commercio Eau de moi e le Chiara Valerio. La quale, con un articolo del tutto improbabile, per difendere il corpo della donna e Liliane Murekatete, cita persino Simon Weil! Che era operaia alla Renault, che combattè con gli anarchici in Spagna nel '36, che negava il proprio corpo e che si riteneva filosofo, al maschile E non aggiungo altro. Nessuno vieta a Liliane Murekatete di mostrarsi nuda, anzi. Però, anche nuda o in lingerie, deve andare in tv e parlare. Deve dire: Questa è la mia verità. Non chiudersi nel silenzio, protetta dalla difesa acefala e amichettista delle anime belle della Sinistra...».

Lei, che sta a sinistra della Sinistra, non ha mai smesso di bacchettare i compagni del Pd e dintorni. Cosa sta succedendo nel Partito di riferimento dell'area politica che una volta inneggiava alla questione morale?

«Accade semplicemente che il Partito democratico ormai è qualcosa d'altro rispetto alla Sinistra. È una agenzia di affari individuali che non ha neppure più una impostazione di sinistra. È diventato un oggetto che serve alle ambizioni e ai narcisismi personali, come si vede anche nella vicenda scandalosa di Bruxelles. E di fronte a un possibile leader come Elly Schlein è da ingenui credere che con una simile idea di partito si possano riconquistare le periferie e gli operai».

Un limite che si rinfaccia alla Sinistra è quello di essersi chiusa dentro le famigerate Ztl e i DdlZan, battendosi per i diritti civili d'ultimissima generazione, ma dimenticando i diritti sociali. L'altro limite è quello che Lei definisce amichettismo, una sorta di lobby politico-culturale fatta da buoni che sono però più buoni e più uguali degli altri.

«I diritti civili devono marciare accanto ai diritti sociali. Non ci può essere una cosa senza l'altra. Io devo potermi svegliare una mattina felicemente omossessuale tra gli appalusi del mio vicinato, però devo farlo avendo una casa, un lavoro, scuole e ospedale e ospizi che funzionano... Altrimenti il partito di Sinistra somiglierebbe troppo a un partito radicale. E poi dentro il Pd, a discredito delle idee egalitarie, ha finito per trionfare l'amichettismo, una attitudine di mutua assistenza che ha in Walter Veltroni il suo protagonista massimo e che corrisponde al controllo di una serie di istituzioni culturali, giornalistiche, mediatiche i cui protagonisti sono quelli che vediamo all'opera nel caso Soumahoro...».

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2022.

Realtà, stammi lontana (non sia mai si scoprissero le ipocrisie della sinistra). I tempi sono duri (è meglio fantasticare). Signori e signore, colti e ignoranti, curiosi e menefreghisti, la notizia oggi è che il diritto alla scemenza surclassa quello all'eleganza (l'argomentone delle scorse settimane). 

Suo sponsor è Concita De Gregorio, che ne approfitta per deliziarci con ben due paginone su Repubblica, l'equivalente di quelle che lo stesso quotidiano dedica al Qatargate. In un processo penale invocheremmo fior di attenuanti di tipo sanitario, ma di questo pane si ciba certo giornalismo. Donna Concita voleva difendere lady Soumahoro. In verità l'ha finita.

Distrutta. Denudata moralmente più di quanto abbia fatto dieci anni fa un fotografo.

Dicevano che il problema di Palermo è il traffico. Johnny Stecchino oggi potrebbe interpretare gli articoli di Concita De Gregorio. Balle in quantità industriale. I social si sbellicano dalle risate, le persone serie strabuzzano gli occhi. E si chiedono dove si voglia arrivare scrivendo fiabe sul lupo cattivo che nessuno si azzarderebbe mai ad accarezzare sul muso.

Paragonare Liliana Murekatete, la compagna di Aboubakar Soumahoro, a Chiara Ferragni è un esercizio di fantasia a cui non avremmo mai potuto pensare. Al massimo un sogno notturno del deputato preferito dalla cooperativa Karibu. Ma il confronto non regge, e non per questioni fisiche o di portamento.

Non credi a ciò che leggi quando scorri questa frase: «In cosa divergono, a parte gli esiti, le aspirazioni di Liliane Murekatete», «esibita e irrisa in tv come colpevole di aver posato dieci anni fa seminuda e di amare, oggi, gli abiti di marca», e «quelle di Chiara Ferragni»?

Mica è finita. 

Così prosegue la De Gregorio: «In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese Chiara Ferragni.Perché è nera?».

 Sì, l'esame conferma che siamo in pieno e conclamato diritto alla scemenza. Progressisti di tutto il mondo, unitevi. Signora De Gregorio, che resta una penna brillante e la sciupa così, ma lei lo sa che Chiara Ferragni le tasse le paga e quel mondo che ruota attorno alle cooperative per «aiutare» i migranti e a cui Liliane non era estranea, deve rispondere persino di contributi non pagati? 

Cara Concita, lei è informata delle condizioni in cui erano ridotti i dipendenti della Karibù rispetto a quelle in cui operano i dipendenti della moglie di Fedez? Ad esempio, chissà se è una balla che lì gli stipendi non li pagavano e qui invece sì... 

Per caso alla Ferragni sono piovuti dal cielo 60 milioni di euro di fondi pubblici senza gare, senza rendiconti, senza nulla, mentre i soldi suoi l'influencer che lei usa come paragone della Murekatete ha speso persino soldi privati ricavati dalle donazioni per realizzare una terapia intensiva e molto altro ancora utile alla sanità? 

E tutto quel che è accaduto in casa Soumahoro - non i presunti reati, che sono compito del magistrato accertare, ma proprio i comportamenti - si spacciava per opere caritatevoli servite a portare in Parlamento il celebre deputato autosospeso? Pubblicità ingannevole, potrebbero chiamarla alcuni.

Lady Concita fa di più, elenca una serie di donne - tutte belle - che hanno fatto successo anche per il loro fascino. Ha dimenticato una delle più avvenenti, la parlamentare greca che sembrava aver qualche tasso di familiarità con il compagno Panzeri. Ovviamente non ne parliamo... Occultamento di vergogna. Liliane Murekatete uguale a Chiara Ferragni. E Soumahoro uguale a chi, se è possibile domandarlo? Oppure lui non c'era? E se c'era dormiva? Sa che cosa si rimprovera a quel clan, ma la De Gregorio non se lo ricorda?

 Lo scrive Nicola Porro: «Il mancato pagamento del fisco, degli operai, dei propri dipendenti, dell'Inps, dell'Irpef, dell'Ires ecc. Alla faccia della sinistra che ce la mena un giorno sì e un altro pure con l'evasione!». E non c'è neppure bisogno della grande firma per esprimere sconcerto per un delirio inaspettato. Basta scorrere twitter: «Spiace, ma io non attacco la compagna di Sumahoro per aver posato nuda o avere bei vestiti. Io la critico per aver fatto scempio dei miei soldi, invece di darli a quei poveretti che lei, la madre ed il marito avevano giurato di difendere e di proteggere». Lo ha scritto una persona normale. Molto più normale di Concita De Gregorio. Due pagine che potevano essere spese meglio.

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 13 dicembre 2022.

C'è una grande confusione sotto l'altra metà del cielo. E più che quella delle donne, intendiamo quella delle professioniste del femminismo. Sono successe troppe cose, tutte insieme e in poco tempo. Troppe cose complicate da decodificare, digerire e poi spiegare a se stessi e agli altri, siano lettori o elettori. 

Per amor di sintesi elenchiamo i tre eventi principali di questa crisi: la vittoria del centrodestra e quindi l'ascesa di Giorgia Meloni a palazzo Chigi; lo scandalo che ha coinvolto l'onorevole Aboubakar Soumahoro e la moglie Liliane Murekatete, trascinando con loro tutto il mondo dell'accoglienza e del suo apparato ideologico; il Qatar-gate con il coinvolgimento, tra gli altri, della vice presidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili. Tre colpi che hanno fatto tremare anche le più solide certezze della sinistra più convinta della propria superiorità morale e, appunto, di genere.

Ieri, su Repubblica, si è esibita Concita De Gregorio, firma di punta della galassia politica che fonde il progressismo più chic con la difesa più radicale dei diritti delle donne. L'ex direttrice dell'Unità non si nasconde dietro una borsa di Louis Vuitton e, con coerenza, ammette subito la sua missione: difendere Liliane Murekatete. Tentativo più che legittimo, a patto di non sconquassare tutto il sistema di valori con il quale la sinistra per anni ci ha sconquassato le scatole. 

Cosa che puntualmente avviene. I due pilastri del pensiero della De Gregorio sono le basi della nuova sinistra dei diritti: cioè il diritto al lusso e il diritto all'esibizione del proprio corpo. Il primo teorizzato - con invidiabile coraggio - in diretta televisiva dall'onorevole Soumahoro e il secondo addebitato dalla giornalista a Chiara Ferragni. E potremmo anche fermarci già qui: perché se parlando di diritti siamo passati da Rousseau e Locke ai due sopraccitati, beh, qualche problema c'è, ci è sfuggita almeno una via di mezzo.

E ora, la De Gregorio, per difendere la passione di lady Soumahoro per borse griffate e foto sexy, la paragona proprio alla Ferragni, perché anche lei pubblica foto su Instagram con marchi di lusso e mutande bene in vista. Da queste colonne siamo sempre stati piuttosto severi con la regina delle influencer, ma cosa c'entra con Liliane Murekatete? 

Al netto di un certo insipido buonismo e uno spiccato qualunquismo vagamente di sinistra, la Ferragni non si è mai occupata di accoglienza e ha fatto i suoi (tanti) soldi nel nome del più spudorato capitalismo, senza nascondersi dietro il paravento dell'umanitarismo e soprattutto senza finire in torbide inchieste su milioni dispensati dallo Stato. 

Ma è diventata l'ultimo scudo dietro al quale i dem tentano di occultare le loro magagne. Un vizio antico, quello del doppiopesismo rosso. Sinistra al caviale, sinistra da ztl e comunisti col Rolex - per citare solo i più diffusi non sono solo modi di dire e luoghi comuni. O meglio, nel tempo lo sono diventati, ma si basano su solide realtà fattuali.

Per capire geograficamente dove vince la sinistra ormai non serve più consultare gli esperti di flussi elettorali, basta aprire immobiliare.it e cercare dove costano di più le case al metro quadrato. Il Pd, e i suoi cespugli sinistri, sono animali che abitano la fauna dei centri storici. Si sbracciano, dai loro salotti, per il proletariato, ma hanno l'orrore per le periferie proletarie, veleggiano su comode barche a vela - come il famoso Ikarus di D'Alema lontano dai marosi del populismo e soprattutto del popolo.

D'altronde l'ultimo comunista di successo di cui si abbia memoria è Fausto Bertinotti, uno che somigliava molto di più a un lord inglese che a un operaio di Mirafiori. E anche Olivia Palladino, compagna di Giuseppe Conte, neo avvocato degli ultimi, è già finita nel mirino del web per aver sfoggiato borse firmatissime: perfetta per essere la first lady della gauche. 

Tra la sinistra e il lusso c'è sempre stato un grande feeling. E non ci sarebbe nulla di male, se non predicassero pauperismo per poi vivere come nababbi, se non detestassero il capitalismo salvo poi esserne ingranaggi oliatissimi, se non predicassero inclusività facendo parte di una delle caste più esclusive. Il problema è solo uno: l'ipocrisia. Ultimo vero comune denominatore rimasto alla sinistra.

L’indifendibile Liliane Murekatete. Il suo lusso esibito uno schiaffo ai poveri. Francesco Bei su La Repubblica il 13 Dicembre 2022.

Intanto onore a Concita De Gregorio. Poteva starsene zitta, poteva evitare di esporsi alla sputacchiera dei social difendendo Liliane Murekatete, da noi giornalisti appellata con il discutibile (molto discutibile, chiediamo venia) titolo di "lady Soumahoro". Onore a Concita perché, come dice lei nell'articolo che abbiamo pubblicato ieri, è difficile "mettersi dalla parte del buio", combattere battaglie perse in partenza che "costano e non rendono".

Francesco Bei per “la Repubblica” il 13 dicembre 2022.

Intanto onore a Concita De Gregorio. Poteva starsene zitta, poteva evitare di esporsi alla sputacchiera dei social difendendo Liliane Murekatete, da noi giornalisti appellata con il discutibile (molto discutibile, chiediamo venia) titolo di "lady Soumahoro". 

Onore a Concita perché, come dice lei nell'articolo che abbiamo pubblicato ieri, è difficile «mettersi dalla parte del buio», combattere battaglie perse in partenza che «costano e non rendono». Lo dimostra, ma Concita lo sapeva già, il fatto che ieri nello scantinato maleodorante di Twitter il suo nome - suo di Concita, non di Murekatete - sia finito nei trend topics . E ovviamente a prevalere, diciamo 9 a 1, erano i commenti a sfavore della sua apologia.

Devo quindi sforzarmi per scrivere queste poche righe "contro", perché anche a me, come a Concita, d'istinto appassionano più le salite che le discese. E tuttavia proprio per rispettare quell'invito alla discussione sul caso, sine ira ac studio , ecco perché non sono d'accordo con la sua tesi. È sbagliato accostare Chiara Ferragni o Diletta Leotta a Liliane Murekatete. Possiamo discutere se sia legittimo o meno, quanto sia davvero femminista "vendersi" la propria nudità per vendere un prodotto, quanto dobbiamo essere post-moderni per ritenerla una cosa normale. Io penso, pasolinianamente, che sarebbe meglio non essere così proni alla cultura consumista di massa - che spinge a consumare anche il proprio corpo - ma mi rendo conto che il mondo, purtroppo anche il mondo della maggioranza delle donne, va da un'altra parte.

Lo accetto, come Concita, senza moralismi. Lo accetto da Ferragni, liberissima di fare quello che vuole. Non lo accetterei invece da Murekatete, che di mestiere non fa l'influencer, ma dovrebbe gestire una cooperativa che aiuta gli ultimi tra gli ultimi, quelli arrivati in Italia senza nemmeno un paio di scarpe. Anche se bisogna subito dire che Liliane le sue foto nude non le ha pubblicate, ma le sono state estorte senza il consenso. Concentriamoci dunque soltanto sugli scatti pubblici, quelli con le griffe del lusso. Discutiamo di quelli. 

E non parliamo nemmeno dell'inchiesta della procura di Latina, restiamo garantisti e speriamo che Liliane Murekatete e sua madre siano prosciolte da ogni accusa. Il problema è politico, non penale. Il problema sono le testimonianze univoche delle decine di vittime - uso volutamente un termine forte - del "sistema" Murekatete. Se lasci al freddo dei ragazzini, li nutri a pane e acqua e non dai loro nemmeno quei pochi spiccioli che la carità di Stato prevede come argent de poche , sei su un piano morale (morale: un aggettivo da rivalutare) diverso, diciamo così, da Ferragni. Che il personale alle sue dipendenze lo paga e immagino anche non poco, con i soldi che legittimamente guadagna. Non c'entra il colore della pelle.

Non c'entra il razzismo per quelle persone, soprattutto di sinistra, che sono rimaste giustamente inorridite dalla vicenda Soumahoro. C'entra invece la professione di Murekatete, il senso della sua missione, il fatto che abbia forse ingannato i migranti che le erano stati affidati affinché se ne prendesse cura, il fatto che abbia sfruttato, insieme alla madre, i lavoratori alle sue dipendenze lasciandoli senza stipendio per mesi. È qui che la questione delle fotografie esplode. Mi riferisco, ripeto, agli scatti pubblici con i vestiti firmati.

L'uso squallido, voyeuristico, misogino, che ne hanno fatto i quotidiani della destra non cambia di una virgola il ragionamento. Quel lusso ostentato sui social, mentre i ragazzi africani ospiti della Karibù facevano la fame, quello sì che indigna e non potrebbe essere altrimenti. 

Come, giustamente, indignano le buste piene di banconote trovate a casa dei sedicenti campioni dei diritti umani, che di giorno si facevano belli nei convegni e di notte contavano i soldi degli emiri. Proprio perché la sinistra si vanta di avere degli standard morali diversi e più alti, il tonfo quando cade fa più rumore. Durante la crisi ci sono stati imprenditori che si sono suicidati perché non riuscivano più a dare lo stipendio ai loro operai. Nessuno pretende dalla signora Murekatete sacrifici simili, ma forse con una borsa griffata in meno avrebbe potuto garantire qualche settimana di pasti decenti ai migranti ospiti della cooperativa.

C'è infine la vecchia storia della moglie di Cesare, che deve essere al di sopra di ogni sospetto. Sostiene Concita che le eventuali accuse di incoerenza andrebbe rivolte semmai al solo Soumahoro e non anche alla moglie, perché le colpe (eventuali) sono sempre personali e Murekatete non deve essere considerata una donna-appendice. Il fatto è che in questa brutta storia casomai è Aboubakar a essere un uomo-appendice. Nel senso che a lui personalmente, nella storia dei soldi alla cooperativa, non viene imputato nulla, fatta salva forse una culpa in vigilando . È stato lui a essere travolto dalle due donne, non viceversa.

Post scriptum sulla scelta dell'avvocato: anche su questo dissento. Lo so, è vero come dice Concita che gli avvocati migliori sono quelli che fanno assolvere gli imputati peggiori. Tuttavia, non sia mai, domani dovessi avere bisogno di un legale, sceglierei piuttosto un Pisapia. Così, a naso, per affinità, anche per poterci andare a prendere un caffè insieme sotto lo studio e poterci parlare di Paolo Conte invece che di Priebke.

"Come la Ferragni". La folle difesa della De Gregorio della lady Soumahoro. Concita De Gregorio, per difenderla, ha paragonato la compagna di Soumahoro a Chiara Ferragni e ha sottinteso un razzismo latente. Francesca Galici il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Concita De Gregorio, nell'ultimo suo articolo su la Repubblica, difende Liliane Murekatete, compagna di Aboukabar Soumahoro e la paragona a Chiara Ferragni. Usa belle parole la De Gregorio nel suo lunghissimo articolo in difesa della Murekatete, gliene va dato atto e non c'è nemmeno da scandalizzarsi se la sinistra ha scelto di prendere le sue parti. O meglio, una porzione di sinistra, perché gli altri hanno deciso di tacere. Lecita una posizione e lecita l'altra. Ma paragonare la moglie di Soumahoro a Chiara Ferragni e lasciar intendere che dietro le critiche a Liliane Murekatete ci sia il razzismo è intellettualmente scorretto per molti motivi.

Il silenzio di Soumahoro sulla coop che gestiva il ghetto dei migranti

"In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese. Perché è nera?", scrive Concita De Gregorio. Sulle foto senza veli nessuno deve intervenire, in quanto l'uso libero che la compagna di Soumahoro (così come qualunque ogni altra donna) fa del suo corpo non deve essere oggetto di giudizio. Ma sul paragone con la moglie di Fedez c'è più di qualche passaggio fallace, partendo proprio dal ruolo che le due donne hanno nella società.

Liliane Murekatete è (o è stata) nel consiglio di amministrazione di coop operanti nella gestione dei migranti. Quel tipo di cooperative ricevono ingenti finanziamenti dallo Stato per operare, che non ricevono le imprese tradizionali come quella di Chiara Ferragni. Il componente di un consiglio di amministrazione, in linea di principio, interviene nella gestione e per quanto al momento sotto la lente di ingrandimento delle autorità ci sia sua madre, difficilmente Liliane Murekatete non sapeva delle incongruenze che sono emerse nelle ultime settimane. Ed è proprio l'ambito operativo a solcare le maggiori differenze tra Liliane Murekatete e Chiara Ferragni: belle e giovani entrambe, ma con obiettivi dichiarati evidentemente diversi.

E non c'entra niente il fatto che la compagna di Aboukabar Soumahoro sia nera. Le critiche le avrebbe ricevute comunque davanti a quello che è emerso, anche perché si accompagna al deputato "con gli stivali". Certo, probabilmente se il suo compagno non fosse stato Soumahoro ci sarebbe stata un'eco mediatica meno importante ma anche qui il razzismo non c'entra nulla. Aboukabar Soumahoro ha fatto della difesa dei braccianti sfruttati il suo "core business" politico. Ha basato l'intera carriera, sindacale prima e politica poi, sulla difesa dei migranti e non sulle canzoni rap come ha fatto Fedez. È proprio sul tema centrale dell'inchiesta che coinvolge le coop nelle quali è coinvolta Liliane Murekatete che il deputato ha ottenuto popolarità. E questo è un dato incontrovertibile.

Il caso Soumahoro e nepotismi di Sinistra. Shukri Daid su La Repubblica il 4 Dicembre 2022.

Inevitabilmente, dal punto di vista mediatico, lo scandalo delle malversazione di fondi pubblici delle cooperative Karibù e Consorzio AID di Latina, dedite all’accoglienza ed integrazione degli immigrati, non poteva che prendere il nome dell’On.le Aboubakar Soumahoro il quale, sebbene del tutto estraneo alle inchieste penali avviate, è pur sempre l'esponente di maggiore notorietà del gruppo familiare del quale egli è entrato a far parte da quando, nel 2018, ha iniziato a legarsi sentimentalmente a Liliane Murekatete, la 45enne ruandese (anch'ella estranea alle inchieste penali attualmente in corso) che sedeva nel consiglio di amministrazione dei due enti collettivi presieduti da sua madre Marie Therese Mukamitsindo, l'unica del gruppo nei confronti della quale è stata sollevata un'accusa - ancora tutta da verificare - dalla Procura della Repubblica di Latina.

L’adesivo mediatico dello scandalo al neo-deputato di Verdi e Sinistra italiana deriva da due formule, anch’esse di sintesi mediatica, derivate dal mondo giudiziario: “non poteva non sapere” ovvero “a sua insaputa” che, a loro volta, sottolineano due peccati opposti ma comunque gravi quali l’ignavia nel non eliminare aspetti negativi di vicende conosciute, oppure l’inammissibile ingenuità di non essersi accorti di qualcosa di negativo che era invece di solare evidenza.

L'On.le Aboubakar Soumahoro eletto deputato per l'Alleanza di Verdi e Sinistra italiana nella XIX Legislatura

L’accecante bagliore dello “scandalo Soumahoro” ha però messo in ombra diversi altri scandali di più vasta portata che hanno, invece, origine politica e che si sono radicati nella Sinistra in Italia.

Nel rispondere alla Camera al question time a fine dello scorso novembre, il Ministro delle imprese e del made in Italy (Mimit) Adolfo Urso ha rivelato che le due cooperative, attive dai primi anni 2000, erano state oggetto di diversi controlli da parte delle autorità preposte: fra il 2017 ed il 2019, vi erano state 22 ispezioni all’esito delle quali la Coop. Karibù aveva collezionato sanzioni per circa 491.000 euro mentre il Consorzio AID, tra il 2018 e il 2022, era stato sanzionato, a seguito di 32 ispezioni, per circa 38.000 euro.

Nonostante queste gravi penalità, tuttavia, i due enti collettivi erano ancora attivi con l’ovvia conseguenza che, o per pagare le sanzioni le cooperative avrebbero diminuito i benefici per gli ospiti, oppure che le sanzioni non sarebbero state pagate potendo così continuare nei comportamenti invano sanzionati. In ogni caso ci avrebbero - come ci hanno - rimesso gli ospiti immigrati sicché è l’intero sistema dell’accoglienza e dell’integrazione che manifesta la sua incapacità di perseguire gli scopi prefissati.

Questa inadeguatezza nel gestire correttamente il fenomeno dell’immigrazione rende chiara l’inefficienza della normativa del settore (una responsabilità generale) ma anche l’incompetenza gestionale della Sinistra che, dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati, fa una delle sue bandiere tanto da aver inserito Aboubakar Soumahoro nelle sue ultime liste elettorali, laddove la destra si schiera per arginare nuovi arrivi e per respingere gli arrivati.

In questa propensione alla gestione in prima persona del settore, la Sinistra ha commesso la palese ingenuità di limitarsi al curriculum di Soumahoro e alle sue manifestazioni pubbliche senza approfondire il suo contesto di vita dal quale sarebbe emerso che, ben prima della formazione delle liste, sull’attività cooperativistica della compagna Liliane Murekatete e della di lei madre Marie Therese Mukamitsindo, si addensavano nembi oscuri perché erano già in corso doglianze sindacali (e della Procura della Repubblica di Latina) per mancati pagamenti di stipendi e contributi a 26 lavoratori per circa 400 mila euro. Gli effetti di questi errori si scaricano adesso non solo sulla Sinistra, ma su tutto il settore dell’accoglienza e dell’integrazione che va invece preservato da ogni scandalo per l’importanza del supporto ai più deboli che svolge.

L'On.le Nicola Fratoianni eletto deputato per l'Alleanza Verdi e Sinistra italiana nella XIX Legislatura

Il pesante gravame che incombe sulla Sinistra per questa specifica esperienza appare conseguenza dell’imperizia del suo gruppo dirigente che ha perfino accettato che la moglie di Fratoianni venisse candidata alle ultime elezioni (ed infine eletta) senza accorgersi di porre in essere un nepotismo che era stato già oggetto di scherno quando Berlusconi aveva candidato persone a sé vincolate da legami assai meno forti del coniugio. Ma quel che è più grave è che la superficiale scelta di Aboubakar Soumahoro quale testimonial della lotta al razzismo ed all’emarginazione degli immigrati rischia di ricadere proprio su questi ultimi, che appaiono oggi incapaci di esprimere, da Sinistra, neppure un loro rappresentante dei circa 4 milioni di nuovi italiani che non possa essere coinvolto, a torto o a ragione, nei più antichi vizi degli indigeni.

La Sinistra impari da Salvini, Segretario della Lega Nord, che nella scorsa XVIII Legislatura portò al Senato l’On.le Tony Chike IWOBI, di origini nigeriane, che ha svolto il suo mandato senza scaldali né manifestazioni egocentriche e tragga anche le dovute conseguenze da quella seduta al Senato del 6 febbraio 2015 in cui il PD si schierò contro il rinvio a giudizio di Calderoli per gli insulti razzisti lanciati dal palco della festa leghista di Treviglio contro l’On.le Cecile Kyenge, sua parlamentare: lasciando così intendere che non è razzista dare dell’orango ad una persona nera.

Di fronte a quello che appare ormai un vizio nello scegliere superficialmente i propri comportamenti ed i propri candidati, per poi non difenderli dagli attacchi per le loro debolezze, appare giunto il momento di una serie di sedute di autocoscienza nella Sinistra d’Italia.

Paolo Bracalini per ilgiornale.it il 12 dicembre 2022.  

Dalle sardine ai cavallini rampanti, il passo è breve e transita dalla politica. Si tratta di una battuta sbagliata, ma la foto (e il commento) pubblicata sui social da Mattia Santori, leader delle Sardine, non è stata particolarmente apprezzata. «Non ho fatto in tempo a mettermi la camicia che subito Stefano Bonaccini mi ha preso l'auto aziendale» scrive Santori pensando di essere ironico e postando una foto di lui, in abito e camicia visto il clima estivo di Dubai, con a fianco il governatore Stefano Bonaccini e dietro una fiammeggiante Ferrari gialla.

Un simbolo di lusso che non ci si aspetta dai rivoluzionari alla bolognese, dichiaratamente ispirati a ideali «di stampo gramsciano» (cit). Ora, a parte il fatto di essere a Dubai per l'Expo2020 in qualità di consigliere comunale Pd «con delega al turismo», a parte il fatto di essere a braccetto con il governatore, a parte il fatto di farsi la foto tamarra con le auto di lusso sullo sfondo, è tutto il quadretto che stona. I commenti al post glielo fanno notare in massa. «E brava la sardina! Questo ha capito tutto della vita. Vedrai che presto arriverà pure per te una poltroncina ben retribuita», «Passare dalle sardine al caviale è un attimo....», «Ma come è caduta in basso la sinistra», «Ma non avevi detto che non volevi entrare in politica?

Ti stai preparando per accomodarti, giusto? Tra sardine e tonno il posto è già bello che pronto», e via così. Al netto di alcuni che penseranno davvero che Santori avrà come auto di servizio una Ferrari, le altre critiche riguardano l'evoluzione (tipica) della sardina, da movimentisti a politici (ormai organici al Pd emiliano), una parabola già vista. Già un'altra volta Santori era inciampato in uno scatto infelice, quando si era fatto fotografare insieme a Luciano Benetton e Oliviero Toscani, un'immagine che scatenò un mare di polemiche e portò alla scissione di un gruppo romano di Sardine («Un errore politico ingiustificabile»).

Il movimento nel frattempo si è sgonfiato, qualche giorno fa all'anniversario del primo famoso raduno a Bologna, quando riempirono piazza Maggiore, non c'erano migliaia di persone, ma solo poche decine. «Non saremo mai un partito» ha detto Santori. Al massimo una corrente del Pd.

I rivoluzionari che pretendono il diritto al lusso. L'odiosa ipocrisia di chi predica l'inclusione facendo parte di un mondo esclusivo. Francesco Maria Del Vigo il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

C'è una grande confusione sotto l'altra metà del cielo. E più che quella delle donne, intendiamo quella delle professioniste del femminismo. Sono successe troppe cose, tutte insieme e in poco tempo. Troppe cose complicate da decodificare, digerire e poi spiegare a se stessi e agli altri, siano lettori o elettori. Per amor di sintesi elenchiamo i tre eventi principali di questa crisi: la vittoria del centrodestra e quindi l'ascesa di Giorgia Meloni a palazzo Chigi; lo scandalo che ha coinvolto l'onorevole Aboubakar Soumahoro e la moglie Liliane Murekatete, trascinando con loro tutto il mondo dell'accoglienza e del suo apparato ideologico; il Qatar-gate con il coinvolgimento, tra gli altri, della vice presidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili. Tre colpi che hanno fatto tremare anche le più solide certezze della sinistra più convinta della propria superiorità morale e, appunto, di genere.

Ieri, su Repubblica, si è esibita Concita De Gregorio, firma di punta della galassia politica che fonde il progressismo più chic con la difesa più radicale dei diritti delle donne. L'ex direttrice dell'Unità non si nasconde dietro una borsa di Louis Vuitton e, con coerenza, ammette subito la sua missione: difendere Liliane Murekatete. Tentativo più che legittimo, a patto di non sconquassare tutto il sistema di valori con il quale la sinistra per anni ci ha sconquassato le scatole. Cosa che puntualmente avviene. I due pilastri del pensiero della De Gregorio sono le basi della nuova sinistra dei diritti: cioè il diritto al lusso e il diritto all'esibizione del proprio corpo. Il primo teorizzato - con invidiabile coraggio - in diretta televisiva dall'onorevole Soumahoro e il secondo addebitato dalla giornalista a Chiara Ferragni. E potremmo anche fermarci già qui: perché se parlando di diritti siamo passati da Rousseau e Locke ai due sopraccitati, beh, qualche problema c'è, ci è sfuggita almeno una via di mezzo.

E ora, la De Gregorio, per difendere la passione di lady Soumahoro per borse griffate e foto sexy, la paragona proprio alla Ferragni, perché anche lei pubblica foto su Instagram con marchi di lusso e mutande bene in vista. Da queste colonne siamo sempre stati piuttosto severi con la regina delle influencer, ma cosa c'entra con Liliane Murekatete? Al netto di un certo insipido buonismo e uno spiccato qualunquismo vagamente di sinistra, la Ferragni non si è mai occupata di accoglienza e ha fatto i suoi (tanti) soldi nel nome del più spudorato capitalismo, senza nascondersi dietro il paravento dell'umanitarismo e soprattutto senza finire in torbide inchieste su milioni dispensati dallo Stato. Ma è diventata l'ultimo scudo dietro al quale i dem tentano di occultare le loro magagne. Un vizio antico, quello del doppiopesismo rosso. Sinistra al caviale, sinistra da ztl e comunisti col Rolex - per citare solo i più diffusi - non sono solo modi di dire e luoghi comuni. O meglio, nel tempo lo sono diventati, ma si basano su solide realtà fattuali. Per capire geograficamente dove vince la sinistra ormai non serve più consultare gli esperti di flussi elettorali, basta aprire immobiliare.it e cercare dove costano di più le case al metro quadrato. Il Pd, e i suoi cespugli sinistri, sono animali che abitano la fauna dei centri storici. Si sbracciano, dai loro salotti, per il proletariato, ma hanno l'orrore per le periferie proletarie, veleggiano su comode barche a vela - come il famoso Ikarus di D'Alema - lontano dai marosi del populismo e sopratutto del popolo. D'altronde l'ultimo comunista di successo di cui si abbia memoria è Fausto Bertinotti, uno che somigliava molto di più a un lord inglese che a un operaio di Mirafiori. E anche Olivia Palladino, compagna di Giuseppe Conte, neo avvocato degli ultimi, è già finita nel mirino del web per aver sfoggiato borse firmatissime: perfetta per essere la first lady della gauche.

Tra la sinistra e il lusso c'è sempre stato un grande feeling. E non ci sarebbe nulla di male, se non predicassero pauperismo per poi vivere come nababbi, se non detestassero il capitalismo salvo poi esserne ingranaggi oliatissimi, se non predicassero inclusività facendo parte di una della caste più esclusive. Il problema è solo uno: l'ipocrisia. Ultimo vero comune denominatore rimasto alla sinistra.

Alessandro De Angelis per “La Stampa” il 12 dicembre 2022.

In questa storiaccia, che annuncia uno scandalo gigantesco, di corruzione gozzovigliante - soldi nei borsoni che evocano la mazzetta gettata da Mario Chiesa nel water, padri in fuga col malloppo, mogli e figlie che prenotano vacanze faraoniche - peggio del denaro c'è solo la reazione balbettante della sinistra. Ed è proprio questa reazione, che col garantismo non c'entra nulla, a configurare il caso come un elemento di strutturale collasso politico e morale. Non il mariuolo o la classica mela marcia in un corpo sano.

Soumahoro e Panzeri, mutatis mutandis, ognuno con le sue signore, sono due volti dello stesso cinico modello: la disinvoltura, propria o familiare, agita dietro e grazie all'immagine pubblica di difesa dei diritti umani. Circostanza tale da rendere ancora più intollerabili quei comportamenti. 

A meno che il cronista non sia così limitato da non comprendere che non di cedimento morale si tratta, ma di diabolica e raffinata strategia posta in essere da chi, impegnato a criticare il capitalismo, quando si discute il Manifesto dei valori, adesso tace, da Articolo 1 al Pd: chissà, magari sembra corruzione ma è un modo per dissanguare i ricchi della terra, versione aggiornata al terzo millennio dell'esproprio proletario di cui Bruxelles è l'avamposto più avanzato.

Scherzi a parte, in questo assurdo dei principi, c'è chi arriva a consumare il reato senza neanche l'alibi ipocrita del "rubare per il partito", ma l'assenza di una messa a tema della questione morale, da parte dei vertici della sinistra, rivela un meccanismo omertoso generalizzato. Le cui radici sono nel fatto che "può capitare" a tutti, di ritrovarsi tra colleghi o famiglie altri Soumahoro o Panzeri, in un partito schiacciato sul governismo affaristico o dove il tesseramento è affidato ai capibastone.

E dunque, in un clima di appartenenza allo stesso consorzio politico-morale, nessuno ha la forza di difendere i valori, parola ridotta solo a chiacchiera nell'ammuina congressuale sui Manifesti. Accadde lo stesso con Nicola Oddati, responsabile delle Agorà di Enrico Letta, beccato a gennaio a Termini con 14mila euro in tasca, controllo non casuale perché da tempo la procura stava indagando per un presunto giro di favori con imprenditori: si dimise e finì lì. Come finì con la relazione Barca lo sforzo di rinnovamento del marcio partito romano, dopo Mafia Capitale.

In questo quadro si spiega la reazione della destra, tutto sommato misurata. Da un lato, da questa vicenda incassa il terreno ideale per una campagna contro le Ong; dall'altra preferisce (a sinistra) un gruppo dirigente condizionabile a una "piazza pulita" da cui nasca qualcosa di nuovo e insidioso. E non a caso il governo incontra D'Alema, gran consigliere di Conte e della sinistra Pd, nei panni di consulente di un gruppo di investitori qatarini pronti a competere per rilevare la raffineria di Lukoil a Priolo. La destra sa che questi dirigenti sono la sua polizza a vita.

(ANSA il 13 dicembre 2022) - Gli uffici dell'assistente dell'eurodeputato Pietro Bartolo all'Eurocamera di Strasburgo sono stati posti sotto sigillo, ha constatato l''ANSA. I sigilli sono stati apposti questa mattina, ha confermato una persona del suo staff.

Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2022.

Da una parte c'è lo sgretolamento totale e definitivo, sulla scia di Mafia Capitale e dei casi Mimmo Lucano e Aboubakar Soumahoro, del grande castello di ipocrisia creato dalla sinistra oltre quarant' anni or sono con la famosa "questione morale" di Berlinguer. Una roba che, va detto, per essere vista fin dall'inizio con diffidenza non richiedeva grandi sforzi. 

Bastava leggersi non il libro, ma l'ultima pagina della Fattoria degli animali di Orwell per avere le idee chiare: «Le creature volgevano lo sguardo dal maiale all'uomo, e dall'uomo al maiale, e ancora dal maiale all'uomo: ma era già impossibile distinguere l'uno dall'altro». Dove l'uomo era ovviamente lo spietato oppressore e il maiale l'intrepido rivoluzionario.

Ma gli effetti del Qatar gate non si abbatteranno, purtroppo, solo su quel mondo dei buoni e degli onesti a prescindere in cui la corruzione, il mercimonio e lo sfruttamento dei più deboli dietro lo scudo della presunta superiorità morale si sono alimentati e diffusi. 

Tra i molti danni collaterali del clamoroso traffico di mazzette finito nel mirino della giustizia belga tra lobbisti e parlamentari europei di area socialista, molti dei quali legati a doppio filo al nostro Pd (e ai suoi cespugli) sta iniziando a materializzarsi anche quello di una colossale colata di fango sull'intero Paese. 

Per carità, con il passar delle ore si moltiplicano gli appelli a circoscrivere l'accaduto alle persone coinvolte, per evitare che il discredito si allarghi a macchio d'olio. Anche la presidente dell'europarlamento Roberto Metsola ha provato, aprendo la plenaria di ieri tra le urla e le proteste, a spiegare che «questo scandalo non è una questione di destra o sinistra, non è questione di nord o sud».

Epperò nei corridoi dell'europarlamento iniziano a circolare con insistenza espressioni come "italian connection" o "italian job". Ad alimentare la convinzione che si sia trattato di «un colpo all'italiana», del resto, ci sono anche le indagini che, allargandosi, vedono sempre più connazionali coinvolti.

Illazioni e accuse sicuramente velate e dette a mezza bocca, ma non così trascurabili. Al punto che ieri sera persino Antonio Tajani ha sentito il bisogno di respingere pubblicamente l'attribuzione geografica ed antropologica della responsabilità dello scandalo.

«L'Italia», ha detto il ministro degli Esteri in un punto stampa al termine del consiglio degli Affari esteri a Bruxelles, «è un grande Paese: se ci sono dei parlamentari o degli assistenti che hanno commesso dei reati, sono questioni che riguardano le singole persone, non il sistema Italia, come non riguardano il sistema Parlamento». 

Insomma, la frittata è fatta. Dopo il mandolino, la pizza e la mafia ora gli italiani nel mondo dovranno anche giustificarsi di non andare in giro con borsoni zeppi di banconote ricevute da Paesi arabi per ripulirgli un po' il pedigree in materia di rispetto dei diritti civili e sindacali.

E, per ironia della sorte o, come dicono quelli che parlano bene, per eterogenesi dei fini, a svergognare l'Italia in Europa alla fine ci hanno pensato proprio gli amici di quelli che hanno passato gli ultimi mesi a raccontare che a fare figuracce oltreconfine, mettendo in imbarazzo tutto il Paese, sarebbe stato il nuovo governo. 

Le vicende sono troppo recenti per essere dimenticate anche da un popolo con la memoria corta come la nostra. «Questa destra ci porterebbe molto lontano dai valori europei»; «Meloni lavora per sfasciare l'Europa»; «Noi vogliamo un'Italia che conti in Europa». Solo per citare alcune dichiarazioni fatte dal segretario dimissionario del Pd, Enrico Letta, durante la campagna elettorale. Che poi sono le frasi più innocue.

Già, perché tra intellettuali, politici e media di area le accuse che volavano erano ben più pe santi. Comprese quelle sulla imminente demolizione dei diritti civili, a cui alcuni alti esponenti delle istituzioni Ue hanno persi no abboccato, sostenendo che avrebbero vigilato sulle azioni del nuovo governo.

E mentre gli occhi di Strasburgo e Bruxelles erano tutti puntati sul centrodestra postfascista, nemico degli immigrati, omofobo, anti immigrati, anti Pnrr, anti patto di stabilità e anti tutto, gli eurodeputati del Pd si riempivano tranquillamente le tasche di tangenti per difendere il Qatar.

La beffa delle beffe è degli ultimi giorni, con tutte le opposizioni impegnate a descrivere un governo amico degli evasori, dei riciclatori di denaro e di chi gira coi contanti in tasca intenzionato a commettere reati di ogni tipo. 

Salvo poi scoprire che il tetto a 5mila euro inserito in manovra non solo è la metà di quello proposto dalla Ue, ma anche infinitamente più basso della quantità di contante con cui circolano normalmente i "sinistri" finiti sotto indagine nell'inchiesta sul la Tangentopoli Ue. 

Ma non è finita. Della serie il lupo perde il pelo ma non il vi zio, nelle ultime ore i due contendenti per la segreteria del Pd, Elly Schlein e Stefano Bonaccini, hanno fatto a gara a prendere le distanze dallo scandalo Qatar.

«La vicenda è gravissima e ripugnante», ha detto la prima. «Se confermato sarebbe uno scandalo clamoroso», ha detto il secondo. Il sottinteso è che quella ro ba appartiene al vecchio e marcio Pd, non al nuovo che si apprestano a guidare e rifondare. In altre parole, la superiorità morale vale ancora, ma solo per chi li vota.

Mozione Qatar. Il grande imbarazzo sulla nuova questione morale della sinistra. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022

Prima di trarre conclusioni bisogna aspettare le sentenze, ma la storia dei politici progressisti di Bruxelles merita comunque un chiarimento da parte dei leader vecchi e futuri del Pd e di Articolo 1

Nel tardo 1989, in una drammatica riunione del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca uno degli esponenti più autorevoli di quel partito, intervenne senza giri di parole: «Ligato è un uomo nostro, non possiamo tacerne». Ludovico Ligato era il presidente del Ferrovie, democristiano, ucciso nell’agosto di quell’anno per motivi mai chiariti.

Scalfaro contestava il silenzio dei suoi amici democristiani perché «è un uomo nostro» ma non ebbe successo e il silenzio perdurò. Ecco, la cosa che certe volte fa più paura è questo, il silenzio. Che può significare due cose: o è vergogna o è instupidimento.

Enrico Letta ha chiesto doverosamente chiarezza e annunciato che il Partito democratico si costituirà come parte lesa. Bene. Ma non ci ha detto minimamente come sia stato possibile uno schifo del genere nella sua famiglia politica. Qualcuno anzi si scoccia pure e si dice «incazzato».

Se sono incazzati loro figuriamoci gli elettori. Ci fosse uno che abbia chiesto scusa (premettendo alle scuse l’estenuante ma giusto richiamo al garantismo), che abbia detto una cosa tipo «non ce ne siamo accorti, era una così brava persona», come dicono quelli del piano di sotto quando arrestano l’inquilino del piano di sopra.

E allora: Antonio Panzeri è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Partito democratico e infine Articolo Uno per decenni. «È un uomo nostro»: la frase di Scalfaro non l’ha detta nessun dirigente. È possibile, per quanto inquietante, che nemmeno uno si sia accorto della personalità di costui, forse di un probabile cambio del suo tenore di vita, che so, di un qualche cosa che non quadrasse con il cliché di ex sindacalista votato alla causa dei lavoratori di tutto il mondo, segnatamente, da ultimo, del mondo arabo.

I vari europarlamentari del Partito democratico di questi anni non lo hanno frequentato? Gli assistenti, che a Bruxelles lavorano ora per uno ora per l’altro, non hanno notato nulla? Così come è possibile, anche se allucinante, che i socialisti europei, e in particolare greci, non si siano mai accorti di che tipetto fosse Eva Kaili, una compagna talmente capace da essere eletta vicepresidente dell’Europarlamento su designazione dei socialisti. È possibile, anzi è probabile, che nessuno avesse sospettato alcunché. Ma allora sono tutti degli sprovveduti, dei tontoloni, degli addormentati.

Tra tante persone intelligenti e oneste non uno che avesse rizzato le antenne: un tempo, dispiace dirlo, a sinistra non funzionava così. C’erano gli anticorpi. A partire dalla sensibilità dei dirigenti.

Si dice: le mele marce ci sono sempre. Sì, ma qui sta emergendo un sistema, una rete che probabilmente è stata pazientemente intessuta per anni. Al di là dei luoghi comuni, che dice Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito democratico e leader morale di Articolo Uno che si appresta a rientrare nel Partito democratico? L’arrestato non era un uomo suo? Ha parlato Matteo Renzi, come al solito polemico: Panzeri «se ne andò dal Partito democratico perché diceva che io ero contro i valori della sinistra. Ma quali erano questi valori?».

Renzi era segretario del Partito democratico quando nel 2014 Panzeri venne ricandidato, ma giova ricordare che le liste elettorali sono lottizzate tra le correnti ed è difficile che una corrente metta il becco sulle scelte delle altre: e anche questo nel Partito democratico ci sarebbe da correggere. E Articolo Uno, un partito così piccolo, non si accorge che c’è del marcio a Bruxelles che origina da un suo esponente? Nessuno se n’è accorto ma è proprio questo che sotto il profilo politico preoccupa.

Si aspettano i risultati delle indagini, com’è giusto, e poi dei processi, ma pare veramente difficile a questo punto pensare che si tratti di un errore giudiziario, visto che ci sono personaggi, come il padre della ex vicepresidente greca, che scappano con il bottino; e va sempre ricordato che le responsabilità penali sono personali.

Le responsabilità politiche però no, sono collettive. Sono dei partiti, Partito democratico e Articolo Uno che ormai è nel Partito democratico. Stefano Bonaccini ha ricordato Enrico Berlinguer e la questione morale: solo che ora la questione morale è un problema della sinistra. Quella sinistra che ha il dovere di capire e di spiegare come sia stata possibile questa roba soprattutto per rispetto dei suoi elettori, già frastornati dalla crisi di questi mesi a cui si aggiunge adesso la vergogna di «un uomo nostro» al centro di uno scandalo internazionale. Il grande silenzio è la risposta peggiore.

È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Marco Gervasoni il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Ma così è. Pensiamoci: l'area politica socialista che, dal crollo del Muro di Berlino in poi, per sostituire una nuova utopia con quella appena morta, è stata la più fanatica sul piano dell'europeismo, sposato con i diritti e il secolarismo multiculturalista, è anche quella che sta danneggiando maggiormente non solo il sogno europeo, come tale irrealizzabile, ma anche la Unione Europea reale. Le banconote di decine di migliaia di euro in casa di parlamentari, ex parlamentari, loro collaboratori; le ong, le sacre ong, utilizzate come organizzazioni di raccolta fondi per spese sembra personali, le vacanze a 9 mila euro, paiono uno scenario che neppure i brexiters più scatenati, i Nigel Farage, le Le Pen e i Salvini di un tempo, avrebbero potuto costruire, nella loro propaganda per l'uscita dalla Ue e dall'euro. E oggi ancora, a gongolare è Orban, che può accusare di ipocrisia il Parlamento europeo, promotore, non senza ragione, di mozioni per condannare la corruzione e la violazione dello stato di diritto in Ungheria. Violazioni certo presenti, ma se poi paragoniamo Budapest a Doha, Orban ne esce come un seguace di Soros.

Non ultimo, l'effetto negativo è anche nei confronti della Russia, la cui propaganda ora afferma di non voler prendere lezioni da un'entità corrotta come la Ue - benché un europarlamentare Pd, non indagato, ma lambito, sia anche uno di quelli che vota regolarmente pro Putin da quando è iniziata la guerra.

Come scriveva nell'editoriale di ieri il Financial Times, «che regalo agli anti europeisti», tanto più che il parlamento si presenta come «la coscienza morale dell'Europa». Certo, siamo tutti garantisti, anzi lo siamo più noi degli esponenti del Pd, che fingono di non conoscere figure elette per diverse legislature e prestigiosi esponenti del loro gruppo, il Pse. Ma certo, i socialisti dovrebbero chiedersi perché i paesi arabi abbiano puntato soprattutto su di loro: la risposta, tra le tante, è che mai nessuno, come loro, ha sviluppato un rapporto cosi forte con l'Islam, con tutto il correlato di tolleranza verso l'immigrazione clandestina e legami con le ong. E chi ha fatto crescere maggiormente l'Islam nelle società europee, se non sindaci e premier di partiti del Pse? Insomma, come nell'antica tragedia, la nemesi non è cieca e finisce sempre per colpire laddove deve.

Superiorità morale, così crolla la bugia. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Augusto Minzolini il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A volte si rimuovono il passato e le proprie convinzioni ideologiche ed etiche in un batter d'occhio. Con un colpo di spugna si cancella dalla memoria ciò che si è predicato per mezzo secolo. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Questo, almeno per adesso, è un dato di fatto. E solo ora, in assenza di una linea di difesa credibile, il commissario europeo Paolo Gentiloni, ex premier del Pd, ammette: «Penso che la sinistra abbia riconosciuto che comportamenti di corruzione non sono appannaggio della destra o della stessa sinistra. I corrotti sono di destra e di sinistra».

Ragionamento che non fa una piega, perché l'onestà, come la corruzione, non ha colore. Purtroppo, però, la sinistra, in tutte le sigle cangianti con cui si è presentata negli anni, ha sempre teorizzato il contrario. È sempre vissuta, da Enrico Berlinguer in poi, nel mito della propria diversità, pardon della propria superiorità morale. Un totem che ora viene drasticamente meno. Ciò che è avvenuto a Strasburgo, infatti, mette fine ad una rendita di posizione di cui per decenni ex-comunisti, cattocomunisti, sinistra democristiana, ds, margherite, ulivi e partiti democratici o articoli uno, hanno sempre beneficiato, coltivando un'illusione - o una maleodorante bugia: quella che gli schieramenti politici non si formano sulle idee, ma sull'etica.

Ora è rimasto solo qualche Savonarola da strapazzo a teorizzarlo. Anche perché accettare mazzette da chi considera nel proprio Paese la vita e la libertà delle persone meno di niente mentre si mettono in piedi Ong per la difesa dei diritti umani, dimostra che tutto è in vendita: ideologia, coscienza e anima. Qualcuno ha fatto il paragone con Tangentopoli, ma neppure questo calza, perché la maggior parte degli indagati e dei condannati di allora fu mandato al «patibolo morale» per finanziamento illecito ai partiti, cioè le mazzette nella maggior parte dei casi - non tutti, perché i mascalzoni ci sono sempre stati - servivano a tenere in piedi un'attività politica, cioè coltivare nella società idee, appunto, di centro, di destra o di sinistra. Qui, invece, il paravento degli ideali di libertà e di rispetto della vita umana servono solo a consegnare le vittime che, sulla carta, si difendono ai carnefici. Appunto, si vende l'anima al diavolo.

Per cui non c'è alibi, motivazione, ragione che in questo caso possa coprire il marcio. Questa vicenda è la pietra tombale sulla diversità della sinistra perché la corruzione investe l'ultima bandiera di quel mondo, cioè la difesa dei diritti umani, delle libertà e del rispetto dei lavoratori, le battaglie su cui partiti e sindacati si sono concentrati, dall'immigrazione alla lotta contro le autocrazie. Ma c'è anche un elemento simbolico da non trascurare. La storiaccia è ambientata in un posto che la sinistra ormai da anni ha eletto a luogo sacro contro il populismo e il sovranismo: il Parlamento europeo. E, invece, grazie ai nuovi farisei che oggi si alimentano di «retorica europeista» come ieri di «questione morale», i mercanti hanno violato il tempio.

Il bianco e il nero. "Qatar? A sinistra finalmente sono 'normali'.." "Una vicenda ininfluente" Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Ecco le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto. Francesco Curridori il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo raccolto le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto.

La vicenda delle mazzette arrivate dal Qatar quanto danneggia il Pd e la sinistra?

Piepoli: “Il danno lo hanno ricevuto dalle elezioni, non dal Qatar. Si sono disfatti, hanno lottato per perdere e hanno perso. Di questa vicenda mi vien da dire solo questo: ‘Finalmente sono normali, rubano anche loro’. Che, poi, è ciò che pensa anche l’opinione pubblica. Pensa che sono normali filibustieri, altro che ‘sacre ruote del carro della vita’. E, in effetti, personalmente, ritengo questa una vicenda normale e priva di qualsiasi rilevanza politica”.

Noto: “Il Pd è in calo da mesi. Dalle elezioni a oggi è passato dal 19 al 16%. Non è detto che subirà un’ulteriore flessione dovuta a questa vicenda. Il vantaggio è che i parlamentari europei coinvolti sono poco noti. Il problema che si pone in vista del congresso Pd, casomai, è quello relativo alle regole da darsi per non incorrere in questi rischi?”

Il caso Somahoro com’è stato percepito dall’opinione pubblica?

Piepoli: “Non abbiamo fatto rilevazioni in merito a questo caso, ma posso dire ciò che ho percepito io. Anche in questo caso si tratta di una normale vicenda che non appassiona l’opinione pubblica che, in realtà, è molto più interessata all’esito dei Mondiali di calcio. ‘Panem et circenses’ dell’imperatore Claudio è valido ora come nel 53 a.C.”.

Noto: “C’è stata una forte delusione perché Somahoro era diventato un personaggio pubblico. Non sono i singoli fatti che spostano il consenso però, anche se c’è stata una forte delusione, non è detto che qualcuno cambi la propria intenzione di voto”.

Minacce alla Meloni. Il premier passa come vittima oppure ha sfruttato mediaticamente le intimidazioni ricevute?

Piepoli: “No, la Meloni è una donna che si fa rispettare. È l’unica donna post-fascista in Italia ed è riuscita a imporsi in un partito di maschi. Sono convinto che governerà bene e per cinque anni”.

Noto: “Questi eventi, invece, colpiscono molto gli italiani che sono molto attenti a queste cose. Gli italiani si sentono sicuramente vicini al premier e la Meloni ne esce ‘vittima’ in termini politici”.

Alla Meloni converrebbe elettoralmente ritirare la querela nei confronti di Saviano?

Piepoli: “Ritirare una querela è sempre un atto d’onore e, se lo facesse, avrebbe la mia ammirazione. Ma, se non la ritira, fatti suoi. Non è un qualcosa che tocca l’opinione pubblica. È solo un problema personale. Al Paese interessa che ci siano più posti di lavoro, non Saviano. Chi è Saviano? Che cosa ha prodotto per il Paese?”.

Noto: “Il consenso a un partito politico non cambia come noi cambiamo i programmi televisivi. Il consenso è più duraturo che cambia in base a più fattori. Dovendo pensare al proprio elettorato, non dovrebbe ritirare la querela. Se, invece, volesse rendersi più attraente verso l’elettorato di sinistra che non l’ha votato, allora dovrebbe ritirarla. Fare una scelta o l’altra non sposta consenso nell’immediato”.

Regionali nel Lazio e nella Lombardia. Chi è il favorito?

Piepoli: “I tre candidati della Lombardia sono tutte persone degne e preparate per governare una Regione che ha il Pil della Svizzera. Sul Lazio non abbiamo ancora dati. Al momento, però, posso dire che non c’è alcun favorito certo”.

Noto: “Nel Lazio è difficile dirlo perché mancano ancora i candidati. Il centrodestra, è avanti, ma senza il candidato si può dire poco, ma non è certamente un buon segnale. In Lombardia è avanti Fontana e subito dopo Majorino e la Moratti si contendono il secondo posto. Secondo i nostri sondaggi il candidato del Pd è un po’ più avanti, ma per il momento Fontana è avanti in maniera significativa”.

Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista. Federico Novella su Panorama il 12 Dicembre 2022.

La vicenda Panzeri, come quelle degli ultimi mesi di altri big italiani del Pd, racconta come sono sempre più i comunisti che non difendono gli interessi degli ultimi ma soprattutto i loro stessi Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista

Per quanto sia obbligatorio considerare tutti innocenti fino a prova contraria, lo spaccato che esce dall’eurotangentopoli in salsa Qatar è desolante per diversi motivi. Il primo è che tutti i protagonisti politici sono affiliati alla sinistra europea. A dar retta alle accuse della procura sono loro, i paladini degli ultimi, i primi a tentare di arricchirsi personalmente. Dal fulcro dell’indagine, Antonio Panzeri, fino alla vicepresidente del parlamento Kaili, sacchi di denaro volano sui bei propositi umanitari di chi dice di lottare per i diritti dei più sfortunati. Attendiamo i dettagli dell’inchiesta, e soprattutto aspettiamo di vedere se ci sia qualcosa di più grande sotto la punta dell’iceberg. In particolare dietro quest’ennesima Ong dal nome che è tutto un programma, “Fight Impunity” , creatura di Panzeri dal quale si sono dimesse in blocco le eccellenze italiane ed estere che fino a ieri ne abitavano il board: dalla Bonino al greco Avramoupolos.

In Italia abbiamo appena finito di indignarci per il caso Soumahoro, ed ecco arrivare la tempesta di Bruxelles: vicende diverse, ma equivalenti su un punto: occorre prestare attenzione a chi si professa buono e pio. La bontà può diventare spesso un paravento per nascondere traffici quantomeno oscuri. L’altra certezza, mentre la procura indaga, è che il Parlamento Europeo non sembra esattamente quel palazzo di vetro che vorrebbero raccontarci. Stando a quanto si legge in queste ore, somiglia più ai corridoi bui delle Nazioni Unite, dove transita gente di ogni risma, senza controlli e senza grandi slanci morali. Non poteva che essere così, dal momento che le istituzioni europee , così congegnate, non hanno mai avuto reale legittimità democratica. E laddove non c’è trasparenza, prima o poi arrivano soldi e lobbisti. Il quotidiano “Il Giorno” ha ricordato che 485 deputati hanno lasciato l’europarlamento nel 2019: di questi, il 30% lavora oggi per gruppi di pressione. Panzeri era uno di questi. La politica delle porte girevoli spesso non è illegale, ma si sviluppa selvaggiamente all’ombra di regole deboli e oscure. Come si diceva in principio, sulla materia dei diritti umani sembra essere la sinistra quella più propensa a coltivare rapporti di alto livello. Sul secondo lavoro di Massimo D’Alema, cioè quello della consulenza finanziaria, si è detto molto: ultimamente pare abbia fatto da tramite tra una cordata di sceicchi del Qatar e il governo, per l’acquisizione della raffineria Lukoil di Priolo. Nulla di male, per quanto ne sappiamo. Ma quest’abitudine ha fatto dire al vicesegretario del Pd Provenzano che “vedere grandi leader della sinistra fare i lobbisti la dice lunga sul perché la gente non si fida più”. E qui arriviamo all’ultima certezza di questa storia, a prescindere dagli esiti delle indagini: ad essere morta e sepolta è la cosiddetta “superiorità morale” della sinistra. La sindrome per cui da quella parte politica ci si arroga il diritto di distribuire agli avversari patenti di onestà e limpidezza morale. Una sindrome nata con Tangentopoli, e morta con Qataropoli. Nata con la presunta difesa dei diritti degli sfortunati, e morta con la difesa dei diritti degli Emirati.

Da lastampa.it il 10 dicembre 2022.

«Continuo a leggere sui media che la Signora Soumahoro mi avrebbe denunciato per avere diffuso sue fotografie senza veli, da me scattate, senza il suo consenso. L'accusa che mi si muove è del tutto infondata». Il fotografo Elio Leonardo Carchidi replica alla notizia della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete, che lo avrebbe denunciato per la «diffusione senza permesso» di alcuni scatti hard che la riguardano. 

La donna è al centro dello scandalo delle coop che gestiva insieme alla madre, sulle quali sta indagando la Procura di Latina tra stipendi e tasse non pagati e migranti costretti a vivere senza cibo e acqua. Non le sono stati perdonati i selfie in cui compare con abiti e borse firmate: foto che hanno spinto i suoi detrattori a coniare per lei il soprannome «Lady Gucci».

Nei giorni scorsi Liliane Murekatete si è difesa accusando i media per «la costruzione del racconto volto a rappresentarmi come una cinica 'griffata' e ad affibbiarmi icastici titoli derisori». E ora tramite l’avvocato Lorenzo Borrè ha fatto sapere di aver presentato una denuncia verso il fotografo, Elio Leonardo Carchidi, che a suo dire ha pubblicato online le foto –  individuate e riprese poi da alcuni organi di informazione – senza permesso. 

Ma Carchidi non ci sta. E a sua volta ha definito «infondate» le accuse di lady Soumahoro, «come potrò dimostrare». «Ho conferito mandato all'Avv. Fabrizio Galluzzo – ha concluso il fotografo – affinché mi difenda nelle opportune sedi e tuteli la mia onorabilità e professionalità, lese dalle non veritiere notizie trapelate».

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 6 dicembre 2022.

Il caso di Aboubakar Soumahoro, della sua compagna Liliane e della di lei famiglia ha preso una piega hot. Anzi rischia di diventare un vero sexygate. Tutto è iniziato ieri mattina quando il sito Dagospia ha pubblicato alcune foto in pose ammiccanti di Liliane, già soprannominata Lady Gucci, con grande scorno della protagonista. 

In un video del 2018 trasmesso domenica da Non è l'Arena la donna ha spiegato che quelle borse potevano essere dei regali del passato. E adesso dal passato spuntano le foto scollacciate. Un portfolio intitolato Glamour con sotto il nome della modella: Liliane. 

Era il 2012 e la donna ai tempi aveva 35 anni e bazzicava o aveva bazzicato Palazzo Chigi, quando capo del governo era Silvio Berlusconi. I dodici scatti che si trovano ancora sul sito del fotografo calabrese Elio Carchidi, non lasciano molto spazio all'immaginazione.

 La giovane ruandese sfoggia diversi completi intimi e anche una parrucca bionda.

In quattro pose indossa un body rosso trasparente, in altre due una culotte nera, in una un reggiseno carioca e in cinque è senza vestiti, sia sotto la doccia che in un letto sfatto, dove esibisce un nudo integrale frontale appena celato dal drappeggio di un lenzuolo. 

All'epoca Liliane non conosceva Soumahoro e veniva da una lunga esperienza a Palazzo Chigi. Poi era arrivato Mario Monti e lei si era tolta lo sfizio di farsi ritrarre senza veli.

Per capire il senso dell'operazione abbiamo contattato Carchidi, che nega di aver inviato lui le immagini a Dagospia. Gli chiediamo se quegli scatti potessero servire per qualche inserzione online. Ma il professionista è categorico: «Escluderei a priori che quelle foto siano state fatte per un annuncio sexy».

Per quel lavoro Carchidi non sarebbe stato pagato: «Mi sarebbe dovuto tornare utile solo dal punto di vista del portfolio. Ho pubblicato questa brochure per dire che realizzo quel tipo di immagini». 

Il fotografo ammette di aver sperato di poter cedere suoi scatti a qualche rivista glamour: «Ma purtroppo, non essendo lei un personaggio noto, sono rimasti invenduti». 

Gli ricordiamo che quella modella aveva appena lasciato Palazzo Chigi e domandiamo se durante lo shooting Liliane avesse parlato di quel mondo. Risposta: «Mi ha solo detto che lavorava o che aveva comunque contatti con Palazzo Chigi o con settori della politica, ma non mi fece nomi di personaggi anche perché non c'era grande confidenza. L'avrò vista tre volte in tutto». Da allora si sono scambiati solo un messaggio su Facebook, quando Carchidi ha scoperto dai social che Liliane era rimasta incinta.

Ma alla fine del set fotografico la futura compagna di Soumahoro si mostrò contenta: «Sì, era molto soddisfatta delle immagini». Non le ha mai chiesto di toglierle dal sito? «No, altrimenti l'avrei fatto». Aveva scelto lei il genere di pose? «Quelle si scelgono insieme, non c'era un layout da seguire, era abbastanza libero. Il nudo è venuto così, non si chiede mai espressamente». 

Di fronte alla nostra curiosità, il fotografo un po' si ritrae, anche perché ieri 3-4.000 utenti hanno visitato il suo sito: «Ho clienti di ogni genere, dal prete al chierichetto, sportivi, giornalisti. Ci sono anche signori e signore che amano farsi fotografare in atteggiamenti sexy senza nessun obiettivo preciso forse per un piacere intimo. Quelle non erano foto per vendersi questo sicuramente no».

La ragazza le sembrava una professionista della moda? «No, non posava come una modella esperta, era una ragazza normale che lo faceva per il gusto di divertirsi, nulla di più». 

Fu accompagnata da qualcuno sul set? «No, venne da sola. Lei mi ha sempre parlato della famiglia, verso la quale aveva un grosso attaccamento. Mi disse che lavorava in politica, ma non sono stato lì a indagare, in tanti millantano conoscenze nei palazzi. Lo ripeto, mi confidò di avere qualche contatto a Palazzo Chigi».

Nei giorni scorsi abbiamo parlato anche con V.G., cognata di Liliane. Le abbiamo chiesto lumi sui trascorsi della donna ruandese con il governo Berlusconi e questa è stata la risposta, a giudizio della nostra interlocutrice, «esemplificativa»: «Una sera eravamo tutti a cena. Non ricordo se fosse Natale o Pasqua o un'occasione così e mio figlio, il secondo, che era piccolino, avrà avuto 5 o 6 anni, ha chiesto alla zia che era sempre in giro, in viaggio: «Ma tu veramente che lavoro fai?". 

È sceso il silenzio. Nessuno ha risposto, tanto meno lei che ha sviato il discorso. Io non so esattamente quale fosse la sua attività, non l'ho mai saputo io ero curiosa aspettavo la risposta, ma non è arrivata». L'idea di V.G. qual era? La donna ha replicato con un sorriso eloquente e queste parole: «Non lo so e non mi interessa più di tanto.

Ognuno nella sua vita fa quello che crede. Comunque ci sono persone che hanno il potere di far sembrare quello che non è e lei probabilmente è una di queste». 

Liliane Murekateke, figlia della fondatrice della Karibu Marie Therese Mukamitsindo, era stata a Palazzo Chigi con Berlusconi, tra il 2003 e il 2006, cooptata da Alberto Michelini all'epoca nominato rappresentante personale di Berlusconi per il «Piano di azione per l'Africa». Poi ci era rimasta con Romano Prodi e, di nuovo, con il Cavaliere dopo il suo trionfo elettorale del 2008. Di lei Michelini ha ricordato un aneddoto: «Un giorno incontrammo il primo ministro del Ruanda e lei me lo presentò come suo zio.

Così mi disse. E vidi che si salutavano in modo affettuoso».

L'unico riscontro che si trova su Internet di questi incarichi istituzionali risale al 2009, anno in cui ha percepito dalla Presidenza del Consiglio per una consulenza 8.500 euro (a fronte di uno stanziamento per il progetto di 17.000). Sul suo profilo Linkedin la compagna di Soumahoro, riguardo alla sua esperienza a Palazzo Chigi, sostiene di essere stata per un anno, a partire dal 2008 «vice rappresentante personale a interim per l'Africa del Primo ministro» e poi, dal 2009 al 2011, «rappresentante personale a interim per l'Africa del Primo ministro».

Ed è durante questo incarico che, nel giugno 2010, l'allora ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna si reca a Sezze (Latina) per visitare la sede della Karibu, evidenziando «l'importanza di sostenere, finanziariamente e non solo, realtà che, come queste, cercano di far dimenticare alle donne i traumi terribili subiti». 

L'anno dopo arriva, proprio grazie al centro-destra, quella che forse è stata la svolta per la coop. È raccontata negli atti di un'indagine congiunta della Polizia locale e della stazione dei carabinieri di Sezze. L'inchiesta riguardava la gestione dei profughi approdati nei comuni della Provincia di Latina dopo l'ondata di sbarchi causata dalla guerra in Libia che aveva messo a dura prova l'ultimo governo Berlusconi.

La gestione della tendopoli di Manduria, in provincia di Taranto, aveva infatti portato alle dimissioni sia del sindaco della cittadina pugliese sia a quelle, ben più eclatanti, dell'allora sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano. 

La Regione Lazio, all'epoca guidata dalla giunta di centro-destra presieduta da Renata Polverini, coinvolge, insieme ad altri Comuni limitrofi, quello di Sezze. Inizialmente partecipano al progetto tre realtà del posto, ma non la coop della Mukamitsindo. Ma, come annotano gli investigatori, «successivamente ci sono una serie di comunicazioni tra la Regione Lazio - soggetto attuatore - e la cooperativa Karibu, dove si richiedeva la disponibilità all'accoglienza». Che viene offerta per 50 profughi.

Gli investigatori sentono due volte la presidente Marie Therese, mamma di Liliane. Nel secondo interrogatorio del luglio 2011 la donna riferisce le presunte accuse di alcuni ospiti contro una delle realtà coinvolte nel progetto: «Mancava il corso di lingua obbligatorio, il medico che effettuasse delle visite, l'acqua potabile, la corresponsione del pocket money». E di fronte a questo scenario, l'imprenditrice, ritenendo di essere stata «tratta in inganno», prende l'iniziativa e comunica telefonicamente alla Regione Lazio «che per tale situazione venivano presi in carico completamente dalla coop Karibu» e che «sarebbero stati allocati in altre sedi con aggravio di spese». 

Una mossa che dà il via alla crescita esponenziale della Karibu, che era diventata partner Sprar del Comune di Sezze nel 2010, dopo aver gestito, dal 2001, lo Sportello immigrazione municipale. Un exploit confermato dal bilancio del 2011 della cooperativa che, grazie anche alla distribuzione dei profughi libici sul territorio pontino, vede schizzare il valore della produzione da 837.297 euro a 2.065.310 euro. Cifra che nel 2012 cresce ulteriormente, arrivando a 2.696.519. Un fatturato più che triplicato, anche grazie all'emergenza libica.

Tommaso Labate per corriere.it il 7 dicembre 2022.

«No, non avevo assolutamente collegato, d’altronde sarebbe stato impossibile. Ero davanti alla televisione, a un certo punto parte un servizio sul caso Soumahoro e appare la sua compagna. Sulle prime dico tra me e me “mah, può essere, forse, chissà…”. Poi ho guardato meglio, ed era davvero lei». 

Questo racconto comincia con la testimonianza di Laura Boldrini. Che, all’inizio dello scandalo che ha travolto la cooperativa Karibu di Marie Therese Mukamitsindo e macchiato l’immagine del di lei compagno della figlia Aboubakar Soumahoro, fresco deputato della Repubblica eletto con l’alleanza Verdi-Sinistra e oggi autosospeso dal gruppo parlamentare, sta seguendo in tv un programma che si occupa del caso. 

L’ex presidente della Camera, che ha un passato importante nell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, conosce ovviamente Soumahoro e in passato ha incontrato anche Marie Therese. Le manca il «link»  tra i due. Le manca, o quantomeno è quel che crede fino a quel momento, la figura di Liliane Murekatete, figlia di Therese e compagna di Aboubakar.

Sembra la scena finale de I Soliti Sospetti, quando il commissario interpretato da Chazz Palminteri scruta con attenzione la lavagna di fronte alla quale ha interrogato l’anonimo personaggio interpretato da Kevin Spacey. E accende un nuovo faro sulla storia della donna più «cercata» d’Italia. La cooperante dalle borse e degli abiti firmati, la «Lady Soumahoro» che qualcuno ha ribattezzato «Lady Gucci», la «CooperaDiva» (copyright Dagospia), la donna che invoca per interposta persona «il diritto all’eleganza» (copyright Soumahoro), la bellezza che in alcuni scatti del web ripiombati dal passato posa in vesti a dir poco succinte. Per le foto che ritraggono Liliane è partita la diffida alla pubblicazione. 

Ma soprattutto, e qui la storia è talmente sorprendente da far impallidire anche l’intreccio del Bel Ami di Maupassant, l’ex sconosciuta che attraversa quattro diverse legislature con quattro travestimenti differenti: quella dei governi Berlusconi II e III da dipendente della Task force per l’Africa guidata da Alberto Michelini, quella del Prodi II da dipendente di Palazzo Chigi, quella del Berlusconi IV sempre al palazzo del governo e l’inizio del Meloni I come ultracelebre compagna di un deputato dell’opposizione. 

L'arrivo a Palazzo Chigi

Intervistato dal programma de La7 Non è l’arena, condotto da Massimo Giletti, l’ex berlusconiano Michelini racconta di come la giovane Liliane Murekatete, che all’inizio degli anni Duemila lavora con lui, si presentasse come «nipote del premier rwandese». Quando la Task Force per l’Africa voluta da Berlusconi va in missione in Rwanda, «il premier me l’ha presentato lei dicendo 'è mio zio'.  E non avevo dubbi di credere che lo fosse, anche perché ho visto come lui salutava lei, affettuosamente, come un familiare…». 

Ma com’era arrivata una ragazza poco più che ventenne come Liliane a lavorare per il governo Berlusconi? Racconta Laura Boldrini: «Come sapete, ogni 21 giugno si tiene la Giornata mondiale del rifugiato. Per l’occasione, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite chiede alle organizzazioni di segnalargli alcuni testimoni da far intervenire alle celebrazioni. Ora non ricordo quale fosse l’organizzazione, se la Caritas o il Cir o qualcun altro, ma proprio da una di queste viene segnalata questa ragazza, Liliane. Che infatti prende la parola. Era l’inizio degli anni Duemila, non saprei dire l’anno di preciso. So solo che, qualche tempo dopo, incontro Michelini. Che mi dice: 'Ma lo sai che quella bravissima ragazza che è intervenuta il 21 giugno l’abbiamo presa a lavorare con noi?’». 

Solo quindici anni dopo, nel 2017, durante la consegna di un premio assegnato da Moneygram, Boldrini farà la conoscenza – a un evento a cui partecipano anche Emma Bonino e Gianni Pittella – della mamma Maria Therese e ritroverà la giovane Liliane conosciuta anni prima. Il link con Soumahoro le apparirà invece solo guardando la tv qualche settimana fa, all’inizio del «caso». 

«Ad Arcore non è mai venuta»

Ma che cos’aveva fatto Liliane negli anni precedenti? Dai primi anni Duemila all’autunno del 2011, quando cade il governo Berlusconi IV, non si muove da Palazzo Chigi. Nel 2006 Michelini, per sua stessa ammissione, la segnala al governo Prodi insieme a un’altra componente della sua segreteria particolare. E quando i berlusconiani tornano al governo due anni dopo, ecco che Liliane è ancora al suo posto. Solo che stavolta sale di grado e «assume addirittura il ruolo - è sempre Michelini che parla - di rappresentante personale facente funzioni». 

L’ex senatrice Maria Rosaria Rossi, in quella fase, è il braccio operativo del Cavaliere. Monitora la sua attività a Palazzo Chigi e, com’è noto, controlla chi entra e chi esce da Palazzo Grazioli a Roma e dalla Villa di Arcore. «C’era una persona che assomigliava a lei che lavorava per il governo a quel tempo. Ma non saprei dire con certezza se si trattasse o meno della compagna di Soumahoro che ho visto sui giornali e in tv in questi giorni. Mi chiede se potrebbe essere lei? Col condizionale rispondo di sì, potrebbe».

È possibile che Liliane Murekatete frequentasse le residenze private di Berlusconi? «Su questo posso essere più precisa. E la risposta è assolutamente no. Ad Arcore di sicuro non è mai venuta». 

Il 21 giugno di una ventina di anni fa, durante la Giornata mondiale del rifugiato, la vicenda di Liliane prende un’altra piega. Vent’anni dopo è tutta un’altra storia, con decine di altre storie in mezzo. Gli scatti decisamente piccanti tornati a circolare sulla Rete hanno adesso una firma, quella del fotografo Elio Carchidi. Scattate nel 2012, non erano state richieste o acquistate da nessuno. Oggi vanno a ruba.

Giacomo Amadori per La Verità il 10 dicembre 2022.

La lista dei soci non lavoratori della Karibu che la presidente Marie Therese Mukamitsindo ha consegnato agli ispettori del ministero delle Imprese e del made di Italy il 29 novembre scorso è sconcertante. Non solo a fianco dei nomi non c'erano riferimenti per eventuali contatti, ma l'identità degli stessi lascia pochi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte a una cooperativa fasulla. 

Nell'elenco c'è di tutto: sette soci fanno parte della famiglia allargata di Aboubakar Soumahoro, gli altri dieci sono quasi tutti ex lavoratori che non hanno quote, né hanno partecipato alla vita sociale della coop. Anzi più di uno deve ancora incassare vecchi stipendi. Alcuni hanno lasciato la Karibu da anni e ricevono o hanno ricevuto l'indennità di disoccupazione. 

C'è chi vive all'estero e persino chi è morto. Ma nessuno di loro, a parte i parenti acquisiti di Soumahoro, sembra aver mai deciso qualcosa o votato bilanci.

La Verità ha visionato in esclusiva la lista dei soci della coop per cui è stata chiesta la liquidazione coatta amministrativa. Oltre ai consiglieri di amministrazione, Marie Therese, il figlio Michel Rukundo e la figlia Liliane Murekatete (compagna di Aboubakar) nel libro soci ci sono altri 14 nominativi. Probabilmente inseriti a insaputa dei diretti interessati. Tra questi c'è anche Valeria G. che, in esclusiva, ci aveva raccontato di essere stata licenziata nel 2021 e di aver denunciato il coniuge Richard Mutangana per violazione degli obblighi di assistenza famigliare.

Anche Richard, terzo figlio di Marie Therese, è ovviamente socio, sebbene da febbraio non sia più un dipendente e, dal 2017, si sia trasferito in Ruanda dove gestisce una pizzeria e altre attività. Mutangana, lo ricordiamo, è stato, almeno sino al 2017, rappresentante legale dell'associazione di promozione sociale Jambo Africa, spesso presentata come una cooperativa; un'organizzazione che offriva servizi alla Karibu. Dal conto della Jambo partivano le ricariche per i migranti, ma anche ricchi bonifici diretti verso il Ruanda, movimenti attenzionati dal nostro Antiriciclaggio.

Socia della Karibu era pure Aline Mutesi, quarta figlia di Marie Therese. La trentatreenne di origini ruandesi è recentemente ritornata in Australia dal compagno iraniano e ufficialmente era anche presidente retribuito del consorzio Aid, altra struttura per cui Confcooperative e il ministero hanno chiesto lo scioglimento. Nell'elenco c'è anche la compagna italiana di Rukundo, Marina V., e con lei siamo a sette soci tutti interni alla famiglia. 

Gli altri dieci sono in gran parte ex operatori di origine straniera. Alcuni non siamo riusciti a rintracciarli. Come Eugenie U., sessantenne originaria del Burundi e residente in provincia di Latina, che non sembra aver mai percepito redditi dalla galassia di cooperative degli affini di Soumahoro. Vana è stata anche la ricerca della quarantottenne «socia» camerunense Alem Catherine N.. La libanese Zahia H., classe 1948, ha lavorato part-time per la Jambo Africa dal 2013 al 2016 prima di percepire la disoccupazione dal 2016 al 2017. Il 29 novembre sera, quando Marie Therese e il figlio hanno consegnato la lista dei soci agli ispettori, sopra c'era anche il suo nome. Peccato che fosse morta il giorno prima.

Evidentemente le comunicazioni tra soci dovevano andare a rilento. Mekdes T., trentaduenne etiope, è, invece, tornata in Africa. O per lo meno così ci ha riferito chi la conosce. Dal 2016 al 2019 ha lavorato per la Karibu, percependo redditi oscillanti tra i 12.000 e i 18.000 euro annui. 

Nel 2020 e nel 2021 ha riscosso la Naspi. La donna su Internet risultava presidente dell'associazione Gmia, che nella propria pagina Facebook non spiega quale sia l'attività svolta. La Rete ci informa che l'8 marzo 2019 Mekdes T. ha partecipato insieme con Liliane Muraketete alla manifestazione «Lottomarzo, lo sciopero globale transfemminista». Nell'occasione Karibu, Aid e Gmia hanno affrontato il tema della formazione e dell'aggiornamento professionale in un seminario intitolato «Libere di muoverci, libere di restare». 

Ieri siamo riusciti a parlare con un'altra rappresentante di Gmia, la vicepresidente Margaret Musio M., cinquantenne keniota. Nel 2017 è transitata dalla già citata e misteriosa Jambo Africa alla Karibu. Anche per lei gli stipendi variavano tra i 13.000 e i 17.000 euro annui. Dal marzo di quest' anno, dopo aver lasciato la coop della Mukamitsindo, ha iniziato a percepire l'assegno di disoccupazione. Quando le nominiamo il nome della Gmia, sibila una lunga interiezione: «Aaaaaaah. Noi abbiamo creato questa associazione, ma non abbiamo avuto entrate.

La Karibu ci deve ancora pagare perché abbiamo fatto le pulizie nelle strutture. Andavamo in giro con le macchine a puli' di domenica, ma non abbiamo ricevuto un centesimo. Per due anni non siamo stati retribuiti e alla fine ci siamo rifiutati di andare a puli'». Chi vi ha fatto aprire la Gmia? «È stato un consiglio vabbé lasciamo perdere». La Gmia e la Jambo Africa erano satelliti della Karibu, emanazioni della holding che negli anni ha ottenuto più di 60 milioni di fondi per l'accoglienza. 

Anche Margaret Mutio risulta socia della Karibu «Socia io? No, ho solo lavorato come operatrice nei centri di accoglienza della Karibu. Magari avessi preso i soldi come socia». Ribattiamo con la signora che il suo nome è stato inserito nel libro soci e lei esclama: «Nei miei conti non ho neanche un centesimo. Ho dovuto chiedere aiuto a degli amici italiani per pagare l'affitto e per mangiare. Venisse la Guardia di finanza a controllare. Se fossi socia mi spetterebbe una quota. Ma dalla Karibu e da Aid a me non è arrivato un euro per quel ruolo. Avrei dovuto anche conoscere tutti i progetti, le entrate, i guadagni, ma io non so nulla e sto morendo di fame».

Quindi Margaret era uno dei finti soci che serviva a garantire il rispetto della fondamentale prerogativa di una coop? La donna concorda: «Sì, per poi poter vincere i bandi. io sono solo una ex dipendente e non mi hanno liquidato neanche tutti i soldi che mi dovevano». Dunque nemmeno questa lavoratrice ha votato l'ultimo bilancio della Karibu, quello con un buco 2 milioni di euro di debiti? «Io stavo nelle strutture di accoglienza. Noi non sapevamo tante cose che competono ai soci e che si trovano nelle carte». 

Nella lista dei «fantasmi» si trova anche la ex presidente di Jambo Africa, Christine Ndyanabo K., cinquantaduenne ugandese. Ha lavorato tra il 2016 e il 2017 come dipendente part-time (salario tra i 14.000 e i 16.000 euro). Nel 2018 per sei mesi alla Karibu ha incassato 9.000 euro. Da dicembre 2018 ad aprile 2020 ha preso la disoccupazione. «Quando ero alla Jambo, la Karibu ci finanziava per fare la spesa e noi mandavamo le ricevute alla coop». Mutangana aveva una retribuzione di circa 40.000 euro.

«Macché» obietta la nostra interlocutrice piuttosto incredula. «Io no di sicuro. Io prendevo circa 7-800 euro al mese per il lavoro che facevo, che non era solo quello di presidente». Chiediamo a Christine se fosse socia e la replica anche questa volta è netta: «No, io ero solo una lavoratrice della Karibu. So che mettevano alcuni di noi come soci, ma non venivamo retribuiti per questo». In mezzo a tanti falsi soci, ce n'era una vera che nella scorsa primavera ha lasciato la barca che affondava. 

Si tratta di Liliane, la compagna di Soumahoro. Non sappiamo se la quarantacinquenne amante della moda, Aline e Richard siano usciti dalla Karibu e da Aid perché i conti stavano per saltare o perché avevano avuto notizia delle indagini in corso della Procura di Latina sulla presunta gestione truffaldina di fondi pubblici. Qualunque sia il motivo, il 13 maggio 2022, poche settimane prima di firmare l'acquisto della sua prima casa e di prendere l'ultima busta paga dalla Karibu, Liliane scrive alla madre, rivolgendosi a lei con l'ossequioso appellativo di «egregio presidente».

Una scrittura privata che nell'ultimo periodo è circolata anche dentro alla coop e di cui siamo entrati in possesso. È scritta a mano e l'intestazione con il vecchio indirizzo di casa di Liliane è in stampatello. Il testo è il seguente: «Come anticipato per le vie brevi, considerato che ho preso in data 4/4/2022 un'aspettativa e in data 11/4/2022 mi sono dimessa dal cda Karibu, confermo anche in questa breve missiva di essere tolta come socia della cooperativa. Con l'augurio di buon lavoro, colgo l'occasione per rinnovare i miei più sinceri sentimenti di stima». 

A luglio, come detto, Liliane prenderà l'ultima busta paga con tfr e il 30 agosto, invece, comparirà come segretario nel verbale di assemblea per l'approvazione del bilancio della coop. Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e «il consiglio di amministrazione al completo». Ma per gli ispettori ministeriali a quell'assemblea probabilmente non partecipò nessuno se non Marie Therese con i figli Liliane e Michel. Anche perché gli altri soci sembra proprio che non possedessero quote, né avessero voce in capitolo nelle decisioni della Karibu.

Soumahoro, "mai un attacco". Scandalo senza fine, cosa spunta adesso. Libero Quotidiano l’11 dicembre 2022

L'ex sindacalista Aboubakar Soumahoro urlava contro le istruzioni per i ghetti foggiani, in particolare Borgo Mezzanone. Contro tutti, tranne che contro "il colosso dell'accoglienza Meidhospes che a Roma agisce in regime di monopolio ed ha appalti in tutta Italia", riporta il Giornale. "La gestione-lager della cooperativa legata a Mafia Capitale, documentata dall'inchiesta di Fabrizio Gatti per l'Espresso e finita poi sotto inchiesta, non ha mai riguardato il deputato con gli stivali", si legge.

I fatti risalgono al 2017 quando Camillo Aceto, presidente della coop che al tempo si chiamava Senis Hospes, si aggiudica il bando per la gestione del CARA al gran ghetto di Borgo Mezzanone. La scoopvince a ribasso con con 15 milioni, "abbassando la diaria dei 30 euro per ogni migrante - come riportava il bando, anche se per legge dovrebbero essere 35 - a 22 euro. 'Un'offerta anormalmente bassa che suscita il sospetto della scarsa serietà', scrisse l'Autorità Nazionale Anticorruzione che rimase inascoltata. Il bando della prefettura fu infatti affidato comunque ad Aceto, fino a quando il Viminale non la revocò: 1400 migranti al posto di 636 scritti nel contratto, condizioni di vita disumane e un utile - per i gestori - di un milione di euro al mese".

Nel 2018, Soumahoro è nell'Usb e si fidanza con Liliane che era nel cda di Karibu di proprietà della madre - ora indagata per truffa aggravata - "che, scopriamo, lavorava proprio fianco a fianco de"Le Tre Fontane, di proprietà di Medihospes, con cui si divideva i migranti a Latina. Un intreccio tra Latina e Foggia nel completo silenzio di Soumahoro". Non solo. "Dopo lo sfratto dal ghetto foggiano si avvia una procedura aperta per la gestione del CARA di Borgo Mezzanone, questa volta divisa in lotti. Nel 2021 è il presidente della Regione Emiliano che firma un protocollo d'intesa 'per la riconversione di Borgo Mezzanone' tra Regione, Provincia, Prefettura e ministero dell'Interno mettendo in campo la cifra di poco più di due milione e mezzo di euro, che vanno aggiunti, peraltro, ai fondi Pnrr, 103 milioni, emessi dal governo Draghi per lo smantellamento dei ghetti foggiani", si legge ancora. E il 12 ottobre 2021 "risulta che la Regione Puglia abbia erogato un finanziamento che sul sito del ministero non compare - per la gestione del Lotto 1 e per il valore di 698mila euro. La causale è la stessa del maxi bando da 2 milioni e mezzo ma non presenta il nome dell'aggiudicatario". Quindi la domanda è: a chi sono andati quei soldi?

Il silenzio di Soumahoro sulla coop che gestiva il ghetto dei migranti. Contro tutti, ma non contro i potenti: nessuna protesta, nessuna proclamazione di "autogestione" sulla gestione del lager di Borgo Mezzanone. Ecco perché il sindacalista con gli stivali ha taciuto. Bianca Leonardi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

“Non possono appaltare la libertà dei braccianti”, “Libertà!”, “Via da qui”: questi gli slogan dell’ora deputato ed ex sindacalista Aboubakar Soumahoro contro la gestione istituzionale nei “suoi” ghetti foggiani, in particolare Borgo Mezzanone. Contro tutti, tranne uno: il colosso dell’accoglienza Meihospes, proprio quello che a Roma agisce in regime di monopolio, detenendo oltre il 63% dei centri di accoglienza della capitale.

Si scopre che la mega coop legata a Mafia Capitale ha un passato oscuro proprio nel ghetto-patria di Soumahoro. Era il 2017 quando Camillo Aceto, presidente al tempo di Senis Hospes e ora di Medihospes - stessa coop, ma con nome diverso - vince l’appalto per la gestione del Cara di Borgo Mezzanone. Un bando con una base d’asta di 21 milioni di euro per la gestione di un solo anno: una vincita che fin dall’inizio è apparsa controversa per svariati motivi. Al primo posto i legami tra Senis Hospes e il Gruppo La Cascina, presente in tutte le inchieste di Mafia Capitale e di cui proprio Aceto era il vicepresidente tanto che, al momento dell’aggiudicazione, proprio il protagonista aveva un avviso di garanzia legato a quei fatti. Ma c’è di più: le anomalie strettamente collegate a quel bando erano visibili fin dall’inizio a tutti, ma non hanno fermato l’aggiudicazione.

La base d’asta era appunto poco meno di 21 milioni di euro, ma la Senis Hospes propone un’offerta a ribasso - che gli permette di vincere - di 15 milioni mediante l’abbassamento della diaria sui migranti. Per legge il corrispettivo minimo da destinare ad ogni ospite dei centri accoglienza al giorno è di 35 euro, sul bando della Prefettura di Foggia era già ribassato a 30 euro ma Aceto propone soli 22 euro.

“Un’offerta anormalmente bassa, che suscita il sospetto della scarsa serietà”, affermò al tempo l’Autorità Nazionale Anticorruzione, che rimase però inascoltata. E Fabrizio Gatti - autore del dossier per l’Espresso “Sette giorni all’inferno” che ha permesso di avviare un’inchiesta dopo la documentazione delle condizioni inumane all’interno del ghetto - dichiarò: “La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità”.

E infatti le cose non andarono nel modo giusto: nel 2018 il Viminale decise di revocare la gestione a Senis Hospes, che incassava un utile di un milione di euro al mese, a causa delle condizioni in cui venivano fatti vivere i migranti/braccianti. Sovraffollamento al primo posto, con 1400 persone al posto di 636 scritti nel contratto, misure di sicurezza inesistenti, personale praticamente inesistente, condizioni igienico- sanitarie al limite del vivibile e lavoro in nero mediante caporali che sfruttavano i braccianti con turni massacranti di più di 12 ore.

A livello giudiziario, dopo l’apertura dell’inchiesta, non sono emerse conseguenze concrete nei confronti della coop, ne di Camillo Aceto, tanto che negli anni successivi si è espansa ancora di più su tutto il territorio italiano con la vincita - all’ordine del giorno - di appalti milionari. A livello politico, nemmeno.

Quello che incuriosisce è la figura di Aboubakar Soumahoro: proprio nel 2018 si fidanzava infatti con Liliane Murekatete, ai tempi nel cda della Karibu di proprietà della madre - che ora è indagata per truffa aggravata - e che a quel tempo collaborava a Latina proprio con una creatura di Aceto. Karibu e “Le Tre fontane” - ora inglobata in Medihospes e anch’essa nel ciclone di Mafia Capitale - si scopre che si “dividevano” i migranti sul territorio pontino. Un filo diretto tra Foggia e Latina, tra il ghetto del deputato con gli stivali e le vicende della famiglia di cui dice di aver mai saputo nulla.

Un silenzio, quello di Soumahoro, che pesa come un macigno considerando che la gestione della Senis Hospes è l’unica che non ha ricevuto le forti e potenti proteste di cui l’ex bracciante si è sempre fatto portavoce in nome dell’autogestione dei ghetti.

Quel finanziamento fantasma di Emiliano: il giallo delle coop per i migranti. Un'erogazione da parte della Regione Puglia, che non compare sul sito del Ministero dell'Interno e non presenta il nome dell'aggiudicatario, per la gestione di Borgo Mezzanone. Ma nel ghetto, al momento, non c'è nessuno. Bianca Leonardi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Le vicende legate al presunto “business migranti” e agli appalti milionari sui centri accoglienza continuano e sembrerebbe non si siano mai fermate. Come già abbiamo documentato, al centro di questo vortice c’è ancora la Medihospes, uno dei colossi dell’accoglienza che opera in tutt’Italia ma principalmente a Roma e in Puglia, dove ha anche la sede.

Ed è proprio in Puglia che la coop, legata a Mafia Capitale, è stata al centro di un’inchiesta a causa della gestione del ghetto di Borgo Mezzanone. Nel 2018, dopo un anno di presenza nella “casa” del deputato Soumahoro - che non ha mai proferito parola sulla questione - il Viminale decise di revocare il bando - che già in partenza presentava qualche magagna come già abbiamo raccontato - a causa delle condizioni inumane in cui venivano fatti vivere i migranti. La coop di Camillo Aceto, che al tempo si chiamava Senis Hospes, fu quindi “sfrattata” senza però conseguenze giudiziarie concrete. Subito dopo venne infatti indetto una nuova procedura aperta alla ricerca di un nuovo gestore per il Cara di Borgo Mezzanone, questa volta diviso in lotti per, come ha sottolineato il Presidente della Regione Michele Emiliano, evitare l’egemonia di una sola realtà.

Ed è sempre Emiliano che nel 2021 firma un protocollo d’intesa specifico sulla “riconversione di Borgo Mezzanone” tra Regione, Provincia di Foggia, Prefettura di Foggia e Ministro dell’Interno. Il nuovo bando mette sul tavolo la cifra di poco più di due milioni e mezzo di euro che vanno aggiunti, peraltro, ai fondi Pnrr emessi dal governo Draghi proprio per lo smantellamento dei ghetti foggiani e che corrispondono a 103 milioni di euro. L’iter di aggiudicazione va però a rilento e si protrae per anni così da sembrare più complesso e lungo del previsto. Consultando i documenti, infatti, si legge di un annullamento improvviso del bando, per poi tornare attivo solo pochi giorni dopo, il tutto senza il nome degli offerenti.

Poco chiara, però, è la scoperta de IlGiornale.it di un finanziamento fantasma da parte della Regione Puglia. Proprio il 12 ottobre 2021, nemmeno tre mesi dopo l’indizione del suddetto bando per “Interventi urgenti per la realizzazione di insediamenti per ospitalità migranti presso il Cara di Borgo Mezzanone”, compare un’erogazione di poco meno di 700mila euro da parte della Regione Puglia per l’affidamento di uno dei lotti. Affidamento che sul sito del Ministero dell’Interno non compare, nonostante il protocollo d’intesa sancisca la cooperazione tra gli enti. I dettagli, inoltre, non ci sono: è presente solo il nome dell’incaricato del procedimento - tale Roberto Polieri - ma il nominativo a cui è stato liquidato quell’importo non compare. Ma c’è di più: cercando di accedere alla documentazione, che dovrebbe essere pubblica, si legge: “la presente è riservata ai soli operatori invitati dalla stazione appaltante” e cioè dalla Regione Puglia.

I dubbi sembrerebbero inevitabili: a chi sono andati quei soldi e per quale reale motivo, visto che al momento Borgo Mezzanone non è gestito da nessuno?

Striscia, Soumahoro e i soldi spariti: la frase al telefono che può cambiare tutto. Libero Quotidiano il 13 dicembre 2022

A Striscia la Notizia arriva un'altra stoccata ad Aboubakar Soumahoro. Questa volta Pinuccio - l'inviato del tg satirico di Canale 5 -  indaga su una raccolta fondi a parte del parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi per l'emergenza Covid. Durante la pandemia, Soumahoro aveva organizzato una raccolta fondi per destinare aiuti a chi era in difficoltà, inclusi dispositivi come mascherine e altri strumenti per far fronte al pericolo contagio.

Poi sarebbe arrivato il grande giorno della consegna degli aiuti a Pescara. Ma a quanto pare come ha raccontato uno degli amici di Soumahoro, l'incontro è stato annullato. Insomma Soumahoro non avrebbe portato quello che aveva promesso. "Io conosco Aboubakar da anni, abbiamo anche diviso la casa insieme. Non avrei immaginato un simile comportamento", ha affermato l'amico di Soumahoro.

Poi arriva l'affondo: "Quella mattina tutti aspettavano Aboubakar per consegnare a chi li attendeva gli aiuti promessi. Mi è arrivata una telefonata, era Soumahoro e mi disse rimandiamo, non posso venire, rimandiamo", racconta l'amico del parlamentare. E di fatto quell'incontro per distribuire i dispositivi e i beni di prima necessità acquistati con la raccolta fondi, non venne mai recuperato. E a questo punto Pinuccio a Striscia la Notizia si pone una domanda importante: che fine hanno fatto quei soldi?

Comunicato stampa di “Striscia la notizia” il 13 dicembre 2022.

Stasera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) torna l’appuntamento con Pinuccio e il “caso Aboubakar”, con la seconda parte dell’intervista esclusiva a Yacouba Saganogo, sindacalista connazionale di Soumahoro e una delle prime persone che l’attuale onorevole ha incontrato al suo arrivo in Italia. 

“In ventidue anni in Italia non ho mai conosciuto la pacchia, ho dormito per strada, lavorato nei campi e sofferto per non riuscire a mangiare”, dichiarava un Aboubakar “stivalato” all’ingresso del Parlamento poco dopo l’elezione. Una versione della storia che non convince il suo storico amico:

«Abù non ha mai fatto il bracciante – racconta Saganogo – e non ha mai lavorato la terra. L’immagine di lui con gli stivali fuori dal Parlamento non mi è piaciuta, perché la verità è che gli stivali non li ha mai portati». «Gli interessava della propria immagine – continua Saganogo – e veniva nel ghetto solo per fare selfie e video, mentre quelli che lavoravano eravamo noi. Ha usato la Lega Braccianti e i migranti per fare carriera, ad alcuni ha anche promesso permessi di soggiorno che, ovviamente, non poteva procurare». 

 A differenza degli altri media, Striscia la notizia non si è occupata solamente dello scandalo delle cooperative sociali gestite dalla compagna e dalla suocera (indagata) dell’ex sindacalista ma dei fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Pinuccio, dei suoi due ex soci.

Striscia ha iniziato a contattare Soumahoro il 25 ottobre per intervistarlo e avere la sua versione della storia. Ecco le dieci domande (più una) a cui vorremmo da lui una risposta: 

1. Come sono stati spesi i fondi raccolti per la pandemia? 

2. A chi sono stati consegnati i regali della raccolta di Natale destinati ai bambini di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone? 

3. Quanti soldi sono stati raccolti su PayPal e sul suo conto corrente personale e come sono stati spesi i fondi di quelle collette? 

4. Come mai il rimpatrio della stessa salma è stato utilizzato come giustificativo di tre raccolte diverse? 

5. Nell’accordo col patronato cosa era previsto e perché i suoi ex soci riferiscono di percentuali sulle pratiche?

6. Ci può fornire il verbale dell'assemblea in cui sono stati estromessi i due soci fondatori della lega braccianti? 

7. Oltre al bilancio, è possibile vedere nel dettaglio le entrate e uscite dell’Associazione Terzo Settore Lega Braccianti? 

8. Ha mai fatto il bracciante agricolo in Italia? 

9. Con che fondi ha pagato la campagna elettorale? 

10. Gli stivali di gomma portati in parlamento sono suoi? 

11. Perché non voleva fare entrare altre associazioni all’interno del ghetto e doveva gestire tutto lui con la Lega Braccianti?

Striscia, l'amico disintegra Soumahoro: "A volte andava nel ghetto e..." Libero Quotidiano il 14 dicembre 2022

Striscia la Notizia continua a occuparsi del caso di Aboubakar Soumahoro. Stavolta Pinuccio si è recato a parlare con Yacouba Saganogo, sindacalista connazionale di Soumahoro nonché una delle prime persone che l’attuale onorevole ha incontrato al suo arrivo in Italia. Alcune dichiarazioni dell’amico hanno aiutato a fare ulteriormente luce sul passato del deputato autosospesosi dal gruppo di Sinistra Italiana/Verdi. 

Guarda il servizio sul sito di Striscia la Notizia

“Era solo un’immagine - ha esordito Saganogo ai microfoni di Striscia la Notizia - usava la Lega Braccianti per fare una carriera, ma la lotta non si fa questo motivo. Lui doveva trovare un posto dove mettersi per fare i video, sceglieva chi mettere avanti o dietro. A volte andava nel ghetto e faceva promesse ad alcuni ragazzi che sapeva di non poter mantenere, dato che non poteva firmare permessi di soggiorno o fare altre cose, però le prometteva”. Insomma, anche dalle parole di chi lo ha conosciuto bene in tutti questi anni emerge un Soumahoro completamente diverso da quello che è stato raccontato prima delle elezioni. 

“I ragazzi del ghetto lo vedevano come un idolo - ha aggiunto Saganogo - tutti gli credevano. Abu però non ha mai fatto il bracciante, non ha mai lavorato la terra. Siamo stati nel fango affianco ai ragazzi ma non abbiamo mai lavorato con loro, né io né Abu. Avrebbe dovuto portare in Parlamento la problematica dei migranti, non la sua immagine con gli stivali, questa è una cosa che mi ha deluso proprio. Gli stivali non li ha mai portati”. 

Edoardo Izzo per lastampa.it il 15 Dicembre 2022.

Indagata tutta la famiglia della moglie di Aboubakar Soumahoro. Al nome della suocera - Marie Therese Mukamitsindo - è stato aggiunto sul registro degli indagati quello di Liliane Murekatete e di Michel Rukundo, rispettivamente moglie e cognato del parlamentare che - si scopre oggi leggendo le 59 pagine dell'ordinanza del gip di Latina - sono entrambe figure centrali nell'inchiesta della procura. 

"Spregiudicatezza criminale”

Tutti e tre, infatti, «seppur allo stato formalmente incensurati, hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell'attuare un programma delinquenziale a gestione familiare protratto nel tempo e rivestendo le qualifiche societarie documentate in atti», si legge nelle carte. 

Alla suocera di Soumahoro - raggiunta dalla misura interdittiva del divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche - sono stati sequestrati, dalla Guardia di Finanza, oltre 600 mila euro. Mentre la moglie del parlamentare, indagata per la mancata vigilanza su alcune imposte per un importo di 13 mila euro, è stata raggiunta dalla sola misura interdittiva.

La misura è applicata dunque ai membri del Consiglio di amministrazione della cooperativa sociale integrata "Karibù" finita al centro degli accertamenti degli inquirenti nei mesi scorsi. L'inchiesta, più in generale, è quella condotta dalla procura di Latina sull'attività delle cooperative coinvolte nella gestione di richiedenti asilo e di minori non accompagnati nell'ambito della provincia del capoluogo laziale.

Intanto Soumahoro si difende. «Sono profondamente amareggiato, dispiaciuto e preoccupato per l’indagine che adesso vede coinvolta direttamente la mia compagna Liliene Murakatete che confido dimostrerà la sua innocenza - dice Soumahoro -. Per quanto appreso, attualmente la Cooperativa Karibù è commissariata per decreto del Ministero; sono intervenuti questa mattina provvedimenti di sequestro ed interdittivi. La situazione amministrativa della Coop. Karibù e del Consorzio AID è quindi congelata, in mano al ministero, in mano alla magistratura, nella quale ripongo la massima fiducia».

Gli accertamenti della Guardia di Finanza

Ma le carte dei pm di Latina - sulla scorta degli accertamenti fiscali della Guardia di Finanza - raccontano una verità diversa. La famiglia della moglie del parlamentare operava infatti con un sistema delle "scatole cinesi". 

«Dagli elementi acquisiti emergono indici univoci per ritenere la Jambo e il Consorzio Aid strutture satelliti riconducibili alla sola Karibu, risultando essere schermi fittizi per l'esecuzione di un illecito meccanismo fraudolento a gestione familiare», scrive infatti il giudice di Latina nell'ordinanza di 59 pagine che La Stampa ha potuto visionare.

Del cda di Karibù, dice in sintesi il giudice, hanno fatto parte la madre e i due figli; Aid è stata amministrata da Mukamitsindo, poi da Rokundo, e poi ancora da Rokundo insieme alla madre e a un'altra sorellastra, A.M., non indagata. 

Nel periodo di interesse la Jambo «nel 2018 segnala cinque dipendenti tra cui due, Richard Mutangana (indagato, ndr) e di nuovo A.M. figli della Mukamitsindo». Alcune testimonianze raccolte dalla magistratura confermano questo quadro. Secondo il gip questi elementi permetterebbero di affermare fin da subito «la fittizia interposizione della Jambo e del Consorzio Aid all'interno del meccanismo fiscale, al solo fine di creare costi in deduzione inesistenti e un giro di affari/spese presupposto dalle erogazioni pubbliche».

Ma quello che emerge già è «l'inesistenza assoluta o almeno relativa delle prestazioni sottese». Nel 2015 Karibu «ha inserito in contabilità costi non documentati (come alberghi, spese viaggio, manutenzione beni, pulizia) e costi relativi a fatture inesistenti emesse da Jambo per un totale di oltre 500 mila euro. Nel 2016 costi come «spese viaggio e trasferte, mautenzione beni, vitto e alloggio» e fatture «per operazioni inesistenti emesse dalla Jambo» per un totale di oltre 1,671 milioni di euro. Inoltre la Jambo «aveva la propria sede legale allo stesso indirizzo della Karibu, utilizzava lo stesso dominio web, non aveva utenze intestate né locali o beni in affitto».

Estratto dell’articolo di Antonio Padellaro per il “Fatto quotidiano” il 15 Dicembre 2022.

[…] Il fatto è che, a sinistra, l'acronimo Ong ha acquisito una sacralità intoccabile. Questo soprattutto per la vergognosa campagna della destra sovranista contro i salvataggi in mare delle navi umanitarie che ha come ipnotizzato la sinistra rendendola incapace di distinguere tra solidarietà, business e crimine. 

Il caso della cooperativa della suocera del deputato Soumahoro è l'ultimo tassello di una catena desolante che prospera nel campo dell'accoglienza con risultati eccellenti spesso soltanto per le tasche dei gestori. Mentre per immigrati, braccianti, disabili, famiglie disagiate rimane sempre notte fonda.

Tutte denunce che la sinistra ha rinunciato a fare proprie tempestivamente e di cui, infatti, la destra si è appropriata sparando a palle incatenate. Con il risultato che oggi i vari Letta, Speranza, Fratoianni sulle Ong "per far girare i soldi" cadono dal pero. Mentre gli intellettuali al seguito dibattono appassionatamente sul diritto al lusso di Madame Soumahoro.

(ANSA il 15 Dicembre 2022) - "La signora Murekatete si dichiara assolutamente estranea rispetto ai fatti contestatile, che peraltro riguardano un presunto danno erariale di 13mila euro, e siamo certi che a breve, anzi a brevissimo, verrà fatta chiarezza e dimostrata la totale innocenza della mia assistita". E' quanto fa sapere Lorenzo Borrè, legale di Liliane Murekatete.

Giacomo Galeazzi per lastampa.it il 15 Dicembre 2022.

Liliane Murekatete, la moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, è indagata dalla Procura di Latina nell'ambito dell'inchiesta legata alle cooperative pro migranti Karibu e Aid. Con lei, come già noto, c'è la madre Marie Terese Mukamitsindo, suocera dunque del deputato, ma anche altri quattro nomi. Sarebbero dunque almeno sei gli indagati per la vicenda.

La procura di Latina ha applicato nei confronti del consiglio di amministrazione della cooperativa Karibu, riferibile ai familiari del deputato Aboubakar Soumahoro, la misura cautelare interdittiva del divieto di contrattare, per un anno, con la pubblica amministrazione e di esercitare per lo stesso periodo imprese e uffici direttivi di persone giuridiche.

E' stato poi applicato il sequestro preventivo "del profitto del reato" per oltre 639mila euro nei confronti di un indagato e di oltre 13 mila nei confronti di altri due indagati. 

Reati tributari

Il riferimento è a reati tributari: fatture "per operazioni inesistenti" tra il 2015 e il 2019. «La signora Murekatete si dichiara assolutamente estranea rispetto ai fatti contestatile, che peraltro riguardano un presunto danno erariale di 13mila euro, e siamo certi che a breve, anzi a brevissimo, verrà fatta chiarezza e dimostrata la totale innocenza della mia assistita», afferma l'avvocato Lorenzo Borrè, legale di Liliane Murekatete.La moglie del deputato, secondo quanto si legge nell'ordinanza del Gip di Latina, in concorso col fratellastro Michel Rokundo (anche lui indagato), e con la madre di entrambi Mukamitsindo, nella loro qualità di consiglieri di amministrazione della Karibu dal 2018 a oggi "al fine di evadere l'imposta sui redditi e sul valore aggiunto indicavano (o omettevano di vigilare affinché altri e in particolare la Mukamitsindo indicassero) elementi passivi fittizi" nella dichiarazione dell'anno di imposte 2019, «utilizzando fatture relative a operazioni inesistenti emesse dall'associazione di promozione sociale “Jambo Africa”, per un imponibile complessivo di 55.701 euro, con Ires dovuta e evasa pari a complessivi 13.368 euro».

 Liquidazione coatta

Intanto ieri «presso l'Ispettorato territoriale del Lavoro di Latina abbiamo avuto una convocazione senza esito per altri 5 lavoratori ex Karibu per notevoli stipendi non pagati: i rappresentanti di Karibu e Aid non si sono presentati, inviando una missiva la quale asserisce che loro non hanno più titolarità a seguito del procedimento attivato dal ministero delle Imprese», che aveva prospettato per Karibu la liquidazione coatta per troppi debiti e per Aid lo scioglimento per irregolarità non sanabili», rende noto il sindacato Uiltucs di Latina, che segue gli ex dipendenti delle due cooperative riferibili ai familiari del deputato Aboubakar Soumahoro.

«Continua a salire il contatore degli stipendi non pagati», aggiunge il sindacato . Nella giornata di ieri «i 5 lavoratori attendevano la presidente per gridare e rivendicare il salario. Il confronto è rinviato al momento in cui verrà ufficializzato il commissario»,sottolinea la Uiltucs Latina che, prendendo atto della mancata presenza della presidente Marie Terese Mukamitsindo (suocera di Soumahoro, ndr), attiverà tutte le procedure del caso affinché anche questi altri lavoratori percepiscano i salari non corrisposti». 

Tavolo

«Come richiesto dalla Uiltucs Latinail prefetto ha convocato tutte le parti, comprese le associazioni datoriali che in territorio Pontino si occupano di accoglienza e integrazione degli immigrati, affidatari degli appalti dei vari enti che da tempo accolgono e svolgono servizi attraverso progetti e stanziamenti di risorse pubbliche», comunica il sindacato, che segue il caso degli ex dipendenti delle cooperative riferibili alla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro.

«La Uiltucs Latina - è spiegato - intende affrontare le tante criticità scaturite dalla gestione delle cooperative Karibu e Aid. Ancora oggi tanti dipendenti sono senza salario e senza occupazione. In ultimo, l'azzeramento degli appalti Karibu e Aid ha determinato ulteriori perdite di posti di lavoro». Queste figure professionali - evidenzia il sindacato - «debbono essere ricollocate, la cattiva gestione delle Cooperative oggetto di indagine non deve ricadere sui lavoratori già devastati dalle mancate retribuzioni non corrisposte dai rappresentanti della Karibu e Aid». 

Ai datori di lavoro e ai soci, rimarca la Uiltucs, «i compensi venivano erogati, ma per i lavoratori non c'erano stipendi, a loro dire a causa dei ritardi degli enti" nell'effettuare i pagamenti. Il tavolo deve avere un obiettivo ben chiaro: il modello di accoglienza e integrazione deve dimenticare il sistema Karibu e Aid.

Per noi bisogna con urgenza sottoscrivere un protocollo del settore con tutte le parti con degli impegni precisi, per il lavoro dignitoso, verificare le condizioni degli operatori oggi in forza alle coop, gestori dei progetti e nuove affidatarie degli appalti Karibu e Aid. Il tutto anche a beneficio della collettività». 

Alla Uiltucs Latina si sono rivolti tanti ospiti minori i quali denunciavano condizioni disagiate. Il salario non pagato da mesi - conclude la nota sindacale- «rimane la difficoltà principale, la sostituzione del pagamento deve essere applicata come ha fatto la prefettura nei giorni scorsi, gli enti gestori dei progetti devono rispondere nell'immediatezza», e anche questo sarà il tema della discussione di oggi.

(ANSA il 15 Dicembre 2022) La procura di Latina ha applicato nei confronti del consiglio di amministrazione della cooperativa Karibu, riferibile ai familiari del deputato Aboubakar Soumahoro, la misura cautelare interdittiva del divieto di contrattare, per un anno, con la pubblica amministrazione e di esercitare per lo stesso periodo imprese e uffici direttivi di persone giuridiche. E' stato poi applicato il sequestro preventivo "del profitto del reato" per oltre 639mila euro nei confronti di un indagato e di oltre 13 mila nei confronti di altri due indagati. Il riferimento è a reati tributari: fatture "per operazioni inesistenti" tra il 2015 e il 2019.

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 15 Dicembre 2022.

Non avevano neppure il Durc in regola. Come un tassista lasciato libero di scarrozzare clienti da un angolo all'altro della capitale, salvo poi scoprire al primo posto di blocco che non aveva la patente, la cooperativa Karibu ha fatto affari per nove anni con il Campidoglio salvo poi emergere, con i controlli disposti sulla scorta del «clamore mediatico», che non aveva il Documento unico di regolarità contributiva a posto. 

Tanto che le ultime fatture sono state bloccate da Roma Capitale, che provvederà a versare le somme necessarie all'Inps al posto delle cooperative della suocera e della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Il particolare, l'ennesima conferma del mancato versamento dei contributi da parte di quelle coop al centro di un'articolata inchiesta della Procura della Repubblica di Latina, è emerso ieri in Commissione trasparenza. […]

La dirigente Angelina Di Prinzio e l'assessora alle politiche sociali Barbara Funari hanno così specificato che la coop di Maria Therese Mukamitsindo e Liliane Murekatete ha iniziato ad avere rapporti con il Campidoglio nel 2013. E dunque quando Gianni Alemanno ha ceduto la guida della città a Ignazio Marino. 

La dirigente e l'assessora hanno poi precisato che per la coop c'è stato un impegno di spesa di 4 milioni 679mila euro e che sono stati pagati circa 3 milioni di euro. Ma è poi anche stato evidenziato che le ultime fatture, una da 49mila euro e una da 12mila, non sono state pagate essendo stato accertato, una volta fatti i controlli, che la coop non aveva il Durc in regola. […]

Il Campidoglio, dopo che la Prefettura di Latina ha tolto alle coop della famiglia di Soumahoro la gestione dei centri di accoglienza, ha intanto deciso di spostare sette minori che erano ospiti di una struttura di Karibu e sulla cooperativa verranno effettuati ulteriori approfondimenti. 

In Commissione trasparenza è stato infine evidenziato che con l'ospitalità dei migranti minorenni c'è anche un ulteriore problema. Essendo troppi i minori da ospitare e in attesa che venga sistemato uno stabile di proprietà comunale, Roma Capitale utilizza ben 102 strutture fuori regione. «In quelle strutture - ha dichiarato la dirigente - i controlli sono difficili».

I documenti che accusano la compagna e suocera di Soumahoro: “Hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Dicembre 2022

Tutta la famiglia della moglie di Aboubakar Soumahoro è indagata : finiscono nei guai Liliane Murekatete e di Michel Rukundo, moglie e suocera del deputato

Indagata tutta la famiglia della moglie di Aboubakar Soumahoro. Nel registro degli indagati della Procura di Latina accanto al nome della suocera Marie Therese Mukamitsindo si sono aggiunti quello di Liliane Murekatete e di Michel Rukundo, rispettivamente moglie e cognato del parlamentare che dalla lettura delle 59 pagine dell’ordinanza del Gip del Tribunale di Latina, hanno due ruoli al centro dell’inchiesta della procura. Dalle carte si legge che tutti e tre “seppur allo stato formalmente incensurati, hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale a gestione familiare protratto nel tempo e rivestendo le qualifiche societarie documentate in atti” . Indagato anche Richard Mutangana, l’altro cognato di Soumahoro che era intervenuto durante le polemiche che avevano investito Liliane per i suoi vestiti e borse firmate.  Il numero complessivo sale a sei indagati.

La Guardia di Finanza ha sequestrato oltre 600 mila euro alla suocera di Soumahoro a seguito della misura interdittiva del divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche . Il riferimento è a reati tributari: fatture “per operazioni inesistenti” tra il 2015 e il 2019. Liliane Murekatete moglie del parlamentare Soumahoro, è stata indagata per la mancata vigilanza su alcune imposte per un importo di 13 mila euro, al momento è stata raggiunta dalla sola misura interdittiva.

Secondo la procura di Latina il ruolo di Liliane non è marginale né  relativo solo al passato. Nelle carte dell’inchiesta si legge che la donna e Michel “in concorso tra loro e con Mukamitsindo, nella loro qualità di consiglieri del cda della Karibu dal 3 aprile 2018 a oggi,  al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto indicavano elementi passivi fittizi o, comunque omettevano di vigilare affinché altri, in particolare la Mukamitsindo, li indicassero“. A questi fini “utizzavano fatture relative a operazioni inesistenti”. Liliana Murekatete, secondo quanto si legge nell’ordinanza del Gip di Latina, in concorso col fratellastro Michel Rokundo (anch’egli indagato), e con la madre di entrambi Mukamitsindo, nella loro qualità di consiglieri di amministrazione della Karibu dal 2018 a oggi “al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto indicavano (o omettevano di vigilare affinché altri e in particolare la Mukamitsindo indicassero) elementi passivi fittizi” nella dichiarazione dell’anno di imposte 2019, “utilizzando fatture relative a operazioni inesistenti emesse dall’associazione di promozione sociale ‘Jambo Africa’“, per un imponibile complessivo di 55.701 euro, “con Ires dovuta e evasa pari a complessivi 13.368 euro“.

Secondo quanto riporta l’ordinanza del gip: “L’indagine ed il correlato procedimento penale ricostruiscono un collaudato sistema fraudolento fondato sull’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivarnente e oggettivamente inesistenti e altri costi inesistenti adoperati dalla Karibu nelle dichiarazioni relative agli anni 2015-2016- 2017- 2018 e 2019 non solo con la specifica finalità evasiva ma per giustificare in sede di rendicontazione la richiesta di finanziamenti alla Direzione Centrale del sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati”.

La misura interdittiva è applicata dunque ai membri del Consiglio di amministrazione della cooperativa sociale integrata “Karibù” finita al centro degli accertamenti degli inquirenti nei mesi scorsi. “La signora Murekatete si dichiara assolutamente estranea rispetto ai fatti contestatile, che peraltro riguardano un presunto danno erariale di 13mila euro, e siamo certi che a breve, anzi a brevissimo, verrà fatta chiarezza e dimostrata la totale innocenza della mia assistita“. dichiara l’avvocato Lorenzo Borrè, difensore di Liliane Murekatete.

L’inchiesta viene condotta dalla procura di Latina sull’attività delle cooperative coinvolte nella gestione di richiedenti asilo e di minori non accompagnati nell’ambito della provincia del capoluogo laziale. Aboubakar Soumahoro si difende. “Sono profondamente amareggiato, dispiaciuto e preoccupato per l’indagine che adesso vede coinvolta direttamente la mia compagna Liliene Murakatete che confido dimostrerà la sua innocenza – dice Soumahoro -. Per quanto appreso, attualmente la Cooperativa Karibù è commissariata per decreto del Ministero; sono intervenuti questa mattina provvedimenti di sequestro ed interdittivi. La situazione amministrativa della Coop. Karibù e del Consorzio AID è quindi congelata, in mano al ministero, in mano alla magistratura, nella quale ripongo la massima fiducia”.

Il Comune di Roma ha versato in nove anni fino a 3 milioni di euro alla cooperativa Karibu. Ma poi nel dibattito in Commissione Trasparenza in Campidoglio è venuto alla luce che non era in regola . E’ stata la “scoperta” di un’irregolarità alla base dello stop ai pagamenti. La dirigente Angelina Di Prinzio e l’assessora alle politiche sociali Barbara Funari hanno spiegato che la coop di Maria Thérèse Mukamitsindo e di Liliane Murekatete ha iniziato ad avere rapporti con il Campidoglio nel 2013, cioè nell’anno del passaggio di consegne tra il sindaco uscente Gianni Alemanno e quello entrante Ignazio Marino. Il Campidoglio aveva un impegno di spesa con la coop Karibù pari a 4 milioni e 679 mila euro. dei quali sono stati pagati soltanto 3. Anche le ultime fatture, da 49 mila e 12 mila euro, non sono state liquidate in quanto la coop non aveva il “Durc” in regola.

Il “Durc” è il Documento Unico di Regolarità Contributiva. Si tratta dell’attestazione della regolarità dei pagamenti all’Inps, all’Inail e alla Cassa Edile. Dal 2009 è obbligatorio per le ditte che lavorano in regime di appalto o subappalto. La regolarità della contribuzione si può verificare online. La risultanza ha una validità di 120 giorni. “Abbiamo fatto un intervento sostitutivo con l’Inps – ha affermato la dirigente Di Prinzio – abbiamo fatto richiesta della certificazione antimafia e anche della cessione del credito“. Il Campidoglio dopo la prefettura di Latina ha deciso di togliere alle coop della famiglia di Aboubakar Soumahoro la gestione dei centri di accoglienza sul suo territorio. Ed ha deciso di spostare sette minori sinora ospitati dalla cooperativa Karibu.

Redazione CdG 1947

"Importi contabilizzati per trasferire denaro all'estero". Il gip smaschera le coop dei Soumahoro. Dall'ordinanza della procura di Latina emergono dettagli sui rapporti tra le coop e la società Jambo Africa che avrebbe veicolato denaro all'estero. Tonj Ortoleva il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Le cooperative Karibu e Aid contabilizzavano alcuni importi per trasferire soldi all’estero? È questa la domanda a cui la procura di Latina sta cercando risposta nell’inchiesta sulle cooperative gestite dalla famiglie del parlamentare Aboubakar Soumahoro. Nel registro degli indagati ci sono sei iscritti, tra dei quali imparentati col deputato: la suocera Marie Therese Mukamatsindo, la moglie Liliane Murekatete e il cognato Michel Rukundo.

Nuova tegola sui Soumahoro: adesso è indagata pure la moglie

Società “fittizie” per far transitare denaro

Il sospetto della procura è messo nero su bianco dall’ordinanza del gip Giuseppe Molfese che analizza nello specifico i documenti finanziari relativi ai rapporti tra la cooperativa Karibu e la società Jambo Africa: “Gli importi contabilizzati non solo non si riferiscono ad attività sociali, peraltro con prestazioni mai effettuate, ma addirittura sembrerebbero strumento per veicolare il trasferimento di denaro dalla Karibu alla Jambo e da quest'ultima all'estero”. Accuse pesanti che vanno a coinvolgere altri tre indagati: Mutangana Richard, Ada Ndongo Ghislaine e Kabukoma Christine Ndyanabo Koburangyira. Tutti e tre sono stati, negli anni, dal 2014 ad oggi, legali rappresentanti dell associazione di promozione sociale Jambo Africa, che ha sede a Sezze, in provincia di Latina. Una sede che per molto tempo è stata la stessa della cooperativa Karibu. Il gip spiega:“Dall'informativa della Guardia di finanza si legge: 'dal collegamento con la banca dati Inps è stato accertato che nel 2019 la Jambo non risulta avere alcun dipendente; dall'accesso alla banca dati Anagrafe Tributaria, l'associazione 'Jambo non ha presentato alcun rnod. 770 per l'anno d'imposta 2019 - scrive il gip - l'associazione nel 2019 risulta aver ricevuto dalla Karibu dei bonifici utilizzati sistematicamente per disporre bonifici anche verso l'estero a diversi soggetti”. La Jambo avrebbe dovuto fornire servizi legati all’accoglienza ma, stando alle indagini, “non risultava dotata di risorse per realizzare le prestazioni previste”.

"Spregiudicatezza criminale". Le carte inchiodano moglie e suocera Soumahoro

Le indagini della finanza e i bonifici all’estero

Nel corso delle indagini svolte dalla guardia di finanza e ricostruite nell’ordinanza, emerge un fatto curioso. Secondo gli inquirenti nel 2019 la Jambo Africa non aveva alcun dipendente e formalmente aveva smesso di esistere e prestare servizi. Eppure “l’associazione risulta aver ricevuto, nel 2019, bonifici dalla Karibu utilizzati per disporre sistematicamente bonifici anche verso l’estero a diversi soggetti, tra i quali un altro figlio della Mukamatsindo, l’allora moglie di Mutangana e la Karibu RW”. Per questi motivi, conclude il gip, “gli importi contabilizzati non solo non si riferiscono ad attività sociali, peraltro con prestazioni mai effettuate, ma addirittura sembrerebbero strumento per veicolare il trasferimento di denaro dalla Karibu alla Jambo e da quest’ultima all’estero”.

"Spregiudicatezza criminale". Ecco le carte che inchiodano moglie e suocera Soumahoro. Nell'ordinanza il gip parla di "un collaudato sistema fraudolento fondato sull'emissione e l'utilizzo di fatture per operazioni soggettivarnente e oggettivamente inesistenti". Tonj Ortoleva il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Liliane Murekatete, moglie del deputato Soumahoro, risulta indagata dalla procura di Latina nell'ambito dell'inchiesta sui fondi percepiti dalla cooperativa Karibu per l'accoglienza dei migranti. Oltre a lei sono indagati la madre Marie Therese Mukamitsindo e il fratello, Michel Rukundo. Secondo quanto si legge nell'ordinanza del Gip di Latina Giuseppe Molfese, in concorso col fratello e con la madre, nella loro qualità di consiglieri di amministrazione della Karibu dal 2018 a oggi "al fine di evadere l'imposta sui redditi e sul valore aggiunto indicavano (o omettevano di vigilare affinché altri e in particolare la Mukamitsindo indicassero) elementi passivi fittizi, utilizzando fatture relative a operazioni inesistenti emesse dall'associazione di promozione sociale 'Jambo Africa'", per un imponibile complessivo di 55.701 euro, "con Ires dovuta e evasa pari a complessivi 13.368 euro". I tre, "seppur allo stato formalmente incensurati, hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell'attuare un programma delinquenziale a gestione familiare protratto nel tempo e rivestendo le qualifiche societarie documentate in atti".

Quelle società ritenute "schermi fittizi"

L'inchiesta della procura di Latina ha al momento 5 persone sul registro degli indagati. Oltre a Mukamitsindo, Murekatete e Rukundo, ci sono Richard Mutangana, Ghislaine Ada Ndongo e Christine Kabukoma. Secondo quanto riporta l'ordinanza del gip: "L'indagine ed il correlato procedimento penale ricostruiscono un collaudato sistema fraudolento fondato sull'emissione e l'utilizzo di fatture per operazioni soggettivarnente e oggettivamente inesistenti e altri costi inesistenti adoperati dalla Karibu nelle dichiarazioni relative agli anni 2015-2016- 2017- 2018 e 2019 non solo con la specifica finalità evasiva ma per giustificare in sede di rendicontazione la richiesta di finanziamenti alla Direzione Centrale del sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati".

L'ordinanza si è concentrata su una serie di documenti contabili relativi agli anni in cui la cooperativa Karibu ha gestito il servizio di accoglienza dei migranti per i servizi Cas e Sprar. Sempre il gip Molfese scrive nell'ordinanza: "occorre inquadrare i rapporti tra Karibu, beneficiaria delle fatture indicate in dichiarazione, e le emittenti Jambo e Consorzio Aid Italia. Dagli elementi acquisiti emergonoindici univoci per ritenere la Jambo e il Consorzio Aid strutture satelliti riconducibili alla solaKaribu, risultando essere schermi fittizi per l'esecuzione di un illecito meccanismo fraudolento a gestione familiare".

Il gip prosegue scrivendo che la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, Marie Therese Mukamatsindo, e i figli Michel Rukundo e Liliane Murekatete, "hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell'attuare un programma delinquenziale, a gestione familiare, protratto nel tempo e rivestendo le qualifiche societarie documentate in atti".

La procura sequestra oltre 650mila euro

La procura di Latina ha applicato nei confronti del consiglio di amministrazione della cooperativa Karibu la misura cautelare interdittiva del divieto di contrattare, per un anno, con la pubblica amministrazione e di esercitare per lo stesso periodo imprese e uffici direttivi di persone giuridiche.Inoltre è stato applicato un sequestro preventivo pari a oltre 639 mila euro nei confronti di Marie Therese Mukamitsindo e di oltre 13 mila euro nei confronti di altri due indagati. Sulle misure interdittive applicate, l'ordinanza precisa come "d'altra parte, le misure interdittive temporanee applicate per la durata massima di un anno, svolgeranno funzione preventiva, scongiurando non solo la prosecuzione delle condotte illecite nelle cariche societarie ad oggi ricoperte ma, altresì l'eventuale ulteriore attività mediante altri enti di nuova costituzione. Se infatti, indubbiamente Maria Terese Mukamitsindo ha svolto e svolge un ruolo centrale nella dinamica delittuosa, anche i figli Michel e Liliane hanno offerto consapevole e attiva partecipazione al meccanismo fraudolento prospettato".

Nei centri di accoglienza "scarsa qualità dei servizi erogati"

Non solo gli accertamenti fiscali, nel provvedimento della procura di Latina si fa riferimento anche alla gestione effettiva dei centri di accoglienza e il giudizio non è per nulla positivo. Scrive il gip Giuseppe Molfese nell'ordinanza che emergono "allarmanti accertamenti sulla qualità dei servizi erogati - effettiva finalità dei progetti pubblici - come relazionati all'esito delle verifiche ispettive eseguite presso le varie strutture di accoglienza segnalando tra l'altro il sovrannumero di ospiti, le carenti condizioni igieniche, l'assenza di derattizzazione e deblattizzazione, nonché più genericamente la scarsità delle prestazioni fornite".

"Operazioni inesistenti". Ecco il ruolo di Michel Rukundo, il fratellastro della moglie di Soumahoro. Anche lui indagato come amministratore della Karibu e del consorzio Aid. La procura gli sequestra 13 mila euro e gli contesta un giro di fatture fittizie. Tonj Ortoleva il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

C’è anche Michel Rukundo tra i sei indagati dalla procura di Latina nell’inchiesta relativa all'attività delle coop coinvolte nella gestione di richiedenti asilo e di minori non accompagnati. Dalle indagini, parole del gip, emerge “un collaudato sistema fraudolento fondato sull'emissione e l'utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti e altri costi inesistenti adoperati dalla Karibu”. Rukundo è il fratellastro di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Sono entrambi figli di Marie Therese Mukamitsindo.

Dalla laurea alla guida del consorzio Aid

Michel Rukundo nasce in Ruanda, a Ngoma, il 25 aprile del 1985. Dal sito BlackPost con cui collabora scopriamo che “fuggito dal Ruanda, con la famiglia, a causa della guerra civile e del genocidio, è arrivato in Italia nel 1994. Consegue la laurea in Relazioni Internazionali e Scienze politiche presso l’Università Roma Tre e presso la stessa, un successivo master in Imprese Cooperative. Il suo percorso formativo continua con un master in euro progettazione, a Bruxelles. Rappresenta la società cooperativa Aid Italia – agenzia per i diritti, ente attivo nell’ambito dell’accoglienza globale, nonché alla cooperazione internazionale, nell’ambito del nuovo paradigma della cooperazione sostenibile, oltre che all’attività divulgativa”. Nel corso degli anni in cui Karibu gestiva l’accoglienza dei migranti nei centri della provincia di Latina, Michel Rukundo è stato componente del consiglio di amministrazione assieme alla madre Marie Therese Mukamitsindo e alla sorellastra Liliane Murekatete. Inoltre, Rukundo era amministratore anche del consorzio Aid, altra cooperativa protagonista del sistema di accoglienza dei migranti in provincia di Latina.

Le contestazioni della procura e il sequestro preventivo

La procura di Latina gli contesta una serie di reati tributari che avrebbe commesso alla guida del consorzio Aid, altra cooperativa sociale orbitante nella sfera di controllo della famiglia del deputato Soumahoro. Secondo il gip, Rukundo, quale amministratore unico del consorzio Aid e successivamente presidente del consiglio di amministrazione, “al fine di consentire alla società cooperativa l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto emetteva nei confronti di detta società fatture relative ad operazioni inesistenti relative all’anno d’imposta 2017 per complessivi euro 28.137, 50 euro e per un imponibile di ammontare complessivo pari a 26.797,62 euro con IVA dovuta pari a 1.339,88 all’anno d’imposta 2018 per complessivi euro 6.400 euro e per un imponibile di ammontare complessivo pari a 6.095,24 euro con Iva dovuta pari a 304,76 euro”

Sempre dall'ordinanza, il giudice sottolinea come "i tre indagati (Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo, ndr) seppur allo stato formalmente incensurati hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale a gestione familiare protratto nel tempo e rivestendo le qualifiche societarie documentate”. A Rukundo sono stati sequestrati preventivamente 13.368,42 euro su disposizione della procura di Latina.

Nuova tegola sui Soumahoro: adesso è indagata pure la moglie Liliane Murekatete. Liliane Murekatete è indagata insieme alla madre e ad altre persone per la gestione dei centri di accoglienza affidati alla cooperativa Karibu. Sequestrati 600 mila euro alla suocera di Soumahoro. Tonj Ortoleva il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, risulta è indagata dalla procura di Latina nell'indagine sulla gestione dei fondi per l'accoglienza dei migranti destinati alla cooperativa Karibu. Sarebbero complessivamente sei le persone iscritte nel registro degli indagati.

La vicenda legata alla gestione dei centri di accoglienza

Murakatete è indagata assieme alla madre, Marie Therese Mukamitsindo e ad un fratello. Nei confronti della madre di Murakatete, suocera di Soumahoro, è stato disposto proprio in queste ore dalla procura di Latina il sequestro di oltre 600mila euro. A eseguire il provvedimento è stato il nucleo di polizia economica e finanziaria della gurdia di finanza, con l'ausilio del personale della sezione di polizia giudiziaria della polizia di Stato. Per la precisione, alla signora Mukamitsindo, indagata, sono stati sequestrati oltre 639mila euro. altri 15mila euro sono stati sequestrati agli altri due indagati, per un totale di oltre 650mila euro. Il riferimento è a reati tributari di fatture "per operazioni inesistenti" tra il 2015 e il 2019. La nota in merito della procura di Latina spiega che è stato disposto anche "il sequestro preventivo a fini di confisca, anche per equivalente, del profitto del reato, sino alla concorrenza di 639.455,28 nei confronti di un indagato e di 13.368,42 nei confronti di altri due indagati".

Altra batosta sui Soumahoro: 600mila euro sequestrati alla suocera

La moglie del deputato finisce indagata

La svolta nell'inchiesta della procura di Latina arriva nella giornata odierna e l'iscrizione nel registro degli indagati della moglie del deputato Soumahoro segna un passo avanti nella vicenda. Liliane Murakatete, negli anni in cui l'indagine si concentra, è stata componente del consiglio di amministrazione. Inoltre nelle varie denunce presentate in particolare dai sindacati e da ex lavoratori, Murakatete era sempre chiamata in causa rispondendo delle varie questioni sollevate. L'indagine della procura di Latina e i provvedimenti, secondo quanto confermato dagli inquirenti, si concentra sui reati tributari e dunque sull'ipotesi di fatturazioni non conformi e dunque ritenute sospette. Secondo informazioni c'è un altro filone di indagine, stavolta affidato ai carabinieri, che valuta altre denunce legate all'accoglienza dei migranti. Liliane Murekatete si dice però estranea ai fatti. L'avvocato Lorenzo Borrè, che ne tutela gli interessi, fa sapere che "la signora Murekatete si dichiara assolutamente estranea rispetto ai fatti contestatile, che peraltro riguardano un presunto danno erariale di 13mila euro, e siamo certi che a breve, anzi a brevissimo, verrà fatta chiarezza e dimostrata la totale innocenza della mia assistita".

Zona bianca, "davvero non sapevate nulla di Sumahoro?". La Evi balbetta. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.

A Zona Bianca si parla del caso Soumahoro. Ospite di Giuseppe Brindisi, nella puntata del 4 dicembre, c'è Eleonora Evi di Europa Verde, la quale, incalzata dalle domande del conduttore, si mette praticamente a balbettare: "Davvero nessuno sapeva nulla delle ombre sulla cooperativa di Soumahoro?", chiede Giuseppe Brindisi. "No non lo sapevamo", risponde imbarazzata la Evi. "Obiettivamente facciamo un mea culpa, ci prendiamo tutta la responsabilità di aver fatto delle valutazioni e un esame sui profili non così approfondita". Però prova a difendersi e difendere il suo partito che ha candidato Aboubakar Soumahoro: "Non siamo però una polizia giudiziaria, la sua fedina penale era pulita. Abbiamo fatto delle scelte cercando dei profili, la sua storia parla per lui". 

E ancora, si arrampica sui vetri Eleonora Evi: "C'è stata una gogna mediatica, un accanimento mediatico molto forte". Ma a quel punto Roberto Poletti che è ospite in studio perde la pazienza e le fa notare che "Soumahoro prenderà 15mila euro al mese per cinque anni, compresa la buona uscita gli daremo un milione di euro". E affonda: "E voi dite vabbè, è stato uno sbaglio, la giustizia farà il suo corso... Ci sono dei servizi giornalistici di Striscia la notizia che provano raccolte fondi quantomeno sospette".  

Adesso Gad Lerner difende Soumahoro: "Accanimento quasi morboso". Il giornalista si schiera col deputato: "Nei suoi confronti c'è un senso di rivalsa. State ingigantendo una vicenda che riguarda la suocera". Luca Sablone il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La sinistra non riesce ancora a farsene una ragione. Il caso Aboubakar Soumahoro rappresenta un forte imbarazzo a prescindere dal corso che la giustizia farà: è una vicenda politica che, ancora una volta, ha smascherato l'inconsistenza degli slogan teorici e la fragilità con cui il fronte rosso ha dipinto l'italo-ivoriano come potenziale leader per le sue parole a difesa dei migranti e dei lavoratori sfruttati. Gli ultimi sviluppi hanno messo in soggezione la sinistra, ma c'è chi come Gad Lerner non si rassegna e non si dà pace.

Il giornalista de Il Fatto Quotidiano ha voluto prendere le difese del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana, schierandosi dalla sua parte e puntando il dito contro chi - a suo giudizio - accentua i contorni della vicenda in modo inappropriato: "È evidente che nei suoi confronti c'è un accanimento speciale, quasi morboso. C'è un gusto, un senso di rivalsa dovuto al fatto che abbiamo smascherato un furbo?".

Gad Lerner ha voluto sottolineare che al momento Soumahoro è fuori dalla questione giudiziaria e tende a escludere che possa aver commesso dei reati in tal senso. Ha parlato di "compiacimento" per il comportamento che si adotta quando si affronta il caso Soumahoro e ha lanciato un'accusa ben precisa: "State ingigantendo una vicenda che riguarda la suocera o quasi suocera". "Il fatto che questi invisibili abbiano trovato come portavoce la persona che poi è caduta nel discredito dà quasi un senso di sollievo...", ha aggiunto in riferimento a chi tratta in maniera sferzante il caso.

Sulla questione si è espresso anche Alessandro Sallusti, che ha commentato senza giri di parole il tentativo di Gad Lerner di stigmatizzare l'accanimento mediatico: "È un po' come sentire un piromane che mette in guardia dal fuoco. Lui ha costruito la sua carriera contro i suoi rivali politici". Il direttore di Libero ha poi chiamato in causa l'intellighenzia della sinistra: "Si è fatta fottere da una signora accusata di essere una truffatrice, questo deve farci riflettere".

"L'avete premiata come migliore imprenditrice dell'anno...", ha aggiunto Sallusti. Infatti proprio nei giorni scorsi Striscia la notizia notizia, storico tg satirico in onda su Canale 5, ha consegnato il tapiro d'oro a Laura Boldrini visto che nel 2018 Marie Therese Mukamitsindo era stata premiata come migliore imprenditrice straniera in occasione del MoneyGram Awards. A consegnare il premio era stata proprio Boldrini.

Aboubakar Soumahoro: il silenzio dei buonisti della tv di sinistra. Parlare di Aboubakar Soumahoro a sinistra sembra essere un tabù: eppure è possibile farlo riportando anche solo i fatti, senza processi mediatici. Francesca Galici il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Da settimane, i media si stanno occupando del caso delle coop legate alla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro, eletto in Parlamento lo scorso settembre in quota Sinistra italiana - Verdi. Un caso mediatico importante, con risvolti che potrebbero essere di più ampio respiro sull'intero sistema di gestione dei migranti, e non solo su due specifiche coop. Aboubakar Soumahoro è un personaggio "inventato" dal buonismo di sinistra, quello imperante in certi programmi televisivi e riviste, dedito alla propaganda. E questo spiega il silenzio di quegli stessi attori in queste settimane in cui, probabilmente, sta emergendo che Aboubakar Soumahoro non è esattamente la persona che loro pensavano fosse.

Il caso Soumahoro a parti invertite

Attenzione: il deputato non è indagato. La giustizia si sta concentrando prevalentemente sull'attività di sua suocera e della sua compagna. E si badi bene, compagna e non moglie: per molti a volte si tratta di sinonimi ma a livello legale ci sono sfumature che non possono essere ignorate. Ma fatta questa doverosa premessa, le considerazioni sul modo in cui i media buonisti trattano la vicenda è comunque, per usare un eufemismo, bizzarro.

"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro

Sì, perché da parte di Fabio Fazio non si è vista la faccia contrita delle grandi occasioni, quella dedicata alle denunce dei presunti misfatti che gravitano nell'area politica a lui sgradita. Ed è calato il gelo nello studio di Che tempo che fa, quando Massimo Giannini (direttore de La Stampa) ha accusato la stampa di destra di bacchettare Soumahoro, definendo il tutto "inaccettabile". Però al direttore andrebbe ricordato che ci sono stati la Repubblica e il Corriere della sera tra i primi quotidiani a riportare, com'è giusto che sia, le notizie inerenti l'indagine della procura di Latina (non pettegolezzi).

Nessuna "letterina" è stata scritta da Luciana Littizzetto a lady Soumahoro per l'ostentazione del lusso, quanto meno stridente con l'attività di accoglienza dei migranti. Forse perché, come ha detto il deputato, la compagna ha "diritto alla moda", quindi davanti a questi diritti anche Lucianina fa un passo indietro? Il "diritto alla moda" sembra comunque ormai entrato stabilmente nelle abitudini consolidate della sinistra, visto che Pierluigi Bersani è stato visto nella nota boutique di un marchio d'alta moda francese con un bel sacchetto in mano. O forse era un moto di solidarietà per la moglie di Soumahoro?

"Il mutuo? Grazie al libro". Ma Soumahoro ha venduto solo 9 mila copie

E ha fatto silenzio anche Bianca Berlinguer nel suo Cartabianca, che ha dedicato ancora spazio alla guerra in Ucraina per giustificare la presenza fissa di Alessandro Orsini. Tace Marco Damilano, che in un certo senso ha lanciato il personaggio di Aboubakar Soumahoro. Tacciono Lilly Gruber, Lucia Annunziata e anche Roberto Saviano, che pure ha spesso dimostrato di non aver problemi sfoderare la sua penna affilata. L'unica intervista televisiva in questo caos mediatico, il deputato l'ha rilasciata a Corrado Formigli a Piazzapulita. Peccato che il giornalista non sia stato in grado di ribattere (com'è capace di fare in altre occasioni) quando il suo ospite gli ha detto che negli ultimi anni ha vissuto grazie alla vendita delle copie del suo libro. Che pare siano state circa 9mila. Pur sempre all'interno della necessaria tutela e del garantismo, forse i soloni dell'informazione che si arrogano il diritto di distribuire patenti di democrazia e di correttezza, dovrebbero imparare a lavorare con un po' più di obiettività. Non guasterebbe né a loro e nemmeno all'informazione italiana.

Striscia, Flavio Insinna? All'inaugurazione della "Casa dei diritti" di Soumahoro... Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.

Striscia la Notizia torna sul caso Soumahoro. E nella puntata in onda lunedì 5 dicembre su Canale 5 Pinuccio avanza nuovi sospetti. In particolare l'inviato del tg satirico si concentra sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti direttamente dal profilo Facebook di Aboubakar Soumahoro. Alcuni di questi soldi dovrebbero essere stati utilizzati per la costruzione della "Casa dei diritti" del ghetto di Rignano, inaugurata a gennaio 2022 alla presenza del conduttore Flavio Insinna. Immobile - e qui sta il problema - che però da gennaio a oggi è rimasto chiuso.

Mostrando le diverse raccolte, Pinuccio trova l'inaugurazione della nota "Casa" che vedeva quella che Striscia definisce "la mamma putativa": il conduttore Rai. Proprio Insinna, interpellato da Soumahoro in un video diffuso sui social spiega: "Uno nella vita deve scegliere da che parte stare, questa è la nostra". 

Eppure qualcosa non torna: "Ma questa raccolta fondi fatta con la Lega Braccianti - si domanda Pinuccio - quanti soldi ha raccolto? Ci sono dei giustificativi? Qui non si sa proprio nulla". E ancora: "E sulla Casa dei diritti non sappiamo nemmeno se sia o meno abusivo. Per di più è pure chiusa. Abbiamo dei video". I filmati parlano chiaro: all'interno dell'abitazione non c'è nessuno e le porte sono sbarrate. "Qui - conclude Striscia - i conti non tornano. Chiediamo ora alla mamma Insinna se per caso sa qualcosa".

“Rai imbarazzante, cassa di risonanza della sinistra”. Gasparri esplode sulla difesa di Soumahoro. Il Tempo il 27 novembre 2022

Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, è imbufalito per l’intervista doppia di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli andata in scena nel corso della puntata del 27 novembre di Mezz’ora in Più, il programma tv di Rai3 condotto da Lucia Annunziata. L’esponente azzurro ha esternato la propria rabbia pubblicamente: “È imbarazzante vedere la Rai messa a disposizione di Bonelli e Fratoianni che invece di rispondere del grave errore fatto candidando Aboubakar Soumahoro hanno utilizzato gli spazi di Raitre e in particolare della trasmissione dell'Annunziata ‘In mezz'ora’ per accusare il mondo intero, dai problemi Ischia a Sharm el-Sheikh, invece di rispondere del loro gravissimo errore. L'Annunziata alternava domande poco incisive ad atteggiamenti da amica appena un po’ perplessa, quasi complice del ‘gatto e la volpe’, che nel suo studio hanno eluso le questioni fondamentali che andavano poste in ben altro modo. 

Gasparri prosegue nell’invettiva: “Abbiamo letto sui giornali le vicende delle cooperative, le fantaluche che ha raccontato Aboubakar Soumahoro, dicendo che per tre anni ha vissuto grazie ai proventi di un libro che ha venduto poche copie, poi teorizzando ‘il diritto all'eleganza e alla moda’ di sua moglie, fotografata con abiti e accessori di lusso, mentre doveva occuparsi, con le sue cooperative, di tutelare persone in difficoltà. Di tutto questo non si è parlato. Sembrava quasi che Bonelli e Fratoianni dovessero loro mettere sotto accusa il resto della umanità. Non si fa così il servizio pubblico. Questa è la vecchia Rai, cassa di risonanza dei settori più estremi e più fallimentari della sinistra. 

“Fratoianni e Bonelli devono - l’auspicio finale di Gasparri - prima di tutto scusarsi dell'errore fatto e non arzigogolare negando di essere stati informati, quando ci sono stati esponenti del loro partito e noti sacerdoti della Caritas che li avevano messi sull'avviso. Una brutta ulteriore pagina di un servizio pubblico che deve andare verso una nuova stagione. Non può continuare a essere il predellino di una sinistra ambigua e perdente”.

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 25 novembre 2022. 

Ops. Che figura compagni! Ci scappa da ridere, molto, ma è una risata triste, ed è un peccato. Certo, non triste come la copertina dell'Espresso del 17 giugno 2018, molto più tragica come comica, almeno per chi l'ha pensata. Titolo: "Uomini e no", come il romanzo di Elio Vittorini sulla Resistenza.

L'uomo, sulla sinistra, è il sindacalista Aboubakar Soumahoro, ancora cittadino semplice, non un deputato della Repubblica. Il "no", sulla destra, è Matteo Salvini, allora neo-ministro dell'Interno. "Il cinismo", si legge sotto i due volti, "l'indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l'empatia, l'appello all'unità dei più deboli". Poi il domandone, retorico: "Voi da che parte state?".

Aboubakar paladino degli "ultimi", per Repubblica. Aboubakar strenuo difensore, forse l'ultimo, dei diritti dei neri e delle minoranze, per La7, che assieme al settimanale progressista ha costruito, elevato e idolatrato l'immagine del futuro parlamentare ivoriano con gli stivali, oggi crollata sotto i colpi di un'inchiesta giudiziaria che se al momento non lo vede indagato, fa a brandelli la narrazione portata avanti per anni da lui e dalla sinistra.

Salvini quella copertina l'aveva criticata: «Alla faccia del giornalismo, ormai alla sinistra rimangono bugie e insulti. Mi fanno tenerezza», e aveva allegato l'emoticon di un bacio. 

Era il tempo dei "bacioni" inviati ad avversari politici e insultatori vari, tutti a sinistra. La replica di Marco Damilano, allora direttore dell'Espresso, era stata durissima: «Di bugie e insulti la Lega di Salvini è esperta da anni: i dati amplificati sull'immigrazione per creare la percezione di un'invasione che non c'è, il dileggio dell'avversario politico.

A noi interessa reagire e rappresentare la voce di quella parte di società italiana che non si rassegna a un governo e a un politico impegnato in una campagna elettorale permanente sulla pelle dei migranti e di chi dissente. Un politico che», aveva aggiunto Damilano, «da anni discrimina tra cittadini di serie A e di serie B. Chiediamo ai lettori di giudicare chi sia l'uomo tra un ministro sicuro del suo potere politico e mediati co e un sindacalista di strada che difende i suoi fratelli e compagni».

E come li ha difesi! Ma il "ciclone Soumahoro", dicevamo, s' è fatto sempre più potente anche grazie ad altri buonisti militanti in servizio permamente. Fabio Fazio, Roberto Saviano, Giobbe Covatta, Michela Murgia. Poi c'è il leader maximo dell'esercito, Diego Bianchi, "Zoro", il mattatore di Propaganda Live che a colpi di «Daje!» caricava il Soumahoro che guidava gli scioperi nei campi del Foggiano. Pugno chiuso e calosce.

Tra le perle più pure la puntata del 22 maggio 2020, appena terminata la fase più dura della pandemia. Decine di braccianti in aperta campagna capeggiati da Aboubakar. Finisce il servizio in cui l'eroe dei due stivali viene messo a confronto col bruto Salvini il quale sollevava delle perplessità per il fatto che a scioperare fossero «dei clandestini», e Bianchi esclama: «Grazie, Aboubakar! Si batte la mano sul petto, sul cuore». Aboubakar, alla fine, lancia il grido di battaglia: «È solo l'inizio, è solo l'inizio!». Applausi dallo studio. Mah. A occhio, compagno Aboubakar, siamo più o meno alla fine. Certo, non dello stipendio da parlamentare...

Da Soumahoro a Saviano il contrappasso dei moralisti.  Antonio Terrenzio su Culturaidentita.it il 25 Novembre 2022

“Il borghese è il proletario alla prima opportunità”. L’aforisma fulminante deve appartenere a Gomez Davila, se ricordo bene.

Parafrasandolo ne verrebbe in mente uno più cattivello:” Il bianco sfruttatore è il negro alla prima opportunità”, perché è questo che si adatta meglio alla figura di Soumahoro, con nuovi importanti novità che emergono dal giro di affari delle cooperative gestite dalla suocera o da chi per lui. Lo ricordate? Le sceneggiate con gli stivali davanti al Parlamento, le cialtronate da Martin Luter King dei poveri nel campo Borgo Torretta, che arringa tra i poveri africani sfruttati e che tuona contro Michele Emiliano e la Regione Puglia. Soumahoro che fa la raccolta fondi per i bambini per 16 mila euro, anche se di bambini nel campo non ce ne sono e si viene a sapere che con la sua Lega Braccianti incassava quasi 200mila Euro solo nel periodo della pandemia. In più stipendi non pagati. Come se non bastasse sua moglie fa la Ferragni in versione afro su Instagram e tra un selfie e l’altro apre un mutuo di 250mila Euro per una villa da 450mila: tu chiamala se vuoi, cooperazione. Non c’è crimine peggiore di lucrare sulla pelle dei propri connazionali.

Eppure don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo, come riferisce a Repubblica, aveva avvertito Fratoianni di non fidarsi e che candidarlo nelle liste del suo partito sarebbe stato un clamoroso autogol. Adesso che si aspetta un riscontro giudiziario, la sinistra tutta vive uno psicodramma collettivo che si aggrava scandalo dopo scandalo. Prima Mimmo Lucano inguaiato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, poi Saviano denunciato per aver dato di “bastardi” a Meloni e Salvini, i contributi non pagati alle colf dalla Boldrini, ora lo scandalo del sindacalista ivoriano, astro nascente ma già in caduta libera del PD: la sinistra vive una crisi di identità a tutti i livelli. La difficoltà nella individuazione di un leader che la rappresenti, con patetici psicodrammi nelle kermesse dei suoi congressi, è molto più della rielaborazione di una sconfitta elettorale. La sinistra progressista è ormai entrata in una crisi antropologica, persa tra i meandri di ideali astratti e fumosi: ma i progressisti lo capiranno mai? La sinistra uscirà mai dal concentrato di stereotipi ed ipocrisia che la caratterizzano da anni? Quando capirà che non è affidandosi a nuovi “santini” che riuscirà a dimostrare la sua superiorità umana e valoriale?

Nell’establishment editoriale si intravedono le divisioni regnanti tra le forze di opposizione che non riescono a tenersi insieme nemmeno in funzione antigovernativa. Lo stato di confusione è massima. Se poi si aggiunge una tragicomica capacità di farsi del male con scandali che si ripetono in maniera cadenzata, allora la crisi è un tunnel che non vede mai la luce all’uscita.

Il vertici del PD sembrano smarriti, stentano a rimodellare una propria identità ed insistono nella ripetizione dei propri errori ideologici, come l’abbraccio fanatico a tutte le cause della correttezza politica.

La candidatura di Elly Schlein come guida del PD, è il sintomo di una radicalizzazione su istanze lontane anni luce dal popolo, e se tale linea dovesse prevalere, non è difficile immaginare un governo guidato da Giorgia Meloni per altri 10 anni, come ricorda il politologo Orsina in una intervista.

Gli scandali come quello di Soumahoro e dei suoi familiari sembrano il naturale contrappasso di chi predica rispetto, diritti, lotta alle discriminazioni e poi fa tutt’altro. Se la sinistra cade sempre sui suoi principi fondamentali, che sventola di fronte ai suoi avversari, e poi dà prova dell’esatto contrario, una ragione ci dovrà essere. Non bastano un paio di stivali sporchi per darsi una patente di immacolabili, adesso lo sapete.

Estratto dell’articolo di Silvia Truzzi per “il Fatto quotidiano” il 16 dicembre 2022.

Nel mezzo della valanga che da più parti sta travolgendo quel che resta della sinistra, da giorni un dibattito su Liliane Murekatete, compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, impegna le firme di Repubblica. Tutto è nato da un pezzo, uscito sul giornale di lunedì, in cui Concita De Gregorio si chiedeva perché si attacca Liliane Murekatete e non Chiara Ferragni. 

[…] Ne è nato un furioso dibattito […] Tutte riflessioni che […] non si occupano della principale questione: perché parliamo di lei e non di Chiara Ferragni […] Perché da settimane è, insieme alla madre, al centro dello scandalo accoglienza. Uno scandalo doppio, perché contiene ipotetici reati e perché i soggetti coinvolti si sono posti a modello contro lo sfruttamento degli ultimi che dicevano di difendere. […] Nell'intervista a Piazza Pulita l'onorevole Soumahoro ha detto che esiste "un diritto all'eleganza". Una frase forse un po' ingenua, ma che in fondo dice tutto quel che si deve dire sull'argomento: ognuno si veste come vuole. Ed è finita qui.

[…] Soumahoro non ha mai fatto parte della cooperativa oggetto delle indagini, la compagna sì. […] la notizia che Liliane Murekatete è indagata è giunta solo ieri, ma da un po' si capiva che l'inchiesta andava in quella direzione. Secondo il giudice per le indagini preliminari di Latina […] Marie Therese Mukamatsindo e i figli Michel Rukundo e Liliane Murekatete "hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell'attuare un programma delinquenziale, a gestione familiare, protratto nel tempo e rivestendo le qualifiche societarie documentate in atti. Se indubbiamente Maria Terese Mukamitsindo ha svolto e svolge un ruolo centrale nella dinamica delittuosa, anche i figli Michel e Liliane hanno offerto consapevole e attiva partecipazione al meccanismo fraudolento prospettato".

[…] Per il resto, è auspicabile (per la futura sopravvivenza dei giornali) che il dibattito pubblico non vada sempre da un'altra parte, in un'orgia quotidiana di opinioni che sorvolano sui fatti e interessano assai più agli opinionisti che ai lettori.

"Chiedete ai Verdi". Il rimpallo della sinistra su Soumahoro. Nicola Fratoianni fa un passo indietro su Aboubakar Soumahoro e fa capire di non aver nemmeno avuto spiegazioni sull'utilizzo dei fondi. Francesca Galici il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Non si arresta l'inchiesta giornalistica di "Striscia la notizia" sul deputato Aboubakar Soumahoro, eletto lo scorso 25 settembre tra le fila di Verdi e Sinistra italiana. L'inviato Pinuccio sta scandagliando l'attività sindacale del neo parlamentare, tra raccolte fondi e testimonianze di persone che l'hanno conosciuto nei suoi anni di militanza prima di essere eletto a Montecitorio. Nella puntata andata in onda ieri è stato trasmesso un servizio incentrato su un'intervista telefonica che l'inviato di "Striscia la notizia" ha fatto a Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, uno dei partiti che hanno sostenuto la candidatura di Soumahoro.

“Da quando ha conosciuto la compagna…”. L’accusa dell’amico a Soumahoro

"Mi aveva detto che aveva tutte le possibilità di giustificare ogni spesa - racconta -. Ovviamente, io non faccio il mestiere del controllo fiscale e quindi, se qualcuno mi dice che un accusato è in grado dimostrare la correttezza nell'utilizzo dei fondi, ovviamente mi fido di quello che mi viene detto", ha dichiarato l'onorevole Nicola Fratoianni. Per rimarcare tanto la sua completa estraneità alla vicenda, quando la sua buona fede in questo caso, l'esponente della sinistra ha aggiunto: "Siccome non faccio né il finanziere, né il magistrato, direi che è normale fare così. No? Come può immaginare, non ho nessun altro elemento per cui, se c'è da chiedere qualcosa in più, mi pare che sia il caso di rivolgersi a lui direttamente".

"Striscia la notizia" cerca di avere contatti con Soumahoro dal 25 ottobre ma per ora ogni tentativo è andato a vuoto. Il programma di Canale 5 ha predisposto una lista di domande per il deputato, per il momento senza risposta. L'inviato ha comunque ricordato che nel momento in cui è venuta alla luce la presenza di un fascicolo di inchiesta sulla suocera e sulla compagna, il deputato ha correttamente dichiarato di essersi sospeso dal partito. "È autosospeso dal gruppo, non è in un altro gruppo", ha detto Fratoianni, smentendo quindi la possibilità che Soumahoro possa essere passato al gruppo misto.

Tecnicamente, per quanto autosospeso, Soumahoro è ancora un deputato di Sinistra italiana e Verdi, come si evince anche dalla scheda ufficiale del sito della Camera dei deputati. "Noi sappiamo che deve dare 2mila euro al mese al partito Aboubakar Soumahoro", ha detto l'inviato Pinuccio presentando il successivo punto del suo servizio e della sua intervista a Fratoianni. "I partiti hanno diverse modalità. Per esempio, Sinistra italiana sono 3.500 euro al mese. Bisogna chiedere, eventualmente, ai Verdi, al tesoriere dei Verdi, che tipo di accordi avevano sulla candidatura degli indipendenti", ha detto il leader di Sinistra italiana, rimpallando il discorso sull'altro partito del gruppo.

Quei soldi all'estero della coop Soumahoro. I migranti tra le blatte. I pm indagano sulle condizioni dei profughi e sui bonifici finiti in Africa. Redazione il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

I migranti al freddo, in stanze sovraffollate infestate da blatte e topi. Mentre una parte dei soldi che dovevano essere usati per l'accoglienza dei richiedenti asilo venivano dirottati, grazie a società fittizie, verso l'estero e precisamente in Ruanda, paese natale dei familiari dell'onorevole Soumahoro che gestiscono le cooperative finite al centro dell'inchiesta della procura di Latina. È una delle accuse che i giudici muovono a Marie Terese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo, indagati in quanto negli anni amministratori delle cooperative Karibu e Consorzio Aid che gestivano i servizi Sprar e Cas (per accoglienza dei richiedenti asilo) in provincia di Latina.

I fari delle indagini si sono accesi dopo una serie di denunce relative sia alle condizioni di vita in cui venivano costretti gli ospiti dei centri sia rispetto ai soldi che non erano mai sufficienti per pagare gli stipendi ai dipendenti, molti dei quali attendono ancora il dovuto.

Da qui magistrati e Fiamme gialle hanno aperto un vaso di Pandora che sembra contenere infiniti spunti. Spulciando le carte della cooperativa Karibu, la Guardia di finanza ha riscontrato «prelevamenti in contanti, bonifici verso l'estero, una difficile rendicontazione delle erogazioni, una gestione contabile non trasparente e distrazioni di denaro per finalità estranee alla gestione dei progetti». Alcuni di questi bonifici finivano, a quanto pare alla Karibu RW e a un certo Mutangana, che non è altro che Richard Mutangana, uno dei fratellastri di Liliane Murekatete, moglie dell'onorevole Soumahoro. In Ruanda, Mutangana gestisce attività di ristorazione. Il suo è un nome che ricorre spesso nelle carte della finanza di Latina, che ha analizzato i conti della Karibù e degli altri enti satelliti, come la Jambo Africa. Come si legge nell'ordinanza alcuni bonifici andavano su un conto riferibile a Mutangana (che ad oggi non risulta indagato). Il fratellastro di Liliane ha lavorato per molti anni nella cooperativa Karibu ma ha anche fatto investimenti in Ruanda, dove ha aperto un ristorante: Gusto Italiano. «Mio figlio ha aperto quel ristorante con la moglie chiedendo un prestito in banca. È tutto tracciabile», ha detto Marie Terese Mukamitsindo, la madre di Mutangana, quando uscì fuori la vicenda. Ma il nome di Richard torna anche nel sistema che secondo gli inquirenti era usato per evadere le imposte.

Secondo il sostituto procuratore Andrea D'Angeli, gli indagati avrebbero evaso per anni le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, inserendo nelle dichiarazioni dal 2015 al 2019 elementi passivi fittizi e costi inesistenti. Il tutto attraverso una serie di fatture per operazioni inesistenti emesse da Aid e Jambo Africa, società che facevano riferimento sempre alla coop Karibu. E il legale rappresentante della Jambo, che si sarebbe dovuta occupare delle vittime di violenza, del resto era Mutangana, e l'associazione aveva sede legale a Sezze (Latina), negli stessi locali della Karibu.

Nell'ordinanza il gip Giuseppe Molfese parla di «un collaudato sistema fraudolento fondato sull'emissione e l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Evasione fiscale e soprattutto costi non deducibili inseriti nella dichiarazione così da giustificare, in sede di rendicontazione la richiesta di finanziamenti alla Direzione Centrale del richiedenti asilo e rifugiati». Insomma, una gestione amministrativa opaca a fronte di servizi di accoglienza migranti da brividi, macchiati da soprannumero di ospiti, carenti condizioni igieniche, assenza di derattizzazione e deblattizzazione.

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica” il 16 dicembre 2022. 

Migranti al freddo, senza cibo, luce e acqua mentre i milioni di euro che il ministero dell'Interno spendeva per loro finivano in Ruanda dove un cognato del deputato Aboubakar Soumahoro gestisce attività di ristorazione e safari. Di più: bonifici verso l'estero fatti facendo transitare il denaro sui conti di un'associazione che si sarebbe dovuta occupare di donne vittime di torture e violenze, mentre non sarebbe stata altro che uno schermo utilizzato per evadere le tasse dalla cooperativa della moglie del parlamentare, Liliane Murekatete, della suocera, Maria Therese Mukamitsindo, e del cognato, Michel Rukundo. 

È il quadro che emerge dall'ordinanza con cui il gip del Tribunale di Latina, Giuseppe Molfese, ha vietato per un anno a Mukamitsindo, Murekatete e Rukundo di avere rapporti con la pubblica amministrazione e di gestire imprese, sequestrando loro anche circa 640mila euro. 

Secondo il giudice per le indagini preliminari, «seppure allo stato formalmente incensurati», i tre «hanno mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell'attuare un programma delinquenziale a gestione familiare protratto nel tempo». […] Diversi lavoratori si erano rivolti alla Uiltucs sostenendo di non ricevere lo stipendio da due anni. […]

Le Fiamme gialle, al culmine delle indagini sul filone relativo all'evasione fiscale, hanno notificato il provvedimento a Mukamitsindo, Murekatete e Rukundo. Ed è emerso che sono indagati anche Richard Mutangana, altro figlio di Mukamitsindo, e due collaboratrici: la camerunense Ghislaine Ada Ndongo e l'ugandese Christine Ndyanabo Koburangyira Kabukoma.

 Secondo il sostituto procuratore Andrea D'Angeli, gli indagati avrebbero evaso per anni le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, inserendo nelle dichiarazioni dal 2015 al 2019 elementi passivi fittizi e costi inesistenti. 

Lo avrebbero fatto utilizzando fatture relative a operazioni inesistenti emesse da Aid e dall'associazione di promozione sociale Jambo Africa, che facevano sempre riferimento a loro. E che non sarebbero stato altro che uno schermo. Il legale rappresentante della Jambo, che si sarebbe dovuta occupare delle vittime di violenza, del resto era Mutangana, e l'associazione aveva sede legale a Sezze (Latina), negli stessi locali della Karibu.

[…] per gli inquirenti quello messo a punto dagli indagati sarebbe stato «un collaudato sistema fraudolento». Utile a evadere e anche a «giustificare in sede di rendicontazione la richiesta di finanziamenti alla Direzione centrale del sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati». […] La Karibu si occupava dei centri di accoglienza straordinaria, di quelli per i richiedenti asilo e i rifugiati, dei servizi di accoglienza per minori e della rete antitratta. Attività che andrebbero rendicontate al centesimo, mentre le Fiamme gialle hanno riscontrato «prelevamenti in contanti, bonifici verso l'estero, una difficile rendicontazione delle erogazioni, una gestione contabile non trasparente e distrazioni di denaro per finalità estranee alla gestione dei progetti». […]

Estratto dell’articolo di Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2022. 

Adesso anche Liliane Murekatete è indagata. La moglie del deputato Aboubakar Soumahoro è finita ieri nel mirino della procura di Latina nell'ambito dell'inchiesta sulla cooperativa Karibu (e sul Consorzio Aid), quella gestita dalla madre di Liliane, Marie Therese Mukamitsindo, già indagata. 

E non c'è soltanto lei. Insieme a Liliane Murekatete, infatti, ieri è stato indagato anche un suo fratellastro, Michel Rukundo, terzo componente del Cda della cooperativa di Sezze, quella che avrebbe dovuto dare accoglienza e assistenza a migranti e braccianti. Le carte dell'inchiesta dipingono invece la cooperativa Karibu come un luogo malsano, invivibile. E soprattutto il luogo dove è stato gestito «un programma delinquenziale a gestione familiare protratto nel tempo». 

Ma la rete familiare non finisce con la cooperativa. A Sezze c'è anche la sede dell'associazione «Jambo Africa» per la quale è stato indagato pure un altro fratello di Liliane, Richard Mutangana, che con altre due persone, Ghislaine Ada Ndongo e Christine Kabukoma, dal 2014 si è alternato nel ruolo di legale rappresentante dell'associazione che - secondo l'ordinanza del gip - serviva come base d'appoggio per l'emissione di fatture false in favore della cooperativa Karibu. 

[…] Ieri il gip Giuseppe Molfese ha disposto il sequestro preventivo di 639.456,52 euro nei confronti della Karibù che in caso di impossibilità di reperirli confischerà agli indagati: alla suocera di Soumahoro (fino a quella cifra), alla figlia Liliane e al figlio Michel. […]

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2022. 

C'erano blatte e topi nelle strutture di accoglienza gestite dai familiari di Aboubakar Soumahoro, carenze igieniche e ospiti in sovrannumero. A leggere le carte dell'inchiesta della procura di Latina su Karibu e le altre società gestite da Marie Therese Mukamitsindo e dai suoi figli - inclusa la moglie di Aboubakar, Liliane Murekatete - balza agli occhi come lo scandalo non sia solo finanziario. Accanto a quello che il gip, Giuseppe Molfese, ha riconosciuto come «illecito meccanismo fraudolento a gestione familiare» c'è la denuncia a chiare lettere che le malversazioni sono state fatte anche a danno dei migranti.

Prima di entrare nel merito di quel giro di fatture per passivi fittizi e bonifici all'estero, che hanno contraddistinto la «gestione contabile non trasparente», nell'ordinanza si evidenzia come le «distrazioni di denaro per finalità estranee alla gestione dei progetti» hanno segnato le condizioni di vita dei profughi, pure i minori. Quel meccanismo avrebbe succhiato risorse destinate all'accoglienza impoverendo i servizi. A partire dai «riscaldamenti ridotti in ore notturne o assenti».

O dagli «alloggi fatiscenti con arredamento inadeguato rispetto al numero degli ospiti, mobili rotti, condizioni igieniche carenti», via via fino, appunto, all'assenza di «derattizzazione e deblattizzazione». 

I migranti servivano a giustificare «in sede di rendicontazione la richiesta di finanziamenti» alla Direzione centrale per i richiedenti Asilo. Ma erano spesso «costi non sostenuti».

Il focus dell'inchiesta del procuratore Giuseppe de Falco e del sostituto Andrea D'Angeli, condotta dal nucleo della Polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza è proprio questo. 

Quel flusso di denaro transitato dallo Stato alle cooperative riconducibili alla famiglia di Mukamitsindo e finito altrove. Spesso senza pagare gli stipendi agli operatori.

Liliane, compagna del paladino dei braccianti, che respinge ogni addebito, viene chiamata in causa personalmente. A lei, come alla madre Marie Therese e al figlio di lei Michel Rukundo, il gip attribuisce «elevata spregiudicatezza criminale». E «consapevole e attiva partecipazione al meccanismo fraudolento». 

Vengono annotate sei fatture del 2019 «relative a operazioni inesistenti» nei confronti di Jumbo Africa. A lei che, assieme a Rukundo, come ogni membro del cda, aveva «specifico obbligo di vigilanza», viene contestata una somma di Ires evasa di oltre 13.368,42 euro. Perché Jumbo e Consorzio Aid, per il gip,erano in realtà «strutture satelliti riconducibili a Karibu». Infatti al vertice della Karibu tra il 2005 e il 2014 c'era Mukamitsindo e consiglieri erano Liliane e Michel.

A capo del Consorzio Aid dal 2009 a maggio 2017 c'era sempre Mukamitsindo, poi il figlio Michel, quindi da aprile 2018 un cda composto di nuovo da lei e dai suoi figli Michel e Aline. Ma c'è di più. Nell'informativa della Finanza del 2 febbraio scorso si legge che «la Jumbo non risulta avere dipendenti», non ha presentato il modello 770 per l'anno 2019, «ma risulta aver ricevuto dalla Karibu bonifici utilizzati sistematicamente per disporre bonifici anche verso l'estero a vari soggetti». 

Tra questi un altro figlio di Mukamitsindo, Richard Mutangana e sua moglie Valeria Giglioli. Gli importi contabilizzati, conclude la Gdf «sembrerebbero addirittura strumento per veicolare il trasferimento di denaro da Karibu a Jumbo e da quest' ultima all'estero». Del resto Jumbo vuol dire «ciao».

Lady Sumahoro e i falsi bilanci. Redazione L'Identità il 16 Dicembre 2022

di MIRIAM NIDO

Indagata tutta casa Soumahoro, a esclusione del deputato di sinistra Aboubakar. Ieri la Procura di Latina ha recapitato un avviso di garanzia anche a Liliane Murekatete, la compagna del parlamentare ora coinvolta ufficialmente nella gestione poco trasparente di Karibu e Consorzio Aid, le due coop per l’accoglienza dei migranti fondate dalla madre Maria Therese Mukamitsindo, accusata di truffa aggravata, frode fiscale e malversazione, oltre che implicata nelle denunce dei dipendenti non pagati e dei migranti maltrattati. La compagna di Soumahoro è implicata nella vicenda per false fatturazioni che riguarderebbero i conti di Karibu, società nella quale Liliane è stata consigliera, almeno fino all’ottobre scorso. Il crimine fiscale contestato, relativo a fatture per operazioni inesistenti tre il 2015 e il 2019, ha permesso agli inquirenti di applicare il sequestro preventivo “del profitto del reato” per oltre 639mila euro nei confronti di uno dei nuovi indagati e di oltre 13mila ad altri due. Sono in tutto sei le persone iscritte nel fascicolo dei magistrati pontini. Tra queste anche Michel Rukundo, l’altro figlio di Maria Therese e responsabile del Consorzio Aid. C’è inoltre Richard Mutangana, l’altro cognato di Soumahoro, già segnalato all’Antiriciclaggio per operazioni di denaro sospette con l’estero e finito sotto i riflettori per aver aperto un resort di lusso in Ruanda. Proprio lui era tra l’altro intervenuto a difesa della sorellastra durante le polemiche che si erano scatenate contro Liliane per i vestiti e le borse griffate.

Adesso dovranno difendersi tutti insieme, da accuse per reati tributari che prevedono pene severe. La compagna di Soumahoro, che in queste settimane ha minacciato querele verso chiunque avesse gettato ombre sulla sua condotta, è tornata a respingere ogni addebito. “La signora Murekatete si dichiara assolutamente estranea rispetto ai fatti contestati, che peraltro riguardano un presunto danno erariale di 13mila euro, e siamo certi che a breve, anzi a brevissimo, verrà fatta chiarezza e dimostrata la totale innocenza”, ha detto il suo avvocato, Lorenzo Borré. E di fronte all’avviso di garanzia anche Aboubakar ha rotto il silenzio nel quale si era rifugiato dopo il videomessaggio in cui piangeva e l’unica intervista televisiva a Piazza Pulita, che però non era servita né a chiarire gli aspetti della vicenda che lo coinvolge sotto il profilo politico né a fermare il polverone attorno ala sua attività di sindacalista con gli stivali in difesa dei deboli. “Sono profondamente amareggiato, dispiaciuto e preoccupato per l’indagine che vede coinvolta direttamente la mia compagna Liliane Murakatete che confido dimostrerà la sua innocenza”, ha dichiarato il deputato autosospesosi da Alleanza Verdi-Si attraverso il suo legale Maddalena Del Re. “Ribadendo la mia totale estraneità ai fatti contestati sull’indagine della coop Karibu e del Consorzio Aid, di cui, come più volte affermato, non ero a conoscenza, nel prosieguo delle indagini, sempre più alla luce del sole, continuerò a impegnarmi nella mia attività politico-parlamentare sui temi che hanno da sempre caratterizzato il mio impegno”. Aboubakar, nel ricordare che, attualmente, Karibu “è commissariata per decreto del Ministero”, ha sottolineato che la situazione “è congelata, in mano al ministero, in mano alla magistratura, nella quale ripongo la massima fiducia”. Magistratura per la quale, invece, il ruolo di Liliane è tutt’altro che marginale nella gestione delle coop, né è limitato al passato. Perché nelle carte dell’inchiesta è scritto che la compagna di Soumahoro e il fratellastro Michel “in concorso tra loro e con Mukamitsindo, in qualità di consiglieri del cda della Karibu dal 3 aprile 2018 a oggi, al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto, indicavano elementi passivi fittizi o, comunque omettevano di vigilare affinché altri, in particolare la Mukamitsindo, li indicassero”. A tal fine “utilizzavano fatture relative a operazioni inesistenti”, scrivono gli inquirenti. Il gip di Latina, Giuseppe Molfese, ricostruisce “un collaudato sistema fraudolento, fondato sull’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti e altri costi inesistenti adoperati dalla Karibu. E non solo con la specifica finalità evasiva – inserendo in dichiarazione costi non deducibili – ma altresì per giustificare in sede di rendicontazione la richiesta di finanziamenti alla Direzione Centrale del sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati”. Il giudice per le indagini preliminari ha inoltre posto l’accento su quella che ha definito “elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale a gestione familiare”. Nell’applicare nei confronti del consiglio di amministrazione di Karibu la misura cautelare interdittiva del divieto per un anno di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare per lo stesso periodo imprese e uffici direttivi di persone giuridiche, il gip mette in evidenza le terribili condizioni dei centri per i migranti gestiti dalla coop: “Allarmanti accertamenti sulla qualità dei servizi erogati. Presso le varie strutture di accoglienza si segnalano tra l’altro il sovrannumero di ospiti, le carenti condizioni igieniche, l’assenza di derattizzazione e deblattizzazione nonché più genericamente la scarsità delle prestazioni fornite”.

Il tutto mentre, negli ultimi anni, nelle casse della cooperativa sono transitati oltre 65 milioni di euro di contributi pubblici da bandi del Ministero dell’Interno, delle Pari Opportunità, della Regione Lazio e perfino di Roma Capitale, oltre che da affidamenti diretti di alcune amministrazioni comunali del Pontino. Milioni di euro per gli ucraini in fuga dalla guerra, per gli Sprar, per le vittime della tratta sessuale. E l’imprenditrice ruandese non pagava neppure gli stipendi ai dipendenti, dietro il pretesto che le amministrazioni erano in ritardo con i pagamenti.

Caso Soumahoro, super stipendio da 4 mila euro alla suocera e al cognato: "È illecito familiare”.  Clemente Pistilli su La Repubblica il 17 Dicembre 2022.

Per il sostituto procuratore Andrea D'Angeli, tra il 2015 e il 2019 la cooperativa Karibu ha evaso l'Imposta sul reddito delle società e l'Iva, sfruttando fatture emesse per operazioni inesistenti dal Consorzio Aid e dall'associazione Jambo Africa. i lavoratori rimasti senza stipendio e senza lavoro potrebbero costituirsi parte civile, tramite il loro sindacato

Non degli stipendi, ma dei super stipendi. Mentre i migranti ospiti dei centri gestiti dalle coop della moglie, della suocera e del cognato di Aboubakar Soumahoro venivano lasciati senza cibo, vestiti, luce e acqua, come emerso dalla stessa inchiesta della Procura di Latina che ha portato la Guardia di finanza a sequestrare agli imprenditori dell'accoglienza 640mila euro, proprio i parenti del deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra si attribuivano compensi da oltre quattromila euro al mese.

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 17 dicembre 2022.

Non degli stipendi, ma dei super stipendi. Mentre i migranti ospiti dei centri gestiti dalle coop della moglie, della suocera e del cognato di Aboubakar Soumahoro venivano lasciati senza cibo, vestiti, luce e acqua, come emerso dalla stessa inchiesta della Procura di Latina che ha portato la Guardia di finanza a sequestrare agli imprenditori dell'accoglienza 640mila euro, proprio i parenti del deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra si attribuivano compensi da oltre quattromila euro al mese. 

Per il sostituto procuratore Andrea D'Angeli, tra il 2015 e il 2019 la cooperativa Karibu ha evaso l'Imposta sul reddito delle società e l'Iva, sfruttando fatture emesse per operazioni inesistenti dal Consorzio Aid e dall'associazione Jambo Africa. Sia Aid, per cui al pari di Karibu il Ministero delle imprese ha ora chiesto lo scioglimento, che Jambo sono considerati dagli inquirenti nulla più che «schermi fittizi per l'esecuzione di un illecito meccanismo fraudolento a gestione familiare» . 

Ma proprio per il presidente del Consorzio Aid, fino al 2020 e dunque nel periodo oggetto delle indagini, era previsto uno stipendio da 4.400 euro al mese. Una carica che fino al 2017 è stata rivestita dalla suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo, ora indagata, e che fino al 2020 è stata rivestita dal cognato, anche lui indagato, Michel Rukundo. Nel 2020, quando la presidenza è passata alla cognata del deputato, Aline Mutesi, che non è invece indagata, il compenso è stato ritoccato: quattromila euro.

Solo 400 euro in meno. Ma in quell'anno è stato deciso anche, a differenza di quanto avveniva in precedenza, di dare uno stipendio pure a un consigliere, prevedendo 1.400 euro al mese per l'ex presidente Rukundo, che è anche nel CdA di Karibu insieme alla moglie di Soumahoro, Liliane Murekatete, anche lei indagata, coop quest' ultima presieduta da Mukamitsindo. 

A firmare nel 2015 il verbale per l'approvazione del bilancio di Karibu, coop su cui da tempo sta dando battaglia il consigliere regionale leghista Angelo Tripodi e che per i dipendenti non pagati ha portato la Uiltucs a sollevare il caso, c'era inoltre l'allora moglie di un secondo cognato del deputato, Richard Mutangana, a sua volta indagato. La donna è tra i beneficiari, insieme all'allora marito, dei bonifici verso il Ruanda fatti dalla coop e ritenuti dalla Procura sospetti. 

Senza contare che nello stesso anno la cooperativa ha inserito in bilancio 64.315 euro per prestazioni occasionali, tra cui quelle di Mutangana e della moglie. E si tratta di un periodo in cui la coop faceva incetta di affidamenti, ottenendo nel 2016, solo dal Comune di Roma, circa 354mila euro. 

Sul fronte estero infine, di recente la Karibu, di fronte ai tagli previsti dai decreti di Matteo Salvini, aveva specificato in bilancio che stava portando avanti « un progetto di internazionalizzazione», alla ricerca di cooperazione anche con gli « Stati africani » , con cui intrattiene « parecchi rapporti » , e che aveva come «scopo ultimo» quello di «potersi iscrivere nelle Ong». Un giro di denaro e un intreccio di cooperative e associazioni su cui le indagini proseguono, anche in relazione, come assicurato dal procuratore capo Giuseppe De Falco, « a temi investigativi diversi e complessi».

CASO SOUMAHORO SEQUESTRI E DEBITI. Rita Cavallaro su L’Identità il 17 Dicembre 2022

Spese gonfiate, fatture false, migranti fantasma. È un quadro che denota una truffa orchestrata e perpetrata per anni, quella sulla quale sta indagando la Procura di Latina e che coinvolge la famiglia di Aboubakar Soumahoro, a esclusione soltanto del parlamentare di sinistra. Il sindacalista con gli stivali sporchi di fango, che ha fatto della difesa dei deboli il suo manifesto, affronta però una questione morale perché ora, oltre a sua suocera Maria Therese Mukamitsindo, anche la sua compagna Liliane Murekatete è iscritta nel registro degli indagati, per la gestione dei migranti delle coop di famiglia. Deve rispondere di false fatturazioni, nel fascicolo che vede coinvolti Michel Rukundo, il fratellastro responsabile del Consorzio Aid, Richard Mutangana, l’altro cognato di Soumahoro già segnalato all’Antiriciclaggio per operazioni di denaro sospette e per il resort di lusso in Ruanda, e la stessa Maria Therese, che risponde di truffa aggravata, frode fiscale e malversazione, oltre alle implicazioni nelle denunce dei dipendenti non pagati e dei migranti maltrattati. E nelle carte arrivate al gip di Latina Giuseppe Molfese, che ricostruisce “un collaudato sistema fraudolento, fondato sull’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti e altri costi inesistenti adoperati dalla Karibu”, ci sono anche testimonianze sconcertanti che mostrano un presunto impianto Sprar drogato dalle condotte dei responsabili delle coop, che avrebbero intascato i contributi pubblici dell’accoglienza per anni ottenendo dallo Stato i rimborsi per migranti che in realtà non esistevano. Alcuni dipendenti di Karibu e Consorzio Aid, infatti, hanno raccontato che quando i migranti ospitati nei centri gestiti da Mukamitsindo lasciavano le strutture per andare altrove o per ricongiungersi con le loro famiglie, la suocera di Soumahoro si guardava bene dal comunicare l’assenza alla Prefettura e continuava a far figurare quelle presenze, intascando così il contributo giornalieri previsto per l’accoglienza dei richiedenti asilo. Al sostituto procuratore Andrea D’Angeli una ex dipendente della Mukra, una società che lavorava con Karibu, ha raccontato: “Succedeva che molti ospiti delle strutture Sprar si allontanavano dalle strutture per ricongiungersi a familiari o altro. Di questo i responsabili della coop Karibu venivano informati immediatamente ma non provvedevano a toglierli dalla lista tenendoli appesi per tre o quattro mesi, continuando così a percepire il contributo previsto dal governo per l’ospite che si era allontanato e non aveva più diritto allo stesso”. La Guardia di Finanza avrebbe ricostruito, grazie alle testimonianze e ai documenti, che la Mukra e altre aziende che lavoravano con le coop della suocera di Soumahoro erano in realtà società satellite, presumibilmente riconducibili all’imprenditrice ruandese. Scrive il gip: “I punti di riferimento erano sempre i responsabili della Karibu e in particolare la signora Maria Terese Mukamitsindo”. E attraverso questo sistema truffaldino, di migranti fantasma e false fatturazioni, secondo gli investigatori gli indagati avrebbero perpetrato per anni l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, inserendo nelle dichiarazioni dal 2015 al 2019 elementi passivi fittizi e finti costi, attraverso fatture per operazioni inesistenti emesse da Consorzio Aid e dall’associazione di promozione sociale Jambo Africa, anche quest’ultima riconducibile a Maria Therese. Alle ordinanze di sequestro cautelare di beni e conti correnti, che hanno portato al sequestro preventivo “del profitto del reato” per oltre 639mila euro nei confronti di uno degli indagati e di oltre 13mila ad altri due, tra cui Liliane, si sono affiancate le misure interdittive del divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche per un anno, da parte della Guardia di Finanza di Latina, per i membri del Consiglio di amministrazione della Karibu. E ora sembra svanire la speranza di molti dei dipendenti, che chiedevano di essere pagati e poter ricevere i compensi delle 14 mensilità che la famiglia di Soumahoro non gli ha mai versato, facendo leva sul falso pretesto che la pubblica amministrazione era in ritardo con i rimborsi mentre, in realtà, nelle casse delle coop continuava a confluire un fiume di denaro. Solo Karibu, infatti, negli ultimi anni ha incassato oltre 65 milioni di euro, sui quali sono in corso gli accertamenti. E l’attenzione sui lavoratori resta alta da parte del sindacato UilTucs, che ha fatto scoppiare il caso e che lotta per i loro diritti, ma non da Maria Therese, che dopo un paio di incontri in cui aveva promesso di versare il denaro, ha disertato gli altri vertici, in una sorta di dispetto verso gli inquirenti che hanno sequestrato i soldi ma sempre a scapito dei più deboli, di quelli che Aboubakar Soumahoro dice di voler tutelare e riguardo ai quali si è espresso in maniera chiara, sottolineando che i lavoratori delle coop della sua famiglia vanno pagati. Non solo il deputato di sinistra non si è accorto di nulla in questi anni, di dove finissero i soldi degli impiegati e delle condizioni precarie in cui vivevano i migranti. Aboubakar, che non è nemmeno in grado di farsi ascoltare dai familiari, non è sceso in prima linea con il megafono per sposare la battaglia di quegli schiavi delle coop, rimasti senza lavoro e senza stipendi. Gli accordi sottoscritti con Maria Therese, attualmente, sono carta straccia e il segretario provinciale della Uiltucs Gianfranco Cartisano sta avviando una serie di iniziative sindacali per far valere le ragioni dei dipendenti, delle quali ha anche parlato ieri in una riunione con il prefetto di Latina, Maurizio Falco. “La Uiltucs Latina, come da richiesta inoltrata lo scorso 5 dicembre”, ha detto Cartisano, “intende affrontare le tante criticità determinate e scaturite dalla gestione Karibu e Aid, che rimane la nostra controparte negligente e contestabile. Il tavolo ha delineato la strada, ha aperto un confronto permanente, anche tecnico, finalizzato alla ricollocazione del personale. Abbiamo l’esigenza”, ha spiegato, “di non perdere queste figure professionali, ossia mediatori, operatori sociali, assistenti ed altre figure professionali che ad oggi sono stati i veri protagonisti. Solo i lavoratori hanno espresso la vera accoglienza, i datori di lavoro di Karibu e Aid hanno privilegiato solo il profitto tralasciando il salario dei dipendenti”, conclude.

Estratto di Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 19 dicembre 2022.

All'interno del garage di un centro per migranti gestito dalla coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro erano custoditi mobili dei Casamonica. L'inquietante sospetto venne riferito quasi quattro anni fa dall'allora senatrice Elena Fattori, passata dal Movimento 5 Stelle a Sinistra Italiana, all'allora sottosegretario agli interni Luigi Gaetti. E a distanza di così tanto tempo sembra sia rimasto tale. 

A quanto pare infatti la relazione della parlamentare, che l'11 marzo 2019 visitò il Cas "Rehema", non sarebbe mai finita sul tavolo di un investigatore e men che meno su quello di un magistrato. Esploso il caso delle coop di Maria Therese Mukamitsindo e dei suoi familiari, tra cui la figlia Liliane Murekatete, la senatrice ha sostenuto che in quel centro gestito dalla Karibu non avrebbe ospitato neppure i suoi cani e che della vicenda aveva parlato anche con Nicola Fratoianni.

Al mistero dei presunti mobili dei Casamonica nessuno però ha fatto cenno. Chi riferì quel particolare alla Fattori mentì? Qualcuno millantò che il mobilio appartenesse al clan rom? Interrogativi al momento senza risposta. 

"Mi ricordo della relazione", assicura Gaetti. Ma l'ex sottosegretario non informò di quel documento gli investigatori e a quanto pare il dossier rimase al Viminale, durante il Governo gialloverde, senza che venissero fatte particolari verifiche. […] 

A chiedere un'ispezione all'allora senatrice sarebbe stata una dipendente del Cas di Aprilia, grande centro al confine tra le province di Latina e Roma. […] 

"Quando all'improvviso si alzò il pavimento e ci fu bisogno dell'intervento dei vigili del fuoco - scrisse la Fattori nel rapporto - la suddetta dipendente conobbe gli affittuari della struttura. In questa circostanza è venuta a conoscenza della presenza di alcuni mobili stipati nel garage, perché messa in allerta dallo stesso avvocato.

Alla domanda se conoscesse di chi fossero le fu detto che erano della famiglia Casamonica. La responsabile, che in quel momento era in ufficio con loro, disse che ne era a conoscenza". La senatrice aggiunse poi che nei giorni seguenti, stando al racconto della dipendente del Cas, nel garage, insieme all'avvocato, si recarono la moglie di Soumahoro e la segretaria, "per controllare se il mobilio fosse tenuto in sicurezza", riconfermando "che bisognava stare attenti perché quei mobili appartenevano a una famiglia importante". […]

Nessuno però avrebbe indagato e quello dei Casamonica appare destinato a restare un giallo.

La solita sinistra “bugiarda”. Ecco la lettera che inchioda Fratoianni sul “caso Soumahoro”. La rivelazione di Striscia La Notizia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Dicembre 2022.

I due dirigenti di Sinistra Italiana avrebbero anche messo in guardia Fratoianni "sulla gestione a dir poco un po’ opaca delle raccolte fondi dell’associazione Lega Braccianti".

Nella puntata di Striscia La Notizia su Canale 5 andata in onda ieri venerdì 16 dicembre, una lettera inchioda Nicola Fratoianni e imbarazza i “dem” sul caso dell’onorevole Aboubakar Soumahoro. L’inviato “Pinuccio” (all’ anagrafe Alessio Giannone) ha rivelato come l’onorevole Fratoianni ha mentito ben sapendo di mentire, in quanto era perfettamente a conoscenza dallo scorso agosto delle presunte ambiguità nelle attività di Soumahoro e della sua Lega Braccianti .

A sbugiardare Fratoianni che aveva negato pubblicamente di essere mai stato a conoscenza di possibili ombre sull’operato di Soumahoro sono stati Marco Barbieri e Mario Nobile due membri pugliesi componenti della Direzione Nazionale di Sinistra Italiana, i quali hanno documentato di aver più volte avvertito Fratoianni prima che venisse ufficializzata la candidatura di Soumahoro. E i due esponenti politici pugliesi portano anche una prova riguardo alle loro affermazioni: una lettera (mostrata in esclusiva a Striscia la Notizia) firmata proprio da Barbieri e Nobile e scritta il 25 novembre . 

Nella lettera viene riportato e sottolineato come “l’onorevole Soumahoro si era circondato di un gruppo di fedelissimi, tra cui dei caporali”. Ma non soltanto. I due dirigenti di Sinistra Italiana avrebbero anche messo in guardia Fratoianni “sulla gestione a dir poco un po’ opaca delle raccolte fondi dell’associazione Lega Braccianti”.

Barbieri e Nobile, nella lettera,  avevano fatto notare anche come Soumahoro fosse “un personaggio creato dal gruppo Gedi e da La7, in particolare dal programma Propaganda Live” e si erano esposti direttamente con Fratoianni anche durante l’assemblea nazionale del partito del 17 agosto 2022. Ma di fatto il leader di Sinistra Italiana avrebbe reagito con indifferenza di fronte alle loro perplessità.  Redazione CdG 1947

Lavoratori senza stipendio. Ma per i familiari di Soumahoro maxi indennità. Nelle indagini della procura di Latina emerge come i vertici di Karibu e Aid prendessero stipendi da 4.400 euro al mese: tra loro la suocera e il cognato dell'onorevole. Tonj Ortoleva il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Stipendi da oltre 4 mila euro al mese per gli amministratori delle cooperative mentre i migranti ospitati erano costretti a vivere in tuguri senza riscaldamenti tra blatte, topi e sporcizia. C’è anche questo nell’indagine della procura di Latina sulle cooperative Karibu e Aid, legate ai familiari del deputato Aboubakar Soumahoro.

Le denunce dei sindacati e i riscontri nei bilanci

Negli anni passati quando i sindacati lamentavano il mancato pagamento degli stipendi dei dipendenti della cooperativa Karibu, chiedevano spesso, retoricamente, se anche gli amministratori avevano rinunciato alle loro spettanze. Una risposta pare esserci nelle carte dell’inchiesta portata avanti dal pm Andrea D’Angeli secondo il quale ad esempio per il presidente del Consorzio Aid, fino al 2020 e dunque nel periodo oggetto delle indagini, era previsto uno stipendio da 4.400 euro al mese. E chi era questo presidente? Uno dei figli di Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro: Michel Rukundo, anche lui indagato dalla procura di Latina. Prima di lui la presidente era proprio la Mukamitsindo, che ha percepito i medesimi emolumenti. L’indagine condotta dalla guardia di finanza di Latina su mandato della procura ritiene che tra il 2015 e il 2019 la cooperativa Karibu ha evaso l'Imposta sul reddito delle società e l'Iva, sfruttando fatture emesse per operazioni inesistenti dal Consorzio Aid e dall'associazione Jambo Africa. Tutte società che, secondo quanto raccontano i testimoni ascoltati dagli inquirenti, rimandano alla medesima guida: ossia i familiari di Soumahoro, Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo. Insomma quello che era un sospetto adesso sembra avere anche un riscontro concreto e diventa ancora più duro da digerire per gli ex dipendenti della cooperativa Karibu che sono rimasti senza lavoro e che attendono ancora gli stipendi degli anni passati.

I bonifici verso il Ruanda: le indagini ora guardano lì

La nuova fase delle indagini della procura di Latina sul caso delle cooperative Karibu e Aid si concentra su un consistente numero di fatture che avrebbero portato a bonifici verso il Ruanda. In particolare gli investigatori vogliono chiarire i dubbi sui bonifici effettuati all’indirizzo di Richard Mutangana, fratellastro della moglie di Soumahoro. Spulciando le carte della cooperativa Karibu, la guardia di finanza ha riscontrato “prelevamenti in contanti, bonifici verso l'estero, una difficile rendicontazione delle erogazioni, una gestione contabile non trasparente e distrazioni di denaro per finalità estranee alla gestione dei progetti”. Alcuni di questi bonifici finivano, a quanto pare alla Karibu RW e a Mutangana. Solo nel 2015, tra i bilanci della coop Karibu sono registrati 64.315 euro per prestazioni occasionali, tra cui quelle di Mutangana e della moglie, che è anche la professionista che ha firmato il bilancio medesimo della coop. Un giro di circostanze che gli inquirenti considerano sospette e sulle quali stanno provando a fare luce. L’impressione è che la vicenda sia solo all’inizio.

"Soldi pure per i migranti usciti da Sprar". Altra accusa per la coop dei Soumahoro. Tra le testimonianze raccolte dagli inquirenti anche quelle di una ex dipendente che afferma come chi lasciava lo Sprar veniva conteggiato per mesi per ottenere il contributo previsto per l'ospite. Tonj Ortoleva il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Migranti che lasciano i centri di accoglienza ma vengono comunque conteggiati per ottenere i rimborsi dallo Stato oppure società definite satelliti sulle quali già si addensavano sospetti. C’è anche questo nelle carte delle indagini della procura di Latina sulle cooperative dei familiari dell’onorevole Soumahoro. E sono gli stessi dipendenti di Karibu e consorzio Aid a svelare dettagli agli inquirenti.

Gli ospiti che lasciavano la coop venivano comunque conteggiati

Dall’ordinanza che ha disposto le misure interdittive e i seuquestri preventivi per Marie Terese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo emergono dettagli su come veniva gestito il sistema dell’accoglienza per i richiedenti asilo. Sembra infatti che i responsabili della cooperativa Karibu in più di una occasione non abbiano depennato dalle loro liste gli ospiti delle strutture Sprar che si allontanavano volontariamente per ricongiungersi alle loro famiglie, per continuare così a percepire anche per mesi il relativo contributo dallo Stato. È quanto ha dichiarato al pm di Latina una ex dipendente di una delle società satellite della coop Karibu. La ex dipendente lavorava per la Mukra ( una società satellite che non appare però nell'ordinanza del gip) che “era una coop che faceva capo sempre a Karibu, ovvero alla signora Maria Terese. Per quanto concerne la Jambo Africa invece all’inizio si occupava dell’accoglienza di minori non accompagnati a Roccagorga. Il riferimento era il figlio di Marie Therese, Richard”. Poi il punto chiave: “Succedeva che molti ospiti delle strutture Sprar si allontanavano dalle strutture per ricongiungersi a familiari o altro. Di questo i responsabili della coop Karibu venivano informati immediatamente ma non provvedevano a toglierli dalla lista tenendoli appesi per tre o quattro mesi continuando così a percepire il contributo previsto dal governo per l’ospite che si era allontanato e non aveva più diritto allo stesso”.

Le altre cooperative o società satellite della Karibu

Le varie persone ascoltate in questa prima fase di indagini da parte della procura di Latina e affidate alla guardia di finanza, hanno di fatto confermato alcuni sospetti da parte degli inquirenti e relativi al giro di società che ruotano attorno alla cooperativa Karibu. Altri ex dipendenti di Karibu e Jambo affermano che “queste società svolgono attività tutte nello stesso ambito e comunque erano tutte cooperative satelliti di Karibu nel senso che i punti di riferimento erano sempre i responsabili di Karibu”. Nell’ordinanza il gip Giuseppe Molfese scrive che “entrambe le testimoni precisano che la Mukra come la Jambo sono cooperative satelliti della Karibu e che i punti di riferimento erano sempre i responsabili della Karibu e in particolare la signora Maria Terese Mukamitsindo”. Elementi che l’accusa ritiene fondamentali per suffragare la propria tesi. Infatti, secondo il sostituto procuratore Andrea D'Angeli, gli indagati avrebbero evaso per anni le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, inserendo nelle dichiarazioni dal 2015 al 2019 elementi passivi fittizi e costi inesistenti. Lo avrebbero fatto utilizzando fatture relative a operazioni inesistenti emesse da Aid e dall'associazione di promozione sociale Jambo Africa, che come affermano i testimoni erano sempre riconducibili a Karibu.

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 20 dicembre 2022.

Entrano ed escono tutti in silenzio. Prima Marie Therese Mukamitsindo e il figlio Michel Rukundo. Poi l'altra figlia Liliane Murekatete, moglie di Aboubakar Soumahoro. Ma dal Tribunale, dove hanno appena sostenuto l'interrogatorio di garanzia, arriva subito l'eco di un imminente guerra in famiglia. 

A rompere il blocco unico a cui il gip Giuseppe Molfese aveva attribuito «l'illecito meccanismo fraudolento a gestione familiare» è proprio Liliane, che deposita documenti per prendere le distanze dalla gestione di Marie Therese.

Nel giorno in cui il marito Soumahoro, deputato di sinistra italiana, risponde alle voci che si sono rincorse di imminenti provvedimenti nei suoi confronti: «Prenderò atto delle decisioni del gruppo parlamentare che mi ha eletto da indipendente, e accetterò ciò che in cuor loro reputeranno opportuno fare. Da parte mia c'è massima serenità d'animo», dice il deputato che non è coinvolto nell'inchiesta giudiziaria, affrontando le voci di una possibile espulsione. Smentita però dallo stesso leader dei Verdi-Sinistra Italiana Angelo Bonelli: «Nessuna espulsione. Si è già autosospeso. Non è cambiato nulla».

Se Marie Therese e Michel si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, Liliane, cappotto color cammello, occhiali da sole, cappellino e stivali neri con fascia stile Burberry, assieme al suo avvocato Lorenzo Borré, al gip ha depositato carte che dimostrerebbero, secondo la difesa, la sua innocenza. O, quantomeno, che in lei non ci fosse quella «consapevole e attiva partecipazione al meccanismo fraudolento», contestata dal gip. Coinvolta a sua insaputa in un periodo per lei molto critico.

L'avvocato Borré confida «che, grazie alla documentazione, a breve possa essere rivista la sovrapposizione di responsabilità. E rivalutata la contestazione della sua condotta omissiva». Liliane su questo e gli altri filoni di indagine, a partire dalla malagestione dell'accoglienza dei migranti, lasciati privi di riscaldamento e senza trattamenti contro topi e blatte, all'uscita del Tribunale ha preferito non rispondere.

Ma davvero mamma Marie Therese ha tirato in ballo la figlia Liliane in una gestione segnata da fondi distratti, fatture false e fondi distratti all'estero? Per ora di fronte al gip la signora Mukamitsindo ha taciuto. 

Avvolta in un lungo cappotto color panna, accanto al figlio Michel, e agli avvocati di entrambi, Fabio Pignataro e Luca Marafioti, ha taciuto anche con i cronisti. Scelta tecnica dice Pignataro spiegando che ancora «non conosciamo il compendio probatorio, e fermo restando che fin d'ora escludo responsabilità, chiediamo il tempo di poter dimostrare la sua innocenza». Marie Therese, in silenzio, si allontana.

Dietro di lei resta per ora intatta la scia di dubbi che contraddistinguono questa vicenda. Come è stato possibile continuare ad avere fondi assegnati dal ministero dell'Interno, dalla Regione, dal Comune, se tante contestazioni si erano levate sulla sua gestione? E perché dopo le manifestazioni dei migranti scesi in piazza fin sotto la prefettura non si è acceso un faro su ciò che accadeva in quelle strutture? 

Scenari emersi anche durante l'ispezione della deputata M5S (ora in Sinistra italiana) Elena Fattori, che visitò il Cas «Rehema» l'11 marzo 2019 e stilò al Viminale una relazione, riportata ieri da Repubblica , nella quale parlava di una strana custodia. In un garage sarebbero stati protetti con cura mobili di «una famiglia importante»: secondo quanto riferito alla Fattori, il gruppo criminale dei Casamonica. Nessuno fu chiamato ad approfondire.

L’ULTIMO MACIGNO DI SOUMAHORO. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 20 Dicembre 2022

Non eletto, poi eletto. Autoespulso, poi – quasi – espulso. La carriera da parlamentare di Aboubakar Soumahoro ha avuto un inizio a dir poco frizzantino. Eppure, l’ex leader dei braccianti, dopo la fumata bianca del plurinominale, aveva varcato la soglia di Montecitorio con tutti i più buoni auspici sotto il segno dei Verdi e di Sinistra Italiana, da cui ora rischia la definitiva espulsione. Eppure, la sua storia presentava tutti i crismi per concludersi con un lieto fine.

L’INDESIDERATO

Soumahoro era stato candidato, per le elezioni politiche del 25 settembre, nel collegio uninominale di Modena dalla coalizione composta da Pd, +Europa, Sinistra Italiana/Verdi. Fin dalla prime voci della sua candidatura, il Pd modenese e parte del Pd dell’Emilia-Romagna, avevano iniziato a porre i primi dubbi su quel collegio cittadino: già dall’estate erano emersi alcuni “elementi di criticità e di opacità” a proposito di Soumahoro, con queste problematiche che, ha ricordato il segretario provinciale del Pd di Modena Roberto Solomita, erano state portate all’attenzione del Pd. Le evidenze erano state segnalate da alcuni rappresentanti dei sindacati confederali, tanto da chiedere al partito nel periodo pre-elezioni: “Gira questa roba qui. Siamo sicuri?”. I dubbi erano stati accolti dalla coalizione, tranne – specifica Solomita – da Sinistra Italiana e Verdi. In ogni caso, il silenzio ha avuto la meglio e al voto del 25 settembre si era arrivati senza troppi ostacoli sulla strada. La scelta della candidatura, appoggiata dagli alleati Verdi e Sinistra Italiana era stata confermata, ma dal Pd sembravano già essere state prese le distanze. Nel giorno dei risultati però l’uninominale – forse con il sollievo di qualcuno – non ha sorriso a Soumahoro, a cui è venuto in aiuto il plurinominale, grazie al quale il nuovo deputato alla Camera ha potuto fare il suo ingresso in Parlamento con tanto di stivali e di esplicita soddisfazione in volto. Così, tra i banchi dell’opposizione a fianco di Nicola Fratoianni e di Angelo Bonelli, era iniziata l’avventura da onorevole del politico amico dei braccianti. Ma a neanche due mesi dall’insediamento, la sua posizione torna a traballare e tutti gli amici vicini si cominciano ad allontanare: la Procura di Latina, che stava indagando a seguito di alcune denunce per mancati pagamenti e condizioni di lavoro disumane, fa scoppiare il caso della cooperativa Karibu e delle altre attività gestite dalla compagna e alla suocera del deputato. Soumahoro non è coinvolto – o almeno lo è ma solo sentimentalmente ed emotivamente – nella vicenda e si è dichiarato sempre estraneo ai fatti, rilasciando anche dichiarazioni incoerenti con la posizione delle familiari indagate. È l’inizio – anzi, il seguito – dell’esclusione: se all’inizio il Pd aveva presentato i primi dubbi sul suo conto, ora anche dal suo gruppo arrivano i grugniti. Così Soumahoro mette le mani avanti e alla fine di novembre si autosospende dall’alleanza, senza farsi mancare una scena di pianto dai tratti tragicomici sui social. “Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni e del valore dell’impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi che abbiamo sempre condiviso” avevano dai vertici. E se Bonelli aveva dichiarato che la candidatura non era stata un errore, anche Fratoianni aveva spiegato che all’epoca della conferma della candidatura “non c’era nessun profilo di illecito nei suoi confronti”.

L’ULTIMO ATTO

Eppure, il leader di Sinistra Italiana non si era detto convinto delle sue spiegazioni e successivamente, i dirigenti locali del partito avevano annunciato di aver avvertito delle voci sul deputato, sottolineando che il segretario “era stato informato di tutto per tempo”. Fratoianni, di fronte alle accuse contro Soumahoro, aveva inizialmente mantenuto la linea di estraneità: “Mi aveva detto che aveva tutte le possibilità di giustificare ogni spesa. Ovviamente, io non faccio il mestiere del controllo fiscale e quindi, se qualcuno mi dice che un accusato è in grado dimostrare la correttezza nell’utilizzo dei fondi, ovviamente mi fido di quello che mi viene detto” aveva dichiarato. Ma più passa il tempo e più la difesa comincia a sgretolarsi: l’ultimo tentativo di rattoppo era stato fatto lo scorso 25 novembre quando il leader di SI insieme a Bonelli alla Camera avevano dichiarato in diretta: “Soumahoro ci ha esposto il suo punto di vista e ha annunciato l’intenzione di rispondere punto su punto e nel merito alle contestazioni giornalistiche ribadendo la sua assoluta estraneità alle vicende. Naturalmente sarà lui a farlo, nelle forme e nei tempi che riterrà più opportune”. Eppure, ad oggi, quelle risposte non sembrano essere arrivate. Il tempo dell’onorevole con gli stivali sembra essere scaduto anche con l’alleanza. Infatti, secondo le ultime indiscrezioni, Sinistra Italiana e Verdi sarebbero pronti ad espellere definitivamente l’onorevole. La sua carriera politica ovviamente non finirebbe e non sarebbe espulso dal parlamento: Soumahoro, nuovamente indesiderato, potrebbe passare al gruppo misto della Camera dei Deputati. Tuttavia, l’onorevole paura di essere messo da parte non ne ha. Di fronte alla possibilità paventata dell’espulsione risponde: “Prenderò atto delle decisioni del gruppo parlamentare che mi ha eletto da indipendente, e accetterò ciò che in cuor loro reputeranno opportuno fare. Da parte mia c’è massima serenità d’animo”. Ora manca solo il verdetto.

Soumahoro, altra mazzata di Striscia a Bonelli-Fratoianni: si devono dimettere? Il Tempo il 20 dicembre 2022

Sono loro o non sono loro? Certo che sono loro, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, di nuovo nel mirino di Striscia la notizia per la vicenda legata ad Aboukabar Soumahoro. Il deputato dell'alleanza Verdi-Sinistra italiana è stato travolto dall'inchiesta sulle coop gestite dalla suocera e dalla figlia, e con lui i segretari dei due partiti. Nel corso di un servizio andato in onda nella puntata di martedì 2o dicembre del tg satirico di Canale 5, sono state riportate le dichiarazioni di Bonelli e Fratoianni appena scoppiato lo scandalo. 

Il verde affermava di avere regole ferree nella scelta dei candidati ma di non aver saputo nulla delle vicende che interessavano la famiglia di Soumahoro. Il leader di Sinistra italiana invece ammette di aver avuto una segnalazione, da parte della ex M5s Elena Fattori, delle cattive condizioni delle strutture in cui avveniva l'accoglienza dei migranti. Il tutto prima della candidatura di Soumahoro. 

A questo punto Striscia mostra le mail di due esponenti di Si che esprimevano seri dubbi a Fratoianni. "Queste notizie su Soumahoro sono state dette anche durante l'assemblea nazionale di Sinistra Italia ad agosto, e Fratoianni ha mostrato disinteresse per queste informazioni", spiega l'inviato di Striscia, Pinuccio. Denunce che erano arrivate anche da un sacerdote che operava nell'area delle strutture finitesotto la lente della Procura di Latina. Per Striscia, insomma, Bonelli e Fratoianni "l'hanno pestata grossa, e senza avere gli stivali di Soumahoro". E così Ezio Greggio ed Enzo Iacchetti lanciano la palla al pubblico del tg: "Secondo voi devono dimettersi sì o no?", affermano promuovendo un sondaggio sul sito di Striscia. I risultati saranno mostrati domani.  

Scoppia la lite in famiglia, ora tra i Soumahoro è scontro contro tutti. È guerra davanti ai giudici. Liliane Murekatete nega di essere a conoscenza della gestione illegale dei migrant. Ignazio Riccio il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Emergono le prime crepe all’interno della famiglia di Liliane Murekatete, moglie di Aboubakar Soumahoro, deputato eletto nella lista dei Verdi-Sinistra italiana. Le accuse riguardanti la gestione dei migranti sono gravi: oltre alla malagestione e ai maltrattamenti nei confronti degli stranieri arrivati in Italia ci sarebbero anche fatture false e fondi distratti all’estero. Ciò è bastato a Liliane per decidere di prendere le distanze dall’operato della madre Marie Therese Mukamitsindo e suo figlio Michel Rukundo che, invece, viaggiano compatti in tribunale. Già da un po’ è partito il gioco dello scaricabarile, con il rimpallo delle responsabilità, che rende ancora più confusa l’intera vicenda. I giudici hanno costruito il castello accusatorio su “un meccanismo illecito fraudolento a gestione familiare”, ma la moglie del parlamentare Soumahoro non ci sta. Attraverso i suoi legali, che non sono quelli della madre, ha presentato una documentazione nella quale afferma che non era a conoscenza dell’attività illegale svolta nei confronti dei migranti.

La difesa estrema di Soumahoro

Tutto questo accade proprio mentre il deputato Soumahoro cerca di difendersi con le unghie e con i denti dal mare di fango che gli è caduto addosso. Tutti attendono che il partito prenda provvedimenti concreti nei suoi riguardi, ma il parlamentare si dice tranquillo. “Prenderò atto delle decisioni del gruppo che mi ha eletto da indipendente – ha dichiarato al Corriere della Sera – e accetterò ciò che in cuor loro reputeranno opportuno fare. Da parte mia c'è massima serenità d'animo”. Soumahoro non è coinvolto nella vicenda della moglie, ma rischia l’espulsione. Per il momento, comunque, non sembra ci siano all’orizzonte provvedimenti sanzionatori da parte dei vertici di Sinistra italiana. È lo stesso leader della formazione politica Angelo Bonelli a confermarlo. “Nessuna espulsione – ha affermato – si è già autosospeso. Non è cambiato nulla”.

La mossa di Liliane Murekatete

La moglie di Soumahoro, Liliane, invece è in pieno movimento. Ha confermato di essere innocente perché non era consapevole del meccanismo fraudolento messo in atto dalla madre Marie Therese Mukamitsindo e da suo figlio Michel Rukundo, i quali si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in tribunale. Ora si dovrà attendere lo svolgersi di un processo che si preannuncia difficile e articolato. Diversi sono i dubbi da sciogliere, in particolare si dovrà spiegare per quale motivo, nonostante le tante obiezioni presentate nei confronti della gestione dei migranti da parte dell’organizzazione di Mukamitsindo, sono continuati ad arrivare fondi pubblici. Di fronte alle ispezioni, che evidenziavano anomalie, nessuno è intervenuto per approfondire e ciò dovrà essere sicuramente valutato in sede giudiziaria.

Coop dei Soumahoro, il giallo dei soldi incassati senza avere il Durc in regola. Il Comune di Roma blocca due fatture alla cooperativa Karibu dopo l'avvio delle indagini, per assenza di regolarità contributiva. Prima nessuno ha controllato. Tonj Ortoleva il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Come hanno fatto le cooperative della famiglia di Soumahoro, nel corso degli anni, a ricevere finanziamenti dallo Stato se non pagavano gli stipendi ai dipendenti e, presumibilmente, nemmeno i contributi previdenziali? In questo caso, infatti, non avrebbero potuto produrre il Durc, documento unico di regolarità contributiva, indispensabile se si vuole lavorare con la pubblica amministrazione. Una domanda non di poco conto se pensiamo che in oltre venti anni di attività le cooperative Karibu e Consorzio Aid hanno incassato dallo Stato oltre 65 milioni di euro.

Il Durc assente e il Comune di Roma blocca le fatture

Ad accorgersi dell’assenza del Durc è stato il Comune di Roma che ha bloccato il pagamento di due fatture alla cooperativa di Latina guidata dai familiari di Soumahoro. Roma aveva impegnato quasi 5 milioni di euro in favore della Karibu pagando oltre 3 milioni. Le ultime due fatture, per un importo complessivo di circa 60 mila euro, sono invece state bloccate dalla dirigenza di Roma capitale in quanto era già esploso lo scandalo delle coop pontine a seguito dell’inchiesta della procura di Latina. A quel punto i funzionari del comune hanno effettuato dei controlli appurando che Karibu non avere il Durc, ossia non aveva la regolarità contributiva. Nei giorni scorsi in commissione trasparenza è emerso che da un controllo effettuato presso l’Inps la coop non era in regola. A nessuno però nei mesi passati, prima che l’inchiesta esplodesse, è venuto in mente che potesse esserci qualcosa che non andava, nemmeno in seguito alle denunce pubbliche dei sindacati rispetto ai mancati pagamenti degli stipendi di diversi dipendenti.

Cosa è il Durc e perché è importante

Il Durc è il documento che attesta la regolarità nel pagamento dei contributi Inps, Inail eccetera da parte di una azienda. Per lavorare con la pubblica amministrazione è fondamentale in quanto in assenza dello stesso gli enti pubblici non sono autorizzati a pagare le fatture emesse per i lavori effettuati. Eppure, Karibu negli anni ha continuato a ottenere i pagamenti da Comuni, Regione Lazio e Anci. Una questione su cui forse ora stanno accendendo i fari anche gli inquirenti, impegnati a controllare i bilancio 2020 e 2021. In quest’ultimo, tanto per fare un esempio, la coop aveva debiti tributari che superano il milione di euro. La sensazione è che gli enti con cui le coop dei Soumahoro lavoravano non abbiano approfondito i controlli. È stato infatti sufficiente che lo facesse il comune di Roma Capitale per accorgersi che mancava un documento fondamentale.

Caso Suomahoro, sequestro a vuoto: solo pochi spicci. Continuano i controlli Roma ferma le fatture. Ancora punti oscuri attorno alle coop gestite dalla suocera e dalla compagna del deputato. Tonj Ortoleva il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.

C'è una regola per chi lavora con la pubblica amministrazione per la quale se non si è in regola con il Durc, ossia con i contributi previdenziali, non è possibile ricevere il pagamento delle fatture ma soprattutto ottenere appalti. Eppure nel corso degli anni le cooperative della famiglia del deputato Soumahoro hanno ottenuto appalti e ricevuto pagamenti da enti pubblici quali Comuni, Regione e Anci nonostante avessero difficoltà nel pagamento degli stipendi mensili e si presume anche dei contributi relativi. Ad accorgersi che qualcosa non andava è stato il Comune di Roma. Intanto, da Latina emerge come il sequestro preventivo ordinato dalla procura sui conti degli indagati sia andato pressoché a vuoto: dei 650 mila euro sono rimasti pochi spicci.

Tanti, troppi i punti ancora oscuri legati alle cooperative gestite da Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo. Il Comune di Roma alcuni giorni fa ha fermato il pagamento di due fatture alla coop Karibu per assenza del Durc. Si tratta di un documento che attesta la regolarità nel pagamento dei contributi Inps, Inail eccetera da parte di una azienda. Per lavorare con la pubblica amministrazione è fondamentale in quanto in assenza dello stesso gli enti pubblici non sono autorizzati a pagare. Roma aveva impegnato in bilancio quasi 5 milioni di euro in favore della Karibu pagando oltre 3 milioni. Le ultime due fatture, però, per un importo complessivo di circa 60 mila euro, sono state fermate e il Comune provvederà a versare le somme necessarie all'Inps al posto delle cooperative della suocera e della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. A nessuno però nei mesi passati, prima che l'inchiesta esplodesse, è venuto in mente che potesse esserci qualcosa che non andava, nemmeno in seguito alle denunce pubbliche dei sindacati rispetto ai mancati pagamenti degli stipendi di diversi dipendenti. Nel corso di venti anni di attività con la pubblica amministrazione, le cooperative dei Soumahoro hanno incassato dallo Stato circa 65 milioni di euro. Una questione su cui forse ora stanno accendendo i fari anche gli inquirenti, impegnati a controllare i bilanci 2020 e 2021. In quest'ultimo, tanto per fare un esempio, la coop aveva debiti tributari che superano il milione di euro. La sensazione è che gli enti con cui le coop dei Soumahoro lavoravano non abbiano approfondito i controlli. È stato infatti sufficiente che lo facesse il comune di Roma Capitale per accorgersi che mancava un documento fondamentale.

Nel frattempo emerge che il sequestro preventivo di circa 650 mila euro ai tre indagati familiari di Soumahoro, è stato un buco nell'acqua. La procura ha trovato solo spicci nei conti correnti di Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Dicembre 2022

Gli onorevoli Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) e Angelo Bonelli (Verdi) devono dimettersi dopo l’affaire Soumahoro? È la domanda che Striscia la notizia, il tg satirico di Antonio Ricci in onda da 34 anni su Canale5, ha posto ieri sera ai telespettatori, che hanno potuto esprimere la propria opinione sul sito. 

Come già denunciato da Striscia e dai servizi dell'inviato Pinuccio, prima che Verdi e Sinistra Italiana candidassero Aboubakar Soumahoro, qualcuno aveva avvertito Fratoianni e Bonelli su alcune ambiguità relative all'operato dell’ex sindacalista di Lega Braccianti.

L’ex senatrice 5 Stelle Elena Fattori, i due esponenti pugliesi di Sinistra Italiana Marco Barbieri e Mario Nobile e Don Andrea Pupilla, il responsabile della Caritas di San Severo, avevano tutti espresso delle perplessità, restando tuttavia inascoltati. 

A differenza degli altri media, Striscia la notizia non si è occupata solo ed esclusivamente dello scandalo delle cooperative sociali gestite dalla compagna e dalla suocera dell’ex sindacalista, ma anche dei fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Pinuccio, dei suoi due ex soci.

E il risultato del sondaggio è stato plebiscitario: il 97% dei votanti ha infatti espresso parere favorevole  dimissioni dei due onorevoli. Da segnalare che Striscia ha iniziato a contattare Aboubakar Soumahoro il 25 ottobre per intervistarlo e avere la sua versione della storia. Ecco le domande che sono rimaste senza risposta, ora diventate sedici. Soumahoro risponderà mai? 

Come sono stati spesi i fondi raccolti per la pandemia?

A chi sono stati consegnati i regali della raccolta di Natale destinati ai bambini di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone?

Quanti soldi sono stati raccolti su PayPal e sul suo conto corrente personale e come sono stati spesi i fondi di quelle collette? 

Come mai il rimpatrio della stessa salma è stato utilizzato come giustificativo di tre raccolte diverse?

Nell’accordo col patronato cosa era previsto e perché i suoi ex soci riferiscono di percentuali sulle pratiche? 

Ci può fornire il verbale dell’assemblea in cui sono stati estromessi i due soci fondatori della Lega Braccianti?

Oltre al bilancio, è possibile vedere nel dettaglio le entrate e uscite dell’Associazione Terzo Settore Lega Braccianti? 

Ha mai fatto il bracciante agricolo in Italia?

Con che fondi ha pagato la campagna elettorale? 

Gli stivali di gomma portati in parlamento sono suoi?

Perché non voleva fare entrare altre associazioni all’interno del ghetto e doveva gestire tutto lui con la Lega Braccianti? 

Chiedevate soldi ai braccianti per le pratiche sindacali?

Ma i soldi al partito li stai versando?

Può escludere che si era circondato di alcuni caporali, all’interno del ghetto?

Può escludere queste richieste fatte alla Prefettura su meno controlli per i mezzi che trasportavano i migranti nei campi? 

È vero che l’aggressione ai danni del sindacalista è stata effettuata da alcune persone della Lega Braccianti?

Soumahoro, il video rubato con Zoro e Damilano. Libero Quotidiano il 23 dicembre 2022

Nuove accuse ad Aboubakar Soumahoro arrivano da Striscia la Notizia. Il tg satirico di Canale 5 prosegue la sua battaglia per fare chiarezza sulla vicenda che ha travolto il deputato. In particolare Striscia, più che sulle indagine legate a moglie e suocera, si sofferma sull'ex esponente di Verdi-Sinistra italiana. "È un personaggio costruito a tavolino da alcuni maître à penser della sinistra", esordisce il tg satirico che mostra nella puntata di venerdì 23 dicembre un video esclusivo. Il programma punta direttamente il dito contro l’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano e il conduttore di Propaganda Live Diego Bianchi, noto come Zoro. 

A confermarlo Marco Barbieri e Mario Nobile, membri pugliesi della Direzione Nazionale di Sinistra Italiana: "Un personaggio creato dal gruppo Gedi e da La7, in particolare dal programma Propaganda Live". Ma non solo, perché Striscia mostra un filmato girato al Festival del giornalismo di Perugia il 7 aprile 2019. Qui si vedono Damilano e Zoro ammettere: "La costruzione di una leadership è difficilissima", spiega Bianchi dal palco, dopo un selfie con Soumahoro. 

Solo ieri Striscia mostrava le immagini in cui il deputato annunciava l’addio al sindacato per impegnarsi nella "missione" con la sua Lega Braccianti. "Non rinuncio a un salario per un altro salario: rinuncio a un salario punto", erano le sue parole. Frasi che oggi, vista la situazione che lo ha visto protagonista, fanno insospettire.

"Non sapevo nulla degli affari". Ma spunta il video che incastra Soumahoro. Spunta un nuovo documento sul sindacalista con gli stivali: l'inaugurazione di una casa dei diritti della Lega Braccianti a Latina, proprio nella cooperativa Karibu gestita dalla suocera e al centro dell'inchiesta. Massimo Balsamo il 23 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Prosegue senza sosta l'attività degli inquirenti sugli affari illeciti delle cooperative del Pontino gestite dai familiari di Aboubakar Soumahoro, per la precisione dalla suocera Marie Therese Mukamitsindo e dalla moglie Liliane Murekatete. Il parlamentare eletto con Verdi e Sinistra Italiana ha sempre negato ogni coinvolgimento, affermando di non essere a conoscenza di eventuali reati. Striscia la notizia ha acceso i riflettori sul caso e ha reso noto un video che sembra incastrare il sindacalista con gli stivali.

Il video che incastra Soumahoro

L'inviato Pinuccio ha scovato un video in cui vede Soumahoro mentre inaugura una casa dei diritti della Lega Braccianti - dopo quella 'dimenticata' nel ghetto di Rignano - proprio a Latina, e proprio nella cooperativa Karibu gestita dalla suocera Marie Therese Mukamitsindo. Ma non è tutto. Nella sequenza, infatti, si possono scorgere alcuni partecipanti che indossano la maglietta di Aid Italia, l'agenzia che fa capo al cognato Michel Rukundo, anche lui nell'elenco degli indagati. Possibile che non sapesse nulla delle reali condizioni degli ospiti delle coop?

"Non ero a conoscenza". L'inchiesta ora "preoccupa" Soumahoro

Senza dimenticare quanto affermato dall'amico e socio storico di Soumahoro, il sindacalista Yacouba Saganogo: l'uomo aveva ribadito che Soumahoro spingeva per non fare mai manifestazioni della Lega Braccianti nel Lazio. "Anche cercando di fare delle rivendicazioni contro il sistema dei centri di accoglienza, lui ha sempre voluto evitare il Lazio", le sue parole.

La capriola del sindacalista

Un ulteriore documento sul caso Soumahoro, che per il momento ha sempre preferito evitare di rispondere alle domande di Striscia la notizia. Contattato dall'inviato del telegiornale satirico, il sindacalista con gli stivali ha deciso di non proferire parola. Già nella puntata di giovedì Striscia aveva mandato in onda un video preso dal profilo Facebook dell'onorevole, risalente al luglio 2020.

In quell'occasione, l'ormai ex paladino della sinistra annunciava l'addio al sindacato per la missione con la sua Lega Braccianti: "La scelta che ho compiuto comporterà dei sacrifici, anche economici, per me e per la mia famiglia. Non rinuncio a un salario per un altro salario: rinuncio a un salario punto. Non rinuncio a una scrivania per una poltrona: chi mi conosce, sa che non sono uno da scrivania. E per quanto riguarda la politica, non ho nemmeno la tessera di un partito". Una affermazione smentita due anni dopo, con la campagna elettorale e l'elezione in Parlamento tra i banchi di Verdi-Sinistra Italiana.

Antonio Giangrande: Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Paladini dei lavoratori, però li sfruttano. Pasquale Napolitano il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

Da Fico a Boldrini e Bellanova: la sinistra spesso pizzicata a fare la furba

In piazza per difendere i diritti dei lavoratori. Ma quando si tratta di pagarli i leader della Pd e della sinistra se ne scappano a gambe levate. Fico, Boldrini, Bellanova, Di Battista, Soumahoro: tutti con il braccino corto e allergici a pagare (e dire grazie) ai propri lavoratori. E poi c’è il «il campione del riformismo: il sindaco di Milano Beppe Sala che vuole un social media con uno stipendio da 9 euro lordi all’ora. Natale, Pasqua e Capodanno compresi. Un’idea rivoluzionaria di salario minimo. Chapeau. Tutti i leader della sinistra con il braccino corto hanno anche un’altra cosa in comune: sono sempre pronti a minacciare querele. La storia recente ci ha regalato tante bandiere della sinistra cadute sui lavoratori. Laura Boldrini è forse il nome più illustre. Ma anche quello che fa più rumore. Un doppio inciampo. L’assistente e la colf avrebbero rivendicato dall’ex numero uno di Montecitorio, oggi tra i big del Pd, stipendi e straordinari. Ma la Boldrini nega e minaccia querele. Il caso rimbalza un anno fa. L'ex colf di nazionalità moldava si è rivolta a un patronato di Roma per chiedere il pagamento della liquidazione di 3000 euro, a dieci mesi dalla fine del contratto, dopo una collaborazione durata otto anni. Anche Roberta, la sua ex collaboratrice parlamentare, aveva raccontato al Fatto di mansioni che esulavano dai propri compiti contrattuali. «Ho lavorato due anni e mezzo con la Boldrini posso dire che ho tre figli, partivo il martedì alle 4.30 da Lodi per Roma, lavoravo per tre giorni 12 ore al giorno, dalla mattina presto alle nove di sera. Per il resto lavoravo da casa, vacanze comprese. Guadagnavo 1.200 / 1.300 euro al mese, da questo stipendio dovevo togliere costi di alloggio e dei treni da Lodi». Boldrini aveva parlato di equivoco. La colf è stata la buccia fatale per un altro presidente della Camera: Roberto Fico. Le Iene tirano fuori la storia della domestica pagata in nero dall’allora presidente di Montecitorio nell’abitazione di Napoli. Fico si infuria e denuncia il programma Mediaset. Querela persa (per Fico). Altro verdetto negativo è arrivato per l’ex ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova, sindacalista come Saumahoro. La Corte di Appello di Lecce ha condannato l’ex ministra delle Politiche agricole e il Pd provinciale di Lecce per aver impiegato per oltre tre anni un addetto stampa senza averlo mai assunto come dipendente. Per i giudici di fatto l’addetto stampa era un dipendente del partito. La Corte d’Appello ha riconosciuto la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato e condannato Bellanova e il partito a risarcire il lavoratore e a pagare le spese processuali. Il Pd provinciale e Bellanova dovranno pagare oltre 50 mila euro a Maurizio Pascali: 43 mila il partito e 6.700 l’ex sindacalista. Storia simile è accaduta alla federazione Pd di Napoli: l’ex portavoce Alessandra Romano rivendica gli stipendi arretrati: il caso è finito in Tribunale. C’è poi il "leader morale" della sinistra: Alessandro Di Battista, il Che grillino che gira il mondo alla scoperta di idee per i suoi libri. Nel 2018 l’azienda del padre, Vittorio Di Battista, finì nella bufera per debiti e stipendi non pagati ai lavoratori. Nulla di male. La strategia è semplice: quando si tratta di mettere mano al portafogli scappare. Fuga. Fratoianni e Bonelli chiedono l’autosospensione di Soumahoro. Perché mai? È così in buona compagnia tra Pd e sinistra.

IL CASO. «Un falso co.co.co. come addetto stampa», condanne per il Pd di Lecce e la Bellanova. Sentenza della Sezione Lavoro della Corte d'appello: «Non era un collaboratore, era un dipendente». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Settembre 2022.

Per poco più di tre anni il Pd provinciale di Lecce ha utilizzato come addetto stampa uno studente universitario, non iscritto all’ordine dei giornalisti, tenendolo a partita Iva come un «cococo». E invece, secondo la Corte d’appello di Lecce, il giovane collaboratore era a tutti gli effetti un dipendente del partito, che per gli ultimi 5 mesi ha lavorato anche per l’ex sindacalista Teresa Bellanova (poi ministro nel governo Renzi). Per questo i giudici hanno condannato il Pd di Lecce a pagare a Maurizio Pascali poco più di 50mila euro, di cui 6.700 euro in solido con la Bellanova.

La sentenza di appello, che ha ribaltato quella emessa dal 2019 dal Tribunale di Lecce, risale a giugno ma è stata depositata lunedì nel processo per diffamazione intentato dalla Bellanova a Pascali e ad altri giornalisti che in passato si sono occupati della vicenda. L’ex ministro, passata poi con Renzi e ora candidata nel Terzo polo, ha accusato l’allora studente di averle estorto una lettera di referenze a fine collaborazione, ammettendo di avergli dato un incarico solo da dicembre 2012 «in vista della campagna elettorale» per le Politiche del 2013.

Pascali (assistito dall’avvocato Maria Lucia Rollo) veniva retribuito a partita Iva, con 1.200 euro al mese, e lavorava nella sede cittadina del partito per rielaborare le note da inviare alla stampa. Il Pd provinciale di Lecce, di cui all’epoca era segretario l’onorevole Salvatore Capone, ha provato a difendersi sostenendo che la presenza del collaboratore in sede era dovuta al fatto che gli veniva permesso di utilizzare il telefono e Internet per i suoi studi. Ma i giudici (presidente relatore Daniela Cavuoto) hanno invece riconosciuto che era un dipendente, anche se - non essendo iscritto all’ordine dei giornalisti - per calcolare le differenze retributive hanno utilizzato il contratto dei servizi. «Dal complesso delle dichiarazioni acquisite, ivi comprese quelle di Salvatore Capone - è detto infatti in sentenza -, emerge che l’unico ad occuparsi delle relazioni esterne con la stampa, e quindi della divulgazione di comunicati che esprimevano l’orientamento, le posizioni, le idee e le iniziative della sede provinciale del partito e della parlamentare Bellanova, era Pascali». «Resta quindi privo di riscontro - proseguono i giudici - l’assunto che la presenza di Pascali sarebbe stata giustificata dalla necessità di dedicarsi agli studi universitari con possibilità di usufruire di collegamento Internet gratuito, o di leggere i giornali». Secondo la Corte d’appello, le lettere di referenze firmate da Capone e dalla Bellanova (secondo cui Capone ne aveva ottenuto il rilascio «con modalità fraudolente») attestano «fatti che hanno trovato pieno riscontro anche documentale». La Corte d'appello ha anche condannato il Pd (che non si è costituito) e la Bellanova a pagare circa 18mila euro di spese legali. 

Condannati dal Tribunale del lavoro il Pd di Lecce e l’ex ministro Bellanova: “Addetto stampa co.co.co era di fatto un dipendente”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Settembre 2022. 

Depositata la sentenza della Corte di appello del tribunale del Lavoro: "Studente a partita Iva ma di fatto era rapporto di lavoro subordinato". Ribaltata la sentenza di primo grado: l'esponente politica ed il PD del capoluogo salentino devono versare 50mila euro a colui che secondo i giudici era a tutti gli effetti un lavoratore dell'ex sottosegretaria e del partito salentino.

La sezione lavoro della Corte di appello di Lecce ha condannato Il Pd provinciale di Lecce per aver utilizzato Maurizio Pascali uno studente universitario come addetto stampa, per poco più di tre anni, tra il 2010 e il 2013, tenendolo come co.co.co ed a partita Iva per 1.200 euro lordi al mese, mentre di fatto era un dipendente del partito, con un “rapporto di lavoro subordinato”. Il Pd di Lecce dovrà pagare a oltre 50mila euro, di cui 6.700 in solido con l’ex ministro Teresa Bellanova all’epoca dei fatti esponente del Partito Democratico e sottosegretaria di stato al Lavoro.

Lo studente inoltre “oltre a interessarsi della comunicazione del Pd provinciale”, “fu direttamente chiamato dall’onorevole Bellanova per integrare il suo personale staff in vista delle elezioni nazionali indette per quell’anno“, si legge nella sentenza di appello emessa nello scorso giugno ma che è stata depositata in questi giorni nell’ambito di un altro processo che riguarda tra gli altri Pascali e Bellanova. 

Per la Bellanova invece Pascali non solo era un collaboratore autonomo ma aveva anche “estorto in modo fraudolento” la lettera di referenze scritta su carta intestata della Camera dei Deputati con in calce la sua firma che, però, disconobbe nel corso di una intervista rilasciata a La7 pur avendola inserita nella memoria presentata al giudice del lavoro. Ne è seguita anche una lunga causa civile e penale con l’accusa per l’ex collaboratore di diffamazione, truffa, tentativo di estorsione e calunnia

“L’attività di Pascali era meramente esecutiva delle richieste degli esponenti del Pd, rispetto ai quali si poneva come interfaccia” scrivono i giudici nella sentenza di una causa durata, sino ad ora, 8 anni “con gli organi di stampa locale, anche monitorando e segnalando la pubblicazione di interventi di soggetti di diverso orientamento politico ai quali il Pd potesse replicare (…). L’apporto di Pascali si connotava per continuità temporale e per coordinamento attesa la stretta correlazione con gli input degli esponenti del partito resa ostensibile anche dall’utilizzo di una postazione di lavoro nonché di una utenza telefonica fissa’“. La sentenza è datata giugno 2022 ma è venuta alla luce soltanto adesso perché l’avvocato Alessandro Stomeo difensore di Pascali,  l’ha depositata agli atti del processo penale in corso. 

A finire a processo insieme a Pascali ci sono anche dei giornalisti che, all’epoca, raccontarono la vicenda. L’accusa iniziale per Mary Tota de Ilfattoquotidiano.it, Danilo Lupo all’epoca inviato del programma “La Gabbia” in onda su La7 e Francesca Pizzolante de Il Tempo era di diffamazione e concorso in tentata estorsione, poi ridotta a diffamazione. I giornalisti, difesi dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto del foro di Bari, vengono accusati da 8 anni di aver diffamato l’ex sottosegretaria al Lavoro Teresa Bellanova, ritenuti responsabili dalla politica leccese di aver raccontato della sua vertenza di lavoro contro Pascali.

“Le sentenze non si commentano, si rispettano. È quello che ho sempre pensato ed è esattamente quello che in questo caso ho già fatto”, ha dichiarato Teresa Bellanova, viceministra delle Infrastrutture e mobilità sostenibile. “È opportuno ricordare, che parliamo di sentenza non definitiva in quanto si è nei termini per proporre ricorso in Cassazione, come peraltro già preannunciato dal mio difensore“

La viceministra Bellanova, ex sindacalista, e il Pd condannati per un illegittimo rapporto di lavoro. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 14 settembre 2022

Per il giudice del lavoro di Lecce il PD e Teresa Bellanova hanno impiegato con un illegittimo contratto di lavoro parasubordinato, volgarmente “una falsa partita iva” un loro addetto stampa. Bellanova lo aveva denunciato per diffamazione. Bellanova è pronta a ricorrere in Cassazione

Per il giudice del lavoro di Lecce il PD locale e la viceministra Teresa Bellanova hanno impiegato con un illegittimo rapporto di lavoro parasubordinato, volgarmente “una falsa partita iva”, il loro addetto stampa, Maurizio Pascali, a cui invece la Corte d’Appello riconosce lo status di lavoratore subordinato. Bellanova ha già pagato la sua parte, ma ha fatto sapere che ricorrerà in Cassazione perché la sentenza per lei è «totalmente infondata».

IL CASO

Pascali aveva lavorato per loro per cinque giorni a settimana dal 2010 al 2013, e all’occorrenza pure nel fine settimana. Per tre anni e tre mesi, aveva spiegato nel ricorso, scriveva i comunicati stampa, poi i disegni di legge e le relazioni correlate. Era a disposizione in occasione di assemblee, incontri, convegni organizzati in città e in provincia, il tutto sotto il coordinamento dell’ex deputato Salvatore Capone e di Bellanova, mantenendo anche contatti con la sua segretaria personale, Alessia Fragassi  -oggi nella segreteria della viceministra –  cui spediva il materiale elaborato e comunicati stampa che venivano diramati tramite la mail della parlamentare.

Il giudice ha perciò deciso di condannare il Partito Democratico e Bellanova a un risarcimento per il lavoratore quantificato in poco più di 50mila euro (per la maggior parte il partito, per una parte minore l'attuale viceministro) e a pagare le spese di giudizio, quantificate in altri 18mila euro.

In primo grado aveva avuto la meglio la viceministra. «Mai e dico mai – commentava su Facebook – è intercorso lavoro subordinato né tanto meno forme di collaborazione diversa da quella confermata dal giudice e da me sempre sostenuta». Eppure la nuova sentenza dice che la verità era un’altra. 

Il rapporto lavorativo non era stato regolarizzato, né come subordinato né nelle forme del contratto a progetto; era stato invitato ad accendere la partita Iva e aveva emesso fatture di importo mensile medio di 1.200 euro lordi, comprensivi di ritenuta d'acconto, predisposte dal tesoriere del Pd, Marco Bramato, che pagava «con bonifici a cadenze irregolari». Benché formalmente la prestazione con il Pd fosse cessata nel luglio 2012, si legge, aveva continuato a emettere fatture a questo intestate perché aveva continuato a lavorare per il Coordinamento e per la parlamentare. Una volta cambiati gli equilibri politici nell'ambito della segreteria, il rapporto era terminato definitivamente nel giugno 2013.

LA DENUNCIA DI BELLANOVA

Bellanova, candidata di punta di Italia viva, il partito di Matteo Renzi, in Puglia e Sicilia, avrebbe già liquidato la sua parte al suo ex addetto stampa. La deputata è nota per aver iniziato a lavorare a 15 anni nei campi, per poi diventare giovane sindacalista della Federbraccianti nelle province di Bari e Lecce, dove era attiva nella lotta al caporalato. Eletta in Parlamento, nel 2014 è stata nominata sottosegretario al Lavoro nel governo Renzi, l’epoca del caso. La sentenza adesso potrebbe avere risvolti in un altro processo.

Pascali aveva promosso la vertenza di lavoro contro il Pd e Bellanova, e lei dopo il clamore mediatico aveva deciso di denunciarlo-querelarlo per diffamazione, tentativo di estorsione, truffa e calunnia. La sentenza adesso certifica quello che Pascali recrimina sul fronte lavorativo ed è stata depositata agli atti dal suo avvocato Alessandro Stomeo. Nel processo penale, difesi dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, sono coinvolti anche Danilo Lupo, Mary Tota e Francesca Pizzolante, i giornalisti che avevano seguito il caso: anche loro imputati per diffamazione aggravata.

LA REPLICA DI BELLANOVA

«Le sentenze non si commentano, si rispettano», ha detto la viceministra. «È quello che ho sempre pensato ed è esattamente quello che in questo caso ho già fatto». Bellanova ha disposto il pagamento di una somma pari a circa 1.300 euro, già versati. Una parte che è un quinto della somma complessiva per il 2013, le altre quattro spettano al Pd. Bellanova ha ricordato che il primo grado di giudizio le aveva dato ragione. Si è opposta la sentenza della Corte d’Appello, ma «i miei legali ritengono del tutto infondata e che sarà, pertanto, oggetto di impugnazione in Cassazione».

Nella sentenza, specifica la viceministra, il lavoro viene assimilato a un co.co.co, dunque non a un vero lavoro dipendente. Ma è vero solo in parte. Nella parte finale il giudice «dichiara la conversione del rapporto di collaborazione continuata e coordinata non sostenuta da progetto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato» con l'onorevole Bellanova in condivisione col Pd dall'11 gennaio 2013 sino alla cessazione, avvenuta il 3 giugno 2013. Per l’avvocato Fernando Caracuta «è una tecnicalità, è l’effetto di una sanzione prevista dalla legge Biagi, non significa che è stato accertato il lavoro subordinato».

E conclude: «Il fatto che la cifra addebitata a Bellanova sia un quinto rispetto alla somma complessiva per quei mesi dimostra che lei ha utilizzato molto poco la prestazione». 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2022.

«Ci fai lo sconto? Invece dei 10.000 euro che avanzi te ne diamo 7.000». Cinque anni dopo aver chiesto a un gruppo parlamentare i soldi arretrati cui aveva diritto e trentasei anni dopo le prime denunce alla Camera degli allora Radicali Massimo Teodori e Francesco Rutelli, sull'uso degli assistenti parlamentari (chiamati sempre «portaborse» e pagati quasi sempre in nero), l'ex collaboratore al Senato Francesco Comellini non è ancora riuscito ad avere, carta canta, quanto gli spetta.

Peggio: come dimostra un servizio di Marco Occhipinti e Filippo Roma delle Iene , in onda stasera, la sua denuncia (quando mai un'azienda pubblica o privata potrebbe infischiarsene della rottura di un regolare contratto senza che intervengano dei giudici o dei probiviri?) è affondata in un'umiliante fanghiglia di rinvii, promesse, silenzi, ostilità, porte sbarrate, risatine, imbarazzi, fughe sui sedili delle auto blu alla vista di microfoni e telecamere...

Fino alle minacce, filmate e registrate, del (poco) onorevole Mario Caruso, spintosi a mandare il cameramen della troupe ad andare «affanc...» e a urlare con pesante accento siculo: «Statti fermo o ti faccio vedere come si ragiona al mio paese!». Uno spettacolo indecoroso. Tutto parte dalla nascita a Palazzo Madama nel giugno 2015, da una costola del centrodestra, di un gruppo parlamentare di una dozzina di «Conservatori e riformisti» guidato da Cinzia Bonfrisco (capogruppo) e Raffaele Fitto.

I quali, appena possibile, approfittano della legge che finanzia i gruppi con 59 mila euro l'anno a senatore consentendo loro di fare politica dotandosi di collaboratori presumibilmente (magari...) scelti con cura. Nel mazzo finisce Francesco Comellini assunto con un contratto regolare, stipendio lordo intorno ai 2.200 euro, ventisei giorni di ferie... A dicembre, però, tira già un'aria di fronda, un anno di liti e a marzo 2017 la stessa Bonfrisco se ne va. Il gruppo abbassa le saracinesche e sparisce. 

E gli assistenti assunti come Comellini? A casa. Ma la liquidazione, gli ultimi stipendi, le ferie arretrate? Macché: rinvii, rinvii, rinvii... E quella proposta di mediazione con lo sconto citato all'inizio. Del resto nel bilancio, come scriverà nel rendiconto il senatore Lucio Tarquinio, ci sono varie irregolarità e un buco vistoso al punto che l'ufficio per gli affari legali del Senato «ha chiesto al liquidatore la restituzione delle somme trasferite al gruppo» negli ultimi tre mesi di vita. Pari a 166.224 euro.

Com' è finita, con quei soldi? Tutto a posto? «Ma si figuri se non c'è stata la massima correttezza!», è sbottata Cinzia Bonfrisco, nel frattempo eletta all'Europarlamento con la Lega. La questione, però, non pare affatto del tutto chiarita. Così come il debito verso l'assistente buttato fuori da un giorno all'altro. Certo, dicono tutti ma proprio tutti che ciò che gli spetta va pagato. Ma da chi? Quando? Sullo sfondo resta comunque la domanda: perché dopo questi decenni di impegni e aria fritta sul tema dei portaborse e dei loro diritti c'è ancora un'ostilità callosa all'idea della massima trasparenza?

Da ilfattoquotidiano.it il 16 novembre 2022.

Il giudice del Tribunale di Lecce ha assolto “perché il fatto non sussiste” i tre cronisti Mary Tota, Danilo Lupo e Francesca Pizzolante, imputati di diffamazione dopo la querela dell’ex ministra di Italia viva Teresa Bellanova. 

I giornalisti avevano riferito sulle rispettive testate (ilfattoquotidiano.it, La7 e Il Tempo) della causa di lavoro intentata dal suo ex addetto stampa Maurizio Pascali, che l’aveva citata in giudizio per vedersi riconoscere il giusto inquadramento contrattuale (e la giusta retribuzione) per i tre anni in cui aveva lavorato al suo servizio come partita Iva. Una richiesta ritenuta fondata dalla Corte d’Appello leccese, che a settembre ha condannato Bellanova e il Pd locale a risarcirgli un totale di cinquantamila euro.

Nel frattempo però l’esponente di Iv aveva trascinato in Tribunale sia il suo ex collaboratore sia i tre cronisti che gli avevano dato voce. E il 19 ottobre scorso il pm onorario aveva avanzato la sorprendente richiesta di un anno di reclusione per Pascali e sei mesi ciascuno per Tota, Lupo e Pizzolante, suscitando l’indignazione della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, che aveva ricordato come persino la Corte costituzionale avesse “riconosciuto l’inammissibilità del carcere per il reato di diffamazione, considerandolo un pesante deterrente nei confronti del diritto di cronaca”.

Il giudice ha invece deciso per tutti l’assoluzione piena. “È una sentenza che consacra puntualmente la libertà di esercitare, correttamente, il diritto di cronaca. L’insussistenza delle accuse mosse ai tre giornalisti, così come ritenuta dal giudice, consentirà loro di continuare a svolgere con ritrovata serenità e con la nota tenacia, il mestiere, difficile quanto esaltante, di cronista. 

Alla soddisfazione per il risultato giudiziario, si accompagna così la rassicurante ratifica della intangibilità dei “fondamentali” scolpiti nell’art.21 della Carta costituzionale”, commenta il difensore dei tre cronisti, Roberto Eustachio Sisto (Pascali era invece assistito da Alessandro Stomeo).

·        Gli schiavi del tessile.

Gli schiavi del tessile al lavoro 12 ore al giorno. Chi protesta viene ricattato e pestato a sangue. Nel distretto del tessile di Prato lo sfruttamento avviene alla luce del sole. Ma le lotte sindacali non si fermano. Sara Lucaroni su L'Espresso il 10 gennaio 2022.

«È il segreto di Pulcinella, lo sanno tutti che qui c’è sfruttamento e tutto avviene alla luce del sole». Sarah Caudiero che insieme al collega Luca Toscano dall’autunno 2018 segue il distretto tessile e abbigliamento pratese e ha fatto il miracolo di sindacalizzare per la prima volta la manodopera migrante in aziende cinesi, lo dice mentre sono le 11 e la sede Si Cobas di Prato si riempie di ventenni, molti pakistani, con i contratti in mano.

·        Dagli ai Magistrati Onorari!

Le toghe onorarie scrivono a Nordio «Ora stabilizzateci, lo Stato ci tuteli». Il direttivo AssoGot, l’associazione dei giudici onorari, ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Nordio. Valentina Stella su Il Dubbio il 12 novembre 2022.

SABATO 12 NOVEMBRE 2022

Il direttivo AssoGot, l’associazione dei giudici onorari, ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Nordio. «Lei ha sempre espresso parole di apprezzamento per l’attività che svolgiamo e di censura per il modo in cui lo Stato ci tratta”, scrivono i magistrati, ricordando che pure Meloni, i sottosegretari Delmastro Delle Vedove e Ostellari e numerosi esponenti dell’attuale maggioranza «hanno assunto reiteratamente (…) il preciso impegno di procedere ad una vera stabilizzazione, con il riconoscimento della retribuzione e delle tutele dei magistrati di ruolo».

Pertanto «confidiamo in una coerente trasposizione di queste promesse e nella volontà del governo di procedere, nel pieno rispetto delle indicazioni dell’Unione europea e dei valori costituzionali, ad una riforma da attuarsi al più presto». «La nostra categoria – lamentano ancora – versa oggi in condizioni insostenibili e necessita di misure immediate». Quali?

La prima: «Promuovere, con decreto d’urgenza, un nuovo reclutamento dei colleghi che sebbene prorogati fino al 31.05.2024, nei giorni scorsi sono stati destinatari di frettolose delibere consiliari di cessazione dal servizio, basate su una disposizione da noi già denunciata come estorsiva e liberticida».

Secondo: «Adeguare dopo oltre venti anni, e con effetto retroattivo, i compensi a cottimo dei magistrati onorari al costo della vita, in continua e drammatica ascesa».

Terzo: «Porre fine alla consuetudine di resistere sistematicamente e “a prescindere” in tutti – tutti – i giudizi che contrappongono il ministero ai magistrati onorari, all’evidente scopo di fiaccarne gli animi, scoraggiando la proposizione di ulteriori azioni».

Quarto: «Attuare misure immediate per una gradazione delle sanzioni disciplinari e per consentire ai magistrati onorari il trasferimento in caso di esigenze personali o familiari, in linea con la proposta presentata nella scorsa legislatura dal senatore Balboni».

Nordio, come ha ascoltato il “grido di dolore” delle procure, farà suo anche questo, prendendo di conseguenza dei provvedimenti che ridiano dignità al lavoro dei magistrati onorari?

I magistrati onorari: «Noi sotto ricatto». AssoGot ha scritto alla ministra Cartabia, ponendo una serie di domande sul futuro della categoria. Valentina Stella su Il Dubbio il 26 giugno 2022.

Nel silenzio generale, oggi scadrà il termine ultimo entro il quale i magistrati onorari in servizio da oltre venti anni devono presentare la domanda di partecipazione alla procedura valutativa per continuare a lavorare. Chi non rispetterà tale termine cesserà immediatamente dalle funzioni, che per i più sono l’unica fonte di sostentamento. Il tutto è previsto da un emendamento alla legge di bilancio 2022 che prevede la prosecuzione del sistema di pagamento a cottimo e comporta l’automatica rinuncia a ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto di lavoro pregresso, ultraventennale e notoriamente sprovvisto di qualsiasi tutela, così come comprovato anche dall’apertura di una procedura d’infrazione europea contro l’Italia.

Dalla categoria tale emendamento è stato considerato una vera “estorsione di Stato”. A completare il quadro, c’è l’assoluta incertezza circa il trattamento lavorativo, economico e previdenziale che verrà offerto a coloro che supereranno la procedura valutativa. Si sa a cosa si rinuncia, ossia tutto il pregresso, ma non si conosce la contropartita. Per tutto questo il Direttivo di AssoGot ha inviato una lettera alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia: «Dopo aver dedicato la nostra vita alla giurisdizione, spesso non godendo di alcun diritto, con enorme sacrificio della sfera familiare, la Giustizia ci tratta come estranei, anzi come intrusi, ponendoci un gravoso ultimatum e abbandonandoci, senza alcun riguardo, ad un destino incerto. È trascorso un anno e mezzo dalla Sua nomina, ma è mancata, nel volgere di questi mesi, qualsiasi occasione di ascolto e di confronto. Abbiamo appreso delle nostre sorti da occasionali frammenti di intervista, da norme approvate nottetempo (senza alcun dibattito parlamentare), da algide circolari del Dicastero».

Nella missiva poi si pongono una serie di domande alla Guardasigilli: «Sottoporre a un’ennesima prova valutativa magistrati, sia pur onorari, reclutati con concorso per titoli e già sottoposti a verifiche periodiche, non le sembra una scelta mortificante e inopportuna, specie se si considera che tali figure decidono da anni oltre il 50% delle cause civili e penali e rappresentano la pubblica accusa nel 90% dei giudizi monocratici?». E ancora, la rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso «alla luce dei principi giuslavoristici recepiti dal nostro ordinamento, non Le sembra un odioso e inammissibile ricatto?».

Poi i membri di AssoGot chiedono alla responsabile di Via Arenula se «i magistrati onorari che supereranno la procedura valutativa saranno considerati lavoratori dipendenti con trattamento commisurato a tale status e con stipula di un vero contratto di lavoro, o continueranno a prestare attività come ‘ funzionari onorari’ privi di qualsiasi diritto? Ai magistrati onorari che supereranno la procedura valutativa il ministero pagherà i contributi previdenziali e assistenziali?». Noi ci chiediamo: la ministra risponderà a queste più che legittime domande?

Incertezza su sorti e diritti. Magistrati onorari, l’Ue dice che non possono essere trattati da eterni precari ma restano “vittime delle correnti”. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 13 Aprile 2022. 

Gran parte delle pendenze del settore penale é affidata ai magistrati onorari: quelli delegati alla fase di giudizio – giudici di pace e di tribunale – cui vanno aggiunti i viceprocuratori. Questi ultimi si occupano delle indagini per i reati di competenza del giudice di pace e sono applicati all’ufficio “Servizio per la definizione degli affari semplici (SDAS)”. Rappresentano, inoltre, l’accusa in dibattimento, innanzi ai giudici di pace e nella maggior parte dei giudizi monocratici. Il Tribunale e la Procura della Repubblica, grazie a tali figure, vedono ridotto il proprio lavoro in una percentuale consistente. Si può affermare, con certezza, che i magistrati onorari siano essenziali per l’andamento della giustizia. Un andamento lento che si bloccherebbe del tutto se privato dell’opera di questi seimila “lavoratori precari”, che operano sia nel penale che nel civile. A loro è affidato il 40% dei procedimenti civili e oltre il 50% di quelli penali.

Come un imprenditore che vede in difficoltà la sua azienda perché la materia prima è molta, ma l’attività è lenta e la quantità degli articoli finiti non è soddisfacente e, pertanto, assume a tempo determinato nuove unità specializzate per aumentare la produzione, così il Ministero della Giustizia ha assunto nuovi magistrati per portare a termine un numero maggiore di processi. Ma privato e pubblico non rispettano le stesse regole. Al fondamentale ruolo dei magistrati onorari non corrisponde, infatti, un’adeguata tutela legale. Essi sono chiamati ad applicare il diritto, ma sono privati dei diritti. Destinatari di un contratto pluriennale a tempo determinato, rinnovabile per tre volte, non hanno alcun trattamento pensionistico, non hanno alcun regime assistenziale, ivi compresa la tutela della salute, della maternità e della famiglia, non hanno diritto a ferie retribuite. Lavoratori, dunque, “fragili” che non vedono applicate nei loro confronti le vigenti norme del diritto del lavoro.

Come in molti altri casi, anche in tale materia è dovuta intervenire la Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, con la sentenza del 7 aprile scorso, ha riconosciuto alla magistratura onoraria i diritti negati, comparando la loro figura a quella dei magistrati ordinari. Ha, altresì, censurato il rinnovo degli incarichi a termine, previsti dal Decreto Legislativo N.116/2017 di riforma organica della magistratura onoraria, che prevede che la funzione ha natura inderogabilmente temporanea e non determina in nessun caso un rapporto di pubblico impiego. Eppure vi sono magistrati onorari con oltre 16 anni di servizio, che hanno visto più volte rinnovato il loro incarico, con un evidente abuso nell’uso di contratti a tempo determinato consecutivi. Il nostro Paese è, dunque, chiamato ad adeguarsi alla sentenza della Corte Europea e a mettere sullo stesso piano i diritti dei giudici ordinari e quelli dei giudici onorari.

Fino ad ora, dinanzi all’inerzia della politica, le innumerevoli proteste ed astensioni dal lavoro della categoria non hanno apportato alcuna modifica a questa surreale situazione: un ruolo precario senza fine, non consentito nel privato, ma tollerato – perché necessario – nel pubblico. Dopo la recente sentenza della Corte di Giustizia europea, vi dovrebbe essere un urgente obbligo a intervenire. Cosa accadrà? Non è facile fare previsioni. Certo è che, allo stato, vi è una giustizia ingiusta con se stessa. Se è vero che i magistrati ordinari sono vincitori di concorso e quelli onorari no, tale differenza pur comportando specifiche conseguenze, come, ad esempio, per l’attività che viene svolta, non può diversificare i diritti fondamentali dei lavoratori.

Ma chi rema contro? La politica? La magistratura? La politica non farebbe altro che applicare le norme del diritto del lavoro; la magistratura, pronta a condannare il privato che costringe i suoi dipendenti allo stesso trattamento, non dovrebbe opporsi, se non per ragioni corporative. Eppure siamo convinti che “le correnti” saranno contrarie e il natante dei magistrati onorari, nonostante la sua stazza e l’incredibile numero di persone a bordo, troverà mille difficoltà a raggiungere il porto dei diritti, malgrado il vento favorevole che viene dall’Europa. Riccardo Polidoro

Lo stato dei giudici di pace italiani secondo la Corte di giustizia. CRISTINA PIAZZA su Il Domani l'08 aprile 2022

La sentenza PG la GCUE inequivocabilmente riconosce in capo al giudice di pace - qualificato come lavoratore a tempo determinato-  la necessaria sussistenza di   condizioni di impiego e quindi di ferie retribuite e di tutele previdenziali e assistenziali, ritenendo “inammissibile” una possibile negazione di tali diritti

Il 7 aprile 2022 è stata pubblicata l’attesa sentenza PG  della GCUE  nella causa C-236/20,  avente ad oggetto la domanda pregiudiziale proposta dal TAR Emilia Romagna con ordinanza del 27 maggio 2020, nel procedimento radicato da un giudice di pace nei confronti del ministero della Giustizia, del Csm e della Presidenza del Consiglio dei Ministri con il quale chiedeva l'accertamento del diritto alla costituzione di un rapporto di pubblico impiego e la conseguente condanna del Ministero al pagamento delle differenze retributive maturate, oltre oneri previdenziali e assistenziali o, in via subordinata,  la condanna del Governo italiano  al risarcimento dei danni subiti dalla ricorrente derivanti da fatto illecito del legislatore, per violazione delle direttive europee.

La  pronuncia  della CGUE è strettamente legata alla sentenza  UX costituendone questa  il sostanziale precedente, anche   per la particolare concatenazione delle loro fasi processuali  .

Infatti, a seguito del deposito  di quest’ultima,  la Corte di Giustizia chiedeva al TAR ER se intendesse mantenere la propria domanda di pregiudiziale. Il Tribunale amministrativo ha voluto che la CGUE esaminasse nuovamente le funzioni esercitate dai Gdp nell’ordinamento giuridico italiano, in quanto, in caso contrario, si sarebbe rischiato un margine di apprezzamento troppo ampio da parte del giudice nazionale, considerato in effetti  che ad oggi l’Avvocatura di stato, per il Ministero della Giustizia, il Governo ed il CSM, ha  impugnato tutte le sentenze di primo grado che hanno tentato di applicare la sentenza UX.

COSA DICE LA SENTENZA

Con la sentenza PG la GCUE inequivocabilmente riconosce in capo al giudice di pace - qualificato come lavoratore a tempo determinato-  la necessaria sussistenza di   condizioni di impiego e quindi di  ferie retribuite e di  tutele previdenziali e assistenziali,  ritenendo “inammissibile” una possibile negazione di tali diritti ( punto 53).

Precisa poi che ai magistrati onorari devono essere riconosciuti i diritti a beneficiare di ferie  annuali retribuite di 30 giorni e  un regime previdenziale e assistenziale dipendente  dal rapporto di lavoro,  al pari dei magistrati ordinari,  se secondo il giudice del rinvio  le due figure  potranno considerarsi comparabili in applicazione del principio di non discriminazione (punto 54).

A tal fine la Corte di Giustizia fornisce una serie di criteri, dovendo egli valutare  se la natura del lavoro, le condizioni di formazione e di impiego, l’attività giurisdizionale del giudice di pace sia comparabile a quella del magistrato ordinario. Accertato questo, il giudice del rinvio  dovrà  poi verificare se vi siano ragioni oggettive che giustifichino una disparità di trattamento,  se  sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui  devono assumere la responsabilità.

Ancora, la sentenza PG della CGUE,  con portata innovativa rispetto alla UX,  afferma che non vi è nell’ordinamento giuridico italiano alcuna disposizione che consenta di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di  rapporti di lavoro a tempo determinato in violazione delle normative europee, sancendo espressamente  la violazione del diritto europeo da parte della riforma Orlando (punti 64, 65,66).

La  pronuncia  in commento, che reca come la precedente del giudice di pace di Bologna l’inciso “stato dei giudici di pace italiani”,  è stata accolta dalla categoria con l’ auspicio che porti a buoni ma soprattutto definitivi  consigli il Governo italiano che ha tentato di minimizzare in ogni modo  la portata seppure dirompente della sentenza UX e della conseguente procedura di infrazione notificata allo Stato italiano in data 15.07.2021 .

Che il giudice di pace sia un lavoratore ormai è entrato nel nostro ordinamento con la  legge di bilancio n. 234/2021 che ha modificato gli art. 29 e ss del d.lgs 116/17.  Per i magistrati onorari in servizio infatti sono stati aboliti i mandati quadriennali,  trovandosi  in questo momento nella scomoda posizione di lavoratori non regolarizzati, che  attendono di essere “stabilizzati” passando da una procedura valutativa  lunga e colma di criticità, che dovrebbe terminare entro il  2024.

LA STABILIZZAZIONE

La previsione di tale “stabilizzazione” è dovuta - per le stesse parole della Ministra Cartabia pronunciate il 15 marzo davanti alla Commissione giustizia del Senato - dal riconoscimento da parte della Commissione Europea della posizione di lavoratori a tempo determinato in capo ai magistrati onorari , soggetti a reiterati mandati rinnovati abusivamente in violazione della normativa europea.  L’attuale magistrato onorario italiano in servizio  è un ibrido, un po’ trattato come funzionario amministrativo – senza neanche averne riconosciuti tutti i diritti – un po’ è definito dalla c.d. riforma Orlando, normativa dichiarata ormai inadeguata dalla lettera di infrazione del 15.07.2021.

In realtà la  comparabilità  tra il Giudice di pace  - lavoratore a tempo determinato -  e il magistrato ordinario- lavoratore a tempo indeterminato -  emerge chiaramente dal contenuto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 267/2020 e n. 41/2021.

Il diritto dei magistrati onorari in servizio al risarcimento del danno per la reiterazione abusiva dei contratti a termine e per tutto quanto non percepito a titolo di  “condizioni di impiego” è sancito a chiare lettere dalla CGUE e mal si concilia  con la rinuncia  imposta quale condizione necessaria al fine di accedere alla procedura valutativa prevista per la stabilizzazione.

Ora la partita torna non solo al TAR Emilia Romagna al quale tocca il delicato compito interpretativo indirizzato dalla CGUE, ma anche alla Commissione Europea che dovrà procedere con nuovo e risoluto impulso  nell’infrazione emettendo il parere motivato al fine indurre lo Stato italiano  ad armonizzare la normativa interna a quella  europea.

CRISTINA PIAZZA. Segretaria Generale UNAGIPA

Il mondo senza diritti dei magistrati onorari: precari e pagati a cottimo che reggono la Giustizia. Hanno la toga come i colleghi ordinari ma non hanno tutele contro l’abuso di contratti a tempo determinato consecutivi, non possono fare causa, non hanno accesso a malattie, maternità e infortuni. «E l’ultimo decreto della ministra Cartabia peggiora la situazione». Simone Alliva su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Sonia è stata stroncata da un tumore al cervello. Il giorno prima si trovava in Aula, non è riuscita a portare a termine l’udienza. Antonio è tetraplegico e da quindici anni il suo accompagnatore lo aiuta a salire sul banco destinato al giudice di pace, in braccio come si fa con i bambini: «Dottore, se vuole installare qualche rampa o eliminare qualche scalino può farlo.

Proclamata l’astensione fino al 4 febbraio. Magistrati onorari in sciopero, pioggia di rinvii. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

«Con le modifiche che la legge di bilancio 2022, che ha apportato alla normativa che disciplina lo stato giuridico dei magistrati onorari, non si è data alcuna risposta alle legittime rivendicazioni della categoria, mantenendo l’impostazione della riforma “Orlando” sebbene questa, nel suo complesso, sia stata dichiarata illegittima e stroncata senza appello dall’Unione europea e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, che ritengono il suo impianto contrastante con il diritto dell’Unione».

È da qui che partono le ragioni della protesta che è alla base dello stato di agitazione proclamato da pm e giudici onorari, magistrati di fatto ma non di diritto pur svolgendo nelle aule di tribunale una gran parte del lavoro. L’astensione dalle udienze, iniziata ieri, è prevista fino al 4 febbraio. Una settimana di stop che si tradurrà, nel distretto di Napoli, nel rinvio di centinaia di udienze. Basti pensare che nel Tribunale di Napoli i giudici onorari sono 121 su un organico di 156 posti, un numero pari alla metà dei giudici ordinari (215 posti coperti su 236 in organico). Il peso della magistratura onoraria sull’attività giudiziaria è stata riconosciuta anche di recente dai vertici degli uffici giudiziari napoletani in occasione delle relazioni a bilancio di dodici mesi di attività a Palazzo di Giustizia: «Con riferimento alle procedure di rito monocratico l’unico plausibile strumento per ovviare al notevolissimo numero di pendenze appare essere quello di un più incisivo se non massiccio impiego della magistratura onoraria». Impiego previsto soprattutto per tutti i procedimenti aventi ad oggetto reati puniti con una pena non superiore ai quattro anni.

Quindi per una gran mole di processi. Eppure, «con le disposizioni appena introdotte si continua a negare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e si evoca una ambigua “stabilizzazione” nelle funzioni (che permangono onorarie)» lamentano i magistrati onorari spiegando così le ragioni dell’astensione. «Inaccettabile – si legge nella nota dell’AssoGot – è la condizione prevista al comma 5 dell’emendamento per cui la domanda di partecipazione al “concorso” (obbligatoria per chi non voglia decadere dall’incarico) “comporta rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso, salvo il diritto all’indennità di cui al comma 2 in caso di mancata conferma”. Non è ammissibile che per partecipare ad una selezione che, oltretutto, non prevede l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, si debba rinunciare a far valere i diritti relativi al precedente rapporto, non già di prestazione “volontaria” di attività onoraria, ma di lavoro con le caratteristiche della subordinazione, come riconosciuto dalla CGUE.

Altrettanto inaccettabile è la previsione di un compenso solo “parametrato” ad alcune voci stipendiali spettanti al personale amministrativo giudiziario, con espressa esclusione delle poste retributive accessorie, nonostante il lavoratore comparabile sia stato chiaramente individuato dalla CGUE nel magistrato professionale, in mancanza, inoltre, dell’obbligo, a carico dello Stato, del versamento dei contributi previdenziali e assistenziali che, pertanto, permangono a carico del magistrato onorario. Assolutamente offensiva è poi l’indennità prevista dal comma 2 dell’art. 29 in caso di mancata conferma, tanto nell’ipotesi di mancata presentazione della domanda, quanto in quella di mancato superamento della procedura valutativa. Con un importo irrisorio, per di più lordo e limitato da un plafond, il datore di lavoro pubblico, dopo aver gravemente violato i diritti dei magistrati onorari, vorrebbe “autoassolversi”, a buon mercato, sulla pelle di chi ha finora contribuito in misura enorme e professionalmente qualificata all’amministrazione della Giustizia».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Noi giudici onorari privati di ogni diritto e pagati “a gettone”. Il Dubbio il 23 gennaio 2022. L'intervento dei giudici onorari: «In un contesto di crisi economica, non si è sentito il dovere di adeguare le indennità congelate da oltre 20 anni».

Intervento dell’associazione  “G.O.T. non possiamo più tacere” all’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto della Corte di Appello di Roma – 22 gennaio 2022

Signor Presidente, Signor Procuratore Generale, Signori Consiglieri, Autorità, Signore e Signori, inizia un nuovo anno giudiziario, carico di grandi aspettative ma anche di profonde disillusioni. Noi magistrati onorari ci accingiamo ad affrontare il terzo anno di emergenza sanitaria, senza che sia stata introdotta una sola concreta misura che abbia migliorato la nostra indegna condizione. Nulla hanno potuto le statuizioni della Corte di Giustizia dell’UE, nulla hanno sortito le dure censure della Commissione europea, né la considerazione che il pagamento a cottimo, sia per i giudici di ruolo che per quelli onorari, è vietato, da oltre 12 anni, da specifica Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri del Concilio d’Europa. Restiamo, ancora oggi, giudici e pubblici ministeri oscenamente pagati “a gettone”, privati del diritto all’indennità di malattia, di ferie o di maternità, spogliati di ogni tutela, persino quando sopraggiungono tragedie familiari, o eventi luttuosi fanno improvvisamente venir meno il sostentamento dei nostri cari.

Nell’epoca dei lockdown e delle necessarie limitazioni alla mobilità, non si è pensato neppure di introdurre una norma che consenta, ove compatibile con le esigenze degli Uffici, il diritto al trasferimento presso altra sede di servizio. In un contesto di crisi economica per i cittadini che vivono del proprio lavoro, non si è sentito il dovere di adeguare le indennità congelate da oltre vent’anni, che costituiscono l’unico compenso lavorativo per chi, con dedizione e impegno, contribuisce ogni giorno alla giurisdizione.  Persino ai colleghi che vivono condizioni di grave disabilità si continua a negare il diritto di veder rimosse negli Uffici le barriere – non solo architettoniche – causa di odiosa discriminazione.

Nel tempo del PNRR e dell’afflusso di miliardi presi in prestito dall’Europa, non un solo euro è stato destinato alla magistratura onoraria, ma si è preferito finanziare fantasiose e improvvisate strutture, di operatività ancora incerta, privilegiando avventurose innovazioni che avrebbero forse meritato una più approfondita e coerente valutazione. Questo, finora tracciato, il mesto bilancio dello scorso anno, conclusosi poche settimane fa con l’approvazione dell’”emendamento Cartabia” – L. 234/2021, art. 1, commi 629-633 – ovvero di una normativa che avevamo atteso con trepidazione e speranza, confidando che le pressanti sollecitazioni sovranazionali avrebbero potuto infine trovare un approdo giusto e degno della nostra civiltà giuridica. Così, invece, non è stato.

A dispetto delle notizie che una stampa superficiale, o forse disattenta, continua a propagare, parlando impropriamente di  “stabilizzazione”, l’impianto della legge già in vigore, la cd. “riforma Orlando”, resta in piedi con tutte le inaccettabili criticità evidenziate dalla sentenza “UX” e dalla lettera di messa in mora che lo scorso 15 luglio la Commissione europea ha rivolto al Governo italiano. L’intervento emendativo si limita infatti ad introdurre parziali e opache modifiche, con le quali ci si ostina a non  riconoscere ai magistrati onorari, in servizio anche da decenni, la qualifica di “lavoratori”, con quanto ne consegue in termini di privazione di diritti e di tutele.

Per esprimere la valutazione negativa del recente emendamento, prendiamo in prestito le parole di Livio Cancelliere, collega giudice onorario che questa estate, attuando una civile protesta, ha percorso i 250 km del cammino di Francesco, da Assisi a Roma, ed è stato ricevuto al suo arrivo dalla Ministra Cartabia, nella sede di via Arenula. Livio, che aveva come noi sperato in una soluzione giusta e rispettosa dei principi costituzionali,  all’apparir del vero ha espresso la sua disillusione con una lettera aperta alla Ministra, che condividiamo e facciamo nostra : “Mi piacerebbe poter dire alla Ministra Cartabia che la sua idea riforma della magistratura onoraria mi piace perché giusta, equilibrata e rispettosa dei principi di diritto, ma purtroppo non posso dirlo.

L’emendamento alla legge di bilancio 2022 in tema di magistratura onoraria prevede che la presentazione della domanda di partecipazione alla procedura valutativa “comporta rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso”. In sostanza, la mera presentazione della domanda comporta ipso facto, la rinuncia a tutti i diritti, pregressi e attuali. Una rinuncia preventiva senza alcuna certezza futura. A me non pare conforme alla Costituzione che il mio datore di lavoro, il Ministero della Giustizia, mi imponga di rinunciare a quei diritti che tutelano valori umani e sociali previsti dalla Costituzione stessa e non a caso definiti indisponibili (tra tutti, il diritto ad una retribuzione dignitosa, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, alle ferie).

Senza parlare della procedura valutativa: dopo un concorso per titoli, un tirocinio e ben 18 anni spesi a pronunciare sentenze nel nome del popolo italiano dovrei nuovamente essere valutato? Peraltro, ritengo quantomeno inopportuno che si preveda la presenza all’interno della commissione anche di un componente dell’avvocatura, che potrebbe aver patrocinato una causa da me decisa (una scelta che contrasterebbe con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura).

Nel caso di esito positivo della prova valutativa, continuerei a svolgere attività giurisdizionale (come un giudice togato), ma con il trattamento economico del personale amministrativo: una figura nuova, ibrida, certamente contraria alla recente sentenza UX dell’UE, che ha indicato come parametro di riferimento il magistrato di ruolo. Altri problemi si porrebbero per chi, come me, è iscritto alla Cassa forense. E fino alla procedura valutativa? Continuerei ad essere pagato secondo l’attuale regime di cottimo (fermo a 98 euro lordi dal 2003)! Eppure, ricordo che la Ministra ci rassicurò sull’improrogabilità di questo esecrabile e vietato sistema di pagamento. E se, invece, decidessi di non presentare alcuna domanda per non rinunciare a far valere i miei diritti? La sanzione prevista sarebbe l’immediata cessazione dal servizio (nonostante la conferma fino al 30 maggio 2024). Che suona come una bocciatura, ed è infatti la stessa sorte riservata anche a chi non dovesse superare la procedura di valutazione. In entrambi i casi è prevista una indennità di 1.500 euro lordi annui (se avessi tenuto almeno 80 udienze l’anno sarebbero stati 2.500 euro, ma è un numero d’udienze difficilmente raggiungibile).

In definitiva, dopo 18 anni spesi a servizio della giustizia, la mia “buonuscita” sarebbe inferiore a 20.000 euro nette (l’indennità di buonuscita, secondo il calcolo spettante ai dipendenti pubblici, sarebbe di oltre 10 volte superiore). E la scelta, poi, di calcolare l’anzianità di servizio al 2017 appare incomprensibile. E che ne è degli ultimi 4 anni di lavoro svolti? Ci sarebbero altri punti fortemente critici da evidenziare, ma mi rimetto a quanto già più efficacemente sottolineato dalle associazioni di categoria. Scrivendo queste righe, ho avuto la sensazione che la Magistratura onoraria debba pagare colpe che non ha, ogni proposta che ci riguardi pare debba tendere alla mortificazione. E parlo di quella stessa Magistratura considerata “pilastro fondamentale della Giustizia”, che ha evaso nel tempo milioni di fascicoli e che ha consentito di poter dire all’Europa che la situazione in Italia è migliorata.

Mi trovo davanti ad un bivio: continuare a lavorare ancora per anni come precario dall’incerto futuro di dipendente amministrativo al servizio dello Stato o rinunciare ad un umiliante trattamento per ricevere una indecorosa liquidazione? Se potessi parlare nuovamente alla Ministra Cartabia, Le direi che adesso sento scivolare via 18 anni della mia vita spesi al servizio del Ministero che presiede. E l’amarezza di veder svanire una opportunità che si è presentata a noi con il Suo arrivo”. Anche l’auspicio che l’ultimo passaggio parlamentare potesse porre rimedio alle vistose criticità rilevate è stato purtroppo disatteso, non essendosi svolto sul tema alcun confronto o dibattito. L’imposizione di una rinuncia tombale al pregresso e la previsione di un compenso “parametrato” al trattamento economico di chi svolge mansioni diverse e meno qualificate, si configura a nostro avviso quale autentica  “barbarie giuridica” che, ove non dovesse suscitare una pronta e veemente reazione immunitaria del sistema, si porrebbe quale pericoloso precedente, con possibili potenziali riflessi anche in danno di altre categorie di lavoratori.

Concludiamo con l’auspicio che oggi non si celebri solo un nuovo anno, ma anche una nuova Giustizia, da porre al centro della società democratica come valore irrinunciabile, perché possa ancora valere il motto scolpito sui nostri Tribunali: “fiat iustitia ne pereat mundus“.

Il grido di allarme della magistratura onoraria. Il grido della magistratura onoraria: “Oscenamente pagati a gettone, siamo eterni precari senza tutele e diritti”. Viviana Lanza su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.  

Un grido di allarme arriva dai giudici onorari. «L’auspicio è che non si celebri solo un nuovo anno ma anche una nuova giustizia da porre al centro della società democratica come valore irrinunciabile, perché possa ancora valere il motto scolpito sui nostri Tribunali “fiat iustitia ne pereat mundus”. L’associazione “Got non possiamo più tacere” è intervenuta con un duro documento ad apertura dell’anno giudiziario. «L’imposizione di una rinuncia tombale al pregresso e la previsione di un compenso parametrato al trattamento economico di chi svolge mansioni diverse e meno qualificate si configura a nostro avviso quale autentica “barbarie giuridica” che, ove non dovesse suscitare una pronta e veemente reazione immunitaria del sistema, si porrebbe quale pericoloso precedente con possibili potenziali riflessi anche in danno di altre categorie di lavoratori».

I got lamentano la condizione di eterni precari. Come magistrati onorari, che si fanno carico di uno dei pesi della giustizia, segnalano l’assenza di una riforma che intervenga in maniera risolutiva. «Restiamo ad oggi – si legge nel documento – giudici e pubblici ministeri oscenamente pagati a gettone, privati del diritto all’indennità di malattia, di ferie e maternità, spogliati di ogni tutela, persino quando sopraggiungono tragedie familiari o eventi luttuosi fanno venir meno, improvvisamente, il sostentamento dei nostri cari. Nell’epoca del lockdown – prosegue il documento – e delle necessarie limitazioni alla mobilità non si è pensato neppure di introdurre una norma che consenta, ove compatibile con le esigenze degli uffici, il diritto al trasferimento presso altra sede di servizio». In un momento di crisi economica a causa della pandemia, come quello attuale, la categoria die magistrati onorari si sente tagliata fuori da ogni riconoscimento, da ogni diritto.

«Persino ai colleghi che vivono condizioni di grave disabilità si continua a negare il diritto di veder rimosse negli uffici le barriere, non solo architettoniche, che sono causa di odiosa discriminazione» è tra i punti lamentati dai giudici onorari. «Nel tempo del Pnrr e dell’afflusso di miliardi presi in prestito dall’Europa non un solo euro è stato destinato alla magistratura onoraria, ma si è preferito finanziare fantasiose e improvvisate strutture – denunciano i got – di operatività ancora incerta, privilegiando avventurose innovazioni che avrebbero meritato una più approfondita e coerente valutazione». E, per concludere, l’emendamento Cartabia: «Normativa – dicono i got – che avevamo atteso con trepidazione e speranza confidando che le pressanti sollecitazioni sovranazionali avrebbero infine trovato un approdo giusto e degno della nostra civiltà giuridica. Così invece non è stato».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Csm: “i magistrati onorari non si possono equiparare ai togati”. Il Corriere del Giorno il 26 Dicembre 2021. “La previsione di un regime della stabilità del rapporto dei magistrati onorari, equiparato a quello dei magistrati ordinari anche agli effetti delle tutele retributive, previdenziali e fiscali appare incompatibile con l’impianto costituzionale in particolare, con l’articolo 106 della Costituzione e con la figura del magistrato onorario disegnata dalla Carta”. Criticità nell’emendamento alla manovra di bilancio relativo alla magistratura onoraria. A rilevarle è il Csm in un parere approvato all’unanimità dal plenum. “La soluzione prescelta non appare necessitata, né adeguata alle osservazioni formulate nella lettera di messa in mora” da parte della Commissione europea, con la quale “non s’impone una stabilizzazione dei magistrati onorari”, evidenzia il parere, sottolineando inoltre che “la previsione di un regime della stabilità del rapporto dei magistrati onorari, equiparato a quello dei magistrati ordinari anche agli effetti delle tutele retributive, previdenziali e fiscali appare incompatibile con l’impianto costituzionale in particolare, con l’articolo 106 della Costituzione e con la figura del magistrato onorario disegnata dalla Carta”.

Cosa dice il parere del Csm sui magistrati onorari

“Il regime introdotto non elimina l’elevato rischio – continua ancora il parere approvato – del moltiplicarsi di nuovi contenziosi volti a ottenere una completa equiparazione dello status dei magistrati onorari/funzionari pubblici a quello di magistrato ordinario: l’assimilazione del rapporto lavorativo a quello di lavoro subordinato, esclusivo e a tempo indeterminato, aggiungerebbe elementi di vicinanza tra le due categorie di magistrati che potrebbero aprire la strada alle indicate pretese“. Il Csm ha espresso infine “forti preoccupazioni per l’inevitabile sottrazione di risorse al settore giustizia che deriverà dalla riduzione della pianta organica della magistratura onoraria e dalla circostanza che parte dei magistrati onorari già in servizio cesseranno dall’incarico per mancata presentazione della domanda di conferma o per mancato superamento della procedura valutativa introdotta, oltre che per raggiungimento dei limiti di età. Tale sottrazione di risorse, tenuto anche conto dei tempi considerevoli necessari per bandire e espletare le procedure concorsuali, non appare coerente rispetto agli ambiziosi obiettivi di riduzione dei tempi dei processi e di abbattimento dell’arretrato indicati nel Pnrr, rischiando di determinare effetti contrari al raggiungimento di tali obiettivi nei termini fissati“.

·        Il Caporalato dei giornalisti.

Pagati 4 centesimi a riga, minacciati e insultati: i giornalisti in Italia sono sempre più precari. Il numero di contrattualizzati continua a calare, come le retribuzioni per i freelance. E la qualità dell’informazione e della democrazia ne risentono. Mentre politica e criminalità approfittano della debolezza del sistema. Lucio Luca su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

Anticipiamo qui un estratto del libro “Quattro centesimi a riga, morire di giornalismo” (Zolfo editore) di Lucio Luca​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

Dunque, sono passati quasi dieci anni. Dieci lunghissimi anni, tremila e cinquecento giorni, da quella maledetta notte di marzo del 2013 nella quale un giovane cronista di provincia, Alessandro Bozzo, decise di farla finita con una vita da precario senza futuro, ostaggio di editori senza scrupoli in una terra, la Calabria, che spesso sembra dimenticata da Dio.

In tutto questo tempo Alessandro purtroppo non è stato l’unico giornalista a fare questa scelta estrema. Ce ne sono stati altri, stremati dall’attesa, dall’incertezza, da quei pochi soldi che non bastano mai, dall’impossibilità di costruirsi una casa, una famiglia. In Puglia, in Trentino, in Veneto. Sì, persino nelle ricche regioni del Nord Est. Perché mica è solo al Sud che migliaia e migliaia di giornalisti fanno la fame. Figuriamoci. Ormai funziona così dappertutto, lo dicono i numeri, sempre più impietosi, che le organizzazioni sindacali snocciolano anno dopo anno. (...)

Dal 2014 al 2021 i lettori dei quotidiani nel giorno medio sono diminuiti del 40,81 per cento: da 19 milioni e 351 mila al giorno siamo passi a 11 milioni e 453 mila. Quasi otto milioni di persone, un numero che fa impressione. E ancor più desolante è il fatto che, nello stesso periodo, sono più che dimezzati i lettori di età inferiore ai 34 anni, ormai appena un quinto del totale. (...)  

Va meglio, naturalmente, nel digitale visto che negli ultimi sette anni si è triplicato il numero di chi si informa con il cosiddetto “sfogliatore”. Siamo passati dai 587 mila del 2014 a un milione e mezzo del 2021. Un aumento che però non basta certo a bloccare l’emorragia complessiva. Anche perché se in edicola un giornale costa un euro e mezzo circa, sull’Ipad scende di oltre due terzi. E quindi per le aziende editoriali è un salasso niente male.

E così tra prepensionamenti – quando va bene – e licenziamenti di massa, il giornalismo è praticamente defunto. Lo dimostra il fatto che ci sono zone dell’Italia dove i giornali di carta non arrivano nemmeno più e le edicole sono un lontano ricordo. (...) 

Secondo l’Inps, in Italia operano circa 45 mila giornalisti con contratto atipico o liberi professionisti, a fronte di appena 15 mila coperti da un contratto di lavoro dipendente (dati 2019). E tra i freelance, il 45 per cento non riesce a fatturare cinquemila euro lordi l’anno. D’altra parte, anche molti giornali storici hanno tagliato i compensi dei collaboratori, arrivando a proporre 7 euro per un articolo. Quando va bene, aggiungerei. Sul web, poi, la cifra scende ancora. Oggi il giornalista è un rider dell’informazione. I giornali sono diventati come Glovo o Just Eat, ma rispetto a chi ci porta da mangiare a casa, i cronisti non prendono nemmeno la mancia e sui social vengono spesso insultati come fossero degli appestati.

«Nel 2011, con un contratto di collaborazione a progetto, venivo “retribuito” dall’allora editore di Calabria Ora Pietro Citrigno 0,04 euro a riga, quattro centesimi insomma», ha scritto in un blog uno dei “biondini” con i quali ogni giorno lavorava Bozzo. «Il secondo contratto che ho avuto era simile ma con retribuzione fissa di appena 100 euro mensili. Ho continuato a collaborare con altri quotidiani locali e periodici, con retribuzioni occasionali e minime o, in molti casi, gratuitamente. Per fortuna ho smesso in tempo, altrimenti quello che è capitato ad Alessandro sarebbe potuto succedere anche a me».

Emmanuel Raffaele Maraziti, questo il nome del collega da quattro centesimi a riga, ha raccontato che la sua storia, come quella di migliaia e migliaia di altri aspiranti giornalisti, rappresenta un «problema sistemico» che porta dritto, non solo alla scomparsa di una professione essenziale, ma al disastro attuale dell’informazione e, quindi, a una forte distorsione della democrazia. Non è certo un caso se nel 2016, a fronte di oltre 112 mila persone iscritte all’Ordine dei giornalisti, meno di 30 mila erano professionisti (che, di solito, un contratto «vero» riescono a portarlo a casa) mentre ben 75 mila erano pubblicisti. Che, tradotto, significa precari. «I numeri, insomma - conclude Maraziti - ci raccontano che la professione di giornalista sta scomparendo, distrutta dalla precarizzazione e dal mercato senza regole, che non permette di farne una professione vera e di svolgerla con la necessaria serenità».

Difficile dargli torto. Oggi, ogni quattro giornalisti attivi in Italia, tre sono precari. Da anni le assunzioni sono bloccate, i giovani sono sempre più destinati a una condizione di precariato a vita. E la memoria non può che andare a Brindisi, a Paolo Faggiano, collaboratore di una testata locale che a 41 anni - poco prima della vicenda Bozzo - aveva lasciato una lettera alla madre impiccandosi a un albero del suo giardino. Era precario, appunto, non riusciva a trovare una stabilità malgrado lavorasse nell’informazione da quasi vent’anni. «Drammi umani come questo - scrissero i colleghi del sindacato dei giornalisti pugliesi - ripropongono in tutta la loro tragica attualità i problemi del precariato diffuso, che priva di ragionevoli certezze sul futuro umano e lavorativo migliaia di giornalisti».

Ecco perché Alessandro Bozzo si è ucciso, ecco perché la sua storia non poteva restare nell’oblio. Malgrado qualcuno avesse puntato, fin dall’inizio, a farla passare per un dramma familiare, una vicenda privata e niente più. Alessandro non è stato il primo e, purtroppo, nemmeno l’ultimo. E se negli ultimi dieci anni le condizioni sono letteralmente precipitate, non oso pensare cosa ne sarà di questa professione fra altri dieci o vent’anni. Ammesso che esisterà ancora.

C’è il precariato, certo, ci sono poi le querele temerarie, il bavaglio con cui i potenti sfruttano la condizione di instabilità di molti giornalisti. Strumenti intimidatori con i quali si tenta, e molte volte si riesce, a mettere il silenziatore alle notizie scomode minacciando i cronisti con infiniti e costosi processi e comprimendo di fatto il diritto dei cittadini di essere informati. Il rischio sempre più diffuso, e assai comprensibile, è che il giornalista da quattro centesimi a riga - o poco più – prima di qualsiasi inchiesta si faccia la fatidica domanda: «Ma chi me lo fa fare?». E, alla fine, si autocensuri per evitare di spendere una barca di soldi in avvocati e giustizia negata.

Combattere il precariato deve - dovrebbe - essere un obiettivo non solo dei giornalisti ma di un Paese intero. Perché la buona informazione è – dovrebbe essere - uno dei diritti costituzionali più importanti e che va riconosciuto a tutti i cittadini.

Infine il capitolo delle minacce della criminalità a chi, malgrado tutto, non si volta dall’altra parte e continua a scrivere tutto quello che riesce a scoprire. Ossigeno, l’associazione di Alberto Spampinato, fratello di uno dei tanti cronisti siciliani uccisi dalla mafia, tiene il conto da anni. Nel 2020, per dire, in Italia i giornalisti minacciati sono stati 495, il 26 per cento donne. Numeri in aumento questi, a differenza di tutti gli altri indicatori negativi. Come dire, meno si vende e più i criminali si sentono autorizzati a intimidire i cronisti che si occupano di loro.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Usuropoli.

Conto corrente e interessi: cos’è l’anatocismo e cosa dice la legge. L’anatocismo ha creato molti conteziosi tra banche e clienti perché tende a creare un maggiore carico a debito dei correntisti e la legge è intervenuta per sedare gli animi. Giuditta Mosca il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cos’è l’anatocismo

 Cos’è successo a partire 1999

 Cosa è successo tra il 2004 e il 2016

L’anatocismo si è guadagnato gli onori delle cronache anche a causa dei tanti imprenditori che ne hanno denunciato i meccanismi facendo in modo che, nel 2004, la Corte di cassazione intervenisse per redimere la questione, facendo sì che la giurisprudenza lo vietasse al di fuori di certe condizioni.

Nonostante ciò, l’anatocismo è motivo di disaccordo tra clienti e istituti di credito anche perché, chi in passato lo ha contestato, si è trovato spesso al centro di diatribe che durano anni e, benché prima del 1999 il problema non fosse emerso con tutto il suo fragore, molti casi non sono ancora del tutto chiusi.

Cos’è l’anatocismo

È il fenomeno per il quale gli interessi vengono conteggiati nel computo di altri interessi. Per fare un esempio, il correntista bancario che fosse in rosso di 5.000 euro e pagasse in prima istanza 100 euro di interessi, il secondo calcolo degli interessi verrebbe fatto sulla cifra di 5.100 euro e non su 5.000, procedendo così nel tempo e quindi supportando un ulteriore aggravio.

L’ articolo 1283 del Codice civile ha sempre vietato l’anatocismo, almeno sul piano generale, disponendo che gli interessi possono maturare soltanto sul capitale e non sugli interessi maturati. Poiché il medesimo articolo cita che l’anatocismo è vietato fatti salvi gli usi contrari e, considerando che negli ambiti bancari è stato ampiamente usato, si è entrati in una sorta di circolo senza una chiara via di uscita. Questo fino al 1999 quando, al di là dell’uso continuato che se ne facesse soprattutto nei circuiti bancari, la giurisprudenza ha cominciato a metterne in forse la liceità.

Negli anni a seguire hanno preso piede diverse interpretazioni le quali, dando alcune volte ragione ai clienti e altre volte alle banche, hanno contribuito a creare confusione.

Cos’è successo a partire 1999

Il decreto legislativo 342 del 4 agosto 1999 ha tentato di tirare una linea tra i rapporti bancari esistenti e quelli futuri, delegando al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr) il compito di stabilire le modalità e i criteri per i quali fosse legittima la produzione di interessi sugli interessi maturati, purché venissero conteggiati nello stesso modo e con la stessa periodicità sia per gli interessi passivi sia per quelli attivi (ovvero sia per i conti con un saldo a favore delle banche, sia per quelli con un saldo a favore dei clienti).

Il Cicr ha provveduto in questo senso con la delibera del 9 febbraio 2000 e si è quindi stabilito un regime per il quale le capitalizzazioni (ovvero il calcolo degli interessi sugli importi comprensivi di interessi) avvenute prima del 9 febbraio 2000 erano sanate ma che, nello stesso tempo, i contratti stipulati prima di tale data potessero continuare ad applicare l’anatocismo purché rispettando le norme contenute nella delibera stessa. Concetto che è rimasto indigesto alla Corte costituzionale la quale, con la sentenza 425 del 17 ottobre 2000 ne ha dichiarato l’incostituzionalità.

Quindi, dopo un lungo dialogo tra le parti e l’intervento delle autorità preposte, si è ritornati praticamente al punto di partenza facendo però un passo in avanti: l’anatocismo è rimasto legale a patto però che fosse considerato con la stessa periodicità anche sui conti correnti con saldi positivi.

Cosa è successo tra il 2004 e il 2016

Il dibattito non si è placato, tant’è che la Cassazione, con sentenza 21095 del 4 novembre 2004, ha stabilito che tutte le pratiche anatocistiche – quindi anche quelle antecedenti al 1999 – fossero da ritenersi nulle perché attuate in violazione dell’articolo 1283 del Codice civile.

Il 27 dicembre del 2013 è stato modificato l’articolo 120 del Testo unico bancario (Tub) e l’anatocismo è stato eliminato del tutto a partire dal primo gennaio del 2014. Le discussioni sono però continuate a causa della scarsa chiarezza di alcune definizioni riportate nel Tub al quale, nel 2016, sono state apportate ulteriori modifiche dando forma a un anatocismo subordinato al consenso del cliente. In altre parole l’anatocismo è possibile soltanto se previsto nel contratto e viene calcolato una volta l’anno e non trimestralmente o mensilmente.

In linea generale, così come spiega la Banca d’Italia, l’anatocismo è vietato e valgono queste regole:

Gli interessi passivi maturati non devono produrre altri interessi

Gli interessi passivi e attivi vanno calcolati con la medesima periodicità

Il periodo del conteggio degli interessi non può essere inferiore a un anno e avviene di norma il 31 dicembre anche nel caso di contratti stipulati durante l’anno solare

Gli interessi passivi calcolati al 31 dicembre sono dovuti al primo marzo dell’anno successivo.

La Banca d’Italia fornisce anche delle note per i clienti, affinché siano informati dei propri diritti.

"Impossibile uscire da questo vortice". L’ex calciatore Giuseppe Bruscolotti racconta il prestito chiesto al clan: “Le banche lasciano soli i cittadini”. Redazione su Il Riformista il 26 Ottobre 2022 

“C’è tantissima gente perbene e onesta che alla fine trova difficoltà ad accedere a questi canali (gli istituti di credito)”. A parlare è Giuseppe Bruscolotti, l’ex capitano del Napoli di Maradona, quello che il 10 maggio 1987 vinse il primo scudetto. Palo ‘e fierro è finito nella morsa degli usurai di un clan di Fuorigrotta, i Baratto-Volpe, e diversi anni fa, nel 2011, chiese un prestito all’organizzazione criminale, sgominata ieri da una operazione dei carabinieri, sia per gestire le perdite del suo ristorante a Posillipo (che si chiamava proprio “10 maggio 1987”) sia per aprire un centro scommesse nel quartiere dove si trova lo stadio che oggi porta il nome di Diego Armando Maradona. 

“Quando si entra in questo vortice è impossibile uscirne” ha spiegato ai magistrati l’ex calciatore quando è stato ascoltato nei mesi scorsi come teste. In una intervista a Il Mattino, Bruscolotti spiega le ragioni che l’hanno portato a chiedere soldi ad Antonio Volpe, il reggente del clan ammazzato a 77 anni nel marzo 2021 in via Leopardi, a pochi passi dalla tabaccheria di famiglia.

“È un capitolo lungo e delicato. Mi limito a dire che, in un momento di particolare costrizione e di criticità non sempre si trova una sponda con gli istituti di credito, i cui percorsi e le cui procedure sono spesso lunghi e complessi. Penso che questo sia il vero problema da affrontare” spiega Bruscolotti che chiese così un prestito di circa 65mila euro ai Volpe-Baratto, restituito con tasse mensili da 2400 euro al mese, poi diventati mille.

Prestito con tassi che variano dal 20 al 40% che ha difficoltà a pagare con regolarità durante l’emergenza pandemia. “Abbiamo difficoltà di sopravvivenza qua sta tutto fermo, tra poco iniziano i suicidi” si giustifica con uno dei figli di Volpe che chiede il rispetto dell’accordo.

Al Mattino Bruscolotti spiega: “Purtroppo sono caduto nell’errore di credere che fosse tutto possibile. Quando ti trovi in un momento di difficoltà, quando hai bisogno di liquidità, aderisci a offerte che solo in stato di necessità si possono accettare”.

“Alla fine si commette un passo sbagliato, ed è capitato anche a me” aggiunte l’ex calciatore la cui agenzia di scommesse oggi è gestita dai familiari.

Undici le misure cautelari eseguite ieri dai carabinieri, al termine delle indagini della Dda, nei confronti di presunti appartenenti a due gruppi malavitosi del quartiere Fuorigrotta, i Baratto e i Volpe. A fare luce sugli affari della malavita flegrea è un collaboratore di giustizia, Gennaro Carra, genero del boss del Rione Traiano Salvatore Cutolo, detto Borotalco.

Carra, non sempre ritenuto attendibile dagli stessi pm, spiega di essere stato presente a un incontro tra l’ex bandiera del Napoli e il boss Antonio Volpe, ucciso quasi due anni fa. “Commentai con il Volpe – riferisce il ‘pentito’ – che il tasso di interesse praticato era benevolo, e il Volpe mi rispose che lo aveva fatto perché sì trattava del capitano del Napoli”. Ma secondo gli investigatori i tassi superavano anche il 40%.

Stando a quanto emerso dalle indagini, le vittime presenti in un “libro mastro” sequestrato nel corso di una perquisizione nel luglio 2020 in una tabaccheria, erano oltre 50 le vittime di usura del clan.

E' morto monsignor Alberto D'Urso, una vita spesa per combattere l'usura. Luca Liverani su Avvenire il 23 settembre 2022.  

Un pioniere nella lotta contro l'usura. Un punto di riferimento per tante famiglie e piccoli imprenditori salvati dalle grinfie degli strozzini. Un pungolo instancabile per le istituzioni. Monsignor Alberto D'Urso, prete mite e tenace, coraggioso e sorridente, è morto a 84 anni dopo una lunga malattia. Presidente della fondazione Antiusura San Nicola e SS. Medici, in passato aveva guidato anche la Consulta nazionale Antiusura.

A dare la notizia è l'arcivescovo di Bari-Bitonto, monsignor Giuseppe Satriano, con una nota. Monsignor D'Urso nasce ad Acerno, in provincia di Salerno, il 27 aprile del 1938, e viene ordinato sacerdote il 2 luglio del 1961. Già parroco della parrocchia Santa Croce in Bari, scopre presto tra i suoi parrocchiani il dramma del prestito a strozzo. Così già negli anni '90 decide di aiutare famiglie e commercianti letteralmente espropriati di beni e imprese dalla criminalità organizzata. E con tenacia e passione riesce a sensibilizzare coinvolgere la Chiesa italiana. Fondamentale sarà l'incontro col gesuita napoletano padre Massimo Rastrelli, morto nel 2018 a 90 anni, che nel 1991 fonda la fondazione San Giuseppe Moscati, la prima organizzazione di ispirazione ecclesiale capace di offrire sostegno legale, ristrutturazione del debito, garanzie per l'accesso al credito bancario.

Padre Rastrelli e don D'Urso riescono a muovere un movimento d'opinione, a trovare spazio sui mass-media, a sensibilizzare i legislatori, convincendoli ad aggiornare radicalmente le norme contro l'usura. Nel 1996 il Parlamento approva - resistendo anche a pressioni del mondo del credito - una moderna ed efficace legge antiusura che prevede inasprimento delle pene, strumenti per gli inquirenti, forme di sostegno per gli usurati. Una battaglia sociale e di giustizia costantemente animata dall'amore evangelico per i poveri, che diventa anche azione pastorale con il coinvolgimento delle diocesi, delle parrocchie e dei volontari nella lotta all'usura.

Il 16 maggio 1995 presso la Fondazione S.S. Nicola e S.S. Medici di Bari, insieme a Padre Rastrelli e con le Fondazioni Antiusura di Napoli, Roma, Matera e Torino dà vita alla Consulta Nazionale Antiusura San Giovanni Paolo II, il primo organismo di lotta all’usura di matrice ecclesiale. Molte altre diocesi d’Italia lo seguiranno. Oggi la Consulta in Italia consta 33 Fondazioni antiusura.

«La sua missione di servizio alle vittime di usura, ai poveri e alle persone indebitate - dichiara l'attuale presidente della Consulta delle Fondazioni antiusura Luciano Gualzetti - proseguirà attraverso i volontari e tutte le persone che ha scagionato dalla trappola dell’usura. Attraverso le Fondazioni antiusura la Chiesa è in grado di offrire un esempio di apostolato competente e perseverante nei confronti delle famiglie flagellate dai debiti. Gli siamo riconoscenti per aver dato vita ad un percorso di denuncia e di lotta ad una piaga sommersa, che si nutre silenzio e omertà. Girò tutte le diocesi del Paese per reclutare persone disponibili a mettersi al servizio delle persone a cui l’usura aveva tolto ogni speranza di vita».

Chi lo ha conosciuto ne ricorda la pazienza, la disponibilità, la caparbietà che lo portò in qualche occasione a polemizzare - per amore della verità e delle vittime - anche con politici e sottosegretari. Senza timore, con umiltà, sempre col sorriso sulle labbra. Con lo stile evangelico dei piccoli grandi preti. «Siamo partiti con pochi mezzi, ma animati da tanta fede e buona volontà», raccontava lo stesso monsignor D'Urso quattro anni fa, commentando la scomparsa dell'amico e compagno di tante battaglie padre Rastrelli. «Abbiamo salvato tante famiglie dalla morsa dei debiti, abbiamo svegliato le coscienze dei decisori pubblici che ignoravano il fenomeno dell’usura e creato una coscienza antiusura».

Se il legislatore si è dotato della norma 108/96, rivendicava monsignor D'Urso «lo deve al perseverante lavoro delle Fondazioni Antiusura. Abbiamo incontrato i Pontefici che si sono avvicendati negli anni - sottolineava - che ci hanno sempre incoraggiato e sostenuto. Ci sarebbe tanto da raccontare. Una storia che continua». Anche oggi che lui non c'è più, grazie ai tanti volontari ai quali monsignor D'Urso - ma lui preferiva farsi chiamare don Alberto - insegnava sempre a non giudicare le persone cadute nella trappola degli strozzini, quasi sempre per necessità, a volte anche per scelte avventate o per azzardo-patia: «Bisogna assicurare loro un'altra opportunità di vita»

Il suo impegno coraggioso e costante nella lotta alla criminalità e nel sociale lo hanno reso un punto di riferimento per la comunità barese, e non solo. «La notizia della scomparsa di monsignor Alberto D'urso - commenta il sindaco di Bari, Antonio Decaro - mi addolora molto, non solo perché sacerdote con un grande carisma, ma anche per il suo impegno in prima persona nel sociale nella lotta contro l'usura e per l'attenzione rivolta agli ultimi. Alla diocesi barese e alla sua guida monsignor Satriano giungano le espressioni più affettuose del mio cordoglio e di quello della comunità barese. Ci mancheranno la sua voce mite e il dolce sorriso».

·        Aste Truccate.

Tribunali fallimentari in Italia, Bari «lumaca». In Italia è al 122esimo posto: 11 anni per chiudere le procedure. Basilicata, il 62,7% ancora pendenti. Redazione primo piano su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Ottobre 2022.

Con gli attuali tassi di recupero e durate di estinzione delle procedure, il valore stimato dei crediti in sofferenza in Italia supera di poco i 7 miliardi di euro, ma la cifra potrebbe quasi raddoppiare, raggiungendo i 12,7 miliardi, se tutti i tribunali fossero efficienti come quello di Ferrara, il più veloce dal punto di vista sia delle procedure fallimentari che delle esecuzioni immobiliari.

A dirlo è Cerved, che ha analizzato come i tempi della giustizia civile italiana si ripercuotano anche sulla gestione dei crediti deteriorati, provocando una riduzione dei tassi di recupero e del valore degli NPL che ha effetti negativi sul mercato del credito e sulla solidità dell’intero sistema economico. Secondo la World Bank, infatti, l’Italia è al 122esimo posto su 190 nel ranking internazionale che misura i tempi e i costi di risoluzione delle controversie e la qualità dei processi giudiziari, in particolare a causa dell’eccessiva durata delle procedure esecutive e del lento smaltimento dei carichi pendenti, con forti differenze da Nord a Sud: un fallimento può risolversi in 3 anni nei tribunali più efficienti e in oltre 18 anni in quelli più lenti, le esecuzioni immobiliari durano invece in media 5,3 anni, con una forchetta che va da 2 a quasi 12 anni.

Stando alle analisi di Cerved, negli ultimi cinque anni il numero di procedure fallimentari chiuse è sempre risultato più alto rispetto ai fallimenti aperti, con riflessi positivi sul carico operativo dei tribunali. Nel 2021 il saldo è addirittura migliorato, raggiungendo il suo picco massimo dal 2007 (+5.528): 14.545 le procedure fallimentari chiuse, +14,9% rispetto al 2020 (condizionato dai ritardi legati al Covid19) e con tempi medi di chiusura inferiori di circa un mese (7 anni e 3 mesi, verso i livelli minimi osservati nel 2018).

Restano però ben 1.551 fallimenti arrivati al termine dopo oltre 15 anni (il 10,7% delle procedure chiuse), tuttavia meno che nel 2020 (1.448, l’11,4%) e nel 2019 (1.867, il 12,5%). Dei 236.000 fallimenti dichiarati dal 2001 al 2021, ne risultano tuttora aperti circa 77.000, il 32,6% del totale, ma negli ultimi anni si è verificato un netto calo della quota e della durata media dei fallimenti pendenti, che si attesta nel 2021 sui 4 anni e mezzo contro i 6 anni e 2 mesi del 2019.

La durata dei fallimenti cambia sensibilmente da regione a regione, con il Nord che si caratterizza per le performance migliori rispetto al Centro e al Sud. Anche nel 2021 il Mezzogiorno si conferma l’area geografica con i tempi di chiusura più lunghi, quasi 10 anni, seguito dal Centro (7 anni e quattro mesi), mentre al Nord la media è di 6 anni e 2 mesi, addirittura 5 e 7 mesi nel Nord-Ovest: in dettaglio, nel 2021 le regioni più virtuose sono Valle d’Aosta (5 anni e 3 mesi), Lombardia (5 e 6 mesi) e Friuli Venezia-Giulia (5 e 8 mesi), mentre in coda troviamo Puglia e Sicilia (quasi 11 anni) e Calabria (10 anni e 4 mesi). Il Friuli Venezia-Giulia è anche la regione più efficiente nello smaltimento dei carichi pendenti insieme al Piemonte (meno del 40% dei fallimenti aperti negli ultimi dieci anni), mentre in fondo alla classifica ci sono Basilicata (62,7%) e Umbria (61,8%). I dati sui tempi e sul carico di pendenti da smaltire per singolo tribunale evidenziano differenze ancora più significative. Nel 2021 i tribunali con durate medie di chiusura più brevi sono Ferrara (3 anni e 4 mesi), Tolmezzo (4 e 3 mesi), Trieste (4 e 4 mesi), Crotone (4 e 5 mesi), Como (4 e 6 mesi), Forlì e Tortona (4 e 7 mesi), Genova (4 e 8 mesi), Novara, Udine e Torino (4 e 9 mesi), Rimini (5 anni): Ferrara si conferma più efficiente anche sotto il profilo delle pratiche in arretrato da smaltire (26,2%), seguita da Gorizia (27,4%) e Bolzano (28,1%). Al contrario, i tempi più lunghi si osservano a Barcellona Pozzo di Gotto (18 anni e 3 mesi), Caltanissetta (15 anni), Gela e Castrovillari (14 anni e 7 mesi) e Vallo Della Lucania (14 e 4 mesi), mentre le quote più alte di procedure pendenti si registrano a Spoleto (85,8%), Grosseto (78,2%) e Montepulciano (74,4%).

Come ovvio, risulta una netta correlazione tra la durata media delle procedure fallimentari e il peso dei carichi da smaltire: tra le grandi città, le migliori sono Genova (4 anni e 8 mesi, 42,3% di pendenti) e Torino (4 anni e 9 mesi, 32,7% di pendenti), mentre Bari (11 anni e 64,1%) e Messina (quasi 12 anni e 71%) sono ben al di sotto della media.

La lentezza dei processi civili rallenta la crescita economica del Paese. Assumendo la prospettiva di un investitore, infatti, in Italia un portafoglio di 100 euro di crediti bloccati in società fallite vale in media 14,3 euro (con un tempo di chiusura del fallimento di circa 7 anni e 3 mesi), ma potrebbe salire a 30,1 euro nei tribunali più efficienti e svalutarsi fino a 3,2 in quelli più lenti. Altrettanti euro di crediti bloccati in esecuzioni immobiliari valgono invece, in media, 29,8 euro, con una forbice che va dai 53,5 euro di Trieste ai 13,1 di Fermo.

Anche la cifra complessiva di 7,1 miliardi di euro, il 21,4% del valore lordo delle sofferenze, che a fine 2021 era pari a 33,4 miliardi, è stata calcolata facendo riferimento alla durata media di tutte le procedure di estinzione partendo dal punto di vista di un investitore, ma per una banca, in grado di scontare i flussi futuri a tassi di rendimento significativamente più bassi, il valore delle sofferenze sul mercato sale a poco meno di 10 miliardi di euro, calcolati mediando tra i 14,5 miliardi di euro del tribunale più efficiente, Ferrara, e i 3,6 miliardi di euro di Barcellona Pozzo di Gotto. forte trasformazione.

L’osservatorio privilegiato di oltre 30 mila procedure esecutive in gestione a La Scala Cerved, joint venture tra Cerved Legal Services srl e La Scala Società tra Avvocati, ha permesso di identificare alcune proposte per velocizzare i tempi dei Tribunali: modifiche normative, dematerializzazione e digitalizzazione dei processi, innovazione tecnologica.

«L’incertezza del quadro macroeconomico rende molto probabile una nuova crescita degli NPL nei prossimi anni - commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved -, è quindi necessario rafforzare l’efficacia del sistema giudiziario per rispondere alle nuove esigenze del mercato in maniera tempestiva»..«La pandemia ha messo a nudo tutte le criticità dell’attuale modello di gestione della giustizia amministrativa da un punto di vista tecnologico, organizzativo e culturale - aggiunge Paolo Pellegrini, amministratore delegato di Cerved Credit Management - un diffuso utilizzo delle tecnologie digitali, combinato con l’applicazione di strumenti di intelligenza artificiale, machine learning e di algoritmi di giustizia predittiva, consentirebbe di aumentare notevolmente la qualità e l’efficacia dei servizi forniti alla comunità». 

Giudice del tribunale di Lecce indagato per corruzione: il Csm lo trasferisce. Il è indagato per un presunto giro di consulenze concesse, in cambio di favori, senza rispettare il principio della turnazione. Il Dubbio il 27 ottobre 2022.

Il giudice della sezione Fallimentare del Tribunale di Lecce, Pietro Errede, 56 anni, coinvolto insieme ad altre otto persone in una inchiesta per corruzione avviata nei mesi scorsi dalla Procura di Potenza, sarà trasferito a Bologna. Lo ha deciso il plenum del Csm basandosi sui pareri espressi dalla Prima commissione. È stato espresso parere contrario al trasferimento presso gli uffici giudiziari di Brindisi, Bari, Trani e Matera.

Giudice di Lecce indagato per corruzione: le accuse

Errede è indagato per un presunto giro di consulenze concesse, in cambio di favori, senza rispettare il principio della turnazione. Tra le utilità ottenute dal giudice vi sarebbe anche l’acquisto di una collana tennis a prezzo di fabbrica, grazie all’interessamento di un consulente. La conversazione telefonica tra quest’ultimo ed Errede, relativa all’acquisto del monile, è stata intercettata dalla Guardia di finanza e trascritta negli atti consegnati alla Procura di Potenza, competente per le indagini riguardanti i magistrati leccesi.

Parere contrario al trasferimento a Bari è stato espresso per motivi di incompatibilità, in quanto la sorella del giudice, Grazie Errede, è sostituto procuratore della Repubblica nel capoluogo pugliese. La commissione si è pronunciata favorevolmente rispetto al trasferimento di Pietro Errede al Tribunale di Bologna o a quello di Pescara, escludendo, quindi, l’assegnazione a funzioni fallimentari, di esecuzione civile e riguardanti il coordinamento di sezione.

 PERQUISIZIONI E SEQUESTRI. Corruzione, indagini su un altro magistrato del Tribunale di Lecce: avrebbe ricevuto in dono del pesce. Gli accertamenti riguardano il giudice Alessandro Silvestrini. Gianfranco Lattante su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Ottobre 2022.

La perquisizione in casa di un magistrato svela l’esistenza di un’altra inchiesta della Procura di Potenza per corruzione in atti giudiziari. Qualche giorno fa, i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria e della Compagnia di Gallipoli hanno eseguito un decreto di perquisizione nei confronti di Alessandro Silvestrini, giudice presso la sezione Commerciale del Tribunale Civile e candidato alla presidenza del Tribunale. Nella stessa inchiesta compaiono anche il geometra Antonio Fasiello e l’imprenditore Eusebio Giovanni Mariano. Le perquisizioni si sono concluse con il sequestro di documentazione, di computer e di telefonini. Sullo sfondo ci sarebbe una procedura fallimentare. Le indagini dovranno verificare se l’iter della pratica sia stato ortodosso oppure se ci siano state pressioni, accelerazioni, corsie preferenziali ed eventuali benefit (al giudice sarebbe stato regalato del pesce). Al momento si tratta solo di ipotesi ancora da riscontrare ed accertare. E il decreto di perquisizione con l’ipotesi di reato non è certo una condanna anticipata. I destinatari del decreto di perquisizione sono assistiti dagli avvocati Leonardo Pace, Giuseppe Della Torre e Giancarlo Raco.

A disporre la perquisizione sono stati il procuratore di Potenza Francesco Curcio e i sostituti Elena Mazzilli ed Emiliano Busto. Si tratta degli stessi magistrati che conducono l’altra inchiesta per corruzione in atti giudiziari che ha scosso il Tribunale civile di Lecce. E difatti, questa seconda inchiesta, può considerarsi una sorta costola della prima da cui si è staccata per poi alimentarsi di ulteriori elementi.

L’altra inchiesta è quella che ruota attorno alla figura del giudice Pietro Errede, pure lui magistrato della sezione Commerciale, delegato alle procedure concorsuali nonché giudice delle esecuzioni immobiliari. Il giudice Errede è stato anche componente dell’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale. È indagato per corruzione in atti giudiziari, corruzione per un atto contrario ai dover d’ufficio, concussione e turbativa d’asta insieme a quattro avvocati (Alberto Russi, originario di Galatina; Giuseppe Positano, di Lecce; Antonio Casilli, di Lecce, e Rosanna Perricci, di Monopoli, assessora comunale nella sua città), tre commercialisti (Marcello Paglialunga, di Nardò; Giuseppe Evangelista, di Lecce; ed Emanuele Liaci, di Gallipoli) ed una cancelliera (Graziella De Masi, di Lecce, assistente giudiziaria della cancelleria del giudice Errede). Il sospetto è che il magistrato abbia pilotato e condizionato gli affidamenti di incarichi di amministratore giudiziario in cambio di regali e altre utilità.

La procura di Potenza dopo Taranto adesso indaga sugli uffici giudiziari di Lecce. Ma quando si indagherà anche sulla procura lucana? Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 6 Ottobre 2022. 

Alessandro Silvestrini è accusato di corruzione impropria con un geometra e un imprenditore: "Accuse assurde, ho chiesto io stesso di essere indagato per dimostrarlo". L’accusa ipotizzata sarebbe inerente attorno ad un procedimento trattata dalla sezione fallimentare, e si farebbe riferimento ad un pesce ricevuto in regalo dal magistrato!

Dopo le discutibili indagini della procura di Potenza competente ad indagare sui magistrati in servizio nel distretto di Lecce, Brindisi e Taranto, sul caso Capristo dove le accuse a carico dell’ex procuratore capo di Taranto si stanno sciogliendo una ad una come neve sotto il sole (e la solita stampa “sodale” della sinistra giudiziaria tace…) , e dopo il rigetto da parte dell ‘ufficio Gip del Tribunale di Potenza su tutte le richieste di patteggiamento dell’avvocato-faccendiere Piero Amara “sponsorizzate” dalla Procura lucana, questa volta è il turno degli uffici giudiziari di Lecce, dove una nuova inchiesta agita il Tribunale civile di Lecce. 

La procura di Potenza ha avviato un’indagine per corruzione impropria in atti giudiziari a carico del giudice Alessandro Silvestrini, presidente della sezione commerciale e fallimentare del Tribunale di Lecce, che vede coinvolti pure un geometra e un imprenditore.

I finanzieri della Compagnia di Gallipoli nella giornata di ieri, hanno eseguito delle perquisizioni su delega dei pm inquirenti (il procuratore di Potenza Francesco Curcio è titolare del fascicolo) nelle abitazioni dei tre indagati, sequestrando vari dispositivi elettronici, il cui contenuto ora sarà passato al setaccio. L’accusa ipotizzata nei confronti del giudice Silvestrini, che indagato insieme al geometra Antonio Fasiello ed all’imprenditore Eusebio Mariano, sarebbe inerente attorno ad un procedimento trattata dalla sezione fallimentare, e si farebbe riferimento ad un pesce ricevuto in regalo dal magistrato. Onestamente vedere un magistrato corrotto con un pesce, perdonatemi ma sa tanto di “pesce d’aprile”, solo che siamo ancora ad ottobre… 

In una nota diffusa ai giornali il giudice Silvestrini si difende: “Ho appreso di essere indagato per corruzione impropria . Secondo la Procura di Potenza, un geometra, che è mio amico e vicino di casa da circa quaranta anni e che ha lavorato nello stesso ufficio di mia moglie per circa dieci anni, mi avrebbe regalato un pesce per sollecitare il compimento da parte mia di atti assolutamente dovuti e non discrezionali“.

“Tutti gli atti della procedura sono regolarissimi – continua la nota del magistrato del Tribunale Fallimentare di Lecce – Si tratta di atti, non soltanto dovuti ma addirittura scontati, che il giudice deve necessariamente emettere per non incorrere in omissioni di atti d’ufficio. Peraltro, dal rapporto degli organi di pg risulta che, a dispetto del presunto regalo del pesce (che non ricordo di avere mai ricevuto), io non adottai tali atti, per cui a distanza di circa dieci giorni il cancelliere fu costretto a portare sulla mia scrivania in ufficio la pratica in questione, affinché io finalmente la prendessi in considerazione“. 

Il giudice è convinto e pronto a dimostrare la sua innocenza: “Dimostrerò l’assurdità di tale impostazione accusatoria – conclude la nota – ho già chiesto alla Procura di Potenza di essere immediatamente interrogato. Nel frattempo, l’indagine ed il conseguente strepitus (per l’ennesima volta non si comprende chi abbia divulgato la notizia: gli organi di pg che mi hanno notificato l’atto – da me interpellati – hanno dichiarato che la Procura di Potenza non ne ha autorizzato la divulgazione) mi hanno già arrecato un grave pregiudizio: quello di ritardare ulteriormente la decisione del Csm sulla nomina del presidente del Tribunale di Lecce“. 

La sentenza del Consiglio di Stato sul Tribunale di Lecce

I giudici della quinta sezione del Consiglio di Stato hanno accolto nell’ agosto dello scorso anno il ricorso presentato da Alessandro Silvestrini, presidente della sezione commerciale della Corte d’Appello, per chiedere l’annullamento della sentenza di aprile corso del Tar Lazio. Se quella sentenza aveva respinto l’istanza di annullamento della decisione del Csm di consegnare la presidenza del Tribunale nelle mani di Roberto Tanisi, il provvedimento di Palazzo Spada sposa le ragioni del ricorrente: Tanisi non avrebbe dovuto convocare la seduta con cui il consiglio giudiziario della Corte d’Appello di Lecce fornì il parere attitudinale su Silvestrini. Tanto perché la firma di Tanisi sulla convocazione fu apposta il 9 maggio del 2019, lo stesso giorno in cui il Csm lo informò del provvedimento di decadenza da presidente della Corte d’Appello e dunque anche da presidente del consiglio giudiziario.

Si parla per questo di obbligo di astensione per non incorrere in una situazione di conflitto di interessi, nella sentenza del Consiglio di Stato (presidente Giuseppe Severini, estensore Giovanni Grasso, consiglieri Fabio Franconiero, Federico Di Matteo e Stefano Fantini). Non era stata presa in considerazione – come invece avevano fatto i giudici del Tar Lazio – la circostanza che Tanisi convocò quella seduta del consiglio giudiziario nelle prime ore del 9 maggio, ancora prima di ricevere la comunicazione del Csm della nomina a presidente della Corte d’Appello di Lanfranco Vetrone il quale lasciò l’ufficio appena ricevuta la comunicazione e che non partecipò alla seduta sulla valutazione delle attitudini del collega Silvestrini a ricoprire la funzione di capo di un ufficio direttivo.

A questo punto resta una domanda che temiamo resterà insoluta: chi aprirà il procedimento dovuto e previsto per legge per la violazione del segreto istruttorio avvenuto a Potenza ? O forse negli uffici giudiziari lucani tutto è consentito… e guai a chi osa disturbare il manovratore ed i suoi adepti teleguidati ? Ed incredibilmente qualcuno la chiama pure “giustizia”… ! 

Facebook: Pietro Palau Giovannetti 

C'è un vero e proprio racket dei fallimenti. Ne so bene qualcosa io che ho subito un fallimento illegale nel 1992 per appena 1.000.000 di vecchie lire! Denunciai il giudice delegato Fabiani, il presidente del tribunale Curtò e tutti i giudici sino alla cassazione che legittimarono il fallimento della mia azienda, una delle più importanti nel settore dell'organizzazione di rally internazionali e restauro di auto d'epoca. Dopo 25 di battaglie giudiziarie mi hanno messo in galera, inventandosi che dovevo scontare 10 anni e che ero legato (sic!) al terrorismo anarchico greco... Alla fine, nel 5/2018, dopo 6 mesi di ingiusta detenzione, sono riuscito a rompere il muro di omertà, ma intanto hanno distrutto la mia vita, quella dei miei genitori che sono morti di dolore e di mia figlia, screditando l'associazione di volontariato che ho fondato insieme ad altre vittime di questo sistema criminale che di giudiziario porta solo abusivamente il nome. Un sistema che i magistrati e i giuristi onesti, insieme agli imprenditori e alle persone per bene hanno il dovere di scoperchiare se non vogliono esserne complici...

Egle Priolo per “il Messaggero” il 27 maggio 2022.

Dopo 45 giorni di carcere, prima donna magistrato a finire dietro le sbarre, e due mesi di domiciliari, arriva la condanna a sette anni per Chiara Schettini, ex giudice della sezione fallimentare di Roma accusata di essersi appropriata, con l'allora compagno, di circa cinque milioni di euro dalle procedure fallimentari da lei trattate. 

In due ore e dieci minuti di camera di consiglio, il tribunale collegiale di Perugia (competente per il coinvolgimento di un magistrato romano) ha così chiuso il primo grado nei confronti della 62enne passata da una carriera brillante - l'ingresso in magistratura a soli 23 anni, un super attico a Rebibbia - non solo alla rimozione dall'ordine giudiziario nel 2016 ma adesso alla condanna, che prevede anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici più un risarcimento dei danni cagionati al ministero di Giustizia e alla Tecnoconsult srl da quantificarsi in sede civile. 

L'INCHIESTA Una condanna pesante, come richiesto dal pubblico ministero Manuela Comodi che dal 2012 lavora a un'inchiesta che ha visto Schettini accusata anche di falso, corruzione, minacce e intralcio alla giustizia: tutte contestazioni prescritte, tranne il peculato per cui è stata condannata. Dei tredici indagati iniziali (tra cui professionisti, commercialisti e curatori fallimentari), ieri sono stati condannati con tanto di interdizione per cinque anni dai pubblici uffici - anche Rossella Galante a 4 anni e mezzo, Massimiliano Fiore e Andrea Doni, entrambi a 4 anni, mentre sono stati assolti per non aver commesso il fatto Sergio Usai e Pierluigi De Paolis.

Per tutti gli altri, è arrivata la prescrizione, in una sentenza emessa a 15 anni dai fatti contestati. Piercarlo Rossi, invece, il suo ex compagno e curatore fallimentare, accusato di aver intascato 4 milioni e ottocentomila euro sottratti da tre procedure fallimentari firmate da lei, ha confessato ormai anni fa e ha patteggiato una pena a un anno e nove mesi di carcere. 

LA DIFESA E proprio sulla sua colpevolezza ha sempre puntato la difesa dell'ex giudice Schettini, che ha ribadito a più riprese come sia stato lui, semmai, a raggirarla. «Non ho intascato un euro aveva dichiarato tempo fa -. Il commercialista su cui avrei dirottato il malloppo della fallimentare? Lui ha raccontato questo ai magistrati per tirarmi in trappola. Ma io sono stata sempre ligia. Ho avuto due encomi, l'ultimo nel 2007. Poi non sono impazzita».

Ma i giudici Matteo Cavedoni, Serena Ciliberto e Loretta Internò hanno invece evidentemente considerato più attendibile la ricostruzione della procura sui fallimenti pilotati dall'interno per arricchirsi. Forse anche per quell'intercettazione della Schettini diventata ormai cronaca quanto la morte del padre, ucciso dalle Brigate Rosse: «Sono più mafiosa dei mafiosi». La parola adesso passerà certamente per l'appello.

Comprare casa all’asta adesso è più facile per tutti: ecco cosa cambia, le novità.  Gino Pagliuca su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.

Il ritorno delle aste immobiliari

Le aste immobiliari possono rappresentare un buon affare, tutti possono partecipare e molto spesso non c’è più nemmeno bisogno di presentarsi fisicamente alla gara. Ciò non toglie che vi siano molte cose a cui stare attenti e togliersi dalla testa sin da subito che se ad esempio si cerca un attico nel centro di Roma o di Milano lo si possa comprare a una frazione del suo prezzo di mercato, perché non è così: la maggior parte degli immobili in offerta, soprattutto nel residenziale, è di bassa qualità. Ciò non toglie che l’attenzione per questa procedura di acquisto stia crescendo e in prospettiva appaia destinata ad aumentare, lo dimostra il fiorire di società di consulenza specializzate e di agenzie di mediazione che trattano immobili sottoposti a vendite giudiziarie.

Perché questa procedura ha successo

Le ragioni di questo fenomeno sono sostanzialmente quattro: 1) il ritorno di interesse verso l’investimento immobiliare; molto di frequente chi cerca di comprare una casa all’asta non lo fa per andarvi direttamente ad abitare, ma acquista per affittare o per un figlio; 2) l’accessibilità delle procedure, di cui dicevamo sopra; 3) la possibilità di ottenere un mutuo per l’acquisto a condizioni analoghe a quelle delle transazioni normali; 4) il rallentamento della discesa dei prezzi delle case negli ultimi anni. Questo è forse l’aspetto più importante: gli immobili vengono messi all’asta a volte anni dopo la perizia sulla cui base si stabilisce il prezzo. Quando si mettevano in vendita abitazioni stimate a ridosso del 2010 le basi d’asta erano spesso del tutto irrealistiche quando, magari dopo qualche anno, si passava all’aggiudicazione del bene, perché troppo alte rispetto ai valori correnti di mercato; oggi questo problema è in parte superato sia perché i prezzi di oggi non sono molto più bassi di quelli di tre anni fa (anzi, in alcune città sono più alti) e quindi i valori di stima sono più solidi, sia perché i tempi per avviare le procedure si sono un po’ ridotti.

I dati di Reviva

Secondo il rapporto della società specializza Reviva lo scorso anno le difficoltà legate all’emergenza sanitaria hanno fatto sentire il loro peso sullo svolgimento delle aste immobiliari, perché a fronte di un netto miglioramento rispetto al 2020 (che però ha subito mesi di blocco a causa del lockdown) i numeri sono ancora bassi rispetto al 2019. Infatti, si sono svolte 185.555 aste, a fronte delle 114.216 del 2020 e delle 254.649 dell’anno precedente; il valore complessivo degli immobili oggetto delle procedure è ammontato a 14,3 miliardi di euro, calcolati sul valore minimo di offerta. Gli immobili offerti in totale sono stati 126.425; il numero è ovviamente minore rispetto a quello delle aste perché spesso è necessario più di un «esperimento di vendita» per giungere all’aggiudicazione e ogni esperimento successivo al primo, avvenendo con base d’asta ribassata, comporta inevitabilmente anche una riduzione di valore del bene. In 32 casi nel 2021 si sono svolte addirittura sei gare. Gli immobili residenziali in asta sono stati 62.568, con un valore minimo medio di 79.442 euro. Tra le regioni, il primato del numero maggiore di immobili spetta alla Lombardia, con 10.978 seguita alla Sicilia, con 6.614. Tra le province prevale Roma con 6.698 immobili, seguita da Milano con 4.749.

Il portale

I dati Reviva sono elaborati da pvp.giustizia.it/pvp, il portale che presenta tutti i beni oggetto di aste pubbliche (altre agli immobili vi sono i beni mobili, le aziende, i crediti). L’accessibilità è molto semplice, è possibile effettuare ricerche di immobili per tipologie e per ubicazione, circoscrivendo l’area geografica di interesse (ad esempio digitando un indirizzo e filtrando la ricerca poniamo a 5 km di distanza). Cliccando sul singolo immobile si ottengono copia dell’ordinanza e della perizia, e le indicazioni per la visita all’immobile (non sempre possibile), lo svolgimento dell’asta, se già calendarizzata.

Le diverse modalità delle aste

Le aste si possono svolgere con diverse modalità. Quella classica è l’asta senza incanto con presenza fisica: si presenta un’offerta (il minimo possibile è la base d’asta ridotta del 25%) in busta chiusa accompagnata da un deposito cauzionale del 10% della base d’asta, e all’apertura delle buste comincia la gara a rilancio, l’importo minimo del rilancio è stabilito dall’avviso d’asta e poi il bene viene aggiudicato all’offerta più alta. Se l’asta va deserta, viene indetta una nuova gara a un prezzo ribassato. Oggi però è possibile effettuare aste miste in presenza e telematica, (chi partecipa con questa seconda modalità presenta anche l’offerta per via telematica); aste esclusivamente telematiche, che possono essere o sincrone (apertura simultanea dell’offerte) o asincrone, con svolgimento che si protrae per più giorni.

Basilicata, ecco chi è il capolista al Senato imposto da Giuseppe Conte. Mario Turco, vice presidente del M5S, tra i fedelissimi dell’ex premier: un candidato che dovrebbe schiarire alcune ombre. Michele Finizio su Basilicata24.it il 19 Agosto 2022

Mario Turco, 54 anni, di Taranto, dottore commercialista. Ha svolto attività di consulente e perito presso l’Autorità giudiziaria (civile e penale) su tematiche contabili e per reati societari e fallimentari per diverse Procure della Repubblica ed ha ricoperto incarichi di curatore fallimentare e di commissario giudiziale presso diversi Tribunali. Ha ricoperto incarichi di Presidente di Collegio sindacale e di Sindaco effettivo presso Enti pubblici, istituti di credito e società di capitali.

Alle elezioni politiche del 2018 viene eletto al Senato della Repubblica, nelle liste del Movimento 5 Stelle nella circoscrizione Puglia nel collegio di Taranto. Dal 16 settembre 2019 al 13 febbraio 2021 ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega alla programmazione economica e agli investimenti, all’interno del Governo Conte II. Il 21 ottobre 2021 viene nominato da Giuseppe Conte Vicepresidente del Movimento 5 Stelle. Oggi è candidato capolista al senato per il M5S in Basilicata e Puglia.

Quella sparatoria a Taranto

Intorno alle quattro della notte del 23 maggio 2017, ignoti esplodono numerosi colpi di pistola contro la porta d’ingresso dello studio professionale di consulenza tributaria e del lavoro del dr. Mario Turco, noto professionista. Quattro proiettili colpiscono e danneggiano il portone, mentre altri due si sono conficcati sulla parete. Una vicenda mai chiarita fino in fondo, di cui Turco sarebbe stato vittima.

La masseria comprata all’asta

È lui il protagonista di un’opaca vicenda legata alla vendita all’asta della Masseria Galeota, sulla litoranea jonico-salentina, a Leporano, ad appena 8 chilometri da Taranto, ubicata ai piedi del Parco archeologico di Saturo. Un bel posto anche se sullo sfondo, guardando verso Taranto, emerge quel mostro dell’impianto siderurgico ex Ilva. Qui il nostro articolo del novembre 2019. Al momento l’ex proprietario della masseria è in mezzo alla strada, mentre la famiglia di Turco ne è proprietaria. L’accusa di turbativa d’asta a carico del pentastellato è stata, al momento, archiviata. Intanto Mario Turco ha fatto carriera proprio in quel Movimento che sulle aste giudiziarie a Taranto aveva presentato alcune interrogazioni.

E’ il 7 novembre 2018, il senatore Arnaldo Lomuti, insieme ad altri quattro suoi colleghi, – tutti del M5S – presenta un’interrogazione al ministro della Giustizia: …si chiede di sapere se ricorrano i motivi per intraprendere le opportune iniziative ispettive previste dall’ordinamento presso gli organi deputati all’applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e nel potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza…

Si tratta della questione aste giudiziarie nel Tarantino e delle anomalie segnalate da decine di cittadini che accusano i giudici tarantini e potentini di malfunzionamento della giustizia nel quadro delle esecuzioni immobiliari. I senatori interroganti segnalano casi emblematici di cittadini che lamentano procedure anomale, se non illegittime, da parte degli organi decidenti e di loro ausiliari, appartenenti al Tribunale di Taranto. Le doglianze – scrivono gli interroganti – riguardano vendite a prezzo vile, mancato rispetto delle procedure, rigetto di ricorsi giuridicamente immotivati o con anomala repentinità, quasi inesistenza di turnazione dei magistrati che si occupano di aste, denunce (anche penali) inerenti a un vero e proprio “sistema” aste nel Tribunale tarantino, condotte discutibili o inclini a favorire le banche.

Casi dei quali Basilicata24 si è occupato con dovizia di particolari. Scrivono infatti i senatori del M5S: la gravità dei fatti è stata evidenziata anche dalla testata on line “Basilicata24” attraverso un articolo del 4 novembre 2016, che, descrivendo il sistema illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto un video di conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricaverebbe che un ausiliario di un magistrato avrebbe richiesto all’imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo con il magistrato stesso presso il quarto piano del Tribunale di Taranto; sempre la testata on line lucana, nelle date del 18 marzo 2017 e 20 marzo 2018, ha pubblicato due interviste all’avvocato Anna Maria Caramia, del foro di Taranto, simbolo delle denunce riportate nel presente atto di sindacato ispettivo riguardanti i tribunali di Taranto e Potenza, nelle quali, oltre a riportare alcuni dei casi già descritti, si evidenzia un’evoluzione in peius della situazione. Qui l’interrogazione

Ancor prima di Arnaldo Lomuti, nel 2016, quindici senatori del M5S avevano messo in evidenza, in due interrogazioni, quelle che erano le criticità da accertare relativamente alle aste immobiliari al tribunale di Taranto. Ma tutte queste interrogazioni a che cosa sono servite?

Intanto Enzo Papa, la vittima dell’asta, dichiarava: “Non ho più niente, mi hanno portato via la mia masseria, la mia vita. Mi incatenerò davanti al ministero della Giustizia, non ho più nulla da perdere”. Lo raccontava con le lacrime agli occhi nel vedere i sigilli giudiziari apposti al suo sogno e alla sua casa. Nel 2021 Papa protesta davanti al Ministero di Grazia e Giustizia. Tutta la storia della Masseria all’asta potete leggerla qui. 

Ma che fine fa la masseria? Nelle mani di parenti di discussi personaggi

Acquistata all’asta, il 17 gennaio 2019, dal senatore Mario Turco, viene ceduta alla madre Grazia Peluso, la quale la concede in fitto alla Monkey Island Group srl. La Monkey sarebbe stata costituita 6 giorni prima dell’asta. I passaggi tra Turco, la madre e la cessione alla Monkey avvengono nell’arco di 24 mesi circa. La Monkey viene costituita il 10 gennaio 2019, la società “Masseria Carducci srls” (ex masseria Galeota) di Grazia Peluso viene costituita il 9 dicembre 2019. La cessione in fitto alla Monkey è del 4 marzo 2021.

Presidente del Consiglio di amministrazione della Monkey e socia al 25% è, alla data del 18 marzo 2021 Maria Cesareo. Soci e proprietari con il 25% ciascuno sono i fratelli Iacca (Gianluca, Antonio, Pietro).

Maria Cesareo è figlia di Francesco Cesareo e nipote di Gaetano Cesareo. Quest’ultimo coinvolto in vicende giudiziarie anche legate al presunto capo clan tarantino Michele Cicala accusato dal Tribunale di Lecce di diversi reati di stampo mafioso. Cicala è ritenuto elemento di spicco della mala tarantina e già condannato in via definitiva per i reati di associazione per delinquere finalizzata alle estorsioni, estorsione e lesioni personali aggravate dall’utilizzo del metodo mafioso.

I fratelli Iacca sono i nipoti di Cataldo Barivelo, arrestato nell’ambito dell’operazione anti droga “Desmos”, nel giugno 2013 a Taranto. Barivelo ha poi patteggiato dinanzi al gup due anni, con pena sospesa. Secondo gli inquirenti Barivelo spacciava cocaina nel suo locale bar Old Fashion che nell’ambito dell’operazione Desmos fu sequestrato. Il locale è nello stesso stabile in cui ha la sede legale la Monkey srl.

Dunque Grazia Peluso affitta la Masseria acquistata all’asta dal figlio senatore Mario Turco a una società legata ai Cesareo e agli Iacca nipoti di Barilevo. Il padre di Maria Cesareo, Francesco compare anche lui nel fascicolo del Tribunale di Lecce quale imprenditore dell’installazione di apparecchi slot. I Cesareo pare facciano i buttafuori in molti locali del tarantino tra cui quelli di Barivelo e Cicala

Il “clan Cicala”

Nell’aprile 2021 Michele Cicala viene sottoposto a misura cautelare nell’ambito di una inchiesta portata avanti dalle Dda di Potenza e Lecce, i carabinieri e la Guardia di Finanza eseguirono 37 arresti per traffico di olii minerali. Gasolio agricolo spacciato per gasolio per autotrazione per beneficiare delle agevolazioni fiscali. Secondo l’accusa il clan Cicala per questo traffico si era alleato con i Casalesi. Caduta l’accusa di associazione mafiosa, in questo filone d’indagini, torna in libertà nel settembre 2021.

Il 27 luglio 2022, meno di un mese fa, a Michele Cicala vengono sequestrati dalla Guardia di Finanza “beni illeciti” per 20 milioni di euro.

Che c’entra la madre di Mario Turco con il clan Cicala?

Se ai Cesareo e agli Iacca cede in fitto la masseria ai Cicala avrebbe fittato due locali per attività commerciali riconducibili direttamente al presunto capo clan Michele. Le attività esercitate nei locali affittati sono state poi oggetto di sequestro nell’ambito delle inchieste su contrabbando e riciclaggio che hanno coinvolto Michele Cicala.

Chiarezza e trasparenza

Il candidato del M5S Mario Turco oggi, in vista delle elezioni del 25 settembre, ha la possibilità di spiegare meglio i fatti e chiarire la sua posizione nel quadro delle informazioni contenute in questa nostra inchiesta. Siamo certi che il vice presidente del partito di Conte abbia nulla a che fare con esponenti della criminalità tarantina e che l’acquisto da parte sua della masseria Galeota (oggi Masseria Carducci), avvenuta all’asta il 17 gennaio 2019, sia il frutto di regolari procedure.  Siamo anche certi che gli episodi qui raccontati siano il frutto di coincidenze e di accordi economici assolutamente slegati da qualsivoglia illegalità. Tuttavia sarebbe meglio che fosse lui a spiegare e a chiarire agli elettori queste nostre certezze. Ha deciso tutto la madre?

Il sottosegretario del M5S, la masseria e l’affare senza scrupoli. Il senatore Arnaldo Lomuti e i suoi colleghi siano politicamente più trasparenti e coraggiosi sulla vicenda della masseria Galeota acquistata all’asta dall’esponente di governo. Michele Finizio su Basilicata24.it l'11 Novembre 2019

E’ il 7 novembre 2018, il senatore Arnaldo Lomuti, insieme ad altri quattro suoi colleghi, – tutti del M5S – presenta un’interrogazione al ministro della Giustizia: …si chiede di sapere se ricorrano i motivi per intraprendere le opportune iniziative ispettive previste dall’ordinamento presso gli organi deputati all’applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e nel potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza…

Si tratta della questione aste giudiziarie nel Tarantino e delle anomalie segnalate da decine di cittadini che accusano i giudici tarantini e potentini di malfunzionamento della giustizia nel quadro delle esecuzioni immobiliari. I senatori interroganti segnalano casi emblematici di cittadini che lamentano procedure anomale, se non illegittime, da parte degli organi decidenti e di loro ausiliari, appartenenti al Tribunale di Taranto. Le doglianze – scrivono gli interroganti – riguardano vendite a prezzo vile, mancato rispetto delle procedure, rigetto di ricorsi giuridicamente immotivati o con anomala repentinità, quasi inesistenza di turnazione dei magistrati che si occupano di aste, denunce (anche penali) inerenti a un vero e proprio “sistema” aste nel Tribunale tarantino, condotte discutibili o inclini a favorire le banche.

Casi dei quali Basilicata24 si è occupato con dovizia di particolari. Scrivono infatti i senatori del M5S: la gravità dei fatti è stata evidenziata anche dalla testata on line “Basilicata24” attraverso un articolo del 4 novembre 2016, che, descrivendo il sistema illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto un video di conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricaverebbe che un ausiliario di un magistrato avrebbe richiesto all’imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo con il magistrato stesso presso il quarto piano del Tribunale di Taranto; sempre la testata on line lucana, nelle date del 18 marzo 2017 e 20 marzo 2018, ha pubblicato due interviste all’avvocato Anna Maria Caramia, del foro di Taranto, simbolo delle denunce riportate nel presente atto di sindacato ispettivo riguardanti i tribunali di Taranto e Potenza, nelle quali, oltre a riportare alcuni dei casi già descritti, si evidenzia un’evoluzione in peius della situazione. Il ministero non avrebbe ancora risposto. Qui l’interrogazione

Ancor prima di Arnaldo Lomuti, nel 2016, quindici senatori del M5S avevano messo in evidenza, in due interrogazioni, quelle che erano le criticità da accertare relativamente alle aste immobiliari al tribunale di Taranto. Ma tutte queste interrogazioni a che cosa sono servite?

Il senatore sottosegretario del M5S e le orecchie da mercante

Tanta sensibilità politica alle vicende oscure delle aste giudiziarie non sembra aver commosso il collega dei senatori interroganti. Si tratta di Mario Turco, eletto il 4 marzo 2018 al senato nelle liste del M5S e attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega alla Programmazione economica e investimenti. È lui il protagonista di un’opaca vicenda legata alla vendita all’asta della Masseria Galeota, sulla litoranea jonico-salentina, a Leporano, ad appena 8 chilometri da Taranto, ubicata ai piedi del Parco archeologico di Saturo. Un bel posto anche se sull’ sfondo, guardando verso Taranto, emerge quel mostro dell’impianto siderurgico ex Ilva.

I fatti

“Non ho più niente, mi hanno portato via la mia masseria, la mia vita. Mi incatenerò davanti al ministero della Giustizia, non ho più nulla da perdere”. Lo racconta con le lacrime agli occhi Enzo Papa, 52 anni, nel vedere i sigilli giudiziari apposti al suo sogno e alla sua casa.

Enzo Papa – scrive il Fatto Quotidiano del 4 maggio 2019 – ha acquistato nel 2002, quello che era un rudere, la Masseria Galeota, per 300 mila euro, contando anche sulla buonuscita del padre.

Papa si rivolge ad una banca accendendo un mutuo di 200 mila euro per trasformare il rudere in una masseria con bed & breakfast, un oleificio, e un ristorante, con 850 mila euro di costo finale della ristrutturazione.

L’attività va molto bene, fino all’arrivo della crisi economica. A causa delle foto, dei camini dell’Ilva che inquinavano, e che hanno fatto il giro del mondo, i turisti iniziano a diminuire ed Enzo Papa non ce la fa più a pagare le rate del mutuo. La banca pignora la masseria nel 2012 che viene messa all’asta.

Le prime aste del tribunale fallimentare vanno deserte e quindi il prezzo scende fino a 375mila euro. Nel frattempo, la società Kanapa S.r.l., nell’orbita dei vecchi proprietari, dà mandato ad un avvocato per riacquistare la masseria e versa 75mila euro (pari al 20% del prezzo minimo di acquisto). Ma quando l’Avv. Macripò, delegato del Giudice di Taranto Andrea Paiano, apre l’asta, sul portale è presente una sola offerta: quella del senatore penta stellato Mario Turco. Eppure i bonifici sono due: uno di Turco e uno di Kanapa S.r.l. Ma dell’offerta di Kanapa non si vede traccia. Perché? L’offerta di Kanapa S.r.l. non era stata inviata dal Ministero di Giustizia al portale delle aste poiché il file generato all’atto della registrazione era stato rinominato. E l’assurdo è che dal Ministero era arrivata via Pec la ricevuta dell’avvenuta ricezione e registrazione dell’offerta.

La dottoressa Tonia Macripò delegata alla vendita dal giudice delle esecuzioni Paiano, non indica nel verbale di aggiudicazione l’esistenza di un secondo bonifico, cioè quello di Kanapa S.r.l. Viene perciò immediatamente presentata un’istanza di revoca dell’aggiudicazione, alla quale il senatore Turco si oppone, e il giudice incredibilmente la respinge, sostenendo che il bene non è detto che sarebbe stato aggiudicato ad un prezzo più alto in caso di nuova asta. Una strana teoria quella del giudice Paiano. Si saprà poi che la Kanapa S.r.l. aveva dato mandato all’avvocato di rilanciare sino a 800 mila euro. Mandato che è gli atti dell’informativa della Guardia di Finanza.

Fatto sta che la Masseria è aggiudicata al prezzo vile di 375mila euro al senatore e sottosegretario Mario Turco.

Dopo l’aggiudicazione fioccano le opposizioni della debitrice e della società Kanapa, ma nessun effetto sortiscono al tribunale di Taranto. Di lì a poco, senza che il provvedimento di liberazione dell’immobile fosse notificato alla società occupante, il 29 aprile 2019, si presentano alla Masseria Galeota il funzionario (senza delega e forse senza il potere di farlo) dell’Istituto Vendite Giudiziarie Paolo Annunziato, accompagnato da due Carabinieri, e la signora Grazia Peluso, madre del senatore Turco, accompagnata dal legale di suo figlio. L’inventario dei beni esistenti dura otto ore, con tanto di paste e cappuccino bene auguranti offerti dalla mamma del senatore; si provvede a cambiare le serrature consegnando le chiavi ad un incaricato di Turco.

Il reclamo presentato dalla Kanapa S.r.l. che chiedeva di rifare l’asta è stato dunque rigettato. E le denunce contro il giudice Paiano e i suoi ausiliari pendono ancora presso il tribunale di Potenza e di Taranto.

 Sembra che, al momento, il sottosegretario l’abbia avuta vinta

In una telefonata con la collega Sandra Amurri del Fatto Quotidiano, Mario Turco nega di conoscere la famiglia Papa, seppure vicini di casa. E certamente negherà anche le voci che parlano di una certa amicizia tra lui e il giudice dell’esecuzione Andrea Paiano. Sussurri di paese raccontano di partite a tennis tra i due.

Quella masseria ha un valore enorme, in quanto collocata in un’importante area archeologica sulla quale il ministero dei Beni Culturali avrebbe investito 5 milioni di euro per lavori di restauro e valorizzazione riguardo al Parco archeologico di Saturo. Bando poi annullato in autotutela per imprecisioni nel capitolato d’appalto.

Insomma, un senatore e sottosegretario partecipa a un’asta fallimentare, non vede le anomalie procedurali né si preoccupa dell’opportunità politica di evitare situazioni così imbarazzanti. Soprattutto dopo che i suoi colleghi hanno segnalato in parlamento situazioni anomale simili a quelle che lo vedono protagonista.

Abbiamo contattato il senatore Lomuti, attuale vice presidente del gruppo M5S al senato, il quale ci ha confermato che il ministero non ha ancora risposto alla sua interrogazione. In relazione alla vicenda di Mario Turco ha testualmente detto: “non ricordo bene il caso ma ricordo che il collega Turco ha chiarito la sua posizione, comunque mi informerò”.

Questa vicenda sembra sancire oltre l’incoerenza politica di taluni esponenti penta stellati, l’impossibilità di rimuovere ingiustizie e prepotenze in certi ambienti giudiziari. Il senatore Lomuti, e gli altri interroganti Grillini, assumano una posizione più limpida sulla vicenda ormai molto chiara almeno sotto il profilo dell’opportunità politica e della coerenza morale del senatore Mario Turco il quale ad oggi non avrebbe fatto altro che arrampicarsi sugli specchi, minacciando querele a destra e a manca. Aspettiamo dal senatore Lomuti chiarimenti più approfonditi che saremo lieti di ospitare sul nostro giornale.

Abbiamo chiesto all’avvocato Anna Maria Caramia del foro di Taranto, simbolo delle denunce contro il sistema delle aste giudiziarie, un commento. Avvocato, che idea si è fatta di questa vicenda?

Ho inizialmente conosciuto la questione della masseria Galeota dalla stampa e non nascondo che ho provato disappunto nel leggere che il senatore Turco affermava di aver acquistato da privato cittadino e non già in qualità di senatore. Non si capisce che cosa voglia dire.

Pochi giorni fa, poi, dalla società debitrice mi è stato conferito mandato per cui ho iniziato ad approfondire anche dal punto di vista tecnico-giuridico la questione di questa bellissima masseria. Limitando il mio commento in questa sede a-tecnica, voglio dire che ho trovato inopportuno che il giudice Paiano non abbia annullato l’aggiudicazione del 17 gennaio 2019 che è avvenuta a prezzo vile; di certo si sarebbe venduta la masseria a prezzo di gran lunga più alto e questo sarebbe stato un chiaro interesse della procedura che egli ha diretto. La possibilità di un’aggiudicazione a prezzo maggiore era indubitabile, tanto più che – come avete scritto –  la Kanapa aveva conferito mandato per rilanciare sino ad 800 mila euro.

Mi sarei aspettata, da cittadina, che il senatore Turco, a fronte del reclamo della società esclusa dalla gara, avesse egli stesso rinunciato a quell’aggiudicazione, per poi partecipare alla nuova competizione. Sarebbe stato più elegante e rispettoso delle procedure da parte di un esponente del Governo eletto in quel territorio.

E poi non credete sia incoerente il fatto che l’attuale sottosegretario abbia acquistato all’asta presso il tribunale di Taranto? Tribunale finito nelle interrogazioni dei suoi colleghi parlamentari per presunte irregolarità? Ricordo i titoloni dei giornali in occasione delle interrogazioni del 2016 “abusi in tribunale, dodici senatori accusano i giudici” oppure “aste giudiziarie, i Grillini puntano palazzo di giustizia”.  Addirittura – come avete scritto – c’è stata un’altra interrogazione sempre del M5S nel 2018. Mi fermo qui.

Aste fallimentari Tribunale di Taranto al vaglio del ministro Bonafede. Senatori 5 Stelle chiedono ispezione.

Legislatura 18 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-00820 Atto n. 4-00820 Pubblicato il 7 novembre 2018, nella seduta n. 55 LOMUTI , CRUCIOLI , D'ANGELO , LANNUTTI , DI NICOLA - Al Ministro della giustizia.

- Premesso che: alcuni dei fatti riportati nella presente interrogazione sono stati già oggetto di precedenti atti di sindacato ispettivo della XVII Legislatura, 4-06370 e 4-06628, a prima firma del senatore Buccarella, dirette al Ministro pro tempore della giustizia, ai quali ci si riporta integralmente, tenendo conto che gli stessi non hanno mai ottenuto alcuna risposta;

inoltre, la questione che si intende sottoporre con il presente atto, fu evidenziata già dall'on. Zazzera (IDV) nel 2010 (AC 4-07339);

sul punto, un articolo della testata "TarantoBuonaSera" del 13 luglio 2016 riporta un allarmante quadro riferito alla circoscrizione del Tribunale di Taranto, nella quale ci sarebbero circa 750 case all'asta, con l'effetto inevitabile della perdita della propria abitazione per numerose famiglie;

per quanto riguarda il Tribunale di Taranto, nel corso degli ultimi anni, diversi cittadini hanno lamentato abusi e violazioni di legge da parte di magistrati chiamati a decidere le loro controversie, con grave nocumento per i loro diritti;

i suddetti atti di sindacato ispettivo, infatti, riportano casi emblematici di cittadini opponenti a procedimenti di esecuzione immobiliare che lamentano procedure anomale, se non illegittime, da parte degli organi decidenti e di loro ausiliari, appartenenti al Tribunale di Taranto;

in particolare, gli atti ispettivi citati riportavano i casi dei signori Montemurro, Provveduto, Bello, Spera, e dei coniugi Notarnicola;

le doglianze riguardano vendite a prezzo vile, mancato rispetto delle procedure, rigetto di ricorsi giuridicamente immotivati o con anomala repentinità, quasi inesistenza di turnazione dei magistrati che si occupano di aste, denunce (anche penali) inerenti a un vero e proprio "sistema" aste nel Tribunale tarantino, condotte discutibili o inclini a favorire le banche;

nell'atto 4-06628 veniva riportata la denuncia penale del signor Delli Santi, depositata presso la Questura di Taranto in data 23 settembre 2016 (inviata per conoscenza anche al Ministro pro tempore della giustizia), nella quale, premettendo il suo stato di fallito ed esecutato da ben 30 anni, avrebbe lamentato che presso il Tribunale di Taranto esistono meccanismi che creerebbero un sistema (da lui definito "criminale, consolidato ed efficace") finalizzato ad espropriare i falliti ed esecutati. Inoltre, nella denuncia, sarebbe stata evidenziata l'esistenza di una rete di collegamenti tra i tribunali di Taranto e Potenza, per cui, a suo dire, le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nel precedente atto di sindacato ispettivo 4-06370 in riguardo alla vicenda della signora Spera;

la gravità dei fatti è stata evidenziata anche dalla testata on line "Basilicata24" attraverso un articolo del 4 novembre 2016, che, descrivendo il sistema illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto un video di conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricaverebbe che un ausiliario di un magistrato avrebbe richiesto all'imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo con il magistrato stesso presso il quarto piano del Tribunale di Taranto;

sempre la testata on line lucana, nelle date del 18 marzo 2017 e 20 marzo 2018, ha pubblicato due interviste all'avvocato Anna Maria Caramia, del foro di Taranto, simbolo delle denunce riportate nel presente atto di sindacato ispettivo riguardanti i tribunali di Taranto e Potenza, nelle quali, oltre a riportare alcuni dei casi già descritti, si evidenzia un'evoluzione in peius della situazione. Lo stesso legale sarebbe intervenuto più volte sulla non astensione dei magistrati tarantini delle sezioni esecuzioni e fallimenti nei casi di amicizie o inimicizie, nonché sulle trattazioni anche in altre fasi dello stesso magistrato che si era già occupato della questione in giudizi e gradi aventi ad oggetto le stesse questioni. Consta agli interroganti che l'avvocato Anna Maria Caramia sia destinataria di due esposti all'ordine degli avvocati su istanza del presidente del Tribunale di Taranto e del presidente dell'ordine degli avvocati. Ella ha motivo di ritenere che le suddette azioni siano frutto della volontà di impedirle di continuare la propria azione a difesa dei vessati da parte del tribunale;

considerato che, a giudizio degli interroganti: dai fatti esposti si evincerebbero importanti anomalie occorse nell'ambito delle procedure fallimentari e di esecuzione immobiliare presso il Tribunale di Taranto, così come per la chiusura della magistratura potentina competente a valutare gli esposti presentati contro i colleghi tarantini;

purtroppo, nel nostro Paese, si registra un importante numero di omicidi-suicidi dovuti alla crisi ed alla facilità con cui viene tolta ai cittadini la prima casa, con la conseguenza di spingere anche le persone anziane a covare e a realizzare azioni estreme;

a giudizio degli interroganti, tali anomalie, impongono che sia disposta un'ispezione, senza ritardo, presso gli organi di giustizia che abbiano trattato le questioni evidenziate, in particolare presso il Tribunale e la Procura di Taranto, sezione distaccata della Corte di appello di Taranto e presso il Tribunale e la Procura di Potenza, si chiede di sapere se ricorrano i motivi per intraprendere le opportune iniziative ispettive previste dall'ordinamento presso gli organi deputati all'applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e nel potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione di necessari provvedimenti a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

Vite all’asta, la protesta davanti al ministero della Giustizia: “ministra Cartabia io sono qua fuori, la Procura di Potenza perde tempo”. La protesta di un esecutato davanti al palazzo di via Arenula. Redazione su Basilicata24.it il 15 Luglio 2021

Vincenzo Papa, è una delle vittime della giustizia civile, quella che decide sulle esecuzioni fallimentare, sulle aste, sulla vita delle persone e di intere famiglie. Papa risiede nel tarantino, era proprietario della masseria Galeota, andata all’asta e aggiudicata a un senatore del M5S, all’epoca dei fatti sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega alla Programmazione economica e investimenti. Qui la vicenda da noi raccontata nel novembre 2019.

Nella lettera al ministro Cartabia Vincenzo Papa scrive: “Sono una delle tante vittime della giustizia italiana a cui è stato tolto tutto: avevo un bene che avevo ristrutturato con i sacrifici miei e dei miei genitori, trasformandolo in un gioiello da un rudere che era, ci lavoravo dentro e svolgevo un’attività che mi permetteva di guadagnare e dare lavoro agli altri. Fino a quando, un giorno, compare sulla mia strada l’ombra dell’esecuzione immobiliare, gestita da ‘qualcuno’ che decide che il mio bene era troppo bello perché restasse a me (tanto più da ricadere in zona – il Parco del Saturo – oggetto di finanziamenti milionari). La persona che ha comprato il mio bene all’asta è, tra l’altro, un rappresentante del popolo, uno che si è candidato e che ho pure votato perché prometteva il cambiamento: il senatore Turco Mario!”

E continua: “Per evitare l’asta nell’anno 2018 ho offerto alla banca più denaro di quello che le spettava per legge, ma la banca avrebbe incomprensibilmente detto no alla mia proposta, così condannandomi all’asta; ho anche partecipato all’asta, ma la mia partecipazione è ‘stranamente sparita nell’etere’ (così hanno detto)”.

Attualmente pende procedimento penale per turbativa d’asta, “ma – scrive Papa – la Procura di Potenza sta solo facendo trascorrere il tempo… mentre chi ha comprato fa quello che vuole con ciò che dovrebbe essere corpo del reato. Ma che giustizia è questa! “

Papa è davanti al portone del ministero e non ha alcuna intenzione di tornarsene a Taranto se non dopo essere stato ricevuto dal ministro.

Accanto a lui, anche un altro cittadino, che da 16 giorni e notti, “risiede” sul marciapiede del ministero, anch’egli vittima di quella che definisce “ingiustizia”. È Francesco Di Laora, ex guardia giurata che per seguire il figlio bisognoso di cure, perde prima il lavoro e poi non potendo più pagare i debiti contratti per fare operare il figlio privo di vista a un occhio, perde anche la casa. Adesso vive in macchina con una pensione di 125 euro al mese.  Chissà se tra qualche giorno quel marciapiede di via Arenula si riempirà di altra gente con i cartelli in mano.

Il sottosegretario del M5S, la masseria e l’affare senza scrupoli. Il senatore Arnaldo Lomuti e i suoi colleghi siano politicamente più trasparenti e coraggiosi sulla vicenda della masseria Galeota acquistata all’asta dall’esponente di governo. Michele Finizio su Basilicata24.it l'11 Novembre 2019

E’ il 7 novembre 2018, il senatore Arnaldo Lomuti, insieme ad altri quattro suoi colleghi, – tutti del M5S – presenta un’interrogazione al ministro della Giustizia: …si chiede di sapere se ricorrano i motivi per intraprendere le opportune iniziative ispettive previste dall’ordinamento presso gli organi deputati all’applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e nel potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza…

Si tratta della questione aste giudiziarie nel Tarantino e delle anomalie segnalate da decine di cittadini che accusano i giudici tarantini e potentini di malfunzionamento della giustizia nel quadro delle esecuzioni immobiliari. I senatori interroganti segnalano casi emblematici di cittadini che lamentano procedure anomale, se non illegittime, da parte degli organi decidenti e di loro ausiliari, appartenenti al Tribunale di Taranto. Le doglianze – scrivono gli interroganti – riguardano vendite a prezzo vile, mancato rispetto delle procedure, rigetto di ricorsi giuridicamente immotivati o con anomala repentinità, quasi inesistenza di turnazione dei magistrati che si occupano di aste, denunce (anche penali) inerenti a un vero e proprio “sistema” aste nel Tribunale tarantino, condotte discutibili o inclini a favorire le banche.

Casi dei quali Basilicata24 si è occupato con dovizia di particolari. Scrivono infatti i senatori del M5S: la gravità dei fatti è stata evidenziata anche dalla testata on line “Basilicata24” attraverso un articolo del 4 novembre 2016, che, descrivendo il sistema illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto un video di conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricaverebbe che un ausiliario di un magistrato avrebbe richiesto all’imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo con il magistrato stesso presso il quarto piano del Tribunale di Taranto; sempre la testata on line lucana, nelle date del 18 marzo 2017 e 20 marzo 2018, ha pubblicato due interviste all’avvocato Anna Maria Caramia, del foro di Taranto, simbolo delle denunce riportate nel presente atto di sindacato ispettivo riguardanti i tribunali di Taranto e Potenza, nelle quali, oltre a riportare alcuni dei casi già descritti, si evidenzia un’evoluzione in peius della situazione. Il ministero non avrebbe ancora risposto. 

Ancor prima di Arnaldo Lomuti, nel 2016, quindici senatori del M5S avevano messo in evidenza, in due interrogazioni, quelle che erano le criticità da accertare relativamente alle aste immobiliari al tribunale di Taranto. Ma tutte queste interrogazioni a che cosa sono servite?

Il senatore sottosegretario del M5S e le orecchie da mercante

Tanta sensibilità politica alle vicende oscure delle aste giudiziarie non sembra aver commosso il collega dei senatori interroganti. Si tratta di Mario Turco, eletto il 4 marzo 2018 al senato nelle liste del M5S e attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega alla Programmazione economica e investimenti. È lui il protagonista di un’opaca vicenda legata alla vendita all’asta della Masseria Galeota, sulla litoranea jonico-salentina, a Leporano, ad appena 8 chilometri da Taranto, ubicata ai piedi del Parco archeologico di Saturo. Un bel posto anche se sull’ sfondo, guardando verso Taranto, emerge quel mostro dell’impianto siderurgico ex Ilva.

I fatti

“Non ho più niente, mi hanno portato via la mia masseria, la mia vita. Mi incatenerò davanti al ministero della Giustizia, non ho più nulla da perdere”. Lo racconta con le lacrime agli occhi Enzo Papa, 52 anni, nel vedere i sigilli giudiziari apposti al suo sogno e alla sua casa.

Enzo Papa – scrive il Fatto Quotidiano del 4 maggio 2019 – ha acquistato nel 2002, quello che era un rudere, la Masseria Galeota, per 300 mila euro, contando anche sulla buonuscita del padre.

Papa si rivolge ad una banca accendendo un mutuo di 200 mila euro per trasformare il rudere in una masseria con bed & breakfast, un oleificio, e un ristorante, con 850 mila euro di costo finale della ristrutturazione.

L’attività va molto bene, fino all’arrivo della crisi economica. A causa delle foto, dei camini dell’Ilva che inquinavano, e che hanno fatto il giro del mondo, i turisti iniziano a diminuire ed Enzo Papa non ce la fa più a pagare le rate del mutuo. La banca pignora la masseria nel 2012 che viene messa all’asta.

Le prime aste del tribunale fallimentare vanno deserte e quindi il prezzo scende fino a 375mila euro. Nel frattempo, la società Kanapa S.r.l., nell’orbita dei vecchi proprietari, dà mandato ad un avvocato per riacquistare la masseria e versa 75mila euro (pari al 20% del prezzo minimo di acquisto). Ma quando l’Avv. Macripò, delegato del Giudice di Taranto Andrea Paiano, apre l’asta, sul portale è presente una sola offerta: quella del senatore penta stellato Mario Turco. Eppure i bonifici sono due: uno di Turco e uno di Kanapa S.r.l. Ma dell’offerta di Kanapa non si vede traccia. Perché? L’offerta di Kanapa S.r.l. non era stata inviata dal Ministero di Giustizia al portale delle aste poiché il file generato all’atto della registrazione era stato rinominato. E l’assurdo è che dal Ministero era arrivata via Pec la ricevuta dell’avvenuta ricezione e registrazione dell’offerta.

La dottoressa Tonia Macripò delegata alla vendita dal giudice delle esecuzioni Paiano, non indica nel verbale di aggiudicazione l’esistenza di un secondo bonifico, cioè quello di Kanapa S.r.l. Viene perciò immediatamente presentata un’istanza di revoca dell’aggiudicazione, alla quale il senatore Turco si oppone, e il giudice incredibilmente la respinge, sostenendo che il bene non è detto che sarebbe stato aggiudicato ad un prezzo più alto in caso di nuova asta. Una strana teoria quella del giudice Paiano. Si saprà poi che la Kanapa S.r.l. aveva dato mandato all’avvocato di rilanciare sino a 800 mila euro. Mandato che è gli atti dell’informativa della Guardia di Finanza.

Fatto sta che la Masseria è aggiudicata al prezzo vile di 375mila euro al senatore e sottosegretario Mario Turco.

Dopo l’aggiudicazione fioccano le opposizioni della debitrice e della società Kanapa, ma nessun effetto sortiscono al tribunale di Taranto. Di lì a poco, senza che il provvedimento di liberazione dell’immobile fosse notificato alla società occupante, il 29 aprile 2019, si presentano alla Masseria Galeota il funzionario (senza delega e forse senza il potere di farlo) dell’Istituto Vendite Giudiziarie Paolo Annunziato, accompagnato da due Carabinieri, e la signora Grazia Peluso, madre del senatore Turco, accompagnata dal legale di suo figlio. L’inventario dei beni esistenti dura otto ore, con tanto di paste e cappuccino bene auguranti offerti dalla mamma del senatore; si provvede a cambiare le serrature consegnando le chiavi ad un incaricato di Turco.

Il reclamo presentato dalla Kanapa S.r.l. che chiedeva di rifare l’asta è stato dunque rigettato. E le denunce contro il giudice Paiano e i suoi ausiliari pendono ancora presso il tribunale di Potenza e di Taranto.

 Sembra che, al momento, il sottosegretario l’abbia avuta vinta

In una telefonata con la collega Sandra Amurri del Fatto Quotidiano, Mario Turco nega di conoscere la famiglia Papa, seppure vicini di casa. E certamente negherà anche le voci che parlano di una certa amicizia tra lui e il giudice dell’esecuzione Andrea Paiano. Sussurri di paese raccontano di partite a tennis tra i due.

Quella masseria ha un valore enorme, in quanto collocata in un’importante area archeologica sulla quale il ministero dei Beni Culturali avrebbe investito 5 milioni di euro per lavori di restauro e valorizzazione riguardo al Parco archeologico di Saturo. Bando poi annullato in autotutela per imprecisioni nel capitolato d’appalto.

Insomma, un senatore e sottosegretario partecipa a un’asta fallimentare, non vede le anomalie procedurali né si preoccupa dell’opportunità politica di evitare situazioni così imbarazzanti. Soprattutto dopo che i suoi colleghi hanno segnalato in parlamento situazioni anomale simili a quelle che lo vedono protagonista.

Abbiamo contattato il senatore Lomuti, attuale vice presidente del gruppo M5S al senato, il quale ci ha confermato che il ministero non ha ancora risposto alla sua interrogazione. In relazione alla vicenda di Mario Turco ha testualmente detto: “non ricordo bene il caso ma ricordo che il collega Turco ha chiarito la sua posizione, comunque mi informerò”.

Questa vicenda sembra sancire oltre l’incoerenza politica di taluni esponenti penta stellati, l’impossibilità di rimuovere ingiustizie e prepotenze in certi ambienti giudiziari. Il senatore Lomuti, e gli altri interroganti Grillini, assumano una posizione più limpida sulla vicenda ormai molto chiara almeno sotto il profilo dell’opportunità politica e della coerenza morale del senatore Mario Turco il quale ad oggi non avrebbe fatto altro che arrampicarsi sugli specchi, minacciando querele a destra e a manca. Aspettiamo dal senatore Lomuti chiarimenti più approfonditi che saremo lieti di ospitare sul nostro giornale.

Abbiamo chiesto all’avvocato Anna Maria Caramia del foro di Taranto, simbolo delle denunce contro il sistema delle aste giudiziarie, un commento. Avvocato, che idea si è fatta di questa vicenda?

Ho inizialmente conosciuto la questione della masseria Galeota dalla stampa e non nascondo che ho provato disappunto nel leggere che il senatore Turco affermava di aver acquistato da privato cittadino e non già in qualità di senatore. Non si capisce che cosa voglia dire.

Pochi giorni fa, poi, dalla società debitrice mi è stato conferito mandato per cui ho iniziato ad approfondire anche dal punto di vista tecnico-giuridico la questione di questa bellissima masseria. Limitando il mio commento in questa sede a-tecnica, voglio dire che ho trovato inopportuno che il giudice Paiano non abbia annullato l’aggiudicazione del 17 gennaio 2019 che è avvenuta a prezzo vile; di certo si sarebbe venduta la masseria a prezzo di gran lunga più alto e questo sarebbe stato un chiaro interesse della procedura che egli ha diretto. La possibilità di un’aggiudicazione a prezzo maggiore era indubitabile, tanto più che – come avete scritto –  la Kanapa aveva conferito mandato per rilanciare sino ad 800 mila euro.

Mi sarei aspettata, da cittadina, che il senatore Turco, a fronte del reclamo della società esclusa dalla gara, avesse egli stesso rinunciato a quell’aggiudicazione, per poi partecipare alla nuova competizione. Sarebbe stato più elegante e rispettoso delle procedure da parte di un esponente del Governo eletto in quel territorio.

E poi non credete sia incoerente il fatto che l’attuale sottosegretario abbia acquistato all’asta presso il tribunale di Taranto? Tribunale finito nelle interrogazioni dei suoi colleghi parlamentari per presunte irregolarità? Ricordo i titoloni dei giornali in occasione delle interrogazioni del 2016 “abusi in tribunale, dodici senatori accusano i giudici” oppure “aste giudiziarie, i Grillini puntano palazzo di giustizia”.  Addirittura – come avete scritto – c’è stata un’altra interrogazione sempre del M5S nel 2018. Mi fermo qui.

Attacco alla magistratura: l’avvocata Caramia si racconta senza veli. Lunga intervista al difensore che sfida i Tribunali sul “sistema” delle aste giudiziarie. Michele Finizio su Basilicata24.it il 03 Settembre 2021

Avvocato Caramia, è passato del tempo dall’ultima intervista che ci ha concesso. Da allora lei ha lanciato una sfida con l’iniziativa “passo dopo passo”: 300 chilometri a piedi da Taranto a Napoli per accendere i riflettori sulla giustizia e sui suoi meccanismi “patologici”. È stata una sfacchinata inutile? Nel frattempo è uscito il libro intervista di Sallusti a Palamara che svela un sistema “malato” di gestione della giustizia e delle carriere dei magistrati. Lei che ne pensa?

Non è stata una sfacchinata inutile, ho avuto molto seguito e tanta solidarietà. Il problema è un altro. Ho letto il libro intervista di Sallusti a Palamara.  Non solo confermo l’esistenza di un Sistema dentro la magistratura, ma posso convintamente affermare che quel Sistema è così forte e chiuso, certo dell’impunità, da spingersi anche a strumentalizzare la funzione per realizzare le più disparate finalità, come quella di distruggere chi si oppone. Mi riferisco non solo ai soliti dinieghi di giustizia, in ogni sede, a cui ormai la gente è abbastanza abituata, ma ad azioni attive dirette ad arrecare danno e a realizzare, sotto la bandiera della legge, l’illegalità più vigliacca. Alcuni magistrati non rispettano la legge sotto la protezione e la copertura reciproche.

Illegalità più vigliacca? Magistrati che non rispettano la legge? Si rende conto della gravità delle sue affermazioni? Per quale ragione un magistrato dovrebbe spingersi a tanto?

Certo che mi rendo conto. Confermo che alcuni magistrati non fanno il proprio dovere. Mi permetta di dettagliare il mio assunto, non prima di una doverosa precisazione che è quella per cui non faccio di tutta l’erba un fascio e sono certa dell’esistenza in magistratura di gente per bene; purtroppo però credo che resti un po’ ai margini perché ciò che prevale è giustappunto il sistema, e cioè la violazione della legge, le macchinazioni, gli abusi ad ogni livello, gli insabbiamenti da parte delle procure quando ad essere posta in discussione è la condotta di un magistrato. Per dirla facile, la magistratura non ammette di essere posta in dubbio e se lo fai, anche nelle sedi opportune, ovvero quelle giudiziarie, contestando i provvedimenti che a tuo parere professionale violano la legge, violazioni, anche sfacciate a volte, diventi vittima della loro ingiustizia.

Vale a dire?

Voglio dire che non solo non ottieni nulla per le persone che rappresenti, che anzi ricevono danno nelle forme di pesanti condanne, ma senza nemmeno rendertene conto entri in ambiti in cui sperimenti che da parte di quella ‘giustizia’ malata viene un ‘attacco’ alla tua persona che è tanto pericoloso, quanto miserabile. In men che non si dica ti ritrovi sotto procedimenti penali e disciplinari che ti piovono addosso come l’acqua in un temporale.

La cronaca è piena di magistrati arrestati, e anche condannati, da altri magistrati. Quindi faccio fatica a seguirla. Lei a che cosa si riferisce in particolare, di quale Sistema parla?  Per quanto ne sappiamo la sua esperienza riguarda le aste immobiliari e le esecuzioni fallimentari al Tribunale di Taranto, è esatto?

È esatto. Ma quell’esperienza mi porta continuamente a scontrarmi con un altro sistema che è quello delle coperture reciproche tra magistrati, dei tentativi di amministrare la giustizia con artifizi e raggiri. È proprio quello che accade nel Tribunale di Taranto, ma non solo di Taranto, da anni, a proposito delle vendite all’asta e delle esecuzioni fallimentari, che ha costretto me e i miei clienti a denunciare i magistrati per i loro abusi.

Ci vuole spiegare meglio?

Certo, con notevole piacere. Mi spiego con un esempio. È notorio che io sia un sassolino nella scarpa di alcuni magistrati e di conseguenza devo essere fermata con ogni mezzo. Come? Attraverso processi e procedimenti artificiosi. E fin quando è così mi va anche bene. Loro se la cantano e se la suonano come vogliono, hanno sempre ragione e tu sei quella che, con le tue azioni, ostacoli il loro esercizio della funzione giurisdizionale, che nelle loro teste gode di una legittimità a prescindere, cioè a prescindere dalla legge. Altrettanto notorio è che se in qualche modo metti in discussione qualcuno di loro, anche con eventuale denuncia penale,  i colleghi hanno il ‘dovere’ di tutelare il ‘malcapitato’ e in ciò la legalità va a farsi friggere. Mi soffermo su un episodio che secondo me può offrire un quadro piuttosto chiaro di quello che affermo.

Dopo tutte quelle accuse, qualche episodio a riscontro ha il dovere di fornirlo

Certo. È opportuno che io faccia un accenno all’antefatto per consentire di capire anche a chi nulla conosce. Dopo circa 11 anni di sopportazione degli attacchi che mi sono stati riservati da pezzi della magistratura – sia nella professione (con rigetti di cause fondate e revoche di gratuiti patrocini) che a causa di essa (con situazioni che ho ritenuto vere e proprie trappole) – ho sporto la mia denuncia nei confronti di alcuni magistrati di Taranto (Paiano e Federici, per iniziare). Gli stessi si erano resi responsabili di vari reati che, nel complesso, realizzavano in mio danno un vero e proprio stalking giudiziario…

Faccia un esempio dei reati che avrebbero commesso questi magistrati

Un esempio semplice. Due persone anziane miei clienti, sottoposte a esecuzione immobiliare, praticamente buttate in mezzo alla strada a 80anni.   Emerge che l’avvocato della banca creditrice aveva già incassato la somma di circa 300 mila euro, a pagamento del debito, somma mai dichiarata e poi chiesta nuovamente, anche con gli interessi. Per cui siamo passati dal ‘non mi spetta altro’ iniziale, al ‘mi dovete ancora 600 mila euro’. Questo fatto grave di omessa dichiarazione di denaro ricevuto io l’ho dovuto scoprire da sola perché, fatta la domanda in udienza, (avete preso i soldi?) la risposta è stata uno scambio di sguardi tra l’avvocato della banca e il giudice Paiano, entrambi rimasti in silenzio.

Successivamente, dopo diversi mesi, nel corso di un’udienza con la stessa controparte e davanti allo stesso giudice Paiano attacco verbalmente l’avvocato della banca che, rispetto ai miei clienti (due anziani buttati per strada come stracci vecchi), si era spinto ad accusarli di malafede. Qual è stata la risposta? La controparte rimane in silenzio, mentre il giudice Paiano davanti al mio cliente fa cadere su di me la responsabilità di quella situazione paradossale e mi rinfaccia di non aver fatto opposizione all’esecuzione immobiliare.  Il giorno dopo presento l’opposizione. E sa che succede? Il giudice rigetta l’opposizione. E allora impugno il provvedimento di rigetto. Sa che cosa ottengo? Una condanna per il mio cliente a pagare le spese in favore di chi aveva nascosto l’incasso di 300mila euro e un doppio deferimento alla Procura e all’Ordine degli avvocati, contro di me. Motivo? Azione temeraria. Dunque noi, io e il cliente, veniamo bastonati e il signore che prende 300mila euro e non lo dichiara, commettendo verosimilmente anche un reato, non ha subito alcun provvedimento.

Questa situazione con tutto il pregresso di accanimenti e accadimenti vari, sempre sui procedimenti relativi alle aste fallimentari, io l’ho denunciata alla Procura di Potenza, competente per i procedimenti nei confronti di giudici del Tribunale di Taranto, il 19 settembre 2018. Una denuncia contro due giudici del Collegio giudicante che mi ha deferito alla Procura di Taranto, Federici e Casarano, e contro lo stesso giudice Paiano. È questo l’antefatto.

Ora ci dica il fatto

Quella mia denuncia viene assegnata alla pm Veronica Calcagno, allora in servizio a Potenza. Ebbene, nonostante la specificità e gravità dei fatti denunciati, circostanziati e riscontrati, Calcagno tratta il procedimento a modello 45 (registro dei fatti non costituenti reato). Che c’entra il modello 45? Cioè una denuncia di quel tipo va iscritta e trattata a modello 21, ossia dei fatti costituenti reato. Ritengo che la pm abbia commesso quanto meno un abuso d’ufficio poiché in quel modo evita di esercitare l’azione penale nei confronti dei giudici da me denunciati: in pratica li tutela. Non mi resta che denunciare la Calcagno alla Procura di Catanzaro, competente per le vicende giudiziarie che riguardano i giudici di Potenza. E così la storia è andata avanti; ad ora sono finita a Napoli con un procedimento nelle mani del dott. Henry Jonh Woodcock , e mi fermo qui altrimenti mi indagano di nuovo.

No, deve spiegarci Napoli, e dirci che cosa è accaduto ancora. Qual era l’esempio che voleva farci?

Faccio un passo indietro. Nell’anno 2019 sono stata convocata dalla Procura di Potenza per rendere sommarie informazioni testimoniali. Chiedo di sapere per quale pratica, di quale cliente, e mi viene detto che è per tutto, tutto ciò che riguarda le aste immobiliari. C’era qualcosa che non mi convinceva e così è stato. Infatti mi viene presentata una pila di fascicoli e, con condotta dubbia, la pm Santoro, cerca di convincermi che il procedimento su mia denuncia dell’anno 2018, nei confronti dei giudici tarantini (Paiano, Federici e Casarano), aveva un numero, e un registro, diverso da quello che io sapevo essere stato iscritto e trattato dalla pm Calcagno. Lo so che è complicato, ma provo a spiegarmi. Lei sa che quando si apre un procedimento o fascicolo gli si attribuisce un numero e un modello di trattamento (45, 46, 21 ecc.).  Ebbene la pm Santoro insiste, in quella circostanza, sul fatto che la mia denuncia nei confronti dei giudici di Taranto abbia generato un procedimento con altro numero e a modello 46 (notizie anonime di reato) trattato da altri pm. Capisco che l’artifizio serve a coprire la pm Calcagno e magari a colpirmi con un procedimento per calunnia. Procedimento per calunnia nei miei confronti che avevo previsto già da mesi. E mi spiego.  Se il procedimento che è stato generato dalla mia denuncia contro i giudici tarantini non è quello trattato dalla Calcagno, la mia denuncia contro la Calcagno ha un presupposto falso. La pm Santoro vuole convincermi di questa circostanza, e verbalizzarne la mia approvazione, con la convinzione che io non avessi intuito la trappola. Io mi oppongo in tutti i modi: il procedimento generato dalla mia denuncia contro i giudici di Taranto, esiste, è lì davanti a noi, con il numero 2301/2018 a modello 45 trattato dalla pm Calcagno. Tutto il resto è un fascicolo creato ad hoc con i documenti relativi alla mia denuncia contro i giudici tarantini a cui è stato assegnato un numero, 554/18, a modello 46.

E arriviamo all’aspetto più inquietante. Preciso che le mie sit (sommarie informazioni testimoniali) sono state fonoregistrate dalla Procura e, come sempre si fa quando c’è la registrazione, accompagnate da un verbale sintetico scritto, dove io appongo la mia firma. Ebbene, allorché ho avuto tempo di leggere il verbale scritto delle mie sit mi è venuto un colpo al cuore perché ci ho letto l’esatto contrario di quello che io avevo dichiarato alla pm in sede di escussione: lei cerca di convincermi di una cosa, io dico un no netto e poi loro ci scrivono ciò che volevano che io dicessi e che io non ho mai detto; ve lo dimostro con uno stralcio dell’audio delle mie sit.

Ma lei lo ha firmato quel verbale?

Certo e la firma è mia e la riconosco ma, come ho già detto al capo della procura di Potenza, l’unica spiegazione possibile è che quella parte di verbale, infedele rispetto alle mie dichiarazioni, fosse stata aggiunta dopo che mi era stato dato per la lettura; non lo avevo assolutamente letto e mai e poi mai avrei potuto sottoscrivere ciò che, da subito, e con fermezza ho rigettato affermando che si trattava di un falso. Mi chiedo: se non ci fosse stata la registrazione, come avrei potuto provare il mio diniego? E mi chiedo: se al mio posto ci fosse stata un’altra persona, un semplice cittadino a digiuno di procedure e diritto, come sarebbe andata a finire?

Ora ci spieghi come e perché questa storia coinvolge anche Napoli

Devo prima aggiungere che, mentre la mia denuncia contro la pm Calcagno è a Catanzaro, la stessa pm viene assegnata alla sede di Catanzaro e quindi la competenza passa a Salerno, con tutte le carte. A Salerno che cosa succede? Succede che la pm salernitana Guglielmotti esclude la Calcagno da qualunque reato e apre un procedimento a mio carico per calunnia ai danni della Calcagno e dei tarantini da ella coperti, Federici, Paiano e Casarano. Tutto come previsto. Ma c’è di più. La pm di Salerno chiede l’archiviazione anche nei confronti dei giudici tarantini e nei confronti di quelli pure mi accusa di calunnia, ma al tempo stesso, rispetto alle responsabilità di questi ultimi, dice che lei non può occuparsene perché non ha la competenza territoriale, che è appunto di Potenza. Quindi nei confronti dei tarantini accusati lei non è competente ad accertare nulla, ma lo è competente se gli stessi sono parti offese ed io l’indagata: i classici due pesi e due misure. Tutto sistemato. A quel punto denuncio la pm Guglielmotti per abuso d’ufficio. E siccome la competenza per vicende giudiziarie che coinvolgono i magistrati di Salerno è della Procura presso il Tribunale di Napoli, eccoci arrivati a Napoli, dove ho trovato il pm Henry John Woodcok. E qui sono accadute altre storie che sarebbe lungo raccontarle. Sarà per un’altra volta, promesso.

Me lo lasci dire, questa storia è assurda, ma non giustifica l’esistenza di un sistema

Le assicuro che questo modo di amministrare la giustizia è più esteso di quanto si pensi. Certo, non si deve generalizzare e io non generalizzo, parlo per esperienza diretta e per riscontri inconfutabili. Basta guardare a quanto accade sulle aste fallimentari in genere. Lei stesso su questo giornale ha scritto numerosi articoli e inchieste sul funzionamento della giustizia nel Tribunale civile di Taranto e non solo in relazione alle aste: dunque sa bene di cosa parlo. Non è un caso eccezionale, è la regola. Mi lasci fare qualche altro esempio, brevemente.

Prego

Nella questione di un mio cliente a Bari, signor Caprio Alessandro, sono stata costretta a proporre poco meno di una decina di procedure perché poi una tira l’altra e tra queste c’era un’opposizione contro la revoca del gratuito patrocinio. L’ha trattenuta per sé il giudice Ruffino. Ora, questo giudice si è già pronunciato in una vicenda connessa, ma soprattutto è stato denunciato in sede penale per vari abusi, gli ho solo chiesto di astenersi dal trattare quel giudizio, quanto meno per opportunità. Lui che ha fatto? Una cosa straordinaria: ha fatto un processo alle intenzioni e ha voluto intendere la mia semplice istanza di astensione come se si trattasse di un ricorso per ricusazione, peccato che sono due cose totalmente differenti: l’istanza è una sollecitazione, un invito, mentre il ricorso sospende il processo in corso e dà seguito ad un altro processo, quello appunto sulla ricusazione.

A quel punto scrivo al Tribunale di Bari spiegando che non avevo proposto alcun ricorso per ricusazione e che non potevano suonarsela e cantarsela come volevano, anche perché l’eventuale rigetto comporta conseguenze per il ricorrente ricusante. E quindi d’accordo con il cliente non mi sono presentata all’udienza di un processo-farsa per ricusazione. E loro che fanno? Celebrano l’udienza di un ricorso mai proposto e condannano il mio cliente – da essi ritenuto ricusante temerario – all’ammenda per aver proposto un ricorso che non avrebbe dovuto proporre e che mai ha proposto. Studierò qui il da farsi e chiederò a Ruffino di accollarsi la sanzione, tanto più che ha fatto tutto lui.

Potrei raccontarle di un anno e mezzo di discussione in tribunale, con la nomina di due consulenti (ingegnere e geometra) per valutare se i tavoli, le sedie, le affettatrici eccetera eccetera (cioè il complesso degli strumenti di lavoro di un macellaio) fossero fissi nell’immobile o rimovibili. Potrei raccontarle di procedimento penale per turbativa d’asta che resta così, nell’etere, oltre i termini di legge, forse perché l’aggiudicatario è un senatore dei Cinque stelle. Potrei dire della morte di un cliente la mattina di uno sgombero illegittimo. Potrei fare tanti altri esempi. Ma le ricordo che di queste vicende vi siete occupati ampiamente con questo giornale.

Sembrano episodi gravissimi

Lo ripeto, per quanto mi riguarda non sono episodi, sono la regola. La regola che prevale, non scritta ma cogente e applicata sempre, è quella per cui tu hai sempre torto e loro, di contro, sempre ragione. Io non so più dove denunciare e soprattutto non ci credo più nell’istituzione Giustizia, dai vertici agli ultimi anelli. Quando posso, evito di accettare mandati per non arrecare danno a chi vorrebbe farsi difendere da me. E sconsiglio vivamente di intraprendere le vie giudiziarie per evitare che la gente possa ottenere un danno maggiore di quello di cui chiede riparazione. Il classico mantra “noi confidiamo nella magistratura” è pura retorica. Diciamo che il mio livello di fiducia in questa giustizia, per ciò che vedo e vivo, è pari a zero.

E lei, nonostante tutto, con questo livello di fiducia nella magistratura continua ad esercitare la professione? Mi sembra contraddittorio

Guardi la situazione è peggiore di quella che ho cercato di raccontare. Mi sto contenendo per evitare il solito attacco e non perché temo quella gente, ma perché non ho tempo per scrivere e scrivere ancora. Ricordo che non molti mesi fa, a marzo 2021 se non sbaglio, ho avuto un colloquio con il Presidente del Tribunale di Lecce dove pendono alcune mie cause civili che io ritengo palesemente pilotate da Taranto. Nel corso del colloquio ho rappresentato al magistrato che a causa delle forzature di certi magistrati si costringe la gente a fare denunce che la gente nemmeno vuole fare, ma vi è costretta. Il Presidente, che comunque è stato molto garbato con me, mi ha detto parole di questo senso: “ma le denunce non servono a niente!”.

Ed è così. Mi creda. Solo le loro denunce contro la gente normale vanno avanti, ma quelle contro di loro muoiono sempre e miseramente in un nulla di fatto: e tutto dopo anni e anni di spese, lotte e speranze. Pensi lei che, alla Procura di Potenza, un funzionario al quale facevo domande per capire ed esprimevo dubbi sulla condotta del pm di turno mi ha risposto serafico: “lei lo sa che i PM hanno un potere assoluto”.

Io continuo ad esercitare solo perché so che, altrimenti, lascerei da soli tanti clienti vessati, massacrati, derubati, umiliati: sono loro che mi riacchiappano ogni volta che io lascio idealmente la professione, mi riacchiappano e mi dicono “ma dove vai… tu sei nata avvocato”!

Secondo lei che cosa bisognerebbe fare per superare questa situazione nel modo di amministrare la giustizia?

È sufficiente che magistrati applichino la legge, è così difficile? È sufficiente che i magistrati assumano la responsabilità dei propri errori fino in fondo. D’altronde hanno solo vinto un concorso pubblico, non li ha mica nominati Dio.

Ma dica la verità, un barlume di speranza, sia pure minimo, che le cose possano cambiare le è rimasto?

Le dico la verità, si: ho imparato a credere contro la ragione e a sperare contro la speranza e questo mi porta a continuare le mie lotte e le mie proteste.

Spero di incontrala per una storia bella di giustizia. 

Il magistrato la definisce “avvocatella” ed è subito polemica. La nota dell’avvocato Anna Maria Caramia destinataria del “neologismo” del pm napoletano Henry John Woodcock. Redazione su Basilicata24.it il 04 Aprile 2022

Riceviamo e pubblichiamo integralmente la lettera dell’avvocata Caramia, legale di molti esecutati nelle procedure fallimentari. Se le parti coinvolte nella nota vorranno replicare saremo lieti di ospitarle sul nostro giornale. L’avvocata si rivolge alle massime autorità della magistratura per raccontare uno degli ultimi episodi che la vedono vittima di quello che lei definisce ” la follia di un sistema che si è davvero ammalato e che necessita di un netto ed immediato stop”. Qui la lettera integrale 

Massafra 31 marzo 2022

protocollo.centrale@pec.quirinale.it Presidente della Repubblica

protocollo.csm@giustiziacert.it C.S.M. Cons. Superiore Magistratura

gabinetto.ministro@giustiziacert.it Ministro della Giustizia

segreteriacapo.ispettorato@giustiziacert.it Ispettorato Generale Ministero

prot.pg.cassazione@giustiziacert.it Procuratore Generale c/o Cassazione

ed anche p.c. Procure della Repubblica di Napoli, Salerno, Catanzaro, Potenza C.N.F.

Organi di Stampa

Oggetto: storia di un P.M. e dell’avvocatella

Illustri destinatari tutti, ognuna per la propria competenza oggi vi racconto una storia, quella di un famoso P.M., Henry John WOODCOCK, e della sua povera avvocatella, cioè io - Anna Maria Caramia (c.f. CRM NMR 69B61 E986K) nata nella provincia di Taranto ben 53 anni fa. Il nomignolo avvocatella non è frutto della mia di fantasia, l’ho letto nella richiesta di archiviazione che il P.M. WOODCOCK che formulato nell’ambito del p.p. 5614/2022 R.G.n.r. (rinveniente dalla trasformazione del procedimento a modello 45 che è stato iscritto a seguito della denuncia che il 5 giugno 2020 ho depositato a Napoli, dopo un 2 | P a g . cammino a piedi di ben 322 chilometri); eccone lo screenshot: “E’ un errore, avrà voluto scrivere avvocatessa?” - mi sono subito domandata. “Non può esserlo un errore” - è stata la risposta, anche dopo aver visto la tastiera del pc ed aver notato come le lettere L ed S si trovino agli antipodi! E così questo epiteto diventa l’occasione per ripercorrere una vicenda giudiziaria scomoda nella quale esso (epiteto) ha trovato ingresso. Come un nastro che si riavvolge, parto dalla fine per arrivare all’avvio di questa vicenda che è iniziata il 24 maggio 2020 allorché, uscita dal mio studio alle 17 circa, ho iniziato a camminare a piedi diretta verso la procura della città partenopea. Attraverso la mia maratona durata 11 giorni, ho voluto accendere un riflettore sulla giustizia com’è oggi, sovente molto più simile ad una truffa che alla più alta delle funzioni che ogni comunità deve avere in sé, onde siano garantite pace e democrazia. Sono ormai quasi 15 anni che, dopo una difesa fastidiosa1 in cui ho toccato interessi che non avrei dovuto nemmeno sfiorare, mi tocca resistere alle aggressioni che la casta dei magistrati non disdegna regalarmi in ogni dove, avendo trasformato la mia vita professionale (e quotidiana) in una trincea permanente. Forse 15 anni fa, dopo che quel velo di sacralità che vedevo sulla Giustizia si era squarciato, avrei dovuto lasciare tutto e cambiare lavoro; però non l’ho fatto perché tra i vizi che ho c’è anche quello di non arrendermi mai… accidenti a me! Tanti abusi sfacciati, tante violenza e sofferenza, molte denunce ma nessun accertamento dei fatti e nessuna sanzione per chi, a cuor leggero e con tanta stupidità, mette mano nelle vicende che mi riguardano e che tratto io. Ma torno all’avvocatella e a quanto è accaduto solo due giorni fa! Ho naturalmente predisposto opposizione all’archiviazione - omettendo ogni tono polemico sull’epiteto avvocatella - e, avendo scorto che tra gli indirizzi p.e.c. istituzionali non c’era quello per il deposito dell’atto che io ho predisposto, non avendo nominato ancora nessun avvocato per conservare la libertà di dire come a me piace, per evitare i soliti escamotage di inammissibilità per errore nell’invio, mi sono 1 E dopo ne sono arrivate molte altre di difese scomode e le ho coltivate! 3 | P a g . recata personalmente a Napoli per depositarlo (così trasformando in ben 4 i miei fuoriporta nella città dei mille colori). Una volta lì, sono andata in Procura e dopo aver compreso che dovevo entrare dal pedonale del pubblico, ho suonato al citofono di un cancello chiuso. Alla seconda suonata ho sentito un ‘pronto’ come se avessi citofonato ad una qualunque casa privata e non alla più grande Procura d’Italia; mi è parso strano, ma ho risposto alle domande ed ho precisato che ero lì per depositare un’opposizione all’archiviazione. La poliziotta di turno ha voluto conoscere il numero del procedimento e, tra il mio stupore che cresceva a dismisura, ho atteso che ella venisse verso di me, che nel frattempo rimanevo con le carte in mano, fuori dal cancello della Procura. Per velocizzare il tutto, non ho avuto problemi a darle l’intero fascicoletto che avevo e nel quale c’era l’atto da depositare; ho dovuto attendere circa 15 minuti fuori. All’esito la poliziotta mi ha risposto così: “ha visto che ho fatto bene a non farla entrare, non è qui che deve depositare, ma deve andare all’Ufficio T.I.A.P.”. La cosa mi è parsa strana, ma non ho avuto problemi ad andarci, pensando che forse lì avrei trovato un apposito ufficio organizzato per l’incombente (nell’ambito della prassi organizzativa di una procura, ci poteva stare). E invece no, al T.I.A.P. mi hanno guardata straniti e mi hanno detto che lì non si depositava nulla! Ho fatto ritorno davanti alla Procura e, solito rituale del citofono, ho ottenuto nuovamente che non mi hanno fatto entrare e mi hanno rimandata di nuovo al T.I.A.P., facendo aumentare a dismisura il mio disappunto, nel fluire del tempo che avviava alla chiusura degli uffici. Ho chiesto di parlare con il procuratore (a cui nelle more scrivevo p.e.c.) e finanche ho detto ai militari posti a presidio di arrestarmi e portarmi dentro quel palazzo (tanto più che è da tempo che ci provano), ma non c’è stato niente da fare. Sono tornata all’interno delle tre torri, dove nessuno sapeva darmi indicazioni se non quella che conoscevo già e per cui si depositava in Procura. Fino alla fine, grazie ad un dirigente perbene, ho ottenuto interessamento e, chiamata una Collega della Procura, mi ci ha mandata; e non nascondo che con terrore ho appreso di dover tornare lì, davanti a quel cancello della Procura, da sola, aggiungendo: “la prego, la prego mi accompagni lei, lì non mi fanno entrare lì”! La terza volta in Procura, dopo aver percorso circa 6,5 chilometri facendo avanti e 4 | P a g . dietro dai due palazzi adiacenti, nel tempo di 2,5 ore, mi hanno fatto entrare ed ho effettuato il deposito. Ero pronta a sporgere denuncia dell’occorso (e se non lo avevo ancora fatto era perché non avevo trovato davanti ai piedi il commissariato), ma poi ho omesso di procedere per evitare che a ‘pagare’, come spesso accade, fosse l’ultimo anello della catena, cioè la poliziotta addetta al citofono (che accompagnandomi mi spiegava che aveva solo ubbidito agli ordini ricevuti). No, non chiedo la punizione di nessun responsabile per l’occorso relativo al deposito del mio atto, ma la chiedo, l’ho chiesta e la chiederò ancora per chi la sostanza della Giustizia la umilia, amministrandola come se fosse una cosa sua. Ed ora passo a un breve cenno di quello che è il merito della vicenda dell’avvocatella. * La mia vicenda è la classica storia di chiunque si è visto costretto a denunciare un magistrato e, non sapendolo, è entrato nel ginepraio degli insabbiamenti, delle omissioni, degli abusi, degli attacchi e delle trappole, dei procedimenti penali e di quelli disciplinari, a iosa. Io non lo sapevo proprio che i giudici non ne commettono reati e soprattutto che non vanno denunciati, lo giuro che non lo sapevo. All’epoca della mia prima denuncia credevo ancora in quel brocardo “la legge è uguale per tutti”, e ci credevo forse perché non era (e non è) ancora stato rimosso dai tribunali ed io lo vedevo lì e pensavo che fosse così com’è scritto. Ora non ci credo più per nulla, ma sono andata un po’ troppo avanti per tornare indietro… ed allora preferisco, per coerenza, crederci ancora! Io mi ritrovo a Napoli perché ho osato denunciare due/tre giudici di Taranto che non solo hanno spudoratamente e vigliaccamente trattato le mie vicende, esercitando abuso su abuso, ma che me lo hanno anche detto che erano certi che la magistratura avrebbe dato loro ragione e che si sarebbe visto come sarebbero finite le mie denunce, cioè nel nulla. E in questo, sino ad ora, hanno avuto ragione; anche se la loro è solo la ragione tipica del c.d. mondo al rovescio, dove tutto è al contrario di come dovrebbe essere! Io sono ancora qui e ancora disposta a lottare, per me e per chi difendo, e sia pure omettendo ciò che è troppo forte (ma di cui custodisco traccia), ho sempre segnalato e continuerò a farlo (anche con questa che, in ordine di tempo, è l’ultima). 5 | P a g . Al fine di consentire a chi non conosce di saperne un po’ di più, allego, in cartella zip, solo tre note che un’idea la danno su quanto io dico (doc. 1, 2 e 3). In sintesi, è accaduto che la mia prima denuncia è stata iscritta a modello 45, con destino archiviazione, senza avvedersi dei miei diritti e della gravità dei fatti. All’esito, non potendo fare altro che segnalare la condotta dell’inquirente che non ha fatto il suo dovere, mi sono ritrovata a Catanzaro, dove ho incassato la solita presa in giro del tipo “non si preoccupi, la sua denuncia sarà vagliata con la massima attenzione”. La procura di Catanzaro, di sua sponte ha mandato a Salerno (poiché quella P.M. da me denunciata era andata in forze lì) e a Salerno si è registrato il medesimo copione per cui la PM, avendo capito che le mie accuse ai tarantini erano fondate, ha detto che lei non è competente a vagliarle, limitandosi ad assolvere la Collega potentina che aveva trattato a modello 45 il mio procedimento contro i giudici jonici. Però al tempo stesso, pur nella sua incompetenza da sé riconosciuta, che quindi presupponeva il non aver potuto vagliare nulla di ciò che io avevo denunciato, mi ha indagata per calunnia poiché io avrei accusato i giudici di Taranto sapendoli innocenti. E a quel punto è evidente che, se mi ha indagata perché io ho accusato i tarantini sapendoli innocenti, ella ha effettuato un vaglio di quei fatti (perché non avrebbe potuto dire che sono innocenti senza conoscere i fatti oggetto dell’accusa) e quindi ha commesso un reato contro l’amministrazione della giustizia affermando la sua incompetenza e non esprimendosi in nulla sul merito delle mie accuse; però se non lo ha effettuato quel vaglio, perché incompetente (come ella ha detto) allora ha commesso abuso (e reato) indagando me per calunnia. In un caso o nell’altro la condotta della P.M. salernitana è foriera di responsabilità penale, ma il famoso P.M. WOODCOCK questa responsabilità non l’ha vista, dicendo che non è bene denunciare a catena. Ma a questo punto la domanda nasce spontanea: se non è bene denunciare, cosa si fa in casi come questi? A chi ci si deve rivolgere? Per amor del vero, l’avvocatella è pure d’accordo con il P.M. sul fatto che non si denuncia a catena, ed anche per questo avevo chiesto appuntamento al P.M. per un’audizione personale, per capire come far finire questa catena. La mia richiesta di audizione, però, non ha avuto nessuna risposta e così il colloquio non c’è stato (e devo dire che ho anche pensato che la fondatezza delle mie doglianze forse lo creava una sorta di disagio). 6 | P a g . Tuttavia devo evidenziare che, sbirciando gli atti del fascicolo trattato dal P.M. ho visto che lui mi aveva accordato disponibilità, ma quella mail di risposta, con la disponibilità del P.M., a cui avrei dovuto replicare, purtroppo non mi è mai giunta perché la sua segretaria l’ha inviata a un indirizzo errato, nel quale mancava il suffisso avv. che nel mio indirizzo di posta elettronica precede il mio nome e cognome. E così io ho perso un’occasione! Ed ora che ci rifletto, sorrido e penso che forse, tra eliminazione del suffisso avv. ed epiteto avvocatella, il mio essere avvocato per qualcuno va rimosso o cancellato! * E chiudo con un tono grigio scuro, che se con la città dei mille colori contrasta un po' non stride per nulla con i modi con cui la giustizia è in essa amministrata. Ed è quello per cui siamo arrivati al punto in cui la gente comune, che incappa nella giustizia e ne fa le spese, pensa che la malavita agisca con più rispetto: il che è solo follia di un sistema che si è davvero ammalato e che necessita di un netto ed immediato STOP! E avoglia a sentire parlare il Presidente MATTARELLA di imparzialità e legalità della magistratura, per la credibilità perduta che deve essere recuperata; nulla accade se di fatto non ci sono controlli (efficaci) e sanzioni (reali), nulla accade… ed è anche per questo che un famoso P.M. della procura più grande d’Italia non ha disdegnato epitetare con ‘avvocatella’ un piccolo avvocato di provincia di Taranto che ha il solo torto di fare il suo dovere, magari non proprio male, e di essere tenace, forse un po’ di più! Avv. Anna Maria Caramia

Aste giudiziarie. La storia di Mauro e Teresa: non si può morire di ingiustizia. La denuncia aperta, rivolta alle istituzioni, dell’avvocata Anna Maria Caramia: “Ho visto gente piangere, minacciare di farsi male o di farlo agli altri, ho visto qualcuno morire di crepacuore e qualcun altro privato della libertà a causa di processi condotti a botte di abusi e violazioni". Redazione il 18 Dicembre 2021 su basilicata24.it. 

Pubblichiamo la denuncia/appello, dell’avvocato Caramia, alle istituzioni, agli organi di stampa, ai cittadini e alle forze dell’ordine. Scrive riguardo alla vicenda di Mauro e Teresa, di cui ci siamo già occupati con il nostro giornale, ma scrive anche per tutti coloro che “si sentono massacrati dallo Stato e soprattutto dalla giustizia, giustizia che è sempre più una chimera, quando non si rivela come una vera e propria aguzzina”.

Sono e mi chiamo Anna Maria Caramia e sono un avvocato del Foro di Taranto.  Mio malgrado, devo segnalare e denunciare una situazione ad alta criticità e che presenta forti profili di pericolosità

Il 7 ottobre 2021 ho assunto la difesa di Mauro Antonelli e Teresa Cataldo di Terlizzi e, sin da subito, al di là dei diritti violati, ho colto la determinazione di un uomo disposto a molto (se non a tutto) pur di ottenere il riconoscimento della sua ragione.

In occasione dello sgombero del 13 novembre 2021, dopo aver conosciuto meglio Mauro ed averlo visto difendere la sua casa e la sua famiglia, ho capito che non era disposto a molto, ma che era disposto a tutto: cioè anche a sacrificarsi, infilandosi nel collo un tagliacarte (come ha manifestato di poter fare anche di fronte ai tanti carabinieri di Bari).

A questo punto mi sono chiesta: Qual è il mio dovere? Devo segnalarlo ai servizi sociali? Devo segnalare dove e a chi? Una cosa è certa: non posso fare finta di nulla nell’attesa di qualcosa che, sperando mai accada, può tuttavia succedere. No, io ho già visto un cliente, che di nome faceva Piero Gatti, morire, la mattina dello sgombero, di crepacuore, non sopportando il peso di una giustizia all’incontrario; non voglio vederne un altro che si spegne di fronte a me, che nulla riesco a garantirgli.

Ma chi sono Mauro Antonelli e Teresa Cataldo? E quali sono le loro ragioni?

Dopo averci pensato su, ho concluso che sono solo due persone che hanno ragione e che ciò nonostante, dalla Giustizia, stanno ottenendo solo attacchi alla dignità e alla integrità, alla proprietà e alla famiglia: tutto a botta di rigetti, archiviazioni e abusi vari!

Per un debito iniziale del solo Antonelli di circa 4.500 euro – coniuge in regime patrimoniale di separazione dalla Cataldo – pignorano, per intero e non per quote, un immobile di entrambi, del valore di mercato di circa 2 milioni di euro, senza mai notiziare alla Cataldo dell’esistenza di pignoramento sulla sua proprietà. Per tentare di sanare il vizio e magari far risultare che il bene è del solo Antonelli (così come falsamente dice in perizia il c.t.u. – Consulente Tecnico d’Ufficio – del giudice, che forse è anche fratello di un giudice), compare nel fascicolo un certificato di matrimonio falso, che sposta il matrimonio in avanti di 10 anni esatti (così tentando di avallare l’assunto del c.t.u. per cui il bene immobile era stato realizzato non in vigenza di matrimonio, ma prima di esso e dal solo Antonelli). La Cataldo si ritrova ad essere privata della sua proprietà e della sua casa senza debito e senza mai essere stata esecutata (e la legge dice che il pignoramento va notificato al proprietario dell’immobile, quindi a lei, e che va fatta la divisione endoesecutiva nei casi in cui la proprietà appartiene a soggetti non tutti colpiti dal titolo esecutivo, come in questo caso).

Nel tempo come si sono difesi Mauro e Teresa?

Mauro Antonelli, sin da subito, (per almeno tre volte) si è difeso chiedendo la riduzione del pignoramento ex art. 496 c.p.c. stante la sproporzione tra il debito (4 mila euro poi divenuti circa 40 mila euro) e il valore dell’immobile (Tra 1,5 e 2 milioni di euro), lo dice la legge che si può fare; ma i giudici di Trani hanno stranamente rigettato tutte le istanze in tal senso.

Mauro Antonelli denuncia alla procura di Trani, ma i Pm archiviano, non accertando nulla, anche sostenendo l’errore di fronte al falso certificato di matrimonio (e poco rileva se quella falsità è totalmente confacente alla tesi che si vuole sostenere).

Nel frattempo, il 2 novembre 2021 viene presentata denuncia alla procura di Lecce contro i giudici di Trani e altre persone. In quella denuncia si ribadisce anche l’ipotesi che alla base di quei fatti ci fosse una speculazione edilizia, con lottizzazione ed interessi plurimi alla base.

Oltre a depositare la denuncia, Mauro si presenta in tribunale per ben due volte per insistere affinché si adotti il sequestro del fascicolo e dell’immobile, nell’attesa che il procedimento penale giungesse a maturazione. La Procura di Lecce garantisce una risposta prima dello sgombero del 13 novembre 2021, ma la risposta sul sequestro non arriva mai!  

C’è lo sgombero il 13 novembre 2021 e lo Stato invia addirittura i carabinieri in tenuta antisommossa; sotto gli occhi dei militari e dei tanti presenti la delegata alla vendita, figlia di un giudice, rivolgendosi a me, mi invita a denunciarla un’altra volta al tribunale di Lecce. E’ chiaro che lei sapesse della denuncia già depositata. Sarà stata questa la risposta data dalla Procura di Lecce alla nostra richiesta di sequestro? Chissà. Di certo non c’è stato alcun sequestro e in aggiunta siamo in presenza di una probabile rivelazione di segreto istruttorio!

Cosa è accaduto durante lo sgombero?

Due personcine, una donna gracile di corporatura ma titanica nella forza, tra un conato di vomito e un mancamento, correndo da una porta all’altra con le braccia aperte in guisa di difendere la sua proprietà, si oppone allo Stato schierato contro di lei con i carabinieri, tutti bardati con caschi, scudi e manganelli, anche se, ad onore del vero, non manca sul volto di qualcuno dei più giovani un velo di vergogna per esseri lì contro quella mamma.

Nel contempo, l’uomo, silenzioso quanto determinato, con le spalle alla porta di una delle quattro case pignorate, si punta un tagliacarte al collo pronto a colpirsi se i militari avessero deciso di procedere contro di lui.

In quel contesto, il tenente e un infermiere si avvicinano a Mauro, mentre si punta il tagliacarte al collo, e gli dicono che devono fargli un T.S.O.: Mauro non sa cosa sia, la figlia pensa che sia un esame al cuore (appena fatto alla mamma Teresa) mentre io, intimandogli di non farlo, gli dico che il cliente è sano di mente e che quel gesto è solo frutto di esasperazione e disperazione per una giustizia cieca, sorda e connivente!

E a proposito di T.S.O., or ora ricordo che durante lo sgombero del mese prima, il 13 ottobre 2021, la dottoressa del 118, parlando con la delegata, diceva che non se la sentiva di fare il trattamento obbligatorio a Teresa, che a suo parere era sana e che viveva solo un momento estremamente difficile. E per fortuna che io registro e documento! Che esagerazione, il T.S.O. come mezzo per neutralizzare chi dà fastidio!

Tornando allo sgombero del 13 novembre 2021, si decide di rinviarlo alla data dell’8 gennaio 2022 (dopo le festività), anche attendendo un ricorso che si discuterà il 18 dicembre 2021, sia pure dall’esito quasi scontato. Intanto, la delegata alla vendita si ‘pretende’ la firma di un impegno ad uscire dall’immobile bonariamente e senza ostruzionismo, ma avvertendo contestualmente che se non Mauro e Teresa non avessero firmato quell’impegno, ella avrebbe richiamato i carabinieri per cacciarli fuori di casa quel giorno stesso.

Naturalmente Mauro e Teresa firmano

A quel punto, ritengo che sia più che doverosa una segnalazione integrativa alla Procura di Lecce inoltrata il 16 dicembre 2021. Nell’occasione, le parti ed io ci presentiamo in Procura, ma veniamo trattati in malo modo dal procuratore aggiunto (pare) ed accompagnati fuori dai militari i quali illustrando le facoltà di legge, dicono a me (che sono l’avvocato) che non era quello il modo per ottenere qualcosa e che avrei dovuto seguire i canali ufficiali e rituali: scrivere p.e.c., fare ricorsi, denunce… non manca a lei, avvocato, di sapere cosa fare).

Ma quali canali ufficiali io non ho seguito? Ho seguito anche le vie irrituali. Ho fatto denunce (e ci sono procedimenti in 7 o 8 procure contemporaneamente), ricorsi a più non posso, proteste (andando a piedi da Taranto a Napoli e dormendo per strada dinanzi al Ministero della Giustizia). Cosa non ho fatto?”

A proposito dei canali ufficiali, proprio a Lecce, un magistrato (credo con funzioni di Presidente), alle mie rimostranze circa il fatto che, a botta di abusi, si costringe la gente a fare denunce, mi ha detto che le denunce non servono a niente; a Trani, per Cataldo Teresa, ho fatto un ricorso avverso lo sgombero del 13 novembre 2021, ma il mio ricorso non è stato scaricato nei termini di legge, forse perché scomodo: nonostante la parte si sia recata di persona 2 volte ed io abbia scritto al tribunale per altre 2 volte.

Ma come ho detto, siamo andati a Lecce per denunciare i giudici di Trani e non solo, il 16 dicembre 2021. Nella denuncia fresca fresca abbiamo anche scritto che vi è omissione di atti di ufficio da parte del cancelliere di Trani che, dopo 16 giorni e nonostante i solleciti, non scaricava un atto civile urgente, pure sollecitato per 4 volte. Miracolo o coincidenza, denunciamo l’omissione in atti di ufficio e il 17 dicembre la cancelleria di Trani accetta il ricorso.

Che strano, o forse no. In fondo tra i reati denunciati c’è anche quello di rivelazione di segreto istruttorio (dato che la delegata alla vendita sapeva della denuncia a Lecce).

E’ questa in sintesi la storia di Mauro e Teresa, simbolo di tante altre vicende 

A volte lo penso che non abbia più alcun senso fare l’avvocato in una nazione ove la giustizia è diventata una truffa, gli organi di controllo non controllano nulla e piuttosto insabbiano, le istituzioni servono solo se stesse, coloro che rappresentano il popolo sono lontani dalla gente, sono arroccati nei privilegi, e gli organi di stampa, salvo eccezioni, non danno eco al grido di dolore della nazione.

Sì, penso che forse mi convenga abbandonare una professione ormai di fatto inutile, ma poi mi ritrovo sempre qui, a sentire altro dolore e a tentare di aiutare, con i miei piccoli strumenti, chi con le lacrime agli occhi mi supplica di fare qualcosa.

Scrivo a causa della storia di Mauro e Teresa, ma non scrivo solo per loro, scrivo per tutti coloro che si sentono massacrati dallo Stato e soprattutto dalla giustizia; giustizia che è sempre più una chimera, laddove non si rivela come una vera e propria aguzzina.

Nell’esercizio della mia professione, ho visto gente piangere, gente minacciare di farsi male o di farlo agli altri, ho visto qualcuno morire di crepacuore e qualcun altro privato della libertà a causa di processi condotti a botta di abusi e violazioni.

Nell’esercizio della mia professione, ho assaporato troppe amarezze e delusioni. No, non si può adire la giustizia per ottenere un danno più grande (e tale è quello che arriva dopo anni e anni di indagini, che ci tengono appesi alla speranza, per poi leggere richieste di archiviazioni offensive non solo dei diritti, ma anche dell’intelligenza).

Non si può sopportare il peso economico dei costi della giustizia, per arrivare sempre al nulla aggravato dal danno. Non si può più tollerare l’indolenza investigativa delle procure quando ad essere accusati sono altri magistrati.

L’otto gennaio 2022 la storia di Mauro e Teresa registrerà un altro tassello: cosa accadrà? Verranno di nuovo i carabinieri in tenuta antisommossa o i negoziatori o la polizia scientifica? La Procura di Lecce lo farà il sequestro che sarebbe giusto fare? Mauro e Teresa ce la faranno contro uno Stato che li sta abusando?

Chi vivrà vedrà!

Avvocato Anna Maria Caramia

La vita all’asta di Domenico e di sua madre. Tra pochi giorni dovranno lasciare la loro casa pignorata e svenduta a un prezzo irrisorio. Giusi Cavallo, Michele Finizio su Basilicata24.it il 16 Luglio 2019

Annunziata Latrecchina, 60 anni, di Montalbano Jonico, debitrice sottoposta a procedura esecutiva immobiliare. Per la verità i debitori sarebbero anche il marito, Attilio Farina, poi deceduto l’11 aprile 2018 e il figlio Domenico. Nei loro confronti un pignoramento sull’immobile monumentale settecentesco denominato “Vecchio Casale”, con relative pertinenze, nel centro storico di Scanzano Jonico. Si tratta di un appartamento di 6 vani, locali deposito, terreni seminativi e pascolo. Tutto all’asta.

Il CTU del Tribunale di Matera il 4 febbraio 2012 stimava in euro 197.200,00 l’intero compendio, il solo appartamento con annesso piccolo deposito è valutato 140mila euro. Esperite quattro vendite senza incanto, il professionista delegato alla vendita, con istanza del 9 ottobre 2017, rimette nelle mani del Giudice delle Esecuzioni l’eventuale prosieguo della procedura con eventuale ulteriore vendita senza incanto, la quinta.

Il professionista avvocato delegato alla vendita nella relazione-istanza al Giudice scrive, tra l’altro, che l’immobile è in stato di abbandono e che il mercato immobiliare della provincia di Matera e in particolare del territorio di Scanzano è soggetto a un depauperamento delle risorse patrimoniali e non solo, rendendo estremamente difficile procedere ad alienare i beni pignorati ed ottenere una fruttuosa vendita…

Peccato che quel complesso immobiliare è iscritto nell’elenco degli immobili sottoposti a disposizioni di tutela in quanto bene culturale e monumentale e che è oggetto di politiche regionali e nazionali che prevedono finanziamenti e agevolazioni per la valorizzazione e la conservazione in quanto patrimonio culturale materiale che può rilanciare l’offerta turistica sul territorio. Insomma quel complesso immobiliare ha un valore potenziale di grande interesse. Praticamente il futuro acquirente potrebbe accedere a una serie di misure di finanziamento. Basta aggiungere che, nel quadro del Progetto Pilota 2018 del Protocollo d’intesa per lo sviluppo delle Comunità Turistiche Integrate di Basilicata, la dotazione finanziaria per la sola provincia di Matera ammonta a 133 milioni di euro per il recupero di edifici con le caratteristiche storiche, artistiche e monumentali che, guarda caso, interessano l’immobile pignorato.

Il giudice autorizza la quinta vendita a prezzi irrisori

Sulla base dei rilievi rappresentati nella relazione dal professionista delegato, puntualmente confutati dall’avvocato di parte dell’esecutata, il giudice autorizza la quinta vendita del compendio pignorato riducendo notevolmente il prezzo di vendita. La vendita è notificata alle parti il 23 maggio 2018, notifica destinata anche a Attilio Farina, coniuge di Latrecchina, deceduto un mese prima, l’11 aprile 2018.

L’appartamento è messo all’asta al prezzo di 35mila euro (valore stimato 140mila euro), mentre gli altri lotti, comprendenti locali deposito e terreni sono prezzati complessivamente 23mila euro a fronte di un valore stimato di 57mila euro. L’avvocato di parte dell’esecutata nel dicembre del 2018 presenta istanza di sospensione della vendita a prezzo ingiusto. Le motivazioni a sostegno della sospensione appaiono fondate, ancor più fondate se si leggono alcuni tratti della relazione di stima prodotta da un architetto incaricato dall’avvocato di parte della signora Latrecchina: Il cespite, di notevole pregio storico e architettonico è oggetto di recenti politiche che mirano a rilanciare l’offerta turistica…con particolare riferimento alle opportunità di investimento e di accesso al credito e a finanziamenti a fondo perduto. Ma c’è di più. L’architetto nella sua relazione scrive che un immobile analogo a quello oggetto di pignoramento, facente parte del medesimo complesso immobiliare monumentale settecentesco situato nel centro storico di Scanzano è stato venduto nello stesso periodo in cui veniva stimato il cespite della signora Latrecchina, per 1.085 euro al mq, mentre il fabbricato esecutato è stato venduto a 224 euro al mq.

 Niente da fare, si vende

Le prime quattro vendite sono andate deserte. Alla quinta si presenta un solo acquirente. L’offerta d’acquisto è dell’avvocato Adelaide Gagliardi e di suo marito che si aggiudicano ben tre dei quattro lotti in vendita. L’appartamento lo acquistano al prezzo di 26.500 euro e con 14mila euro si portano a casa i locali deposito che avevano un valore stimato di 44mila euro. Nel settembre 2018 diventano loro i proprietari. I coniugi hanno partecipato alla vendita in rappresentanza, quali genitori esercenti la responsabilità genitoriale, dei figli. Il Tribunale civile di Matera il 17 maggio 2019 emana il decreto di trasferimento della piena proprietà ai figli della coppia.

L’avvocata Gagliardi è uno dei professionisti a cui il tribunale delega le vendite all’asta. In questo caso specifico il delegato alla vendita era un altro avvocato, Maria Morelli, ma in altri casi è proprio lei la professionista delegata alla vendita: Adelaide Gagliardi.

Intanto il 26 giugno il primo sgombero con consegna delle chiavi dei locali deposito. Il 20 luglio è previsto lo sgombero e consegna delle chiavi dell’appartamento.

Alla signora Latrecchina non resta che il tentativo estremo della denuncia

Il 24 giugno 2019 la signora Annunziata si presenta alla Guardia di Finanza di Policoro e deposita un esposto-denuncia. Nel documento riporta in sintesi tutte le motivazioni illustrate nella richiesta di sospensione della vendita e aggiunge: “Gli acquirenti dell’immobile – in ragione del fatto che Gagliardi è un delegato alle vendite del Tribunale di Matera – non sono nuovi da compiere tali affari immobiliari… Significativo è l’acquisto da parte della detta delegata alle vendite di un terreno di molti ettari acquistato ad un asta del Tribunale di Matera di proprietà di (…) per circa 150mila euro e che lo stesso terreno è stato messo in vendita dalla stessa successivamente a 400mila euro”.

 Il paradosso delle Banche e degli altri creditori

Strano. Tra settembre e ottobre 2010 i coniugi Farina, propongono per ben due volte una transazione al creditore principale, la Banca Popolare di Puglia e Basilicata. A fronte di una debitoria complessiva di 170mila euro i coniugi Farina, il 25 ottobre 2010, propongono una transazione di 125mila euro, di cui 50mila da versare entro il 31 dicembre 2010 e 75mila da versare in rate semestrali da 7,5mila euro ciascuna. Questo, scrivono i Farina, è possibile “grazie all’aiuto dei familiari.”. Leggiamo nella proposta: “Come a voi noto (Banca) il patrimonio immobiliare costituito da casa di abitazione e terreni per circa 10 ha sono stati donati all’unico figlio Domenico (con accollo di mutuo) a causa di gravi problemi di salute del sottoscritto Attilio Farina…Per tali condizioni precarie di salute e per la crisi del settore agricolo, l’attività aziendale condotta dal giovane figlio subentrato ha subito tante difficoltà che non hanno permesso di assolvere agli impegni assunti con le banche.”

Le proposte transattive non sono state accolte. La Banca avrà avuto i suoi ragionevoli motivi.

La domanda è: a fronte dei 125mila euro offerti dal debitore, quanto hanno ricavato i creditori dalla procedura di esecuzione? Come in tutte le storie di vite all’asta, il debitore rimane col debito e senza patrimonio, spesso senza un tetto dove dormire mentre i creditori ricavano nulla e il loro credito diventa inesigibile. Chi ci guadagna in questo paradosso che ormai è prassi consolidata in diversi Tribunali? 

Si punta il coltello alla gola durante lo sgombero: “non me ne vado da casa mia”. Oggi nuovo tentativo di sgombero dell'immobile in cui vive una famiglia di Terlizzi. Tensione con le forze dell’ordine. “Io non intendo uscire da casa mia, non solo perché non saprei dove andare, ma perché è totalmente ingiusto ciò che ci sta capitando. Qualcuno vuole insabbiare la verità". All'interno dell'articolo i video drammatici del tentativo di sgombero. Redazione il 13 Novembre 2021 su basilicata24.it.

“Vi chiedo di dare notizia della mia storia, per cui ci hanno pignorato 4 appartamenti per un debito di 4 mila e cinquecento euro. Oggi 13 novembre è previsto lo sgombero, già rinviato il 13 ottobre scorso, ma io non intendo uscire da casa mia, non solo perché non saprei dove andare, ma perché è totalmente ingiusto ciò che ci sta capitando: per 4 mila euro non si pignorano 4 appartamenti!”

Queste le parole della signora Teresa poco prima che arrivassero le Forze dell’Ordine per sgomberare la palazzina in cui vive, a Terlizzi, con il marito e dove vivono anche i i figli.

All’arrivo dei carabinieri, pronti a sgomberare l’immobile, si sono vissuti momenti di tensione. Il marito della signora Teresa puntandosi un coltello alla gola ha minacciato di uccidersi. Mentre la donna ha accusato un malore. Sul posto presenti anche alcuni vicini e cittadini giunti a sostenere Teresa e la sua famiglia. Qui tutta la storia.

I video girati dall’avvocata Caramia: lui si punta il coltello alla gola, le urla di disperazione. In fine le forze dell’ordine abbandonano il campo. Tutto rinviato probabilmente a gennaio 2022. Ma non finisce qui. Ci auguriamo che la verità venga a galla e che la Giustizia tuteli finalmente la famiglia di Mauro e Teresa.

Morto di crepacuore la mattina dello sgombero. L’appello disperato della moglie Anna. "Nonostante abbia ragione vogliono buttarmi fuori da casa mia!" Redazione il 13 Settembre 2021 su basilicata24.it.

Palagianello (Taranto). La mattina del 2 aprile scorso il signor Pietro Gatti 73 anni avrebbe dovuto sgomberare la sua casa. Vittima di un’esecuzione immobiliare. Si era sempre opposto a quella che riteneva un’ingiustizia.

Ci ha provato. La sua abitazione espropriata comprende una particella non colpita da pignoramento e sembrerebbe che il giudice delle esecuzioni abbia violato, a detta dell’avvocato Anna Maria Caramia, le norme che vietano le vendite a prezzo vile ed ingiusto. L’intero immobile trasferito, infatti, era stato stimato nel 2007 in 335 mila euro, ma sembra che il valore fosse più alto.

L’aggiudicazione all’asta è stata di 106 mila euro. Ci ha provato il signor Gatti. Quel bene non poteva essere trasferito dopo quattro tentativi di asta, come dispone il codice. E non poteva essere buttato fuori di casa perché una parte di quella casa non è mai stata pignorata. Nonostante tutto la Giustizia non ha avuto orecchie né occhi per lui e sua moglie. Pietro Gatti morì di crepacuore lo stesso giorno.

La vicenda non è chiusa e la via crucis continua per la moglie Anna che lancia questo disperato appello:

“Mio marito è morto la mattina dello sgombero, dopo ave ripetuto tante volte che non sarebbe uscito vivo di là.

Mi hanno tolto tutto casa, marito e soldi… tutto, anche se il diritto dà ragione a me!

Sono rimasta sola, con una figlia, due cani e due gatti… anche i maiali mi hanno tolto per pagare le spese legali illegalmente addossate a me e a mio marito nelle opposizioni (dove noi avevamo ragione)!

Mi espropriano di un bene che non è stato mai pignorato perché in parte sorge su un suolo acquistato nell’anno 2003, mentre il pignoramento è del 1996; dicono che la proprietà acquistata nell’anno 2003 non c’entra con l’espropriazione, ma poi mi tolgono anche la parte acquistata nel 2003; e a suon di perizie false e ordinanze cieche procedono senza sosta. procedono lo stesso!

Nonostante abbia ragione vogliono buttarmi fuori da casa mia! Qui la Memoria difensiva

Il 17 settembre è fissata la data dello sgombero ma io non esco da casa mia perché in quella casa c’è lo spirito di mio marito che è morto per difenderla.

Ho ragione, anche se loro non la vogliono vedere; le carte ci sono e io voglio solo ciò che è mio, mio marito non posso più averlo ma la casa ancora sì!

Vi allego l’ultima memoria per la Procura dove ci sono due procedimenti penali, sia a modello 21 che a modello 44, e vi chiedo di aiutarmi in qualsiasi modo voi possiate aiutarmi, a cominciare dal pubblicare questo mio appello!” Anna Laterza

La disperazione di Teresa: “Per un debito di 4mila euro mi pignorano la palazzina da 1,5 milioni di euro”.

Sabato 13 novembre è previsto sgombero, già rinviato il 13 ottobre scorso: "ma io non intendo uscire da casa mia, non solo perché non saprei dove andare, ma perché è totalmente ingiusto ciò che ci sta capitando. Qualcuno vuole insabbiare la verità". Redazione il 04 Novembre 2021 su basilicata24.it. 

“Vi chiedo di dare notizia della mia storia, raccontata in sintesi nella nota che allego, per cui ci hanno pignorato 4 appartamenti per un debito di 4 mila e cinquecento euro. Sabato 13 novembre è previsto lo sgombero,  già rinviato il 13 ottobre scorso, ma io non intendo uscire da casa mia, non solo perché non saprei dove andare, ma perché è totalmente ingiusto ciò che ci sta capitando: per 4 mila euro non si pignorano 4 appartamenti!”

Questo è l’appello della signora Teresa che noi accogliamo e perciò pubblichiamo integralmente la sua nota. L’appello è stato inviato a molti organi di stampa oltre che al presidente Mattarella, al ministro dell’Interno, al ministro della Giustizia, al Tribunale di Trani, alle procure di Trani e Lecce, alla Direziona nazionale antimafia, al Csm.

“Io Cataldo Teresa sono una donna e una mamma italiana truffata dalla Giustizia e tradita vigliaccamente dalle istituzioni. Facendo mille sacrifici e rinunce, io e mio marito Antonelli Mauro siamo riusciti a costruire una casa per noi e i nostri tre figli; abbiamo comprato un terreno in periferia di Terlizzi (oggi vico II Macello n. 3) ed abbiamo costruito la nostra casa, per poter abitare assieme ai nostri figli e poter chiudere la nostra esistenza tra gli affetti (secondo il desiderio di tutte le famiglie). Invece no!

Ad un certo punto, senza che noi ne sapessimo nulla, in modo inizialmente invisibile, nasce nella testa di qualche faccendiere locale, che ha le amicizie ‘giuste’, il progetto di una lottizzazione che vede anche la nostra casa all’interno di essa (come un fastidio da rimuovere). Che si fa allora, si rinuncia alla lottizzazione?  Ma certo che no, ci mancherebbe; si elimina la famiglia, anzi si eliminano (e senza pudore) ben quattro famiglie.

E siamo arrivati ad oggi!

Questa volontà di eliminarci viene di fatto realizzata attraverso un’esecuzione immobiliare che pende al tribunale di Trani (numero 184/2012 R.G.Es) in cui è previsto lo sgombero tra pochi giorni, ovvero il 13 novembre 2021.

L’esecuzione immobiliare in danno della mia famiglia è lo specchio di quanta illegalità si trova in alcune sezioni dei tribunali (e per quel che mi riguarda Trani). Essa è nata per un debito di poco più di 4 mila euro; per soli 4.752,84 euro ci viene fatto un pignoramento su tutti e quattro gli appartamenti, il cui valore di mercato è di certo di oltre 1 milione di euro, anche se sottostimato dal perito del tribunale in poco meno di ottocento mila euro (e qui è la prova del fatto che con la nostra palazzina familiare davamo fastidio a ‘qualcuno’).

Tutti dicono che non è possibile tutto questo, ma garantisco che se è anche pare incredibile, è così – e a riprova della verità di quanto dico dal punto di vista tecnico e giuridico, ho chiesto al mio nuovo avvocato di controfirmare questa mia lettera.

Ma c’è dell’altro, che solo a pensarci su genera rabbia

Il debito di quattro mila euro rinviene da una condanna alle spese del 2011 che riguarda il solo mio marito, Antonelli Mauro, in una vicenda giudiziaria civile come tante (nella quale pare che abbia pure ragione lui). Nel frattempo, era accaduto che dal regime patrimoniale di comunione tra coniugi, che avevamo all’epoca dell’acquisto del terreno su cui abbiamo costruito la nostra palazzina familiare, siamo passati a quello della separazione, con atto notarile dell’anno 1984. In conseguenza di ciò, l’unico chiamato a rispondere di quel debito di 4 mila euro (vero o farlocco che sia) era mio marito e solo lui, non io; non potevano pignorare la mia quota di proprietà immobiliare se col debito io non ho a che fare, la legge così dice.

E loro che fanno? Vanno avanti anche contro di me, come un caterpillar

Le stranezze sono tante: il CTU del tribunale, anche se richiestogli, non dice nulla nella perizia di quella che è la provenienza del bene che vogliono toglierci e della sua appartenenza anche a me. Ad un certo punto, nel fascicolo della procedura esecutiva, viene prodotto un estratto di certificato di matrimonio che però posticipa di dieci anni il matrimonio che io ho contratto con mio marito: e così dal 7 ottobre 1969 risultiamo sposati il 7 ottobre 1979! Un errore? Non ci credo manco se mi ammazzano!  Perché lo hanno fatto? Forse per introdurre un elemento che consenta di poter dire che il bene è solo di mio marito.

Ma in verità, l’acquisto del terreno dove abbiamo costruito la nostra palazzina è dell’anno 1976, quando ero già sposata ed ero in comunione dei beni con mio marito; evidentemente ‘qualcuno’ avrà capito che come hanno condotto avanti la procedura esecutiva non si poteva fare, non si poteva agire contro di me, ed ha escogitato l’idea di posticipare, sulla carta, la data del mio matrimonio ad un’epoca successiva all’acquisto del terreno. Ma mio marito c’era già accanto a me nell’anno 1976 e l’acquisto e la realizzazione è stata fatta in comunione dei beni con me: quindi metà della palazzina è mia.

La LEGGE dice che io avrei dovuto essere messa al corrente della procedura e che non posso subire la diminuzione di valore della mia proprietà se non c’entro col debito e non sono in comunione legale dei beni col debitore; ma niente da fare, nessuna legalità si può sperare se esiste il progetto di un ‘qualcuno’ che, per speculazione e vil denaro, con le amicizie ‘giuste’ al posto ‘giusto’, a mezzo di coperture e insabbiamenti, ottiene di poterci eliminare.

Negli anni, mio marito ha taciuto al resto della famiglia il problema, certo di risolverlo (in fondo erano pochi soldi, anche a voler considerare quelli che una banca ha chiesto intervenendo nella procedura e che sono assolutamente abbordabili da noi), ma non c’è stato Santo in paradiso.

Solo da poco ho appreso che negli anni mio marito, a mezzo di tanti avvocati, ha chiesto, più volte, al giudice dell’esecuzione di ridurre il pignoramento solo ad uno degli immobili (appartamento o terreno, quello che volevano) perché lo prevede la legge (art. 496 c.p.c.), ma il giudice ha sempre detto di no, ritenendo legittima la condotta di chi per soli 4 mila euro pignora un patrimonio immobiliare di 200/300 volte superiore; stesso discorso per tutte le opposizioni e le istanze fatte, di sospendere ed estinguere!

Mi risulta che tutto il terreno che circonda la mia casa (che è terreno urbano) e che è di circa 800 metri quadri non è stato mai pignorato, non essendo contemplato nell’atto di pignoramento iniziale, con la conseguenza che chi ha comprato non può appropriarsene, ma ora che conosciamo meglio a che “illegalità” sono giunti, io lo temo ci toglieranno anche questo! Io non so quanto c’entrino e se c’entrino, ma mi è stato detto che il presidente della sezione esecuzioni del Tribunale di Trani, sia il fratello del CTU della procedura in cui stanno colpendo anche me, pur senza esecutarmi, e che altro magistrato che è intervenuto nella vicenda giudiziaria di mio marito, tale…, abbia lo stesso cognome del marito dell’aggiudicataria di casa mia…; io non lo so se c’entrino, ma tutto ora mi parla di sospetto!

Sono passati gli anni, mio marito ha speso tanti soldi della nostra famiglia per difenderci ed ha coltivato speranze, per ritrovarci tutti, alla fine, ad essere sbattuti fuori di casa da uno Stato che agisce peggio della peggio mafia che dice di combattere. E magari avessimo avuto a che fare con la malavita, di certo qualcosa ce lo avrebbe lasciato.

Oggi io vivo nel terrore di essere buttata fuori casa e di non sapere dove andare, di perdere tutto per un debito minimo e nemmeno io, a botta di illegalità commesse con le coperture giuste da pezzi dello Stato e nell’inerzia della Procura che nicchia quando, come sa, ove dovesse scavare, troverebbe le responsabilità anche di alcuni giudici che questa storiaccia l’hanno consentita; dimagrisco alla giornata, ingoio veleno ogni giorno, vedendo la paura crescere attorno a me, vedendo mio marito colto da un senso di sgomento e fallimento per non aver risolto una situazione banale, vedendo i miei figli rimproverare il padre che ha taciuto pensando che avrebbe risolto tutto da sé, e respirando un’aria di disfatta il cui tanfo è costantemente nelle mie narici.

Io sono una dei tanti uccisi dalla giustizia italiana e chiedo, anzi pretendo, che chi di dovere avvii un’ispezione presso il Tribunale di Trani per verificare la legittimità degli atti della vicenda espropriativa che mi sta coinvolgendo.

No, mi dispiace… IO NON CI STO!” Cataldo Teresa, Terlizzi (BA)

Case di giudici e notai: le aste fallimentari sono affari di famiglia. Giulia Bosetti e Francesco Bellina su L'Espresso il 14 Marzo 2022.  

Ricorsi al Tar, denunce, l’ombra della mafia. E le storie di imprenditori che hanno perso tutto. Al centro dell’intrigo la sezione esecuzioni immobiliari.

Tribunale di Catania, sezione esecuzioni immobiliari. Tra queste aule è passato un pezzo della storia economica della città. Una storia che travolge i beni di imprenditori caduti in disgrazia, passa per gli studi di stimati professionisti e poi varca i confini dell’isola, rimbalzando fino a Roma al Consiglio superiore della magistratura. E più si tirano i fili, più la trama si fa complessa, riproponendo gli scontri e i veleni che stanno attraversando la magistratura del nostro Paese.

Fascicoli che passano di giudice in giudice, ricorsi al Tar, denunce che fioccano, sanzioni disciplinari. Non viene risparmiato nemmeno l’ex ministro della giustizia Alfonso Buonafede, denunciato a Catania  il 19 aprile del 2019, mentre era in carica, da un magistrato che su richiesta dello stesso Buonafede era stato interdetto dai pubblici uffici. Tra le maglie di questo intreccio, delle storie drammatiche. Due imprenditori che hanno perso tutto, una famiglia che non ha più la sua casa. Ville e appartamenti finiti all’asta al tribunale di Catania mentre i magistrati si contendono i fascicoli. Vendite di cui non tornano le carte, provvedimenti emessi da un giudice e annullati da un altro.

«Io ho fiducia nella giustizia, in quella vera però. Ho fatto tanti sacrifici nella mia vita e mi sentivo onorato di dare lavoro ai miei operai, ho reinvestito nella mia azienda tutto quello che avevo». A parlare è Salvatore Guerino, settant’anni imprenditore catanese nel settore della componentistica d’acciaio. Un avita spesa nei cantieri della Sicilia, si ritrova con un’istanza di fallimento.

Pieno di debiti, perde tutto, anche la casa. Nel 2007 viene acquistata all’asta giudiziaria da un privato e poi rivenduta nel 2011 a un notaio di Catania, che incredibilmente paga con gli stessi assegni con cui l’appartamento è stato comprato quattro anni prima. 

Guerino denuncia, “perché il tribunale pè il luogo che più di ogni altro deve tutelare i diritti dei cittadini”, dice. La Guardia di Finanza svolge le indagini per la procura di Catania e a giugno del 2018 mette nero su bianco che il pagamento dell’immobile “è avvenuta in maniera simulata”, che tra l’acquirente all’asta e il notaio “esistono ulteriori atti di comodato e compravendita” e che “appare verosimile” che colui che ha comprato l’appartamento all’asta “sia stato prestanome o socio del notaio” che ne è poi diventato proprietario.

Tutto archiviato, ma l’imprenditore non molla: “ci sono organizzazioni che si muovono all’interno del mondo delle aste giudiziarie, approfittando dei prezzi più bassi e delle difficoltà economiche di chi fa impresa”. Insieme all’avvocato Rosa Castiglione, Salvatore Guerino scandaglia il web, chiede visure, raccoglie atti pubblici. Scopre che il notaio che ha comprato la sua casa ha partecipato a innumerevoli aste giudiziarie e rivenduto immobili a prezzi più alti. Torna all’attacco con una nuova querela, allega decine di atti, documenti catastali e ispezioni ipotecarie: nel 2020, il notaio risulta essere proprietario di ben venticinque immobili, senza contare quelli intestati alle figlie, anche minorenni, e alla moglie. E qui, tra una visura e un certificato di stato di famiglia, spunta la sorpresa. Fino al 2015, la moglie del notaio è giudice al tribunale di Catania e non in una sezione qualunque,ma alle esecuzioni immobiliari. E inizialmente le era stato assegnato il fascicolo numero 170 del 2007, ovvero la prima istanza di vendita dell’appartamento di Salvatore Guerino. La procedura non è stata portata a compimento e l’immobile è poi passato ad altro magistrato, che ha proceduto alla vendita su richiesta di nuovi creditori. Oggi il tribunale di Catania sta indagando sul notaio.

L’ultima relazione della guardia di finanza è datata 10 agosto 2021: ricostruisce innumerevoli operazioni sospette che lo coinvolgono, la cui la compravendita di un immobile con la società Tropical Agricola Srl, “ritenuta nella titolarità effettiva di Benedetto Santapaola, Aldo Ercolano e Giuseppe Cesarotti” e i cui beni sono stati confiscati a novembre scorso, poiché ritenuti parte del patrimonio occulto direttamente riconducibile ai vertici della famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano. Nonostante le ripetute richieste di archiviazione da parte del pm, il 19 gennaio di quest’anno il gip Nunzio Sarpietro ha accolto le istanze dell’avvocato di Guerino e chiesto indagini supplementari per i reati di riciclaggio e impegno di beni di provenienza illecita.

Poi c’è Antonio Sangalli, classe 1941. Titolare di una società di impianti industriale che operava in tutta Italia: “Cinquant’anni di fatiche in cui non nono mai sceso a compromessi, ho sempre rispettato la legge e lavorato con correttezza ed onestà, ma non è bastato. Mi sono ritrovato con un debito di 590mila euro perché non riuscivo più a pagare il mutuo che avevo acceso con l’azienda e lì è finito tutto”.

Nel 2011, la banca pignora la sua villa a Catania: il consulente tecnico del tribunale la valuta 2 milioni e centomila euro. Solo che a quel punto le cose si complicano. Il Fascicolo della villa viene sottratto al giudice che aveva fatto eseguire la consulenza ed assegnato ad un altro: con cinque tentativi di vendita andati deserti e quattro ribassi, nel 2018 la casa viene aggiudicata per 498mila euro, un milione e 600 mila euro in meno della sua valutazione iniziale: “Sono ancora pieno di debiti- si dispera Sangalli – la mia casa è stata svenduta ed io non riesco a uscire da questo incubo”.

Eppure non molla. Come Guerino, anche Sangalli è convinto di essere finito in una storia più grande di lui, una storia che a marzo del 2020 racconta per filo e per segno in una lunga denuncia depositata alla procura di Messina e indirizzata, per conoscenza, al CSM e al ministro della Giustizia. Contiene i nomi di diversi magistrati che hanno avuto, o hanno tutt’ora, un ruolo nella sezione esecuzioni immobiliari del Tribunale di Catania. Che cosa è successo? Il giudice a cui sono stati sottratti non solo il fascicolo in questione, ma intere annate di procedure esecutive immobiliari per assegnarle ad un collega, si è rivolto prima al CSM, che non ha riconosciuto la legittimità delle sue rimostranze, e poi al Tar, che gli ha dato ragione. Quando il fascicolo è tornato tra le sue mani, ha annullato l’aggiudicazione della casa di Sangalli e disposto che venisse nuovamente messo all’asta. A quel punto, la banca creditrice ha fatto ricorso e altro giudici hanno confermato l’aggiudicazione. La denuncia di Sangalli riporta dettagli precisi: il coniuge di uno dei giudici della sezione esecuzioni immobiliari partecipa alle aste del tribunale. Come nella storia di Salvatore Guerino, solo che non si tratta dello stesso magistrato.

L’avvocato di Sangalli, Vincenzo Drago, è durissimo: “Si tratta di un sistema”. La denuncia si conclude così: “Al fine di scongiurare che altri utenti possano subire ingiustizie di tal senso (…), il sottoscritto chiede che venga disposta un’indagine a cura del ministro in ordine all’andamento della giustizia attualmente amministrata presso il tribunale di Catania, sezione esecuzioni immobiliari".

Sebbene abbia espressamente chiesto di essere informato di una eventuale archiviazione, Antonio Sangalli sta ancora aspettando di sapere che fine abbia fatto la denuncia.

E arriviamo alla famiglia Ossimo. “Mi spezza il cuore – dice il figlio Alessio – vedere la mia famiglia distrutta per un debito di 30mila euro che è lievitato fino a 850mila. Ho disturbi di personalità gravissimi e ho tentato più volte il suicidio. Questa vicenda mi ha causato una terribile depressione, quando abbiamo perso la casa sono finito per tre anni in mezzo a una strada”.

Stesso tribunale, stessa sezione: la casa degli Ossino, intestata alla madre Carmela, viene venduta all’asta giudiziaria dopo un pignoramento, ma il presidente della sezione sospende il decreto di trasferimento emesso dalla giudice Maria Fascetto Sivillo. Si tratta di uno dei giudici a cui erano state sottratte intere annate di fascicoli: tra questi, c’era anche quello di Antonio Sangalli. E’ lei che aveva fatto e vinto il ricorso al Tar affinchè tornassero di sua competenza. Le storie si intrecciano e negli anni si complicano: processi penali, sentenze annullate, provvedimenti disciplinari, trasferimenti d’ufficio revocati o mai attuati. Ad aprile del 2019, con un lungo elenco di motivazioni il ministro della Giustizia Bonafede promuove un’azione disciplinare nei confronti della giudice Fascetto Sivillo, chiedendo l’applicazione della misura cautelare e la sospensione delle sue funzioni, nonché il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura. La giudice risponde denunciando a sua volta il ministro per aver promosso l’azione disciplinare, denunci archiviata. La Cassazione invece accetta il ricorso della giudice contro la sospensione e il procedimento torna al Consiglio Superiore della Magistratura, la prossima udienza si terrà a marzo prossimo. Ma noi è finita qua. Maria Fascetto Sivillo è sotto processo anche per la vicenda della famiglia Ossino, per i reati di diffamazione, calunnia e abuso d’ufficio.

Secondo la procura di Messina, il magistrato avrebbe deciso di vendere la casa delli Ossino, nonostante la loro istanza di ricusazione che le imponeva di astenersi e di sospendere il processo.

La giudice Fascetto Sivillo nega tutto e rilancia: Dichiara di essere stata minacciata, di essere vittima di un complotto per “avere denunciato parentele favori all’interno del tribunale”, “di essersi messa contro un sistema”, “il sistema”, come lo ha definito Luca Palamara. Lo stesso Luca Palamara che da membro del CSM aveva esaminato e preso i provvedimenti nei confronti della Fascetto Sivillo e di cui il 22 marzo scorso l’avvocato della giudice, Carlo Taormina, ha raccolto in un verbale le dichiarazioni su quanto avvenuto a Catania in questi anni. I  veleni nel mondo della giustizia italiana continuano a diffondersi.

Aste fallimentari: la replica di Roberto Cordio. L'Espresso il 16 marzo 2022.

 Egregio direttore, Le scrivo, su delega del Presidente del Tribunale, con riferimento all’articolo a firma di Giulia Bosetti, pubblicato il 6 marzo 2022 sul settimanale da Lei diretto, dal titolo: Case di giudici e notai: le aste fallimentari sono affari di famiglia.

Tale articolo riporta circostanze in modo parziale e, in parte, non corrispondenti alla realtà; per tale ragione Le richiedo la pubblicazione delle seguenti precisazioni per rispetto della verità dei fatti e per consentire al lettore una valutazione quanto più possibile obiettiva.

Occorre premettere che svolgo le funzioni di presidente della Sesta Sezione civile del Tribunale di Catania (che si occupa – in particolare – delle procedure esecutive) dal mese di luglio del 2018 e quindi non sono a conoscenza delle vicende (cui si fa riferimento nell’articolo) anteriori a tale data.

Preme tuttavia osservare che,

nel dicembre del 2019, l’ispezione ministeriale ordinaria, estesa ai cinque anni precedenti, non ha riscontrato alcuna irregolarità nello svolgimento delle procedure né, tantomeno, nell’organizzazione della Sezione.

nell’articolo si parla – ripetutamente – di fascicoli “sottratti” ad un giudice ed assegnati ad altri giudici, utilizzando un’espressione del tutto impropria che sottende (non si comprende se intenzionalmente) condotte o attività non commendevoli, se non illecite. In realtà, la vicenda cui si fa riferimento è stata una mera redistribuzione (disposta prima del mio insediamento) di un rilevante numero di procedure esecutive, selezionate in base a criteri generali e casuali, al fine di riequilibrare, come previsto e regolato da apposite circolari del CSM, i ruoli tra vari magistrati della sezione, addetti alle procedure esecutive immobiliari, per agevolare la definizione delle procedure più risalenti. Il T.A.R. (investito con ricorso del magistrato che, in precedenza, era assegnatario delle procedure redistribuite) ha annullato, per ragioni squisitamente procedimentali, il provvedimento del Consiglio Superiore della Magistratura che aveva ritenuto legittima e corretta la suddetta redistribuzione; di conseguenza, in ottemperanza alla detta pronuncia, i procedimenti sono stati riassegnati al magistrato dal cui ruolo erano stati prelevati.

l’articolo contiene valutazioni relative a due procedimenti esecutivi - tra le migliaia pendenti innanzi alla Sezione - formulate, esclusivamente, sulla base di quanto riferito da alcuni soggetti sottoposti – in qualità di debitori esecutati – ai detti procedimenti, senza considerare l’esistenza di altri soggetti (quali i creditori o gli acquirenti dei beni venduti all’asta), portatori di interessi confliggenti, dei quali, tuttavia, non viene dato alcun conto. Omettendo ogni considerazione sulle vicende delle singole procedure, occorre precisare che le vendite degli immobili pignorati sono regolate dal codice di procedura civile con dettagliate disposizioni che prevedono vari esperimenti di vendita aperti alla partecipazione, anche per via telematica, degli interessati all’acquisto, con progressivi ribassi del prezzo base (oggettivi e predeterminati per legge) in caso di esito negativo dei singoli esperimenti, il che incide – inevitabilmente – sull’ammontare finale del prezzo di aggiudicazione (spesso fortemente ridotto rispetto a quello base, determinato in sede di stima). Parimenti, nelle procedure più datate, la valutazione del bene è influenzata anche da fattori variabili nel tempo, primo dei quali è l’andamento del mercato immobiliare della zona. In ogni caso, va sottolineato che tutti i soggetti coinvolti nelle varie fasi delle procedure esecutive possono impugnare, anche in via cautelare, i provvedimenti adottati dal Giudice dell’esecuzione, e sottoporli alle valutazioni di magistrati diversi dal titolare della procedura. Nei casi cui si riferisce l’articolo, tali rimedi sono stati esperiti, a volte con esiti negativi per gli esecutati mentre altri sono, verosimilmente, ancora pendenti.

quanto all’esistenza ed al contenuto di denunce penali – menzionate nell’articolo, sulla base delle dichiarazioni degli stessi autori delle denunce – che, come ivi si riferisce, sarebbero state presentate alla Procura della Repubblica di Messina, non posso evidentemente avere alcuna conoscenza. Appare, però, significativo che nell’articolo si faccia solo generico riferimento a denunce e non anche al conseguente esercizio delle azioni penali nei confronti di magistrati in servizio presso questa sezione e, in proposito, si deve precisare che la dott.ssa Fascetto, citata nell’articolo, non fa più parte della sezione dal febbraio 2019 e la stessa – in atto – è sospesa dalle funzioni con provvedimento cautelare reso in sede disciplinare dal C.S.M.

Da ultimo, appare del tutto privo di qualsivoglia fondamento e si respinge categoricamente che la Sezione esecuzioni sia al “…centro dell’intrigo…”, come adombrato, anche per la formulazione del titolo, dall’articolo, così alimentando infondati sospetti sulla gestione delle procedure esecutive e sulla condotta dei magistrati che in atto compongono la sezione esecuzioni, sulla base di notizie acquisite dai soli debitori esecutati e, per quanto emerge dal testo, senza alcuna attività di riscontro e di verifica dei fatti e dei passaggi processuali fondamentali. Sarebbe stato facile interpellare, al riguardo, il sottoscritto per avere una visione obiettiva delle vicende. Il Presidente della Sesta Sezione dott. Roberto Cordio  15 marzo 2022

La mafia, le aste giudiziarie e la scoperta dell’acqua calda. Circolaccio il 7 settembre 2022.

Alle aste immobiliari c’è la mafia? Sono pilotate? Quale verità?

E’ una domanda che in molti si fanno. E molto spesso riguardo alle aste giudiziarie la gente si chiede da tempo: “, ma alle aste c’è davvero la mafia? sono pilotate?” . La gente se lo chiede anche per capire  come si possano acquistare beni apparentemente senza valore e che nessuno cerca e tenerli anche chiusi 

La recente operazione “Hesperia” mette le mani sui beni all’asta. Andranno avanti o si fermeranno? La questione è vecchia. A Castelvetrano, ad esempio, già Giuseppe Grigoli, imprenditore condannato per mafia e a capo di un grosso gruppo di supermercati nella Distribuzione Organizzata, quando era attivo, comprava stranamente immobili all’asta.

Si potrebbe ipotizzare un “gioco nuovo” per ripulire denaro e sfuggire alla legge Rognoni – La Torre? 

Spesso anche senza una logica attinente al suo business.  Comprò una montagna di beni. Eppure, su questo aspetto ,nessun  Pm approfondì. Magari anche per capire di chi fossero quei beni in origine e perchè Grigoli li andava comprare. Alcuni beni erano nella disponibilità della borghesia castelvetranese che aveva avuto problemi economici. Il gioco degli acquisti facili all’asta ,da allora non si è mai fermato.  Basta guardare le carte dai notai o in tribunale e si vedono tutte le operazioni. Sorprende che si indaghi solo adesso. E’ anche strano (noi in passato ne abbiamo parlato) che certi giornalisti A.M. non tocchino mai questo aspetto. I beni all’asta sono una torta molto appetibile per gente senza scrupoli, figurarsi per la mafia. Diverse indagini, terre bruciate e gente che compra tranquillamente. Cosa si nasconde dietro questo modus economico?  Comprare beni  immobili , anche importanti, e nei centri storici e tenerli  anche chiusi , pagando tasse e non sfruttando la struttura ha un senso? Perchè? Dal punto di vista economico è illogico

Il legame mafia aste giudiziarie non è nuovo .

Pubblichiamo questo articolo dal blog “avvocati senza frontiere”

LE VENDITE GIUDIZIARIE NELLE MANI DI COMITATI D’AFFARI, LOGGE, MAFIE E SPECULATORI, CHE CONTROLLANO DAL SECOLO SCORSO IL RACKET DEI FALLIMENTI E LA MAGISTRATURA, OVVERO LA SCOMMESSA PERDUTA DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.

Da Nord a Sud, un sodalizio criminale è in grado di condizionare l’attività giudiziaria attraverso la collusione di intranei ai centri di comando della magistratura, sino alla Suprema Corte di Cassazione, al C.S.M. e all’Autorità Nazionale Anticorruzione, controllando indisturbatamente le vendite giudiziarie e i fallimenti, e garantendo assoluta impunità ai magistrati collusi con banche, finanziarie, usurai, immobiliaristi, partiti di regime, logge massoniche o parareligiose e criminalità organizzata.

Un mercimonio legalizzato in continua espansione, dove spesso sono gli stessi magistrati, funzionari di cancelleria, consulenti tecnici, avvocati e notai delegati a trarne illeciti vantaggi, speculando sia sulle sempre più crescenti difficoltà di molte famiglie italiane a pagare i ratei dei mutui accesi presso le banche, sia sull’irrefrenabile incremento dei fallimenti di imprese e società di piccole e medie dimensioni, alimentato dagli stessi tribunali.

Un sistema perverso che, sulla carta, in apparenza, offre mille garanzie di trasparenza ma che gli operatori per primi considerano una prateria per le scorribande di abituali frequentatori delle aste e mafie. Faccendieri che si propongono come consulenti alle aste si infiltrano tra le pieghe delle regole che governano gli incanti, ne pilotano gli esiti e fanno incetta di immobili, spesso di pregio, a valori di vera e propria ricettazione, grazie anche al recente D.L. 83/2015, convertito nella Legge 132/2015, che accelerando i tempi del recupero offre la possibilità, per la prima volta nella storia delle esecuzioni italiane, di fare offerte inferiori alla base d’asta, seppure nel limite del 25%, eliminando le aste con incanto. Agenzie immobiliari e speculatori senza scrupoli che operano alla luce del sole (spesso legati a doppio filo alle banche creditrici e a magistrati locali), che dopo essere riusciti ad accaparrarsi le prime case in aste semi-deserte, a valori infimi, in genere compresi tra i 10.000 e i 50.000 euro, li offrono con sovrapprezzo agli stessi esecutati, a volte superiore al 50% del valore di aggiudicazione, come di recente accaduto in uno dei casi da noi seguiti, in cui la Procura di Milano, competente territorialmente, ex art. 11 c.p.p., anziché indagare i faccendieri e magistrati del Tribunale di Alessandria, ha vergognosamente perseguito le vittime della denunciata estorsione e i loro difensori, ipotizzando a loro carico, a fini palesemente ritorsivi, i reati di “diffamazione” e “calunnia”!

Questa è la giustizia ambrosiana, l’erede di “mani pulite”, che mette il bavaglio e punisce gli imprenditori e i professionisti onesti che denunciano i reati e non coloro che li commettono, i quali hanno avuto così modo di costituirsi parte civile, a partire dalla Presidente del Tribunale di Alessandria, oltre ad altri giudici e allo stesso aggiudicatario dell’immobile, fiduciosi di poter ottenere ulteriori profitti dal malcapitato imprenditore, questa volta sotto la voce “risarcimento danni morali”, aggravando maggiormente la sua già difficile posizione economica.

UNA GIUSTIZIA CHE FUNZIONA ALLA ROVESCIA DA MILANO A BRESCIA, COME NEL RESTO DI GRAN PARTE DEL PAESE.

Dopo oltre 30 anni di attività abbiamo compreso che il sistema delle aste è strutturalmente marcio e privo di dialettica interna e controlli esterni: solo una rivoluzione civile dal basso potrà cambiarlo, trattandosi di un sistema autoreferenziale dove ogni rimedio giurisdizionale risulta vanificato dall’assoluta discrezionalità nell’interpretazione delle leggi e nell’esercizio dell’azione penale, su cui viene ipotecato un controllo capillare e selettivo da parte dei Procuratori capo, a loro volta selezionati con rigidi criteri di fedeltà e obbedienza agli apparati clientelari dei partiti.

In passato, a partire dall’esperienza pilota del Tribunale di Milano, oltre 15 anni orsono, stampa ed istituzioni hanno dato grande risalto alla pretesa “innovazione” del sistema delle vendite giudiziarie, dedicando intere pagine, anche di pubblicità a pagamento, sui quotidiani nazionali, cercando di farci credere che con gli 8 arresti di avvocati e pubblici funzionari della c.d. “compagnia della morte“, si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l’acquisto degli immobili pignorati e svenduti a valori vili ai soliti “amici degli amici” (cfr. la Repubblica 11/11/2003).

Una massiccia operazione di marketing giudiziario per recuperare la credibilità perduta e riavvicinare i cittadini al sistema delle aste giudiziarie.

Istituzioni e media di regime si affannarono a spiegare ai cittadini che per svariati anni una banda di “professionisti” aveva potuto agire in assoluta impunità, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di una tangente o “pizzo” pari al 10-15% del valore dell’immobile pignorato, ovvero pilotando le assegnazioni su prestanomi, società fantasma e professionisti, i cui interessi ci veniva però sottaciuto risultavano spesso riferibili agli stessi magistrati o loro parenti, come nei casi da noi vanamente denunciati, tra quello dell’ex Presidente della Sezione Esecuzioni immobiliari, Gabriella D’Orsi, in seguito applicata alla Commissione Tributaria, senza che il C.S.M. nè la Procura di Brescia, a quanto consta, abbiano mai adottato alcuna sanzione o provvedimento neppure di carattere disciplinare.

Ma ora (sic!) – ci veniva fatto credere già ben 15 anni fà – le cose sarebbero cambiate (…?).

LA NOSTRA ESPERIENZA CI PORTA A RITENERE IL CONTRARIO.

Si è trattato solo di una operazione di “maquilllage giudiziario” per rilanciare il sistema delle aste e sostituire al volto corrotto della giustizia italiana, uno più credibile agli occhi degli utenti, senza alcuna seria intenzione di cambiare in concreto i criminogeni equilibri di base. Lo dimostrano l’alto numero di denunce che interessano pressoché tutti i tribunali italiani, senza trovare risposta e soluzione da parte degli organi giurisdizionali preposti, compresa l’A.N.A.C. (Autorità Nazionale Anticorruzione), che si è dichiarata incompetente a valutare casi corruttivi che coinvolgono i magistrati, in base ad una recente direttiva dello stesso Presidente Raffaele Cantone, dello scorso 27.4.2017, al quale dal suo insediamento abbiamo segnalato molteplici casi di malagiustizia e vendite pilotate, radicati presso le sedi giudiziarie italiane.

Gli immobili per lo più pignorati dalle banche continuano così a venire svenduti a valori infimi a società contigue o soggetti privati legati a doppio filo agli interessi degli stessi istituti di credito e alle loro clientele politico-affaristiche dedite alla speculazione e allo strozzinaggio legalizzato, come insegna il caso eclatante dell’associazione a delinquere denominata Monte dei Paschi di Siena, anello di congiunzione tra il malaffare berlusconiano e quello delle cooperative rosse, su cui si arenò anche “mani pulite”. Attraverso gli sportelli MPS, come di altri Istituti bancari accreditati ad aprire agenzie all’interno dei tribunali italiani, passano, tra l’altro, senza alcun controllo, il ”riciclaggio” e “l’autoriciclaggio” di ingenti capitali di illecita provenienza, con il beneplacito degli stessi magistrati che dispongono la vendita e l’assegnazione degli immobili pignorati, grazie a una legislazione costruita ad hoc, che, dopo le recenti riforme, nonostante la crisi economica, ha ristretto sempre più le possibilità e gli strumenti di difesa dei cittadini esecutati, lasciati in balia delle mafie locali che controllano i tribunali, sebbene spesso risultino oberati da pretese illegittime e tassi anatocistici e/o usurari.

I casi da noi raccolti e in parte pubblicati nella mappa della malagiustizia vedono tra i tribunali più corrotti Milano, Treviso, Alessandria, Brescia, Firenze, Lucca, Roma, Perugia, Napoli, Catania, Palermo, oltre a quelli segnalatici da ogni altra parte d’Italia, tra cui Padova, Verona, Pordenone, Udine, Trieste, Torino, Genova, Imperia, Bordighera, Pavia, Cremona, Mantova, Sondrio, Piacenza, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Grosseto, Bari, Lecce, Caserta, Salerno, Reggio Calabria, Catanzaro, Palmi, Messina, Ragusa, Agrigento, Sassari, Cagliari, etc.). .

A Palermo, nel 2008, era addirittura il potente clan dei Madonia che tramite un legale riusciva a rientrare “legalmente” in possesso degli immobili appresi a fallimento che, riacquistati all’asta, attraverso prestanomi sfuggivano alle misure di prevenzione patrimoniale a carico dei padrini.

In Calabria, come emerso da diverse indagini del Ros e del procuratore Pignatone erano le cosche degli Imerti-Condello e dei De Stefano-Tegano-Libri, sotto l’egida di Cosimo Alvaro di Sinopoli, a gestire tramite società immobiliari create ad hoc il riacquisto degli immobili confiscati per conto degli affiliati.

In Puglia, erano le famiglie di Salvatore Padovano di Gallipoli e di Coluccia di Galatina a costituire vere e proprie agenzie di intermediazione d’affari, in grado di restituire i beni alle parti inssolventi, dietro pagamento di una provvigione.

In Sicilia, di recente, è emerso l’intreccio tra massoneria, mafia e aste giudiziarie, che ha portato all’arresto di un boss e del gran maestro della Gran loggia italiana Federico II, a seguito dell’operazione della Guardia di finanza di Catania che ha decapitato la cosca Ercolano. L’accusa è di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e turbata libertà degli incanti. Il gran maestro è accusato di avere pilotato, grazie all’intervento intimidatorio della mafia, e in particolare di Aldo Ercolano, un’asta giudiziaria relativa a un capannone che al massone era stato sottratto in seguito al suo fallimento. L’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catania è stata denominata “Brotherhood” (fratellanza’).

Particolarmente emblematico del fenomeno delle aste è l’aspetto del riciclaggio e dell’usura. Per poter partecipare a un’asta bisogna infatti disporre di contanti in tempi molto stretti, versando assegni circolari, cosa che di certo non agevola i compratori comuni e le famiglie che possono contare sul solo reddito da lavoro, tenuto conto dei tempi medi per ottenere un mutuo dalle banche, nonchè dell’assoluta incertezza dell’esito dell’asta, in quanto l’aggiudicazione può venire disposta in favore di terzi. E qui c’è un’altra grave falla, a prescindere dal fatto che all’acquisto si arriva solo con assegni circolari, il sistema delle aste giudiziarie non prevede alcuna forma di controllo sulla provenienza dei soldi che costituiscono il capitale per l’acquisto. In tal modo si rende possibile aggirare le norme antiriciclaggio. Per trasformare il denaro sporco in assegni circolari, ritrovandosi in mano soldi puliti coi quali acquistare all’asta immobili che alla fine rientrano nel circuito legale, basta disporre della compiacenza di un funzionario di banca. Il legislatore, preso dalle logiche del mercato, non si domanda né va veramente a controllare come si sia costituito quel capitale: se provenga da un mutuo, da leciti risparmi e guadagni o dalla massiccia immissione di contante ripulito in banca. La lavanderia di attività e proventi illeciti ha così l’imprimatur e il beneplacito del Giudice dell’Esecuzione …

Lo stesso dicasi per quanto attiene l’ambito delle procedure fallimentari controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano (Radio 101), da cui sono stati sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, ha messo a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici giudiziari locali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale. Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all’insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (C.S.M., Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ’80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando solo nel periodo di riferimento svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione dell’obbligo di registrazione delle denunce nell’apposito Registro delle notizie di reato (obbligo tassativo previsto dall’art. 335 c.p.p.).

Al riguardo, basti ricordare i ben 26.000 procedimenti mai registrati e occultati in soffitta dalla sola Procura di Brescia, sotto la reggenza dell’ex Procuratore Capo, piduista, Francesco Lisciotto, che anche dopo il ritrovamento, dietro nostra denuncia, sono rimasti inesaminati, portando al mero trasferimento/promozione del magistrato con tessera P2, salito alla Corte di Cassazione, senza ricevere alcuna sanzione. Ciò, mentre i P.M. vengono continuamente sollecitati a rinviare a giudizio i cittadini che denunciano prove alla mano i misfatti di magistrati e pubblici funzionari corrotti, forze dell’ordine e altri soggetti in posizione dominante, accusandoli a scopo dissuasivo, come ai tempi del fascismo, di diffamazione, calunnia, oltraggio a magistrato in udienza, resistenza a pubblico ufficiale e altri similari inesistenti reati di natura prettamente ideologica, scaturenti dalle loro stesse inesaminate denunce su cui viene sistematicamente omessa qualsiasi forma di investigazione.

Un fenomeno che caratterizza la cd. “malavita legale” in ogni parte del Paese, mettendo in evidenza come quella che abbiamo a ragion veduta definito “mafia giudiziaria” non sia una questione legata alle sole zone del sud a forte concentrazione criminale, ma una condizione connaturata all’esercizio stesso della giurisdizione e al modo di gestire le funzioni giurisdizionali – a tutela di interessi particolaristici, corporativi e lobbistici –, ovvero al modo di intendere le stesse finalità del diritto, secondo una visione deviata rispetto ai principi dello stato di diritto, ormai storicamente entrata a fare parte della cultura dominante e delle perverse logiche di amministrazione della cosa pubblica, ad esclusivo appannaggio di partiti e gruppi affaristici trasversali, corporazioni, logge massoniche e parareligiose, che della giustizia e del suo capillare controllo hanno fatto strumento di arricchimento occulto e fonte di finanziamento illecito, in base ad un codice non scritto, secondo cui, indipendentemente dalle latitudini, vince chi ha le giuste aderenze e riesce ad entrare a fare parte del “giro”

Analoghi insabbiamenti sono toccati alle denunce di onesti magistrati fallimentari romani, come nel caso del Dott. Paolo Adinolfi, il quale è stato addirittura fatto fisicamente sparire. Un caso di lupara bianca insabbiato dalla Procura di Perugia ad alta densità massonica, trattato anche dalla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto”. Secondo quanto riferito dal magistrato Giacomo De Tommaso, Adinolfi gli confidò il timore di essere seguito e spiato. La moglie di Adinolfi, Nicoletta Grimaldi, rivelò che il marito aveva acquisito prove e documenti che avrebbero potuto far affondare l’intero Tribunale di Roma. Inoltre Adinolfi pochi giorni prima della sua scomparsa aveva chiesto ed ottenuto un appuntamento con il P.M. di Milano Carlo Nocerino, davanti al quale avrebbe dovuto testimoniare quale persona informata sui fatti, senza poi riuscire a presentarsi come accadde anni prima, nel 1993, a Raoul Gardini, di cui venne invece inscenato il falso suicidio, unitamente a quello di Gabriele Cagliari, allo scopo di impedirgli di rivelare il perverso sistema di finanziamento illecito dei partiti di regime e il connubio con la mafia di Totò Riina.

In conclusione, a ns. avviso si tratta di un “codice ” imposto dalla politica e dall’asservimento della magistratura, il cui fine è quello di arricchirsi indebitamente, fare carriera negli apparati della burocrazia statale e ottenere illeciti vantaggi, ovvero di un fenomeno di elevatissima pericolosità sociale e allarme per la stabilità democratica e la sicurezza nazionale, riferibile alle logiche predominanti di gestione del potere e del finanziamento illecito dei partiti, che dal malaffare giudiziario si alimentano, attingendo ingenti risorse, consenso, protezione e scambio di favori, grazie ai legami con la massoneria e la criminalità organizzata e mafiosa.

Un malaffare legalizzato e tollerato dallo Stato-mafia, che pur cercando di mostrare il volto migliore e apparentemente legale dei propri tribunali, non riesce a celare, alla prova dei fatti, il largo coinvolgimento nel racket delle aste e dei fallimenti da parte di magistrati ed infedeli funzionari. Non crediate, dunque, di essere gli unici ad avere subito un’ingiustizia dallo svolgimento delle aste giudiziarie o da anomale procedure fallimentari. Si tratta di un sistema criminale istituzionalizzato, da nord a sud del Paese, voluto ed alimentato da banche, partiti, colletti bianchi e mafie locali che controllano il territorio.

Segnalateci gli abusi subiti da banche, società immobiliari, giudici, curatori, notai delegati, avvocati, pubblici ministeri, od anche, i casi di cui siete a conoscenza, gli daremo voce, pubblicandoli in tempo reale nella mappa della malagiustizia in Italia.

E’ l’unico modo per spezzare il silenzio di Stato e impedire ai poteri criminali di nasconderci la verità, creando una rete di solidarietà e informazione che man mano, sensibilizzando l’opinione pubblica. permetterà di mettere a nudo le contraddizioni del sistema, restituendo la Giustizia ai cittadini onesti e alla forze sane del Paese.

Hanno venduto la Vostra casa ad un prezzo irrisorio?

Hanno venduto all’asta il Vostro immobile senza avvertirvi?

Vi hanno fatto fallire ingiustamente?

I Vostri ricorsi non sono serviti a nulla o il Vostro difensore vi ha abbandonato e nessuno vuole più prendere la Vostra difesa?

Vi hanno impedito di esaminare il fascicolo o sono spariti gli atti? Hanno archiviato senza indagini e senza farvi sapere nulla?

N.B.: Se volete avere assistenza prima di tutto associatevi e scrivete ad Avvocati Senza Frontiere, cercheremo di aiutarvi nei limiti delle nostre possibilità. A causa dell’elevato numero di richieste proveniente da ogni parte non siamo in grado di dare informazioni telefoniche e, per regolamento, possiamo rispondere solo agli utenti registrati e in regola con i versamenti delle quote che ci hanno inviato la necessaria documentazione di supporto.

Antonio Giangrande: Usurati ed esecutati. Aste giudiziarie fallimentari. Il marcio sotto il tappeto: chi si scusa si accusa.

Il business delle Aste giudiziarie fallimentari e della gestione dei beni confiscati a presunti mafiosi.

L’intervento del dr Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sono presidente di una associazione Antiracket ed Antiusura, riconosciuta dal Ministero dell’Interno perché iscritta presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei sodalizi antimafia, finchè lo permetteranno. La mia peculiarità è quella di essere presidente di una associazione che non prende soldi da alcuno, né ha agganci politici o istituzionali. Per tale carica e per la mia storia sono l’unico destinatario delle lamentele di migliaia di cittadini usurati ed esecutati da tutta Italia. Accuse tutte uguali: sfiducia nella giustizia e nelle istituzioni. La mia risposta a costoro è una sola: non caverete un ragno dal buco.

L’assunto è provato dal mio libro “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”. Saggio che raccoglie le storie piccole e grandi sparse in tutta Italia. Storie come quelle di cui si parla in questo periodo al tribunale di Taranto: Foro chiacchierato per questa e per altre vicende. Ma del chiacchiericcio si deve tacere, altrimenti capita quello che capita a me: perseguitato dalla magistratura di Taranto e Potenza perché oso parlarne.

Da tempo mi chiamano i cittadini tarantini per denunciare anomalie nella gestione delle aste giudiziarie fallimentari e di questi ne ho fatto un gran fascio, oggetto di prove, veicolati presso uno studio legale che le raccoglie. Solo in questo periodo è montata la polemica per la presentazione di interrogazioni parlamentari, che ha permesso di parlare pubblicamente del fenomeno senza ritorsioni e stranamente si è parata un’alzata di scudi a spada tratta da parte delle corporazioni coinvolte: Excusatio non petita, accusatio manifesta, ossia, chi si scusa si accusa.

Ma provare a chi? Ai magistrati?

Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo !!! Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggiamone un estratto. A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva l’indipendenza dell’Algeria. In Italia Aldo Moro apriva la stagione del centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al Quirinale. E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello Semeraro. Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni. Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi. Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova di O. Semeraro». Quarantasei anni. Una lentezza inaccettabile per qualunque procedimento. Figuriamoci per un fallimento che ha fatto recuperare in tutto 188.314 euro, ai valori di oggi. Con la doverosa precisazione che un terzo abbondante se n’è andato in spese: 70.000 euro, di cui 50.398 soltanto per gli avvocati. Nei tribunali mancano i cancellieri, è vero. Nemmeno i giudici sono così numerosi. Poi la burocrazia, le procedure...Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto. L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv. Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia di euro liquidati in via equitativa. La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie. Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e i fondi insequestrabili. Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti lesi.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719: “…le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370”. Aste, stop alle accuse: “rispettate tutte le leggi”, scrive Campicelli su “Il Quotidiano di Puglia”. Il presidente del Tribunale di Taranto Francesco Lucafò respinge con fermezza qualsiasi insinuazione su “condotte non lineari” nell’esercizio delle funzioni svolte dai magistrati tarantini impegnati sul fronte delle esecuzioni immobiliari e delle aste giudiziarie: «La legge è chiara e le procedure si rispettano fino in fondo».

Già perché nei tribunali si rispettano le leggi? A questa domanda risponde un ex magistrato antimafia.

Ingroia: «Il tribunale di Roma ignora il lavoro dei pm nisseni». L’ex pm aveva chiesto che l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara venisse ascoltato come teste assistito nel processo sul riciclaggio del tesoro di Ciancimino, scrive il 2 novembre 2015 "Il Corriere del Mezzogiorno". «Sono rimasto sorpreso della decisione del tribunale di Roma di non acquisire gli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta e del Consiglio Superiore della Magistratura sull’ex presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, e di non ascoltare l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara nella veste di teste assistito. Una decisione che trovo assolutamente incomprensibile e che rende purtroppo più difficile la ricerca della verità». Lo dichiara l’avvocato Antonio Ingroia, difensore di Raffaele Valente e del rumeno Victor Dombrovschi. «Il collegio - aggiunge Ingroia - ha totalmente ignorato le evidenti connessioni probatorie esistenti tra il processo di Roma e l’inchiesta di Caltanissetta, che vede indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e la giudice Silvana Saguto per fatti gravissimi all’esame del Csm e su cui si è pronunciato in modo netto anche il ministro della Giustizia Orlando. Nel procedimento romano, infatti, risultava che Cappellano Seminara era stato nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati, e sequestrati proprio grazie alle informative di Cappellano Seminara: come si può negare che ci sia una connessione con quanto emerso nelle ultime settimane a Palermo? La logica suggerisce di sì e invece il tribunale ha deciso di ignorare il lavoro dei pm nisseni. Evidentemente - conclude Ingroia - meglio non sentire, non vedere, non sapere. Ma non è così che si accerta la verità e si fa giustizia».

Ma provare a chi? Agli ispettori ministeriali?

Se, come è stato evidenziato nell’interrogazione parlamentare, tutto è stato insabbiato a Potenza, come può desumersi fonte di prova un atto che non si trova o che sia già valutato negativamente dal sistema giudiziario? E comunque, il Ministero della Giustizia, (andando contro corrente, anche in virtù delle risultanze di una certosina ispezione senza condizionamenti ambientali, da cui risultasse un sistema criminale collusivo non certificato dai magistrati), promuovesse un’azione disciplinare nei confronti dei responsabili, quale risultato ne conseguirebbe, se non un esito scontato?

PUNTATA DEL 29/11/2015. LA GIUSTA CAUSA di Claudia Di Pasquale

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO:…ma un procedimento disciplinare del CSM a carico di un magistrato può durare fino a 5 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE: Ogni anno quanti procedimenti vengono invece archiviati?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: La media è il 94% circa.

CLAUDIA DI PASQUALE: Che cosa?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: Delle archiviazioni sul numero degli esposti. Noi facciamo azione disciplinare sul 7% degli esposti.

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA: Quando un magistrato prende uno svarione nessuno gli fa un procedimento disciplinare.

Ma provare a chi? Ai Prefetti in funzione antiusura ed antiracket?

Nella migliore delle ipotesi, da rappresentanti istituzionali e governativi, ti impediscono di parlare di usura bancaria e di aste truccate, come di malagiustizia in generale; nella peggiore delle ipotesi si parla di Prefetti arrestati o condannati, come Ennio Blasco per corruzione in relazione alle certificazioni antimafia rilasciate, o Carlo Ferrigno per usura e sesso in cambio di aiuto o agevolazioni.

Ma provare a chi? Agli avvocati?

Avvocati? A trovarne uno meritevole di tale appellativo è un’impresa. E se lo trovi te lo tieni stretto, pur essendo sempre un avvocato, coi i suoi difetti e con i suoi pregi. Il fascio di prove sono in mano ad un avvocato coraggioso di Massafra, che per ripicca è isolato ed accusato di Stalking giudiziario. Per altro gli avvocati di Taranto hanno preso una netta posizione.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la Giustizia per scopi elettorali», Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: “preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi”, scrive Enzo Ferrari su "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Ma provare a chi? Ai commercialisti?

Vicenda Aste pilotate, i commercialisti: fiducia nei magistrati, scrive Marcella D'Addato il 15 novembre 2016 su "Canale 189”.

Ma provare a chi? Ai politici parlamentari?

I due parlamentari di Taranto (avvocati) scrivono al ministro per difendere la sezione fallimentare del tribunale. Chiarelli e Pelillo evidenziano quelle che ritengono le estraneità assolute con fatti riguardanti la malavita e attaccano i parlamentari M5S che chiedono di chiarire presunte anomalie, scrive il 16 novembre 2016 “Noi Notizie”.

La polemica. Abusi nella gestione dei fallimenti, bufera sul Movimento 5 Stelle. Pelillo e Chiarelli scrivono al ministro Orlando e attaccano i senatori pentastellati, scrive "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016. Diventa un caso politico la polemica sollevata da un gruppo di senatori del M5S su presunti abusi nella gestione dei fallimenti al Tribunale di Taranto. La reazione parlamentare all’interrogazione dei Cinquestelle arriva in modalità bipartisan con una lettera congiunta degli onorevoli Michele Pelillo (Pd) e Gianfranco Chiarelli (CoR) indirizzata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una lettera nella quale, oltre a esprimere incondizionata fiducia agli operatori della giustizia, i due deputati accusano i senatori del M5S di aver voluto strumentalizzare politicamente situazioni che neppure conoscono.

Ma provare a chi? All’antipolitica parlamentare?

Aste Immobiliari del Tribunale di Taranto, il Meetup amici di Beppe grillo di Massafra risponde, scrive "Vivi Massafra” il 16 Novembre 2016. «Ma quali fini elettoralistici… il movimento 5 stelle non ne ha bisogno, cammina sulle sue gambe, anzi corre, e meno male che c’è!" Meetup Amici di Beppe Grillo Massafra». Da sapere che i 12 senatori della prima interrogazione che ha innescato la polemica ed i 15 senatori della seconda interrogazione sono quei parlamentari che hanno votato contro la responsabilità civile dei magistrati. Ergo: per la loro assoluta impunità ed irresponsabilità! Inoltre è risaputo il fenomeno dei concorsi pubblici farsa o truccati. Allora perché non chiedere ai rappresentanti delle categorie interessate pronti ad aprir bocca, come loro sono stati abilitati?

Ma provare a chi? Al regime omologato dell’informazione, che ha anch’essa assoluta fiducia nella magistratura?

Da premettere che ricevo segnalazioni di inchieste a carico di magistrati ed avvocati delle quali nessuno ha mai saputo nullo, compreso l’inchiesta sul bilancio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Ma è esemplare come la vicenda delle aste giudiziarie fallimentari a Taranto con conseguente interrogazione parlamentare e ispezione ministeriale a gennaio 2017, sia rimasta censurata sulla stampa nazionale e locale, salvo casi eccezionali. Nella cerchia nell’eccezionalità, nella maggioranza dei casi, però, deformando la realtà. Si pensi che il video della intercettazione privata ambientale in cui si dimostra la concussione di un delegato giudiziario è stato pubblicato da un giornale non tarantino, non pugliese, ma da un giornale lucano. E comunque nessuno ha avuto il coraggio di fare il nome dell’avvocato coinvolto a chiedere la presunta tangente.

Su come sono stati trattati i fatti vi è un esempio lampante: “Caso aste giudiziarie a Taranto, un'inchiesta per fare chiarezza. La procura farà chiarezza sulle denunce arrivate dagli agricoltori”. Servizio di Francesco Persiani del 9/11/2016 su TeleNorba. Breve intervista a Paolo Rubino, Tavolo Verde agricoltori: «Non possiamo che registrare una grande sfiducia nelle istituzioni. In questo caso della Magistratura». Il resto dell'intervista dedicata all'Avv. Fedele Moretti, Presidente Camera Procedure ed Esecuzioni Immobiliari. «La Procura indagherà, partendo dai servizi giornalistici di questi giorni, ritenute possibili notizie di reato e per questo acquisiti dall’autorità giudiziaria su disposizione del procuratore capo presso il Tribunale di Taranto Carlo Maria Capristo», chiosa Persiani.

Servizi giornalistici? Lo studio legale che ha il fascio di prove sulle aste di Taranto è tenuta ben lontana dagli autori dei servizi giornalistici mai nati. Perché? Perché i giornalisti son di sinistra e son amici dei magistrati. Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali? Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?

Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano.

Tra gli omologati spicca la figura dell’eccezione. «Cane non morde cane. Le certezze del sistema e i dubbi dei cittadini. Sul caso delle aste pilotate al tribunale di Taranto e delle facili archiviazioni alla Procura di Potenza levata di scudi contro i Cinque Stelle e la nostra inchiesta. A quando la verità? - Scrive Michele Finizio su "Basilicata 24", mercoledì 16/11/2016. - Può darsi che quanto raccontato negli esposti dei cittadini vittime delle “presunte” irregolarità sia tutto falso, Oppure tutto vero. Basta fare qualche verifica. Eppure, a quanto pare, tutti i signori della giustizia, della politica, delle professioni, della stampa, non hanno dubbi: “Tutto regolare”. Vorremmo toglierci il dubbio anche noi, per questo il nostro lavoro di inchiesta sulla vicenda, continua. A presto rivederci».

Ma provare a chi? Agli usurati esecutati?

Le vittime, accusate di mitomania o pazzia, anziché fare un fascio di prove aggregandosi tra loro, anche per rompere il velo di omertà e censura, pensano bene di smarcarsi e fare guerra a sé per salvare il proprio orticello.

La conclusione di questo mio intervento, quindi, è che ogni vittima di qualsivoglia ingiustizia non caverà mai un ragno dal buco perché per gli altri sarà sempre “Tutto Regolare”, mentre per quanto riguarda se stessi: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

E comunque, dopo quanto ho scritto, non mi si chieda perché il mio sodalizio si chiama Associazione Contro Tutte le Mafie. Il perché dovrebbe essere chiaro…

FALLIMENTI TRUCCATI. IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT. Di Antonio Giangrande

Beni confiscati alla mafia in modo strumentale e fallimenti truccati.

Chi controlla i controllori? Dal caso Cavallotti ai casi di Danilo Filippini e di Sergio Briganti.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio Ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Uno dice, meno male che di pulito in Italia ci rimane lo sport. Segno tangibile di purezza, sportività e correttezza.

Giovanni Malagò, n.1 dello sport italiano, un po' abbacchiato per i 16 mesi di squalifica come... nuotatore, scrive Fulvio Bianchi su “La Repubblica”. Un momento difficile per tutto lo sport italiano, specie nelle istituzioni del calcio. Un momento non facile per la Lega Pro e il suo storico presidente Mario Macalli: dossier e denunce sono nelle mani della Procura federale (sperando che Palazzi, almeno stavolta, faccia in fretta) e anche della Repubblica della Repubblica di Firenze. Sono tanti, troppi, i fronti aperti: la Lega Pro ha licenziato il direttore generale Francesco Ghirelli, già braccio destro di Franco Carraro. E Ghirelli ha "confezionato" un dossier (scottante) che Macalli ha fatto avere al superprocuratore Palazzi. Lo stesso Palazzi presto potrebbe deferire il n.1 della Lega, e vicepresidente Figc, per il caso Pergocrema (vedi Spy Calcio dell'8 ottobre). In caso di condanna definitiva superiore ad un anno, decadrebbe dalle sue cariche. Inoltre la Procura della Repubblica di Firenze l'estate scorsa ha rinviato a giudizio Macalli sempre per il Pergocrema. La stessa Procura toscana avrebbe aperto un fascicolo anche sull'acquisto della splendida sede fiorentina della Lega, sede inaugurata da Platini. In ballo ci sono un fallimento e un paio di milioni..

Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."

«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione - sempre più numerose e autorevoli - di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.

Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?

«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».

In cosa consiste la documentazione?

«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».

Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?

«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».

Per quale motivo?

«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».

Per esempio?

«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»

Dica.

«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».

Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.

«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».

Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano...

«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».

"La vicenda Tavecchio? Una sospensione molto particolare.. Ma chi stava nell'ambiente del calcio sapeva perfettamente cosa sarebbe successo. Ho letto varie dichiarazioni e mi sento di condividere chi dice: tutti sapevano tutto, e questi tutti sono quelli che sono andati al voto e che, malgrado sapessero che questo sarebbe successo, hanno ritenuto che era giusto votare per Tavecchio. La domanda va girata a queste persone". Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta così la vicenda dei sei mesi di stop al presidente della Figc decisi dall'Uefa, scrive “La Repubblica”. "L'elezione è stata assolutamente democratica, evidentemente non hanno ritenuto che il fatto potesse essere penalizzante per il proseguo dell'attività di Tavecchio. Io come presidente del Coni di questa cosa, può piacere o meno, ne devo solo prendere atto perché il Coni può intervenire se una elezione non è stata regolare, se ci sono delle gestioni non fatte bene, per problemi di natura finanziaria, se non funziona la giustizia sportiva, per tutto il resto dobbiamo prenderne atto senza essere falsi". Anche il sottosegretario Delrio, presente stamani ad un convegno al Coni col ministro Lorenzin, si è tirato fuori: "Il mondo sportivo è autonomo, il governo non può intervenire". Malagò ha anche spiegato che comunque questa vicenda "crea un problema di immagine al nostro calcio". Carlo Tavecchio, presente anche lui al Coni, ci ha solo detto: "Io sono stato censurato dall'Uefa e non sospeso. L'Uefa ha preso una decisione, non una sentenza". E dal suo entourage si precisa che la "lettera che Tavecchio ha scritto alle 53 Federazioni europee era di presentazione e non di scuse". Il 21 a Roma c'è Platini per presentare il suo libro: Tavecchio è irritato col n.1 dell'Uefa, lo incontrerà? Domani comitato presidenza Figc, venerdì il presidente Figc a Palermo con gli azzurri. Il lavoro va avanti. Intanto, il 27 torna in ballo anche Malagò: processo di appello alla Federnuoto dopo la condanna di 16 mesi in primo grado. La speranza è in drastico taglio, in attesa di Frattini...

Ma almeno Macalli è immune da qualsivoglia nefandezza?

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012. Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi.

Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri? «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui». Dr Antonio Giangrande

Come si truccano le aste giudiziarie, o i procedimenti dei sequestri/confische antimafia o i procedimenti concorsuali o esecutivi.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv o con i suoi canali youtube?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che i procedimenti giudiziari esecutivi sono truccati o truccabili, siano esse aste giudiziarie, o procedimenti di sequestro o confisca di beni presunti mafiosi, ovvero procedimenti concorsuali o esecutivi.

«Oltre ad essere scrittore, sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale antiracket ed antiusura (al pari di Libera). Associazione già iscritta all’apposito elenco prefettizio di Taranto, ma cancellata il 6 settembre 2017 per mia volontà, non volendo sottostare alle condizioni imposte dalla normativa nazionale: obbligo delle denunce (incentivo alla calunnia ed alla delazione) e obbligo alla costituzione di parte civile (speculazione sui procedimenti attivati su denunce pretestuose). Come presidente di questa associazione antimafia sono destinatario di centinaia di segnalazioni da tutta Italia. Segnalazioni ricevute in virtù della previsione statutaria associativa. Solo alcune di queste segnalazioni sono state prese in considerazione e citate nei miei saggi: solo quelle di cui si sono interessati organi istituzionali o di stampa. Articoli giornalistici od interrogazioni parlamentari inseriti nei miei saggi d’inchiesta: “Usuropoli. Usura e Fallimenti truccati” e “La Mafia dell’antimafia».

Perché le segnalazioni sono state rivolte a lei e non agli organi giudiziari?

«Per sfiducia nella giustizia. La cronaca lo conferma. Chiara Schettini tenta di scrollarsi di dosso le accuse pesantissime che l'hanno portata in carcere, aggravate da intercettazioni che la inchiodano a minacce, a frasi sorprendenti come: "Io se voglio sono più mafiosa dei mafiosi". Il Fatto contro i giudici fallimentari: "Sono corrotti". Il quotidiano di Travaglio alza il velo sui giudici fallimentari. A parlare è una di loro: "Ci davano 150 mila euro e viaggi pagati per pilotare le cause...", scrive “Libero Quotidiano”. Il Fatto contro le toghe. No, non è un ossimoro, ma l'approfondimento del quotidiano di Travaglio e Padellaro sui tribunali fallimentari. Raramente capita di leggere sul Fatto qualche articolo contro le toghe e la magistratura. Per l'ultimo dell'anno in casa travaglina si fa un'eccezione. Così il Fatto alza il velo sullo scandalo dei magistrati corrotti dei tribunali fallimentari. A parlare è l'ex giudice Chiara Schettini, arrestata a giugno che al Fatto racconta: "A Roma era una prassi. Viaggi e soldi in contanti erano la norma per comprare le sentenze. Si divideva il compenso con il magistrato, tre su quattro sono corrotti". La Schettini è un fiume in piena e accusa i colleghi: "L'ambiente della fallimentare è ostile, durissimo, atavico, non ci sono solo spartizioni di denaro ma viaggi, regali, di tutto di più, una nomina a commissario giudiziale costa 150 mila euro, tutti sanno tutto e nessuno fa niente". Infine punta il dito anche contro i "pezzi grossi" della magistratura fallimentare: "Si sapeva tranquillamente che lì c'era chi per una nomina a commissario giudiziale andava via in Ferrari con la valigetta e prendeva 150 mila euro da un famoso studio, tutti sanno ma nessuno fa niente...". Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon su “Vicenza Piu”. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. Minerva e il prezzo della verità. Fallimenti, magistrati e giornalisti, scrive Francesco Monteleone su “Affari Italiani”. Giornalisti contro magistrati. Quanto costa essere veritieri? E' la domanda posta dai giornalisti riuniti, all'ombra della statua di Minerva, sulle scale del Palazzo di Giustizia di Bari. “Aste e fallimenti truccati…” Di fronte all’ingresso dello stesso palazzo, una scritta sul muro sintetizza impietosamente il comportamento vergognoso di alcuni magistrati responsabili della Sezione Fallimentare, che hanno subìto provvedimenti duri da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. E la verità bisogna raccontarla...tutta! Una scatola di pasta piena di soldi consegnata in un parcheggio di Trezzano. Altre due buste di denaro, una passata di mano in un ristorante di Pogliano Milanese e una in un pub in zona San Siro. Infine, una borsa di Versace, regalata in un negozio del centro di Milano, scrive Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Ruota per ora intorno a questi quattro episodi l'inchiesta della Procura su un sistema di corruzione nelle aste giudiziarie del Tribunale di Milano. Ville in Sardegna all’asta assegnate dai magistrati ai loro colleghi. Sospeso il giudice Alessandro Di Giacomo e un perito. Otto indagati in tutto. Il sospetto di altri affari pilotati, scrive Ilaria Sacchettoni il 15 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati che premiano altri magistrati nell’aggiudicazione di ville superlative. Avvocati che, in virtù dell’amicizia con presidenti del Tribunale locale, si prestano a dissuadere altri avvocati dall’eccepire. Colleghi degli uni e degli altri che, interpellati dagli ispettori del ministero della Giustizia, su possibili turbative d’asta oppongono un incrollabile mutismo. Massa e Pisa, aste truccate: “Dobbiamo rubare il più possibile”. Chiesta la sospensione del giudice Bufo. L'accusa è di aver sottratto soldi all'erario e aver dato gli incarichi alla figlia dell'amico. Sette provvedimenti. Ai domiciliari anche l’ex consigliere regionale Luvisotti (An), scrivono Laura Montanari e Massimo Mugnaini il 10 gennaio 2018 su "La Repubblica". «Qui bisogna cercare di rubare il più possibile» dice uno. E l’altro che è un giudice, Roberto Bufo, 56 anni, di Carrara ma in servizio al tribunale di Pisa, risponde: «Esatto». E il primo: «Il concetto di fondo è uno solo... anche perché tanto a essere onesti non succede niente». La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se a dirlo è Peter Gomez, il direttore de “Il Fatto Quotidiano”, giornale notoriamente giustizialista e genuflesso all’autorità dei magistrati, è tutto dire. Ed ancora. RACKET DI FALLIMENTI E ASTE. LE CONNIVENZE DELLA PROCURA FANTASMA TRIESTINA, scrive Pietro Palau Giovannetti (Presidente di Avvocati senza Frontiere). Non solo a Trieste. E adesso l'inchiesta sulle aste pilotate a palazzo di giustizia potrebbe salire decisamente di tono: alla Procura di Brescia, competente a indagare sui magistrati del distretto di Milano (dunque anche quelli lecchesi), sarebbero stati inviati mesi fa una serie di documenti di indagine, scrive Claudio Del Frate con Paolo Marelli su “Il Corriere della Sera”. Ed ancora. Tangentopoli scuote ancora Pavia, scrive Sandro Repossi su “Il Corriere della Sera”. Mentre il sostituto procuratore Vincenzo Calia invia due avvisi di garanzia a personaggi "eccellenti" del Policlinico San Matteo come Giorgio Domenella, primario di traumatologia, e Giovanni Azzaretti, direttore sanitario, spunta un'altra ipotesi: un magistrato sarebbe coinvolto nell'inchiesta sulle aste giudiziarie. Caso San Matteo. Ed ancora. Il pm Paolo Toso ha presentato oggi le richieste di pena per i 15 imputati del processo sulle aste giudiziarie immobiliari di Torino e provincia: in totale 62 anni di condanna. Aste immobiliari, il business dal lato oscuro. L'incanto di case e immobili, in arrivo da fallimenti di privati e imprese è, complice la crisi, un settore in crescita esponenziale. Ma anche uno dei più grandi coni d'ombra del sistema giudiziario, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”. Se avete qualche soldo da riciclare, le aste immobiliari sembrano essere fatte apposta. E sono tante: circa 50mila all'anno, per un valore complessivo incalcolabile e, soprattutto, incalcolato. Corruzione e falso, arrestati giudice e cancelliere a Latina, scrive “la Repubblica”. Corruzione in atti giudiziari, concussione, turbativa d'asta, falso. Sono alcune delle accuse contestate a otto persone ai quali la squadra mobile di Latina ha notificato ordinanze di custodia cautelare emesse dai giudici di Perugia e di Latina. Tra gli arrestati, quattro in regime di detenzione in carcere e altrettanti ai domiciliari, anche un magistrato e un cancelliere in servizio presso il tribunale del capoluogo, alcuni professionisti e un sottufficiale della Guardia di Finanza. Al giudice andava una percentuale dei compensi che, in sede di giudizio, lo stesso giudice riconosceva ai consulenti. Le indagini avrebbero accertato come i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest'ultimo una percentuale dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso. Il filone di indagine ha permesso anche di svelare altri illeciti sullo svolgimento delle aste disposte dal Tribunale di Latina per la vendita di beni oggetto di liquidazione. Tutto questo non basta ad avere sfiducia nella Magistratura? Ogni segnalazione conteneva una denuncia presentata, che si è conclusa con esito negativo. Sono stato sentito dagli organi inquirenti, territorialmente toccati dagli scandali, per rendere conto del mio dossier. Gli ho spiegato che sono uno scrittore e non un Pubblico Ministero con potere d’indagine, con l’inchiesta giudiziaria bell’e fatta, né sono una parte con le prove specifiche allegate alla singola denuncia rimasta lettera morta. Val bene che una denuncia può non essere sostenuta da prove, o che al massino vale un indizio. Ma decine di casi a supporto di un’accusa, valgono decine di indizi che formano una prova. Se si ha fede si crede a ciò che non si vede; se non si ha fede (voglia di procedere da parte di PM o suoi delegati), una montagna di prove non basta! Anche il giornalista di Telejato, Pino Maniaci, a Palermo non veniva creduto quando parlava di strane amministrazioni giudiziarie sui beni sequestrati e confiscati a presunti mafiosi, che poi le sentenze non li ritenevano mafiosi. Però, successivamente, l’insistenza e lo scandalo ha costretto gli inquirenti a procedere contro i loro colleghi magistrati, che poi sono i dominus dei procedimenti giudiziari, anche tramite i collaboratori che loro nominano. Comunque di scandali se ne parla e se ne è parlato. Quasi tutti i Tribunali sono stati toccati da scandali od inchieste giudiziarie. Quei pochi luoghi rimasti immuni sono forse Fori unti dal Signore...».

Spieghi, lei, allora, come si truccato le aste giudiziarie e i procedimenti connessi…

«LA NOMINA DEI COLLABORATORI DA PARTE DEL GIUDICE TITOLARE. I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti. Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. La nomina del curatore esecutivo o del commissario concorsuale o amministratore dei beni mafiosi sequestrati o confiscati si dice che avviene per rotazione. Vero! Bisogna però verificare la quantità degli incarichi e, ancor di più, la qualità. Un incarico del valore di 10 mila euro è diverso da quello di 10 milioni di euro. All’amico si affida l’incarico di valore maggiore con liquidazione consistente del compenso! Di quest’aspetto ne parla la “Stampa”. Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Secondo quanto scrivono Il Messaggero e Il Fatto Quotidiano la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo.

L’AFFIDAMENTO E LA GESTIONE DEI BENI CONFISCATI/SEQUESTRATI AI PRESUNTI MAFIOSI. I beni dei presunti mafiosi confiscato o sequestrati preventivamente sono affidati e gestiti da associazione di regime (di sinistra) che spesso illegittimamente sono punto di riferimento delle prefetture, pur non essendo iscritte nell’apposito registro provinciale, e comunque sempre destinatari di fondi pubblici per la loro gestione, perchè vincitori di programmi o progetti allestiti dalla loro parte politica.

LA DURATA DEL MANDATO. Un mandato collusivo e senza controllo porta ad essere duraturo e senza soluzione di continuità. Quel mandato diventa oneroso per i beni e ne costituiscono la loro naturale svalutazione. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore. Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Anche “Il Giornale” ha trattato la questione. Parcelle gonfiate, indagato consulente del Pm. Avrebbe ritoccato note spese liquidate dalla Procura: è stato nominato in 144 procedimenti. Con le accuse di truffa ai danni dello Stato e frode fiscale, il pm Luigi Orsi ha messo sotto inchiesta il commercialista M.G., più volte nominato consulente tecnico del pubblico ministero e dell'ufficio del giudice civile e anche amministratore giudiziario di beni sequestrati. E poi c’è l’inchiesta de “Il Messaggero”. Tribunale fallimentare, incarichi d'oro. Inchiesta sui compensi da capogiro. In tribunale, avvocati e cancellieri ne parlano con circospezione. E lo raccontano come se fosse un bubbone che prima o poi doveva scoppiare, perché gli interessi economici in ballo sono davvero altissimi e gli esclusi dalla grande torta cominciavano a dare segni di insofferenza da tempo.

LA VALUTAZIONE DEI BENI. La valutazione dei beni da vendere all’asta pubblica è fatta in ribasso, anche in forza di attestazioni false dello stato dei luoghi. Per esempio: si prende una visura catastale in cui il terreno risulta incolto/pascolo, ma in effetti è coltivato ad uliveto o vigneto. Oppure si valuta come catapecchia una casa ben manutenuta e rinnovata. Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

LE FUGHE DI NOTIZIE. Le fughe di notizie sulla situazione dei beni, le notizie sulla pericolosità o meno dei loro proprietari, o gli avvisi sulle offerte sono cose risapute.

LA MANCATA VENDITA. Spesso ci sono dei personaggi, con i fascicoli dei procedimenti in mano, che in cambio di tangenti promettono la sospensione della vendita. Altre volte i proprietari mettono in essere comportamenti intimidatori nei confronti dei possibili acquirenti, tanto da inibirne l’acquisto.

LA VENDITA VIZIATA. La vendita del bene all’asta può essere viziata, impedendo ai possibili acquirenti di parteciparvi. Per esempio si indica una data di vendita sbagliata (anche da parte degli avvocati nei confronti dei propri clienti esecutati), o il luogo di vendita sbagliato (un paese per un altro).

L’AQUISTO DI FAVORE. L’acquisto dei beni è spesso effettuato tramite prestanomi al posto di chi non è legittimato all’acquisto (come per esempio il proprietario esecutato), e spesso effettuato per riciclaggio o auto riciclaggio.

IL PREZZO VILE (VALORE TROPPO BASSO RISPETTO AL MERCATO). Il filo conduttore che lega tutte le aste truccate è la riconducibilità al prezzo vile: ossia il quasi regalare il bene da vendere all’asta, frutto di sacrifici da parte degli esecutati, rispetto al valore di mercato, affinchè si liquidi il compenso dei collaboratori del giudice, e, se ne rimane, il resto al creditore».

Cosa si può fare contro il prezzo vile?

«Contro il prezzo vile, se si vuole si può intervenire. Casa all'asta: addio aggiudicazione se il prezzo è troppo basso. Importante ordinanza del Tribunale di Tempio sulla revoca dell'aggiudicazione di un immobile all'asta, scrive la dott.ssa Floriana Baldino il 10 febbraio 2018 su “Studio Castaldi” - Dal tribunale di Tempio, con la firma del giudice Alessandro Di Giacomo, arriva un'importante decisione. Il giudice, a seguito del deposito di un ricorso urgente, ha revocato l'aggiudicazione dell'immobile all'asta, considerando la circostanza che l'immobile era stato venduto ad un prezzo troppo basso rispetto al valore che lo stesso aveva sul mercato. Il giudice, infatti, deve sempre valutare l'adeguatezza del prezzo di vendita rispetto a quello di mercato onde evitare "l'eccesso di ribasso", che sicuramente non va a vantaggio né del creditore né del debitore. L'unico a trarne vantaggio sarebbe soltanto colui che all'asta acquista l'immobile ad un prezzo irrisorio. Il giudice Di Giacomo, accogliendo dunque la tesi dell'avvocato difensore, ha revocato l'aggiudicazione dell'asta in base ai principi stabiliti dalla legge n. 203 del 1991. Tale legge parla impropriamente di "sospensione" ma, in verità, attribuisce al G.E. – fino all'emissione del decreto di trasferimento – un vero e proprio potere di revocare l'aggiudicazione dell'immobile a prezzo iniquo. Il potere di revocare l'aggiudicazione, prima spettava solo al giudice delegato ex art. 108 della legge fallimentare, ma la riforma ha attribuito questo potere al giudice dell'esecuzione, allo scopo di "restituire il processo esecutivo alla fase dell'incanto che andrà rifissato con diverse modalità, affinchè la gara tra gli offerenti si svolga per l'aggiudicazione del bene al prezzo giusto".

La sospensione della vendita. Già prima dell'approvazione del decreto del 2016, molti giudici, di diversi tribunali, avvalendosi della possibilità riconosciuta loro ex art. 586 c.p.c., in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 203/91 di conversione del D.lg. n. 152/91, sospendevano la vendita quando il prezzo era notevolmente inferiore a quello "giusto". Quel decreto, urgente, era stato pensato per la lotta alla criminalità organizzata delle vendite pilotate, ovvero negli anni in cui si assisteva ad una serie di incanti deserti al fine di conseguire, attraverso successivi ribassi, un prezzo di aggiudicazione irrisorio. Questa legge, pensata e studiata per la lotta alla criminalità organizzata, è stata poi applicata in diversi tribunali e per tutte le procedure che non avevano più alcuna utilità. Ogniqualvolta i giudici ritenevano che gli interessi economici del debitore e del creditore venissero frustrati dal prezzo troppo basso di aggiudicazione dell'immobile, potevano, a discrezione, "sospendere la vendita". Così, ad es., il tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, con ordinanza del 9 Maggio 2013 che ha sospeso per un anno l'esecuzione immobiliare dopo cinque tentativi di asta. Nella fattispecie, il prezzo del bene si era talmente ridotto rispetto alla stima del perito che il giudice ha ritenuto che la sospensione di un anno della procedura, potesse essere un congruo termine per tentare la vendita dell'immobile ad un prezzo diverso, e magari più adeguato. Al Tribunale di Napoli invece un giudice è andato oltre restituendo il bene al debitore (ord. del 23.01.2014.), facendo riferimento a due principi importanti. Il primo, della ragionevole durata del processo, ed il secondo, principio cardine a cui il giudice napoletano ha fatto riferimento, quello secondo cui, procedere con l'esecuzione, non era più fruttuoso né per il debitore né per il creditore, sempre per il c.d. "giusto prezzo". Successivamente anche il Tribunale di Belluno si è espresso in tal senso con ordinanza del 3.06.2013.

La necessaria utilità del processo esecutivo. Il processo esecutivo deve avere una sua utilità. Soddisfare il creditore e liberare il debitore dai suoi debiti. Il periodo storico in cui ci troviamo non è sicuramente dei migliori ed il mercato immobiliare è sicuramente molto penalizzato. Si assiste sempre a situazioni in cui alle aste non vi è alcuna proposta di acquisto, almeno fino a quando il prezzo dell'immobile rimane alto. Poi il bene viene venduto ad un prezzo veramente irrisorio ed il creditore non viene soddisfatto dal prezzo ricavato dalla vendita, mentre il debitore si ritrova senza immobile (in molti casi proprio la prima abitazione) e con ancora i debiti da saldare. Molte norme sono intervenute in aiuto degli imprenditori in crisi ed ora tutto sta nelle mani dei giudici dei tribunali, che possono applicare le norme in una maniera più elastica e meno rigida.

La giurisprudenza. Importante, in materia di esecuzione, è la sentenza n. 692/2012 della Cassazione. Occupandosi di esecuzione in materia fiscale, la S.C. ha ribadito che: "Nell'esecuzione esattoriale il potere del giudice di valutare l'adeguatezza del prezzo di trasferimento non solo non subisce alcuna eccezione rispetto l'esecuzione ordinaria ma deve essere esercitato con particolare oculatezza, sì da valutare se, nel singolo caso, sia più dannoso per lo Stato creditore il protrarsi dei tempi di riscossione o la perdita della possibilità di realizzare gran parte del proprio credito, a causa della sottovalutazione del bene pignorato". Una massima enunciata prima della approvazione del "decreto del fare", ovvero quando ancora Equitalia poteva pignorare e vendere all'asta gli immobili dei contribuenti. La massima enunciata dalla Cassazione in materia tributaria, si adegua, ed uniforma, a quello da sempre sottolineato nel procedimento civile.

Il processo esecutivo deve mantenere la sua utilità. La Cassazione specifica inoltre che il concetto di prezzo giusto, non richiede necessariamente una valutazione corrispondente al valore di mercato, ma occorre aver riguardo alle modalità con cui si è pervenuti all'aggiudicazione, al fine di accertare se tali modalità (pubblicità ed altro), siano stati tali da sollecitare l'interesse dell'acquisto. Insomma, sempre più numerose le sentenze a favore del consumatore indebitato che vede svendere i propri beni senza ottenere, per di più, dalla vendita la soddisfazione dei creditori».

Come bloccare un'Asta?

«Se la tua casa è all’asta esistono diversi metodi per sospendere o bloccare definitivamente il pignoramento a seconda delle situazioni. L’importante è che le aste vadano deserte, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Molto spesso – specie quando si ha a che fare con la legge – si prende cognizione dei problemi quando il danno è spesso irrimediabile. Succede a chi ha la casa pignorata che, dopo aver ignorato gli svariati avvisi del creditore e aver sottovalutato le carte ricevute dal tribunale, si chiede come bloccare un’asta. In verità, anche per chi è soggetto a un’esecuzione forzata immobiliare, esistono alcune scappatoie, pienamente legali, ma da prendere con le dovute cautele. Infatti, se è vero che esse consentono di sbarazzarsi del pignoramento dall’oggi al domani, dall’altro lato non vengono accordate dal giudice con facilità e automatismo. Del resto, come tutte le norme, anche quelle che consentono di bloccare un’asta immobiliare sono soggette a interpretazione e, peraltro, come vedremo, lasciano un campo di azione abbastanza ampio alla valutazione del giudice. Ma procediamo con ordine. Il problema della casa all’asta resta il cruccio principale per molti debitori che subiscono il pignoramento. Impropriamente si crede peraltro che la «prima casa» non sia pignorabile, cosa non vera per due ordini di motivi: innanzitutto il limite vale solo nei confronti dell’agente della riscossione (Equitalia o, dal 1° luglio 2017, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione); in secondo luogo perché a non essere pignorabile non è la «prima casa» ma solo l’unico immobile di proprietà del debitore (per cui, se questi ha due case, ad essere pignorabili sono entrambe e non solo la seconda). A dirla tutta, quando si tratta di creditori privati (la banca, un fornitore o la controparte che ha vinto una causa) il pignoramento immobiliare può essere avviato anche per debiti di scarso valore (invece, per i debiti con il fisco il pignoramento è possibile solo superati 120mila euro). Prima di capire come bloccare la casa all’asta sono necessarie due importanti precisazioni. La prima cosa da sapere è che, di norma, prima di procedere al pignoramento (e, quindi, all’asta), il creditore iscrive un’ipoteca sull’immobile. Per quanto ciò non sia vincolante (lo è solo nel caso in cui ad agire sia l’Agente della riscossione), avviene quasi sempre perché attribuisce un diritto di prelazione sul ricavato: in altre parole, il creditore con l’ipoteca si primo grado si soddisfa prima degli altri. La seconda indispensabile precisazione è che, per bloccare la casa all’asta si può contestare le ragioni del creditore solo se questi agisce in forza di un assegno o di un contratto di mutuo. Viceversa, se il creditore agisce in forza di una sentenza di condanna, il debitore non può più metterla in discussione (avendo avuto il termine per fare appello o ricorso per cassazione). Quindi, se il giudice ha fissato il nuovo esperimento d’asta e il creditore agisce perché ha ottenuto un decreto ingiuntivo (ad esempio, la banca per interessi non corrisposti) non è più possibile sollevare eccezioni sul merito del credito (ad esempio sull’anatocismo)».

Ma allora quando si può bloccare la casa all’asta?

«Le ragioni sono essenzialmente legate all’utilità della procedura. Ci spieghiamo meglio, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Lo scopo del pignoramento – e quindi delle aste – è quello di liquidare i beni del debitore e, con il ricavato, soddisfare il creditore procedente. Una procedura che realizza l’interesse di entrambe le parti: quello del creditore – perché così ottiene i soldi che gli spettano – e quello del proprietario della casa – perché in tal modo si libera del debito. Quando però queste due finalità non possono essere realizzate, allora non c’è ragione di tenere in vita la procedura. Si pensi al caso di un’asta battuta a un prezzo ormai così basso da non consentire al creditore di recuperare neanche la metà delle somme per le quali agisce, al netto delle spese legali già sostenute. Nello stesso tempo, l’eventuale vendita – eseguita magari a favore di chi, furbescamente, ha atteso diverse aste prima di proporre un’offerta, in modo da far calare il prezzo – non consente al debitore di liberarsi della morosità, peraltro espropriandolo di un bene per lui vitale. Risultato: insoddisfatto il creditore, insoddisfatto il debitore. Consapevole di ciò il legislatore ha, di recente, emanato due norme che, sebbene possano apparire indipendenti tra loro, se applicate l’una con l’altra possono favorire la rapida conclusione del pignoramento.

COME BLOCCARE L’ASTA. Qualora non si presenti alcun offerente alle aste promosse dal tribunale, il giudice può disporre un ribasso del prezzo di vendita del 25% (ossia di un quarto). Molto spesso, però, nonostante i ribassi e il calo drastico del prezzo rispetto alla stima fatta all’inizio del pignoramento dal consulente del tribunale (il cosiddetto «Ctu», ossia il consulente tecnico d’ufficio), non si presenta alcun offerente. Con la conseguenza che il prezzo d’asta scende sempre di più fino al punto da non soddisfare le pretese dei creditori. Così il codice di procedura stabilisce che «quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori – anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo – è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo». In pratica, tutte le volte che la casa, sottoposta a pignoramento immobiliare, non trova potenziali acquirenti e la base d’asta, a furia di ribassi, arriva a un prezzo che non è in grado di garantire un ragionevole soddisfacimento dei creditori il giudice decreta la fine anticipata del processo esecutivo. Si tratta di una estinzione anticipata del pignoramento che non consente allo stesso di risorgere in un secondo momento. Questo significa che il debitore torna nella piena disponibilità della propria casa prima pignorata e non dovrà subire alcuna asta. Ma quando è possibile raggiungere questo risultato? Quante aste bisogna aspettare? In teoria molte. E proprio per questo è intervenuta la seconda parte della riforma di cui abbiamo accennato in partenza. La seconda norma in evidenza è contenuta nel cosiddetto «decreto banche» dell’inizio 2016. In base all’ultima riforma del processo esecutivo, quando il terzo esperimento d’asta va deserto e il bene pignorato non viene aggiudicato, il giudice dispone un quarto tentativo di asta e, per rendere più allettante la partecipazione degli offerenti, può decurtare fino a metà il prezzo di vendita. Con l’ovvia conseguenza che, andata deserta anche la quarta asta, il prezzo di vendita sarà sceso così tanto da consentire il verificarsi di quella condizione – prima descritta – che consente l’estinzione anticipata del pignoramento: ossia l’impossibilità di conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori. Ecco così che già dopo la quarta o la quinta asta, al più dopo la sesta, è possibile bloccare le aste successive e chiudere una buona volta il pignoramento. Del resto scopo del pignoramento è quello di soddisfare il creditore e non infliggere al debitore una sanzione esemplare. Tanto è vero che una recente ordinanza del Tribunale di Tempio ha stabilito che: «Neppure le esigenze di celerità cui tale particolare procedura è improntata (si riferisce all’ esecuzione esattoriale), in forza delle quali l’espropriazione anche per prezzo vile trova la sua ragion d’essere nel preminente interesse dello Stato procedente, possono giustificare che il trasferimento degli immobili pignorati prescinda da un qualsiasi collegamento con il valore dei beni e che tale valore possa essere anche irrisorio, atteso che l’espropriazione ha la finalità di trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori e non certo di infliggere una sanzione atipica al debitore inadempiente». Secondo il giudice quindi è anche possibile sospendere la vendita se il prezzo è troppo basso. Il che è previsto dal codice di procedura civile che prevede la possibilità di sospendere il pignoramento anche una volta intervenuta la vendita: «Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell’esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto».

LA SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE FORZATA SULLA CASA. C’è poi la possibilità di chiedere la sospensione del pignoramento quando il giudice ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto e di mercato. La misura è nell’interesse sia del debitore (che ha interesse a che la casa si venda al prezzo reale, per poter chiudere la partita col creditore), sia del creditore stesso (che intende recuperare quanto più possibile delle somme che gli spettano). Si tratta di un potere riservato al vaglio discrezionale del tribunale (ma che, ovviamente può essere sollecitato dagli avvocati delle parti) che comporta il differimento dell’asta pubblica “a data da destinarsi” (ossia a quando il mercato sarà più “maturo”). Sempre che, nelle more, non intervengano altri eventi modificativi del processo come, per esempio, il disinteresse del creditore, una trattativa tra le parti che porti a una transazione con sostanziale decurtazione del debito, ecc.

NEL CASO DI FALLIMENTO. Anche se la vendita avviene per via di un fallimento, le cose non cambiano. Difatti, la legge fallimentare prevede, nel caso in cui oggetto della vendita forzata sia un bene appartenente a un imprenditore fallito, che «il giudice delegato, su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, previo parere dello stesso comitato dei creditori, può sospendere, con decreto motivato, le operazioni di vendita, qualora ricorrano gravi e giustificati motivi ovvero, su istanza presentata dagli stessi soggetti». In passato il tribunale di Lanciano, nell’ambito di pignoramento immobiliare conseguente a un fallimento ha preso atto del notevole squilibrio tra il prezzo di base d’asta dell’immobile e quello di mercato (per come attestato dalla perizia del Consulente tecnico d’ufficio) e, sulla scorta di ciò, ha sospeso la vendita della casa pignorata».

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        I Nimby lobbisti.

Per una buona lobby ci vuole una buona Pubblica Amministrazione. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 23 Giugno 2022.  

Le lobby sono troppo potenti, sono opache, tutelano solo gli interessi delle multinazionali, schiacciano i cittadini… Con particolare acribia, nel dibattito pubblico ci si concentra nel contare i difetti delle lobby, ma si presta molta meno attenzione nel valutare la capacità del decisore pubblico e della pubblica amministrazione nell’avere a che fare con i lobbisti. Abbiamo affrontato questo tema nella video intervista alla professoressa di Scienza della Politica Renata Lizzi, per la serie Lobby Non Olet.

La professoressa Lizzi ha confermato quello che noi lobbisti viviamo da tempo sulla nostra pelle. Una Pubblica Amministrazione competente e preparata è una manna dal cielo per chi fa questo mestiere. È invece assolutamente falso il contrario. Non è vero che una controparte impreparata e approssimativa permette al lobbista di fare il suo mestiere con maggiore facilità e disinvoltura. Il vecchio adagio “fagli la supercazzola e vedrai che ti fanno passare tutto senza fiatare” non funziona più e, a ben pensarci, non ha mai funzionato più di tanto. Al contrario, per i lobbisti un interlocutore poco consapevole del ruolo del lobbista e delle sue caratteristiche e prerogative può essere un problema serio. Difficile intendersi. Difficile trovare una soluzione che coniughi l’interesse particolare con l’interesse generale. Impossibile parlare la stessa lingua, quell’esperanto che crea un ponte tra il mondo delle imprese e quello delle norme.

“Per fare buona lobbying ci vuole un decisore pubblico, che non dipenda in tutto e per tutto dalla lobby. Deve avere una sua autonomia decisionale, deve aver definito gli obiettivi e le finalità collettive indipendentemente dall’azione di lobbying” afferma la Renata Lizzi.

“Il lobbista mi fa capire in tre minuti quello che un mio collaboratore mi spiega in tre giorni”. È una citazione attribuita a John Fitzgerald Kennedy, che per anni i lobbisti hanno citato. Da lobbista, non so se possiedo il superpotere di far comprendere in tre minuti a un decisore pubblico una questione che avrebbe bisogno di tre giorni per essere illustrata. Sono certa di no. Ma se, chi mi riceve quando accompagno un mio cliente, è preparato e comprende qual è il ruolo del lobbista, andiamo dritti e spediti al punto con un enorme vantaggio per il mondo imprenditoriale e per l’interesse generale, quindi per il Paese.

Lobbisti ancora senza regole, il registro alla Camera non funziona. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 20 febbraio 2022

A Montecitorio sono stati registrati circa 150 incontri in tre anni. La riforma al regolamento non garantisce una mappatura dei contatti e mancano gli ultimi dati aggiornati.

Molte società di lobbying riferiscono di non aver mai incontrato i deputati all’interno del palazzo. È come se non avessero svolto il proprio lavoro. E non basta la scusa della chiusura per pandemia.

Al Senato non c’è mai stata alcuna regolamentazione interna: il pass per accedere agli uffici viene assegnato su base sostanzialmente arbitraria.

Il manifesto del lobby non olet. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

In questi giorni è in discussione al Senato il disegno di legge sulla rappresentanza degli interessi. È un fatto positivo perché riconosce di fatto che il lobbying è un’attività essenziale della democrazia e che, grazie ad esso, le Istituzioni possono fare le proprie scelte politiche e regolatorie in modo più consapevole. Insomma, più lobby, leggi migliori.

Il DDL Lobbying ha anche il pregio di dare dignità alla figura del lobbista. Su questo versante, noi di Telos A&S siamo impegnati da tempo con la serie di video interviste dal titolo “Lobby non olet”, la lobby non puzza. Nell’ultima puntata, abbiamo intervistato Francesco Clementi, professore di diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, il quale ha precisato cosa non è il lobbista, per spazzare via, ancora una volta, pregiudizi e cattive interpretazioni: “Non è un esperto in mercanteggiamenti, un campione di apericena o una figura che, dietro le colonne, cerca di suggerire soluzioni giuridiche. Non è questo”.

Il DDL è un ottimo inizio, ma può essere migliorato. Insieme a un gruppo di professionisti del settore, abbiamo firmato un manifesto per fare in modo che rispecchi meglio lo scopo per il quale è stato creato: garantire la piena trasparenza della professione, ma anche del lavoro delle Istituzioni, che spesso tanto trasparente non è. Per una volta, stiamo facendo i lobbisti di noi stessi, e il nostro intento non è allargare le maglie per permetterci maggiore libertà. Tutt’altro! L’obiettivo è rendere il testo della legge più preciso, chiaro e rappresentativo della realtà del settore, per fare sì che le regole che stabilisce possano essere seguite in modo corretto e verificabile. Più una norma è precisa, più è facile da ottemperare, e più è facile individuare chi non lo fa. La vaghezza è la migliore amica di chi vuole sfuggire alle regole.

Il manifesto è fatto di sei richieste. Ne cito solo due, quelle che affrontano i temi a mio avviso più critici. Chiediamo di includere l’obbligo di registrazione nell’elenco dei lobbisti di organizzazioni come le associazioni di categoria, imprenditoriali, i sindacati, degli enti pubblici, nazionali e territoriali. Anche loro sono portatori di interesse e svolgono attività di rappresentanza. Chiediamo maggiore trasparenza sul processo decisionale. Questo si traduce nella possibilità che gli iscritti al Registro dei portatori di interesse siano coinvolti nei lavori preparatori per l’elaborazione delle norme attraverso uno strumento importantissimo, quello della consultazione pubblica. Ma che sia obbligatorio per le Istituzioni aprire la consultazione, non una concessione fatta così, a piacere e una tantum…

Ho sottoscritto il manifesto perché credo sia un passo significativo per affermare e dimostrare che la lobby non puzza. Lobby Non Olet!

Quando i Nimby diventano lobbisti. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.  

Dopo Chernobyl, Seveso, Fukushima e i vari ecomostri nati come funghi sulle più belle coste italiane e del mondo, l’importante è dire no a prescindere. È un atteggiamento perfettamente comprensibile, figuriamoci. La salute e l’ambiente, o entrambi, sono rimasti scottati da politiche dissennate e il no preventivo è un anticorpo più che giustificabile. Da questi timori nasce il fenomeno Nimby, che sta per Not In My Backyard, “non nel mio cortile”. Un’espressione che presuppone che sì, le grandi opere vanno fatte, ma l’importante è che non vengano realizzate vicino casa nostra. Da qui la nascita di movimenti locali più o meno vivaci che si oppongono a qualsiasi iniziativa, senza prima chiedersi se possa portare sviluppo e se questo sviluppo possa essere sostenibile o, magari, addirittura apprezzabile.

Per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, ne abbiamo parlato con Alessandro Beulcke, Fondatore e amministratore di Beulcke&Partner e presidente di iniziative quali We Festival e Nimby Forum. Guarda la video intervista. “Gruppi ambientalisti o movimenti nati sul territorio che non vogliono una determinata opera, a torto o a ragione, fanno egregiamente il loro lavoro di lobby” afferma Beulcke.

Nel racconto mediatico, si è diffusa invece l’idea, narrativamente vincente, di Davide contro Golia. Le piccole e indifese associazioni locali contro le potenti lobby nazionali o multinazionali. Un modo di raccontare i fatti che ha indubbiamente il suo fascino, ma che non sempre risponde alla verità. A volte succede esattamente il contrario: gruppi di cittadini, o addirittura un singolo, bloccano un’opera di interesse generale. Un assessore all’urbanistica di una grande città mi ha raccontato dell’accesso a un complesso scolastico, con migliaia di studenti, bloccato da una strada privata, inutilizzata dal proprietario e impossibile da espropriare. Gli studenti, i genitori e il personale scolastico sono tuttora costretti a fare una gimcana per onorare il diritto allo studio, solo perché il proprietario non sembra avere nessuna intenzione di scendere a patti e mollare un osso del quale lui stesso non gode.

Indimenticabile è la storia della gallina innamorata che ha bloccato per anni la costruzione della, tanto agognata, Sassari-Olbia. La gallina prataiola è una specie protetta e razzola allegra proprio dove passa una parte del tracciato della strada: l’apertura del cantiere del secondo lotto di costruzione fu bloccato da marzo a luglio per ben due anni. Il motivo era semplicissimo: in quel periodo dell’anno nidifica questa gallina.

Capita anche di frequente che la legittima protesta sia mossa da associazioni internazionali strutturate e organizzate come lobby, che non sono certo piccole e indifese come il cliché narrativo le fa apparire. In questo caso non si tratta di Davide contro Golia, ma di Golia contro Golia. Niente di male, ovviamente. L’importante è saperlo.

·        La Lobby.

Cosa è la lobby, spiegato dal punto di vista delle polpette. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 19 Dicembre 2022

Cosa vuol dire fare lobby? È sempre difficile fare capire in cosa consiste il mio mestiere, soprattutto in questi giorni di Qatargate nei quali, cito testualmente, dei lobbisti è stato detto che “pascolano per il parlamento ed esercitano lusinghe reputazionali ed estetiche”. Non mi arrabbio più di tanto perché la descrizione è talmente criptica da risultare quasi (quasi!) innocua.

Evidentemente c’è ancora bisogno di dirlo. Il mestiere del lobbista non ha nulla a che fare con i pascoli, le lusinghe reputazionali ed estetiche e, tantomeno con le valigie piene di contanti di cui si è parlato in questi giorni nelle cronache giornalistiche. Non sta a me stabilire cosa ci facessero quelle ricche valigie nelle case dei protagonisti del Qatargate. Posso invece affermare a gran voce che le mazzette non fanno parte del mestiere del lobbista, ma di quello del delinquente. Sempre che quest’ultimo si possa definire un mestiere. Quindi quelli non sono lobbisti.

In generale, attribuisco questi giudizi offensivi sulla professione che svolgo alla semplice ignoranza di come realmente funziona il nostro lavoro. Per alcuni semplice, per altri gravissima ignoranza. Ed è proprio per questo che qualche anno fa, con la mia società Telos A&S, abbiamo deciso di lanciare la video-rubrica Lobby Non Olet, ”la lobby non puzza”, dove intervistiamo gli esperti del settore: professionisti, accademici, osservatori e studiosi del tema.

Questo mese è stato nostro ospite Rocco Renaldi, fondatore e socio di Landmark Public Affairs. Per chiarire cosa sia la lobby, gli abbiamo chiesto di farci un esempio di un lavoro seguito dalla sua società. “Quella del veggie burger è una campagna su cui abbiamo lavorato qualche anno fa a Bruxelles. Si partiva da una proposta di legge europea, un emendamento che avrebbe vietato la denominazione di burger, soprattutto in alcuni mercati dell’Unione europea, e questo avrebbe rappresentato uno svantaggio per i prodotti non a base di carne.” spiega Renaldi.

La campagna vedeva schierati, su posizioni contrapposte, due gruppi di interesse: da una parte la lobby dei produttori di carne, un settore in difficoltà, e dall’altra la lobby delle aziende produttrici di veggie burger, accompagnata da alcune associazioni ambientaliste e di consumatori, secondo cui le così dette fake meat erano in linea con gli obiettivi di protezione ambientale delle istituzioni europee.

Alla fine ha avuto la meglio il secondo gruppo. E gli hambuger vegetali si possono chiamare burger, a patto che per il consumatore sia chiaro che il prodotto non contiene carne. Se avesse vinto l’altro gruppo di interesse, i produttori delle alternative vegetali avrebbero dovuto inventare nomi fantasiosi per dare l’idea del prodotto. Io, in italiano, avrei prosaicamente suggerito “polpette”.

Invece, è successo l’inverso per i surrogati del latte. Le Istituzioni Europee hanno deciso che, per esempio, non è possibile usare la parola “latte” associata alle bevande vegetali. Niente più latte di riso, soia e nemmeno di mandorla o di cocco.

Ecco come funziona la lobby. Uno “scontro” tra argomentazioni, supportate da studi e, talvolta, anche da ragionamenti di natura etica. A volte si vince, a volte si perde. Si vedono fake meat e real meat, fake milk e real milk. Ma non si vedono le mazzette.

"Lobby nera" di Milano verso l'archiviazione: resterà solo il fango. Dopo oltre un anno di indagini e di fango mediatico, la procura di Milano si appresta a chiedere l'archiviazione per il caso della "Lobby nera". Francesca Galici il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dopo lunghe indagini - e molte accuse - la procura di Milano si avvia a chiedere l'archiviazione per la cosiddetta "Lobby nera", la presunta organizzazione che coinvolgerebbe esponenti di Fratelli d'Italia e anche della Lega. Il tutto era partito da un'inchiesta giornalistica del sito internet Fanpage.it e ora, a distanza di oltre un anno, il caso si avvia a una conclusione.

Cosa non torna nell’inchiesta sulla lobby nera

L'istanza, una volta vistata dall'aggiunto Maurizio Romanelli, sarà inoltrata all'ufficio gip di Milano. Tra le persone indagate inizialmente dai pm Giovanni Polizzi e Piero Basilone, che nel frattempo è diventato procuratore a Sondrio, c'erano anche l'eurodeputato di Fratelli d'Italia, Carlo Fidanza, e l'esponente della destra radicale milanese, Roberto Jonghi Lavarini. A questi due nomi si erano aggiunti, tra gli altri, anche Chiara Valcepina, consigliere comunale di Fratelli d'Italia, l'eurodeputato leghista, Angelo Ciocca, e il consigliere regionale, ex Lega, Massimiliano Bastoni. Erano in tutto 8 le persone al centro dell'indagine, finite nel calderone mediatico per settimane. Per tutti loro l'accusa è di finanziamento illecito e riciclaggio. Accusa che presto potrebbe essere archiviata.

Nelle indagini erano state effettuate perquisizioni, in particolare a carico di Jonghi Lavarini, Rotunno e Panchulidze. Questi ultimi due sono amici e collaboratori del "Barone nero", soprannome affibbiato a Jonghi Lavarini. In particolare, l'indagine che è stata aperta a seguito dell'inchiesta di Fanpage.it puntava a verificare se le parole dei protagonisti, filmati a loro insaputa dai cronisti di Fanpage, descrivevano realmente un presunto "sistema" di finanziamenti "in nero" che avrebbe funzionato davvero in altri casi.

I video filmati all'insaputa dei presenti erano numerosi, ottenuti grazie a un giornalista di Fanpage che per mesi ha lavorato come "infiltrato" nelle fila della destra lombarda. Tutto il materiale ottenuto da Fanpage era finito al vaglio della procura di Milano, che ha effettuato anche accertamenti col supporto della Guardia di finanza, fino all'istanza di archiviazione.

Dall'intervista di Brando Benifei ad Andrea Bulleri su "Il Messaggero" il 12 dicembre 2022.  

L`immagine dell`Eurocamera esce molto danneggiata da questa storia.

"Per questo bisogna agire subito con la massima severità, a tutela di chi ogni giorno in quelle aule si fa il mazzo per ottenere dei risultati. Bisogna irrobustire le difese democratiche. A cominciare da una stretta sulle cosiddette "porte girevoli": basta con gli ex parlamentari che il giorno dopo si mettono a fare i lobbisti"

Il caso. Flop dell’inchiesta di Fanpage e Formigli, Fidanza è innocente ma intanto è stato lapidato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Dicembre 2022

“Dai neonazi ai soldi sporchi. I video che accusano FdI”, la Repubblica, apertura di prima pagina, 2 ottobre 2021. “La lobby nera non esiste. Formigli-Fanpage erano tutte bufale”. Apertura di Libero, 20 dicembre 2022. Come dimenticare quell’autunno di un anno fa? C’erano state prima la condanna di Mimmo Lucano, e giù polemiche sulla sinistra, poi la “scandalosa” condotta di Luca Morisi a mettere in imbarazzo la Lega soprattutto per il libero consumo di sostanze psicotrope proprio sull’uscio di casa. Ma mancavano solo quarantotto ore alle elezioni amministrative, quelle che avrebbero confermato come vincente la sinistra a Roma e Milano, quando era scoppiato il caso di Carlo Fidanza, eurodeputato di Fratelli d’Italia e uomo forte di Giorgia Meloni a Milano. È la storia che sta evaporando proprio in questi giorni, come preannunciato dal titolone di Libero, con la richiesta di archiviazione da parte della procura.

Che il “caso” non esistesse, che la denuncia del solito Formigli fosse una sciocchezza costruita dai suoi amici di Fanpage, l’abbiamo detto subito, anche se in pochi. Tra questi Pietro Senaldi, che oggi lo rivendica con giusto orgoglio. Ma anche noi del Riformista, nel nostro “piccolo ma buono” avevamo esibito un bel titolo, pur se inquinato da quel po’ di romanesco che noi del nord non apprezziamo. “E mo’ pure i giornalisti con le barbe finte”. Eh sì, perché il famoso caso politico piombato come un missile sulle elezione era il frutto di una stupidata che più demente non si può. Un emissario del blog napoletano si era “infiltrato” a Milano per tre anni nel mondo della destra con il corpo ricoperto di microfoni a caccia di delitti per poi far infliggere le pene. Magari l’intento non era di tipo elettoralistico nelle intenzioni del giornale, ma sicuramente ci ha messo sopra la zampata il caro Formigli con la sua trasmissione del giovedì, mentre si era agli sgoccioli della campagna elettorale. Che cosa di meglio della bomba sulla “lobby nera”?

Le cose sono andate così. Il signor barba finta di nome Salvatore Garzillo, che forse vive a Milano ma sicuramente sa poco della vita politica del capoluogo lombardo, per infiltrarsi nel mondo di Giorgia Meloni va ad agganciare uno che con Fratelli d’Italia non ha più nulla a che fare da tempo, che è stato espulso, e anche condannato a due anni di reclusione per apologia del fascismo. Un tipo particolare, che i giornali definiscono “il barone nero”, si chiama Roberto Longhi Javarini, è effettivamente un nostalgico, ma assolutamente innocuo. Non ci sentiremmo di escludere che nelle serate più allegre con gli amici le sue battute sul fascismo e l’antisemitismo superino l’accettabile, con condimento costante di braccio teso. Ma è uno che vive nel suo brodo. La questione è, che cosa ha scoperto sulla destra milanese di scorretto in tre anni lo spione di Fanpage? Niente, a quel che se ne sa. Anche perché se ci sono video oltre alle immagini mandate in onda l’anno scorso, non sono state rese pubbliche, nonostante le abbia a più riprese richieste la stessa Giorgia Meloni prima di prendere provvedimenti su esponenti del suo partito.

Chi è Carlo Fidanza, l’europarlamentare che si è auto-sospeso da Fratelli d’Italia per un’inchiesta giornalistica

Che cosa c’entra Carlo Fidanza in tutto ciò? È stato letteralmente incastrato in campagna elettorale, perché Longhi Javarini, che evidentemente, come succede, ha comunque mantenuto rapporti amichevoli con i vecchi camerati, lo ha contattato per presentargli colui che si palesava come un imprenditore simpatizzante della destra e che altri non era se non lo spione di Fanpage. Nelle campagne elettorali a volte si è superficiali e distratti, come quando ai comizi ti lasci fotografare non sai bene con chi, e anni dopo ritrovi quell’immagine in una base terroristica piuttosto che a casa di un mafioso. Peggio ancora va con i finanziamenti. Arriva un finto imprenditore che ti offre un contributo elettorale e stai poco attento. Dal video andato in onda su La7 un anno fa la cosa più fastidiosa è sicuramente qualche braccio teso di troppo, qualche battuta antisemita decisamente sconveniente (che giustamente ha fatto indignare la comunità ebraica ) e Fidanza che scherzava. Ma nulla di preciso su finanziamenti illeciti.

Anche perché non ci sono stati. Anzi, quando il signor Barba Finta ha dato un appuntamento a Longhi Javarini in un parco dicendo che gli avrebbe portato una valigia piena di soldi per il partito, all’incontro non si è presentato nessuno. E chissà che cosa c’era in quella valigia. E che cosa avranno registrato quel giorno gli inutili microfoni? A onor del vero qualche imbarazzo di Fidanza è stato registrato, nella famosa serata in cui si scherzava con i saluti romani. Perché, a sollecitazione del finto imprenditore che voleva finanziare una parte della campagna elettorale per le comunali, il parlamentare europeo si era un po’ barcamenato. “Le modalità sono – aveva detto – versare nel conto corrente dedicato. Se invece voi avete l’esigenza del contrario e vi è più comodo fare del black, lei si paga il bar e col black poi coprirà altre spese”.

Stiamo parlando di un aperitivo offerto a una candidata al consiglio comunale! E il direttore di Repubblica vi ha dedicato l’apertura del giornale! La cosa è finita alla Procura di Milano, anche perché il più forcaiolo e grillino del mondo ambientalista, Angelo Bonelli, ha pensato di essere lui il primo a presentare un esposto e a fare finire sul registro degli indagati ben otto persone, alludendo anche a rapporti con la mafia. Tutto in cenere, un anno dopo. E Carlo Fidanza, che senza quell’inciampo magari oggi potrebbe essere ministro, riabilitato. E stiamo a vedere come darà la notizia il quotidiano di Maurizio Molinari.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Professione indignati. Il Qatargate e l’eterno ritorno dello scoop populista e giudiziario. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 16 Dicembre 2022.

Ad alcuni bastano le foto delle banconote sequestrate per gridare alla corruzione. Ma a un tribunale serve molto di più: capire chi ha dato i soldi a quale funzionario e soprattutto per fare che cosa. Senza queste risposte può essere una normale attività di lobbying o al massimo un traffico di influenze

Ogni volta che esplode un qualsiasi straccio di scandalo, fioriscono articoli densi di sdegno, reprimende e autodafé. Lo stesso vale anche per l’ultimo arrivato: il Qatargate. Pensate: un paese semidesertico di poco più di due milioni di abitanti che vuole papparsi il Parlamento europeo, 705 membri, senza contare assistenti e personale amministrativo, in rappresentanza di oltre quattrocento milioni di cittadini.

L’indignato speciale che dorme in ogni animo di benpensante “de sinistra” non va mai in vacanza, al massimo si appisola in attesa di potersi risvegliare al primo refolo. E che sollievo, vuoi mettere, liberarsi di certo estenuante garantismo per far sfogare il forcaiolo dentro di noi, per gridare vergogna (sempre agli altri) e per minacciare di costituirsi parte civile in un processo che ancora deve iniziare?

E poi diciamo la verità: cosa vuoi difendere di fronte alle foto di mazzette, debitamente impilate, alle intercettazioni dove il sapiente dispensatore di verbali si è preso la briga pure di tradurre il termine combine in intrallazzo, che suona meglio? Ma anche di fronte alle prime notizie di confessioni come si può reagire? In fondo sono tutte “voci di dentro”, beninteso, ma sono anche le uniche che abbiamo finora, e ci si arrangia con quelle.

Vogliamo mettere l’antropologia criminale che i volti, il tenore di vita, il sito Instagram degli inquisiti  suggeriscono come assolutamente sovrapponibile a quello di un qualsiasi elettore di destra? E invece è gente “de sinistra”. E addirittura, come nel caso di Antonio Panzeri, a sinistra della sinistra.

Il can can è sempre lo stesso, lo abbiamo visto già in altre inchieste, alcune coronate da successo, altre no, ma tutte accomunate dagli stessi iniziali toni trionfalistici. Il che dovrebbe far pensare che il garantismo, ancorché vigorosamente sputtanato (è il caso di dirlo) dal berlusconismo e dalla parentela di una prosperosa ragazza marocchina (guarda un po’ la coincidenza) col rais Mubarak, altro non è che un sano smagato scetticismo verso l’eterno ritorno del sempre uguale scoop giudiziario, uno dei pochi pilastri su cui si regge l’esangue stampa di casa nostra (sui giornali stranieri come il Financial Times e il Guardian di Qatar e Marocco non se ne trova traccia se non nelle pagine dedicate al mondiale).

Non si tratta di negare la realtà quanto di porsi allo stato delle cose qualche domanda e almeno un preoccupante interrogativo.

Innanzitutto, ferme restando le vivide immagini delle mazzette impilate, non è dato sapere a che cosa concretamente servissero i soldi in questione oltre ad arricchire gli indagati che li percepivano come mediatori di ulteriori illeciti favori che sarebbero dovuti essere concessi da parlamentari europei. al comprensibile e nobile moto d’indignazione, le foto dei pacchi di soldi servono a ben poco se non si individua il pubblico ufficiale quale utilizzatore finale e soprattutto la specifica attività legata alla sua funzione e oggetto della corruzione.

In Italia si tratterebbe si è no di “traffico di influenze illecite” (articolo 346 bis del codice penale) punito con pene assai modeste (fino a quattro anni e sei mesi). 

Un reato che non consentirebbe neanche le intercettazioni e che punisce l’intermediazione tra un privato che chiede e un pubblico ufficiale che dispone. Inoltre si tratta di un reato di difficile applicazione perché a mezza strada tra quello più grave di corruzione (i soldi dati al pubblico ufficiale) e una normale e lecita attività di lobbying

Qui subentra il secondo quesito: a chi erano destinati quei soldi e cosa si doveva ottenere dalle istituzioni europee? Ebbene, un altro mistero allo stato delle cose. Il Parlamento europeo è un’assemblea che non ha iniziativa legislativa (che è della assai più potente Commissione), ma è responsabile dell’adozione della legislazione dell’Unione insieme al Consiglio, l’organo che riunisce i ministri dei governi dei 27 Stati membro. Cioè può agire in concerto con il Consiglio e modificare norme europee, ma non può presentarle da sola.

Se, come leggiamo, con quei soldi così ben impilati, si doveva “modificare una percezione” verso un qualche illiberale paese arabo, piaccia o meno siamo nell’ambito di un’attività di lobby, opaca ed eticamente censurabile, ma nulla più di questo. Roba da indignati in servizio attivo, appunto.

Meriterebbe invece una più attenta riflessione la singolare modalità dell’indagine originata, a quanto leggiamo, da un’iniziativa dei servizi segreti belgi, che hanno agito senza dare notizia all’autorità giudiziaria, intercettando e perquisendo le abitazioni degli indagati senza alcuna preventiva autorizzazione prima di investire la magistratura ordinaria.

Il Belgio ha un’efficiente e dedicata agenzia specificamente destinata alla lotta contro la corruzione, l’OCRC (l’Ufficio centrale per la repressione della corruzione, una branca della polizia giudiziaria federale) sicché non è ozioso chiedersi come mai siano intervenuti i servizi e cosa cercassero per potere giustificare delle eccezioni così eclatanti allo Stato di diritto (capirei atti di terrorismo ma avrei difficoltà ad accettarlo, confesso, per una storia di lobbying prezzolato).

Appartengo a una generazione abituata a diffidare dei servizi segreti (per capirne i motivi suggerisco di rivedere su RaiPlay le puntate straordinarie de La Notte della repubblica di un giornalista vero, Sergio Zavoli). Il segreto non va bene con la trasparenza della democrazia. Soprattutto rilevo che un’indagine come questa, condotta da un giudice che è una via di mezzo tra Di Pietro e Carofiglio (e già questo…) ancor prima di individuare possibili colpevoli singoli, ha già buttato discredito sulle istituzioni europee, le stesse che hanno mantenuto salda l’Unione europea negli anni terribili della pandemia e oggi della guerra.

Si cerchino, ci mancherebbe, le responsabilità singole, si eviti cortesemente, per amore di scoop, vieto moralismo e rancore politico di fare l’ennesimo favore ai sovranismi nemici della democrazia. Non ce n’è bisogno, se non per i nemici dell’Europa libera. Si cessi di alimentare, una buona volta, il populismo demolitorio che poi ipocritamente si condanna quando ormai è troppo tardi.

Qatargate, tutte le falle del Parlamento Ue: pochi controlli, molti conflitti d’interesse, tenui sanzioni.  Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 15 Dicembre 2022.

Problemi e rimedi secondo Federico Anghelè di The good lobby. «A fronte di tanta burocrazia preventiva, le verifiche ex post risultano lasche»

Rendere obbligatorio il Registro della trasparenza per Parlamento europeo e Consiglio europeo come già accade per la Commissione europea; poter monitorare l’agenda degli incontri di lavoro dei parlamentari di Strasburgo; autorizzare controlli indipendenti su tutte e tre le istituzioni cardine della Ue; regolare il fenomeno delle «porte girevoli» che consente agli ex eurodeputati di accedere agli uffici delle istituzioni; bloccare il cortocircuito causato da quel 30% e passa di parlamentari che, una volta eletti, non lasciano la propria attività professionale. Sono i suggerimenti di Federico Anghelè, direttore di The good lobby (Ong impegnata a difendere la cultura partecipativa dei cittadini), per evitare altri inciampi alle istituzioni Ue alla luce dell’inchiesta belga su presunte tangenti da parte di Qatar e Marocco in favore di parlamentari disposti a parlar bene di quei governi. Milioni di euro in cambio di «favori d’immagine».

«Double check»

Frotte di lobbysti puntano quotidianamente sulle istituzioni Ue poiché per loro è spesso vitale ottenerne l’ascolto. Tutto fisiologico e consentito, a patto di muoversi nel rispetto della legge e di essere trasparenti. A Bruxelles e Strasburgo le regole in tal senso valgono tuttavia solo per alcuni. «La Ue, con oltre 30 mila lobbysti a Bruxelles (capitale dei gruppi di pressione seconda solo a Washington, ndr), è considerata un faro della trasparenza», racconta Anghelè, «ma in realtà esistono ampie falle, specialmente in Parlamento». Il Registro della trasparenza, a cui sono iscritti oggi oltre 13 mila soggetti (aziende, società di lobbying, Ong, associazioni di categoria, sindacati, studi legali, confessioni religiose) e la cui inclusione consente di operare con le istituzioni, è ritenuto poco efficace. Infatti, da un lato i dati dei soggetti (fatturati, personale, storia ecc) non sono omogenei rendendoli poco affidabili. Dall’altro solo la Commissione europea (commissari e alti funzionari), ovvero l’organo esecutivo, ha l’obbligo di dichiarare le attività e gli incontri avuti con le lobby. Qui il controllo è a cosiddetto «double check»: quanto verbalizzato dal lobbysta e quanto dalla Commissione deve coincidere.

Le scelte dei gruppi

Non funziona così però con i 705 parlamentari che legiferano e votano risoluzioni. Nessun obbligo: gli incontri restano discrezionali, autonomi e privati. «La mancanza di vincoli (eccetto la denuncia dei regali ricevuti, ndr) è rivendicata dagli eurodeputati in base al principio della libertà di azione per chi è eletto», spiega il direttore di The good lobby, «una indisponibilità tuttora inscalfibile». Anche se va detto che obblighi sussistono in Parlamento per i relatori dei dossier seguiti, per i presidenti di commissione e per i cosiddetti «relatori ombra», ovvero delle minoranze politiche. Inoltre, per quanto i singoli eurodeputati siano svincolati dal rendere conto di ciò che fanno, i gruppi parlamentari a cui appartengono possono decidere diversamente fissando regole autonome. Come segnala Transparency international Ue, primi nel collaborare sono i Verdi, meno accade invece con S&D e Ppe, molto meno con le destre.

Porte girevoli

Tra il giugno 2019 e il luglio 2022 a Bruxelles e Strasburgo gli incontri di lobbysti con il Parlamento sono stati circa 28 mila, ma solo metà resi pubblici secondo le regole del registro. I Paesi più virtuosi risultano il Lussemburgo (100%), la Svezia (95%) e la Danimarca (93%), mentre in fondo alla classifica si trovano Lettonia (25%), Cipro (17%) e Grecia (10%). Un conto però sono le autorizzazioni e le dichiarazioni ex ante, un altro le verifiche ex post. «Il punto», conferma Anghelè, «è che a fronte di una grande mole di burocrazia preventiva, spesso esagerata, i controlli successivi scarseggiano, sono laschi». Non esistono organi indipendenti che verifichino il rispetto delle regole da parte di Consiglio, Commissione e Parlamento europeo. La sola sanzione in caso di violazione da parte del lobbysta (che dal 2022 può incorrere in verifiche amministrative) è il ritiro della tessera del registro. In più, mentre per la Commissione è previsto un «periodo di raffreddamento» da uno a tre anni durante il quale commissari e alti funzionari che lasciano l’ente non possono operare su ciò di cui si occupavano - trasformandosi in lobbysti -, questo per i parlamentari non è previsto. Avviene così il fenomeno delle «porti girevoli», come sarebbe accaduto con Antonio Panzeri, ex eurodeputato e poi fondatore della Ong Fight impunity (cosa che gli permetteva di avere accesso facile alle istituzioni). «Oggi chi termina con la presenza di un seggio in Parlamento ha diritto a un’indennità, per ricollocarsi», ricorda il direttore di The good lobby, «ma io credo che sia necessario, anche per loro, un periodo di raffreddamento di almeno un anno».

Francia, i dubbi sui rapporti con gli emiri. Anche a Parigi divampa la polemica, l’opposizione chiede chiarezza. Lodovica Bulian il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il Qatargate non più letto solo come un «italian job». Gli altri Paesi europei accendono i riflettori su legami con l'Emirato. Tra diffidenze e sospetti reciproci, lo scandalo all'Europarlamento scuote le assemblee parlamentari degli Stati. Secondo il sito Politico Eu, le polemiche divampano in Francia. L'opposizione chiede di accendere un faro sui rapporti stretti e di lunga data tra Parigi e il Qatar. Affari dalla sicurezza, all'energia alla cultura. Lo stato del Golfo ha investito molto in Francia e possiede una delle squadre di calcio di punta del paese: il Paris Saint-Germain, scrive Politico. Martedì, il governo francese si è confrontato all'Assemblea nazionale con l'opposizione sulle norme nazionali in materia di lobbismo. Il quadro, ha affermato un parlamentare socialista, non è adatto a prevenire possibili tentativi di corruzione da parte di paesi stranieri. «I fatti sono gravi, spetta alle istituzioni europee far luce su di essi e trarne le conseguenze», ha risposto il sottosegretario Olivia Grégoire, aggiungendo però che l'esecutivo è aperto a rivedere le regole per renderle più restrittive. Il Qatar è il quarto paese più visitato da parlamentari e senatori francesi dal 2019. Di questi, 12 hanno trascorso un totale di 38 giorni nell'Emirato, rivela il sito. I viaggi sarebbero stati finanziati direttamente dallo stato del Golfo, come evidenziano alcuni documenti ufficiali citati da Politico. Documenti che però non forniscono informazioni su budget e spese. Ora i sospetti dilagano. E del resto la procura finanziaria francese da tempo indaga su ipotesi di corruzione relative all'assegnazione al Qatar della Coppa del Mondo 2022 e al ruolo svolto da funzionari francesi di alto rango. Anche in Francia erano scoppiate violente polemiche sull'assegnazione della Coppa a Doha. A novembre, alcuni parlamentari di sinistra avevano denunciato pubblicamente le intense attività di lobbying del Qatar per far cambiare idea sulla tutela dei diritti nell'Emirato.

Faro sui "cieli aperti" dell'Ue: l'accordo che ha favorito il Qatar. Andrea Muratore il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Scopriamo l'accordo sull'aviazione Ue-Qatar al centro di nuove polemiche. Ma è presto per parlare di un trattato figlio del Qatargate. Vediamo perché

Tra il 2019 e il 2021 l'Unione Europea ha negoziato un ampio accordo sull'aviazione civile col Qatar che ha avuto il suo compimento nella formalizzazione dell'intesa avvenuta il 18 ottobre 2021. Un trattato nello stile open skies paragonabile a quelli che l'Ue ha formalizzato con Stati Uniti, Canada, Marocco, Georgia, Giordania, Moldova, Israele e Ucraina è stato applicato all'emirato del Golfo. In sostanza, ai sensi dell'intesa, si legge sul sito della Commissione Europea, "tutte le compagnie aeree dell'Ue potranno operare voli diretti da qualsiasi aeroporto dell'Ue verso il Qatar e viceversa per le compagnie aeree del Qatar".

La genesi dell'accordo

A parole si potrebbe leggere come una grande svolta di rilancio dell'aviazione dopo lo stop per il Covid-19. Fuori dal burocratese, però, parliamo di un'intesa sbilanciata. Come già la testata Greek City Times faceva notare ad accordo ancora fresco di firma, essenzialmente le compagnie del Paese mediorientale si riducono a un solo vettore: Qatar Airways.

L'intesa è iniziata a venire discussa in una fase in cui l'emirato degli al-Thani era di fatto sotto assedio per l'embargo imposto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein che avevano chiuso i confini terrestri e impedito il sorvolo aereo ai vettori di Qatar Airways, ai tempi ritenuta una delle compagnie migliori al mondo per qualità del servizio. La compagnia di bandiera del Paese mediorientale iniziò i negoziati per rompere l'assedio e creare un ponte con l'Europa in una fase in cui, complice il decollo dell'Asia, il Medio Oriente diventava l'hub decisivo per i traffici aerei mondiali.

Un servizio capillare

Fatte queste premesse, notiamo comunque che, leggendo i contenuti dell'intesa, Qatar Airways risulta fortemente avvantaggiata: con l'obiettivo di raggiungere e superare i 6,3 milioni di passeggeri annui portati sull'asse Europa-Medio Oriente e rafforzare i voli commerciali l'Ue ha programmato un'ampia crescita delle connessioni con cinque Paesi-chiave: Belgio, Francia, Germania, Italia e Paesi Bassi.

261 i collegamenti interessati, si legge sul sito della Commissione: 24 servizi settimanali tra l'Emirato e il Belgio; 27 servizi settimanali tra il Paese del Golfo e Parigi, 14 servizi settimanali tra il Qatar e Nizza, altrettanti sia per i voli destinati a Lione e, a parte, per tutti gli altri scali francese; 21 servizi settimanali tra il Qatar e Francoforte, altrettanti per Monaco Monaco e 14 servizi settimanali tra il Qatar e ciascuno di tutti gli altri punti in Germania; 84 voli settimanali Qatar-Italia; 14 voli Qatar-Amsterdam e 14 tra Doha e tutti gli altri hub dei Paesi Bassi. A cui si aggiungono 135 voli commerciali. Un totale di 396 voli sull'asse Europa-Golfo per i quali, da un lato, Qatar Airways ha libero accesso agli aeroporti dell'Unoone Europea e, dall'altro, le compagnie dell'Ue, formalmente garantite nel rispetto della concorrenza, possono competere tra loro per un solo hub, quello internazionale di Doha.

Il ruolo di Qatar Airways

L'accordo, nell'ultimo anno, è stato criticato dalle principali compagnie aeree e dai sindacati dell'Europa, ma difeso dalla Commissione Ue che ha affermato che garantirebbe "opportunità per entrambe le parti". La compagnia di bandiera da allora ha conquistato una base a Dusserdolf, in Germania, rilanciato la rotta italiana per Venezia e riorganizzato le strategie per connettere, secondo le sue priorità, "l'Europa al mondo". I dati compresi tra metà 2021 e metà 2022 mostrano come la compagnia di bandiera sia messa nettamente alle spalle la crisi: ricavi aumentati del 210% nell'ultimo anno, grazie alla crescita del network di Qatar Airways e un profitto record nei 25 anni di storia della compagnia di 1,54 miliardi di dollari, proiettato verso l'alto nel 2022-2023.

L'accordo, che non prevede che Doha debba adeguarsi alla legislazione sull'aviazione dell'Ue, è tornato nell'occhio del ciclone dopo lo scoppio del Qatargate. La compagnia aerea di bandiera non risulta indagata ma Politico.eu ha sottolineato che oltre a un'operazione di soft power il lobbying dell'Emirato in Europa potrebbe aver avuto, tra le altre cose, l'obiettivo di favorire un'approvazione spedita dell'accordo. Per il quale un coinvolgimento diretto di Qatar Airways del resto non sarebbe necessario: l'Emirato degli al-Thani cura come una grande corporation i suoi affari: l'ultimo neoassunto dei piloti della compagnia così come le stelle del Paris Saint Germain sono parimenti considerati "dipendenti" di Doha, al cui governo spetta la regia politica.

Francesca Basso del Corriere della Sera ha reso noto che "l'eurodeputata della Sinistra Leïla Chaibi ha presentato un emendamento che aggiunge la sospensione dell'accordo al punto 14 della risoluzione che vota oggi il Parlamento in cui si chiede la sospensione di "tutti i lavori sui fascicoli legislativi relativi al Paese del Golfo, specie per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti e visite programmate, fino a quando i sospetti non saranno confermati o respinti". Dal nostro punto di vista nel Qatargate ci atteniamo a quanto sappiamo finora, e cioè che l'accordo sembra fuori dai radar dello scandalo Panzeri-Kaili. Da analisti, però, non possiamo non avanzare alcune ipotesi e considerazioni sulle conseguenze politiche di questo fatto.

Tre questioni su cui fare il punto

Il primo punto da tenere in considerazione è il fatto che l'esclusione di Qatar Airways dallo scandalo Qatargate non esclude pressioni politiche di Doha per rilanciare la compagnia. Fa gioco la comprensibile paura dell'Emirato per l'isolamento internazionale, l'atteggiamento bilanciato dell'Europa nella diatriba del Golfo e, soprattutto, il desiderio di accelerare la connessione dell'Ue ai grandi hub internazionali. Elementi che, assieme all'indubbia eccellenza della compagnia di bandiera del Paese mediorientale , possono aver giocato un ruolo nel firmare un accordo ritenuto capace di sfavorire le compagnie ma accelerare il mercato interno.

In secondo luogo, c'è da chiedersi chi potrebbe risultare "vincitore" da questo accordo sul fronte europeo. E pensare che la grande partita dell'aviazione mobilita contesti industriali complessi che sono competenza diretta dei governi più che di enti come l'Europarlamento al centro dello scandalo. Simple Flying alcune settimane fa ha messo in campo la sospetta corrispondenza tra l'acquisto da parte di Qatar Airways di 80 Airbus A380 nel 2010 e la pressione della Francia, nazione centrale nel colosso europeo dell'avionica, per l'assegnazione al Paese mediorientale dei Mondiali 2022. Ebbene, negli anni in cui l'accordo sui voli era in negoziazione Airbus, che ha il 6,65% della compagnia a trazione franco-tedesca, ha visto l'avvio delle commesse del Qatar per i nuovi Airbus A350. L'affare, di recente, è naufragato per dispute sulla sicurezza e il futuro della commessa dopo la consegna dei primi A350 e il Qatar si è rivolto a Boeing, nonostante detenga una quota nel gruppo con cui Qatar Airways è in diatriba. Dunque sicuramente Francia e, in secondo luogo, Germania hanno avuto tutto l'interesse politico a rafforzare l'asse sull'aviazione con Doha, che tra 2019 e 2021 avrebbe comportato fiorenti affari e commesse miliardarie.

In terzo luogo, aprire il Vaso di Pandora con la compagnia degli al-Thani imporrebbe la rilettura ex post di tutte le intese commerciali siglate dall'Ue in materia di aviazione civile. La peculiarità del "cielo unico" europeo rende il mercato interno dell'Ue estremamente attrattivo. E questo rende per contrappasso Bruxelles "svantaggiata" in molte intese che riguardano Paesi singoli.

Dunque, ad oggi non ci sono elementi per sospettare Qatar Airways coinvolta nel Qatargate. Esistono però possibilità che pressioni politiche provenienti sia dall'Emirato che dall'Ue abbiano, per ragioni di opportunità e speranze di floride commesse, oliato l'accelerazione dell'accordo. E c'è, per ora, un solo vincitore di questa sfida: Doha. Che ha ottenuto un trattamento privilegiato senza doversi conformare agli standard europei e "invaso" l'Ue con la sua compagnia a cinque stelle. Ma questo può anche, di fatto, mostrare l'insipienza dei burocrati di Bruxelles. Attenti più alle logiche del libero scambio che agli equilibri di mercato. E se così fosse ciò stupirebbe meno: sarebbe l'ordinaria amministrazione europea.

Estratto dell’articolo di Emiiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “Domani” - 08 settembre 2022 

[…] ad Atene Renzi non doveva partecipare a cda, né fare conferenze e interviste sul futuro «rinascimento» dell’Arabia. Non ha preso gettoni né consulenze per eventi ufficiali.

Il senatore ha incontrato in segreto il principe, e ha avuto rendez vous con il primo ministro albanese Edi Rama, con il capo del governo del Montenegro Dritan Abazovic (recentemente sfiduciato), il ministro dell’Energia saudita, il vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas, quello del parlamento di Strasburgo Eva Kaili e, ovviamente, il premier di casa Mitsotakis. Anfitrione al Four Seasons era anche il ricchissimo Theodore Kyruakou, classe 1974 e proprietario del gruppo Antenna, il più grande colosso mediatico della Grecia.

In che ruolo Renzi ha partecipato agli incontri con personaggi pubblici di questa leva? Di cosa si è parlato durante i pranzi a tavola con il principe accusato di aver dato l’ordine di aver ammazzato giornalisti dissidenti (su tutti Jamal Khashoggi, ucciso dai sauditi su ordine, dice la Cia, di bin Salman), politici e imprenditori nel bel mezzo della crisi energetica e della guerra tra Russia e Ucraina? E come mai nessuno dei partecipanti – a parte Mitsotakis – ha dato notizia della loro presenza nell’albergo di lusso affittato per giorni da bin Salman?

Emiiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “Domani” il 15 Dicembre 2022.

A fine luglio un pezzo dell’establishment europeo è stato convocato ad Atene. Nelle sale e nelle suite dell’albergo a cinque stelle Four Seasons di Atene, prezzo medio 2.500 euro a notte. In quei giorni, l’hotel era stato affittato interamente da Mohammed bin Salman, il principe saudita in visita ufficiale al primo ministro greco Kiryakos Mitsotakis. 

Il capo del regime di Riad, però, ha approfittato della visita istituzionale per incontrare in via ufficiosa una ristrettissima cerchi di altri capi di stato, importanti parlamentari europei, oligarchi russi, tycoon e giornalisti. Un gruppo di una ventina di eletti, di cui ha fatto parte anche il senatore Matteo Renzi. 

Nel bel mezzo della campagna elettorale, e a pochi giorni dal primo incontro con il leader di Azione Carlo Calenda prodromico all’alleanza elettorale del terzo polo, l’ex premier ha preso un aereo ed è atterrato in gran segreto nella capitale greca.

Amico personale di bin Salman, Renzi è membro del board dell’FII Institute di Riad controllato dal fondo sovrano saudita (guadagna 80mila dollari l’anno), e siede nella Royal commission per Alula, antica città del deserto che il dittatore vuole trasformare in un grande polo turistico. Una poltrona di consulente che gli ha fruttato finora incassi per circa mezzo milione di euro complessivi.

A differenza dei precedenti viaggi mediorientali, spesso legati a occasioni propagandistiche organizzate dai sauditi per il lancio del progetto “Vision 2030” (bin Salman punta a trasformare entro quella data il regno da una petrolmonarchia a un’economia basata sui servizi e sul turismo), ad Atene Renzi non doveva partecipare a cda, né fare conferenze e interviste sul futuro «rinascimento» dell’Arabia. Non ha preso gettoni né consulenze per eventi ufficiali.

Il senatore ha incontrato in segreto il principe, e ha avuto rendez vous con il primo ministro albanese Edi Rama, con il capo del governo del Montenegro Dritan Abazovic (recentemente sfiduciato), il ministro dell’Energia saudita, il vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas, quello del parlamento di Strasburgo Eva Kaili e, ovviamente, il premier di casa Mitsotakis. Anfitrione al Four Seasons era anche il ricchissimo Theodore Kyruakou, classe 1974 e proprietario del gruppo Antenna, il più grande colosso mediatico della Grecia.

In che ruolo Renzi ha partecipato agli incontri con personaggi pubblici di questa leva? Di cosa si è parlato durante i pranzi a tavola con il principe accusato di aver dato l’ordine di aver ammazzato giornalisti dissidenti (su tutti Jamal Khashoggi, ucciso dai sauditi su ordine, dice la Cia, di bin Salman), politici e imprenditori nel bel mezzo della crisi energetica e della guerra tra Russia e Ucraina? E come mai nessuno dei partecipanti – a parte Mitsotakis – ha dato notizia della loro presenza nell’albergo di lusso affittato per giorni da bin Salman? 

È un fatto che il principe saudita stia cercando di modernizzare, da un punto di vista economico, il suo paese.

E stia cercando di cambiare anche la percezione dell’Arabia saudita nell’immaginario collettivo occidentale. Patria dell’integralismo musulmano, dove i diritti delle donne e delle minoranze sono minimi, il regno saudita deve trasformarsi in fretta se vuole sopravvivere all’età post petrolifera, finora unico core business dell’economia dello stato. 

Bin Salman sta investendo miliardi a Riad, e contemporaneamente tesse da anni nuove relazioni internazionali, sfruttando l’enorme liquidità dei fondi governativi come il Pif. Il viaggio ufficiale in Grecia del 26 e del 27 luglio, il suo primo in Europa dopo la pandemia, è stata una tappa importante di questo processo. 

L’erede al trono ha portato dall’Arabia un codazzo di 700 persone che hanno viaggiato su 6 aerei, oltre al cibo personale per sé e i suoi consiglieri, la biancheria della camera da letto, i piatti e i bicchieri (non si fida né del Four Seasons né dei servizi d’intelligence di Atene), quasi 200 valigie personali. 

«Vorrei congratularmi con voi per il progetto Vision 2030, e vorremmo esplorare ulteriori opportunità di cooperazione tra i nostri due paesi», ha detto Mitsotakis al principe. Mentre bin Salman vedeva il premier greco nella sede del governo, le due delegazioni hanno firmato accordi commerciali ed economici che secondo i giornali greci «sono stimati in alcuni miliardi di euro».

Basati quasi tutti su futuri investimenti sauditi in Grecia, sul settore della difesa e quello della cultura. Ma soprattutto sull’energia: il principe ha spiegato di voler collegare le reti elettriche, «per fornire all’Europa, soprattutto quella meridionale e occidentale, energia rinnovabile molto più economica: oggi firmeremo un memorandum d’intesa su questo. Siamo anche interessati all’idrogeno, e a come rendere la Grecia un hub per l’Europa nel campo dell’idrogeno», si legge in un comunicato.

Le questioni trattate nel summit ufficiale con i greci sono state dunque strategiche. Ma probabilmente lo sono state anche quelle discusse durante gli incontri informali avuti da bin Salman. Il principe ha infatti convocato ad Atene anche due premier slavi, che sono corsi a omaggiarlo in piena estate: si tratta dell’albanese Rama, amico di Renzi, e del montenegrino Abazovic.

Con loro bin Salman ha avuto un incontro riservato, a pranzo, il 26 luglio, presente anche il premier greco, il ministro dell’Energia saudita e l’ex presidente del consiglio italiano. «Sono andato ad Atene perché bin Salman è un amico, e perché ha la grande ambizione di portare energia elettrica prodotta con pannelli fotovoltaici in Arabia Saudita verso la Grecia, verso i Balcani, e poi l’Europa: sarebbe una risorsa eccezionale per sostituire il gas russo, e più in generale gli idrocarburi» dice Rama a Domani. 

«Perché Renzi era lì? Mi è parso molto dentro al progetto di bin Salman di esportare verso l’occidente dell’energia solare saudita. Un’ipotesi interessantissima. Se abbiamo parlato anche di portare l’energia saudita in Italia dall’Albania? Sì, loro vogliono espandersi oltre i Balcani certo. Ma nella prima fase saranno coinvolti la Grecia e paesi limitrofi».

Al netto dell’efficacia del disegno industriale ed economico del principe, è possibile che Renzi da consulente dei presunti valori neo rinascimentali del regime (fu proprio Renzi a suggerire al principe lo slogan all’evento FII di gennaio 2021, chiamata la Davos del deserto) sia ora diventato pure una sorta di consigliere di bin Salman anche in merito al cruciale settore energetico? 

Lo staff di Renzi a Domani spiega che l’ex premier sarebbe stato chiamato ad Atene da Mitsotakis, suo amico personale, ma ammette che l’invito al Four Seasons potrebbe essere dovuto anche alla circostanza che i suoi eccellenti rapporti con bin Salman siano ormai universalmente conosciuti. 

Negano che il suo viaggio, a differenza delle conferenze e dei soldi presi dalle fondazioni e commissioni saudite, avesse «natura professionale»: «Renzi intrattiene costantemente rapporti con colleghi che hanno o hanno avuto responsabilità di governo. L’incontro ad Atene ha visto la partecipazione di vari politici, tra i quali esponenti della Ue. Renzi non ha alcuna consulenza o interesse economico nel mondo energetico».

Nessuna risposta alla domanda se il leader, essendo pagato dai sauditi in merito ad altre partite, sia anche pagato in modo indiretto. Renzi in persona, contattato, dice solo che se lui fosse al governo non disdegnerebbe affatto un aiuto da parte di bin Salman: «Penso che l’Europa debba ridurre il costo delle bollette anche con l’aiuto dei paesi arabi e del nord Africa. Questa dovrebbe essere la priorità politica della delicata stagione che stiamo vivendo». Nessun altra dichiarazione in merito al viaggio estivo.

Se Renzi non ha alcuna intenzione di chiudere con le consulenze in giro per il mondo o rinunciare ai soldi di Riad, la vicenda non crea alcun imbarazzo all’alleato Calenda. «Non sapevo nulla dell’incontro di luglio, ma se non ha preso soldi non ci vedo nulla di male. E per un politico non è un obbligo pubblicizzare sempre chi si incontra». 

Il numero uno di Azione che, dopo aver stracciato in 48 ore un accordo già firmato con il Pd, ha deciso ad agosto di legarsi al senatore di Rignano, fa della «serietà» e della «coerenza» la sua cifra politica, ma a causa del patto con Renzi ha già dovuto rimangiarsi quanto detto nel recentissimo passato.

Solo a fine giugno aveva detto: «Con Renzi, che è una persona che stimo, c’è però un tema inaccettabile della lobbying internazionale, non si può essere pagati dall’Italia e dall’Arabia Saudita. Senza una linea retta e coerente non andrà mai sopra il 3 per cento. È un buco etico». 

Poi, di nuovo: «Ho detto a Renzi: “Scegli se vuoi fare politica o business”». Qualche giorno fa Calenda giustificava il suo dietrofront così: «Io le consulenze non le prendo, tanto meno da paesi stranieri. Renzi risponde dicendo che questa cosa dell’Arabia Saudita è lecita, e in effetti per la legge lo è. Ma io sono disponibile domani mattina a votare per vietarla». 

Il paradosso è che Calenda, che fa del liberalismo il suo mantra (nulla di più lontano dal regime saudita) e dell’agenda Draghi la sua stella polare, ha organizzato uno dei primi incontri con Renzi in vista di un possibile accordo tra Azione e Italia viva proprio il 25 luglio.

 Cioè il giorno prima che il senatore e lobbista raggiungesse bin Salman ad Atene nelle stanze del Four Seasons dove si discuteva di energia elettrica saudita e investimenti con il principe ereditario, il suo ministro dell’Energia e i premier di altri paesi. «Ripeto: con Matteo siamo in disaccordo sulle consulenze, ma questo viaggio per me non ha nulla di scandaloso», spiega. Chissà se prima dell’accordo politico avrebbe usato parole così conciliatorie.

Ma chi erano gli altri avventori dell’albergo affittato da bin Salman in quei due giorni? Nella lista degli invitati al Four Seasons che c’è il nome di sir “Len” Blavatnik, il cui ufficio stampa non ha però risposto alle nostre domande sulla sua effettiva presenza e sui motivi della visita. 

Blavatnik è l’uomo più ricco d’Inghilterra con un patrimonio che si aggira sui 40 miliardi di dollari, proprietario della Warner Music e di Dazn. Ha passaporto americano e inglese, ma le origini della sua fortuna sono simili a quelle degli altri oligarchi russi poi sanzionati dall’Europa (lui ne è rimasto indenne).

Nato nel 1958 a Odessa, al tempo Urss, è diventato miliardario sotto le presidenze Boris Eltsin e Vladimir Putin. Ha lavorato nell’acciaio e poi nel petrolio: qualche lustro fa ha comprato il 40 per cento della compagnia russa TNK, poi fusa con l’inglese Bp. Nel 2013 la nuova società è stata comprata dalla Rosneft, multinazionale legata al Cremlino. 

Secondo le cronache finanziere del tempo l’operazione, benedetta da Putin, ha portato nelle tasche di Blavatnik la bellezza di sette miliardi di euro. Abbiamo chiesto all’oligarca come mai era stato invitato al Four Seasons, e se avesse parlato con bin Salman e i presenti anche di energia o altri business, ma non ci è pervenuta risposta.

Oltre al magnate dei media Kyruakou e il fondatore del sito Vice Shane Smith, nella lista degli invitati alla due giorni all’hotel affittato da bin Salman compare anche il nome di Margaritis Schinas, un liberal conservatore del partito greco Nuova Democrazia, lo stesso del premier Mitsotakis ora al governo, membro della grande famiglia del partito popolare europeo.

Schinas è un uomo che conta a Bruxelles: è uno degli otto vicepresidenti della Commissione europea guidata Ursula von der Leyen. Ha la delega alla Promozione dello stile di vita europeo. Schinas è stato membro del parlamento europeo tra il 2007 e il 2009, da quel momento in poi ha trascorso gli ultimi 13 anni negli uffici della Commissione, con vari ruoli: da portavoce a vicedirettore generale della comunicazione fino alla vicepresidenza attuale.

In quest’ultimo ruolo ha svolto diverse attività collaterali. Per esempio ha coordinato il lavoro della commissione sullo Sviluppo della sicurezza europea e di quella istituita per rafforzare le misure di prevenzione, rilevamento e risposta alle minacce ibride. In una sua recente dichiarazione ha espresso la linea di fermezza dell’Unione contro l’invasione russa in Ucraina spiegando perché è necessario limitare il rilascio dei visti ai cittadini della federazione governata da Putin.

Sui canali social non c’è traccia della sua presenza ad Atene all’incontro con il principe il 27 luglio. Su Twitter quel giorno ha pubblicato un post per magnificare il progetto ErasmusPlus e le «nostre università europee campionesse di conoscenza, educazione e innovazione per il bene degli studenti, educatori e società. Di certo tra i tanti accordi firmati tra Arabia Saudita e Grecia c’è anche un piano di partnership commerciali e industriali nel settore marittimo.

I rappresentanti di questa categoria, riuniti sotto la sigla “Unione armatori greci” (Union of Greek Shipowers), erano stati ricevuti da Schinas lo scorso marzo, incontro inserito nell’agenda del vicepresidente seguendo la normativa sulla trasparenza che obbliga i membri della Commissione a dichiarare i soggetti (aziende, associazioni, industrie) che incontrano e dove lo fanno. Con gli armatori ellenici il tema della riunione è stato il settore marittimo e il Green new deal.

Ma come mai Schinas è stato invitato al Four Seasonss? Da chi e perché? E come mai non dichiararlo, visto il livello degli altri invitati? Schinas non ha risposto alla nostra richiesta di commento sull’incontro con bin Salman, di cui non c’è traccia nell’agenda ufficiale del vicepresidente. 

Neppure Eva Kaili ha risposto alle nostre domande sul perché il suo nome sia nella lista ristretta di invitati. A differenza di Schinas, Kaili è una dirigente del Partito socialista, ma come il suo collega ha fatto carriera in Europa. È attualmente vicepresidente del parlamento europeo e presiede il Comitato per il futuro della scienza e della tecnologia. È stata deputata in Grecia tra il 2007 e il 2012 e poi è stata eletta a Bruxelles, dove è diventata capo della delegazione per le relazioni con l’assemblea parlamentare della Nato, l’alleanza atlantica.

Sui canali ufficiali della leader politica non c’è alcun riferimento a incontri o cene ad Atene a luglio. In quei giorni, tra il 26 e il 27, ha però rilasciato un’intervista alla tv Mega, dove ha lavorato come giornalista prima di dedicarsi alla politica. Un’intervista ripresa da vari media: Kaili denunciava infatti che circa due anni prima era stata oggetto di un tentativo di intercettazione abusivo durante un viaggio nella penisola arabica. Un tentativo di attacco hacker simile a quello più noto subito e denunciato a fine luglio dal presidente del Pasok, il Partito socialista panellenico di cui Kaili fa parte. 

Uno scandalo di spionaggio interno di rilevanza internazionale che ha portato alle dimissioni del segretario generale del governo Grigoris Dimitriadis, nipote del primo ministro Mitsotakis, e del capo del National Intelligence Service (EYP) greco, Panagiotis Kontoleon. Il caso ha portato all’apertura di un’indagine parlamentare, tuttora in corso.

La vicepresidente del parlamento europeo Kaili è relatrice per i socialdemocratici europei nella commissione che si occupa di sicurezza informatica e software di sorveglianza. Tra i regimi accusati di aver usato il sistema di spionaggio informatico Pegasus per controllare attivisti e oppositori c’è l’Arabia Saudita di bin Salman, che ne ha sempre negato l’utilizzo. 

Chissà se il gruppetto di fortunati invitati, tra energia elettrica, affari in Albania e Peloponneso, memorandum su telecomunicazioni e digitale, ha parlato anche di sicurezza informatica con il principe saudita, che si presenta ormai ai suoi interlocutori come uno dei pochi leader mondiali che può aiutare l’Europa di fronte alla crisi energetica globale.

La lobby delle 3.500 Ong che spadroneggiano alla Ue. Le organizzazioni non governative hanno occupato Bruxelles. E non ci sono controlli sui finanziatori. Paolo Bracalini il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«Le ong? Servono a far girare i soldi» confessa Francesco Giorgi, l'assistente-faccendiere che smistava le mazzette insieme alla compagna Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento Ue. In effetti si vuol fare affari a Bruxelles aprire una ong è la via più semplice. Ci si dà un'immagine nobile, ci si ammanta di intenti umanitari, si sceglie un bel nome impegnato, e poi si fa un po' quel che si vuole sfruttando l'accredito nei palazzi del potere europeo e le facilitazioni che ne conseguono. Infatti la capitale della Ue pullula di organizzazioni non governative, un vero esercito. C'è un numero preciso perché la Commissione Ue ha previsto un registro per la Trasparenza, una banca dati che registra tutti i gruppi e le organizzazioni «che cercano di influenzare l'elaborazione o l'attuazione delle sue politiche e della sua legislazione». Le lobby dunque, e fra queste anche le ong. Nella categoria «Organizzazioni, piattaforme e reti non governative e altre organizzazioni analoghe» il registro conta la bellezza di 3488 associazioni accreditate. Tra queste ci sono i colossi della solidarietà, da Amnesty a Save The Children, e poi una miriade di organizzazioni che si occupano di tutto, dai diritti umani a quelli degli animali, dal cambiamento climatico alle questioni legate alla giustizia, come «Non c'è pace senza giustizia» di Emma Bonino, diretta da Niccolò Figà-Talamanca, indagato nell'inchiesta belga sul Qatargate. E poi appunto la ong Fight Impunity dell'ex parlamentare Pd e Articolo Uno, Antonio Panzeri, anche quella depennata dal Registro dopo lo scoppio dello scandalo.

Le norme avvantaggiano chi vuole utilizzare le ong e finanziarle per attività di pressione politica, magari da paesi extraeuropei, mantenendo la privacy. A differenza delle associazioni che rappresentano interessi industriali, le ong hanno infatti meno obblighi di trasparenza finanziaria rispetto alla provenienza dei fondi e delle donazioni che ricevono. Un vero assist per quei finanziatori che vogliono influenzare le decisioni politica senza avere pubblicità. «Le ong sono soggette alle stesse regole dei normali lobbisti aziendali. Ma mentre per un lobbista d'affari sarà difficile nascondere le proprie origini e i propri interessi, la creazione di una ong per rappresentare interessi d'affari o di un Paese straniero, può permettere di nascondere le proprie origini. L'attuale registro fa poco per rimediare a questa situazione. I casi di gruppi di facciata, non vengono mai scoperti dai funzionari che gestiscono il registro, a quanto ricordo», spiega a Vita Kenneth Haar, ricercatore di Corporate Europe Observatory, un gruppo di ricerca sull'attività di lobbying in Ue. Ricorda bene, in effetti il Registro per la trasparenza ha solo 9 dipendenti, a fronte di migliaia di associazioni da controllare, in via puramente teorica. Un sistema opaco, perfetto per «far girare i soldi». L'inchiesta sulle mazzette del Qatar ha messo in evidenza il ruolo che possono giocare le ong in questi processi corruttivi. La Lega ha presentato degli emendamenti alla risoluzione sul Qatargate, per introdurre una revisione più stringente delle norme sulle ong. Ma non è passata per il veto della sinistra. E sul ruolo delle ong è intervenuto anche il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, impegnato a contrastare le navi ong che fanno da «taxi dei migranti». «Il sospetto che talune formazioni siano ispirate a creare un meccanismo di condizionamento non lo dico io ma studi di anni fa. Siamo molto attenti perché non mi stupirebbe se il condizionamento politico di queste Ong fosse un anello di una catena più grande».

Non chiamateli lobbisti. Simone Dattoli su Panorama il 13 Dicembre 2022.

Improvviso come una valanga è piombato un nuovo scandalo legato al malaffare all’interno delle istituzioni. Lo hanno chiamato “Qatar Gate” o peggio ancora “The Italian Job” - il colpo all’italiana - perché nelle vicende di corruzione che fanno tremare la Commissione Europea e l’intero Parlamento alcuni dei principali protagonisti sono purtroppo nostri connazionali.

Ma aldilà della nazionalità e delle istituzioni coinvolte, quello su cui vorrei porre l’attenzione in questa vicenda di cui al momento pare sia emersa solo la punta dell’iceberg di un ampio sistema, è che ancora una volta semplicisticamente i media e l’opinione pubblica hanno pensato di utilizzare il termine lobbista per fotografare e descrivere coloro che si ipotizza abbiano commesso attività illecite legate al traffico di influenze. E così ancora una volta ci troviamo a dover difendere d’ufficio una categoria, quella dei lobbisti appunto, che poco ha a che vedere con le pratiche di cui si racconta in questi giorni. Simone Dattoli, ad & founder Inrete Come rappresentante di una delle principali società di consulenza italiane in ambito public affairs e lobbying più volte negli anni sono intervenuto in tavoli di lavoro, dibattiti e anche in sedi istituzionali per portare testimonianze e contributi utili a dare forma e dignità ad un settore spesso male interpretato come quello delle relazioni istituzionali e della rappresentanza di interessi.

Negli ultimi cinquanta anni sono stati presentati in Italia quasi cento disegni di legge volti a regolamentare questo tipo di rapporti, e anche nella passata legislatura tutti i principali operatori del settore hanno convintamente sostenuto la necessità di una regolamentazione che supportasse un settore che ha vissuto un’evoluzione significativa negli anni, sia sotto il profilo degli strumenti che delle competenze, diventando sempre più uno strumento a supporto delle istituzioni e della politica piuttosto che un’attività portatrice di valori negativi. E allora perché oggi ancora una volta ci ritroviamo a dover distinguere tra lobbisti buoni e lobbisti cattivi? Perché la mancanza di un reale riconoscimento della categoria, con precise regole di ingresso e di ingaggio lascia aperta la possibilità alla creazione di aree grigie in cui pratiche poco ortodosse possono insinuarsi. Un esempio su tutti è quello delle cosiddette “revolving doors” e cioè la possibilità di impedire a chi ha ricoperto nel recente passato incarichi elettivi di poter semplicemente cambiare la giacca e diventare da decisore a portatore di interessi in un tempo talmente breve da consentire di poter far pesare il proprio precedente ruolo in maniera poco trasparente. Una norma di buon senso, che spegnerebbe le aspirazioni lobbistiche e la voglia di guadagno di molti che, magari non più eletti e quindi rimasti privi di importanti emolumenti mensili, si improvvisano in un mercato fatto invece di professionisti e organizzazioni che rispettano e anzi invocano regole sempre più qualificanti per la determinazione di una categoria che non merita di essere sempre citata negativamente.

Da “Posta e risposta” – “la Repubblica” il 13 dicembre 2022.

Caro Merlo, non mi sorprende che Massimo D'Alema, che ha trovato un compratore qatarino della raffineria di Priolo, da bravo campione di supercinismo spacciato per super intelligenza, sia ora diventato un lobbista, un procacciatore d'affari internazionali. Mi sorprende invece che il vice segretario del Pd Giuseppe Provenzano glielo abbia finalmente detto, così, sul grugno. 

Dai candidati alla segreteria del Pd Elly Schlein, Stefano Bonaccini, Matteo Ricci, sinora avevo sentito solo vacuità retoriche: ripartire dal basso, tornare agli operai, battersi per i diritti: ma va? E invece, evviva, Peppe Provenzano ha detto qualcosa di sinistra; non le demagogie a 5 stelle (sponsorizzate, guarda caso, da D'Alema), ma qualcosa di semplice da cui far ripartire la sinistra: "siamo un partito di governo, ma non un partito di affaristi". Bravo.

Lilly D'Ambrosio - Bari

Risposta di Francesco Merlo:

Massimo D'Alema è diventato un broker - l'archetipo è Michael Douglas nel film Oscar Wall Street - che si occupa di profitto e di transazioni non maligne, ma coperte e spregiudicate com' è nella natura del capitalismo internazionale. Non importa a nessuno se e quanto D'Alema ci guadagni ed è meschino il rancore dei militanti con le scarpe rotte: "Non c'è nobiltà nella miseria" dice Michael Douglas. 

Il broker però gioca d'azzardo con uno stile e una passione che non consentono più il moralismo di chi, ad ogni intervista, ancora parla ed è ascoltato come un padre nobile della sinistra. Non sorprende insomma che D'Alema non si ispiri più alla filosofia della tombola, che prometteva "ricchi premi" nelle feste dell'Unità, ma alla filosofia del Monopoli che, attenzione, non è certo il gioco del delinquere economico. 

Meraviglia invece che, tra tante analisi, astratte e astruse, sulla crisi della sinistra, uno solo, Peppe Provenzano, abbia indicato la strada giusta che, vedrà, non sarà seguita: "vedere ex leader della sinistra fare i lobbisti in grandi affari internazionali non è solo triste, ma dice molto sul perché le persone non si fidano, non ci credono più". 

Provenzano fa pendant con Paolo Gentiloni sulla corruzione a Bruxelles: "I corrotti sono di destra e di sinistra. Ma è drammatico che questi episodi di corruzione riguardino i lavoratori che hanno bisogno di tutela, un valore irrinunciabile per la sinistra". 

Provenzano e Gentiloni raccontano la sinistra che si è dissipata, estenuata e corrotta provando a liberarsi e a liberarci dall'ideologia, ma senza riuscire a diventare moderna restando sinistra. È la sinistra che ha perso perché, come dice Michael Douglas: "Non mi illudo di vincere un concorso di popolarità. Ho un "amico" che dice di me: 'Perché onoriamo quest' uomo? Siamo a corto di esseri umani?'".

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2022.

Se ti riempiono un sacco di banconote fino all'orlo per parlare bene del Qatar e tu parli bene del Qatar, sei una politica corrotta, ma lineare. Invece l'eurosocialista (nel senso di socialista sensibile agli euro) Eva Kaili ha scelto una strada più contorta, non limitandosi a tessere l'elogio dei suoi corruttori, ma usandolo per sputare sull'Europa che le passa lo stipendio, quello regolare. 

Forse avrete visto anche voi le immagini del memorabile intervento al Parlamento di Bruxelles in cui la vicepresidente Kaili proponeva il Qatar come modello sindacale per il nostro Continente: «Impariamo da loro, lì c'è il salario minimo!». Di sicuro c'è quello massimo, riservato a lei e ai suoi compari. 

Nell'area socialista è partita la solita corsa a prendere le distanze dalle Kaili e dai Panzeri, come se l'avidità e il lobbismo a favore dei mostruosamente ricchi fossero incompatibili con la loro parte politica, che ne ha invece sempre fornito amplissime testimonianze. 

L'aggravante di sinistra, se così si può dire, sta in quel non accontentarsi di adulare il finanziatore, ma nel volere trasformare persino l'adulazione a pagamento in una caricatura di battaglia progressista. Che consistano in questo i vantaggi del famoso «multipolarismo» decantato dagli esegeti del modello arabo, russo, indiano, cinese? Definire bieco e corrotto il capitalismo occidentale mentre si prendono le mazzette da quello degli altri.

Pier Luigi Petrillo per “il Domani” il 13 dicembre 2022.

L'indagine sulle presunte tangenti pagate dal Qatar a esponenti del parlamento tato all'attenzione dell'opinione pubblica il tema della regolamentazione dei rapporti tra lobby e decisori pubblici. 

Partiamo da un dato di fatto: l'azione posta in essere dai gruppi di pressione al fine di influenzare i processi decisionali è strettamente connessa alla natura democratica di uno stato. 

Lobbying è democrazia. Un sistema democratico, per essere tale, necessita di un dialogo continuo e trasparente tra decisore pubblico e lobby consentendo, a queste ultime, di intervenire nel processo decisionale. 

L'aspetto critico di tale relazione non risiede nella natura "negoziata" dell'atto conseguente al processo decisionale, ma nel modo in cui i vari interessi sono sintetizzati nella decisione finale. È proprio in questo "modo" che si cela il rischio corruzione che, tuttavia, non dipende dall'azione di lobbying di per sé ma dall'assenza di trasparenza che connota la maggior parte dei processi decisionali e dall'elevata probabilità che, a intervenire nel processo decisionale, non siano tutti coloro che ne hanno interesse ma solo i più potenti. Il paradiso dei lobbisti 

Per ovviare a tali fenomeni degenerativi servono norme puntuali.

A Bruxelles queste regole ci sono e consentono oggi di conoscere come i lobbisti intervengono su parlamento, Commissione e Consiglio. Secondo un accordo siglato tra le tre istituzioni ed entrato in vigore a giugno 2021, i­­­ lobbisti che intendano organizzare incontri o avere contatti con i decisori pubblici al fine di influenzare le politiche dell'Unione sono tenuti a iscriversi a un registro pubblico e a rispettare numerose regole di trasparenza. Le medesime regole valgono per i decisori pubblici europei che incontrano i lobbisti iscritti. 

La normativa ha però due scorciatoie: in primo luogo, gli obblighi di trasparenza non si applicano a chi rappresenta gli interessi di stati anche di paesi terzi, di partiti politici e di sindacati coinvolti nel dialogo sociale europeo. 

In secondo luogo, agli ex parlamentari non si applicano le norme che vietano l'assunzione di incarichi in conflitto di interessi appena cessato il mandato (il così detto "revolving door"). Sono queste "scappatoie" normative ad avere alimentato - stando alle ricostruzioni giornalistiche - il terreno della corruzione nello scandalo emerso in questi giorni. 

Il Far west italiano

La vicenda europea rappresenta un campanello d'allarme per il contesto italiano dove la relazione tra lobbista e decisore è avvolta da un velo impenetrabile e dove continuano a mancare, nonostante lo "scandalo" Renzi, norme volte a regolare il rapporto tra parlamentari in carica e stati esteri. L'Italia è una delle poche democrazie al mondo a non avere una legge organica in materia; il legislatore è intervenuto solo in modalità difensiva, introducendo nel codice penale il reato di «traffico illecito di influenze» che punirebbe chiunque indebitamente si fa dare o promettere denaro per la propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale.

La norma, per come formulata, ha vizi di incostituzionalità ed è sostanzialmente inapplicabile, come ha evidenziato l'ufficio studi della corte di Cassazione precisando che, in assenza di una legge volta a definire i limiti leciti dell'influenza, è impossibile determinare i casi di influenza illecita. L'assurdità ditale disposizione è stata ricordata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio in una intervista al Corriere della sera.

Nella scorsa legislatura la Camera ha approvato un disegno di legge in materia, presentato da Francesco Silvestri (M5s), poi arenatosi in Senato sotto i colpi di migliaia di emendamenti. Tuttavia, quel provvedimento nulla disponeva sul lobbying da parte di rappresentanti di stati esteri né fissava divieti di assumere incarichi da parte degli ex parlamentari (molti dei quali si improvvisano lobbisti) o da parte di parlamentari in carica nei confronti di stati esteri.

Lo scandalo europeo dovrebbe ora indurre il governo Meloni a colmare le "scappatoie" italiane. Le direzioni potrebbero essere due: da un lato imporre obblighi di trasparenza in capo ai decisori pubblici (il che non vuol dire compilare dei moduli assurdi come previsto inutilmente dal decreto legislativo n. 33 del 2013) e, dall'altro, disciplinare i diritti dei lobbisti in modo da fissare la cornice entro cui operare. 

Al tempo stesso serve che il parlamento adotti un codice di condotta dei propri membri che vieti espressamente rapporti economici con stati esteri e loro rappresentanti. Il ministro Nordio ha dichiarato che è urgente agire. Speriamo sia di parola.

Annalisa Cuzzocrea per la Stampa il 14 dicembre 2022.

«Siamo profondamente scossi e increduli davanti alle ricostruzioni di queste ore. Sono enormità che non potevo nemmeno immaginare». Solo nel suo ufficio di Montecitorio, Roberto Speranza – deputato e leader di Articolo 1 – chiede: «Posso dire che sono incazzato nero?». 

Può, ma non basta. Quello che emerge su Antonio Panzeri – europarlamentare prima del Pd, poi di Articolo 1 - fa pensare a una rete costruita nel tempo. Possibile non vi siate accorti di nulla?

«I fatti che vengono ricostruiti, con tanto di flagranza di reato con cui bisogna fare i conti al di là di qualsiasi garantismo, sono quanto di più lontano ci possa essere da Articolo 1. Che è una piccola comunità di militanza vera, di gente che dedica una vita a tenere aperto un circolo tra mille difficoltà autotassandosi, capendo come poter risparmiare 5 o 10 euro se c’è da pagare un manifestino o una sala. Abbiamo avuto oltre 50mila persone che ci hanno dato il loro 2 per mille raccogliendo in un anno gli stessi soldi di cui si parla in queste ore».

I 600mila euro trovati nel residence di Bruxelles in cui vive Panzeri?

«Seicentomila euro raccolti dal versamento volontario di persone che hanno scelto di sostenerci. Abbiamo candidato alle politiche il nostro segretario della Liguria, un operaio dell’Ansaldo. Michele Mognato, parlamentare nella scorsa legislatura, adesso è tornato a fare l’Rsu in fabbrica». 

Siete persone che non fanno politica per arricchirsi, sta dicendo questo?

«La rabbia che ho dentro è pesante perché il modo in cui intendiamo la politica, la militanza e il rapporto con le istituzioni è totalmente incompatibile con quel che stiamo leggendo». 

È sicuro non ci siano altre persone di Articolo 1 coinvolte?

«Lo escludo. Le risorse che noi prendiamo arrivano dal 2 per mille, dai versamenti dei deputati, 2000 euro ciascuno, e dagli iscritti. Non raccogliamo soldi in altro modo».

Non accettate donazioni da società o fondi?

«No. I nostri bilanci sono pubblici». 

Non avete fondazioni del partito?

«Ma no!».

Non crede sia comunque grave, non accorgersi di nulla?

«Mi sono fatto questa domanda. Panzeri era un parlamentare europeo autorevole con una storia sindacale importante alle spalle. È uscito dal Pd per partecipare alla fondazione di Articolo1. Lo abbiamo seguito nella sua attività istituzionale a Bruxelles. Quando ha smesso, ha confermato la tessera di Articolo 1, senza incarichi gestionali». 

Non è un dirigente?

«È una personalità rilevante della sinistra milanese e lombarda, non è l’ultimo arrivato. Si tratta di una persona che ha fatto per otto anni il capo della Camera del lavoro di Milano, poi dodici anni europarlamentare, presidente della commissione Diritti umani di Strasburgo. Come potevamo immaginare? Le attività che ha condotto dopo non hanno mai avuto a che fare con noi».

Nessun coinvolgimento con la Ong che presiedeva?

«Mai avuto a che fare».

È stato perquisito l’ufficio e sequestrato il cellulare di Davide Zoggia, ex deputato Pd, passato con lei in Articolo 1, ora collaboratore di due europarlamentari.

«Non è più in Articolo 1 da molto tempo. A differenza di quello che emerge per Panzeri non ho elementi per valutare eventuali responsabilità. Personalmente sono per usare la massima fermezza dinanzi alle responsabilità che emergeranno. Spero che la magistratura vada avanti con determinazione perché qui è in gioco la credibilità delle istituzioni europee e delle forze politiche coinvolte. Voglio più di tutti che si faccia chiarezza. Noi in questa vicenda siamo parte lesa».

Che decisione avete preso nei confronti di Panzeri?

«La commissione di garanzia appena sono apparsi gli elementi più gravi lo ha depennato dall’anagrafe degli iscritti».

La vicenda Soumahoro ha scoperchiato, come minimo, una grossa dose di ipocrisia. Adesso si trovano sacchi di soldi di provenienza sospetta in casa di chi diceva di agire per gli ultimi, i reietti, i perseguitati. Vede l’enorme questione morale davanti alla quale si trova la sinistra?

«Credo che la questione morale sia un tema attuale nel nostro Paese. Fa molto più male quando riguarda la sinistra. Perché a destra negli anni ne abbiamo viste parecchie». 

Ma dopo questo, dopo il caso del dem Nicola Oddati trovato con 14mila euro letteralmente in tasca e indagato per corruzione, dopo l’inchiesta Mafia capitale, e potrei continuare, capisce che non si può rivendicare alcuna superiorità morale?

«Lo capisco e so che a noi fa molto più male perché l’eredità della sinistra è legata alla lezione di Enrico Berlinguer. Dobbiamo con onestà dirci che non siamo impermeabili e quindi anche noi dobbiamo avere processi di selezione dei gruppi dirigenti il più rigorosi possibili. Fatti del genere sono inaccettabili e finiscono per far perdere la fiducia delle persone nei confronti della politica. Ho speso la mia vita, da quando avevo 18 anni, a dire che non è vero che siamo tutti uguali, che tutti rubano alla stessa maniera. Vedere che un’azione individuale così grave può macchiare la storia di una comunità è inaccettabile».

Provenzano, vicesegretario Pd, scrive: «Non c’entra con la vicenda dell’Europarlamento, ma vedere ex leader della sinistra fare i lobbisti in grandi affari internazionali dice molto del perché le persone non ci credono più». Parla anche di Massimo D’Alema. Del suo ruolo di intermediario nella vendita di armi alla Colombia e nella proposta di acquisto di un fondo del Qatar per la raffineria Lukoil in Sicilia. Tutto lecito, ma non crede ci sia un problema di opportunità politica?

«D’Alema non c’entra nulla con questa vicenda giudiziaria. Chiamarlo in causa su questo è del tutto improprio». 

Ha un peso politico e un’influenza che non può negare. Non solo su Articolo 1 ma anche sul Movimento 5 stelle a quanto risulta dai buoni rapporti, confermati, con Giuseppe Conte.

«Ha scelto di accettare un incarico professionale rilevante in una importante società di consulenza. Ma non si può non ricordare che è fuori dalle istituzioni da dieci anni». 

Crede ci sia differenza con Matteo Renzi, attaccato per i suoi contratti di consulenza con l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman?

«Non credo sia una differenza da poco se sei tuttora un rappresentante delle istituzioni della Repubblica. Io sono per la netta separazione delle funzioni politiche e istituzionali con quelle che hanno a che fare con la gestione di interessi particolari».

Ue, 11.800 lobby per influenzare Commissione e parlamentari. I casi di corruzione. Milena Gabanelli e Luigi Offeddu su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2019.

Bruxelles supera Washington e si consacra capitale mondiale del lobbismo: sono 11.801 i gruppi di pressione elencati nel Registro della Trasparenza istituito dalla Commissione Europea. A Bruxelles si fanno le leggi che riguardano 508 milioni di cittadini e le lobby lavorano perché non contrastino gli interessi delle imprese e associazioni che rappresentano: industrie, aziende private, grandi studi legali, ma anche sindacati, ong, associazioni di consumatori.

Da Google a Eni ad Altroconsumo: quanto spendono?

Ai primi posti nella classifica ci sono il Cefic o Consiglio delle industrie chimiche europee (12 milioni di spese minime dichiarate nel 2018), Google (6 milioni nel 2017), Microsoft (5 milioni) BusinessEurope (la Confindustria europea, 4 milioni). C’è anche Huawei, il colosso cinese della telefonia, 2.190.000 di costi dichiarati nel 2017.

Fra i singoli Paesi, l’Italia, con 841 lobby, è al quinto posto dopo il Belgio (dove ovviamente si registrano molti gruppi stranieri), la Germania, la Gran Bretagna, la Francia. Fra le principali, per costi minimi dichiarati, troviamo: Altroconsumo (5 milioni di euro), Enel (2 milioni), Eni (1.250.000), Confindustria (900.000). Tutti insieme, i quasi dodicimila gruppi di pressione di Bruxelles spendono circa 1,5 miliardi all’anno. A che cosa servono? A mantenere uffici e personale, a fare convegni e campagne d’opinione in diversi Paesi. O a comprare voti, leggi, e figure delle istituzioni, questo è il dubbio spesso evocato.

Cosa fa il lobbista

Il lavoro del lobbista è quello di contattare commissari ed eurodeputati trasmettendo loro idee per emendare questa o quella norma. Commissari e deputati, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi per sapere quanto e come incidono le direttive nei vari settori dell’impresa e della società. Un’attività legale quindi, purché avvenga alla luce del sole. Infatti ci sono delle transenne: se vuoi incontrare un commissario europeo, per esempio, devi essere iscritto nel Registro della Trasparenza. Ma il problema dei controlli resta: «Mentre la Commissione obbliga i lobbisti a registrarsi prima che qualsiasi incontro possa aver luogo – spiega Raphael Kergueno, del sito Integrity Watch legato a Transparency International –, esercitare il lobbismo con gli eurodeputati e i delegati nazionali al Consiglio resta invece un’attività largamente non regolata. Solo quando il registro coprirà tutte e tre le istituzioni potremo verificare i comportamenti di coloro che a Bruxelles prendono le decisioni politiche».

Il lobbismo soft

Ci sono tanti modi per fare lobbismo, e a Bruxelles bisogna esserci, altrimenti ci sono solo gli «altri». L’ong Altroconsumo ha scritto nel 2018 agli eurodeputati italiani, chiedendo loro alcuni emendamenti a una proposta di direttiva sulle vendite a distanza. Si voleva che anche ai beni digitali fossero estese ampie garanzie contro i difetti di funzionamento, e così è stato. Sempre Altroconsumo ha influenzato le direttive Ue contro l’impiego degli antibiotici negli allevamenti intensivi. Slow Food ha fatto sentire la sua voce nelle direttive sugli Ogm. Altronsumo dichiara di essere finanziata al 98,08 % da quote e abbonamenti degli associati. Slow Food, costi minimi di 800.000 euro per il 2017, riceve sovvenzioni Ue per 730.285 euro, e il contributo degli aderenti di 816.331 euro.

A volte basta modificare un verbo

Il lobbismo delle imprese è più aggressivo. Di norma, ogni proposta di legge raccoglie in Parlamento 50-100 emendamenti, ma a volte sono molti di più e in questi casi possono infilarsi quelli proposti, o scritti direttamente, dai lobbisti e ricopiati pari pari dai deputati.

Quando si discusse l’ultima riforma della politica agricola, gli emendamenti furono 8.000. Per la direttiva che avrebbe dovuto regolare meglio gli hedge fund, i fondi di investimento a rischio, ne piovvero 1600: secondo fonti ufficiose metà erano stati scritti direttamente dai lobbisti della finanza. Anno 2013, direttiva sulla protezione dei dati personali firmata dalla commissaria Ue Viviane Reding, che parlerà poi di «lobbying feroce». Un esempio: l’articolo 35 del testo originale della direttiva dice: «il controllore e il processore (di certi dati personali, ndr) devono designare un responsabile della protezione…». La lobby della Camera di Commercio americana chiede che al «devono» si sostituisca un più morbido «possono». Il deputato conservatore inglese Sjjad Karim rilancia: nel suo emendamento, accolto, si legge «dovrebbero». La differenza fra «dovrebbero» e «devono» non è banale: sparisce l’obbligo tassativo.

La guerra del copyright

L’ultima guerra fra le lobby è scoppiata intorno alla direttiva sul copyright, appena approvata dall’Europarlamento. Da una parte Google e gli altri giganti dell’high tech, dall’altra musicisti, editori, giornalisti e le società che raccolgono i loro diritti d’autore, schierate contro il «no» allo sfruttamento gratuito sul web di opere che hanno diritto a un copyright. Dal novembre 2014 agli inizi del 2019 si sono avuti 765 incontri fra lobbisti e Commissione, nei cui verbali compare la parola «copyright». Google ha avuto 3 incontri al mese per tutto il 2018 con i vertici della Commissione (e le associazioni per i diritti d’autore ancora di più). In estate i deputati Verdi sono stati bombardati da tremila e-mail pro o contro le nuove norme. Virginie Rozière, deputata favorevole, ne ha ricevuto 400 mila, tutte contrarie. Alla fine la direttiva ha disposto che i giganti dell’high tech (nonostante le pesantissime pressioni) ora debbano chiedere le autorizzazioni, pagare autori ed editori, e intervenire sulle violazioni dei diritti.

Norme su emissioni, plastica e farmaci: grande via vai

Un’altra guerra è stata quella accesa dalle norme sulla plastica monouso. Il Cefic, l’ombrello delle industrie chimiche (oggi schierato contro la plastica), nel 2010 dichiara 6 milioni di costi di lobbying, che nel 2018 diventano 12. Nel frattempo, dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ottiene 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Significa che questa è una lobby influente, ascoltata.

Poi c’è il pianeta di «Big Pharma». Secondo un rapporto del 2015, le lobby dei farmaci spendono tutte insieme 40 milioni di euro. Questi investimenti riguarderebbero anche le decisioni sui diritti di proprietà o i delicati test sui farmaci. Altro settore caldo è quello dell’automobile. Le spese delle sue lobby a Bruxelles sono passate dai 7,6 milioni del 2011 ai 20,2 milioni nel 2014. Indizio per azzardare un perché: nel 2013 si discutevano le norme Ue sulle emissioni di co2 delle auto, nel 2014 quelle sull’ossido d’azoto.

I casi di corruzione

L’attività delle lobby è per sua natura opaca e il panorama non è sempre tutto bianco o tutto nero. A volte è proprio nero. Novembre 2010-marzo 2011, due giornalisti del «Sunday Times» con telecamera nascosta si presentano come lobbisti a Ernst Strasser, capogruppo del partito popolare austriaco: «Vorremmo cambiare una direttiva, ci aiuta?». Lui accetta, loro pubblicano tutto. Strasser finirà in carcere per corruzione. Come l’eurodeputato sloveno Zoran Thaler e il romeno Adrian Severin, incastrati dalla stessa telecamera. Stessa disponibilità: 100 mila euro a colpo. Un anno dopo, ottobre 2012, il commissario Ue alla salute, il maltese John Dalli, viene cacciato per i suoi legami con un lobbista del tabacco. Per aggiustare una direttiva Ue c’erano in ballo 60 milioni.

Negli ultimi due giorni sono falliti i negoziati, durati due anni, fra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo per l’istituzione di un registro unico.

Oltre 13mila lobbisti: cosa succede in Ue. Storia di Andrea Muratore su Il Giornale il 12 dicembre 2022.

Diciannove dipendenti delle lobby per ogni parlamentare europeo: Bruxelles è un crocevia di portatori d'interesse di aziende, gruppi di pressione e società finanziarie. Sono 13mila i lobbysti iscritti al registro ufficiale dell'Unione Europea, diciannove volte il numero totale di parlamentari, che assomma a 705.

Lo scandalo Panzeri-Kaili, in quest'ottica, rischia di gettare un'ombra sinistra sul lavoro dei professionisti delle pubbliche relazioni che sono, legittimamente, portatori di interessi. Più che di lobbying, nel caso, qualora gli addebiti venissero confermati, dovremmo parlare di una triste storia di corruzione e degrado morale, come del resto ha sottolineato anche il Commissario agli Affari Economici Paolo Gentiloni. Ma lo scandalo rischia di gettare un'ombra sinistra sull'intera galassia delle lobby. Al cui interno - oltre a Panzeri - si trovano numerosi ex esponenti delle istituzioni.

Il Corriere della Sera ricorda che "ben 485 ex parlamentari oggi lavorano per gruppi di interesse. ben 485 ex parlamentari oggi lavorano per gruppi di interesse" e molti personaggi di spicco delle istituzioni del passato hanno oggi incarichi importanti in grandi multinazionali. José Manuel Barroso, ex presidente della Commissione, è da anni un top manager di Goldman Sachs. L'ex Europarlamentare e vicepremier britannico Nick Clegg è dal 2018 vicepresidente di Facebook. E ci sono anche molti casi di revolving doors tra apparati amministrativi che gestiscono cause o processi decisionali e aziende, sia di beni e servizi che di consulenza, che sostengono gruppi di pressione: nel 2021 ad esempio, Nick Banasevic, un altro alto funzionario coinvolto in cause contro Google e Microsoft, ha lasciato l'UE per unirsi a Gibson Dunn, un'importante impresa legale. L'ex commissario olandese Neelie Kroes, secondo gli Uber Files, avrebbe rappresentato la compagnia di trasporto privato nella fase di diciotto mesi compresa tra la fine del suo mandato e il limite legale segnato dalla Commissione per assumere un ruolo nel privato.

Il Financial Times riporta che solo sul fronte consulenziale questo problema è stato affrontato: "Bruxelles sta restringendo la possibilità per i funzionari dell'Ue che lavorano per le imprese del settore privato sfruttando le porte girevoli tra l'istituzione e gli studi legali e le società di consulenza". Ma in generale il mondo del lobbying non ha regole certe e questo, accanto a professionisti trasparenti, crea un mondo di mezzo di portatori d'interesse che va di pari passo con l'aumento delle agenzie e degli apparati, oltre che delle decisioni strategiche prese dall'Ue.

Chi lavora a Bruxelles ricorda la pioggia di audizioni avvenute ai tempi delle discussioni sulla Gdpr, quando le compagnie del big tech furono le più critiche verso la regolamentazione europea. L'European Chemical Industry Council è oggi con 9 milioni di euro il primo investitore nel lobbying presso la Commisisone, seguito da Google con 6 e Microsoft con 5. Facebook e ExxonMobil sono a 3 milioni a testa. Mohammed Chahim, europarlamentare socialista, ha sottolineato come a giugno si fosse intensificato il lobbying dei big dell'auto per fermare l'opzione del passaggio all'elettrico entro il 2035. E di recente, nota Politico, molti parlamentari ritengono che "hanno ingannato i legislatori europei durante i negoziati su due importanti leggi tecnologiche dell'UE, il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA), nascondendosi dietro altre organizzazioni: lobby che presumibilmente rappresentano piccole e medie imprese, a cui hanno fornito finanziamenti e istruzioni. Nel frattempo, le lobby hanno finto di essere i rappresentanti ufficiali delle Pmi mentre allo stesso tempo promuovevano e difendevano gli interessi commerciali delle Big Tech", senza rivelare le loro connessioni. Un altro esempio del fatto che non è il lobbying il problema, ma l'assenza di regolamentazione verticale e di paletti precisi sui passaggi di campo che, per ora, riguarda solo nove agenzie dell'Ue. Le regole sul conflitto d'interesse esistono: basterebbe applicarle. E distinguere i professionisti degli affari istituzionali dagli arrivisti che lucrano sul contatto diretto tra esponenti istituzionali e settore privato.

Fate presto. La migliore risposta al Qatargate è regolamentare i lobbisti dei Paesi extra Ue. Pier Virgilio Dastoli su L’Inkiesta il 13 Dicembre 2022

Il caso sulla presunta corruzione deve aprirci gli occhi su un vuoto legislativo da colmare il prima possibile: non c’è nessuna regola che impedisca l’azione di lobbies extra-europee su assistenti ed eurodeputati. L’Eurocamera deve creare una commissione di inchiesta sulla vicenda

Il 10 dicembre è stata la giornata internazionale dei diritti fondamentali che si celebra ogni anno per ricordare la Dichiarazione universale proclamata dalle Nazioni Unite nel 1948. Questa giornata internazionale ha paradossalmente coinciso con l’esplodere del cosiddetto Qatargate e cioè con le informazioni diffuse dalla Procura federale belga sull’inchiesta avviata cinque mesi fa per una serie di azioni criminose secondo cui «gli inquirenti della polizia giudiziaria sospettano che uno Stato del Golfo  abbia cercato di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo». «Sono stati sequestrati contanti per seicentomila euro oltre a materiale informatico e telefoni cellulari», ha aggiunto la Procura federale belga.

Nonostante il carattere molto scarno del comunicato, ambienti alla Procura federale belga si sono immediatamente attivati per informare i due maggiori quotidiani belgi francofono e fiammingo sull’identità dei fermati, sul numero e sulle località delle perquisizioni, sui capi d’accusa e sul nome dello Stato del Golfo che avrebbe esercitato il tentativo di influenza: ciò in pieno disprezzo – come avviene purtroppo in molti paesi europei a cominciare dall’Italia nei rapporti di «buona collaborazione» fra la magistratura o le cancellerie e la stampa – delle ragioni che dovrebbero essere alla base degli avvisi di garanzia e della presunzione di innocenza.

L’azione ultra vires della Procura federale belga ha avuto l’effetto immediato di aprire un processo mediatico nei confronti non solo degli indagati/fermati ma di tutto il Parlamento europeo «sécoué – scrive Le Monde – par un Qatargate» o «soldi del Qatar al Parlamento europeo» (Il Sole 24 Ore) o ancor di più «Eurocorruzione» aggiungendo che «il Qatar ha corrotto la democrazia europea» (La Repubblica).

A proposito di presunzione di innocenza vale la pena di sottolineare che la Procura si è attivata il 9 dicembre perché fossero diffusi sulla stampa i nomi dei fermati (6) ma che non ha usato la stessa premura e sollecitudine perché fosse diffusa sulla stampa la notizia che uno dei fermati (Luca Visentini) era stato liberato seppure sous conditions.

Il Movimento europeo condanna senza riserve le azioni dei corrotti – quando esse saranno provate – e ritiene che l’opinione pubblica europea debba essere rapidamente e ampiamente informata sulle dimensioni non solo finanziarie della corruzione ma anche sugli effetti delle azioni dei corrotti nelle decisioni “economiche e politiche” del Parlamento europeo relative alla denuncia delle violazioni del rispetto dei diritti fondamentali nel Qatar e più in generale negli Stati del Golfo.

Il Movimento europeo prende anche atto con soddisfazione delle sanzioni prese con estrema rapidità dal Parlamento europeo attraverso la propria presidente Roberta Metsola, dal Gruppo S&D e dal Pasok nei confronti della vicepresidente Eva Kaili e si attende che la stessa fermezza e la stessa rapidità siano adottate nei confronto di altri eventuali indagati appartenenti a qualsiasi titolo all’istituzione così come la totale estraneità dell’ETUC alle ipotesi di corruzione su cui indaga la magistratura belga.

Noi invitiamo a leggere con attenzione la risoluzione “sui diritti umani nel contesto della Coppa del Mondo FIFA 2022 nel Qatar” approvata dal Parlamento europeo il 24 novembre 2022 a Strasburgo – nata da una proposta del Gruppo Renew Europe (i liberali, n.d.r.) che, fin dalla legislatura 2014-2019, è stato il più attivo nella denuncia delle violazioni dei diritti fondamentali in Europa e nel mondo nonostante le incomprensibili reticenze di PPE e S&D – frutto di un compromesso raggiunto fra Renew Europe, PPE, S&D e ECR e dunque con la auto-esclusione per ragioni opposte di Verdi, Sinistra Europea e Identità e Democrazia.

Nella risoluzione si condannano le morti (quelle che in Italia vengono chiamate ipocritamente “incidenti sul lavoro”) e le violenze di cui sono stati vittime i lavoratori nella preparazione dei campionati del mondo di calcio, le discriminazioni nei confronti di centinaia di migliaia di migranti, la mancanza di trasparenza e di responsabilità della FIFA nella scelta del Qatar avvenuta nel 2010, la lunga storia di corruzione “rampante e sistemica” della FIFA che ha gravemente danneggiato l’immagine e l’integrità del calcio, l’assenza del rispetto dei diritti fondamentali e dei principi dello stato di diritto da parte degli sponsor delle manifestazioni sportive, la mancanza di una riforma profonda delle regole per l’attribuzione delle sedi dei campionati del mondo di calcio e di una informazione trasparente sull’attribuzione del campionato 2022 al Qatar e il mantenimento della pena di morte nel Qatar (dove è in vigore la legge islamica della Sharia, n.d.r.).

Si deve invece sottolineare che un approccio più flessibile nel giudicare lo stato della protezione dei diritti nel Qatar e in particolare dei lavoratori migranti (come si riscontra dal Testo della Risoluzione) sembrerebbe derivare soprattutto dal fatto che sia l’ILO che l’ITUC hanno considerato le riforme adottate dal Qatar come un esempio per gli altri Stati del Golfo.

La magistratura belga e con essa le magistrature degli altri paesi europei possono e debbono agire con pene esemplari contro i corrotti europei e le istituzioni europee possono e debbono accompagnare le pene giudiziarie con sanzioni amministrative congelando e poi cancellando i diritti finanziari maturati da membri delle istituzioni così come la Commissione e il Consiglio dovranno indagare per verificare se ci sono stati tentativi di influenze illegali al proprio interno.

La vicenda del Qatargate deve permettere tuttavia di lanciare un forte allarme non solo sulla presenza dei corrotti ma anche sull’azione dei corruttori e cioè delle lobbies che agiscono da paesi al di fuori dell’Unione europea sapendo che la regolamentazione e la trasparenza sulle lobbies europee deve essere rafforzata e completata con un accordo interistituzionale ma che non c’è nessuna regola e nessuna misura per impedire l’azione e le ingerenze di lobbies extra-europee.

Una pronta reazione del Parlamento all’accaduto con il varo di misure preventive ed efficaci a tutela dell’autenticità e dell’autonomia delle procedure di formazione della volontà collettiva dell’organo a mandato universale dei cittadini europei sarebbe la prima, doverosa, risposta all’attuale turbamento dell’opinione pubblica continentale, nell’attesa che la Magistratura chiarisca la reale entità dei fatti. Il Movimento europeo chiede infine al Parlamento europeo di creare una commissione di inchiesta sul Qatargate a partire dalla lista di denunce e di condanne contenute nella risoluzione del 24 novembre 2022.

Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

Chi ha ottenuto in concessione uno stabilimento balneare in cui ha investito, e che da decenni gli rende bene, può vantare il «diritto acquisito» a tenerselo senza partecipare a gare pubbliche e a canoni irrisori? Il proprietario delle spiagge è lo Stato, ma chi le può gestire, a quali condizioni e con quali canoni è una questione irrisolta da almeno 16 anni. È fin troppo evidente che un equilibrio fra interesse privato e quello pubblico non c’è. Il tempo per varare la riforma delle concessioni balneari scade fra tre mesi. Vediamo come stanno le cose.

Due ombrelloni per tre mesi

Dall’ultimo rapporto della Corte dei Conti i numeri sono chiari: le concessioni per le spiagge sono 12.166, e tra il 2016 e il 2020 hanno reso allo Stato solo briciole: in media 101,7 milioni di euro l’anno (qui l’intervento della Corte dei Conti, pag. 15-16). Dal 2021 è stato introdotto il canone minimo annuo a 2.500 euro, che nel 2022 sono diventati 2.698 per gli aumenti Istat (qui il decreto- legge 14 agosto 2020, n. 104, art. 100). Una cifra che si ripaga con l’affitto di 2 ombrelloni per 3 mesi a 15 euro al giorno. Certo ci sono spiagge (pochissime) dove il canone è più alto, ma più alto è anche il prezzo dell’ombrellone. Bisogna poi aggiungere i costi dei bagnini e della manutenzione della spiaggia, ma anche i ricavi del servizio bar o ristorante. Una sproporzione fra fatturati e canoni a danno della redditività per l’Erario, già segnalata sia dalla Corte dei Conti sia nei documenti di economia e finanza (Nadef 2018).

Rinnovi automatici e taciti

Succede perché finora chi si è aggiudicato una concessione balneare se l’è tenuta grazie a rinnovi taciti e automatici. Ciò è stato possibile anche perché il Codice di navigazione, che risale al marzo 1949, prevedeva il «diritto di insistenza»: vuol dire che chi già ha una concessione vanta il diritto di essere preferito a terzi nella riassegnazione (qui il documento, art. 37). Nel 2009 il «diritto di insistenza» viene eliminato sotto la minaccia di una procedura di infrazione Ue per il mancato rispetto della «direttiva Bolkestein» del 2006 che invece prevede l’obbligo di procedure pubbliche imparziali e trasparenti (qui all’art. 12). Contemporaneamente, per allinearsi alle richieste della Ue, viene annunciata la necessità di rivedere le regole.

Nessuno decide

Da quel momento in poi nessuno osa mettere mano alle norme sull’assegnazione delle concessioni, e si procede di proroga in proroga: il governo Berlusconi IV fa slittare il termine al 31 dicembre 2015 (qui il decreto-legge, art. 1, comma 18), il governo Monti al 31 dicembre 2020 (qui il decreto, art. 34-duodecies), il governo Conte 1 addirittura al 31 dicembre 2033 (legge di bilancio 2019, la 145 del dicembre 2018). Così a dicembre 2020 ci viene notificata dall’Ue una nuova procedura di infrazione, e nel novembre 2021 il Consiglio di Stato sancisce che il rilascio o il rinnovo delle concessioni balneari deve avvenire con procedura di evidenza pubblica, fissando il termine delle attuali concessioni al 1° gennaio 2024 (qui e qui i documenti).

Il Ddl Concorrenza

La svolta politica arriva con gli articoli 3 e 4 del Ddl Concorrenza approvato lo scorso agosto dal governo Draghi (qui il provvedimento): la scadenza delle concessioni in vigore (date generalmente dai Comuni) è fissata al 31 dicembre 2023 o, in caso di pendenza di un contenzioso o difficoltà nell’espletamento della gara, al 31 dicembre 2024. Niente più rinnovi automatici, ma gare pubbliche che devono ispirarsi ai princìpi di imparzialità, trasparenza e adeguata pubblicità. Gli investimenti e la professionalità acquisita da chi già gestisce le spiagge vanno tenuti in considerazione, così come sono previsti indennizzi per gli eventuali concessionari uscenti a carico di chi subentra.

Il Ddl Concorrenza, dunque, tutela sia gli attuali titolari delle concessioni e i loro investimenti, sia l’interesse pubblico di fare fruttare meglio i beni demaniali

E fissa una data: entro febbraio 2023 emanazione dei decreti con i criteri per le gare pubbliche.

Nuovi ostacoli

Ed è quello che deve fare il nuovo governo: a occuparsi della materia saranno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro del Mare Nello Musumeci. Il dossier sarà preparato da un Comitato interministeriale di coordinamento delle politiche del mare (Cipom) sotto la guida di Palazzo Chigi. Agli imprenditori balneari, da anni sulle barricate, la stessa Meloni in una lettera del 3 novembre assicura: «Il nostro governo difenderà le imprese balneari italiane e le famiglie che lavorano nel settore. L’Italia non può permettere che le proprie spiagge finiscano in mano a chissà chi, con il rischio di distruggere un tessuto economico sano e di mettere in pericolo anche l’integrità dell’ambiente». Intende dire che i concessionari rimangono gli stessi perché il governo non riesce a definire dei criteri di gara che garantiscono l’interesse pubblico?

L’altro fronte irrisolto: i taxi

Nello stesso Ddl Concorrenza c’era anche la delega al Governo per riscrivere entro 6 mesi le regole sui taxi, un servizio pubblico la cui prestazione deve essere obbligatoria, capillare sul territorio e accessibile economicamente. La legge che disciplina il settore è la n. 21 del 1992 che rinvia ai Comuni il compito di stabilire il numero di licenze, i turni con il numero di taxi per fasce orarie e le tariffe (art. 5). Chi ha una licenza è titolare di un’impresa artigiana, e iscritto alla Camera di Commercio dopo avere superato l’esame per ottenere il «ruolo di conducente» (solo dopo i 21 anni). Chi ha una licenza da più di 5 anni, o ha compiuto i 60 anni, o per malattia, può indicare al Comune a chi trasferirla. In caso di morte può passare a uno degli eredi, o a chi indicato da loro (art. 9).

Numero di licenze al palo

In media in Italia c’è un taxi ogni 2.000 abitanti contro i 1.160 della Francia (qui) e i 1.028 della Spagna (qui). Nelle 110 principali città italiane le licenze sono 23.139, più o meno le stesse di 15 anni fa. A Milano erano 4.855 e oggi sono 4.852, e le ultime, rilasciate dal Comune a titolo gratuito risalgono al 2004.

Ad agosto 2019 l’allora assessore ai Trasporti Marco Granelli ammette: «È necessario ampliare il contingente in servizio con 450 nuove licenze» (qui il documento). Il motivo? Sulle 33.400 chiamate al giorno tra le 8 e le 10 ne risulta inevaso il 15%; tra le 19 e le 21 il 27%, il sabato e domenica tra le 19 e le 21 il 31%; tra mezzanotte e le 5 il 42%.

Tutto rinviato poi per il Covid, ora c’è da vedere se e quando la questione sarà ripresa. A Roma in quindici anni sono passati da 7.710 licenze a 7.703, e le ultime 500 sono state assegnate nel 2008. Per fare fronte all’alta richiesta insoddisfatta di taxi tra luglio e settembre il Comune modifica le regole dei turni ben 4 volte per dare ai tassisti la possibilità di allungare gli orari nel fine settimana (qui); fare lavorare un sostituto (qui art. 33) e avere turni di 12 ore contro le 8 e mezzo precedenti (qui). Si legge nell’ordinanza: risposta deludente, la domanda dei taxi resta inevasa. In sostanza le licenze sono poche.

Uber e compagnia

L’altra questione da risolvere riguarda il mercato parallelo delle piattaforme digitali, come la californiana Uber black che connette passeggeri e autisti NCC (anch’essi con licenza ma che non svolgono servizio pubblico): l’app permette di conoscere in anticipo il costo della corsa. Come l’italiana Wetaxi. Poi c’è la tedesca Freenow che lavora con i tassisti e permette di pagare la corsa dal cellulare (per esempio con PayPal). Tutto questo nuovo mercato oggi si autoregolamenta.

Cosa diceva il Ddl Concorrenza

L’articolo 10 del Ddl Concorrenza prevedeva di promuovere la concorrenza, anche con il rilascio di nuove licenze, e di regolamentare l’uso delle piattaforme tecnologiche per mettere in contatto passeggeri e conducenti. Ma l’articolo viene stralciato lo scorso 21 luglio dopo l’ennesima rivolta della lobby dei tassisti (qui il Ddl concorrenza e qui lo stralcio): più licenze fa perdere mercato e valore alle licenze stesse vendute anche a 150-200 mila euro.

Uno stralcio rivendicato da Francesco Lollobrigida, braccio destro di Giorgia Meloni: «È merito di Fratelli d’Italia e di tutto il centrodestra». Mentre l’Autorità indipendente per i trasporti chiede una revisione delle regole almeno dal 2015 (qui il documento) e cresce la domanda di servizio taxi, prosperano gli abusivi.

Del rapporto tra lobby e comunicazione. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 26 Settembre 2022

L’attività di lobby e la comunicazione sono parenti stretti? Dopo anni e anni di lavoro in questo settore, penso che possiamo definirle al massino cugine di secondo grado, niente di più. Però grazie alle interviste della serie Lobby Non Olet di Telos A&S, ho avuto modo di scoprire dai miei colleghi lobbisti che sono tra le poche a pensarla così. Effettivamente in molte aziende la direzione comunicazione e quella degli affari istituzionali (leggi lobbying) fanno capo allo stesso responsabile. Così come in molti studi professionali o agenzie, si unisce l’attività di public affairs con l’ufficio stampa.  Il concetto non è di per sé sbagliato, se lo interpretiamo con le parole di Paolo Lanzoni, coordinatore ufficio stampa di Sace, che questo mese abbiamo intervistato per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet.

“C’è una relazione molto forte, a mio avviso, fra comunicazione e lobby. Perché innanzitutto come comunicatore porto avanti i miei interessi e, quindi, è evidente che la comunicazione possa giocare un ruolo. Un ruolo che deve aiutare l’attività di lobby. Questo lavoro deve essere fatto con competenza, trasparenza, semplicità. Bisogna essere in grado di semplificare interessi e argomenti complessi”.

Sono d’accordissimo con questo approccio. Il lobbista, come il comunicatore, deve essere in grado di semplificare temi complessi, di andare al cuore del problema e presentare al decisore pubblico una soluzione concreta che riassuma l’interesse generale. Continuo tuttavia a essere perplessa quando viene evocata la similitudine con la pallavolo e il rapporto tra l’alzatore e il battitore. Secondo questo paragone, la comunicazione dovrebbe “sollevare” il tema, mentre il lobbying dovrebbe segnare il punto, ottenendo il risultato. Un parallelismo che non mi convince. Mi spiego. Nella maggior parte dei casi i temi dei quali si occupano i lobbisti sono così tremendamente tecnici e orrendamente cavillosi da non suscitare alcun l’interesse mediatico. Questo, nei fatti, porta il nostro lavoro molto lontano dai riflettori.

È diverso se parliamo invece delle politiche di un Paese. Naturalmente la mobilitazione di piazza – raccontata e/o sollevata dai media, dagli opinion leader e dagli influencer del web – può fare la differenza nell’orientamento del decisore pubblico. Mi riferisco, ad esempio, alle manifestazioni dei fridays for future. Questi movimenti possono effettivamente cambiare le cose. Detto questo mi ritiro in buon ordine e ritorno ai cavilli della lobbista, nella mia stanzetta con il divano a fiori. Lontano dai clamori mediatici che leggo sul giornale.

La lobby e il matrimonio di interesse. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 15 Luglio 2022.

Quando si fa la lobby perfetta? Non quando gli interessi non vengono chiamati in causa ma, al contrario, quando gli interessi convergono. In questo settore, il matrimonio di interesse è la soluzione ideale. Per la nostra rubrica Lobby Non Olet, ne abbiamo parlato con Jacques Moscianese, che cura i rapporti istituzionali del Gruppo Intesa Sanpaolo.

Moscianese ha fatto luce su un aspetto di solito trascurato nel racconto del mestiere del lobbista. Il pensiero diffuso su questo lavoro è infatti che gli operatori del settore siano principalmente concentrati sul “far passare” una norma che favorisca l’azienda per la quale lavorano. Un concetto che non è sbagliato, ma è drammaticamente incompleto.

È vero che il responsabile degli affari istituzionali di un’azienda propone al decisore pubblico l’emendamento a una norma o la scrittura di una nuova norma. Ed è vero che l’intervento che propone va incontro all’interesse particolare dell’azienda che rappresenta. Manca, però, una terza verità. Eccola: è altrettanto vero che il bravo professionista, prima di portare una proposta al legislatore, studia quale possa essere la convergenza tra l’interesse particolare della propria azienda e, a seconda dei casi, l’interesse generale dei cittadini o dei consumatori o di altre aziende del settore. Sì, anche di altre aziende. E non c’è niente di male, se consideriamo che queste aziende producono merci, servizi, lavoro… in poche parole, fanno girare quell’economia di cui tutti raccogliamo i frutti.

Jacques Moscianese racconta in questo modo la sfida che caratterizza il suo lavoro: “La difficoltà è proporre soluzioni che non siano soltanto positive per il Gruppo che rappresento, ma che siano positive per l’intero sistema. Ed è questo lo stimolo maggiore che la mia attività mi pone tutti i giorni […]. Oltre agli interessi della banca, noi valutiamo sempre, forse in primis, l’interesse generale”. Moscianese è un santo o tale vuole apparire? No, non lo credo affatto. Almeno non lo è per questo aspetto. Quello che racconta è semplicemente il modo normale e professionale di gestire questo lavoro, nel quale il matrimonio deve essere sempre di interesse.

·        La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

DAGOREPORT il 14 settembre 2022.  

A chi appartiene la ‘’manina’’ del Mef che ha consentito l'eliminazione del tetto dei 240 mila euro per i vertici delle forze armate, della polizia e dei ministeri, compreso Palazzo Chigi? Facile: il potente Giuseppe Chiné, capo di gabinetto del ministro Daniele Franco. Al ministero dell’economia – il luogo decisivo di ogni intreccio di potere – Chiné è la persona di raccordo con il vertice politico del ministro, supportandolo nella definizione degli obiettivi dell'amministrazione. È il soggetto decisivo per i sì e i no da pronunciare.

Il blitz che ha fatto infuriare Draghi – il tetto da 240 si raddoppia a 480 mila euro – porta non solo la firma di Chiné ma anche quella del presidente della Commissione Finanze e Tesoro del Senato, Luciano D’Alfonso, che – eufemismo – non stima granché Draghi e Giavazzi da quando il Consiglio di Stato ha riaffidato ad Anas la gestione delle autostrade A24 Roma-L’Aquila-Teramo e A25 Torano-Pescara, togliendole al suo solido amico Carlo Toto. 

D’Alfonso, oggi sul Corriere (vedi articolo a seguire), si difende a colpi di supercazzole dall’accusa di aver mandato in aula l’emendamento che sfonda il tetto degli stipendi ai manager pubblici.

La deroga è infatti valida per il Capo della polizia, il Comandante generale dell'Arma dei carabinieri, il Comandante generale della Guardia di finanza, il Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il Capo di stato maggiore della difesa, i Capi di stato maggiore di Forza armata, il Comandante del comando operativo di vertice interforze, il Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, i Capi Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri, i Capi Dipartimento dei ministeri, il Segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri, i Segretari generali dei ministeri. Tutti tipini che un giorno saranno riconoscenti. 

Scrive Carlo Di Foggia su “il Fatto quotidiano”: “Come si intuisce dall'elenco, il mandante del blitz è chiaro: i papaveri ministeriali - con il Tesoro a fare da palo - hanno visto nel braccio di ferro tra governo e partiti sul dl Aiuti l'occasione giusta. La possibilità è stata fornita da un emendamento depositato dal senatore Marco Perosino di Forza Italia. Il testo originario prevedeva la deroga al tetto sugli stipendi solo per le forze di polizia, carabinieri e amministrazione penitenziaria. Poi però è successo qualcosa”.

E’ successo che la potentissima lobby dei consiglieri di Stato si è messa in moto, una “ultra casta” che Sergio Rizzo ha messo nero su bianco nel suo libro “Potere assoluto”. 

‘’POTERE ASSOLUTO’’ - LIBRO INCHIESTA DI SERGIO RIZZO EDITO DA SOLFERINO - ESTRATTO micromega.net/il-potere-assoluto-dei-consiglieri-di-stato il 14 settembre 2022.   

I consiglieri di Stato sono magistrati, verissimo. Però magistrati assolutamente sui generis. Così sui generis che molti di loro non fanno nemmeno quel lavoro. Fra tutti i 10mila e passa magistrati italiani sono quelli più vicini alla politica. Al punto da indirizzarne talvolta le scelte importanti.

Gli spetta per legge il compito di esprimere pareri e suggerimenti sulle iniziative del governo. Pareri e suggerimenti, si badi bene, talvolta vincolanti. Al tempo stesso, nei panni di giudici, hanno il potere di emettere sentenze su ogni causa che contrapponga la società civile alla pubblica amministrazione. E anche di più. 

Controllano i grandi appalti e gli affari delle imprese private e di Stato, senza contare le misure adottate dalle autorità indipendenti. Nomine e avanzamenti di carriera di funzionari statali, dispute territoriali, controversie sui servizi pubblici. Possono controllare perfino il destino dei colleghi giudici e procuratori della Repubblica, che si devono rivolgere a loro per i ricorsi contro le decisioni del Consiglio superiore della magistratura riguardanti le carriere.

Ma il vero asso nella manica è la possibilità di assumere incarichi diversi da quelli strettamente giudiziari, andando «fuori ruolo». Significa che continuano a prendere lo stipendio svolgendo altri incarichi istituzionali, magari con una gratifica per il disturbo di cambiare ufficio, e intanto entrano nella stanza dei bottoni a contatto diretto con i politici che contano. 

E qui viene l’aspetto più interessante. Perché proprio quel genere di incarichi «fuori ruolo» li ha trasformati negli uomini più potenti del Paese. Hanno in mano i ministeri, che i ministri gli danno volentieri in gestione chiamandoli a fare i capi di gabinetto. Spesso senza nemmeno averli scelti, ma essendo stati scelti, perché più potenti loro dei ministri.

Hanno in mano perfino il processo legislativo della nostra democrazia, visto che, come esperti giuridici dei ministri, scrivono le leggi e ne gestiscono il funzionamento attraverso decreti attuativi predisposti da loro stessi. 

Nel governo di Mario Draghi ce ne sono undici: il 10 per cento dell’intero Consiglio di Stato. E non sono magistrati qualsiasi. Occupano molti posti chiave, a cominciare dal vertice dello Stato. Cioè Palazzo Chigi. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, la figura politica più importante perché braccio operativo del premier, è Roberto Garofoli.

Il segretario generale di Palazzo Chigi, cioè il capo dell’amministrazione più potente del Paese, risponde al nome di Roberto Chieppa, figlio dell’ex presidente della Corte costituzionale Riccardo Chieppa. Capo del dipartimento Affari giuridici è Carlo Deodato, consigliere di Stato che ha avuto la stessa funzione nel governo di Enrico Letta. 

Predecessore di Deodato è Ermanno De Francisco, chiamato da Giuseppe Conte. Perché in quella stanza della presidenza, da cui escono i disegni di legge e i decreti del governo, c’è sempre stato un consigliere di Stato. Le eccezioni, come per esempio Roberto Cerreto, il funzionario parlamentare che l’ha occupata durante il breve governo di Paolo Gentiloni, pure esistono. Ma si contano sulle dita di una mano. 

Nel 2021 le tre posizioni di maggior peso nel cuore del potere sono dunque occupate da consiglieri di Stato. Idem al ministero più importante, quello che ha il cordone della borsa. Il gabinetto del ministero dell’Economia occupato dall’ex Bankitalia Daniele Franco è guidato da Giuseppe Chiné.

Mentre gli uffici legislativi sono affidati, oltre che a Mastrandrea, ad Alfredo Storto e Glauco Zaccardi: il quale non è consigliere di Stato ma un magistrato ordinario figlio di Goffredo Zaccardi, lui sì già consigliere di Stato, ora in pensione, capo di gabinetto del ministero della Salute fino al settembre 2021. 

Zaccardi junior è stato il solo di quella struttura a conservare la poltrona con il passaggio di consegne al ministero da Roberto Gualtieri a Franco. Mastrandrea ha rilevato la sua collega Francesca Quadri, e Storto è arrivato al posto di Hadrian Simonetti, consigliere di Stato legatissimo a Ermanno De Francisco. 

Ma andiamo avanti. Raffaello Sestini ha l’incarico di vicecapo di gabinetto di Roberto Cingolani, titolare del ministero della Transizione ecologica, dove il responsabile delle leggi era fino al novembre 2021 il presidente di sezione del Consiglio di Stato Claudio Contessa. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha come capo di gabinetto Luigi Fiorentino.

Al ministero della Salute di Roberto Speranza, da due anni impegnato nella lotta alla pandemia, la stesura dei testi di legge è compito del consigliere di Stato Luca Monteferrante. Capo dell’ufficio legislativo del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, è Roberto Proietti. La sua collega Antonella Manzione è consigliere giuridico della ministra della Famiglia Elena Bonetti. Prima della sua nomina a consigliere di Stato ha guidato l’ufficio legislativo di Palazzo Chigi con Matteo Renzi.

Il Consiglio di Stato è il nocciolo duro del potere. Un piccolo blocco granitico, intoccabile e soprattutto autoreferenziale, in quella «ultracasta» che è la magistratura, come l’ha definita nel 2009 un magnifico libro del giornalista dell’«Espresso» Stefano Livadiotti. 

Nel senso che la spartizione degli incarichi di potere, quasi tutti invece inibiti ai magistrati ordinari, è un fatto interno sul quale nessuno può mettere bocca. E dal vertice dello Stato il suo potere si spande a macchia d’olio in tutte le pieghe della nostra società. […]

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 14 settembre 2022.   

Senatore Luciano D’Alfonso perché avete mandato in aula l’emendamento che sfonda il tetto degli stipendi ai manager pubblici?

«L’unico che poteva eccepire qualcosa era l’autore, Marco Perosino, ma non lo ha fatto». 

Ma Perosino dice che lo aveva ritirato.

«Per ritirarlo serve un atto formale, che non ha fatto».

Ma Lei che presiede la commissione Finanze e Tesoro non se n’è accorto?

«No, né io né Daniele Pesco che presiede la commissione Bilancio al Senato. Perché quando è arrivato dal governo non era più possibile fare alcun tipo di modifica. Non c’era più tempo poiché ogni cambiamento deve essere validato dal governo. Questa poi era una riconferma. Il Parlamento verifica quando ci sono cambiamenti della parte originaria, ma qui c’era solo un allargamento della platea».

Un bell’allargamento: ai vertici delle Forze di polizia e Forze armate si sono uniti anche i ministeri e per analogia se ne potranno aggiungere altri.

«Quando queste navicelle viaggiano sollecitano appetiti. La regia per l’istruttoria di verifica ce l’ha il Mef, ma quando si apre l’istruttoria di verifica di compatibilità economica ad altre amministrazioni questi provvedimenti si cominciano a gonfiare». 

Era il caso che passasse questa norma in un provvedimento nato per aiutare chi non ce la fa a sostenere i rincari delle bollette?

«L’innalzamento del tetto è facoltativo e rimanda a un decreto. So che questo provvedimento doveva vedere la luce già a dicembre con una norma che riguardava l’indicizzazione Istat per superare l’inflazione. Ma va sempre fatta attenzione al momento. Anche per un provvedimento come questo che rende libero chi non deve essere sottoposto a nessuna pressione».

Il governo cancella la norma salva-boiardi di Stato. Megastipendi a manager pubblici, Draghi infuriato contro chi non ha vigilato.  Claudia Fusani su Il Riformista il 15 Settembre 2022 

E va bene togliere qualcosa in qua e in là, un contentino sul Superbonus, l’appellativo “esperto” al prof premiato, un po’ di smart working. Ma le marchette no, quelle no. Non con Draghi. Non mentre la gente non sa come pagare la bolletta della luce. Dicono che già martedì sera il premier Draghi quando ha realizzato che nel decreto Aiuti bis era stata infilata la norma che consente ai manager pubblici di percepire stipendi che superano il tetto di 240mila euro lordi l’anno abbia messo da parte il suo tradizionale aplomb e abbia sentenziato: “Non se ne parla. Non passerà mai”. Costi quel che costi. Whatever it takes, per l’appunto. In questo caso significa pubblica gogna sui partiti che pensavano di farla franca – e con loro i loro mandanti – approfittando delle camere sciolte, dell’emergenza energia e di un passaggio di consegne a dir poco concitato e incerto. Significa anche dito puntato sulle alte burocrazie dell’amministrazione dello Stato che certamente avrebbero beneficiato della liberalizzazione degli stipendi e che hanno manovrato, complice la solita manina, nell’ombra e nella frenesia di queste giornate.

Detto fatto. Ieri nel primo pomeriggio il governo, cioè Draghi, dopo aver avuto il via libera del capo dello Stato, ha cassato l’emendamento 4bis (“Trattamento economico delle cariche di vertice delle Forze armate, delle Forze di polizia e delle pubbliche amministrazioni”) presentando un emendamento al testo che è arrivato ieri in Commissione alla Camera dove sarà votato oggi in aula. I partiti, presi con le mani nella marmellata hanno loro stessi cassato l’emendamento dello scandalo. Morale: oggi l’aula della Camera voterà l’emendamento soppressivo del 4 bis e il decreto Aiuti bis. Il testo però, modificato, dovrà tornare al Senato per la terza, inattesa e definitiva lettura. Generali, superpoliziotti e manager di stato dovranno continuare ad accontentarsi di 240 mila euro lorde l’anno. È chiaro che la storia è il paradigma del cinismo di fine legislatura, la conferma di un metodo – il più tradizionale assalto alla diligenza, in questo caso i 17 miliardi che sono il tesoretto del decreto in questione – e di un vizio a quanto pare sopravvissuto nonostante l’orgoglio di aver fatto parte di un governo come minimo un po’ speciale. Draghi si è ribellato a questa “vergogna” (questa l’espressione usata secondo fonti di palazzo Chigi) e ha lanciato la sua sfida. Anche se in uscita, non presta la sua faccia a una simile porcheria amplificata dal fatto che la gente fuori dal palazzo non ha i soldi per pagare le bollette e che il mezzo usato per portare a fondo la porcheria si chiama per l’appunto “decreto Aiuti”.

«Non ho intenzione – si sarebbe sfogato – di mettere la faccia su questa norma mentre la gente fa i conti con l’inflazione». Il presidente del Consiglio ha provato a ricostruire come si sia potuti arrivare a tanto. E ha cercato di mettere in fi la le “tante manine” di questa storia. Qualche manina sta sicuramente a palazzo Chigi e nel governo. È una vergogna che nelle stanze del Dagl (il legislativo) guidato dal professor Carlo Diodato nessuno abbia dato l’allarme. Può darsi che nella fretta nessuno se ne sia accorto? Il problema, anche in questo caso, non sarebbe da meno. È ridicolo che il ministero dell’Economia abbia dato il parere conforme (circa la nuova spesa e la relativa copertura) ricorrendo ad un presunto fondo ministeriale e però incapiente e in seconda battuta al “Fondo spese impreviste”. Possibile che sia stato fatto tutto questo all’insaputa del fidatissimo e attentissimo ministro Franco? Abbiamo già detto del Dagl. Ma poniamo che la cancellazione del tetto agli stipendi sia sfuggita al check del legislativo – a cui però in genere sfugge molto poco – come è possibile che tutto questo sia sfuggito anche all’occhio supervigile del sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, l’uomo a cui Draghi ha affidato le chiavi del Pnrr?

E infine, che tipo di controlli ha fatto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà? L’ex 5 Stelle ha già avuto in questi anni alcuni momenti di distrazione. Deluso e forse anche un po’ accerchiato, Draghi ha fatto come al solito Draghi. E ha ribaltato il tavolo. In questa ricerca di manine non poteva mancare quella che ha agito ma “a sua insaputa”. L’emendamento porta la firma dell’onorevole Perosino di Forza Italia. Ha spiegato di aver «firmato un foglio che mi è stato passato per migliorare il trattamento delle forze armate e di polizia e solo di quelle». Dopo di che quel “foglio” è stato firmato da tutti i gruppi parlamentari e le forze militari hanno compreso anche le alte burocrazie. Una volta messe in fila le varie “manine”, Draghi si è sentito anche con il Capo dello Stato per verificare se la cancellazione di quell’emendamento rientrava negli “affari correnti”. Sergio Mattarella avrebbe giudicato “inopportuno” quell’articolo 4 bis. Insomma, il Capo dello Stato non avrebbe firmato la legge. Il Parlamento ha potuto solo prenderne atto.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Rigurgito antipolitico. La grande ipocrisia del tetto agli stipendi per i funzionari pubblici. Beppe Facchetti su L'inkiesta il 16 Settembre 2022

Ormai è sempre più difficile trovare manager della pubblica amministrazione all’altezza perché le buste paga devono rispettare una legge fatta sull’onda del populismo pauperista. Ma uno Stato serio ha il dovere di offrire le migliori condizioni economiche per reclutare i migliori nei ruoli chiave

Sarà perché diffidiamo per istinto dagli unanimismi e dai conformismi, ma questa cosa che tutti, proprio tutti abbiano condannato la cancellazione del limite di 240 mila euro per le retribuzioni pubbliche, non ci va giù. Rischiando l’impopolarità, qualcuno dovrà pur entrare nel merito, e dato che nessuno alza la mano, ci proviamo. Mettiamo da parte la questione inopportunità. È vero: l’idea non è stata tempestiva. Gabbare le commissioni parlamentari ormai in fin di vita, a pochi giorni dalle elezioni, è una sciocchezza. Chi come noi vorrebbe preservare le istituzioni da brutte figure inutili deve dolersene. Ci sono già fin troppi argomenti che indeboliscono la funzione parlamentare e non dobbiamo poi lamentarci se diamo munizioni al populismo.

Nella sua posizione, sviato dal suo ministro, anche Mario Draghi non poteva non essere critico, perché qualunque atto, in una fase come questa, può prestarsi a fraintendimenti. Ma un conto è il modo, e un conto è il merito. Anche perché l’errore, a nostro parere non è di aver tentato di cancellare un principio (basato su un numero molto a casaccio, per di più), ma di averlo introdotto.

Se lo introduci, poi è difficile toglierlo. Un po’ come il reddito di cittadinanza, è stato una forma di peloso assistenzialismo, diseducativo e creatore di lavoro nero, ma se ora lo tocchi diventi un affamatore di poveri.

L’idea è stata di Mario Monti, e la motivazione è sempre la stessa, e cioè quella di appartenere alla politica della segnaletica: in un momento di difficoltà, è un bel segnale. Ma le difficoltà ci sono sempre. Anche adesso contrapporre le bollette care agli aumenti di stipendio è un gioco da ragazzi. 

Ma è proprio giusto fissare un tetto? Facciamolo per il gas contro tutte le regole di mercato, ma siamo in un’economia di guerra, e la ragione è sostenibile, almeno in emergenza. Poi, vivaddio, torni il mercato con regole rigide.

Ma se vuoi una prima fila della pubblica amministrazione all’altezza, è normale che livelli di responsabilità (per il pubblico, anche contabile e penale) uguali tra pubblico e privato siano affidati gli uni a una legge (una legge!) e l’altra alla libera contendibilità dei migliori manager? Il rapporto tra quei 240 mila euro e il mercato, arriva a essere anche 1 a 10! Oggi, per fortuna, si è cominciato a reclutare il top management pubblico attraverso le società specializzate di cacciatori di teste, ma queste oggettivamente fanno fatica a formulare proposte.

Eppure, dovrebbe essere interesse di tutti – innanzitutto dei cittadini da 1200 euro al mese – avere in posizioni così delicate gente di grande valore, con regole d’ingaggio severe in caso di flop, come si deve fare in una società industriale complessa come quella attuale.

Il direttore generale del Tesoro, il capo dell’Ufficio delle Entrate, ma anche quello della Guardia di Finanza o equivalenti devono essere professionisti super, presi negli angoli più preziosi della società economica complessiva. Superfluo fare il paragone con gli Stati Uniti, dove anche i ministri li ingaggiano tra i grandi manager di azienda. Guadagnano 20 volte meno, ma scelgono loro, per prestigio e convenienza, non una legge di un Parlamento pauperista, eletto da gente spesso molto sensibile all’invidia sociale e al confronto odioso, cose che sono servite per ottenere i voti.

Lasciamo da parte i moralismi d’accatto, il sussiego, il ciglio alzato e il ditino ammonitore, cerchiamo di essere concreti. Riserviamo se mai qualche critica agli aggiramenti del principio generale. Già, perché poi si scopre che il tetto può essere scavalcato da voci retributive creative.

Mario Draghi stava meglio in Goldman Sachs, ma è stato alla Banca centrale europea quando la retribuzione era attorno ai 400mila euro, Governatore di Bankitalia con un livello ancora più su. Aveva come interlocutori banchieri garantiti da contratti milionari, con stock option e incentivi. Ma il capolavoro d’ipocrisia è proprio la cifra magica 240. Sapete come è stata individuata? Andando a prendere a riferimento la remunerazione del Presidente della Repubblica. Più di lui non si può guadagnare. E perché?

Sottoponendo la decisione a un pool di frequentatori del Bar Sport, sarebbe venuta fuori proprio questa proposta, perché nell’immaginario l’inquilino del Quirinale è il numero uno per definizione. Una cosa a casaccio, senza riferimenti oggettivi, spiegazioni logiche.

Intanto per cominciare quella è una indennità, come la parlamentare, e non uno stipendio. La differenza è importantissima. A Sergio Mattarella non pagano la quattordicesima e le ferie retribuite.

È un accredito, che oltretutto – visti i tempi che corrono – obbligano il beneficiario a far sapere che ha rinunciato a pensioni, vitalizi e quant’altro. Una prassi un po’ umiliante, visto che si tratta di cose che conseguono ad attività regolari svolte nella vita. E comunque: perché 240 mila? Usando i criteri che hanno reso memorabile il libro sulla Casta di Stella e Rizzo, e cioè sostituendo il quanto prendi, con il quanto costi, il presidente della Repubblica vale ben più di quella cifra lorda.

Stella&Rizzo fecero un capolavoro di comunicazione. La busta paga del parlamentare è oggi di circa 5000 euro netti, ma non c’è italiano che non sia convinto che il parlamentare intasca sui 20 mila euro. I più prudenti arrivano a 12 mila. Per forza: gli autori fecero un bel insaccato dentro cui infilare la retribuzione dei collaboratori, i costi dell’ufficio, i viaggi e i soggiorni, le telefonate e tutto quanto consuma il parlamentare. E venne fuori la cifra scandalo.

Applicando questo criterio al Quirinale, dovremmo conteggiare l’affitto almeno pro quota del Palazzo e la sua manutenzione, un po’ di corazzieri, almeno lo staff più a diretto contatto, le tenute presidenziali e relativi soggiorni estivi nelle Caserme della Repubblica, viaggi interni ed esterni, vitto e alloggio garantito, inviti degli ospiti (solo Einaudi divideva le pere a tavola), auto blu, elicotteri e cavalleria.

Secondo il menù della Casta, il presidente dovrebbe incassare (anzi, si dice sempre intascare, perché fa più arrabbiare) almeno 4 o 5 volte di più. Forse sarebbe un tetto più congruo, perché un non tetto. Adesso, viva il bicameralismo, cancelleranno questa vergogna e saremo tutti più ricchi.

·        La Lobby dei Sindacati.

Rappresentanza: a chi servono 193 sindacati? Rita Querzè su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Si sono moltiplicate le sigle sindacali. Resta il dubbio su quanto contino davvero

Un po’ di Snaut, un pizzico di Spl, quanto basta di Uap. Quindi un tocco di Llp. Senza privarsi, sia chiaro, di una spruzzata di Silpa e di una goccia di Confael. Sono questi soltanto alcuni dei 193 sindacati che oggi aderiscono al Testo unico sulla rappresentanza firmato nel 2014. Testo che in pratica definisce le modalità e i criteri con cui questi sindacati si dovrebbero far misurare. Ma è tutta una finta perché poi (quasi) nessuno vuole davvero contarsi. L’adesione all’accordo firmato inizialmente da Cgil, Cisl e Uil con Confindustria serve piuttosto a certificare la propria esistenza. Poco importa se in realtà la stragrande maggioranza di queste sigle ha pochissimi iscritti. Colpisce che l’elenco continui a lievitare. L’ultima comunicazione inviata da Confindustria all’Inps il 12 ottobre segnala l’adesione di altre 9 organizzazioni: dal Sindacato dei popoli liberi al sindacato Contiamoci! (proprio così, con il punto esclamativo) al Coordinamento dei portuali di Trieste.

Il salario minimo non fa parte dell’agenda del nuovo governo. Anche la questione della rappresentanza sarà rimessa nel cassetto? È vero che nel nostro Paese l’85% dei dipendenti è coperto da un contratto. Il problema è: firmato da chi? Venerdì prossimo si capirà se il dossier verrà messo sotto il radar dell’esecutivo. La neoministra del Lavoro Marina Calderone ha infatti convocato le parti sociali. Tutti insieme: rappresentanze delle imprese e sindacati. Rispetto al governo Draghi, che si fermava a Cgil, Cisl e Uil, alla lista degli invitati tra le rappresentanze dei lavoratori sono state aggiunte Ugl, Confsal e Cisal. Già questo un segnale.

Post scriptum. Tornando al merito della questione, se si volesse riprendere il dossier, un punto da cui ripartire ci sarebbe: il tentativo di misurazione che stanno portando avanti, seppure tra mille difficoltà, chimici e metalmeccanici.

Se difendere i lavoratori costa la galera: sindacalisti nel mirino dei pm. La procura di Piacenza mette agli arresti domiciliari sei dirigenti sindacali di Si Cobas e Usb, tutti impegnati nelle lotte che da anni interessano il polo logistico piacentino. Il Dubbio il  25 luglio 2022

Da che mondo è mondo i diritti si conquistano, non vengono elargiti per gentile concessione. A maggior ragione quelli sul lavoro, dove il legittimo profitto dell’impresa non sempre coincide con la giusta retribuzione del lavoratore. Una contraddizione ancora molto forte nel settore della logistica, considerata dagli analisti come una sorta di buco nero della contrattazione collettiva, dove spesso a turni di lavoro molto duri corrispondono salari da fame e senza molte garanzie.

Non stupisce, dunque, la notizia pubblicata dal Fatto quotidiano su quanto sta accadendo a Piacenza, dove la Procura ha chiesto e ottenuto gli arresti domiciliari per sei dirigenti sindacali – tutti di Si Cobas e Usb e tutti impegnati nelle lotte che da anni interessano il polo logistico piacentino – accusati di di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di numerosi reati, tra cui violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, interruzione di pubblico servizio. Scopo criminale dei due sindacati – si legge sul quotidiano diretto da Marco Travaglio che punta i riflettori sulle anomalie dell’inchiesta – nientepopodimeno che «“ricattare” le aziende costringendole a cedere alle richieste dell’organizzazione».

Praticamente lo scopo di ogni attività sindacale: utilizzare gli strumenti di protesta, a volte anche duri, per ottenere migliori condizioni di lavoro. Tanto che la Procura accusa i sindacalisti, secondo quanto riporta il Fatto, di «avere “la capacità di far terminare gli scioperi” quando venivano accolte le loro richieste». Addirittura! Tra gli arrestati figurano anche nomi eccellenti, come quello di Aldo Milani, coordinatore nazionale dei Si Cobas, finito già in cella nel 2019 con l’accusa (poi smontata integralmente dalla sentenza di assoluzione) di aver intascato mazzette per sospendere un picchetto.

Ma quello di Piacenza è solo uno degli innumerevoli episodi che negli ultimi tempi hanno messo nel mirino il sindacalismo di base: perquisizioni, arresti e blitz dietro “segnalazioni anonime” sono ormai all’ordine del giorno. E mentre dirigenti e delegati finiscono in galera, le condizioni dei lavoratori della logistica rischiano di peggiorare. Una norma contenuta nel dl Aiuti, infatti, modifica in maniera sostanziale l’Art. 1677 bis del Codice civile relativo alla responsabilità in solido dei committenti.

In poche parole, d’ora in poi un lavoratore della logistica a cui non sono stati pagati stipendi, contributi o straordinari non potrà rivalersi più sul committente, in genere le grandi multinazionali che subappaltano il servizio a cooperative, ma potrà bussare solo alle porte del proprio datore di lavoro diretto, spesso e volentieri piccole società che nascono e muoiono nel giro di pochi anni. Una modifica che preoccupa parecchio anche i sindacati “tradizionali” come Cgil, Cisl e Uil. Ma attenzione a minacciare scioperi per cambiare la norma. Il rischio di finire in galera è più che concreto.

La lotta sindacale è come l’estorsione: la Procura di Piacenza arresta 8 dirigenti USB e SiCobas. Giorgio Cremaschi su Il Riformista il 26 Luglio 2022. 

Migliaia di lavoratrici e lavoratori della logistica, in maggioranza migranti, e poi tanti studenti e attivisti sociali, sono scesi in un enorme corteo sabato 23 a Piacenza. Un corteo totalmente ignorato da grandi giornali e tv, troppo impegnati a seguire ogni micro movimento della casta politica per interessarsi al paese reale. Un corteo contro il gravissimo attacco alla democrazia che parte dalla Procura di Piacenza e dalle grandi imprese della logistica che hanno fatto di quella provincia un centro di attività , affari e sfruttamento.

Otto dirigenti della USB e del SiCobas son stati sottoposti all’arresto e ad altre misure restrittive, un centinaio sono gli inquisiti tra gli attivisti e i collaboratori dei due sindacati particolarmente attivi nella provincia tra i facchini delle multinazionali della logistica. Tutti per un vero e proprio Reato di Sindacato. Questo infatti è il vero capo d’accusa del mostruoso procedimento costruito dalla Procura, che assieme alla Digos da ben il 2015 indaga sulle lotte sindacali nella provincia emiliana. Ovviamente su ispirazione delle grandi imprese della distribuzione delle merci. Imprese che in pochi anni a hanno visto una crescita enorme di attività e profitti, con la messa al lavoro di migliaia di operai. Piacenza è diventata in breve la Mirafiori dei grandi magazzini di raccolta e distribuzione delle merci, con una massa enorme di persone che affluivano nella città per lavorare.

Questi operai in gran parte venivano da paesi lontani, non conoscevano né la lingua né i diritti sindacali del nostro paese e quindi all’inizio avevano accettato condizioni di sfruttamento terribili. Poi, grazie all’opera di proselitismo militante, simile a quella degli albori del movimento operaio, di attivisti prima del SiCobas, poi della USB, le cose sono cambiate. I lavoratori hanno maturato coscienza dei loro diritti e cominciato a rivendicarli, ovviamente con il solo modo che da sempre hanno gli oppressi per cambiare la loro condizione: la lotta organizzata e lo sciopero. Ebbene, per la Procura di Piacenza questo grande e giusto processo di emancipazione sociale è stato la manifestazione di una associazione a delinquere a fini estorsivi. I sindacati organizzavano scioperi per estorcere alle aziende soldi che poi i sindacalisti intascavano per sé stessi. Questa la tesi di fondo, ridicola e falsa, della maxi inchiesta dei magistrati piacentini.

Il sindacato che lotta non è una associazione a delinquere e chi sciopera per migliorare le proprie condizioni di lavoro non è un estorsore. È semplicemente pazzesco che lo si debba affermare non nell’ottocento, ma oggi in un procedimento penale intentato da magistrati, per i quali dovrebbe valere la Costituzione della Repubblica. Il teorema della Procura di Piacenza è semplicemente la scrittura giuridica del peggiore e più antico punto di vista reazionario e padronale: il sindacato che fa il suo mestiere viola le leggi del mercato e fa violenza alle imprese. Anni e anni di costosissime intercettazioni telefoniche e di spionaggio su militanti sindacali, ventiduemila pagine, centinaia di fogli di accusa. Il tutto per trovare nient’altro che la dubbia assenza di qualche scontrino; dalla quale però i magistrati di Piacenza hanno fatto derivare tutta la loro tesi preconcetta e precostituita. I sindacalisti, i militanti, i lavoratori impegnati in durissime lotte per la libertà, sarebbero sostanzialmente una mafia.

I compagni di lavoro e di lotta di Abdel Salam e Adil, sindacalisti assassinati impunemente ai picchetti di sciopero quando l’inchiesta della Procura era già in corso. sarebbero dei mafiosi. Forse per coprire l’enormità delle loro tesi i magistrati accusatori hanno poi fatto sapere che non avrebbero nulla contro il sindacato in quanto tale. Ma facciano il piacere, i sindacalisti sarebbero una associazione a delinquere, ma il loro sindacato non sarebbe perseguitato? Questa è pura falsa coscienza. In realtà a Piacenza è in gioco la democrazia, quella vera, non quella finta per cui il palazzo ci porta in guerra. È in gioco la democrazia costituzionale, per la quale il conflitto e lo sciopero sono il mezzo lecito e giusto che i lavoratori hanno a disposizione contro il potere del padrone.

A Piacenza c’è una inchiesta giudiziaria di regime, che punta a far regredire il nostro sistema sindacale al 1791. Quando una legge in Francia vietò lo sciopero ed i sindacati perché contrastavano il libero mercato del lavoro, la libera contrattazione tra padrone ed operaio.

Sono tanti oggi gli attacchi alla Costituzione antifascista, che nel 2013 la Banca Morgan definì troppo favorevole al lavoro, troppo socialista. Quello della Procura di Piacenza è uno dei più pericolosi. Per questo in piazza a Piacenza non c’era solo il sindacato di classe, ma la difesa della democrazia. Giorgio Cremaschi

 Il Bestiario: il Tavoliere. Il Tavoliere è un animale leggendario con il corpo da bradipo e la testa da sindacalista incazzato. Giovanni Zola il 25 Luglio 2022 su Il Giornale. 

Il Tavoliere è un animale leggendario con il corpo da bradipo e la testa da sindacalista incazzato.

Il Tavoliere ha origini nobili e mitiche perché in tempi remoti difendeva i lavoratori dai soprusi dei padroni che non ne rispettavano i diritti, anche se alcuni lavoratori ne approfittavano per fare il weekend lungo dal giovedì al mercoledì successivo attaccandogli la festa del 1 maggio.

Socrate lo cita nel suo famoso discorso: “E’ sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s’illude di sapere e ignora così perfino la sua stessa ignoranza”, in quanto il Tavoliere, udito l’aforisma, e non capendone il significato, cominciò a sanguinare da un orecchio.

Il Tavoliere crede nel “Tavolo”. Il suo Dio è il “Tavolo”, una sorta di vitello d’oro senza corna né coda, a cui ama sedersi per fingere di risolvere i problemi dei lavoratori. Qualsiasi cosa succeda, per il Tavoliere l’importante è sedersi ad un tavolo a parlare di cose che evidentemente si possono dire solo al tavolo e non in piedi.

Per capire quanto il Tavoliere sia sensibile al concetto di “tavolo”, se in una conversazione qualsiasi si nomina il “tavolo”, esso si eccita e immediatamente cerca un Tavoliere femmina per riprodursi, meglio se su un tavolo.

Quando il Tavoliere si siede ad un tavolo è felice e realizzato. Normalmente non porta a casa nessun risultato al tavolo e lascia i lavoratori in braghe di tela, ma è certo che al prossimo tavolo le cose cambieranno e se non cambieranno la prossima volta cambieranno la prossima ancora e così all’infinito. Se le cose non cambiano proprio, il Tavoliere, per dimostrare che sedersi al tavolo sia stato utile, allunga al lavoratore voucher da 2 euro per una colazione abbondante.

La storia finirebbe qui se non fosse che in tempi recenti, grazie alla lungimiranza di alcuni ministri, a molti lavoratori è stato vietato lavorare, uscire di casa, utilizzare i trasporti pubblici pena una multa, se non avessero liberamente accettato di sottoporsi ad una punturina sperimentale postando sui propri social una foto sorridente. La cosa sorprendente è stata che su questi argomenti il Tavoliere ha preferito non sedersi a nessun tavolo, accampando la scusa di essere seduto in bagno.

Banale ricordare che i giochi preferiti del Tavoliere sono i giochi da tavolo, in particolare il Risiko dove dichiara di voler conquistare il mondo, ma poi preferisce arrendersi cedendo i carri armati all’Europa. Adora nutrirsi alle tavole calde e va in vacanza al Tavoliere delle Puglie.

·        La Lobby dei Giornalisti.

L’ Ordine dei Giornalisti voleva più professionisti (o disoccupati) ? Il Ministero blocca tutto : la riforma è illegale e va bloccata. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Dicembre 2022.

Quello che forse al Consiglio Nazionale dell' Ordine non sanno o fanno finta di non sapere e temere, è che il Ministero ha il potere di scioglimento di un Consiglio che non sia in grado di funzionare regolarmente (per qualsiasi ragione), anche quando sia trascorso il termine di legge senza che si sia provveduto all’elezione del nuovo Consiglio, o ancora quando il Consiglio stesso, richiamato all’osservanza degli obblighi ad esso imposti, perduri nel violarli.

Il Ministero della Giustizia blocca la riforma dell’accesso alla professione predisposta dal CNOG-Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti nel modificare i nuovi criteri, per evitare contrasti con la legge che regola l’accesso alla professione giornalistica. Dall’ Ordine dei Giornalisti dopo la “bacchettata” sulle mani, nessuno parla, tutti zitti. Sul sito ufficiale c’è ancora il Presidente Carlo Bartoli che spiega in un video (ancora oggi mai rimosso) il progetto di riforma ritenuto illegittimo e quindi illegale che potrebbe comportare il rischio di commissariamento dell’Ordine.

Lo scorso 8 novembre il Consiglio Nazionale dell’Ordine aveva approvato con 30 voti a favore, 16 contrari, 4 astenuti, i “Criteri interpretativi dell’articolo 34 della legge 69/1963 sull’iscrizione al Registro dei Praticanti”. Un discutibile allargamento delle vie di accesso alla professione, che avrebbe permesso di accedere agli esami anche senza praticantato. Una possibilità che avrebbe consentito “in via eccezionale e su casi specifici, l’avvio del praticantato anche in assenza di una testata e di un direttore responsabile”. Resta da chiedersi: su quale presupposto di decideva se un caso era “speciale” ?

Il Ministero della Giustizia ha però bloccato la folle riforma sostenendo che l’intervento “non è consentito dal sistema ordinamentale. La legge istitutiva dell’Ordine professionale ha predeterminato le modalità di iscrizione nel registro dei praticanti in ragione di un periodo svolto presso una testata e con un direttore responsabile, senza delegare alcun potere normativo autoautonomo in capo al Consiglio nazionale”.  Il Dipartimento per gli Affari Generali di Giustizia ( Direzione Generale degli Affari Interni – Ufficio II – Ordini Professionali e Albi ) del ministero via via Arenula , diretto dal magistrato Giovanni Mimmo, ex-giudice del lavoro nel tribunale di Roma, ha così bloccato l’autoriforma “pensata” dal Consiglio Nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti, precisando che i nuovi criteri per l’iscrizione nel registro dei praticanti sono difformi e contrastanti con le normative vigenti e si prestano ad applicazioni diverse da parte degli Ordini regionali.

Il direttore Mimmo nella sua risposta ha premesso e chiarito che il Ministero non esercita una funzione di controllo di legittimità sulle delibere consiliari, potendone eventualmente sospenderne l’efficacia, ma ha il compito di vigilare sul funzionamento dei Consigli e degli Ordini di numerose professioni regolamentate. Quello che forse al Consiglio Nazionale dell’ Ordine non sanno o fanno finta di non sapere e temere, è che il Ministero ha il potere di scioglimento di un Consiglio che non sia in grado di funzionare regolarmente (per qualsiasi ragione), anche quando sia trascorso il termine di legge senza che si sia provveduto all’elezione del nuovo Consiglio, o ancora quando il Consiglio stesso, richiamato all’osservanza degli obblighi ad esso imposti, perduri nel violarli.

Sempre il direttore Mimmo nella sua lettera di ammonimento ricorda l’articolo 34 della legge n. 69/1963: “La pratica giornalistica deve svolgersi presso un quotidiano, o presso il servizio giornalistico della radio o della televisione, o presso un’agenzia quotidiana di stampa a diffusione nazionale e con almeno 4 giornalisti professionisti redattori ordinari, o presso un periodico a diffusione nazionale e con almeno 6 giornalisti professionisti redattori ordinari”. aggiungendo “La domanda per l’iscrizione deve essere corredata dalla dichiarazione del direttore comprovante l’effettivo inizio della pratica di cui all’articolo 34“. E le leggi si rispettano.

Il Ministero di Giustizia nella sua comunicazione scrive che “la delibera dell’8 novembre 2022 (del Consiglio Nazionale dell’ ordine dei Giornalisti – n.d.r.) in ottica di razionalizzazione e di armonizzazione della legge professionale con i mutamenti intervenuti nel tessuto sociale, in attesa che il Parlamento prenda in considerazione istanze riformatrici avanzate dalla categoria – come si legge nel comunicato contenuto nel sito del Consiglio a commento della delibera – si è spinta ad aggiornare alcune modalità di accesso all’esame di Stato, sostanzialmente attribuendo agli Ordini regionali la facoltà di consentire l’iscrizione con una ‘modalità eccezionale’ nel registro dei praticanti a tutti quelli che riescono a dimostrare di avere esercitato per 6 mesi attività giornalistica retribuita. Si tratta di un intervento di contenuto normativo non consentito dal sistema ordinamentale, nel quale la legge istitutiva dell’Ordine professionale ha predeterminato in modo compiuto e organico le modalità di iscrizione nel registro dei praticanti in ragione di un periodo svolto presso una testata e con un direttore responsabile, senza delegare alcun potere normativo autonomo in capo al Consiglio nazionale che abbia attitudine derogatoria alle fonti primarie”.

Il ministero ha giustamente sottolineato inoltre il pericolo della possibile discriminazione tra aspiranti giornalisti, perché dando agli Ordini territoriali la facoltà di decidere sulla nuova normativa si può creare “la possibilità di riscontrare prassi difformi sul territorio nazionale”.  Concludendo Il Ministero della Giustizia ha invitato il Consiglio nazionale a “revisionare i criteri interpretativi deliberati in data 8 novembre 2022, per farli risultare coerenti con quanto disposto dagli articoli 33 e 34 della legge professionale, nonché dell’art. 36 del regolamento attuativo”.

Un consiglio serio a questo punto dovrebbe dimettersi dopo questa figuraccia, ma conoscendo qualcuno dei componenti (quasi tutti di estrazione sindacale) sarà difficile. Confessiamo che ci divertiremmo a vedere il CNOG commissariato… ! Redazione CdG 1947

·        La Lobby dell’Editoria.

La Corte dei Conti campana contesta un danno erariale di circa 5 milioni di euro ai danni della Presidenza del Consiglio, per contributi sull’editoria. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2022.  

L'attuale testata "BuonaSera" edizione di Taranto è nata nel 2012 e quindi è estranea alle precedenti attività poste in essere da Pasquale Piccirillo ed Antonio Sollazzo con la precedente testata "Buongiorno Campania", infatti i due co-editori campani sono usciti dalla cooperativa Dossier , nei primi mesi del 2012 allorquando si è trasferita a Grottaglie in provincia di Taranto e la testata ha cambiato nome, luogo di pubblicazione ed area di interesse.

I finanzieri dei Nuclei di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto e di Caserta hanno eseguito un provvedimento di sequestro conservativo emesso, su richiesta della Procura regionale per la Campania, dal Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti di Napoli, fino alla concorrenza dell’importo del danno erariale accertato, pari a circa 4,2 milioni di euro, nei confronti della Società Cooperativa Giornalistica DOSSIER ed i suoi rappresentanti legali dal 2008 al 2012, per l’illecita percezione di contributi pubblici a sostegno dell’attività editoriale.

Nel comunicato però non si chiarisce qualcosa, e cioè che la cooperativa DOSSIER che aveva sede a Caserta, editava un quotidiano che si chiamava “Buongiorno Campania” per il quale erano stati erogati contributi per l’editoria per gli anni 2008/2011 e non 2012 come erroneamente indicato nel comunicato, in quanto i contributi si ricevono l’anno successivo a quello di competenza. Nel 2012 infatti il quotidiano “Buongiorno Campania” a Taranto non esisteva e tantomeno veniva pubblicato. 

L’attuale testata BuonaSera è nata nel 2012 e quindi è estranea alle precedenti attività poste in essere da Pasquale Piccirillo ed Antonio Sollazzo con la precedente testata “Buongiorno Campania“, infatti i due co-editori campani sono usciti dalla cooperativa Dossier , nei primi mesi del 2012 allorquando si è trasferita a Grottaglie in provincia di Taranto e la testata ha cambiato nome, luogo di pubblicazione ed area di interesse.

Il provvedimento reso noto dal comunicato stampa delle Fiamme Gialle consegue ad indagini condotte dalle fiamme gialle nei confronti della società cooperativa Dossier coordinate dai pubblici ministeri della Procura Regionale della Campania della Corte dei Conti, all’esito delle quali è stato accertato che la stessa cooperativa Dossier avrebbe più volte cambiato sede legale e denominazione di testata giornalistica, producendo falsa documentazione attestante un assetto societario diverso da quello reale, inducendo in errore la Presidenza del Consiglio – Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria di Roma, ad erogare indebitamente, per gli anni dal 2008 al 2012 contributi pubblici per circa 4,2 milioni di euro. In realtà dal gennaio 2012 la cooperativa che è stata correttamente liquidata con cessazione di attività, non ha mai cambiato sede da Grottaglie (Taranto).

Nel novembre 2011 nella cooperativa Dossier entrarono dei giornalisti pugliesi, e grazie ai contributi dell’anno 2011, soltanto incassati nel 2012 pagarono tutti i debiti contratti dai precedenti amministratori e gestori della Cooperativa. 

Sarebbe emerso secondo la Guardia di Finanza che i giornalisti della testata “Buongiorno Campania“, avvicendatisi nella compagine associativa nel suddetto periodo, avrebbero disconosciuto una propria volontaria e sostanziale adesione alla cooperativa in qualità di soci, specificando che in realtà avrebbero svolto esclusivamente attività di lavoratori dipendenti come redattori e che il formale rapporto associativo quali cooperatori sarebbe stato imposto loro dietro minaccia di licenziamento. E quindi anche su questa conclusione d’indagine, l’operato dei soci subentrati che gestiscono la cooperativa che edita il quotidiano “Buona Sera” Taranto non hanno alcuna responsabilità e coinvolgimento. 

Quanto reso noto dalle Fiamme Gialle all’esito delle suddette attività, tre persone Pasquale Piccirillo, Antonio Sollazzo e Caterina Maria Bagnardi, amministratori (altresì di fatto) della suindicata società,  furono denunziate all’Autorità Giudiziaria Ordinaria per il reato di truffa aggravata funzionale al conseguimento di erogazioni pubbliche, dimenticando di dire che la Bagnardi è stata assolta. Così come Corriere del Mezzogiorno edizione pugliese pubblicata dal Corriere della Sera, non ha raccontato correttamente qualcosa di molto importante, scrivendo e sostenendo che la “ Bagnardi ha un profilo marginale in questa vicenda perché è entrata nella società solo nel 2011 e la sua condotta è stata valutata in relazione alla richiesta di contributi per l’annualità 2012“in quanto questa vicenda riguarda esclusivamente i contributi dal 2008 al 2011. Documentarsi meglio evita di far leggere inesattezze al lettore. 

Nel procedimento penale avviato nel 2018 dalla procura di S. Maria Capua Vetere, la giornalista Caterina Maria Bagnardi che era subentrata soltanto a novembre 2011 nel ruolo di amministratore della cooperativa, e che aveva dovuto richiedere quale atto dovuto, i contributi pubblici maturati nel 2011 della cooperativa Dossier, è stata assolta “perchè il fatto non sussiste” con sentenza n. 887/18 depositata l’ 11 gennaio 2019, passata in giudicato. 

Quindi non si capisce oggi come possa oggi la giustizia contabile tornare alla carica per gli stessi fatti e presunte responsabilità per i quali la giustizia penale ha ritenuto innocente con sentenza definitiva la Bagnardi non ravvisando alcun suo reato. Quindi se non ha commesso alcun reato penale come può essere responsabile nei confronti dell’ Erario ? Una semplice domanda che la Guardia della Finanza e qualche giornalista avrebbe dovuto porsi.

·        Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Giustizia, "poverino, era sconvolto". E il pm sfanga la punizione. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 04 settembre 2022

Su internet non ne trovi traccia, perché sul sito del Csm è confinato in un documento Pdf. La sentenza comunque non te la danno, perché è pubblica, sì, ma hanno detto di richiamare tra una settimana. Il nome del magistrato tanto non puoi scriverlo, perché gli articoli 137 e 52 del Codice sulla privacy obbligano a «omettere i dati identificativi personali», e in pratica, cioè, i giornalisti possono nominare un magistrato solo se lui lo concede, o se ciò che lo riguarda è al centro della cronaca. Non abbiamo ancora dato la notizia, ma già basterebbe per capire come i magistrati tutelino se stessi in modi che nulla spartiscono con l'indipendenza della categoria.

IN GIURIDICHESE Per fortuna l'onorevole Enrico Costa (Azione) è un ficcanaso che ha scovato l'ennesima sentenza della collezione, la 154 del 2001 istruita l'anno precedente. Dice, in pratica: un magistrato indagato può andare in cancelleria, può farsi dare gli atti che lo riguardano - e magari fotocopiarli, senza dirlo, o passarli alla stampa - e poi restituirli con tutta calma: non c'è nulla di illecito. L'abbiamo scritto in linguaggio che auspichiamo comprensibile, ecco poi il testuale in giuridichese: «Non integra l'illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni della grave scorrettezza nei confronti dei colleghi il comportamento del Sostituto procuratore che acquisisce copia degli atti di un procedimento che lo riguarda avvalendosi delle relazioni di ufficio con il personale di cancelleria laddove tale condotta sia stata posta in essere in uno stato di evidente turbamento che ha portato a una scarsa ponderazione dell'agire a cui, però, è seguita la restituzione delle carte, circostanza che escludono la sussistenza del requisito della gravità della condotta». Il decisore è il vicepresidente del Csm David Ermini, che al pari dell'estensore David Ermini di Magistratura democratica non si offenderà se abbiamo aggiunto due virgole e una vocale mancante: l'hanno pure scritta male. L'importante è che si capisca il cuore del problema, che «l'evidente turbamento» che giustifica la clamorosa violazione. Scusi, lei ha per caso violato il segreto d'indagine, compromettendola? «Sì, ma ero turbato». Sinonimi dalla Treccani: ero agitato, ansioso, costernato, inquieto, perturbato, sgomento, smarrito. Dopodiché sorge il momento della celebre comparazione con il cittadino comune, nel caso un indagato, per esempio un presunto rapinatore, molestatore, usuraio; immaginare, cioè, che si presenti in cancelleria e dica: buongiorno, mi hanno detto che c'è un'indagine su di me, vorrei gli atti del fascicolo che poi domani ve li riporto. Ma certo. Serve un sacchetto?

Ma non c'è solo questa, di sentenza. Anche da queste parti vantiamo una discreta collezione, iniziata col decreto legislativo 109 del 2006 che all'articolo 1 («Doveri del magistrato») spiegava che i togati dovevano essere e mostrarsi «imparziali, corretti, diligenti, laboriosi, riservati, equilibrati e rispettosi della dignità della persona». Hanno la Treccani anche loro. Dopodiché c'è la sentenza 125 del 2019, per esempio, che dice la stessa cosa di quella sopra, ma qui non si parla di turbamento, si giustifica se l'indagine riguarda la moglie del magistrato: « Non integra l'illecito disciplinare... la condotta del giudice che richiede al titolare delle indagini notizie in merito a un procedimento penale nel quale risulta coinvolta sua moglie». E in caso convivenza? O separazione? Segue rapidissima carrellata con solamente numero e anno della sentenza non-disciplinare del Csm. Un magistrato (n.10/2019) può minacciare indagato e avvocato dicendogli che non hanno speranze, genere "lei deve abbandonare... io sono e sarò la sua bestia nera... è inutile che fosse pronunciata ordinanza di non luogo a procedere nei confronti del giudice civile che abbia, con fare scherzoso ed in guisa di semplice battuta estemporanea, tentato di stemperare il clima dell'udienza, tenuto conto dei rapporti critici tra le parti». Un magistrato (n. 87/2019) può guidare ubriaco ed essere condannato senza che questo ne comprometta il prestigio: «Non integra l'illecito disciplinare... la condotta del giudice che sia stato condannato per guida in stato di ebbrezza laddove le circostanze del caso concreto inducano a ritenere che il fatto sia di scarsa lesività e che non vi sia stata in concreto alcuna compromissione dell'immagine». Un magistrato (n. 88/2019) può chiedere di mandarti a processo sulla base di un reato che non esiste: «Non integra l'illecito disciplinare il sostituto procuratore che... abbia incluso imputazioni riferite a una fattispecie non ancora entrata in vigore al momento della commissione del fatto laddove, valutata la complessità dell'atto redatto, si possa riconoscere il carattere della mera disattenzione e, dunque, l'assenza della gravità».

INCONDANNABILI Un magistrato (n. 42/2019) può lasciarti in carcere perché semplicemente non va a depositare l'ordinanza di scarcerazione che ti riguarda, non ci va e basta, e con la stessa dinamica può far scarcerare gente che in galera doveva restarci, e questo perché è stanco e ha problemi a casa: «Non integra l'illecito... il giudice che abbia ritardato il deposito della motivazione dell'ordinanza che aveva rigettato l'istanza di riesame... che interveniva con un ritardo di sei giorni, allorquando sia risultata la sussistenza di impedimenti gravissimi che abbiano precluso al magistrato di assolvere il dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale, quali una grave debilitazione fisica del magistrato e una situazione familiare critica, fonte di preoccupazione e di impegno per l'interessato». Non integra, in definitiva, la seguente domanda: che cosa deve fare un magistrato per essere condannato in sede disciplinare dal Csm, quando - ricordiamo - la condanna massima, in crescendo di gravità, resta soltanto: ammonimento, censura, perdita di anzianità, impedimento temporaneo di esercitare incarichi direttivi, sospensione temporanea dalle funzioni, rimozione dall'incarico e trasferimento. Che cosa deve fare. 

La casta delle toghe. La casta delle toghe dai ricchi stipendi: tenetevi il denaro ma mollate un po’ di potere…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Non c’è niente di male nel puro fatto che i magistrati ricevano un ricco stipendio. Certo, chi reclamasse che nel nostro Paese ci vorrebbe un po’ di giustizia sociale, un po’ di redistribuzione, inevitabilmente darebbe un’occhiata alla busta paga del funzionario in toga, che è la più sontuosa d’Europa e supera di due, di tre, di quattro, di cinque volte quella di qualsiasi pubblico dipendente. Ma lasciamo pur perdere i paragoni, e accantoniamo pure la sperequazione che favorisce in quella misura i nostri magistrati rispetto a tutti i loro colleghi stranieri e ai lavoratori della pubblica amministrazione estranei alla cerchia giudiziaria.

E invece domandiamo: ma un simile privilegio, che qualcuno potrebbe ritenere già in linea di principio ingiustificabile, non dovrebbe almeno essere impetrato e concesso sulla scorta di qualche controllo di professionalità? Non dovrebbe, cioè, almeno escludersi che tanto salario sia riconosciuto solo per appartenenza castale, e cioè solo perché uno è impancato ad arrestare la gente e a giudicarla, senza nessuno scrutinio su come quel lavoro è condotto? Né ancora basta. Perché questa ricchezza è intestata a una categoria che vede associato al proprio privilegio economico un potere incomparabile: due cose che in democrazia, al contrario, non dovrebbero andare di conserva.

E non perché chi ha tanto potere dovrebbe esercitarlo gratis, ma perché prevalere sugli altri in potere e in danaro, per l’esercizio di un ruolo che simultaneamente assicura l’uno e l’altro, produce un rapporto di doppia subordinazione: pressappoco quello che c’è tra il nobilastro che impone al villano non solo la tassa ma anche il rispetto di rango, due cose funzionalmente collegate in reciproca giustificazione. Ci opporremmo con forza, se qualcuno proponesse di ricondurre a giustizia lo stipendio dei magistrati. Piacerebbe tuttavia che essi mostrassero meno resistenza all’idea che la società, lasciandoli ricchi, pretenda però di limitare almeno un pizzico del loro potere. Un po’ come in democrazia si fa appunto coi nobili, cui si lasciano i possedimenti ma non il potere di fare il bello e il cattivo tempo sulla vita degli altri. Iuri Maria Prado

 Il dibattito sulla riforma. I magistrati vogliono il potere politico: Mattarella perché resti in silenzio? Riccardo Polidoro su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

La struttura democratica del nostro Paese si basa su tre poteri: il legislativo, che compete al Parlamento; l’esecutivo che compete al Governo; quello giudiziario, che spetta alla Magistratura. La loro separazione è elemento essenziale. Ciò garantisce che essi non si concentrino in unica categoria o persona, al fine di scongiurare il pericolo di una dittatura. Tale premessa è di fondamentale importanza nel momento in cui si voglia esaminare quanto sta accadendo in questi giorni in merito alla riforma dell’ordinamento giudiziario, cioè all’introduzione di nuove norme in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.

I partiti politici hanno assunto varie posizioni e il dibattito ha ridotto di gran lunga le aspettative di un concreto cambiamento e di un’effettiva svolta che potessero effettivamente apportare quelle modifiche di sistema per far riemergere il mondo giudiziario da un abisso mai prima d’ora toccato. Nonostante si prospettino, quindi, piccoli e poco significativi passi in avanti di quel necessario percorso di civiltà giuridica, l’Associazione nazionale magistrati ha ritenuto di annunciare una giornata di sciopero per denunciare all’opinione pubblica che la prospettata riforma non è altro che una legge per intimidire la magistratura. L’Associazione, a cui aderisce circa il 96% dei magistrati e che ha il fine di tutelare i valori costituzionali, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, ha, nei giorni scorsi, acquistato un’intera pagina dei più importanti quotidiani nazionali per illustrare le ragioni della protesta.

“Una riforma sbagliata” è il titolo che campeggia in alto e subito dopo una serie di affermazioni dell’Anm, che si concludono con il riferimento al rispetto del principio della separazione dei poteri e ricordando che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge. Appunto! verrebbe da dire. C’è il potere legislativo che, unitamente a quello esecutivo, sta elaborando una riforma e, proprio nel rispetto della separazione dei poteri, quello giudiziario – che ha tutt’altre prerogative non meno importanti – non dovrebbe entrare a gamba tesa, addirittura minacciando di fermare la propria attività, incrociando le braccia per un giorno. La Costituzione prevede che i magistrati siano soggetti soltanto alla legge, non che debbano scriverle.  Tale principio di palmare evidenza, e che non può trovare diversa interpretazione, nel corso degli anni si è del tutto affievolito fino a far dimenticare i limiti delle competenze della magistratura che, pur avendo il delicato ruolo di indagare e giudicare, decidendo quindi delle sorti della vita altrui, non è chiamata a legiferare. Ma la storia, soprattutto recente, ci dice purtroppo che non è così. Con buona pace della separazione dei poteri.

L’attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati è stato capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia dall’ottobre 2015 al febbraio 2018 ed in precedenza, dall’agosto 2013, ha svolto le funzioni di vice capo con compiti di coordinamento del settore penale. Cinque anni presso l’Ufficio legislativo. Del resto è prassi che il capo di Gabinetto del ministro della Giustizia sia un magistrato, mentre possono essere fino a duecento quelli fuori ruolo, la maggior parte dei quali distaccati proprio al ministero della Giustizia che, dunque, è gestito in gran parte dal potere giudiziario. Tale inconcepibile ed innaturale innesto – di cui si auspica la fine al più presto – ha avuto l’effetto di trasformare la cultura dei magistrati, i quali, invece di gestire il loro immenso potere giudiziario, cercando di esercitarlo nel migliore dei modi, vogliono un potere politico non di loro competenza. Nella predetta pagina a pagamento si legge, tra l’altro, che «avremmo voluto una riforma del Csm che riducesse il peso delle correnti..».

Ma le correnti non nascono in seno all’Anm? E non sarebbe opportuno che proprio l’Anm si ponesse finalmente il problema di ridimensionarne il potere, soprattutto alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni? Ed ancora si legge: «Quella che si sta materializzando è una riforma che non ha come scopo quello di preservare la qualità delle decisioni dei magistrati…». Affermazione che mette in luce, ancora una volta, che chi giudica gli altri non vuole essere giudicato nemmeno dai propri colleghi – come del resto prevede la riforma – e la volontà di lasciare immutata la situazione attuale, nella quale non esiste alcuna concreta penalità per il magistrato incapace. Al più – e raramente – un trasferimento per fare danni in altri luoghi. Un incomprensibile e deleterio sciopero, dunque, di uno dei tre poteri dello Stato contro gli altri due poteri, nel silenzio – almeno fino ad ora – del Capo dello Stato che è anche capo del Consiglio superiore della magistratura. Riccardo Polidoro

Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Troppo corporativismo tra i magistrati, sì la voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 23 Febbraio 2022. 

L’Anm (Associazione nazionale magistrati) è contraria all’attribuzione del voto agli avvocati nei Consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, perché determinerebbe interferenze con l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria. A chi fa notare che anche il pubblico ministero è parte del processo, ed ancora prima del procedimento, dove rivolge proprio al giudice le sue richieste e che, quindi, l’autonomia del giudice potrebbe essere compromessa anche dal voto del pubblico ministero, i magistrati rispondono che il paragone è improprio, in quanto giudici e pubblici ministeri fanno parte entrambi dell’ordinamento giudiziario, definito dalla Costituzione come autonomo e indipendente da ogni altro potere.

Sul punto portano come esempio l’avvocato che è stato il giorno prima contraddittore del pubblico ministero, ovvero abbia visto condannato il suo assistito dal giudice, come potrebbe essere imparziale o neutrale nell’esprimere il suo voto? Riflessione del tutto corporativa, alla quale può facilmente replicarsi che anche il pubblico ministero, certamente in più occasioni dell’avvocato, può vedere respinta una richiesta di misura cautelare o di rinvio a giudizio, ovvero una di condanna dal giudice di cui in seguito dovrà valutare la professionalità! L’argomento è tornato di attualità dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il quesito referendario sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. La pronuncia chiarisce che non vi è alcun impedimento di natura costituzionale a consentire anche ai membri laici del Consiglio giudiziario il diritto di voto. Vengono, dunque, smentite le argomentazioni dell’Anm che evidentemente intende la necessaria e giusta indipendenza come intoccabilità, inattaccabilità. Loro come unici depositari di una professionalità che non gradisce interferenze esterne. Gli altri, invece, portatori d’interessi propri. In questo mondo volutamente chiuso, abbiamo recentemente appreso – ma era ai più noto – che il livello di affidabilità è inversamente proporzionale ai veleni e ai rancori dei protagonisti.

Per i non addetti ai lavori, va precisato che i Consigli giudiziari sono organismi territoriali composti da magistrati e, dal 2006, anche da membri esterni: avvocati e professori universitari in materie giuridiche. Questa componente laica, che rappresenta un terzo dell’organismo ed è quindi comunque minoritaria, fa però da spettatore, cioè è esclusa dalle discussioni e dalle votazioni, partecipando unicamente alle decisioni relative alle tabelle di composizione degli uffici e alle funzioni di vigilanza. Circostanza questa che contrasta con il meccanismo che governa il Consiglio Superiore della Magistratura, dove i componenti laici hanno gli stessi diritti di quelli togati. Csm che, dopo il parere espresso dai Consigli giudiziari, deve esprimere il giudizio definitivo. Verdetto che, però, si fonda essenzialmente sulla valutazione operata dal Consiglio giudiziario. Va, altresì, precisato che gli ambiti in cui vengono espressi i pareri sono, oltre alla valutazione di professionalità dei magistrati, i criteri di assegnazione alle singole sezioni dell’ufficio, l’incompatibilità, gli incarichi extragiudiziari, il passaggio di funzioni, le attitudini al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi.

I Consigli giudiziari, inoltre, vigilano sul corretto funzionamento degli uffici del distretto, segnalando eventuali disfunzioni al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della Giustizia. Si fornisce, quindi, un contributo per il migliore funzionamento degli uffici collocati nel distretto della Corte di Appello. La volontà di escludere il voto dei fruitori naturali del “servizio Giustizia”, cioè gli avvocati – quali rappresentanti dei loro assistiti la cui vita, gli affetti, il lavoro, dipende proprio da come il magistrato esercita la sua funzione – è, pertanto, inconcepibile. Nessuno come gli avvocati conosce le qualità e i difetti dei magistrati e le problematiche che affliggono gli uffici giudiziari. Voler escludere l’avvocatura dalla discussione e dal voto, è un ulteriore segnale di superbia e di prepotenza corporativa, che non gradisce estranei in “casa propria”. Un atteggiamento culturale del tutto fuori luogo, dimenticando che anche il difensore ha le chiavi del Palazzo e quando non vi entra i luoghi sono oscuri… e nel buio tutto può accadere.

Riccardo Polidoro

Luca Telese per “TPI - The Post Internazionale” il 25 febbraio 2022.

Sergio Rizzo, l’autore del “La Casta”, scrive un libro su un’altra Casta.

«Quella parola e troppo spesso pronunciata a sproposito. Ma forse non in questo caso. Questa e la Casta somma: quella che oggi comanda l’Italia». 

Un potere che tuttavia quasi nessuno conosce. Quello dei consiglieri di Stato. «Sono 130 in tutto: un centinaio di loro sono magistrati, gli altri consiglieri a tutti gli effetti, nominati dal governo».  

Perchè sono così importanti?

«Semplice: hanno in mano le leve strategiche della giustizia e dell’economia». 

Come?

«Sono al governo del Paese, si giudicano da soli con il proprio organismo di autogoverno, sono attraversati da decine di conflitti di interessi. Capita perfino che giudichino ricorsi su leggi e decreti che magari hanno scritto loro stessi. 

Cose di importanza decisiva per tutti noi e, caso unico, senza possibilità di ricorrere al grado di giudizio successivo. Tuttavia nessuno ne parla, pochi ne scrivono, nessuno li controlla. Ti basta questa sintesi?». 

E come può accadere?

«I politici hanno tanti difetti, ma non è mai mancata in questi anni la vigilanza pubblica sui loro errori».

Sicuro.

«Sono sotto i nostri occhi. Abbiamo potuto vedere e raccontare i loro pregi, i loro peccati, e soprattutto i loro misfatti». 

Tutti conoscono la faccia di chi si vota, ma pochi conoscono i volti degli uomini di cui parli nel tuo libro.

«Questo e un primo problema. Sono funzionari dello Stato, invisibili, discreti, molto spesso anonimi. Eppure scrivono le leggi che regolano le nostre vite, e, come ti dimostrerò, spesso decidono loro anche come applicarle. Questo conflitto di interessi e un secondo problema». 

Il tuo e un libro contro la magistratura?

«Al contrario, io credo che a fine intervista i lettori si renderanno conto che è un libro a sua tutela». 

Addirittura.

«I consiglieri di Stato fra l’altro, come abbiamo visto, non sono solo magistrati, e per giunta non devono seguire le regole di incompatibilità che invece valgono per tutti gli altri togati». 

Fammi un esempio.

«Il governo Draghi». 

Perche?

«Oggi, collocati in diversi ruoli, ci sono ben 11 consiglieri di Stato. Piu Luciana Lamorgese, che guida uno dei ministeri più importanti, l’Interno. Un record». 

Molti di loro sono “solo” capi di gabinetto o consiglieri. Ma tu scrivi che sono potenti come i ministri.

«Sono molto più potenti dei ministri, anche se scelti e nominati da loro. Piu influenti, anche se apparentemente li servono». 

Perchè?

«Occupano i posti chiave, del potere e del sottopotere: guidano i processi». 

Fammi un altro esempio.

«Partiamo dal vertice dello Stato, ovvero da Palazzo Chigi, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio?». 

Ruolo rivestito oggi da Roberto Garofoli.

«E la figura politica più importante, in un governo: il vero braccio operativo del presidente del Consiglio. Anche lui e, ovviamente, un consigliere di Stato».

Un altro esempio.

«Il segretario generale di Palazzo Chigi, cioè il capo dell’amministrazione più potente del Paese? E Roberto Chieppa, figlio dell’ex presidente della Corte costituzionale Riccardo Chieppa. Anche lui e un consigliere di Stato». 

E seguendo la scala gerarchica, chi c’è?

«Il capo del dipartimento degli Affari giuridici di Palazzo Chigi, Carlo Deodato. Anche lui un consigliere di Stato: svolgeva la stessa funzione nel governo Letta». 

Un ruolo delicatissimo.

«Fai tu: da quell’ufficio della presidenza escono tutti i disegni di legge e tutti i decreti del governo. E c’è quasi sempre stato un consigliere di Stato». 

Continuiamo.

«C’e un consigliere di Stato anche nel ministero più importante, quello che ha i cordoni della borsa dello Stato: e il capo di gabinetto del ministero dell’Economia, si chiama Giuseppe Chine». 

E poi?

«Gli uffici legislativi di quel ministero sono affidati ad Alfredo Storto e Glauco Zaccardi». 

Che non e consigliere di Stato!

«E magistrato ordinario, ma figlio di Goffredo Zaccardi, già consigliere di Stato, capo di gabinetto del ministero della Salute fino al settembre 2021».

E negli altri ministeri?

«Raffaello Sestini e vicecapo di gabinetto di Roberto Cingolani, alla Transizione ecologica. Nello stesso ministero il responsabile legislativo fino a novembre era il presidente di sezione del Consiglio di Stato Claudio Contessa».

E poi?

«Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha come capo di gabinetto Luigi Fiorentino. Anche lui consigliere di Stato».

Altri?

«Certo. Al ministero della Salute, alla stesura dei testi di legge c’è Luca Monteferrante. Anche lui consigliere di Stato». 

E infine?

«Il capo dell’ufficio legislativo del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, e Roberto Proietti. Anche lui e un consigliere di Stato». 

E ancora?

«Antonella Manzione e consigliere giuridico della ministra della Famiglia Elena Bonetti. Prima della sua nomina a consigliere di Stato era a capo dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi con Matteo Renzi». 

Prima che Renzi la portasse a Palazzo era capa dei vigili urbani di Firenze e prima ancora di Marina di Pietrasanta: ne ha fatta di strada. Ma perchè dici che loro contano più di un ministro?

«Basta indagare i loro curriculum, come faccio nel mio libro, per capirlo».

Ovvero?

«I ministri passano, loro restano. I ministri hanno diversi colori politici, loro invece transitano indifferentemente da amministrazioni di destra e di sinistra senza rendere conto a nessuno delle loro scelte». 

Fammi un altro esempio.

«Uno clamoroso, di questi giorni: le concessioni balneari. Su questo tema – giusto o sbagliato – il Governo gialloverde aveva deciso, allungandole fino al 2032».

E il Consiglio di Stato ha annullato quella scelta.

«Imponendo le gare, e avvisando il Governo che non può più intervenire con un decreto». 

Il Consiglio sostiene di aver interpretato una direttiva europea.

«Si, e in questo caso ha ragione da vendere. Ma a me interessa un altro aspetto: un consigliere può partecipare alla stesura di un decreto o di una legge, e poi, nella sua attività, abrogarla?». 

Per questo dici, per paradosso, che contano più dei ministri.

«Non e un paradosso. I ministri spesso si limitano a dare gli indirizzi politici, loro scrivono le norme e poi determinano i processi reali». 

Anche i consiglieri, come i politici, cambiano ruolo.

«La maggior parte di loro, pero, come si vede, non resta mai a terra. Il 10% dell’attuale Consiglio di Stato e al governo. Sono i veri padroni della macchina amministrativa, conoscono informazioni a cui talvolta nemmeno i ministri accedono». 

Pure certi politici hanno carriere lunghe.

«Se ci fai caso, soprattutto nella seconda Repubblica, la “mortalità” negli incarichi di governo e altissima. Ora ti racconto delle storie che stupiranno i lettori di TPI».

Prima di scrivere il suo libro Sergio Rizzo ha lavorato due anni. Ha consultato dossier, organigrammi, carte processuali, visure catastali e camerali. Poi ha dato alle stampe “Potere assoluto”, un libro che – appena uscito – e andato esaurito (e stato ristampato nella prima settimana) e che racconta vita morte e miracoli su «cento magistrati che comandano in Italia». 

Rizzo e stato giornalista sia al Corriere della Sera che di Repubblica, scrive da anni di norme e leggi. Il tuo ragionamento e affascinante, ma si potrebbe dire: non è normale che un consigliere dello Stato serva lo Stato?

«In linea teorica sì. Ma vuoi un esempio illuminante? Il monumentale curriculum di Garofoli, uno dei migliori e più influenti consiglieri di Stato. Espertissimo». 

Da quando ricopre incarichi di governo?

«Ecco qui: capo dell’ufficio legislativo agli Esteri con D’Alema, per due anni». 

Ottimo esordio.

«Poi capo di gabinetto di Patroni Griffi – altro consigliere di Stato, fra l’altro – quando questi era ministro. Un anno e mezzo. Poi segretario generale della presidenza con Enrico Letta. Un altro anno».

Quindi?

«Capo di gabinetto al Tesoro con Padoan nei governi Renzi, Gentiloni e un pezzo del Conte uno. E fanno quasi cinque anni. Ora – come abbiamo visto – e sottosegretario alla presidenza, con Draghi, e devi aggiungere un altro anno». 

Vuoi dire che ha ricoperto incarichi in governi di sinistra di destra, istituzionali e tecnici per un decennio almeno?

«Esatto, ed e un paradosso del nostro sistema. Garofoli e stato al governo più tempo di Berlusconi. E molto più di Letta, Renzi, Monti e Draghi messi insieme. Per me il potere reale in Italia e questo. I politici passano, i grand commis restano». 

Quando inizia quella che chiami l’ultracasta del potere?

«L’ultracasta non è un termine mio: era del bravo Stefano Livadiotti, autore nel 2009 di un magnifico libro sulla magistratura. Ma per rispondere alla tua domanda: il Consiglio di Stato nasce prima del Regno d’Italia». 

Addirittura?

«Sono i Savoia a crearlo, su suggerimento diretto di Metternich a Carlo Alberto». 

Parliamo dello Stato sabaudo.

«Esatto: quello pre-unitario, non c’è stato neppure il 1848». 

E poi?

«Importiamo il modello francese, accrescendo le funzioni di questo organismo. Poi, nel tempo, i consiglieri si separano da- gli altri magistrati, diventando un mondo a se stante. I problemi iniziano qui».

Si potrebbe obiettare che il Consiglio e un organismo costituzionale.

«Ma la Costituzione specifica che la magistratura deve essere indipendente». 

E i consiglieri di Stato non sono uguali agli altri magistrati, in questo?

«Per nulla. Un magistrato non può avere altri incarichi, un consigliere di Stato si. E talvolta grazie a questi incrementa un bel po’ lo stipendio». 

Possibile?

«Nel piccolo, visto che tanti di loro ad esempio insegnano, basta sommare al limite di 220mila euro i 50-60mila di una cattedra in una scuola di formazione». 

E in grande?

«Immagina quanto si guadagnava un tempo con gli arbitrati. Li avevano praticamente aboliti, oggi sono riapparsi in altre forme». 

Fino a quanto possono guadagnare?

«Ecco il punto. Un tetto non c’è. I guadagni privati, per esempio quelli dalle scuole private dove insegnano, non si calcolano nel limite dei 240mila euro lordi annui».

Non ci credo.

«Ma quando gli arbitrati andavano alla grande era una pacchia. Fino a una quindicina d’anni fa c’era chi portava a casa anche un milione e mezzo di euro». 

Incredibile.

«Ma e cosi. E c’è un altro capitolo importante di quello che io chiamo il potenziale conflitto d’interessi permanente». 

Quale?

«La giustizia sportiva. Milioni di italiani appassionati di calcio sono rimasti appesi alla diatriba tra Juve e Napoli in piena pandemia, su una delicatissima gara da disputare o meno».

E c’entra il Consiglio di Stato?

«A decidere tutto sono stati gli organi della giustizia sportiva, che pero non sono parte di una categoria autonoma. E che sono tutti costituiti da una particolare categoria di magistrati. Indovina quali?». 

I consiglieri di Stato?

«Inizi a capire. Ora ti faccio un altro esempio, quello che ritengo un conflitto di interessi politico. Che il protagonista ovviamente negherà». 

Ovvero?

«Goffredo Zaccardi, bravissimo consigliere di Stato: per una vita lavora nei gabinetti dei governi della sinistra. E poi diventa presidente del Tar del Molise».

Cosa vuoi dire?

«In quel ruolo si ritrova ad annullare l’elezione di un governatore di centrodestra, Michele Iorio». 

Era in conflitto di interessi?

«Un ex funzionario vicino al centrosinistra che azzera l’elezione di un esponente di centrodestra: magari in punto di diritto ha ragione. Ma se fossi in lui un po’ d’imbarazzo lo proverei». 

Esistono anche casi opposti?

«Il caso dei casi: Franco Frattini». 

Ex ministro con Berlusconi.

«Esatto: ministro degli Esteri di Forza Italia, promosso presidente di sezione del Consiglio di Stato mentre era ministro e parlamentare, in aspettativa».

Ma era legale.

«Diranno cosi. Ma per me e incredibile. La politica diventa la prosecuzione della carriera con altri mezzi». 

Ma poi accade altro?

«Certo. Frattini, anche in virtù di quell’avanzamento, diventa presidente del Consiglio di Stato, superando un concorrente che lamenta di avere più anzianità di lui».

Si parlava di lui per il Quirinale.

«Sarebbe diventato capo della magistratura, cioè di se stesso. Ma sai chi sarà a giudicare il ricorso del suo rivale?».

Non me lo dire.

«Si arriverà al Consiglio di Stato». 

Quindi Frattini giudicherà sul ricorso contro Frattini?

«La ministra Dadone aveva meritoriamente proposto una legge per fermare gli avanzamenti di carriera durante gli incarichi politici».

E che fine ha fatto?

«Scomparsa in qualche cassetto». 

Sui ricorsi in primo grado decide il Tar.

«Ma in appello rispetto al Tar c’è il Consiglio di Stato. Tecnicamente inappellabile, perchè non esiste un terzo grado. Ora immagina che il Tar, e dunque il Consiglio di Stato, hanno giurisdizione su tutti i contenziosi economico-legislativi del Paese. Potere vero». 

E un conflitto d’interessi?

«Io credo che chi ha scritto le leggi non dovrebbe mai decidere sui contenziosi che le riguardano». 

Mi dicevi dello sport. «I magistrati ordinari non possono fare i giudici sportivi». 

Mentre i consiglieri di Stato? (Sorriso).

«Loro sì». 

Un esempio?

«Gerardo Mastrandrea, giudice sportivo, ma anche coordinatore legislativo del Tesoro. Io mi chiedo: ma come fa?». 

Parliamo di quel famoso Juve-Napoli?

«Il Napoli non si presenta alla partita: 3-0 a tavolino e un punto di penalizzazione decisivo per la corsa allo scudetto». 

De Laurentis ricorre alla Corte federale.

«E chi decide? Mario Torsello. Consigliere di Stato».

E poi?

«Vanno alla Cassazione sportiva: e il presidente chi e? Sempre Franco Frattini». 

Improprio, ma non grave.

«Dipende. In questi organismi di giustizia ci sono anche gli avvocati amministrativi. Tu ti trovi al fianco di uno in una Corte sportiva, e poi come controparte in un procedimento ordinario. Capisci? Poi succedono pasticci come quello di Chine». 

Sempre lui?

«Si e trovato a giudicare sulla Lazio. Ed e successo un macello: c’è stata anche una interrogazione parlamentare, perchè il figlio giocava nella Lazio!». 

Un altro caso?

«Pasquale De Lise. Da presidente del Tar Lazio, si trova a giudicare un ricorso di Lotito contro la Consob. E giudica a favore di Lotito. Ma poi magari gli sarebbe capitato di avere a che fare come presidente della Cassazione sportiva con la squadra di Lotito. Una commistione di ruoli che non va». 

Siamo alla fine, chiudi con una perla.

«Le scuole per diventare magistrati o avvocati, come puoi immaginare, sono molto ambite». 

E ti credo.

«Bene, tra le tante società che si occupano di formazione, che fanno soldi, ci sono alcune società, che hanno sede a Bari». 

Non ci vedo nulla di strano.

«Nemmeno io. Se alcune di loro non facessero capo alle consorti di consiglieri di Stato».

Curioso. Piccole società didattiche? «Insomma. I bilanci che ho controllato dicono che dal 2008 la prima ha fatturato 30 di milioni di euro, e la seconda 14». 

Incredibile.

 «Fidati. Relazioni, intrecci, incarichi, porte girevoli. Nel vuoto degli altri poteri, nella crisi della politica, questa e la casta delle caste». 

Quei cento giudici che fanno casta: agli amministrativi è permesso tutto. Luca Fazzo il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il saggio punta i riflettori su un gruppo ristretto di magistrati, dai Tar al Consiglio di Stato. Rizzo: "Sono legati alla politica, spesso sono nei posti chiave dei ministeri e ricevono incarichi extra".

Un potere dentro il potere, una Casta con la toga impelagata in profondità col mondo della politica e degli affari in un viluppo di clamorosi conflitti di interesse: è il sistema della giustizia amministrativa, poche centinaia di magistrati che - dai Tar regionali fino al Consiglio di Stato - dettano legge fuori da ogni controllo. È questo il quadro desolante che ne traccia Sergio Rizzo in Potere assoluto, il saggio in uscita in questi giorni per Solferino. E che dal marcio nella giustizia penale, dal degrado nelle correnti e nelle Procure raccontato dal caso Palamara, sposta l'attenzione verso un mondo di cui invece si è sempre parlato poco.

«L'idea del libro - racconta Rizzo - nasce proprio dalle percezioni che di questo mondo si sappia pochissimo. Eppure è un crocevia decisivo. Da una parte i giudici amministrativi si muovono al di fuori di ogni controllo, rendendo conto solo a se stessi; dall'altra sono però legati da un cordone ombelicale al mondo della politica». A fare di questi magistrati poco noti dei personaggi decisivi c'è anche il fatto che sono spesso loro a costituire l'ossatura del potere esecutivo. «Forse non tutti lo sanno - dice ancora Rizzo - ma in buona parte dei posti chiave dei ministeri e del governo ci sono giudici amministrativi: persino l'attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, una delle figure chiave dell'esecutivo, è un giudice del Consiglio di Stato. Sono dentro gli uffici legislativi dei ministeri, scrivono le norme che loro stessi poi sono chiamati ad applicare. Le loro carriere incrociano quelle della politica e ovviamente ne vengono condizionate. La cosa incredibile è che mentre lavorano nei ministeri continuano a maturare anzianità come magistrati e ad avere avanzamenti di carriera».

Tra i privilegi dei magistrati amministrativi c'è la possibilità di svolgere incarichi stragiudiziari: possono insegnare nelle scuole, possono fare arbitrati. Quasi grottesco è il quadro che in Potere assoluto viene tracciato del funzionamento della giustizia sportiva, anch'essa affidata in buona parte a giudici amministrativi. Sono incarichi quasi sempre non retribuiti, si dirà. Ma nei tribunali del Coni e delle federazioni i giudici siedono insieme agli avvocati, si crea una contiguità, una colleganza tra figure che il giorno dopo, in una udienza davanti al Tar o al Consiglio di Stato, dovrebbero essere ben distanti. «Si tenga presente - chiosa Rizzo - che il mondo della giustizia amministrativa è un microcosmo dove tutti conoscono tutti e tenere i ruoli separati sarebbe decisivo. Quanti sanno che il presidente del comitato di sorveglianza di Alitalia è anche segretario del Consiglio di Stato?».

Consigliere di Stato era il giudice Francesco Bellomo, diventato famoso per come gestiva le scuole per aspiranti magistrati. «Ma non è un caso isolato, a Bari mogli di giudici amministrativi hanno partecipazioni in case editrici che stampano i libri... Avere frequentato i corsi di un giudice importante è un titolo che i regoli non prevedono ma che pesa comunque».

Il libro punta il dito contro il funzionamento del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Csm dei giudici amministrativi, che sembra condividere - nella sostanza se non nella forma - le storture del Csm ordinario. E ad accomunare le due categorie di giudici è anche il sistema delle «porte girevoli», con giudici che vanno in politica, poi rimettono la toga e danno torto alla parte avversa. Rizzo racconta il caso di Goffredo Zaccardi, che dopo aver lavorato per i governi Prodi e D'Alema tornò in servizio e annullò le elezioni in Molise vinte dal centrodestra. Caso non dissimile, ricorda, da quello del giudice Giancarlo Sinisi che dopo tre legislature in Parlamento per la sinistra tornò in magistratura. E condannò Augusto Minzolini, allora senatore di Forza Italia. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Goffredo Buccini per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022.

Il fantasma di Attilio Brunialti non ha mai smesso, in fondo, di turbare i sonni dei suoi successori. Con la sua aura di astuzia e competenza, certo, qualità principali anche delle generazioni di consiglieri dopo di lui: le stesse doti che lo portarono a dirimere magistralmente, nel lontano 1907 (ancora in tempi di Non expedit e mangiapreti), una questione esplosiva sui crocefissi, da rimuovere o meno nelle scuole, grazie a un memorabile «escamotage evasivo» (il crocefisso, come la lavagna, «è suppellettile essenziale» in aula); ma anche col suo fardello di spregiudicatezza, che lo trascinò nel 1913 sotto accusa davanti ai suoi colleghi, per arbitrati opachi.

La medesima spregiudicatezza che, nella sua ultima fatica saggistica, Sergio Rizzo pare attribuire a una parte non proprio minore di chi riempie oggi (e ha riempito in tempi recenti) le stanze ovattate di Palazzo Spada, nella Roma antica del rione Regola. Un edificio cinquecentesco ignoto a tanti, eppure sede di un vero gnommero di poteri e sottopoteri incrociati in modo quasi mai illegale ma spesso e volentieri incestuoso, tra coincidenze di controllori e controllati, generose prebende e dorate remunerazioni: il Consiglio di Stato, organo decisivo nella risoluzione dei rapporti, talora assai conflittuali, tra Stato, amministrazioni pubbliche e privati. 

Potere Assoluto, in uscita per Solferino in questi giorni, mette così a fuoco (e sul fuoco, nel senso di... graticola) « i cento magistrati che comandano in Italia »: e, comandando davvero, lontano dai riflettori della pubblica vanità, sono dunque spesso sconosciuti, tranne che agli addetti ai lavori. Rizzo ce li svela nella loro umanissima natura.

A quindici anni da La Casta che, scritto con Gian Antonio Stella, gli valse la notorietà (denunciando come certa politica caricaturale fosse diventata oligarchia insaziabile) e, forse non casualmente, nel trentennale di Mani pulite, ci racconta come chi decide sul serio nel Belpaese non siano né i politici né i pubblici ministeri, tanto spesso in conflitto tra loro, ma quei dotti mandarini che alla politica sono assai prossimi e rappresentano «la scheggia più autoreferenziale della magistratura». 

Quelli che scrivono leggi e decretano come applicarle. Hanno «in mano i ministeri», «che i ministri gli danno volentieri in gestione chiamandoli a fare i capi di gabinetto» grazie agli «incarichi fuori ruolo». Quelli che possono cambiare con una sentenza il destino di interi settori dell'economia nazionale, far decadere un presidente di Regione, annullare la nomina di un procuratore. Che arbitrano lucrosi arbitrati. E governano persino l'insopprimibile passione italica del calcio, tramite incarichi nelle corti federali. «Il Consiglio di Stato», sostiene Rizzo, «è il nocciolo duro del potere».

Intendiamoci: in sé non c'è nulla di esecrabile nell'essere un fuoriclasse della dottrina e nello scalare, perciò, più in fretta i gradini che conducono a uno status di grand commis e perfino di riserva della Repubblica. E sarebbe puerile descrivere un ganglio essenziale dello Stato come una compatta consorteria di colendissimi furbacchioni. 

Dunque, si tratta di capire e distinguere. Più ancora che in altri saggi di denuncia, Rizzo pare affrontare qui la questione soprattutto in termini di inopportunità e cortocircuito del potere: «La giustizia italiana ha un problema grande come una casa e fa finta di non vederlo... L'autoreferenzialità, è questo il problema, ha infettato in profondità tutte le magistrature mortificando l'efficienza e il merito. Con il paradosso che è la degenerazione di un principio sano, quello della separazione dei poteri e dell'autonomia dei magistrati».

E i più autoreferenziali di tutti (anche grazie al loro «Csm» ad hoc, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa) ci appaiono qui gli illustri inquilini di Palazzo Spada. Nel sostenerlo, Rizzo concede come di consueto pochissimo alla seduzione narrativa e offre invece al lettore tanta sostanza di cifre, sentenze e circostanze che, se pazientemente seguite, disegnano un ordito di grande efficacia. Senza rinunciare a qualche target maggiore, s' intende. 

Come nel caso di Franco Frattini, già enfant prodige di lunghissimo corso della politica nazionale, fresco presidente del Consiglio di Stato e soprattutto fresco «quirinabile» caduto nella settimana rovente della rielezione di Mattarella soprattutto a causa di qualche vecchia dichiarazione russofila (piuttosto improvvida se riletta in costanza di crisi dell'Ucraina).

Rizzo ne viviseziona carriera, promozioni e arbitrati, ponendo in questione il criterio stesso di anzianità alla base della progressione di ruolo: «Dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato () ne ha passati decisamente più della metà in aspettativa, a fare politica». 

E che politica: già celebrato ispiratore di quella «pistola caricata a salve» che fu nel 2004 la legge sul conflitto d'interessi così sensibile per Berlusconi, il nostro ottiene «la promozione in magistratura» (nel 2009, a presidente di sezione del Consiglio di Stato), mentre ne è fuori, essendo deputato del Popolo della Libertà e ministro degli Esteri nell'ultimo governo del Cavaliere. Con buona pace «per la separazione dei poteri».

Non si pensi tuttavia che tanta attenzione sul dottor Sottile del berlusconismo sia dettata da malanimo. Sarà opportuno rammentare che Frattini sconta a Palazzo Spada il successo (che, come sempre predica Berlusconi, attira «invidia sociale», spesso tra colleghi e ricorrenti) e la notorietà, in una confraternita di potenti quasi sempre senza volto. Ma Rizzo è bipartisan, ne ha per tutti e per tante tristi vicende della nostra Italia.

Dallo scandalo della P2, coi suoi diciotto magistrati irretiti da Gelli (di cui uno del Consiglio di Stato), alle più recenti imprese dell'avvocato Amara (pietra dello scandalo di innumerevoli fascicoli giudiziari); dalle cene di qualche giureconsulto rampante con l'immancabile Luca Palamara e col lobbista Fabrizio Centofanti, alle relazioni pericolose tra il penale e l'inopportuno che s' infilano nella carne viva di Palazzo Spada, fino (poteva mancare?) alla gara Consip che è una specie di sacro Graal dei trafficanti d'influenze italici.

Poiché non tutto può essere indignazione, non manca un sorriso triste, infine, di fronte all'impresa da maratoneta di quel consigliere che corre la Roma-Ostia in un'ora e quaranta poco dopo aver proposto causa di servizio per un'ernia del disco provocata, a suo dire, «dall'aver sollevato pesanti fascicoli processuali». Fra tanti scranni occupati da terga autorevoli, uno strapuntino per Totò non poteva mancare.

 “I magistrati sono la vera casta”. Parola di Sergio Rizzo. L'autore che con la "Casta" contribuì a cambiare le sorti del paese, ora in un altro libro ammette: "L'autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi". Valentina Stella Il Dubbio il 4 febbraio 2022.

“Potere assoluto – I cento magistrati che comandano in Italia”, è il titolo del nuovo saggio del giornalista Sergio Rizzo (Solferino Editore, pagine 256, euro 17), in cui svela storie, protagonisti, conflitti d’interesse e retroscena inediti della casta più nascosta e potente del Paese: «i consiglieri di Stato. Ovvero, il nocciolo duro del potere in Italia».

Il libro, di cui discuteremo con l’autore venerdì  4 febbraio alle 19 sulla pagina Facebook del Dubbio, cade a fagiolo, considerato che solo poche settimane fa il Consiglio di Stato è stato al centro della cronaca giudiziaria per aver decapitato i vertici della Cassazione. Quest’ultimo aspetto è ritenuto talmente problematico che si torna a parlare seriamente di un’Alta Corte: Rizzo riprende l’idea di Luciano Violante preoccupato del «rischio che “la magistratura amministrativa diventi il soggetto che, al di là della Costituzione, decide delle promozioni e delle sanzioni dei magistrati“. Al di là della Costituzione. Vero. Ma questo può accadere – prosegue Rizzo – perché, “al di là della Costituzione”, l’autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi».

Fra tutti i 10 mila e passa magistrati italiani i Consiglieri di Stato sono quelli più vicini alla politica. «Al punto da indirizzarne talvolta le scelte importanti. Gli spetta per legge – scrive Rizzo – il compito di esprimere pareri e suggerimenti sulle iniziative del governo. Pareri e suggerimenti, si badi bene, talvolta vincolanti». Ma il vero asso nella manica di questi magistrati è la possibilità di assumere incarichi diversi da quelli strettamente giudiziari, andando «fuori ruolo».

Hanno in mano i ministeri, come capi di gabinetto, e «perfino il processo legislativo della nostra democrazia, visto che, come esperti giuridici dei ministri, scrivono le leggi e ne gestiscono il funzionamento attraverso decreti attuativi predisposti da loro stessi», trasformandosi così negli uomini più potenti del Paese. «Nel governo di Mario Draghi ce ne sono undici: il 10 per cento dell’intero Consiglio di Stato».

Rizzo fa i nomi, individua i strani giri che fanno non uscendo mai da quelli che contano, e anche le preziose parentele: chi sono, lo scoprirete leggendo il libro. Il testo è ricco di storie realmente accadute, come si suol dire: a cominciare dalla partita non giocata tra Juventus e Napoli durante la pandemia e che divise l’Italia a metà. Il giudice sportivo e «consigliere di Stato Gerardo Mastrandrea infligge alla squadra di De Laurentiis non soltanto la sconfitta a tavolino per 3-0, ma la condisce per sovrapprezzo con la penalizzazione di un punto in classifica. […] Si può sempre fare ricorso alla Corte federale d’appello. E chi è lì il presidente? Manco a dirlo, un altro consigliere di Stato. Resta tuttavia ancora una chance estrema. Il Collegio di garanzia dello sport del Coni».

E chi è il presidente? «Un terzo consigliere di Stato che spunta in questa assurda vicenda: Franco Frattini», ora divenuto Presidente del CdS. Ma nel saggio si fanno anche i conti in tasca alla magistratura amministrativa, con esiti sconcertanti: le spese per l’informatica sono passate dagli 8,3 milioni del 2013 per schizzare a 23 milioni nel 2020, per poi leggere, nel bilancio di previsione, che la spesa sarebbe salita in soli tre anni a 52 milioni e mezzo. «La botta è così pesante che uno dei quattro membri laici, Salvatore Sica, chiede lumi. Fa mettere a verbale che vuole vederci chiaro lamentando “l’assenza di un’adeguata e dettagliata indicazione dei costi e della ratio sottesa alla spesa”. Ma poi la sua uscita non sortisce effetti. Gli spiegano che a fare le gare è la Consip e che l’aumento deriva anche da questo (!)».

Ma non finiscono qui le bizzarrie per Rizzo. Nel mirino del suo racconto entra pure Frattini e la sua nomina nell’aprile 2021 a Presidente aggiunto del CdS, contro la quale fa ricorso il consigliere di Stato Giuseppe Severini: «dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato alla nomina come numero due di Palazzo Spada, Frattini ne ha passati decisamente più della metà a fare politica, in aspettativa. Esattamente, precisa il ricorso di Severini, diciotto anni e mezzo». Ma non c’è nulla da fare, tutto regolare perché con una motivazione che «assomiglia a un triplo salto mortale con doppio carpiato del maestro di sci Frattini» si dice che «l’aspettativa presa per ragioni “extra istituzionali”, come quelle politiche, si può equiparare al cosiddetto “fuori ruolo”. Che cosa significa? In sostanza, un consigliere di Stato che va in aspettativa perché viene eletto alla Camera con un partito, e perciò non prende lo stipendio, è come se andasse a fare il capo di gabinetto di un ministero conservando la busta paga». La vicenda di cui parliamo per Rizzo «sta a dimostrare quanto sia robusto il cordone ombelicale di certa magistratura con la politica. E quanto l’indipendenza del potere giudiziario possa rivelarsi in determinate circostanze un concetto abbastanza vacuo».

Da "la Verità" il 4 febbraio 2022.  

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo stralci da Potere assoluto, ultimo libro di Sergio Rizzo in vendita da oggi (Solferino libri, 256 pagine, 17 euro). Il popolare giornalista si concentra su influenza e soldi attorno ai magistrati più potenti d’Italia: Csm, consiglieri di Stato, procuratori. Il brano proposto tocca il tema dei corsi di formazione dei magistrati, assurto alle cronache per il «caso Bellomo».

Ma, al di là delle vicende pecorecce, Rizzo dà conto dell’intreccio di società decise a difendere fatturati pazzeschi: sono quelle che organizzano appunto le docenze per preparare le future toghe agli esami. Tra i protagonisti di queste società occupa un posto di primo piano Maria Elena Mancini, moglie di Roberto Garofoli, potente uomo di Stato che, a seguito di un lunghissimo cursus honorum, è oggi sottosegretario di Mario Draghi a Palazzo Chigi. 

L'epicentro delle scuole di formazione è in Puglia, fra Bari e il circondario. Prendiamo la storia della Dike Giuridica Editrice. Tutto comincia l'11 dicembre 2006, quando una giovane e intraprendente signora barese, Sandra Della Valle, va dal notaio per costituire una società, la Dea immobiliare. Quel nome però sopravvive pochi mesi. Il 24 maggio 2007, infatti, Sandra Della Valle ci ripensa. Si reca da un altro notaio, questa volta a Palombara Sabina, nei pressi di Roma, e cambia tutto. La sua società non si chiama più Dea immobiliare bensì Ildirittopericoncorsi.it.

E non si occupa di case e terreni ma di corsi di formazione per i concorsi pubblici che deve sostenere chi vuole fare, per esempio, il magistrato. Una metamorfosi assolutamente singolare, dettata da chissà che cosa. Ma contestualmente alla modifica della denominazione sociale e dello statuto arriva anche un secondo azionista, che rileva l'1%. Si tratta di Nicola Campione. [...] Ancora pochi mesi e l'irrequieta imprenditrice Sandra Della Valle torna dal medesimo notaio di Palombara Sabina per cambiare di nuovo il nome della società. Che il 4 febbraio 2008 viene così battezzata con il nome, si spera definitivo, di Dike Giuridica Editrice. 

Scopo sociale: «Pubblicazione e commercializzazione di opere prevalentemente in materia economico-giuridica» e «l'organizzazione di corsi per la preparazione a esami universitari e concorsi statali». Il rapporto d'affari fra la signora Della Valle e Nicola Campione prosegue per anni evidentemente in modo prolifico, se il 4 dicembre 2017 i due costituiscono un'altra società, stavolta in accomandita. Si chiama Training & Law di Nicola Campione sas.

Oggetto, la «formazione professionale, nonché la preparazione a esami universitari e concorsi pubblici» e «la pubblicazione di opere editoriali prevalentemente in materie economico-giuridiche». Praticamente la fotocopia dello statuto Dike. E stavolta compare anche un terzo socio, appena diciottenne: Antonio Caringella, il figlio di Sandra Della Valle e di suo marito Francesco Caringella. Proprio lui. Perché la proprietaria della società Dike nonché socia dell'attivissimo Campione è la consorte di uno dei consiglieri di Stato più noti e stimati nel circuito della magistratura amministrativa. Francesco Caringella, nato, come la moglie, a Bari, è dal 1998 al Consiglio di Stato, dove ha scalato i gradini più impervi raggiungendo l'invidiabile posizione di presidente di sezione. [...]

Caringella è diventato fra i consiglieri di Stato una specie di recordman degli incarichi «extragiudiziali» di insegnamento. A dire la verità ha fatto anche una puntatina nel mondo degli arbitrati, come presidente del collegio che doveva decidere la controversia da 15 milioni fra la Fiat e la Tav. Ma niente al confronto dell'attività didattica, regolarmente autorizzata dal Csm del Consiglio di Stato: in una decina d'anni ha superato agevolmente 300.000 euro di compensi per le sue lezioni.

Pagate anche 800 euro l'una. Dal 2008 ha collezionato quasi una ventina di incarichi, tutti in società private di corsi di formazione e preparazione per concorsi da magistrato o esperto giuridico. Legate, all'apparenza, da uno stesso filo rosso barese. Nella lista non poteva mancare la Dike di sua moglie, presso cui il Consiglio di giustizia amministrativa lo ha autorizzato nel 2019 a tenere un corso che gli ha fruttato 60.000 euro lordi. Poi c'è l'Accademia Juris Diritto Per Concorsi, una srl di Bari di proprietà del barese Carlo Giampaolo. 

Ha un indirizzo di posta elettronica certificata curiosamente identico alla penultima denominazione sociale assunta dalla Dike: ildirittopericoncorsi@pec.it. Talmente identico che assai difficilmente ci può essere un caso di omonimia. Soprattutto ci sono la Lexfor e la Corsolexfor, da cui Caringella ha avuto una dozzina di incarichi di docenza. Si tratta di società che fanno capo al socio della consorte, Nicola Campione, barese, classe 1964: il quale risulta in entrambe azionista di minoranza con altri due soci baresi, ma è amministratore unico. [...]

Per la serie poi «le coincidenze non esistono», la Corsolexfor di Campione, socio della moglie di Caringella, ha sede a Molfetta, trenta chilometri da Bari. E in via San Francesco d'Assisi al numero 51. Dove si trova una sorpresa. Lo stesso indirizzo ospita anche tre società operative nello stesso campo dei corsi di formazione per esami e concorsi pubblici e dell'editoria giuridica. Neldiritto Editore srl, Nld Concorsi e Omniaforma sas, queste le tre sigle, hanno anche la medesima proprietaria originaria di Bisceglie, altra città sempre vicino a Bari: Maria Elena Mancini.

Un'altra moglie. Maria Elena Mancini è infatti la consorte di Roberto Garofoli. Consigliere di Stato fra i più conosciuti e influenti, già capo di gabinetto del ministro della Pubblica amministrazione e poi presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, nonché dei ministri dell'Economia Pier Carlo Padoan e Giovanni Tria. Fino all'incarico più prestigioso e politico: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, braccio destro del capo del governo Mario Draghi. Garofoli, pugliese di Taranto, mostra una tale passione per l'insegnamento al punto da tallonare da vicino per numero di incarichi «extragiudiziali» didattici autorizzati il suo collega e amico Caringella. 

Un paio li ha svolti presso la società Neldiritto di sua moglie Maria Elena Mancini. Ma la stragrande maggioranza commissionati sempre da Lexfor e Corsolexfor di Nicola Campione: talvolta in parallelo con Caringella. [...] Le società di formazione dal pedigree barese (una decina), ruotano intorno alle figure di alcuni magistrati. Tutte o quasi sono diventate operative a cavallo del 2007-2008, quando è iniziato il boom delle scuole private per i concorsi di giustizia. Da allora e fino alla fine del 2019, secondo quanto è stato possibile calcolare, hanno incassato 66,1 milioni.

Con utili netti per 7,8. Il tutto ampiamente per difetto perché i bilanci delle società in accomandita semplice non sono reperibili nelle banche dati delle imprese di capitali. Il solo fatturato delle due srl di Maria Elena Mancini, la moglie di Garofoli, ha quasi raggiunto 30 milioni: 29 milioni 937.000 euro. E gli utili netti sono ammontati a 2 milioni 248.000 euro. La Dike di Sandra Della Valle, moglie di Caringella, ha registrato un giro d'affari di 14 milioni 251.000 euro, per 410.444 euro di utili netti.

Nel 2019 Sandra Della Valle ha poi venduto la propria quota, allora del 94%, all'avvocato di Bari Marco Giustiniani per 115.000 euro. Nei soli anni successivi al 2015, quando Corsolexfor e Lexfor hanno abbandonato lo status di accomandite per trasformarsi in srl, le attività di Nicola Campione e degli altri azionisti hanno sommato ricavi pari a 7 milioni 513.000 euro, e profitti netti per 1 milione 684.000 euro. Ancora. Alla Accademia Juris, società di Carlo Giampaolo, i corsi hanno fruttato 622.000 euro di utili netti, su un fatturato di 6 milioni e mezzo. E poi dicono che in Italia la giustizia non funziona.

Caiazza: «Che assurdità le toghe che scrivono leggi per riformare se stesse». Il presidente dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza: «Una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani con l'Anm». Simona Musco Il Dubbio il 3 febbraio 2022.

Altro che svolta: la nuova riforma del Csm «sarà scritta dai magistrati, con un metodo parasindacale». A dirlo è Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, secondo cui per affrontare la crisi della magistratura sarebbe stato necessario affrontare il problema delle valutazioni di professionalità – positive quasi nel 100% dei casi – e dei fuori ruolo. Temi sui quali è proprio l’Ucpi a lavorare per una riforma di iniziativa popolare. «In questo progetto di riforma – spiega Caiazza al Dubbio – si parla solo di sistema elettorale. E francamente non è questa la soluzione alla crisi».

La nuova riforma del Csm è attesa come una svolta. Ma a conti fatti saranno gli stessi magistrati a decidere quale sarà il loro futuro, col rischio che tutto cambi affinché nulla cambi.

Questa riforma, diversamente da quella sul processo penale, che ha coinvolto molti più soggetti, tra cui noi, è in corso di definizione tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati, secondo una logica parasindacale. Ma una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani con l’Anm. Mentre noi penalisti siamo stati, credo proficuamente, coinvolti nella riforma del processo penale, qui siamo stati tenuti fuori, come chiunque altro. Ed è significativo. Questa è la prima osservazione di metodo.

Il dibattito si sta concentrando essenzialmente sul sistema elettorale, come se fosse l’antidoto ultimo alla crisi. Basta?

No. È un aspetto che consideriamo marginale rispetto alle ragioni della crisi della magistratura. Immaginare che si possa riformare l’ordinamento giudiziario modificando il sistema elettorale del Csm è una sorprendente illusione, che ha colpito anche la politica, negli anni. Non crediamo che ci saranno grandi differenze, qualunque modifica si riuscirà a fare.

Sorteggio compreso?

Il sorteggio avrebbe certamente un impatto molto forte. Anche se comprendiamo che si arrivi a questa idea per disperazione, da parte di chi vuole riformare, a noi penalisti l’idea del sorteggio non piace. È e rimane una sgrammaticatura democratica, una soluzione disperante e disperata. Se siamo a un livello di crisi così ingovernabile da avere il bisogno sorteggiare i componenti di un organismo costituzionale di quell’importanza siamo veramente alla frutta. Se poi dobbiamo prendere atto che siamo alla frutta va bene.

Quali sono i problemi da affrontare con priorità?

In primo luogo il problema della progressione delle carriere. Il motivo per il quale il sistema delle nomine non funziona, con le sue derive correntizie, è che le carriere procedono automaticamente, come è noto, con valutazioni positive oltre il 99%. Così, quando si deve scegliere un procuratore capo o il presidente di una Corte d’Appello, si troveranno sempre cinque o sei magistrati che avranno lo stesso curriculum e saranno considerati equivalenti. È naturale, con questo appiattimento.

La grande riforma della magistratura passa dunque, prima di tutto, dalla riforma dei meccanismi di progressione di carriera e quindi della valutazione di professionalità, che avrebbe anche il pregio di responsabilizzare il magistrato per ciò che fa. Se il magistrato non risponderà mai a nessuno della qualità del proprio lavoro, come succede adesso, sarà totalmente deresponsabilizzato, perché tanto andrà avanti ugualmente. Di tutto questo, nel progetto di riforma, non c’è nulla, se non l’introduzione di un ulteriore livello di giudizio. Ma è una cosa assurda.

La vicenda dei vertici della Cassazione ne è un esempio?

I ricorsi al Tar riguardano un’enorme quantità di nomine di magistrati, in tutta Italia. Dovrebbe essere la magistratura a capire, per amor proprio, che deve recuperare dei meccanismi di merito nell’avanzamento delle carriere, in modo da non dover vedere sindacare ogni cinque minuti le proprie scelte e le proprie stesse regole. Sa, le circolari sulle valutazioni quadriennali sono severissime e presuppongono un’analisi veramente approfondita per far andare avanti chi merita e lasciare indietro chi non merita. Ma è carta straccia.

Questa valutazione è stata annientata, in nome di principi di autonomia e indipendenza, con la conseguenza che non si sa più chi sia capace e chi no. E lo decide il Consiglio di Stato, il che crea un problema di tensione istituzionale molto forte tra magistratura ordinaria e amministrativa. Quest’ultima vicenda è clamorosa perché colpisce i vertici della magistratura, e grave perché queste decisioni non possono intervenire dopo due anni che si esercitano le funzioni. Ma non è una cosa nuova: è la conseguenza di quella gravissima disfunzione. È proprio per questo che noi stiamo lavorando a due grandi leggi di iniziativa popolare su distacchi dei magistrati e valutazioni professionali. Lavorandoci posso dire che non è facile costruire un’alternativa. Quindi non banalizzo, ma bisogna farlo.

L’altro tema è, appunto, quello dei fuori ruolo, sul quale più volte l’Unione delle Camere penali ha posto l’accento.

Abbiamo appreso con soddisfazione dell’inserimento di una delega che prevede, molto genericamente, una riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo. È un piccolo segnale di attenzione nei riguardi di una tematica cruciale, perché questa è una cosa unica al mondo. Ma dovrebbe essere una riduzione prossima all’azzeramento: non si capisce per quale ragione un magistrato che vince un concorso dovrebbe andare a fare una cosa diversa dal concorso che ha vinto, laddove poi c’è una carenza di giudici e di magistrati. E non è solo un problema di percentuale, ma anche di ruoli apicali, cioè politici, che dovrebbero essere preclusi al magistrato, per evitare la commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo. Ci vadano i funzionari di carriera, i professori universitari: perché ci deve andare un magistrato? Noi pensiamo che le leggi le facciano il Parlamento e il governo e che la magistratura le applichi. Questa cosa che la magistratura debba scrivere le leggi e soprattutto su se stessa e sulla riforma di se stessa a noi pare un’assurdità.

Altro punto è la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari.

E si torna al grande tema della valutazione professionale. Nel momento in cui diciamo che bisogna far saltare in aria questo sistema ipocrita delle valutazioni quadriennali, un ruolo importantissimo sarebbe proprio quello degli avvocati. La loro è la voce del foro. Guardi, capisco la delicatezza, perché il diritto di voto dell’avvocatura nei consigli giudiziari diventa un’assunzione di responsabilità enorme ed esige una indipendenza di giudizio veramente straordinaria, perché l’avvocato dovrà esprimere un giudizio sui magistrati con i quali deve lavorare tutti i giorni. Siamo consapevoli che si tratti di qualcosa che richiede un impegno formidabile, anche eticamente. Ma come si può immaginare che la voce dell’avvocatura non debba avere peso nel giudizio dell’operato di un magistrato?

·        Fuga dall’avvocatura.

Io, avvocato, chiedo: perché si sono chiuse le porte per diventare cassazionisti? La legge 247/2012, che reca Nuova disciplina dell'Ordinamento della professione forense, ha modificato le modalità di accesso all'Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. Il Dubbio l’1 dicembre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo una lettera firmata dall’avvocato Claudio Delle Fave, indirizzata al quotidiano Il Dubbio e all’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati).

Spettabile Redazione " IL  DUBBIO"

Spettabile "AIGA"

La legge 247/2012, che reca Nuova disciplina dell’Ordinamento della professione forense, ha modificato le modalità di accesso all’Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. In particolare, l’articolo 22 dispone che l’iscrizione all’albo speciale possa essere richiesta al CNF.

OMISSIS

"Possono altresì chiedere l’iscrizione coloro che maturano i requisiti secondo la previgente normativa entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge 247/2012 (ossia entro il 2 febbraio 2016, termine prorogato al 2 febbraio 2017 dall’art.2, comma 2-ter del D.L. 30/12/2015, n. 210, convertito dalla L. 25/02/2016 n. 21, successivamente prorogato al 2 febbraio 2018 dall’art. 10, comma 2-ter del D.L. 30/12/2016, n. 244, convertito dalla L. 24/02/2017, n. 19), ulteriormente prorogato al 2 febbraio 2019 dall’art. 1, comma 470, legge 27 dicembre 2017, n. 205 (in GU 29-12-2017) ed ulteriormente prorogato al 2 febbraio 2020 dall’art. 1, comma 1139, lett. e, Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (G.U. n. 302 del 31 dicembre 2018) e ulteriormente prorogato al 2 febbraio 2021 dall’articolo 8, comma 6-quater, del D.L. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni dalla Legge 28 febbraio 2020, n. 8 e da ultimo ulteriormente prorogato al 2 febbraio 2022 dall’articolo 8, comma 5 bis, del D.L. 31 dicembre 2020, n. 183, convertito, con modificazioni dalla Legge 26 febbraio 2021, n. 21 (G.U n. 51 del 1 marzo 2021), da ultimo ulteriormente prorogato al 2 febbraio 2023 dall’articolo 8, comma 4 ter, del D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni dalla Legge 25 febbraio 2022." 

L’AIGA ha sempre auspicato che il Legislatore disponesse definitivamente circa il criterio temporale da adottare per l’iscrizione all’Albo per il patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori e che venisse, pertanto, consentito l’accesso secondo la disciplina previgente a tutti coloro che si sono iscritti all’albo degli avvocati prima dell’entrata in vigore della legge 247/2012 ovvero il 2 febbraio 2012. Invero che come sopra detto la prorogatio si ferma al 2 febbraio 2023. Ergo, allo stato attuale, possono presentare domanda come cassazionisti i colleghi che al 2 febbraio 2023 abbiano maturato 12 anni di anzianità dall’iscrizione all’albo (circolare del CNF).

Rimarrebbero, pertanto, fuori gli avvocati che si sono iscritti all’albo dal 3 febbraio 2011 al 1 febbraio 2012 (un giorno prima dell’entrata in vigore della normativa  de quo sull’iscrizione alle giurisdizioni superiori). Parimenti L’AIGA, in relazione all’ultima proroga approvata – 2/2/2023 – , riferisce che trattasi di provvedimento "di assoluta importanza per la crescita professionale di numerosissimi … avvocati la cui legittima aspettativa di conseguire l’abilitazione al patrocinio innanzi alle Magistrature Superiori mediante il regime previgente, che prevedeva il requisito dei ‘dodici anni di anzianità’. E’ stata, di fatto, spazzata via una norma che entrando in vigore in maniera indiscriminata …….si è posta, di fatto, come norma retroattiva, andando a disciplinare anche la situazione di soggetti iscritti all’Albo in costanza di una legge diversa, sicuramente più favorevole".

Pertanto è lapalissiano che la legge più favorevole (ovvero quella  antecedente alla legge 247/2012 che prevedeva per l’iscrizione alla giurisdizioni superiori  aver maturato 12 anni di anzianità  dall’iscrizione all’albo), alla stato attuale, non verrà applicata ai colleghi  che si sono iscritti all’albo avvocati nel periodo 3.2.2011 al 1.2.2012 creando una disparità di trattamento evidente. La presente affinché possa essere utilizzata e divulgata nei modi che le SS.VV. riterranno più opportune.

Cordiali Saluti, Claudio Delle Fave

Scritte choc nel Palazzo di giustizia. Scritte contro avvocati, il vuoto di sicurezza nel Tribunale di Napoli e il malessere della classe forense. Gennaro De Falco su Il Riformista il 13 Novembre 2022

È un dato di fatto che l’avvocatura e soprattutto quella napoletana stia vivendo un doloroso momento di crisi senza alcun precedente testimoniato dal fatto che ieri mattina nella sede della Camera penale di Napoli e in altri luoghi del Palazzo di Giustizia sono apparse numerose violente scritte di protesta contro i rappresentanti della categoria riferite all’oscura vicenda del mancato versamento da parte del Consiglio dell’Ordine di oneri per oltre un milione di euro. Nello stesso tempo si ha notizia della notifica a numerosi avvocati sotto minaccia di sospensione dall’albo di richieste di pagamento per somme a volte inferiori a due euro, persino di settanta centesimi, che hanno creato ancora maggior risentimento tra tutti gli iscritti.

Molte delle somme di cui si assume il mancato pagamento sarebbero relative a debiti assai remoti nel tempo e quindi prescritti ma l’ordinamento professionale è molto severo per cui, comunque, i presunti debitori sarebbero passibili di sanzioni disciplinari sino alla sospensione nel mentre potrebbe anche ipotizzarsi la responsabilità contabile di coloro che dovevano curare la riscossione ed essendo il Consiglio un ente pubblico potrebbe esserci l’intervento della Corte dei Conti. A questo caos si aggiunge il fatto che molti dei presunti “morosi” asseriscono di aver pagato quanto richiesto o comunque dichiarano la, in verità comprensibile, impossibilità per il tempo trascorso di dare prova dell’avvenuto pagamento. A questa situazione di per sé esplosiva che avrebbe dato luogo alla presentazione di numerosi esposti a diverse autorità si somma oggi il nuovo capitolo delle scritte con la bomboletta spray apparse in diversi luoghi del Palazzo di Giustizia.

Quest’ultimo capitolo di questa triste vicenda apre la strada ad altri interrogativi sulla sicurezza del Palazzo di giustizia dove, a quanto si vede, è possibile introdursi e trattenersi agevolmente per compiere plateali attività illegali che necessariamente richiedono del tempo  che non può non essere sintomo di un gravissimo disagio dell’avvocatura da un lato e di assoluta assenza di sicurezza e controlli dall’altro. Come possa essere possibile quanto è avvenuto in una situazione in cui in ogni strada vi sono efficientissimi sistemi di sorveglianza era e rimane assolutamente inesplicabile e per questo ancor più grave, ma è comunque sintomo di una situazione di gravissimo malessere che non ha alcun precedente e che, secondo me, ha una serie di ragioni legate alla progressiva marginalizzazione culturale ed economica dell’avvocatura che si manifesta nel suo progressivo distacco dalle dinamiche reali della società. La verità è che gli avvocati non capiscono cosa accade e non si capiscono neppure tra loro ma dopo quello che è accaduto quello che appare evidente è il repentino crollo di un assetto della categoria che era rimasto stabilissimo per generazioni. Insomma il mondo anche nei tribunali cambia, non necessariamente in meglio ma cambia, con una velocità davvero incredibile, e soprattutto cambia senza né regole né direzioni di sorta. Gennaro De Falco

Piero Calamandrei, il “piccolo padre” dell’Italia democratica che ci parla ancora…La lezione sempre viva del giurista fiorentino, il suo impegno e le sue opere hanno disegnato il moderno Stato di diritto e l’etica giudiziaria nati dalle ceneri della dittatura fascista. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 14 novembre 2022.

Ogni giurista, ogni magistrato, ogni avvocato, ogni studente di legge italiano è in qualche modo un piccolo figlio di Piero Calamandrei, il padre costituente e l’intellettuale che più di ogni altro ha lasciato la sua impronta nel mondo del diritto e dei diritti nel nostro paese.

Una figura che ha attraversato gli anni drammatici delle due guerre mondiali e della dittatura fascista traendo forza e saggezza dagli orrori a cui ha assistito. E che ha contribuito in modo decisivo alla costruzione della vita democratica in Italia, un bene prezioso, che bisogna trattare con cura e mai dare per acquisito, come disse nel famoso discorso sulla Costituzione del 1955 rivolto ai suoi studenti della statale di Milano: «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare».

Uno sguardo rivolto alla pratica quotidiana del diritto alle sue procedure e al suo esercizio nell’esistenza di tutti i giorni perché la forma è sostanza, e l’altro più filosofico, puntato sui principi e sulle fondamenta della democrazia: queste due dimensioni nell’avvocato Calamandrei sono sempre intrecciate, senza soluzione di continuità, illuminate da una prosa limpida e ispirata, mai pedante, mai retorica. Perché Calamadrei era anche un uomo di lettere e di buone letture, scrittore e poeta, autore di racconti e favole per bambini sospinto fin da giovane dalla vocazione letteraria.

Figlio di un professore di diritto appassionato di politica che fu anche deputato repubblicano, nasce a Firenze nel 1889 e come si conviene ai ragazzi di buona famiglia prosegue la tradizione familiare iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza di Pisa, dove si laurea nel 1912. È influenzato profondamente dagli studi di Giuseppe Chiovenda sul diritto processuale e sull’«importanza politico- sociale del processo» come luogo di attuazione della legge, un campo che fino ad allora era sprovvisto di rigore scientifico e dottrinario eed dominato dalla tradizione liberale che disconosceva la sua dimensione pubblica, d’interesse generale.

A soli 26 anni è nominato docente universitario di diritto processuale, ma è il 1915 l’anno in cui l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria e la Germania e Calamandrei arruola convinto. Ma di fronte alla crudezza delle battaglie e alla ferocia degli ufficiali nei confronti dei propri soldati il suo entusiasmo interventista si dissipa in fretta.

Anche se riceve encomi ed è promosso tenente colonnello, al fronte si sente più avvocato che combattente e spesso si ritrova a esercitare la professione difendendo una decina commilitoni accusati di codardia e di aver abbandonato il combattimento, riuscendo peraltro a farli assolvere.

Negli anni 20 approfondisce ed estende le tesi di Chiovenda sulla processualistica civile e sull’indipendenza della giustizia dal potere esecutivo, concetti che lega a considerazioni di ordine generale, gli stessi che modelleranno il moderno Stato di diritto.

Con l’avvento del fascismo Calamandrei rimane indignato dalla violenza delle squadracce che mettono a ferro e fuoco le borse del lavoro, i circoli culturali ma anche tanti studi di avvocati non allineati o vicini alle sinistre. Nel 1924 sottoscrive il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce.

Ma la morsa del regime si fa sempre più stretta, gli spazi politici si richiudono, l’Italia scivola nella dittatura e Calamandrei si ritira nell’insegnamento e nello studio nonostante i vertici fascisti lo chiamino a collaborare alla commissione di riforma del codice di procedura penale. Accetterà a malincuore, ma si rifiuta comunque di prendere la tessera del Pnf. La sua posizione resta defilata e sofferta almeno fino al 1941 quando aderisce al movimento Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri con il quale l’anno successivo fonda il Partito d’azione.

Ma è con la caduta del fascismo e la nascita della repubblica che Calamandrei assume un ruolo centrale partecipando alla stesura della Costituzione italiana all’interno dell’Assemblea costituente. Certo, ha le sue idee specifiche e non tutte sono state attualizzate, come ad esempio il sistema presidenziale fatto di pesi contrappesi sul modello americano che ritiene il migliore per il nostro paese in quanto garanzia di stabilità politica, ma il nucleo della sua riflessione va oltre le architetture istituzionali, oltre i dispositivi elettorali identificando nell’Assemblea il cuore della sovranità e della legittimità democratica.

Per questo motivo difende la repubblica parlamentare e la Carta costituzionale come sono venute fuori dal confronto in Assemblea, proprio come frutto del compromesso e della dialettica tra le forze politiche. Con uno sguardo consapevole sull’aspetto simbolico di alcuni articoli, come quelli sui diritti sociali, concessione al partito comunista di Togliatti che in cambio di una «rivoluzione mancata», ottiene una «rivoluzione promessa ».

Piero Calamandrei è stato anche il primo prestigioso presidente del Consiglio nazionale forense, carica che ricopre per dieci anni fino alla sua morte dovuta alle complicazioni di un intervento chirurgico nel 1956.

E fondatore della rivista politico-letteraria il Ponte sulle cui pagine sono apparsi i suoi scritti più celebri come il folgorante Elogio dei giudici scritto da un avvocato, un’opera ricca di aneddoti forensi, di esperienze processuali concrete, di casistiche stimolanti, ma anche di robusti orizzonti etici e filosofici che dovrebbero essere discussi e condivisi tra la magistratura e la avvocatura, due funzioni diverse ma ugualmente pilastri fondamentali del diritto, che guai se entrassero in rotta di collisione tra di loro come accade troppo di frequente: «L’avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé. Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore».

Avvocato, la professione (di gran lunga) prevalente in Parlamento. Alla Camera proviene dal mondo forense il 18% degli eletti. Al Senato siamo al 21%. Nettamente staccate tutte le altre categorie. Ma tra i leader, l’unico legale è Giuseppe Conte. Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 9 novembre 2022

Vuoi diventare un parlamentare? Verrebbe da dire che un buon viatico per riuscire nell’impresa è diventare, prima, avvocato. È la conclusione a cui sembrerebbe condurre  la lunga (e faticosa) disamina delle schede dei 400 deputati, e degli oltre 200 senatori (essendoci anche quelli a vita), che certifica come ben 72 eletti alla Camera e 42 componenti dell’assemblea di Palazzo Madama sono avvocati, o meglio, si sono dichiarati tali alla domanda posta dai funzionari incaricati di redigere le schede di ciascun membro del Parlamento.

Si tratta, rispettivamente, del 18% della Assemblea di Montecitorio e del 21% dei senatori (non considerando però i senatori a vita). Premesso che i siti della Camera e del Senato consentono di visualizzare l’articolazione dei rispettivi membri per la loro posizione professionale, può valere la pena confrontare la numerosità degli avvocati in Parlamento rispetto a quella delle altre categorie.

Cominciando con i commercialisti, si rileva che la loro “quota” è di gran lunga inferiore rispetto a quella degli avvocati, anche a voler considerare che per ogni commercialista ci sono in Italia 2 avvocati (i primi sono circa 120.000 e i secondi circa 240.000). Infatti, si ravvisano alla Camera dei Deputati appena 14 commercialisti, e 8 al Senato. In altre parole, se sei un commercialista, hai un “tasso probabilistico” di essere eletto che risulta 2,5 volte inferiore rispetto a quello di un avvocato.

Del tutto assenti sono poi i consulenti del lavoro, e forse per questo è stato assegnato alla presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, Marina Calderone, il ministero del Lavoro.

Non molto meglio sono messe le altre professioni, come quella degli ingegneri, che possono contare su uno sparuto gruppo di 6 deputati alla Camera, e addirittura su nessun rappresentante al Senato, mentre va un po’ meglio ai rappresentati della professione medica, che restano comunque quattro gatti, visto che alla Camera ve ne sono 7 e al Senato 10.

Il nostro Parlamento non sembra neppure un pozzo di scienza, poiché i docenti universitari sono merce piuttosto rara. Nella Camera dei Deputati se ne contano 10, mentre sono il doppio (20) al Senato.

Fra questi sono però in diversi a svolgere l’attività accademica insieme ad altre professioni. Alcune specializzazioni sono poi veramente curiose, come quella del deputato del Pd Toni Ricciardi, che insegna “Storia delle migrazioni e delle catastrofi” (chissà se ha fatto esperienza con il suo partito…). Altri sono invece vaghi, come Giulio Tremonti, ora in carico a Fratelli d’Italia, che si dichiara “Professore ordinario di discipline giuridiche” (ma non di diritto tributario, in quanto, presumibilmente, nella sua area politica essere esperti di tasse non passa per un titolo di merito).

Al secondo posto come professione presente nel Parlamento italiano vi è quella dell’imprenditore, che conta 40 rappresentanti alla Camera e 25 al Senato. Ma l’unico nome riconoscibile immediatamente come tale è Silvio Berlusconi, sebbene ormai la sua lunga carriera politica abbia quasi messo in ombra quella aziendale, almeno in termini di durata. Non è comunque molto chiaro che tipo di beni o servizi questi imprenditori producano, e questa sarebbe stata un’informazione interessante, anche per capire quali interessi potrebbero guidare le politiche pubbliche.

Al terzo posto come numerosità vi sono i dirigenti, che alla Camera sono 21, esattamente come al Senato. Va detto però che il motore di ricerca della Camera e del Senato non è molto preciso, per cui risulta come dirigente anche chi ha un master in management. C’è da chiedersi quanti di loro siano effettivamente iscritti a Federmanager. Il sospetto è che siano molto pochi.

Un’altra qualifica professionale relativamente inflazionata, ma poco chiara nei suoi reali contenuti, è quella di consulente. Risultano 20 consulenti alla Camera e 19 al Senato. In cosa siano esperti è raro capirlo.

Ma che professione dichiarano invece i leader politici? In effetti la curiosità è legittima.

Cominciando dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, va subito detto che non si hanno indicazioni di alcuna esperienza professionale, né di titolo di studio (ma è in buona compagnia, essendo in 83 alla Camera a non dichiarare alcuna professione, e in alcuni casi, neppure il livello di istruzione).

Se invece la professione di Berlusconi è ben nota, quella di Matteo Salvini, è meno scontata, visto che si dichiara giornalista. Anche sul fronte dell’opposizione non mancano i misteri sul piano professionale. Se la scheda di Enrico Letta si limita ad indicare il ruolo di direttore di azienda privata (senza specificare quale, nell’ipotesi che non faccia riferimento al Pd), quella di Matteo Renzi (Italia viva) ricorda che pure lui è un dirigente d’azienda (ancora una volta però senza chiarimenti su quale sia l’impresa che viene diretta). Il suo collega di cordata Carlo Calenda (Azione), per non sbagliare, indica tre professioni, ossia quella di amministratore, dirigente e diplomatico (quest’ultima, probabilmente, la meno praticata, vista la sua condotta in occasione dell’ultima elezione).

È invece nota la professione di Giuseppe Conte, leader di M5S, che è l’unico avvocato tra i leader di partito.

«In cinquant’anni la professione di avvocato è completamente cambiata». Mauro Antonio Finiguerra ha ricevuto dal Coa di Potenza la Toga d'Oro. Dal 1986 al 1994 è stato amministratore delegato del Foggia calcio di Zeman. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 31 ottobre 2022.

Mauro Antonio Finiguerra, già appartenente al Foro di Melfi, soppresso nel 2013, ha ricevuto pochi giorni fa dal Coa di Potenza la Toga d’oro. Con lui altri quattro avvocati che svolgono la professione forense da cinquant’anni. Si tratta di Francesco Matteo Pugliese, Lorenzo Mazzeo, Nicola Edoardo Perri, Alfonso Salvatore e Giuseppe Spirito.

Da mezzo a secolo a questa parte la professione è radicalmente cambiata e volgere lo sguardo al passato non è affatto un’operazione nostalgica. «Quando ho cominciato la pratica nello studio di mio padre Attanasio – dice al Dubbio l’avvocato Finiguerra -, mi veniva raccomandato di controllare e spillare le “veline” degli atti da depositare in Cancelleria e da scambiare con le controparti. Ora basta spingere il tasto ‘invio’ e in una frazione di secondo è tutto finito. All’epoca, poi, sfogliavo per ore le riviste e i repertori per fare le ricerche. Adesso si usa il motore di ricerca e in pochi minuti quello che serve è a portata di mano, senza il piacere di aver scavato tra i riferimenti sacrificando il gusto dell’intuito giuridico. È cambiato tutto non solo sul piano degli strumenti, ma, purtroppo, anche sul piano dei comportamenti nei rapporti tra tutte le componenti, avvocati, magistrati, collaboratori, clienti, del mondo giustizia in quanto sono diventati sempre più conflittuali, con punte di insofferenza sempre più insostenibile».

L’avvocato Finiguerra ha ricoperto dal 1986 al 1994 la carica di Amministratore delegato del Foggia Calcio. Un’esperienza professionale ed umana esaltante, se si pensa alla scalata dei “Satanelli” dalla Serie C alla Serie A. Erano i tempi di Zeman in panchina, di “Zemanlandia”, termine finito pure nella Treccani, e del trio delle meraviglie Rambaudi-Baiano-Signori. Finiguerra è stato, inoltre, consigliere della Lega nazionale professionisti di Serie C. «La mia attività professionale – ricorda l’avvocato originario di Lavello -, dopo l’iscrizione nel marzo 1971 nel Registro dei Praticanti del Tribunale di Melfi, ha subito una svolta qualche mese dopo, allorquando a mio padre fu diagnosticata una grave malattia che in pochi mesi lo portò via e io mi trovai a mettere le mani nei fascicoli che erano pieni dei suoi appunti. Molte volte non li riuscivo a comprendere. In quel momento ho scoperto la più grande eredità che mio padre mi aveva lasciato: la rete di amici e di colleghi che gli volevano bene e lo stimavano».

«Grazie a tale eredità, riuscii a superare le difficoltà del momento godendo dei consigli, nel civile, di Carlo Russo Frattasi, e, nel penale, di Achille Iannarelli e di Aldo Morlino. Di cause civili o di processi penali, vinti o persi, ce ne sono stati tanti. Il ricordo professionale più entusiasmante, però, anche per le conseguenze pubbliche che ha avuto, è legato a un processo davanti alla Giustizia sportiva nel quale nel 1986 difendevo, con Vincenzo Siniscalchi, la società Foggia Calcio, deferita perché coinvolta nel “Calcio scommesse”, noto come “Totonero bis”, salvandola, dopo una settimana di udienze avanti la Caf, riunita nell’Hotel Hilton di Roma, dalla retrocessione nella serie inferiore. L’emozione di sentire il presidente Vigorita leggere il dispositivo è indimenticabile». Negli anni l’approccio tra colleghi e magistrati ha subito mutamenti. «Il rapporto tra avvocatura e magistratura – commenta Finiguerra – è profondamente cambiato ed è sempre più conflittuale, ma ciò sembra quasi dovere essere una conseguenza naturale dei ruoli ricoperti. Mi auguro che nei rapporti tra i colleghi rimanga fermo il principio che, nelle contrapposte posizioni processuali, non ci sono avversari, ma solo leali contraddittori».

Chi, nel corso degli anni, ha avuto modo di conoscere nel Tribunale di Melfi o in quello di Potenza l’avvocato Finiguerra ha potuto constatare la sua costante attenzione – per non dire predilezione – per i praticanti e per i giovani legali, impegnati in un lavoro che richiede tanta abnegazione. L’atteggiamento del maestro attento e premuroso. Un tuffo nel passato, ai tempi del Foro di Melfi e senza dimenticare le scellerate scelte di quasi dieci anni fa, quando vennero chiusi gli uffici giudiziari della città federiciana. «Quello della soppressione del Tribunale di Melfi – conclude Finiguerra – è stato il momento peggiore e più triste della mia vita professionale. Una riforma fatta, prima, sulla carta, senza tenere conto della storia e della tradizione, qualcuno aveva dimenticato le “Constitutiones” federiciane, ma anche della realtà di una delle maggiori zone industriali del nostro paese e della sua collocazione geografica ai confini con territori, diciamo così, vivaci. Poi, condizionata dai poteri politici dei quali il Vulture-Melfese era, ed è, purtroppo privo, e da strane alleanze trasversali che conseguirono il risultato di capovolgere il brocardo che !il più contiene sempre il meno!, accorpando il Tribunale di Sala Consilina, in Campania, a quello di Lagonegro, in Basilicata». Scelte che non hanno precedenti nella storia della giustizia italiana.

 Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:

- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.

«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».

- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?

«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».

- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?

«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».

-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?

«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».

-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?

«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.

Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:

Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);

Durante le prove (copiature e dettature);

Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);

Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).

Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».

- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?

«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».

- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.

«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato. Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».

«Denegata giustizia e incertezza economica: ecco perché si abbandona la toga». Parla Stefano Tentori Montalto, presidente del Coa di Perugia: «La professione di avvocato ha indubbiamente perso parte del suo appeal: lo dimostrano i rapporti sull’avvocatura». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 2 settembre 2022.

«La professione di avvocato che, come ricordo sempre ai colleghi neo iscritti in occasione del loro giuramento prestato davanti al Consiglio dell’Ordine, resta in assoluto una delle professioni più affascinanti e complesse negli ultimi anni, ha indubbiamente perso parte del suo appeal. D’altro canto lo dimostrano i recenti rapporti sull’avvocatura a cura della Cassa forense in collaborazione con il Censis». Stefano Tentori Montalto, presidente del Coa di Perugia, riflette prima di ogni cosa sul presente della professione, dedicando un pensiero a chi si appresta ad indossare la toga e a chi vorrebbe intraprendere un preciso percorso professionale.

«Il dato – dice al Dubbio – è tangibile da tempo anche solo constatando il forte decremento del numero di studenti universitari iscritti al Dipartimento di Giurisprudenza. Il mio dato di riferimento è rappresentato dall’Università degli Studi di Perugia, e, conseguentemente, dal numero dei giovani praticanti presenti nei nostri studi legali». In futuro, dunque, sempre meno toghe? «Il trend attuale – secondo il presidente del Coa di Perugia – sembra andare in questo senso, ma per la professione di avvocato in sé e per sé non mi pare rappresenti un problema preoccupante, anzi. Il problema potrà essere semmai in futuro in termini di sostenibilità del nostro attuale sistema previdenziale. Negli anni, del resto, si è sempre lamentato da più parti il numero eccessivo di avvocati anche come causa del mal funzionamento della giustizia. Negli ultimi venticinque anni il numero di avvocati iscritti all’Ordine di Perugia si è triplicato: dai 700 circa del 1994 si è arrivati ad oltre 2220. Oggi, dopo le recenti cancellazioni, siamo 2159. L’incidenza del decremento negli ultimi due anni al momento si assesta intorno al 3% circa anche se è plausibile prevedere un’ulteriore “fuga” dalla professione, sempre che di “fuga” si possa parlare per le percentuali riferite».

Sarebbe un errore grave dimenticare il legame inscindibile tra professione forense e sistema giudiziario. «La situazione attuale – chiosa Tentori Montalto – ha radici più antiche ed è dovuta ad una serie di fattori concorrenti, tra cui, a mio avviso, primeggia senz’altro, la cronica inefficienza della nostra giustizia. Un sistema giudiziario efficiente, infatti, sarebbe fondamentale per la ripresa della sua stessa credibilità ed un volano essenziale per una maggior attrattività e, indirettamente, credibilità per la nostra professione. Devo dire che fare l’avvocato oggi non è più difficile di prima, anzi, al di là delle difficoltà iniziali per tutti noi di acquisire competenze informatiche ai più sconosciute fino a qualche anno fa, per certi versi è pure più facilitato, almeno da un punto di vista organizzativo, dopo l’introduzione del processo telematico, delle notifiche via pec e quant’altro introdotto di recente. La nostra professione si è posta al passo con i tempi ed è attualmente molto più dinamica ed efficiente di quando ho iniziato io, ormai poco meno di trent’anni fa. Purtroppo, sono i lunghi tempi della giustizia, sicuramente inconcepibili per il comune cittadino, ma intollerabili anche per noi che siamo una componente essenziale del sistema, a vanificare molti degli sforzi profusi dall’avvocatura. È palesemente inutile avere scadenze perentorie per il deposito degli atti difensivi se poi l’udienza successiva viene fissata “per esigenze organizzative del tribunale” a distanza di uno o anche più anni dalla stessa scadenza. Questa diventa denegata giustizia, anche quando si vincono le cause, e da questo punto di vista è senz’altro diventato più difficile “fare l’avvocato oggi”. A ciò si aggiungano, poi, rispetto al passato, i costi sempre più ingenti per lo svolgimento della professione che rappresentano spesso e volentieri un forte deterrente per i giovani colleghi».

Il viaggio nell’avvocatura italiana intrapreso oltre un anno fa dal nostro giornale ha più volte rilevato una situazione comune a tutti i Coa. Tanto avvocati vincitori di concorso abbandonano la professione forense. Anche a Perugia è avvenuta la stessa cosa. «Negli ultimi mesi – afferma il presidente del Coa – diverse decine di colleghi, una sessantina circa, si sono cancellati dall’Ordine degli Avvocati di Perugia in quanto vincitori di concorsi pubblici banditi prevalentemente dal ministero della Giustizia, essendo divenuti direttori di Cancelleria o Cancellieri esperti, oppure sono stati sospesi obbligatoriamente per legge per essere stati assunti a tempo determinato nel progetto Cartabia per l’Ufficio per il processo. Esaminando i nominativi degli ex colleghi, si deve constatare come sia assolutamente prevalente la componente di genere femminile e come anche avvocati ed avvocate iscritti all’Ordine da molti anni e, quindi, non più alle prime armi, abbiano effettuato questa scelta di vita, per alcuni sicuramente dolorosa come mi è stato personalmente confidato. Le ragioni a base di simile scelta di vita sono state varie e tutte valide».

Una scelta per approdare ad un lavoro con più certezze. «La componente della sicurezza e della stabilità economica – conclude Tentori Montalto – data dall’impiego pubblico ha rappresentato un elemento determinante, assieme al maggior tempo libero a propria disposizione».

Decoro del legale: l’obbligo vale sempre (come per i giudici). C’è una responsabilità sociale che non va mai tradita: principio analogo a quello che impone limiti ai magistrati sui social. E che rafforza l’avvocato in Costituzione. Tiziana Roselli su Il Dubbio il 22 agosto 2022.

In materia disciplinare la condotta dell’avvocato anche se non notoria e non riguardante l’esercizio della professione assume valenza deontologica. La responsabilità disciplinare degli avvocati abbraccia tutte le azioni che ledono i doveri di probità, dignità e decoro, pregiudicando l’immagine della classe forense e la sua credibilità. La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti, poiché in ogni caso l’immagine dell’avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto. Questo è quanto ha stabilito il Consiglio nazionale forense con la sentenza n. 56 del 13 maggio 2022.

Nel caso esaminato, un avvocato viene accusato di truffa a danno di una società: si apre un procedimento penale che si conclude con un patteggiamento cui fa seguito il procedimento disciplinare, che porta all’irrogazione della sospensione dall’esercizio dell’attività per un periodo di un anno e sei mesi. Nel caso specifico, l’avvocato viene condannato per il delitto di truffa aggravata e subisce un procedimento disciplinare per avere distratto beni e somme di denaro ad una società alla quale era legato da un contratto come collaboratore a progetto. Il procedimento disciplinare fa seguito all’esposto della società in questione, che aveva presentato contro l’avvocato due denunce da cui erano derivati due diversi procedimenti penali.

In uno di essi, l’avvocato era stato condannato a un anno di reclusione e 400 euro di multa con sospensione condizionale della pena, mentre nell’altro era stato assolto dall’imputazione perché il fatto non sussiste. L’avvocato soggetto a sospensione impugna la decisione del Consiglio distrettuale di Disciplina sostenendo, tra le varie censure, come la sua condotta non rientri nell’esercizio della professione e, quindi, non possa essere sanzionata, visto che il suo rapporto con la società esponente non era di tipo procuratorio, ma si trattava di una collaborazione a progetto. Il Consiglio distrettuale di Disciplina, all’esito dell’attività istruttoria e della documentazione acquisita, accerta la responsabilità disciplinare dell’avvocato e commina la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per un anno.

Dunque, con la decisione del 13 maggio 2022, n. 56, il Consiglio nazionale forense torna su un argomento già oggetto di discussione, ribadendo un concetto su cui si era già espresso in passato, ossia che la vita privata del professionista può avere potenzialmente rilevanza deontologica. Infatti, l’avvocato incorre in responsabilità disciplinare non solo per le condotte inerenti alla propria professione ma, appunto, per tutte le azioni che ledono i doveri di probità, dignità e decoro nella vita sociale, recando pregiudizio all’immagine della classe forense e alla sua credibilità.

Nel caso specifico è corretto che un avvocato intrattenga rapporti con soggetti che esulino dalla sfera strettamente professionale, ma non può ignorare che le persone potrebbero fare affidamento su di lui per il fatto che “incarna la professione legale”.

Letto in controluce, il principio sembra anche corroborare l’aspirazione al riconoscimento costituzionale del ruolo dell’avvocato. Il quale di fatto esercita una professione di rilievo costituzionale, e per questo l’articolo 9 comma 2 del Codice deontologico forense, nella sua ultima versione prevede che «anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense».

I limiti nella vita privata non riguardano solo gli avvocati. Tra le categorie che necessitano di regole deontologiche chiare e mirate, ha sicuramente un’importanza strategica, per il rilievo e l’impatto che ha sull’opinione pubblica e sulla vita della collettività, quella dei magistrati. Dunque una deontologia comune tra avvocati e magistrati, una responsabilità che esonda la cornice strettamente tecnico- professionale proprio per la rilevanza del ruolo rivestito da entrambi i protagonisti del processo. È nota la raccomandazione della Cassazione ai magistrati di limitare l’uso dei social e di evitare l’adesione a gruppi o pagine connotati politicamente. A riguardo non esiste una vera e propria disciplina giuridica ma rientra nelle casistiche contemplate dalle norme deontologiche anche se non espressamente previste.

La vera novità della suddetta raccomandazione riguarda l’inclusione del concetto di vita privata: “Si raccomanda la riservatezza”, e si sottolinea il rischio di ledere la credibilità complessiva della magistratura anche con partecipazioni a gruppi o follow che abbiano rilevanza politica. Dunque i limiti alle toghe (sia magistrati che avvocati) non riguardano solo la sfera professionale ma anche i comportamenti che si assumono nella vita privata potendo ledere l’immagine dell’Ordine che rappresentano.

Diritti: nel 1883 a Torino il primo sì a una donna avvocato. ANSA il 9 agosto 2022.

Il 9 agosto di 139 anni fa a Torino per la prima volta una donna fu ammessa all'esercizio della professione di avvocato: il consiglio dell'ordine approvò la richiesta di iscrizione di Lidia Poet, 28 anni, originaria della Val Germanasca, laureata in giurisprudenza dal 1881 con una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne.

Fu un passo importante ma non una vittoria definitiva perché la procura generale dell'allora Regno d'Italia impugnò la decisione dell'ordine e ne ottenne la cancellazione dalla Corte d'appello subalpina: uno degli argomenti era che la legge del 1874 sull'Avvocatura non parlava mai di 'avvocato' al femminile. La Poet collaborò regolarmente nel Foro con il fratello, Enrico, specializzandosi nella difesa dei diritti dei minori e delle donne, ma l'ingresso formale nell'Ordine arrivò solo nel 1920 dopo l'approvazione della legge Sacchi. La delibera torinese del 1883 fu presa dopo una discussione serrata. Nelle ricostruzioni storiche si afferma che fra i pareri contrari vi fu quello di un consigliere (nonché deputato) secondo il quale "nessuna legge ha mai pensato di distogliere la donna dalle ordinarie occupazioni domestiche che loro sono proprie"; dopo il 'via libera' provvisorio alla Poet, si dimise dal Consiglio insieme a un altro collega che si era opposto. (ANSA).

L’algoritmo della giustizia. Così l’intelligenza artificiale conquisterà il mondo del diritto. Fulvio Gianaria, Alberto Mittone su L'Inkiesta il 10 Agosto 2022

La professione dell‘avvocato sta cambiando, soprattutto a causa delle nuove tecnologie digitali. Ci attende una rivoluzione? Fulvio Gianaria e Alberto Mittone provano a rispondere a questi e altri quesiti ne “L‘avvocato nel futuro”, edito da Einaudi

Sospeso tra sogno e incubo, il diritto tecnologico, cioè il «tecnodiritto», si profila all’orizzonte del nostro destino accompagnato dagli algoritmi entrati ormai con forza invadente nella nostra vita. Siamo avvolti nell’«infosfera» descritta dal filosofo Floridi, inseriti in una nuova esistenza in cui la vita trascorre in perenne connessione, incuneati in un’ecologia nuova impregnata da macchine che imparano da sole.

Nel campo del computer la rivoluzione è permanente e assistiamo a una trasformazione senza ritorno, mentre altrove, nei costumi, nei rapporti sociali, nelle regole di condotta, quasi sempre alle rivoluzioni succedono le restaurazioni.

In tale quadro non stupisce che il mondo del diritto parli di Ia, e ne parlerà sempre di più. In effetti anche la giustizia subisce lo «choc della modernità», quel fenomeno ciclico che si verifica quando le innovazioni scientifiche travolgono gli schemi consolidati, incidendo soprattutto sulle variabili classiche dello spazio e del tempo. Oggi come ieri il settore è tallonato dalle tecnologie, ed è in affanno per l’invasione di strumenti tecnici fino a poco tempo prima inconcepibili.

L’«azienda giustizia», cioè quell’apparato statale che bilancia gli interessi nel civile, previene controlla protegge e punisce nel penale, verifica la possibilità e le modalità di utilizzo della tecnologia nelle sue varie articolazioni, e l’Ia è una tra queste. Anche la giustizia si collocherà a pieno titolo all’interno della «società algoritmica» che coinvolge soluzioni tecnologiche tra loro molto differenziate, alcune intuibili, altre ancora indefinite ma già anticipate dalla letteratura e soprattutto da quel serbatoio inesauribile di costruzioni narrative che è la fantascienza.

Philip Dick ne è stato un profeta e la sua intuizione dirompente è stata quella di assegnare alla tecnologia un ruolo decisivo di controllo del territorio e delle persone, e di queste ultime i dati soggettivi “sensibili” e i comportamenti esteriori. Accade così nel racconto Minority Report del 1956, assurto alla notorietà collettiva nel 2002, con la trasposizione cinematografica di Steven Spielberg. Nell’America del 2054 opera l’Agenzia Precrimine, che utilizza le capacità extrasensoriali di tre mutanti per prevedere chi e quando commetterà un crimine. I tre esseri deformi trascorrono la vita rinchiusi in un sotterraneo, collegati a macchine che ne decodificano le visioni-profezie, sulla base delle quali le persone vengono arrestate senza alcun processo.

Può verificarsi che compaiano “universi paralleli”, che le profezie non coincidano tra loro e in questo caso quella divergente dà origine al rapporto di minoranza. I risultati ottenuti dalla Precrimine sono strabilianti: i crimini si riducono di circa il 99,8 percento anche perché, nel generale clima di paura, nessuno osa nemmeno pensare a commettere un reato.

Il capo dell’Agenzia, Anderton, rischia di essere stritolato dalla sua stessa struttura, manipolata da avversari politici. Finirà in esilio, e da lontano ammonirà sulle possibili falle del sistema e sulla possibilità che la manomissione possa ripetersi.

Il quadro generale è chiaro: per ovviare alla paranoia della sicurezza non si va per il sottile e occorre servirsi della tecnologia a disposizione. Il nemico può essere chiunque e trovarsi ovunque, la paura moltiplica le persone da temere e solo la punizione può consentire risposte incisive. Nel racconto la giurisdizione si eclissa, l’avvocato scompare, superfluo in quanto il processo è una macchina che di umano non ha nulla, dovendo colpire senza incertezze ma anche senza garanzie.

Alle società disciplinari del XVIII e XIX secolo, caratterizzate dai luoghi di reclusione, subentrano le più fluide società di controllo, dove gli individui sono ridotti a numeri, dove il sorvegliante e il sorvegliato non esistono più come entità perché sorvegliare diventa calcolare, vedere sotto e dentro (sous-veillance).

Con la tecnologia estremizzata la sorveglianza dilaga e capta le intenzioni delle persone in modo da intervenire drasticamente. Del resto la geometria penale intuita da Dick è risultata meno fantasiosa del previsto di fronte ad alcune normative statunitensi nella lotta al terrorismo internazionale. Il riferimento scontato è al Patriot Act del 2001, l’ordine militare presidenziale cui sono seguite discipline specifiche e istruzioni ministeriali. I processi sono segreti, l’intento è trasformare gli accusati, quali «nemici combattenti», in strumenti informativi nella lotta al terrorismo. Di qui l’irrilevanza di accertare la fondatezza o meno dei fatti contestati. Molti articoli sono stati aboliti dalla Corte suprema, ma, a dispetto di ogni programma elettorale, sono rimasti in vigore i 14 permanenti.

Anche la letteratura distopica ha dato un contributo, seppur blando, al settore giudiziario. I pochi che se ne sono occupati sono per lo piú noti in altri settori, qui divenuti amateurs forse per capriccio, forse per desiderio, forse per divertimento, forse per fascinazione verso temi ineludibili quali il male che opprime la società, la necessità di reagire e come farlo.

Uno di questi, sprofondato oggi nell’ombra, è stato Giovanni Papini con Il libro nero del 1951, un diario che vuole descrivere le tendenze più sconcertanti di un futuro dominato dalla scienza, per lui malevola. In particolare il prodotto è la macchina «dominatrice e liberatrice», costruita anche per i bisogni della giustizia e dunque per la decisione nel processo.

Si tratta del Tribunale elettronico, apparecchio con una facciata di sette metri, montato su una parete in fondo all’aula. Giudici, avvocati e cancellieri non occupano i posti consueti, ma siedono tra il pubblico. Sono semplici spettatori perché la macchina non ha bisogno di loro, essendo eccezionalmente sicura e infallibile. L’enorme cervello si serve soltanto di un giovane meccanico che conosce i segreti delle cellule fotoelettriche e dei pulsanti di comando che forniranno la risposta processuale. Unico ricordo del passato è una bilancia di bronzo che sormonta il metallico cervello giuridico.

In queste pagine si anticipa un futuro rivoluzionario nel mondo del diritto, su cui altri ritorneranno, quello del «giudice robot», per usare il termine coniato nel 1920 da Karel Čapek in R.U.R.: non a caso è del 2019 la pubblicazione di una raccolta di saggi intitolata Decisione robotica.

E allora proviamo ad avanzare qualche riflessione sul nuovo volto della modernità giudiziaria di fronte agli algoritmi, e sulle sfide che attendono gli attori sulla scena, tra questi gli avvocati.

Colpa della crisi del ruolo e del sistema giustizia. Da Gianni Agnelli a Silvio Berlusconi: il declino della professione di avvocato. Gennaro De Falco su Il Riformista il 9 Agosto 2022 

Molti dicono che il vero Re d’Italia fosse Gianni Agnelli. Gianni Agnelli era elegantissimo, ricchissimo, aveva rapporti con tutto il jet set del pianeta come forse mai nessun italiano ha mai avuto prima e dopo di lui, la sua famiglia era di origini aristocratiche e molto probabilmente avrebbe potuto legittimamente fregiarsi di un titolo nobiliare, fu senatore a vita ma per tutti era sempre e comunque «l’avvocato». Le cronache raccontano che abbia faticato non poco per laurearsi e, per la verità, non so se abbia mai sostenuto l’esame di abilitazione, ma un fatto è certo, anche per uno come lui, nobile ed incredibilmente ricco e potente, il vero titolo, quello con cui tutti lo definivano e si faceva chiamare, era «l’avvocato».

Dopo di lui un’altra persona ha dominato ed in parte domina tuttora la vita imprenditoriale e politica di questo paese, ed è Silvio Berlusconi, è anche lui laureato in giurisprudenza con il massimo dei voti ma non lo chiamano avvocato, mai nessuno lo ha fatto, tutti lo chiamano sempre e soltanto «il Cavaliere». Come mai due persone separate da soli quindici anni, che avevano fatto gli stessi studi, si presentavano in maniera tanto diversa? Come mai nessuno ha mai chiamato anche Berlusconi avvocato? A ben vedere potrebbe sembrare un particolare di assai scarso rilievo ma, secondo me, così non è. Ed infatti solo pochi anni prima il titolo di avvocato era ambitissimo tanto che anche una persona come Gianni Agnelli lo ha utilizzato per tutta la vita mentre Silvio Berlusconi, nato solo quindici anni dopo, non ne ha mai fatto uso. In effetti tutto ciò è sintomo di un rivolgimento sociale profondissimo che ha attraversato ed attraversa il nostro Paese. In passato tutti coloro che avevano conseguito la laurea in Giurisprudenza, anche se non avevano mai esercitato la professione forense, usavano il titolo di avvocato come se fosse un vero e proprio titolo nobiliare; ora, come è avvenuto per i titoli nobiliari, quasi lo nascondono.

In passato la massima parte dei vertici dello Stato erano avvocati, il primo Presidente della Repubblica italiana era un avvocato mentre oggi non è più così. In altri termini, assetti e valori della nostra società in pochissimo tempo sono mutati profondamente relegando, piaccia o non piaccia, l’avvocatura in condizioni di sempre maggior marginalità. Io ritengo che le ragioni di questa crisi di immagine e di ruolo abbiano una precisa origine politica ed infatti la politica, che non aveva assolutamente chiara la situazione reale del Paese, ad un certo punto ha deciso che l’avvocatura rappresentasse un costo inutile. Nello stesso tempo la politica forense, per i suoi giochi di potere interni, soprattutto al Sud, ha aumentato a dismisura gli albi svalutando completamente la figura e la preparazione degli iscritti e quindi del servizio che essi potevano rendere. Si è ritenuto e si ritiene che la prestazione professionale equivalesse ad un viaggio in taxi o al costo di una telefonata, e che l’unico elemento da considerare fosse il suo prezzo, senza contare che un’esasperata concorrenza sui prezzi non poteva non portare ad un radicale scadimento della qualità dei servizi resi alla collettività e, quindi, alla minore tutela dei diritti. E questo si vede quotidianamente sia in ambito civile che penale. Nello stesso tempo si sta verificando in tutta Italia una vera e propria fuga dall’avvocatura verso qualunque tipo di occupazione che possa produrre un ancor minimo reddito. Ed in effetti i numeri diffusi di recente da Cassa forense sui redditi degli avvocati e sulla fuga dalla professione sono assolutamente desolanti, e questo soprattutto al Sud. Si dice: sì, ma questi dati sui redditi non sono reali, c’è l’evasione fiscale, non è possibile che gli avvocati guadagnino così poco. Ebbene io credo che purtroppo questi dati, soprattutto per la fascia sino ai sessant’anni di età che precede l’esplosione numerica dell’Albo, siano assolutamente reali.

E quindi vediamo l’enorme numero di avvocati che partecipano ad ogni tipo di concorso e che si dedicano, o provano a dedicarsi, ad attività notoriamente assai poco retribuite e radicalmente demansionati quali l’insegnate di sostegno. Esistono delle applicazioni in cui i servizi legali vengono appaltati in tutta Italia a somme molto inferiori a quelle che non è possibile pagare per legge ai raccoglitori di ortaggi nelle campagne e, mentre per queste categorie giustamente vi sono salari minimi, tutto ciò per gli avvocati non esiste e addirittura ci sono pubbliche amministrazioni che pretendono di richiedere servizi legali gratuiti mentre studi prestigiosi riducono sempre più i collaboratori e gli spazi ed altri preferiscono lasciarli inutilizzati. E così il mercato, con la fuga dall’avvocatura e dalle facoltà di Giurisprudenza, sta tardivamente e dolorosamente ripristinando gli equilibri che la politica aveva sconvolto a prezzo della vita e dei sogni di tanti giovani e delle loro famiglie oltre che del calo della qualità di un servizio che, piaccia o non piaccia, in una società che si dice libera o liberale resta comunque essenziale. Il tutto senza contare che un’avvocatura debole ed impreparata perché priva di mezzi non è, né può essere, in grado di riequilibrare i poteri dello Stato fra loro e quindi vediamo sia in ambito civile che penale prestazioni di livello e qualità modestissime in cui prevalgono sempre e comunque i più forti. Un altro aspetto della fuga dall’avvocatura è che oggi da essa, per la crisi di rappresentatività sociale che la colpisce, non fuggono solo i più giovani o i meno forti ma fuggono anche coloro che non vogliono accomunarsi in una condizione di marginalità sociale che addirittura talvolta ne compromette la rappresentatività ed il prestigio. È vero che ancora ci sono professionisti che offrono servizi di qualità ma lo fanno in perdita e solo per passione e se lo possono permettere solo perché hanno altre fonti di sussistenza, insomma non sono avvocati, fanno gli avvocati. Bisogna anche dire che questa situazione colpisce un po’ tutto il lavoro autonomo che opera al di fuori del mondo della sanità che ha saputo difendersi con politiche ragionevoli che ne regolano l’accesso ed infatti la sanità italiana è una delle migliori del mondo mentre invece altrettanto non può dirsi per la giustizia. Spero di esagerare e che qualcuno possa, non dico convincermi ma anche solo affermare che mi sbaglio ma purtroppo non credo che ciò sia possibile. Gennaro De Falco

Gli avvocati in fuga dalle Aule: un terzo pronto a cambiare lavoro. Viviana Lanza su Il Riformista il 4 Agosto 2022. 

A Napoli il prossimo concorsone annunciato dal Comune di Napoli con la prospettiva di inserire negli organici di Palazzo San Giacomo, nei prossimi tre anni, circa settemila figure professionali comporterà un’ulteriore fuga dalla professione per molti avvocati, giovani e meno giovani. Un primo esodo c’era stato già in occasione del concorso per l’ufficio del processo, per il prossimo autunno si prevede una nuova emorragia di professionisti, allettati più dal cosiddetto classico “posto fisso” che dalla libera professione all’interno dei Palazzi di Giustizia. Da tempo si lamenta una crisi, crisi che investe per la verità tutte le libere professioni, quindi non soltanto quella legale. La pandemia con la conseguente crisi economica ha avuto un grande peso sulla scelta di molti di rinunciare alle incertezze della toga, a ciò si aggiungano le difficoltà di lavorare in realtà giudiziarie, come quella di Napoli, dove il ritmo delle udienze, dopo lo stop di due anni fa, è ripreso molto lentamente e non è ancora del tutto a pieno regime.

Un recente studio del Censis ha cristallizzato in numeri e percentuali la crisi della professione forense. Si prevede un’ulteriore fuga di circa un terzo degli avvocati. Lo studio, rapporto 2022 sull’Avvocatura, ha evidenziato che la popolazione forense, dopo un lungo periodo di forte espansione numerica, ha subìto un arresto di recente, determinando addirittura un’inversione di tendenza nell’ultimo anno. Il dato 2021 degli iscritti a Cassa Forense è, a livello nazionale, di 241.830; di questi il 94,3% risulta attivo, mentre il restante 5,7% è rappresentato da pensionati contribuenti. Rispetto al 2020, si osserva una riduzione degli iscritti pari a 3.200 unità e una variazione negativa sull’anno dell’1,3%. Se rapportato alla popolazione italiana, il dato degli iscritti attivi è di 4,1 avvocati ogni mille abitanti. La distribuzione per genere vede una leggera prevalenza maschile con il 52,3% sul totale. In termini assoluti sono 126mila gli avvocati uomini e 115mila le donne. Sul piano geografico, si evidenzia il peso della componente meridionale sul totale degli iscritti: circa un terzo degli avvocati risiede al Nord, contro il 43,8% degli avvocati presenti nel Mezzogiorno e il 22,5% nelle regioni centrali. Dato, quest’ultimo, che porta a parlare di una sorta di “meridionalizzazione” della professione, praticamente 5,3 avvocati ogni mille abitanti. Quanto all’età, poco meno di sei avvocati su dieci ha un’età inferiore ai cinquant’anni, mentre gli over 60 coprono una quota di poco superiore al 15%. Il dato porta l’età media degli iscritti a 48,7 anni e quella degli iscritti attivi a 47,2 anni. L’età media dei pensionati contribuenti è di 73,7 anni.

Fuga dalla professione, dicevamo. Nel 2021 si sono registrate 8.707 cancellazioni dall’albo, il 68,8% delle quali (circa 6.000) relative a donne avvocato. Circa il 30% degli avvocati fa una valutazione negativa del futuro della professione, il 46,7% non prevede grossi cambiamenti e solo il 23,3% appare più ottimista. Per questo, il 32,8%, si dice pronto ad appendere la toga al chiodo. A spingere lontano dalle aule di Tribunale sono diversi fattori. La motivazione è prevalentemente legata ai costi eccessivi che l’attività comporta a fronte di un ridotto riscontro economico. Più nel dettaglio, per il 52,9% l’eccessivo numero di avvocati rende l’offerta di servizi legali di gran lunga superiore alla domanda; per il 35,8% la causa della fuga della professione è legata alla instabilità normativa ed eccessiva durata dei processi; per il 33,1% a un’eccessiva burocratizzazione; per il 25,2% all’apertura del mercato dei servizi legali a non avvocati; per il 9,8% al ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione; per il 7,9% all’invecchiamento dei professionisti e a un insufficiente ricambio generazionale ; per il 6,9% alla scarsa preparazione di chi esce dai corsi di Giurisprudenza; per il 5% a limitazioni delle competenze; circa il 6,6% ha dato motivazioni varie dalla scelta di dedicarsi alla famiglia a questioni più strettamente personali. Insomma, quale che sia la motivazione, un dato sembra essere certo: la professione di avvocato sta perdendo appeal…e iscritti.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

A che servono gli avvocati, ora ci pensa Alexa…Chi avrà bisogno di consulenza legale ora potrà farlo da casa consultando Alexa. Ma l'avvocatura insorge: Amazon svende la professione legale. La nascita del primo avvocato digitale è un attacco alla dignità della categoria forense". Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 2 agosto 2022.

Non bastavano le previsioni del tempo, l’oroscopo del giorno, la ricetta di un piatto tipico o la canzone preferita. D’ora in poi i possessori del dispositivo Amazon Echo potranno consultare Alexa e chiederle, dopo aver scaricato la skill “La legge per tutti”, anche informazioni giuridiche. L’inconfondibile voce femminile, che da diversi anni fa compagnia a milioni di persone, proporrà alcune categorie, come per esempio “diritti” o “famiglia”. Una volta scelta la categoria di interesse, sarà possibile, impartendo il comando vocale al quale il device è stato ammaestrato dai programmatori di Amazon, far leggere l’articolo in grado di soddisfare curiosità legali tra le più disparate. Si va dalle informazioni sullo stato di famiglia a quelle riguardanti il caso in cui un cane dovesse mordere una persona.

L’utente può ascoltare gli ultimi articoli in base alla categoria selezionata oppure interagire con Alexa, facendo direttamente alcune domande. L’approdo delle informazioni legali e della giurisprudenza su Amazon Echo, ma anche su Google Assistant, con l’utilizzo della tecnologia dell’internet delle cose e dell’intelligenza artificiale, è possibile grazie al portale “La legge per tutti”, fondato da Angelo Greco nel 2008. «La nostra ricerca tecnologica – commenta Greco sui suoi canali social -, per venire incontro alle necessità del cittadino, non si è mai interrotta. Anche silenziosamente, noi portiamo ogni giorno avanti numerosi progetti. Ed oggi possiamo dire, con soddisfazione, di aver tracciato un nuovo confine tra il presente e il passato, come mai era successo prima in ambito legale». Greco è convinto che grazie alla sua partnership con Amazon «sarà come avere al telefono un avvocato che vi dirà, in poche parole, se avete ragione o torto».

Ma è proprio questa trasformazione dell’attività forense in una voce trasmessa da una cassa audio, collocabile tanto in cucina quanto in camera da letto o in bagno, ad inquietare l’avvocatura. Il presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga), Francesco Perchinunno, è molto duro. «Amazon – afferma – mette in vendita, anzi svende, la professione legale. La nascita del primo avvocato digitale gratuito a portata di clic è un attacco alla dignità della categoria forense. Spero che ci sia un intervento immediato del governo e dell’antitrust per fermare questo scempio. Così si mette a rischio la tutela dei diritti dei cittadini che faranno affidamento su pareri privi di garanzia».

L’avvocato Perchinunno chiede interventi mirati. «Dalle notizie diffuse – prosegue – abbiamo conferma di quanto sia urgente intervenire sulle professioni, a partire dalla legge sull’equo compenso per la quale auspichiamo che la capigruppo del Senato inserisca il ddl tra gli affari correnti. La tecnologia deve essere un ausilio ai professionisti, ma non potrà mai sostituirsi all’avvocato. I software di intelligenza artificiale, applicati alla giustizia e alla professione forense, se non regolati possono rappresentare un grave rischio per la tutela dei diritti dei cittadini e delle imprese. Non c’è nessuna garanzia che i software di intelligenza artificiale possano dare risposte corrette ad alcuni pareri. Inoltre, di fondamentale importanza è il tema della gratuità che violerebbe i principi basilari di concorrenza rispetto all’attività di un legale. Per questo motivo Aiga proporrà al prossimo Congresso nazionale forense una mozione che impegni le istituzioni forensi a puntare molto sulla riserva di competenza in materia stragiudiziale che la nostra legge professionale allo stato non prevede».

Carla Secchieri, consigliera del Cnf e vicepresidente del Comitato IT del Ccbe, invita alla prudenza anche se la collaborazione tra Amazon e “La legge per tutti” cavalca «le paure di chi teme che l’algoritmo sostituirà la professione dell’avvocato». «Da quanto si apprende – dice Secchieri – il cittadino e, purtroppo, talora anche alcuni avvocati, anziché sedersi davanti a un computer per effettuare una ricerca e navigando tra le varie opzioni proposte, utilizzando un assistente vocale otterranno una risposta verbale e quindi neppure stampabile preconfezionata, decisa dai redattori del portale. Aldilà dei mezzi utilizzati, vale a dire l’assistente vocale uguale a internet delle cose e riconoscimento vocale uguale a strumento di intelligenza artificiale, sinceramente non vedo come questo servizio possa essere definito come la rivoluzionaria “nascita dell’avvocato digitale”». Il servizio offerto dal portale di Greco, evidenzia l’avvocata Secchieri, «è solo una versione più moderna del libro “L’avvocato nel cassetto”, presente in molte famiglie al pari del “Medico nel cassetto”». «Molto più sconcertante – riflette la consigliera del Cnf – è la prefazione di Michele Saponara, che si qualifica come “avvocato, già presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano e componente laico del Csm”, proprio nell’edizione 2017 de “L’avvocato nel cassetto”. Noi avvocati siamo abituati ad imbatterci in clienti informati da “Forum” o comunque che “hanno letto su internet”. L’importante è non qualificare il servizio come “avvocato digitale”. L’avvocato è tutt’altra cosa che un sunto e non sarà l’intelligenza artificiale a sostituirlo».

«Informazioni giuridiche su Alexa? Per i curiosi e i colleghi più pigri». Guido Camera, penalista del Foro di Milano: «Se ci si limita ad agevolare delle ricerche su leggi e sentenze, già oggi effettuabili collegandosi al web o a una banca dati dallo schermo del proprio computer, non ci vedo nulla di male». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 4 agosto 2022.

La notizia riguardante la possibilità di richiedere sui dispositivi Amazon Echo informazioni giuridiche e notizie legali non deve portare a semplificazioni e ad allarmismi. È quanto sostiene l’avvocato Guido Camera, presidente dell’associazione “ItaliaStatodiDiritto”, socio da vent’anni della Camera penale di Milano.

«Io credo – dice al Dubbio Guido Camera – che non si debba confondere il dibattito intorno all’avvocato digitale con altre forme di divulgazione della realtà giudiziaria, che possono far apprezzare la nostra funzione, soprattutto se provengono da avvocati che le “miserie forensi”, come diceva Calamandrei, le hanno realmente vissute sulla propria pelle. È il caso del libro “L’avvocato nel cassetto”, scritto da Gianni Calloni, che esercitò la professione forense per cinquant’anni anni a Milano. Un testo che non voleva certo sostituirsi all’avvocato, bensì si proponeva di valorizzarne il ruolo sociale. La prefazione, infatti, la scrissero due avvocati che hanno segnato la nostra storia: Michele Saponara, che ha insegnato la nostra professione a generazioni di avvocati con rigore e umanità, e Giuliano Pisapia, sempre impegnato sul fronte dei diritti».

Le ricerche giuridiche su Alexa sembrano più che altro una trovata commerciale. «Se – riflette Camera -, in questo modo, ci si limita ad agevolare delle ricerche su leggi e sentenze, già oggi effettuabili collegandosi al web o a una banca dati dallo schermo del proprio computer, non ci vedo nulla di male. Può essere un servizio destinato ai curiosi del mondo della legge, oppure agli avvocati più pigri. Personalmente non lo trovo né utile né affascinante, perché amo sviluppare i ragionamenti difensivi di carattere giuridico muovendo dalle sfumature, soprattutto umane, del caso concreto e dall’analisi delle norme, senza appiattirmi sulle massime delle sentenze più recenti. Massime che poi, neanche troppo di rado, sono per di più fuorvianti perché neanche rispecchiano correttamente la motivazione sviluppata per esteso dai giudici. Se però si inizia a parlare di “avvocato digitale”, le cose cambiano, e il mio giudizio diventa negativo».

A giocare un ruolo fondamentale, però, sono altri elementi. «In ogni causa – afferma il penalista -, sono la versatilità e l’umanità dell’avvocato le qualità che fanno la differenza per la difesa dei diritti. Non ce lo dobbiamo mai dimenticare, e dobbiamo ripeterlo sempre ai giovani che iniziano questa professione. Come si può pensare che una macchina possa avere l’empatia, l’esperienza e la pazienza che ciascun avvocato deve avere per consigliare al meglio il proprio assistito, difendere con la forza necessaria i suoi diritti in aula e relazionarsi con i magistrati?».

Secondo l’avvocato Camera, i timori di uno svilimento dell’attività degli avvocati «sono condivisibili, più che fondati». «È evidente – commenta – che, per chi ha studiato per anni la legge, e ogni giorno arricchisce la propria esperienza faticando, spesso non adeguatamente remunerato, nelle aule dei tribunali, sia avvilente che qualcuno possa pensare di sostituirlo, magari gratis, con un avvocato digitale. Ed è altrettanto chiaro che se passa nell’opinione pubblica il messaggio che si può fare a meno dell’avvocato “vero”, ci potrà sempre essere sempre qualcuno che davvero ci crede, alimentando sfiducia nei confronti della nostra professione. Che è invece uno dei cardini dello Stato di diritto. Sotto il profilo tecnico, credo però che possiamo essere tutti più sereni, perché l’avvocato “digitale” è chiaramente qualcosa di irrealizzabile. Prima di tutto perché non può certo andare in aula a difendere l’interessato, e nella nostra Costituzione vige l’obbligo della difesa tecnica e il divieto di autodifesa. E poi anche perché i suoi sostenitori incorrono in un grave errore di fondo, cioè che l’avvocato non è un oracolo, che, grazie alle sue doti profetiche, può prevedere l’esito della causa, sostituendosi di fatto anche al giudice, bensì un professionista che può garantire il massimo dell’impegno, ma non il verdetto. Quest’ultimo, come tutti sappiamo, è soggetto a numerose variabili imponderabili anche per un computer».

Un’ultima riflessione Guido Camera la effettua in merito al metodo di lavoro di ciascun legale. «Pensare – conclude – di risolvere il problema del nostro assistito solo inseguendo le ultime massime delle sentenze, lette magari distrattamente e senza il dovuto approccio critico, è la negazione dell’essenza della funzione difensiva. L’avvocato fonda il proprio valore aggiunto sulle capacità persuasive e intellettuali, che devono essere tali da poter fronteggiare anche i precedenti negativi. In questo percorso dobbiamo ricordarci che il nostro faro deve essere la legge, nel recupero di un principio di legalità, che, purtroppo, oggi sta soccombendo in favore della normazione di derivazione giurisprudenziale».

Avvocato senza lavoro si uccide in tribunale. Luca Fazzo il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

Si è ucciso nel tribunale che era stato il "suo" tribunale, nel palazzo di giustizia dove aveva mosso i primi passi da avvocato, dove aveva lavorato a lungo

Si è ucciso nel tribunale che era stato il «suo» tribunale, nel palazzo di giustizia dove aveva mosso i primi passi da avvocato, dove aveva lavorato a lungo: e dove era stato inghiottito dalle difficoltà economiche che in questi anni hanno colpito centinaia di suoi colleghi. L'elenco degli avvocati che vengono cancellati dall'Ordine professionale perché non riescono più neanche a pagare la tassa di iscrizione è sempre più lungo, e viene affisso nei corridoi del palazzo. M.P. era uno di loro. Aveva 49 anni. Non si era cercato, come molti, un altro mestiere. Anzi, per avere seguito una pratica dopo la sospensione era stato incriminato per esercizio abusivo della professione. Nei giorni scorsi lo avevano visto aggirarsi, provato e quasi confuso, nei corridoi del «suo» tribunale. Ieri è tornato. È salito al sesto piano, quasi il più alto, e si è buttato in un cortile interno, un passaggio quasi sempre affollato. Forse ha aspettato che non passasse nessuno e si è lanciato. «Ho sentito un colpo fortissimo», racconta una cancelliera che aveva attraversato il cortile pochi istanti prima. «Sono tornata indietro e c'era quest'uomo, atterrato di faccia, che non si muoveva già più».

In tasca, aveva una lettera d'addio alla moglie, da cui si stava separando, e ai figli. Una lettera lunga, in cui l'uomo raccontava la sua disperazione, la sensazione di non avere vie d'uscita: né dalla crisi né dal vizio del gioco di cui era prigioniero. Non è la prima volta, purtroppo, che qualcuno si uccide nel tribunale di Milano. Anni fa, un imputato non aveva retto allo choc della condanna, e si era buttato dalle scale. Nei mesi scorsi per evitare episodi analoghi e anche cadute accidentali (un giovane avvocato rimase paralizzato per essere caduto da una balaustra) tutti i parapetti sono stati rialzati con piastre di cristallo. Ma per un gesto come quello di M.P. non c'erano barriere possibili.

Le telecamere di sorveglianza lo mostrano entrare nei bagni del sesto piano. In quel momento la toilette era deserta. Nei primi minuti, dopo il volo di M.P., tutte le ipotesi si accavallano: delitto, suicidio, persino l'incidente sul lavoro perchè sul cortile si affacciano anche le impalcature del cantiere che sta ristrutturando un ufficio del tribunale andato a fuoco. Ma quando i carabinieri prelevano dalle tasche del morto il portafogli e la lettera, tutto diventa chiaro.

Basta premifici e show: la professione di avvocato è una cosa seria…Ci sono colleghi pluripremiati che non hanno mai scritto un ricorso in Cassazione né vi sono mai andati. Ecco la lettera-sfogo di un avvocato. su Il Dubbio il 18 maggio 2022.

Gentilissimo direttore,

la seguo da molto e sono felice che nel panorama dell’informazione ci sia un giornale come il suo che è contro il populismo giudiziario e la giustizia forcaiola e di piazza. Ma l’argomento che le voglio sottoporre e di altra natura. Mi riferisco alla selezione degli studi legali che avviene non per meriti, ma per meccanismi fraudolenti tirati su da società appositamente costituite che producono fatturati da capogiro.

Le manifestazioni sono:

1. Avvocato dell’anno;

2. primi cento avvocati d’Italia;

3. studi legali in classifica.

La mia mail è piena di inviti per “comprare” patacche. La professione tradizionale dell’avvocato è finita.

1. Oggi l’avvocato deve apparire, essere presente sul web, nei circuiti telematici, i social, per imprimere la sua immagine in modo che la conoscenza sia immediata al primo click sui motori di ricerca;

2. Apparire significa affidarsi a guru della pubblicità per promuovere la propria persona, come se si fosse un venditore di aspirapolveri;

3. Studiare, macerarsi sui libri non conta. Il premio farlocco ti metti in mostra, semplifica l’approccio con il cliente. Quelli che studiano ci arrivano in ritardo, dormono sulle carte;

4. Studi legali dell’anno non in base a sentenze vinte, a giurisprudenza innovativa prodotta, ma in ragione di segnalazioni telefoniche, di amici, parenti, segretarie e praticanti di studio. Come i cantanti a Sanremo;

5. Il legal deve scrivere libri, ove non si sostengono tesi, propri punti di vista, ma di fatto si copiano gli altri, senza citare fonti, dunque un libro scopiazzato, intriso di plagi, con sentenze riprodotte per intero, riempitive.

6. Ma avverti l’impreparazione quando parlano: semantica grossolana, lettura da gobbo, e struttura lessicale  si fa per dire) con intercalari. Ho sentito dire a master da professoresse del nulla anche ok, seguito da intercalari.

7. Suscitano ilarità quegli avvocati che non hanno nessuna menzione in riviste scientifiche e si atteggiano nell’ergersi a curatori che coordinano il lavoro altrui, come se fossero veri conoscitori della materia, ma senza aver partecipato a processi o aver ottenuto sentenze, semmai se ne appropriano. Ed il libro nasce con la stampigliatura sul frontespizio “ a cura di”. Ma a cura di che?

8. Il legal premiato deve avere un sito e mettere foto: essere visibile, fare show;

9. Costoro organizzano anche conferenze, webinar dove i poveri partecipanti accorrono, non perché interessati, ma per avere l’accredito, ai fini di squallidi crediti formativi, raccolti come i punti dei benzinai e centri commerciali. E pagano pure;

10. Convincono magistrati seri a partecipare a conferenze e dibattiti e si genuflettono come maggiordomi.

11. Miglior avvocato dell’anno, primi cento in Italia, studi in classifiche fraudolente. Ma ne conosco che non sanno scrivere o non hanno mai scritto un ricorso di Cassazione e non vi sono mai andati. Cacciate i mercanti dal Tempio.

Firmato avv. Biagio Riccio

Giulia Torlone per "il Venerdì di Repubblica"

Gli avvocati italiani non godono di ottima salute. Dopo 37 anni, per la prima volta, la professione forense si contrae e, tra entrate e uscite, scende di 3.200 unità rispetto all'anno precedente. A darci la fotografia esatta è il Censis che, nel rapporto annuale presentato in collaborazione con la Cassa Forense, mostra come l'avvocatura stia vivendo il suo periodo peggiore.

Nel 2021 sono stati ben ottomila i professionisti che hanno lasciato l'attività e di questi 6 mila sono donne. Più della metà degli iscritti alla cassa previdenziale di categoria, 140 mila dei 241.830, non raggiunge la soglia dei 30 mila euro di reddito annui e si attesta intorno ai 38 mila lo stipendio medio.

Troppi professionisti, sempre meno cause intentate e un'età media intorno ai 50 anni, sembrano essere alcuni dei problemi irrisolti. «Il numero alto di avvocati presenti in Italia è un tema avvertito da molto tempo», spiega Emanuele Rossi, prorettore all'orientamento e docente di diritto costituzionale alla Scuola Sant' Anna di Pisa. 

«È una professione che ha avuto il suo boom dopo Mani Pulite, crescendo poi nei primi anni del Duemila. Con il tempo c'è stata una leggera flessione, perché molti hanno preferito lavorare nelle amministrazioni locali o nelle aziende per avere un posto di lavoro più sicuro».

Un altro dato da menzionare, infatti, è quello degli ottomila avvocati che hanno lasciato la professione favoriti anche dalla riapertura, dopo anni, dei concorsi nella pubblica amministrazione. Esiste, poi, all'interno dell'avvocatura, un marcato gap di genere. 

La distanza fra il reddito medio di una avvocata e quello di un avvocato è tale che occorre sommare lo stipendio di due donne per sfiorare il livello medio percepito da un uomo: 23.576 euro contro i quasi 51 mila. «L'ingresso nella professione è stata favorita da un forte aumento delle facoltà di Giurisprudenza in ogni provincia.

Se da un lato ne abbiamo poche che hanno una vocazione propria, come l'Università di Trento che ha una specializzazione internazionale, la maggior parte ha un'impostazione classica degli studi e demanda al mercato e alla competizione l'affermazione del laureato nel mondo del lavoro» conclude Rossi. E il mercato appare talmente saturo che ben un terzo degli avvocati italiani si dice pronto a lasciare la professione.

Ma dietro la fuga dalla professione non ci sono solo motivi economici. Oltre alle difficoltà dei giovani, pesa la perdita di prestigio dei magistrati che penalizza anche la classe forense.  Antonella Frontini (PRESIDENTE UNAEP) su Il Dubbio l'11 maggio 2022.

La professione forense perde appeal non da oggi ed è riduttivo circoscrivere la “fuga dalla professione”, o l’intenzione di fuggire, al solo dato economico e al conseguente richiamo del concorso pubblico, oggi reperibile in grande quantità. Quali allora le cause dell’arretramento progressivo della professione forense fra le professioni d’eccellenza? E qui ce n’è per tutti. Dapprima fu l’introduzione delle facoltà a numero chiuso, lasciando a se stesse quelle a libero accesso, fra cui giurisprudenza: si è passati dalla scelta della facoltà, al “rimedio” per fare l’Università. Nello specifico, dal “sentirsi” avvocato (per scelta, dunque), al fare l’avvocato  per necessità). E qui si incontra il primo scoglio: fare l’avvocato non è un mestiere come un altro; è una missione, una passione e, se si è scelta questa professione, la si ama nella buona e nella cattiva sorte. Se la si subisce è come un parcheggio, da cui si decide di entrare e uscire a seconda delle necessità.

Si pensi all’Ufficio del processo, ad esempio, ove tanti avvocati (forse più di nome che di fatto) hanno trovato rifugio, passando dalla difesa dei diritti ( forse) alla raccolta dei documenti dei processi e, nel migliore dei casi, alla predisposizione delle bozze di decisione. In questo caso è difficile pensare che la ‘ missione forense’ svolti radicalmente nella direzione del “impiegato forense”. A meno che non si introduca la figura del “paralegal” come negli ordinamenti anglosassoni.

E qui entriamo nel secondo argomento. È noto che da svariati anni, complice una legge forense figlia del compromesso dei tempi, esistono studi legali che scimmiottano le legal firm anglosassoni: grossi studi legali con sedi anche all’estero, che operano in regime di monocommittenza. Tuttavia una monocommittenza all’italiana, ove spiccano i dati negativi e sfumano quelli positivi. Queste realtà reperiscono avvocati- collaboratori a tempo pieno, esiguamente pagati in regime Iva, con fatture a cadenza mensile (modello retribuzione), ovviamente senza compartecipazione ai compensi professionali, generalmente fra i giovani neo avvocati, più vulnerabili e più sfruttabili.

Per questi giovani colleghi non vi sono le garanzie del lavoro dipendente, né i vantaggi della libera professione forense. È la nuova tipologia dello “schiavismo del nuovo millennio”‘, come definita on line, ove sfruttamento e “mai- una- gioia” finiscono per demotivare giovani colleghi anziché investire su di loro. Tutto il contrario dell’originale anglosassone. Ovviamente non si discutono le scelte personali, tutte degne di rispetto, ma avvilendo i giovani si comprime quella freschezza ed energia che caratterizza la missione dell’avvocato, il quale giura, perché ci crede, di difendere i diritti nell’interesse superiore della giustizia.

La giustizia. E qui veniamo a un ulteriore punto nevralgico. Da un lato la sfiducia del cittadino nella giustizia come istituzione, dall’altro lato l’atteggiamento di certi magistrati nei confronti degli avvocati che, lungi dall’essere ritenuti “pari”, molto spesso raggiungono livelli di irrispettosità di difficile giustificazione, come si evince dalla semplice lettura dei giornali.

Elementi che congiuntamente, o singolarmente, danneggiano anche la figura dell’avvocato, che nel perdere prestigio trascina con sé l’intero ‘ cast’, in un rapporto bidirezionale. Di ciò si dovrebbe avere maggior contezza: se la magistratura perde prestigio, parimenti lo perde la professione forense, se perde prestigio la professione forense egualmente ne esce ammaccata la giustizia nel suo complesso, in un rapporto osmotico strettissimo.

Da qui se ne uscirebbe solo con l’aggiornamento della nostra Costituzione, inserendo in chiaro il capo relativo alla difesa professionale dei diritti, la cui mera enunciazione di principio non è (più) sufficiente come lo fu nel 1946, ove l’avvocatura era la professione più rispettata e ambita fra quelle ordinamentali.

Ma la giustizia ha anche un’altra grande responsabilità, che gioca un ruolo enormemente rilevante nella mortificazione della professione forense e, quindi, nell’intenzione di “fuga”. Nell’offrire talvolta assist spettacolari alla pubblica amministrazione, la magistratura non si rende conto del danno “pubblico” che certe decisioni comportano: si pensi alle recenti decisioni con cui taluni giudici – lautamente pagati hanno stabilito che l’avvocato può lavorare anche gratis.

Questo, in estrema sintesi, il principio fissato nell’aver ritenuto legittimo il bando di una P. A. che richiedeva la collaborazione rigorosamente gratuita di avvocati esperti. Con buona pace dell’adeguatezza della retribuzione per il lavoro svolto, della legge sull’equo compenso, del decreto ministeriale e delle raccomandazioni euro unitarie. Con questi presupposti è comprensibile che anche i più innamorati della professione forense prendano atto della fine di un idillio e decidano di appendere la toga al chiodo.

Fuga dall’avvocatura: ora la certificano i dati del Rapporto Censis. Presentato stamattina il tradizionale studio condotto dall’istituto di ricerca in collaborazione con Cassa forense: è la prima volta dopo 37 anni di crescita ininterrotta che i numeri della professione sono in calo, esattamente di 3.200 unità nel 2021 rispetto al 2020. A commentare le statistiche, con i rappresentanti dell’ente previdenziale, i vertici di istituzioni e associazioni forensi. Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 29 aprile 2022.

Tremiladuecento avvocati in meno rispetto all’anno precedente. Professione che dunque per la prima volta dopo 37 anni si contrae. È il dato più clamoroso del Rapporto sull’avvocatura 2022, curato da Cassa forense in collaborazione con il Censis, e presentato oggi a Roma, alla presenza dei rappresentanti di istituzioni e associazioni forensi e del sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto.

Dopo i saluti del presidente dell’istituto previdenziale, Valter Militi, che ha ringraziato i 30mila avvocati coinvolti nella ricerca del Censis, e sottolineato l’utilità del Rapporto «per mettere a punto misure più adeguate alle necessità degli avvocati», è stato letto il messaggio inviato da Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, che ha particolarmente apprezzato «la specifica sezione sull’avvocatura femminile», utile, ha ricordato, per comprendere quali siano «le problematiche con cui le donne che intraprendono la professione si devono confrontare».

Si sono poi succeduti una decina di interventi, tutti introdotti e coordinati con competenza da Maria Carla De Cesari, giornalista del Sole-24 Ore. Andrea Toma, responsabile Lavoro del Censis, ha messo in evidenza i principali “numeri” dell’avvocatura, dando quindi l’assist agli interventi successivi. Il segretario generale del Censis Giorgio De Rita ha offerto una chiave di lettura sull’evoluzione della professione forense secondo cui la riduzione del numero di avvocati verificatasi nel 2021, in controtendenza rispetto al passato (dal 1985 al 2020 il dato era cresciuto costantemente, da 37.495 a 245.030), potrebbe rappresentare «il segnale che un lungo ciclo sia giunto al termine, e che se ne possa quindi aprire un altro, presumibilmente basato su un nuovo modello di business, che possa dare nuove prospettive, anche reddituali».

Marisa Annunziata, consigliera di Cassa Forense, ha ipotizzato che la difficoltà possa essere dovuta anche a una «scarsa conoscenza della professione, che potrebbe però essere promossa dallo stesso istituto». Da parte sua Benedetta Zambon, delegata della Cassa, ha evidenziato come uno dei punti deboli della professione sia l’enorme differenza reddituale tra uomini e donne, con queste ultime che vantano in media un reddito (23.392 € nel 2020) inferiore alla metà di quello dei colleghi maschi (50.508), mentre va visto positivamente l’aumento significativo della presenza femminile nella professione, che è passata dal 7% del 1981 al 48% nel 2021.

Un punto debole futuro potrebbe essere invece il rapporto pensionati/avvocati attivi che, se oggi è ancora favorevole (a fine 2021 vi erano 30.863 pensionati a fronte di 241.830 iscritti), non si può escludere possa peggiorare, considerata la tendenza alla riduzione degli attivi e il futuro aumento di chi è in pensione: ora gli avvocati che hanno più di 55 anni sono oltre 50.000.

Conclusa la presentazione dei dati, il dibattito è partito dall’intervento della presidente del Cnf Maria Masi, alla quale è stato chiesto come si può rispondere alle difficoltà dei giovani professionisti, e delle donne avvocato, essendo i primi alle prese con un processo formativo molto lungo e redditi contenuti (gli avvocati sotto i 30 anni hanno registrato nel 2021 un reddito medio di 13.274 euro), e le seconde con un reddito molto inferiore a quello degli uomini.

Masi ha riconosciuto che alle problematiche strutturali della professione, come il percorso formativo lungo, se ne sono aggiunte altre di natura congiunturale, come il covid. Tutto questo, per la presidente del Cnf, ha prodotto «una scelta diversa da parte di molti giovani, che hanno preferito percorsi professionali diversi da quelli dell’avvocatura», e per questo bisognerà «lavorare su una riforma dell’accesso alla professione, che preveda una collaborazione più stretta tra avvocatura e università, per una migliore acquisizione delle competenze specialistiche, fermo restando la centralità del rapporto di fiducia cliente-avvocato».

Una soluzione per il futuro è stata proposta anche da Sergio Paparo, coordinatore dell’Ocf, che immagina forme aggregative tra professionisti, ognuno con una specializzazione diversa, attraverso, per esempio, il «contratto di rete», che potrebbe permettere la creazione di un network di piccoli studi.

Mentre, a partire dalle considerazioni di Masi, Tatiana Biagioni, presidente di Avvocati giuslavoristi italiani, ha concordato sul fatto che «non ci debba essere contrapposizione tra il rapporto fiduciario con il cliente e la specializzazione», e ha ricordato: «La specializzazione è soprattutto una questione di competenza specifica, un tema oltretutto molto sentito dai giovani», e ha riconosciuto che «la figura dell’avvocato generalista avrà un ruolo diverso». Quindi ha fatto un appello sulla «centralità del ruolo delle donne avvocate, la visibilità e la rappresentanza».

Sulle possibili ragioni della riduzione del numero di avvocati, è tornato Giampaolo Di Marco, segretario generale dell’Associazione nazionale forense, secondo il quale è innegabile la perdita progressiva di fascino della professione di avvocato, a cui si aggiunge la circostanza che ora i giovani si rendono conto prima se sono tagliati o meno per la libera professione.

Anche Francesco Paolo Perchinunno, presidente di Aiga, ha ammesso che la professione di avvocato è «in difficoltà», come prova il dato, apparentemente clamoroso, emerso dalla ricerca, ossia che un avvocato su 3 pensa di non continuare l’attività (32,8%), tanto che, citando un messaggio ricevuto, può essere vero che «gli altri 2 avvocati (su 3) mentono quando dicono che vorrebbero continuare la professione…». Riguardo l’origine delle difficoltà, va considerata «la concorrenza di altre professioni», come i commercialisti, che oggi si occupano anche di contratti.

Inattesa è stata invece la risposta di Antonio de Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale Camere civili), alla domanda di De Cesari, sulla possibilità che le Adr possano rappresentare un futuro per la professione: il leader dei civilisti ha segnalato che «solo il 4,4% è soddisfatto delle procedure di risoluzione alternativa delle dispute, per cui non da esse dovrebbe dipendere il futuro dell’avvocatura».

Antonino La Lumia, presidente di Movimento forense, ha espresso la convinzione che la professione «sta cambiando pelle», per cui bisogna puntare alla creazione di «network tra professionisti, anche a livello internazionale».

In chiusura del dibattito, Isabella Stoppani, consigliera Cnf e presidente dell’Associazione nazionale avvocati italiani, ha ricordato che si potrebbe arrivare a conclusioni più precise sulla condizione dell’avvocatura se fosse possibile conoscere «il profilo dei 30mila colleghi intervistati dai ricercatori».

E a conclusione della giornata è intervenuto il sottosegretario Sisto, che dopo essersi reso disponibile a dare seguito alla richiesta del presidente di Cassa forense di recuperare gli 800 milioni di euro residui dallo stanziamento per l’esonero contributivo, per destinarli a misure per le libere professioni, si è impegnato a «promuovere in tutte le sedi la riduzione dei costi per i corsi di specializzazione degli avvocati», perché è vero che «ormai è difficile trovare giovani desiderosi di impegnarsi nella professione forense».

Militi, concludendo i lavori, ha ricordato che c’è una «sperequazione» nel mondo dell’avvocatura «da sanare», come dimostra che l’1% degli avvocati più ricchi, producano il 25% del reddito dell’avvocatura, pari, a fine 2020, a 8,5 miliardi di euro.

Troppa concorrenza (anche esterna al Foro): ecco cosa scoraggia gli avvocati.  TRA LE PIEGHE DEL RAPPORTO 2022 DI CENSIS E CASSA FORENSE. Dietro quel clamoroso 32% di iscritti che valuta di abbandonare la professione, ci sono innanzitutto le remunerazioni in calo e, in dettaglio, le insidie che provengono anche dall’apertura del mercato legale a categorie esterne al Foro. Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 6 maggio 2022.

Il Rapporto sull’Avvocatura del 2022, curato da Cassa forense in collaborazione con il Censis, e presentato lo scorso 28 aprile a Roma, costituisce una miniera di informazioni a disposizione degli iscritti, che possono considerarle per capire in che direzione si sta evolvendo la professione legale.

Come scaricare l’intero Rapporto Avvocatura 2022

Per scaricare il documento, bisogna andare a due indirizzi differenti all’interno del sito della Cassa: partendo dalla home page, bisogna cliccare su “Documentazione” e poi su “I numeri dell’avvocatura”, attivando nella nuova pagina un ultimo link.

Da questo, si ottengono le tabelle con i dati sulla numerosità degli avvocati (suddivisi per genere, età, localizzazione, reddito), sui loro redditi e sulle pensioni, mentre tanti altri aspetti interessanti sulla condizione attuale e sulle prospettive della professione di avvocato si rintracciano nel “Rapporto Censis”, a cui si accede sempre selezionando la voce “Documentazione”. Ed è quest’ultimo documento che contiene indicazioni utili per capire l’evoluzione della professione.

Cosa emerge dalle domande al campione intervistato

Le oltre 130 pagine del rapporto descrivono, sulla base delle risposte fornite da 30.231 avvocati che hanno partecipato all’indagine del Censis, una fotografia dell’attività attuale e prospettica dei professionisti. Infatti, accanto alla raccolta dei dati statistico-demografici sull’universo degli avvocati, i ricercatori del Censis hanno posto diverse questioni ai soggetti intervistati, fra cui la condizione professionale attuale e attesa per il futuro, l’ipotesi di lasciare la professione, i principali fattori di rischio percepiti per uno svolgimento efficace del lavoro, l’origine del fatturato per tipologia di attività e di clientela, e le specializzazioni che possono offrire opportunità di sviluppo nei prossimi anni.

Premesso che nel rapporto sono trattati molti altri argomenti, considerato lo spazio ristretto di un articolo, i temi sopra citati sembrano essere quelli prioritari.

Cominciando con la condizione professionale attuale (2022), sorprende che solo l’1,1% degli avvocati intervistati ha risposto che essa è molto positiva, mentre, per contro, il 32,8% l’ha definita abbastanza critica, e il 28,4% addirittura molto critica.

Se poi si guarda al futuro, il 30% si aspetta che la situazione peggiorerà, mentre quasi la metà (46,7%) non si attende dei cambiamenti, mentre gli ottimisti sono meno di un quarto (23,3%).

Non deve quindi sorprendere che un terzo dei professionisti intervistati (32,8%), alla domanda se considera l’ipotesi di lasciare la professione, abbia risposto affermativamente.

Per quanto riguarda la ragione del possibile abbandono della professione, i 2/3 (63,7%) indicano la scarsa remuneratività, motivazione seguita dal calo della clientela (13,8%).

D’altronde il 52,9% degli avvocati intervistati ammette che, fra i fattori di rischio della professione, vi è in primo luogo la concorrenza dovuta all’eccessivo numero di avvocati, mentre un altro fattore che preoccupa il 35,8% è l’instabilità normativa e l’eccessiva durata dei processi. Anche gli adempimenti amministrativi e fiscali sono considerati un fattore di rischio per il 33,1% dei partecipanti all’indagine, mentre per un altro 25,2% un problema deriva dall’apertura del mercato dei servizi legali ai non avvocati.

Suscitano curiosità poi i dati sull’origine del fatturato, che risulta provenire mediamente per il 42,8% dai giudizi in sede civile, il 17% dalle soluzioni stragiudiziali, il 11,7% dai giudizi in sede penale, e l’11,2% da consulenze in sede civile. Da notare che arbitrati e mediazioni per il momento contribuiscono solo al 1,9% del fatturato degli avvocati italiani. Per quanto riguarda invece il tipo di clientela, la parte del leone la fanno le persone fisiche (51,7%), seguite dalle piccole e medie imprese (19,8%), mentre sorprendentemente al terzo posto vi sono gli altri avvocati (12,1%). Ridotta è invece la quota di fatturato proveniente da grandi aziende (5,4%), enti pubblici (6,1%), e altri soggetti come associazioni e sindacati (5%).

L’ultimo tema, ma forse il più interessante, è quello delle specializzazioni considerate più promettenti per i prossimi tre anni. Al riguardo il 46,8% degli intervistati ha indicato il Diritto della crisi di impresa, seguito dal Diritto penale dell’informazione (40,3%), Diritto dell’ambiente e dell’energia (36,5%), Diritto penale dell’ambiente e dell’urbanistica (35,1%), Diritto sanitario (34,7%), Diritto dell’informazione, comunicazione digitale e privacy (33,8%), Diritto del lavoro (32%).

·        La Lobby dei Tassisti.

(ANSA il 24 novembre 2022) –  "Il recente servizio della trasmissione Le Iene, svolto presso l'aeroporto di Ciampino, ha raccontato una realtà fatta di soprusi e truffe a danno dell'utenza taxi e non solo, da parte di poche decine di noti tassisti più volte segnalati alle competenti autorità". 

È quanto dichiarano in una nota le segreterie regionali di Federtaxi Cisal, UGL taxi, FIT CISL, UIL TRASPORTI, UN.I.C.A. CGIL, Uritaxi, Fast Confsal, ATAPL CLAAI, UTI, Confcooperative, Legacoop e ATI TAXI. "L'aeroporto di Ciampino e Fiumicino, il posteggio dei Musei Vaticani, le aree adiacenti piazza San Pietro e largo Corrado Ricci sono divenute oramai da tempo terra di nessuno, dove questi operatori gaglioffi aspettano turisti e stranieri per truffarli - spiegano - Tutti conoscono tali situazioni ma fino ad oggi poco o nulla è stato fatto per stroncarle.

Torniamo a chiedere, come più volte già fatto in passato e nella speranza di essere finalmente ascoltati - prosegue la nota - un forte intervento del sindaco Gualtieri, del competente assessore Patanè e di tutti gli organi preposti alla vigilanza, al fine di sanzionare pesantemente questi comportamenti illeciti che tanto discredito gettano sull'intera categoria e mettervi fine una volta per tutte. È inaccettabile che una categoria di lavoratori non debba essere protetta da vere e proprie infiltrazioni malavitose.

A chiederlo sono i Tassisti onesti, lavoratori della strada, imprenditori di se stessi, agli organi preposti, al Sindaco, agli organi di Polizia, al Prefetto e al Questore. È inammissibile che si lascino operare soggetti che agiscono al di fuori delle leggi dei regolamenti in sfregio alla categoria tutta. 

Per noi - conclude la nota - resta incomprensibile come poche decine di mele marce, possano da anni agire in modo indisturbato a danno di utenti ed operatori del servizio taxi, senza che nessuna amministrazione, forse per assenza di volontà politica, sia riuscita realmente a contrastare tale fenomeno. Ieri il sindaco non ha risposto alle domande dalla trasmissione". 

Francesca Mariani per “Il Tempo” il 22 novembre 2022.

L'assessore al Turismo di Roma, Alessandro Onorato, ha presentato un esposto in procura dopo il servizio tv de "Le Iene" su alcuni tassisti, andato in onda la settimana scorsa. E usa parole forti, che tirano in ballo il suo omologo alla Mobilità, Eugenio Patanè, sulle revoche delle licenze taxi che non rispettano le regole. 

All'aeroporto di Ciampino i tassisti avevano reagito male alle domande della iena Nicolò De Devitiis (giunto lì dopo aver raccolto la testimonianza di un cliente e aver documentato le disavventure di alcuni turisti) su una serie di scorrettezze: mancata tariffa garantita, niente uso del Pos, selezione dei clienti su tratte con lo stesso percorso e viaggi cumulativi non consentiti.

La trasmissione ha mostrato le infrazioni di molti tassisti, i quali, partendo da stazione Termini, passando per il Circo Massimo e Piazza del Popolo, utilizzerebbero impropriamente la loro licenza. Ultimamente, al fianco di giornalisti della carta stampata e delle tv, la denuncia viene condivisa sui social dai cittadini e da persone note, come ad esempio influencer, dj, ginnaste e persino da un giornalista della "Bbc". 

«Mi vergogno. Sono molto arrabbiato - dice Onorato ai microfoni de Le Iene - Grazie per aver reso evidente che non si tratta soltanto di alcune mele marce, mi sembra più un racket. E per questo ho deciso di presentare un esposto alla procura.

Non si può continuare così, questi sono criminali, quelli sono reati, sono aggressioni, sono associazione, bloccano le persone, non le fanno lavorare».

L'assessore Onorato denuncia addirittura un'associazione a delinquere e ai microfoni fa sapere che la cosa sarebbe nota anche al governo italiano: «Ci sono tassisti che hanno paura a denunciare. Mi sono arrivate tantissime lettere che ho condiviso anche con l'allora prefetto Piantedosi, oggi ministro degli Interni. Oggi faccio un appello: è giunta l'ora che sulla capitale d'Italia, ci si metta gli occhi fino in fondo. Questa gente deve essere perseguita duramente». Infine: «Una cosa è certa, se avessi potuto darle io le revoche e le sospensioni gliele avrei già strappate tutte (le licenze, ndr)». Ma la "mobilità" è affare dell'assessore Eugenio Patanè, il quale, interpellato, ha reso noto che «nessuna licenza è stata revocata nell'ultimo anno, solo cinquantatré sospensioni temporanee» che non sono bastate a risolvere il fenomeno.

Le Iene hanno ricevuto solidarietà e incoraggiamenti dai tassisti onesti sia per strada che attraverso tantissime mail giunte in redazione. Alcune svelano come chi dovrebbe controllare, va invece «a braccetto» con chi dovrebbe essere controllato.

«La Squadra Vetture (della Polizia locale di Roma Capitale, ndr), la vedi tre volte su quattro a braccetto con questi a Ciampino. Prima li vedevo tranquillamente al bar insieme ma ridevano e scherzavano». Ma c'è anche qualcuno, come Francesco, un autista, che pubblicamente ha denunciato, a volto scoperto sui suoi social e all'inviato tv, il malcostume di certi colleghi, tanto che avrebbe ricevuto minacce.

«Noi tassisti non abbiamo fatto bella figura ed è per questo che ho fatto un video per dissociarmi da determinati atteggiamenti di qualche collega. Ecco, a qualcuno questo video non è piaciuto e mi ha detto che mi devo guardare le spalle, ma io non ho paura di nessuno perché chi lavora onestamente non deve avere paura di niente».

Giuseppe Meccariello per tuttonotizie.eu il 16 novembre 2022.

Dal 30 giugno del 2022 è in vigore l'obbligo per i commercianti e per chi offre servizi di accettare il pagamento via POS. Tutti i soggetti coinvolti devono obbligatoriamente munirsi di un terminale di pagamento funzionante e carico. Tra questi, anche i conducenti di taxi: non tutti, però, sembrano fare il loro dovere. Ne ha parlato prima la giornalista italiana Selvaggia Lucarelli, che alla fine del mese di agosto ha pubblicato un video in cui un tassista milanese ha rifiutato un pagamento con il POS, perché scarico, e ha preteso il pagamento in contanti. Poi, ne hanno iniziato a parlare in tutta Italia: da Roma a Napoli, fino a Palermo.

Lo "scandalo", però, è stato menzionato nel momento in cui è stato segnalato che alcuni conducenti di taxi non hanno seguito le tariffe imposte dai regolamenti regionali e hanno iniziato a chiedere cifre esorbitanti ai loro clienti. Ieri sera, nel corso del programma di Italia 1 Le Iene, condotto da Teo Mammuccari e Belen Rodriguez, è stato trasmesso un servizio che riguarda proprio lo scandalo delle tariffe. In particolare, il servizio è stato girato nella Capitale.

Nel servizio ambientato a Roma, Nicolò De Devitiis e il team del programma Mediaset mostrano come, nonostante ci siano tariffe imposte, diversi tassisti facciano "di testa loro". In particolare, nel servizio si comunica che la tariffa base per recarsi dall'Aeroporto di Ciampino al centro storico della Capitale è di 31 euro, ma diversi conducenti hanno chiesto 50 euro ai rispettivi clienti, rifiutando il pagamento via POS o, comunque, "suggerendo" quello in contanti. Non solo: una di loro ferma il passeggero a 10 minuti di strada a piedi dalla destinazione richiesta a causa del concerto di Renato Zero, che rendeva poco agibile il percorso in auto nel centro. Eppure, il prezzo richiesto resta sempre quello: 50 euro.

Ma è la testimonianza di un cliente anonimo che sconvolge di più. "Come vado verso la fila dei taxi vengo intercettato da un ragazzo, che mi chiede dove dovessi andare. Io dico la zona di Roma dove dovevo andare e lui dice "No, tu no": di fatto mi aveva scartato, perché non ero interessante. Mi sono messo in questa fila abbastanza corposa [...] una fila molto lenta perché questo personaggio qui decideva chi andasse nei taxi [...] quanto pagava e con quale tassista andava". Il testimone ha sottolineato che, nonostante gli altri tassisti e anche i vigilanti metronotte fossero presenti, nessuno avesse detto nulla. 

Il problema dei tassisti e dell'Italia intera

La Iena, Nicolò De Devitiis, ha anche chiesto ad alcuni tassisti cosa ne pensassero. Uno di questi ha giustificato in questo modo la decisione di alcuni conducenti. "Io vado a 31 euro con la benzina a 2 euro? Ti sembra giusto?" ha chiesto, evidenziando il problema dell'aumento generalizzato dei costi e soprattutto del carburante che ha colpito tutta Italia e, dunque, anche i conducenti dei taxi. 

Quello del caro energia è, in effetti, un problema grave e che ha colpito tutti. Ma questo giustifica la scelta di alcuni conducenti di decidere autonomamente le tariffe da imporre ai clienti? Voi cosa ne pensate?

Uber Files, la campagna di Russia: soldi e affari con gli uomini di Vladimir Putin. Accordi milionari con gli oligarchi. Patti riservati con i banchieri. Pagamenti offshore in cambio di una legge di favore. Tutti i segreti dello sbarco del colosso Usa a Mosca. Paolo Biondani e Leo Sisti  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

Pur di sfondare in Russia, i manager americani di Uber le hanno provate tutte. Hanno firmato accordi riservati con gli uomini più vicini a Vladimir Putin. Alleanze con la prima banca statale. Scambi di ricche quote azionarie. E consulenze pericolose, al limite della corruzione.

La lista degli oligarchi agganciati dal colosso californiano dei trasporti comprende diversi miliardari oggi colpiti dalle sanzioni internazionali dopo la guerra

«Io, rider nigeriano, schiavizzato da Uber per trasportare pasti in bici a Milano». Lavoratori sottopagati e senza contratto: parlano le vittime della multinazionale. Tutti i verbali e una video-intervista ai ciclisti africani e asiatici che hanno testimoniato nel processo alla filiale italiana del colosso Usa. «Ci pagavano 3 euro». Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 19 Luglio 2022.

«Abbiamo creato un sistema per disperati». È la confessione di una manager italiana di Uber Italy (che controllava anche la app Uber Eats ndr), intercettata dalla Guardia di Finanza ed evidenziata dal tribunale di Milano nel decreto che ha commissariato la filiale italiana della multinazionale, dall'aprile 2020 al marzo 2021, con l'accusa-shock di caporalato, cioè di sfruttamento criminale dei lavoratori attraverso un giro di intermediari. Le vittime sono centinaia di fattorini molto poveri, quasi tutti immigrati africani o asiatici, che consegnavano pasti a domicilio in bicicletta a Milano, ma anche a Torino, Roma, Rimini e altre città.

Lavoratori sfruttati. Sottopagati. E denigrati con insulti razzisti: «Schifosi», «Puzzano troppo, sono neri e hanno odori diversi dai nostri», si legge nelle chat aziendali. Però erano considerati «la gallina dalle uova d'oro». Perché lavoravano tutti i giorni fino a dodici ore per salari bassissimi, 3 euro a consegna per qualsiasi distanza, per un totale di 400-500 euro al mese al massimo, senza contratto e senza diritti, misure di sicurezza, assicurazioni, assistenza sanitaria e contributi.

«Pagato 3 euro a consegna. E le mance donate sulla app non le ho mai ricevute»

L'Espresso ha raccolto tutte le deposizioni delle vittime conosciute, quelle che Uber, dopo essere finita per un anno in amministrazione giudiziaria, ha accettato di risarcire. Sono persone fragili, emarginate, per lo più rifugiati stranieri, richiedenti asilo politico, che vivono in centri di accoglienza. Molti si vergognano di raccontare la loro storia di miseria e sfruttamento. Uno di loro, Osaradion Uwnmahongie, nato in Nigeria il 14 giugno 1995, ha accettato di farsi intervistare e filmare da L'Espresso. «Sono partito dalla Nigeria, dalla mia città, nel 2016. Sono andato prima ad Abuja, la capitale, poi a Kanu e di qui a Katsina, vicino al confine con il Niger. Non avevamo passaporti, quindi abbiamo dovuto fare un lungo viaggio per evitare i controlli della polizia nel Niger. Nel deserto, siamo rimasti fino a cinque giorni senza cibo e acqua».

«Dopo un mese, siamo arrivati in Libia. Abbiamo dovuto restare lì per altri 8-9 mesi. Poi siamo stati rapiti dalle gang. Non ti considerano un essere umano, ti vedono solo come un'opportunità di fare soldi. Ti sequestrano, è il cosiddetto kalabush. Ho chiamato mia mamma che mi ha mandato il denaro per il riscatto, tremila dinari, cioè 500 euro, tutto quello che aveva. Poi ho lavorato per un'azienda agricola nei campi di angurie, senza paga. Sono stato rapito di nuovo e portato a Sabratha, in una prigione gestita dalla mafia locale. Mi picchiavano ogni giorno. Poi, in poco più di due mesi, abbiamo segato le porte della prigione e siamo riusciti a scappare. Sono arrivato a Zuara, sul mare, e ho cercato di partire per l'Italia».

«Ho pagato il viaggio grazie a mio zio. Non era una barca, ma un gommone, noi lo chiamiamo Lapa-lapa. Una notte abbiamo incrociato una nave di Save the Children, che ci ha salvato e portato in Sicilia. Era il 14 luglio 2017».

«Siamo arrivati a Como il giorno dopo. Quando ho visto la polizia, ho avuto paura. Temevo che mi picchiassero come in Libia. Invece sono stati gentili. Sono stato portato alla Croce Rossa. Ho mangiato bene. Ho potuto lavarmi. Poi sono stato trasferito alla Caritas. A Como sono rimasto per un anno, andavo a scuola e imparavo l'italiano. Era il 2018».

«Quindi mi sono messo a cercare lavoro a Milano e ho incontrato il signor Leonardo, che mi ha dato una borsa per il cibo e i codici della app di Uber. Nella prima settimana avrei dovuto guadagnare 78 euro, ma non ho avuto niente: dovevo pagare la borsa. Nella seconda me ne spettavano 75, ma ne ho ricevuti solo 20: altre trattenute per quella borsa. C'era sempre una scusa per pagarci di meno. Molti clienti su Internet ci davano le mance, ma io non le ho mai viste».

Un’altra vittima di Uber è Mohamed Sunday, nato in Nigeria il 6 giugno 1987. In Italia dal 2017, simboleggia lo schiavo moderno high-tech. La sua storia si incrocia con Flash Road City (Frc), la società intermediaria di Uber. «Il primo colloquio di lavoro l'ho fatto nel marzo 2019 con Leonardo (il titolare di Frc) negli uffici di via Carlini 5, a Milano. Leonardo esibì il contratto e altri moduli che mi fece firmare, senza rilasciarne alcuna copia, nonostante l'avessi chiesta… Il compenso era 3 euro per consegna effettuata, si trattasse di percorrere un chilometro o dieci… In genere effettuavo tra 30 e 50 consegne ogni due settimane, quindi ricevevo tra 90 e 150 euro ogni quindici giorni». L'orario di lavoro era massacrante: 7 giorni su 7, festivi compresi, dalle 10-11 del mattino alle 24/1 di notte. «Se non fossi andato a lavorare, non avrei percepito nessun stipendio».

E se gli ordini venivano cancellati dai clienti all'ultimo momento? Niente paga. Perché? «Leonardo diceva che doveva pagare le tasse allo Stato italiano». E le mance pagate dai clienti tramite la piattaforma di Uber? «Mai ricevute». Nel gennaio 2020 Il rider nigeriano è stato licenziato senza preavviso e senza una comunicazione scritta dal «signor Leonardo»: «Diceva che avevo fatto poche consegne, ma non era vero. Allora ha detto che avevo avuto solo il 71 per cento di recensioni positive dai clienti. L’ho chiamato per dirgli che il 71 per cento non mi sembrava poco, ma non mi ha mai risposto».

L'inchiesta su Uber, condotta dal pm milanese Paolo Storari, è nata nel 2019 dalla denuncia di un'avvocata di Torino, Giulia Druetta, esperta in cause di lavoro a favore dei rider: è lei che, quando ha letto le chat dell’intermediario, cioè la società Frc, ha capito che in realtà tutti i fattorini lavoravano per Uber. La giuslavorista ora spiega all’Espresso i dettagli dell’esposto presentato nel febbraio 2020, insieme all’avvocato Sergio Bonetto, alla Procura di Torino: «Tutti gli indizi portavano in quella direzione, a Uber. L'applicazione usata per gestire il lavoro era di Uber. Il nostro esposto è stato poi trasmesso a Milano, dov’era già in corso un'indagine. È stato come aprire il vaso di Pandora. In quegli atti, a nostro avviso, c'era la conferma della nostra ricostruzione dei fatti. La Frc non aveva alcun potere decisionale. Era un'impresa individuale, con un solo collaboratore autonomo, eppure in pochi mesi aveva reclutato 750 rider in sei città. Era Uber a stabilire in quali città operare e la quantità di personale da impiegare; in quale zona dove si doveva trovare il lavoratore e a che distanza dal ristorante per vedersi attribuito un ordine; quanti rider erano necessari su strada nelle varie fasce orarie per ogni settimana, il cosiddetto ‘supply hours’. Era Uber a controllare la percentuale di accettazione o rifiuto degli ordini, il comportamento, disciplinato o no, del rider, e perfino il tasso di completamento orario delle consegne».

«In base ai dati raccolti, era sempre Uber a decidere di bloccare sull'applicazione, in pratica a licenziare, i rider indisciplinati o non produttivi, impedendo loro di proseguire l'attività lavorativa. D'altronde, chi poteva fare analisi sulla produttività dei lavoratori o intervenire sull'applicazione, se non chi la dirigeva e disponeva quindi dei dati?» «Insomma, secondo la nostra ricostruzione, tutta la gestione era nelle mani di Uber, salvo la titolarità dei contratti di lavoro occasionale dei rider, attribuiti a Frc. Stiamo parlando di oltre 700 lavoratori assunti con contratto di lavoro occasionale, senza alcuna tutela, pagati da 3 a 3,5 euro a consegna, controllati in ogni momento da un'applicazione che ne rileva la produttività. E sanzionati se ritenuti non abbastanza produttivi, o indisciplinati.

«I lavoratori, poverissimi, ricevevano salari bassissimi, pagati a cottimo. Con rapporti di forza totalmente squilibrati a favore dei padroni. Nessuna tutela. E le tecnologie di Internet usare per controllare e spiare la manodopera», conclude l’avvocata dei rider: «È questo il nuovo modello di lavoro smart dei nostri tempi? È questa la new economy?».

(ANSA il 12 luglio 2022) - E' il lobbista irlandese Mark MacGann l'informatore che ha fatto trapelare i file interni dell'azienda statunitense di trasporto Uber che rivelano dettagli sulle attività di lobbying di alto livello nei confronti dei governi di diversi Paesi dell'Ue. MacGann, 52 anni, ha lavorato per l'azienda tra il 2014 e il 2016 come capo lobbista per Europa, Medio Oriente e Africa. "Non ci sono scuse per il modo in cui l'azienda ha giocato con la vita delle persone", ha detto, "sono disgustato e mi vergogno. Avevamo effettivamente venduto alle persone una bugia", ha detto.

I documenti mostrano come i dirigenti dell'azienda abbiano esercitato pressioni sui politici di tutto il mondo per ottenere favori e abbiano negoziato accordi di investimento con oligarchi russi ora sanzionati. Oltre ad aver sfruttato la violenza contro gli autisti di Uber per spingere verso regolamenti favorevoli. MacGann, indicato come "Mmg" nelle e-mail trapelate, ha dichiarato in un'intervista esclusiva al Guardian di aver deciso di divulgare i documenti, più di cinque anni dopo le dimissioni, per denunciare le malefatte dell'azienda. Sostenendo con i governi che cambiare le regole a favore di Uber avrebbe portato benefici economici agli autisti, "abbiamo venduto alla gente una bugia", ha dichiarato.

"Pressioni e leggi violate": l'inchiesta Uber files travolge Macron. Francesca Galici il 10 Luglio 2022 su Il Giornale.

Un'inchiesta condotta dal Consorzio internazionale dei giornalisti di investigazione ha fatto emergere un'operazione lobbistica attorno al colosso Uber che ha coinvolto il presidente francese ai tempi in cui era ministro dell'Economia.

L'inchiesta condotta dai quotidiani Le Monde e Guardian, insieme all'emittente televisiva Bbc e ad altre testate giornalistiche del Consorzio internazionale dei giornalisti di investigazione (Icj), di cui è parte anche L'Espresso, è destinata a destare molto clamore. I giornalisti hanno analizzato migliaia di documenti e mail riservate in un'inchiesta ribattezzata Uber files, dalla quale emerge che in un momento in cui il governo francese si mostrava particolarmente ostile alla piattaforma noleggio auto con conducente attraverso la legge Thevenoud, Emmanuel Macron sarebbe stato "quasi un partner" per Uber.

A quei tempi, Emmanuel Macron non era ancora salito all'Eliseo ma ricopriva il ruolo di ministro dell'Economia e, in quelle vesti, avrebbe intrattenuto stretti rapporti con i dirigenti della società. Dai documenti analizzati dai giornalisti del collettivo Icj, infatti, emergerebbe che Emmanuel Macron si sarebbe mostrato particolarmente interessato ad aiutare Uber fin dal suo primo incontro con Travis Kalanick, quando si è impegnato ad aiutare l'azienda a entrare nel mercato francese. A creare maggiori problemi in quegli anni era il servizio Uber Pop messo sotto inchiesta dalla Direzione generale della concorrenza, del consumo e della repressone delle frodi (Dgccrf). In quel periodo ci furono molti scioperi e manifestazioni dei tassisti contro Uber.

Nel 2015, poi, i dirigenti del colosso statunitensi hanno chiesto l'aiuto del ministro dopo che a Marsiglia il prefetto Laurent Nunez ha vietato Uber in gran parte del dipartimento. "Signor ministro, siamo costernati dall'ordinanza del prefetto di Marsiglia", ha scritto in un sms il lobbista Mark MacGann a Macron, che per tutta risposta ha garantito che se ne sarebbe occupato "personalmente". Tre giorni più tardi il divieto viene modificato. Nunez, che oggi è coordinatore nazionale dell'intelligence all'Eliseo, smentisce eventuali pressioni ricevute dall'allora ministro.

Sono oltre 124mila i documenti che the Guardian ha potuto studiare nel corso degli ultimi mesi e tra questi ci sono anche elementi che portano in Italia. Ed è L'Espresso a condividere la parte relativa al nostro Paese, che sarebbe stato coinvolto in una campagna di pressione, il cui nome in codice era Italy - Operation Renzi, dal 2014 e il 2016. L'obiettivo era quello di agganciare e condizionare l'allora presidente del Consiglio e alcuni ministri e parlamentari del Pd. Nelle mail dei manager americani, Matteo Renzi viene definito "un entusiastico sostenitore di Uber".

Il leader di Italia Viva ha risposto alle domande di L'Espresso spiegando di non aver "mai seguito personalmente" le questioni dei taxi e dei trasporti, che venivano gestite "a livello ministeriale, non dal primo ministro". L'Espresso, comunque, sottolinea che il governo guidato da Matteo Renzi non ha approvato alcun provvedimento a favore del colosso californiano.

Da ilsole24ore.com l'11 luglio 2022.

Il giornale inglese Guardian ha ottenuto oltre 124mila documenti confidenziali interni a Uber, denominati «Uber Files» e relativi al periodo compreso fra il 2013 e il 2017, cioè quando alla guida della società c’era Travis Kalanick, che rivelano un sistema di lobbying e pubbliche relazioni attuato dalla società per provare a ottenere l’appoggio di politici di spicco per scombussolare il settore dei taxi in Europa. 

«Non abbiamo e non creeremo scuse per comportamenti passati che chiaramente non sono in linea con i nostri valori attuali. Chiediamo invece al pubblico di giudicarci in base a ciò che abbiamo fatto negli ultimi cinque anni e cosa faremo negli anni a venire», afferma Uber in una dichiarazione riportata dal Guardian.

Oltre 80mila mail e messaggi

I file consistono in circa 83mila e-mail, nonché iMessage e messaggi WhatsApp, come pure memo, presentazioni e fatture. «Per agevolare un’inchiesta globale», il Guardian spiega di avere condiviso i documenti con 180 giornalisti in 29 Paesi tramite il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (ICIJ) e con una serie di media, fra cui Bbc Panorama e Le Monde.

In particolare emerge che Emmanuel Macron, quando era ministro delle Finanze, avrebbe «segretamente aiutato Uber a fare lobbying in Francia», scrive il Guardian, sottolineando che allora l’attuale presidente francese permise «a Uber accesso frequente e diretto a lui e al suo staff».

Dai file risulta inoltre che Uber avrebbe provato a fare lobbying sull’attuale cancelliere tedesco Olaf Scholz, ai tempi sindaco di Amburgo e che si opponeva a Uber, e sull’attuale presidente Usa Joe Biden, ai tempi vice presidente di Barack Obama. 

Bbc riporta poi che i file mostrano che l’ex commissaria Ue per il Digitale, Neelie Kroes, «fu in trattative per unirsi a Uber prima della fine del suo mandato e poi segretamente fece pressioni per l’azienda, in potenziale violazione delle norme etiche dell’Ue».

«Allora - prosegue Bbc - Uber non era solo una delle aziende in più rapida crescita al mondo: era una delle più controverse, perseguitata da casi giudiziari, accuse di molestie sessuali e scandali di violazione dei dati». 

Interruzione di emergenza

Gli «Uber files» rivelano anche che l’ex capo della società Travis Kalanick, che fu poi costretto a lasciare nel 2017, ordinò personalmente di usare il cosiddetto “kill switch”, cioè una sorta di interruttore d’emergenza per evitare che la polizia in eventuali raid potesse avere accesso ai computer.

In uno degli scambi riportati dal Guardian, inoltre, Kalanick respingeva le preoccupazioni di altri dirigenti sul fatto che l’invio di conducenti Uber a una protesta in Francia li mettesse a rischio di violenza da parte di taxisti arrabbiat e diceva: «Penso che ne valga la pena», «la violenza garantisce il successo». 

Nella replica di Uber riportata dal Guardian, l’azienda sottolinea che il sostituto di Kalanick, Dara Khosrowshahi, è stato «incaricato di trasformare ogni aspetto del modo in cui operava Uber» e ha «installato i rigorosi controlli e la conformità necessari per operare come società per azioni».

Uber Files, la super lobby: dagli Usa a Roma, soldi e manovre per cambiare leggi e condizionare governi. L’«Operation Renzi» in Italia. I favori di Macron in Francia. Il contratto per l’ex commissaria europea Kroes. Gli incontri con Biden e Netanyahu. Oltre 124 mila documenti svelano i segreti della multinazionale. La nuova inchiesta de L’Espresso con il consorzio Icij. E domenica prossima in edicola tutti i particolari sulle operazioni italiane. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 10 Luglio 2022.

Lavoratori sfruttati, sottopagati, spiati, licenziati senza preavviso né giustificazione. Programmi segreti per bloccare i computer aziendali durante le perquisizioni di polizia. Soldi spostati nei paradisi fiscali per non pagare le tasse, mentre nei bilanci ufficiali vengono esposte perdite miliardarie. Accordi da centinaia di milioni con gli oligarchi e i banchieri russi più vicini a Putin. E una massiccia attività di lobby per reclutare politici, comprare consensi, condizionare e orientare leggi e regolamenti in tutto il mondo.

Sono i segreti di Uber, la multinazionale che ha rivoluzionato il sistema dei trasporti privati con le nuove tecnologie di Internet. E che in Italia proprio in questi giorni è al centro delle proteste e degli scioperi dei sindacati dei taxi, che accusano il governo Draghi di aver varato una riforma su misura, ora all’esame finale del Parlamento, per favorire il colosso californiano. 

Uber Files è il nome di questa inchiesta giornalistica che ha unito più di 180 cronisti di 44 testate internazionali, tra cui L'Espresso in esclusiva per l'Italia. I reporter di 29 nazioni hanno analizzato per più di sei mesi, insieme, oltre 124 mila documenti interni della multinazionale, ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij). Le notizie scoperte grazie a questo lavoro collettivo vengono pubblicate in simultanea, a partire dalle 18 di oggi domenica 10 luglio, da Le Monde, Bbc, Washington Post, El Pais, Sueddeutsche Zeitung e altri mezzi d'informazione dall'India all'Argentina, dalla Finlandia al Sudafrica.

Il materiale al centro della fuga di notizie va dal 2013 al 2017 e comprende circa 83 mila email dei manager di Uber: quattro anni di messaggi e comunicazioni riservate che rivelano, in particolare, le pressioni su politici e amministratori pubblici di decine di nazioni, per evitare procedimenti giudiziari e piegare le norme statali agli interessi della multinazionale. Casi mai emersi prima, che chiamano in causa personalità di altissimo livello come l'attuale presidente francese Emmanuel Macron e l'ex vicepresidente della Commissione europea Neelie Kroos.

Uber Files, l'inchiesta che svela i segreti del gigante dei trasporti

«Italy - Operation Renzi» è il nome in codice di una campagna di pressione organizzata dalla multinazionale, dal 2014 e il 2016, con l'obiettivo di agganciare e condizionare l'allora presidente del consiglio e alcuni ministri e parlamentari del Pd. Nelle mail dei manager americani, Matteo Renzi viene definito «un entusiastico sostenitore di Uber». Per avvicinare l'allora capo del governo italiano la multinazionale ha utilizzato, oltre ai propri lobbisti, personalità istituzionali come John Phillips, in quegli anni ambasciatore degli Stati Uniti a Roma. Il leader di Italia Viva ha risposto alle domande de L'Espresso spiegando di non aver «mai seguito personalmente» le questioni dei taxi e dei trasporti, che venivano gestite «a livello ministeriale, non dal primo ministro». Renzi conferma di aver incontrato più volte l'ambasciatore Phillips, ma non ricorda di aver mai parlato di Uber con lui o con altri lobbisti americani. E comunque il governo Renzi non ha approvato alcun provvedimento a favore del colosso californiano.

Tutti i particolari sulla «Operation Renzi» e sulle altre manovre di Uber per condizionare la politica italiana, cambiare le leggi e sfuggire ai processi verranno pubblicati sul prossimo numero de L'Espresso, in edicola da domenica 17 luglio con numerosi articoli accessibili da venerdì 15 per gli abbonati all'edizione digitale. 

Un autorevole intervento politico a favore di Uber risulta documentato in Francia, che nel 2015 era attraversata da un'ondata di proteste dei taxi contro la multinazionale americana, con motivazioni molto simili alle agitazioni di oggi in Italia. Dopo giorni di scontri in diverse città, il 20 ottobre le autorità di Marsiglia decisero di sospendere Uber, dichiarando illegale la sua attività per mancanza delle licenze pubbliche richieste dalla legge francese (come da quella italiana, in attesa della prevista riforma) per tutti i tassisti e autisti privati. Il giorno dopo, il manager Mark MacGann, responsabile delle politiche aziendali di Uber in Europa, ha mandato una mail a Macron, allora ministro dell'Economia, chiedendogli apertamente di intervenire sulla prefettura.

Macron gli ha risposto alle 6.54 del mattino del 22 ottobre 2015, con questo messaggio: «Me ne occuperò personalmente. Restiamo calmi in questo momento». La sera stessa, le autorità di Marsiglia hanno modificato il provvedimento in un modo che i manager di Uber hanno festeggiato come una vittoria. A quel punto MacGann ha ringraziato personalmente Macron per la «buona cooperazione del suo ufficio»: «Grazie per il vostro supporto».

Gli Uber Files documentano altri messaggi privati e almeno quattro incontri, finora rimasti segreti, tra l'allora ministro Macron e i rappresentanti della multinazionale. Negli stessi mesi la società americana stava fronteggiando pesanti indagini giudiziarie in Francia, con accuse di sfruttamento economico degli autisti e violazione delle leggi di tutela dei lavoratori dipendenti.

Il presidente francese, contattato dal consorzio attraverso il suo staff, ha difeso le scelte del governo di Parigi nei mesi della rivolta dei taxi, ma non ha risposto alle domande sui rapporti personali con Uber. La multinazionale ha dichiarato di non aver mai beneficiato di trattamenti di favore in Francia. E le autorità di Marsiglia, attraverso un portavoce, hanno smentito di aver subito pressioni da Macron.

Il caso francese non è isolato: è la prassi di questa multinazionale. Negli Uber Files si legge che tra il 2014 e il 2016 i manager e i lobbisti di Uber hanno avuto più di 100 incontri riservati con leader politici ed esponenti delle istituzioni di decine di nazioni, tra cui almeno 12 rappresentanti della Commissione europea. Questi «meeting» non erano mai stati rivelati prima d'ora.

Dalle carte aziendali emerge una schedatura di oltre 1.800 esponenti della politica e delle istituzioni di mezzo mondo che vengono indicati come obiettivi delle attività di lobby della multinazionale. I documenti mostrano che in quegli anni i massimi dirigenti della società hanno incontrato, tra gli altri, l'allora vicepresidente americano Joe Biden, il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu, il primo ministro irlandese Enda Kenny, il presidente dell'Estonia Toomas Hendrik e molti altri leader allora in carica, chiedendo a tutti di cambiare leggi o pronunciarsi a favore della multinazionale. Biden lo ha fatto pubblicamente in un discorso al vertice di Davos. La multinazionale lo aveva avvicinato attraverso David Plouffe, già organizzatore della campagna elettorale che nel 2008 portò Obama alla presidenza, poi assunto da Uber. 

Il colosso americano del noleggio di autisti ha assunto decine di ex politici e funzionari pubblici, trasformandoli in propri manager e lobbisti. Un caso esemplare riguarda Neelie Kroes, che è stata ministro dei trasporti nel governo olandese e vicepresidente della Commissione europea con delega alla concorrenza fino all'ottobre 2014, con competenze strategiche per Uber. Cessata la carica pubblica, le regole della Ue vietano di farsi assumere da aziende private per almeno 18 mesi, per evitare conflitti d'interesse.

Un anno dopo aver lasciato la Commissione, Kroes ha chiesto di essere autorizzata a ottenere entrare nel comitato dei consulenti di Uber con un contratto retribuito. La Commissione ha respinto la sua richiesta. Gli Uber Files ora rivelano che in quel periodo, nonostante il divieto, Neelie Kroes ha fatto pressioni su un ministro e altri esponenti del governo olandese «per obbligare le autorità di controllo e la polizia a lasciar cadere» un'indagine sulla sede europea di Uber ad Amsterdam, come si legge nelle carte. Tra aprile e maggio del 2016, appena è scaduto il termine di 18 mesi, l'ex commissaria europea si è fatta assumere nel comitato di Uber accettando, come scrive lei stessa in una mail, uno stipendio di 200 mila dollari. E a fine mese era già al lavoro per organizzare un incontro tra i vertici di Uber e un commissario europeo in carica.

La signora Kroes ha risposto alle domande dei giornalisti di Icij con una nota scritta: «Rispettando i mie doveri etici di ex commissario europeo, non ho accettato nessun incarico formale o informale da Uber» prima della fine del periodo di divieto. In quei 18 mesi, ha precisato di aver svolto solo «un’attività non pagata per un'organizzazione olandese di supporto delle start-up», carica che richiedeva di «interagire con una vasta gamma di aziende private e strutture governative», tra cui evidentemente la centrale olandese di Uber. Kroes sostiene di aver svolto questo ruolo su richiesta del governo olandese e con l'approvazione della Commissione europea.

Tra il 2013 e il 2017, nei quattro anni coperti dagli Uber Files, la multinazionale americana ha lanciato un'aggressiva strategia di conquista di nuovi mercati, scontrandosi con le leggi e le autorità di controllo in diversi paesi, dall'Europa all'India, dalla Thailandia agli stessi Stati Uniti. Per affermarsi e sconfiggere la concorrenza dei taxi, ha adottato una filosofia aziendale del fatto compiuto, che viene riassunta dagli stessi top manager di Uber con frasi sconcertanti. «Siamo fottutamente illegali». «Meglio chiedere il perdono che il permesso». «Prima partiamo con l'attività, poi arriva la tempesta di m..rda delle regole e controlli».

Le carte interne della multinazionale descrivono anche un programma informatico segreto, chiamato in gergo «Kill switch», che interrompe i collegamenti con la rete dei computer aziendali e impedisce alle forze di polizia di acquisire i dati in caso di perquisizioni o controlli. Gli Uber Files mostrano che il sistema è stato utilizzato per eludere le indagini in almeno sei nazioni, tra cui Francia, India e Canada. Travis Kalanick, uno dei due fondatori di Uber, risulta aver ordinato personalmente di usare il programma ammazza-computer proprio mentre la polizia olandese stava perquisendo il quartier generale della multinazionale ad Amsterdam. «Schiacciate il kill switch al più presto possibile, l'accesso ad Amtserdam dev'essere chiuso», si legge nel documento intestato al super manager.

Gli avvocati di Kalanick hanno replicato a queste rivelazioni dichiarando che lui non ha mai dato nessun ordine del genere, né di eludere altre indagini o controlli in nessuna nazione, e hanno aggiunto che quel documento potrebbe non essere autentico, ma fabbricato da altri manager per screditarlo.

Kalanick, che aveva creato Uber nel 2009 a San Francisco insieme all'amico e socio Garrett Camp, ne è stato il capo indiscusso fino al 2017, quando è stato rimpiazzato da un nuovo amministratore delegato, Dara Khosrowshahi. Un cambio della guardia provocato da una vasta serie di indagini, cause civili e procedimenti amministrativi avviati negli Stati Uniti, con accuse di violazioni sistematiche delle leggi sul lavoro e sfruttamento degli autisti, fino a casi di molestie sessuali e discriminazioni razziali. I nuovi vertici di Uber, attraverso un portavoce, oggi confermano che in quegli anni sono stati commessi «errori» e «passi falsi» che hanno portato a quella «clamorosa resa dei conti con le autorità americane». «Oggi Uber è una società completamente diversa», assicura il portavoce in una nota scritta: «il 90 per cento degli attuali dipendenti è stato assunto dopo l'arrivo di Dara nel 2017». Kalanick è rimasto dirigente della multinazionale fino al 2019.

Dall'Europa all'Asia, dall'Africa al Sudamerica, l'arrivo di Uber, che ha potuto approfittare della mancanza di regole e controlli degli Stati nazionali sulle piattaforme di Internet, ha scatenato ondate di proteste delle organizzazioni dei taxi e degli autisti privati, che per lavorare hanno invece bisogno di ottenere costose e contingentate licenze pubbliche. In Francia, India e altri Paesi le rivolte dei tassisti sono degenerate, in alcune città, in violenze e aggressioni contro i poveri autisti precari di Uber. Le email più allucinanti mostrano che i top manager della multinazionale erano contenti di quei raid: «La violenza ci garantisce il successo», si legge in un messaggio firmato da Kalanick. Mentre un suo manager, riferendo la notizia di pestaggio, conclude: «Bella storia!». La multinazionale inoltre insufflava le notizie delle violenze a giornalisti amici per scatenare campagne mediatiche contro i tassisti.

Un portavoce di Kalanick, in una nota scritta, smentisce che anche quella mail di elogio delle aggressioni possa essere attribuita a lui. E afferma invece che «il signor Kalanick non ha mai suggerito che Uber potesse ricavare vantaggi dalle violenze commesse a danno della sicurezza degli autisti». Mentre l'attuale vertice della società dichiara che la politica di Uber è cambiata anche rispetto alle organizzazioni dei taxi, passando «dal confronto alla collaborazione».

A rovinare la festa della legalità ritrovata è però un'indagine penale della Guardia di Finanza e della Procura di Milano, con il pm Paolo Storari, che ha portato al commissariamento, dall'aprile 2020 al marzo 2021, di Uber Italy. La filiale italiana della multinazionale è stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria con l’accusa-shock di caporalato, cioè di sfruttamento criminale della manodopera attraverso un giro di intermediari. Le vittime sono decine di immigrati molto poveri, africani e asiatici, che dal 2018 al 2020 consegnavano cibo in bicicletta, a Milano, Torino, Roma e altre città, per salari bassissimi (3 euro a consegna, per qualsiasi distanza, per un totale di 300-400 euro al mese al massimo) senza ottenere contratti, assicurazioni, misure di sicurezza e contributi sanitari e pensionistici.

Gli intermediari sono già stati condannati in tribunale, mentre una dirigente di Uber è in attesa del processo di primo grado e si proclama innocente. La multinazionale ha comunque risarcito circa cinquemila euro per ogni «rider» sfruttato e ne ha versati altri centomila alla Cgil, che userà la somma per la tutela e l'assistenza legale di tutti i dipendenti precari delle società di trasporti e consegne della cosiddetta «new economy».

Sul piano economico, a livello globale, Uber rimane un vero miracolo di Internet: i bilanci mostrano che la multinazionale ha continuato ad accumulare perdite fin dalla sua fondazione per più di dieci anni, per un passivo totale di oltre 20 miliardi di dollari, fino al pareggio raggiunto solo tra il 2021 e il 2022. E intanto ha continuato a distribuire compensi multimilionari ai propri manager e a schiere di lobbisti e consulenti. Le carte mostrano che nel 2016 Uber programmava di spendere oltre 60 milioni di dollari solo in attività di lobby. In tutti questi anni, nonostante i conti negativi, la multinazionale ha saputo attrarre molti nuovi investitori, anche in Italia, e far aumentare il valore delle sue azioni, per l'aspettativa di profitti futuri. Nel maggio scorso gli azionisti di Uber hanno votato contro una proposta di rendere pubbliche le spese per le attività di lobby e consulenze politiche. E ora il nuovo vertice ha respinto le richieste dei giornalisti del consorzio di conoscere le cifre, almeno per il 2021, e i nomi dei beneficiari. 

Questa inchiesta è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell'Espresso e delle altre testate che fanno parte del consorzio Icij, in particolare Sydney Freedberg, Nicole Sadek, Brenda Medina, Agustin Armendariz, Karrie Kehoe, Scilla Alecci, Dean Starkman, Delphine Reuter, Ben Hallman, Jelena Cosic, Fergus Shiel, Mike Hudson, Emilia Diaz-Struck, Miguel Fiandor, Richard H.P. Sia, Hamish Boland-Rudder, Asraa Mustufa, Pierre Romera, Gerard Ryle, Antonio Cucho Gamboa, Joe Hillhouse, Tom Stites, Whitney Awanayah, Margot Williams, Soline Ledésert, Bruno Thomas, Caroline Desprat, Maxime Vanza Lutaonda, Damien Leloup, Adrien Senecat, Elodie Gueguen, Felicity Lawrence, Rob Davies, Jennifer Rankin, Aaron Davis, Robin Amer, Joseph Menn, Douglas MacMillan, Rick Noack, Linda van der Pol, Uri Blau, Dirk Waterval, Karlijn Kuijpers.

Uber Files, Carlo De Benedetti ex azionista del colosso Usa e mediatore segreto con il governo Renzi. Dall’ingegnere mail e chiamate ai ministri per favorire la multinazionale. Mentre un super lobbista americano manovra la campagna per il referendum del 2016. L’inchiesta de L’Espresso con Icij e Guardian svela anni di pressioni aziendali sulla politica italiana. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso l'11 luglio 2022.

Carlo De Benedetti azionista di Uber per molti anni e propagandista della multinazionale con Matteo Renzi e il suo governo. Che negli stessi mesi utilizzava un super lobbista del colosso americano come stratega della campagna elettorale per il referendum costituzionale del dicembre 2016.

Sono storie italiane che emergono dagli Uber Files, oltre 124 mila documenti interni della società di trasporto privato ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij), di cui fa parte L'Espresso in esclusiva per l'Italia.

LA REPLICA. Uber Files, Matteo Renzi: “Mai fatto leggi per Uber, mai incontrato i suoi manager”. Le risposte integrali del leader di Italia Viva, Matteo Renzi, alle domande inviategli da L’Espresso e dal consorzio Icij. su L'Espresso il 15 Luglio 2022.

Ecco le risposte integrali del leader di Italia Viva, Matteo Renzi, alle domande inviategli da L’Espresso e dal consorzio Icij, alle 9.30 del primo luglio, sugli Uber Files, che riguardano le attività di lobby organizzate dalla multinazionale tra il 2014 e il 2016, quando era presidente del consiglio e segretario del Pd.

Gentili Signori,

abbiamo ricevuto le vostre gentili richieste di chiarimento sui rapporti tra Uber, Jim Messina e Matteo Renzi. Precisiamo che molte risposte avrebbero necessità di verifiche ufficiali che non riusciamo a fare in un arco di tempo così ristretto non avendo immediato accesso ai file di agenda, whastapp, sms, email documenti di Palazzo Chigi. Speriamo di aver fatto tuttavia un lavoro utile con queste brevi precisazioni.

1. Confermiamo che Jim Messina e Matteo Renzi si conoscono da prima che Renzi diventasse primo ministro. Il loro primo incontro dovrebbe essere databile dicembre 2012-inizio 2013 a Firenze.

2. Confermiamo che Messina ha collaborato con Renzi nella campagna elettorale per il referendum costituzionale del dicembre 2016.

3. Renzi ricorda di aver parlato numerose volte di politica nazionale e internazionale con Messina – almeno una decina di volte – ma non crede di aver mai parlato con Messina di Uber. Se l’argomento è stato toccato in una conversazione, questo è accaduto come argomento a margine. Negli appunti di Renzi rispetto agli incontri con Messina non c’è mai riferimento a Uber ma altre valutazioni (campagna referendaria, situazione politica, rapporti con Casa Bianca).

4. Le istituzioni da voi citate (Autorità per la Concorrenza, Autorità dei trasporti, Consiglio di Stato) sono tre istituzioni indipendenti che non hanno – per legge – alcun vincolo con il Governo. Ove anche Renzi avesse voluto far qualcosa sul tema, non aveva alcun margine di intervento presso le citate autorità.

5. Renzi ricorda che in quel periodo vi erano numerose discussioni sul tema taxi ma a differenza di altri argomenti su cui il Governo si impegnò politicamente in Parlamento, anche mettendo la fiducia il dossier taxi fu sempre seguito a livello ministeriale e non dal Primo Ministro come molti altri tra cui ad esempio la riforma delle banche popolari o l’introduzione delle unioni civili per persone dello stesso sesso. Queste vicende furono seguite da Renzi, i taxi no

6. Renzi non ricorda il particolare per cui il suo ex portavoce, Filippo Sensi, avrebbe suggerito di non incontrare il fondatore di Uber. Non risulta, insomma, una segnalazione negativa sul fondatore che peraltro Renzi crede di non avere mai incontrato. E crede che non ci sia alcuna richiesta ufficiale di incontro (da confermare, però, una volta verificate le email e le agende).

7. A Renzi risulta invece che uno stretto collaboratore dell’ex ministro degli esteri – e poi primo ministro – Paolo Gentiloni sia stato assunto da Uber dopo la fine del Governo Gentiloni. Ma questa assunzione non fu comunicata preventivamente a Renzi che la apprese dal comunicato ufficiale.

8. I nomi dei partecipanti alle cene di finanziamento del Partito Democratico sono pubblici e trasparenti. Si tratta di centinaia di persone che versavano mille € a testa. Renzi non ricorda se vi fossero dei manager di Uber ma lo ritiene ampiamente probabile visto che le cene vedevano una partecipazione molto numerosa di tanti esponenti della comunità imprenditoriale e finanziaria.

Speriamo di essere stati utili al vostro lavoro giornalistico.

Cordialmente,

l’Ufficio del Senatore Matteo Renzi

Lunedì 11 luglio, dopo la pubblicazione sul nostro sito dei primi articoli sugli Uber Files, il senatore Matteo Renzi ha risposto anche a un’ulteriore domanda, inviatagli da L’Espresso e dal consorzio Icij il precedente giovedì 7 luglio, che riguarda tre manager della multinazionale, fotografati a Roma nel gennaio 2016, tra cui il dirigente per l’Italia, ripreso mentre entrava nella sede centrale del Pd.

Ribadiamo anche alla luce del titolo del vostro giornale online che non risultano incontri di Renzi coi vertici Uber e non risultano leggi a favore di Uber.

Quanto a incontri nella sede del Pd, fateci sapere le date e vi diremo dove era Renzi quel giorno.

Possiamo però già̀ escludere che egli utilizzasse l’ufficio di segretario del Pd perché ha sempre svolto tutti gli incontri a Palazzo Chigi. Egli frequentava la sede del Pd solo per le riunioni degli organi di partito.

Ovviamente non abbiamo alcuna idea di chi possano aver incontrato i dirigenti Uber alla sede del Pd nè potremmo averla visto che - ribadiamo - Renzi non ha incontrato il ceo di Uber e Renzi non ha fatto norme a favore di Uber.

Uber Files, Maria Elena Boschi: “Nessun favore né pressione”. Le risposte integrali dell’ex ministro alle domande inviatele da L’Espresso anche a nome delle altre testate internazionali che fanno parte del consorzio giornalistico Icij. L'Espresso il 15 Luglio 2022.

Ecco le risposte dell’ex ministra Maria Elena Boschi alle domande rivolte dall’Espresso e dal consorzio Icij in merito all’inchiesta Uber Files

«Gentili signori,

1 - Ho controllato nei messaggi whatsapp del mio cellulare privato – l’unico che avevo anche quando ero al governo – e non vi è traccia del messaggio di Carlo De Benedetti di cui parlate. Non posso controllare email del governo perché non ho più accesso. Per facilitarvi l’opera: non ho fatto approvare alcuna norma per Uber, non ho mai subito alcuna “influenza” da parte dell’ingegner De Benedetti che ho visto ovviamente in plurime circostanze istituzionali e conviviali ma che non ha mai posto il tema che voi ricordate.

Quanto al paragone con Margaret Thatcher siamo oltre ogni immaginazione: la lady di ferro ha scritto pagine di storie molto significative ed è stata una donna di grandi capacità, ma nella mia formazione di cattolica impegnata nel sociale è quanto di più lontano dai miei modelli politici.

2. Nella mia veste di ministro dei rapporti col Parlamento con il governo Renzi lavoravo su tutti i dossier all’attenzione delle camere. Sorrido quando leggo “parlamentari Pd vicini a Renzi”. In quella legislatura la maggioranza assoluta si definiva vicino a Renzi. Ma quello che il Governo voleva far passare in Aula passava. Quello che non riteneva prioritario, non passava. Se non è mai passata una norma pro Uber evidentemente è perché il Governo Renzi non voleva farla passare.

3. Sotto il governo Renzi il dossier trasporto pubblico era nelle mani del ministro Delrio. Sotto il governo Gentiloni ricordo che era seguita anche dal capo dello staff del premier, Funiciello.

4. Credo di aver incontrato praticamente tutti i soggetti portatori di interesse soprattutto quando ero sottosegretario con il governo Gentiloni. Non ricordo di preciso se anche Uber e in quale forma. I miei incontri sono però annotati nell’agenda ufficiale, per ragioni di trasparenza, e dunque appena potremo accedere al materiale di palazzo Chigi verificheremo. Se incontri ci sono stati, sono stati nelle sedi istituzionali e ufficialmente registrati come tali. L’esito di questi eventuali incontri – che al momento tuttavia non posso confermare – è quello che ho scritto prima: nessuna influenza di soggetti esterni sulle scelte del governo, nessuna misura di favore per Uber. Maria Elena Boschi

Uber files, ecco gli italiani che hanno lavorato per il colosso dei trasporti. Renzi e Boschi al governo, Berlusconi fan occulto ma considerato “tossico”. E le pressioni di Carlo De Benedetti che aveva investito sulla app. Chi ha provato a spianare la strada a Uber svelato da un’inchiesta internazionale. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 15 Luglio 2022.

Il 25 gennaio 2016 il general manager di Uber in Italia, Carlo Tursi, scrive una mail ai vertici europei della multinazionale: «Ho appena incontrato il nostro azionista Carlo De Benedetti a Lugano. Incontro molto positivo, è impegnato e deciso a sostenerci come sempre». Il manager spiega anche come l'imprenditore italiano si stia spendendo per Uber, virgolettandone alcune parole: «Ha inviato una mail e un messaggio whatsapp al ministro Boschi, mentre ero lì, elogiando i benefici economici per un Paese di aziende come Uber, definendo questo fenomeno "inevitabile" e "inarrestabile" e rappresentandoci come un simbolo di modernità, che dovrebbe essere molto in linea con la filosofia di questo governo, soprattutto di "una millennial" come lei». 

Uber Files, Silvio Berlusconi: “Nessun affare con Uber”. La risposta dell’avvocato Niccolò Ghedini alle domande fatte dall’Espresso e dal consorzio Icij in merito all’inchiesta sulla società di trasporti. L'Espresso il 15 Luglio 2022.

Ecco la lettera integrale dell’avvocato Niccolò Ghedini con le risposte alle domande de L’Espresso sui rapporti tra Silvio Berlusconi e la multinazionale americana per l'inchiesta Uber Files.

Il difensore del leader di Forza Italia conferma che la società H14, che appartiene a tre figli del Cavaliere, aveva avviato una trattativa per un possibile investimento in Uber, ma spiega che poi l’accordo non è stato raggiunto, per cui nessun componente della famiglia Berlusconi è mai diventato azionista di Uber.

Illustri Dottori,

in merito alla Vostra richiesta di informazioni dell’8 luglio scorso e alle domande in essa riportate, segnalo quanto segue in ordine ai quesiti sottoposti alla mia attenzione:

1) si può escludere categoricamente che il Dottor Silvio Berlusconi abbia mai avuto alcun collegamento diretto e/o indiretto personalmente o per il tramite delle società del suo gruppo, né abbia mai avuto tantomeno alcun interesse economico, né alcuna partecipazione azionaria, né qualsiasi altro tipo di interessamento finanziario nella multinazionale americana Uber.

L’ipotesi, poi, di aver mantenuto la massima riservatezza sull’eventuale investimento è francamente incomprensibile. Difatti non vi sarebbe stato nulla di men che lecito in un investimento in una società, che in allora appariva in fortissima crescita. Ove vi dovessero essere documenti di Uber in cui si auspica un interessamento del Presidente Berlusconi non può che trattarsi di atti interni unilaterali mai pervenuti e mai conosciuti dal medesimo o dai suoi dirigenti;

2) non siamo a conoscenza della sussistenza o meno di eventuali asseriti rapporti di lobby e/o di finanziamento tra la multinazionale americana Uber e partiti politici italiani diversi da Forza Italia. Possiamo escludere in maniera assoluta, che mai vi siano stati finanziamenti a Forza Italia.

Certamente, come peraltro da voi già rappresentato, Forza Italia non è mai stata toccata da simili asserite situazioni e non posso che ribadire l'inesistenza, nel passato e fino a tutt'oggi, di alcuna trattativa economica, foss’anche soltanto esplorativa, tra Silvio Berlusconi, così come anche per Forza Italia, e la multinazionale Uber in questione;

3) nessuno dei famigliari del Dottor Silvio Berlusconi possiede quote azionarie né alcun altro interesse economico diretto e/o indiretto nella multinazionale Uber;

4) nel corso dell’anno 2014 e nell’ambito del proprio oggetto societario, la società H14, di cui il dottor Luigi Berlusconi è proprietario insieme alle sorelle Barbara ed Eleonora, ha sviluppato svariati e differenziati investimenti nel settore digitale, informatico ed internet, tra i quali era stata valutata, a seguito di una manifestazione di interesse da parte di Uber, anche una potenziale acquisizione di quote della multinazionale in commento. Tale ipotizzata operazione commerciale, tuttavia, si è appalesata subito economicamente non conveniente ed è stata abbandonata, fin dalla fase della raccolta delle informazioni preliminari e senza iniziare alcuna reale trattativa, a causa dell’assoluta non congruità della cifra richiesta per l'acquisto delle quote di Uber;

5) il Dottor Valentino Valentini non è mai intervenuto nella gestione di affari economici per il Dottor Silvio Berlusconi e per le società a lui collegate, né per i suoi famigliari. Mi consta che, proprio nel 2014, sia per la perfetta conoscenza della lingua sia perché in quel momento il dottor Luigi Berlusconi aveva alcuni problemi di salute, gli era stato richiesto da quest'ultimo se poteva in qualche modo agevolare un contatto fra il CEO dell’H14 e Uber. Il Dottor Valentini, quindi, a titolo di mera cortesia si è limitato a facilitare il contatto senza in alcun modo intervenire nelle vicende successive. Comunque, ed in sintesi, nessun investimento è mai stato effettuato dalla società H14 in Uber.

6) per quanto attiene il signor Khaled Helioui si può del tutto escludere che vi sia qualche collegamento con la vicenda Uber, che, come già detto e come certamente risulterà dalla documentazione, non è neppure pervenuta ad una fase di reale trattativa. Infine si può radicalmente escludere, come del resto risulta dai bilanci di H14, che nel passato la società abbia posseduto una quota azionaria di Uber.

Con molti cordiali saluti. Silvio Berlusconi

Uber Files, l’Istituto Bruno Leoni: “Da Uber piccole donazioni che non ci influenzano”. Le risposte dell’Istituto alle domande de L’Espresso e del consorzio Icij sugli Uber Files. L'Espresso il 15 Luglio 2022.

Ecco le risposte dell’Istituto Bruno Leoni alle domande de L’Espresso e del consorzio Icij sugli Uber Files. Pubblichiamo il testo integrale, dove il portavoce del centro studi trascrive anche le nostre domande, che riportiamo in grassetto. 

Ecco le risposte dell’Istituto Bruno Leoni alle domande de L’Espresso e del consorzio Icij sugli Uber Files. Pubblichiamo il testo integrale, dove il portavoce del centro studi trascrive anche le nostre domande, che riportiamo in grassetto.

In base a una serie di documenti da noi esaminati, che si riferiscono soprattutto al periodo 2014-2016, risulta che Uber, ai suoi massimi livelli dirigenziali, considerava il vostro istituto come un partner importante in una prolungata attività di lobby diretta a influenzare e orientare la legislazione italiana e le regolamentazioni degli enti locali in senso favorevole agli interessi della multinazionale americana. Nei documenti si legge, in particolare, che «l'Istituto Bruno Leoni ci ha fortemente aiutati fin dall'inizio». Il vostro istituto viene indicato come attivo a favore di Uber anche a livello locale, nei confronti di alcune importanti amministrazioni comunali, come mostra ad esempio un report del febbraio 2015 che riproduciamo nel testo originale inglese: «Turin has been one of the city where we have been most vocal through third parties as Istituto Bruno Leoni».

Che rapporto ha avuto l'Istituto Bruno Leoni con Uber? L'Istituto ha ricevuto da Uber finanziamenti o pagamenti per attività di lobby? L'istituto ha ricevuto da Uber, o da società di lobbying al servizio di Uber, sponsorizzazioni, contributi, pagamenti o rimborsi spese per organizzare incontri, convegni o per pubblicare studi e ricerche sulle questioni del trasporto privato, norme sui taxi o altri temi di interesse della multinazionale californiana?

Prima di rispondere alle vostre domande è opportuno tener presenti le premesse ideali dell’Istituto Bruno Leoni (IBL). Esso, come noto, è un think tank il cui obiettivo è promuovere il libero mercato e la concorrenza, attraverso la propria attività di ricerca e divulgazione, la pubblicazione di libri e studi e l’organizzazione di eventi. L’Istituto Bruno Leoni è indipendente sia dai partiti politici sia dai propri sostenitori. Allo scopo di garantire e mantenere questa indipendenza, l’Istituto cerca di garantirsi una base di sostenitori la più ampia possibile, in modo che nessun singolo donor possa avere una influenza determinante sulle proprie attività.

Maggiori informazioni sui sostenitori dell’Istituto sono disponibili su questa pagina web.

Altre informazioni sul nostro modello di finanziamento e sugli obiettivi e le modalità operative dell’Istituto sono disponibili qui. 

L’Istituto non svolge alcuna attività di lobbying o di rappresentanza di interessi - né a livello nazionale né men che meno a livello regionale o municipale. Si limita a realizzare ricerche e a partecipare al dibattito pubblico esprimendo una prospettiva coerentemente liberale. Il sostegno all’Istituto è dunque conseguente e non premessa del suo impegno e può avvenire attraverso la sottoscrizione di quote associative, l’erogazione di donazioni liberali oppure la sponsorizzazione di studi o eventi. La scelta degli argomenti da trattare e della prospettiva da assumere appartiene unicamente ai dirigenti dell’Istituto. La disponibilità di finanziamenti dedicati a specifici argomenti ci consente di dedicare maggiori risorse a tali argomenti che, comunque, fanno parte dell’attività istituzionale dell’IBL.

Per quanto riguarda la liberalizzazione del trasporto pubblico non di linea l’IBL ha preso posizioni ben definite fin dai primi anni della sua attività (e ben prima della fondazione stessa di Uber). Per esempio, un paper articolato che proponeva di raddoppiare il numero delle licenze fu pubblicato nel 2005, dopo che una analoga proposta era stata già avanzata nel 2004. Una semplice ricerca su Google può mostrare innumerevoli interventi e studi dell’Istituto pubblicati nel corso degli ultimi due decenni, sia prima che Uber ne sostenesse le attività, sia dopo che aveva smesso di farlo. L’avvento delle piattaforme di intermediazione come Uber e Lyft ha rappresentato un enorme fattore di cambiamento e sfida concorrenziale in un settore fino ad allora sostanzialmente immobile. È naturale quindi che l’IBL fosse e sia favorevole a queste innovazione, a prescindere da qualunque collaborazione con Uber. Sarebbe stato anzi stupefacente il contrario. Le posizioni dell’IBL in materia non sono peraltro sostanzialmente differenti da quelle espresse, sempre con l’obiettivo della liberalizzazione del settore, dalle competenti autorità indipendenti, ovvero, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (per esempio qui) e dall’Autorità di Regolazione dei Trasporti (per esempio qui).

Ciò premesso, quando Uber ha avviato le proprie attività in Italia ha contattato l’Istituto Bruno Leoni al fine di sostenerne le attività, ritenendo evidentemente utile alla propria causa l’esistenza di una voce autonoma e credibile a sostegno della concorrenza nel settore dei taxi. In particolare, Uber ha sostenuto l’IBL attraverso due contributi da 10.000 euro ciascuno nel 2014 e nel 2015 (corrispondenti, rispettivamente, all’1,1% e allo 0,9% delle entrate complessive nell’anno), e un terzo da 12.500 euro (pari all’1,0% delle entrate complessive) nel 2017. E’ anche grazie a questo supporto se l’Istituto ha potuto dedicare risorse specifiche al tema del trasporto urbano non di linea (ovvero allocare il tempo di alcuni ricercatori e componenti dello staff amministrativo/editoriale a vantaggio di tali temi), approfondendo la tematica e fornendo elementi utili al dibattito pubblico. Tutto ciò in piena e assoluta coerenza con i suoi obiettivi statutari che, come recita il claim di IBL, richiedono che esso fornisca “idee per il libero mercato”.

Altri documenti mostrano che Uber, dal 2014 al 2016, ha registrato e catalogato tra le proprie attività di lobby una serie di articoli e interventi pubblicati sia dal direttore generale che dal presidente del cda dell'Istituto in diversi giornali italiani. Nel marzo 2015 la multinazionale ha inserito l'Istituto Bruno Leoni nel suo “Communications and Public Affairs Plan for Uber in Italy", con specifico riferimento a progetti di ricerca e studi economici da affidare all'Istituto ma svolti per conto di Uber. I rapporti si sono sviluppati anche attraverso incontri pubblici e privati, di cui ricordiamo due esempi. Nel gennaio 2016 il manager Mark MacGann, responsabile della policy aziendale di Uber in Europa, ha partecipato a un incontro organizzato dall'Istituto Bruno Leoni, nella sede del Parlamento Europeo a Bruxelles, e ne ha poi spiegato i risultati ai propri collaboratori definendo l'Istituto «un forte e influente alleato di Uber in Italia». Nel luglio 2016 Carlo Tursi, general manager di Uber in Italia, ha organizzato un panel a Roma sulla sharing economy insieme a Franco Debenedetti, presidente dell'Istituto.

La frequenza e l'intensità di tali rapporti con una multinazionale privata può sollevare dubbi e perplessità sull'indipendenza dell'Istituto e degli studi e ricerche da voi pubblicati nelle materie di interesse di Uber, come la regolamentazione del settore dei trasporti privati e delle consegne a domicilio. Per consentirvi di dissipare tali dubbi, vi rivolgiamo dunque le seguenti domande. L'istituto Bruno Leoni ha pubblicizzato i propri rapporti con Uber e gli incontri con i suoi manager? Sono stati dichiarati gli eventuali contributi economici versati o procurati da Uber per organizzare incontri, convegni, studi e pubblicazioni?

I manager di Uber hanno partecipato ad alcuni eventi pubblici dell’Istituto Bruno Leoni. Per esempio, oltre al già richiamato evento di Bruxelles a cui ha partecipato Mark MacGann (la scheda dell’evento è disponibile qui), Carlo Tursi (all’epoca General manager di Uber Italia) ha partecipato a un convegno a Roma dal titolo “Impresa e innovazione. Il ruolo della sharing economy”, tenutosi l’11 luglio 2016. Inoltre, Tursi ha partecipato a un evento a porte chiuse dedicato al contributo che la transizione digitale può dare al turismo, svoltosi presso la sede dell’Istituto il 14 marzo 2016 (nel 2016, per inciso, IBL non ha ricevuto alcun contributo da Uber).

Per quanto riguarda la disclosure del supporto finanziario all’Istituto, la policy dell’IBL prevede che tale supporto sia rivelato solo in occasione di specifiche sponsorizzazioni (con esposizione di logo e relativo regime fiscale) ovvero su richiesta specifica di un donatore. La garanzia dell’indipendenza dell’Istituto, come abbiamo argomentato, si fonda proprio sulla presenza di una pluralità di sostenitori, che occasionalmente o continuativamente danno supporto all’Istituto senza poterne influenzare in alcun modo le prese di posizione. Queste ultime sono la declinazione dei suoi obiettivi statutari, ossia la promozione della concorrenza e della libertà economica. E’ del tutto normale che l’Istituto veda con favore aziende che, nei rispettivi settori, portano innovazione e disruption. Andrebbero semmai stigmatizzate, se vi fossero, prese di posizione dell’Istituto contrarie ai principi della libertà d’iniziative e legate al supporto economico: nel caso di specie, sarebbe sorprendente scoprire che l’IBL si è opposto alla liberalizzazione!

Questa policy di non disclosure dei donatori dell’Istituto è a sua volta funzionale alla sua stessa indipendenza: in questo modo, nessuno dei donor si sente in dovere di condividere tutte le posizioni dell’Istituto, né di fare pressioni quando osserva che l’Istituto prende posizioni contrarie ai suoi interessi o alle sue idee. Viceversa, se i sostenitori si sentissero in qualche modo “coinvolti” agli occhi del pubblico con le posizioni dell’IBL avrebbero probabilmente un maggiore incentivo a tentare di influenzarne la condotta. Capita sovente che una impresa o un individuo possa simpatizzare con una posizione espressa dall’Istituto (che si tratti della liberalizzazione del trasporto pubblico non di linea o delle critiche portate alla gestione Covid-19 e ai lockdown o delle critiche al golden power) senza per questo necessariamente sposarne la filosofia più ampia.

La pianificazione delle attività e il posizionamento dell’Istituto sui vari temi viene deciso in piena autonomia dalla dirigenza dell’IBL e cerca di tradurre in concreto il significato della libertà di iniziativa.

I contributi di Uber rappresentano solo una percentuale minima del totale delle entrate dell’Istituto. Il frazionamento dei sostenitori e dei contributi rappresenta un presidio di autonomia e indipendenza.

Infine, gli interventi sulla stampa del direttore generale, del presidente o di altri collaboratori dell’Istituto esprimono le opinioni personali di ciascuno e non sono concertati in seno all’Istituto stesso. Gli interventi esprimono le opinioni degli autori (che normalmente, quando firmano articolo sui giornali con i quali collaborano non si identificano con l’IBL). Nel caso specifico, se il direttore generale o il presidente hanno preso pubblicamente posizione a favore della concorrenza nel settore dei taxi, ciò è semplicemente ed esclusivamente in coerenza con le rispettive visioni e con la rispettiva storia, facilmente verificabili in entrambi i casi. Peraltro, che tali prese di posizione siano individuali e non impegnino l’Istituto è evidente dal fatto che su molti temi, anche rilevanti (per es. il Covid-19), persone che appartengono all’Istituto testimoniano opinioni legittimamente differenti, che vengono spesso espresse anche in pubblico (il Presidente e il direttore delle ricerche dell’Istituto da un lato, e il direttore generale dall’altro, hanno espresso opinioni pressoché opposte rispetto al green pass, per esempio). L’Istituto non è una organizzazione “militare” ma un gruppo di persone che condivide la stessa filosofia di base, è convinta che l’Italia e l’Europa abbiano bisogno di più libertà economica, ma ovviamente declina autonomamente e secondo le proprie inclinazioni, conoscenze e competenze questo pensiero. Questo pluralismo di punti di vista, oltre che essere coerente con la filosofia liberale dell’Istituto, è a nostro avviso un ulteriore elemento del modo di operare e una ulteriore garanzia di indipendenza dell’Istituto, oltre ovviamente a una fonte di arricchimento reciproco per i suoi membri e collaboratori.

I consiglieri di amministrazione e i dirigenti dell'Istituto hanno mai avuto partecipazioni azionarie o altri interessi economici in società collegate a Uber, personalmente o attraverso propri familiari o altre società personali?

Nessuno tra i dirigenti e i dipendenti dell’Istituto ha avuto interessi economici diretti o indiretti in Uber o in società collegate a Uber. Nessuno dei consiglieri di amministrazione e altri collaboratori dell’IBL, per quanto a nostra conoscenza, ha avuto interessi economici diretti o indiretti in Uber o in società ad essa collegate.

Nello statuto o nelle norme interne dell'Istituto sono previste norme per garantire l'indipendenza delle ricerche e per scongiurare pericoli di conflitti d'interesse?

L’indipendenza delle ricerche sta nella coerenza con gli obiettivi statutari dell’Istituto e nella dimensione media dei contributi, tutti di moderata entità rispetto al bilancio dell’Istituto (pari nel 2021 a circa 700 mila euro).

L’Istituto è indipendente da qualsiasi partito o gruppo politico, ma la sua indipendenza si sostanzia in primis in una linea intellettuale molto chiara e riconoscibile . Se e quando l’Istituto prenderà posizioni contro il libero mercato, allora si potrà evidentemente denunciarne l’incoerenza e sarà assolutamente opportuno chiedere quali condizioni l’abbiano determinata. Ma finché difende il libero mercato, e lo fa anche grazie alle donazioni di individui e imprese che ne condividono le idee (integralmente o limitatamente ad alcuni aspetti), non fa altro che realizzare i propri obiettivi statutari.

Paolo Russo per “La Stampa” il 27 luglio 2022.

Stop alla liberalizzazione delle licenze dei taxi. A parte questo, il ddl concorrenza è stato approvato a larga maggioranza dalla Camera con 345 si e i soli 41 no di Fdi e Alternativa. 

Un passaggio chiave per ottenere i 19 miliardi di euro della terza tranche del Pnrr, condizionata all'approvazione della riforma che dovrà ora fare un passaggio solo formale al Senato prima di approdare in Gazzetta Ufficiale.

Anche se quella approvata ieri è solo l'impalcatura di quel che resta del pacchetto liberalizzazioni dopo stralci vari, che per essere attuato deve vedere emanati i decreti applicativi entro l'anno dal governo che verrà. Intanto, la legge quadro è prossima a tagliare il traguardo dopo aver perso la contestata norma sui taxi, contro la quale si erano scagliati non sempre pacificamente i tassisti, spalleggiati non solo da Lega e Fdi, ma anche da Leu e spezzoni del Pd. Un atteggiamento che aveva spinto un indispettito Draghi a reclamare nel suo intervento sulla fiducia al Senato «un sostegno convinto all'Esecutivo anziché a proteste non autorizzate, a volte violente».

Alla fine i partiti si sono accordati per lo stralcio dell'articolo 10 che delegava il governo all'«adeguamento dell'offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l'uso di applicazioni web», leggi Uber e Lyft, facendo riferimento anche alla «promozione della concorrenza in sede di conferimento delle licenze». 

Che avrebbero subito un nuovo deprezzamento dopo essere già crollate da un valore di 200mila euro in era pre-Covid a non più di 150mila. Resta però il fatto che per gli utenti resterà un'impresa trovare un taxi nelle ore di punta o nelle giornate di pioggia. Nonostante il pressing del centrodestra per lo stralcio resta invece la liberalizzazione delle concessioni balneari, ma se ne parlerà nel 2024. 

Quelle attuali scadranno il 31 dicembre di quest' anno, ma è prevista la proroga di altri 12 mesi «in caso di ragioni oggettive» che impediscano lo svolgimento delle gare.

L'accordo ha eliminato dal provvedimento l'indennizzo al gestore uscente in base al fatturato. Punto contestato dagli attuali gestori, che nel caso avessero perso la gara non avrebbero a loro dire ottenuto rimborsi degli investimenti fatti per migliorare gli stabilimenti. Tutto è rinviato a un decreto delegato, da emanare entro sei mesi.

E sempre a un decreto attuativo sarà delegata la garanzia del libero accesso alla costa, con varchi garantiti a chi non intenda sobbarcarsi la spesa di ombrellone e lettini. Buone nuove per i possessori di auto elettriche. L'articolo 13 prevede infatti che le colonnine di ricarica in autostrada debbano essere «competitive, trasparenti e non discriminatorie». Incentivi sono previsti per chi proporrà «tecnologie altamente innovative», che dovrebbero consentire di ricaricare l'auto senza attese snervanti.

Altra misura chiave è la delega al governo sulle energie rinnovabili per la semplificazione e l'accelerazione dell'iter autorizzativo ai concessionari, mentre spetterà alle Regioni fissare i criteri per le gare. Indennizzi sono previsti per i concessionari uscenti. Più poteri invece all'Antitrust, che dovrà valutare se le concentrazioni di attività ostacolino la concorrenza.

Se ad esempio per l'abbonamento a una Tv on demand, Amazon piuttosto che Netflix o Dazn, dovessero imporre condizioni peggiorative all'utente, questi avrebbe diritto a rivolgersi all'Authority, che avrà anche più poteri ispettivi e in materia di abuso di dipendenza economica dalle piattaforme digitali. 

Del capitolo salute restano le norme che limitano la discrezionalità nella nomina dei Primari nell'accreditamento dei privati. La possibilità di vendere i farmaci senza ricetta e di effettuare i tamponi anche nelle parafarmacie era stata cassata da tempo. All'insegna in un ddl che va verso una maggiore concorrenza, ma con il freno tirato.

Paolo Baroni per “La Stampa” il 22 luglio 2022.

Alla fine l'hanno spuntata loro, i tassisti. Per mandare avanti la nuova legge sulla concorrenza, con le nuove norme sulle concessioni demaniali, il trasporto pubblico, le tlc e le assicurazioni, da mesi all'esame del Parlamento, ieri il governo ha informato i capigruppo della Camera di voler stralciare dell'articolo 10 relativo ad auto bianche ed Ncc. 

Di fatto è un compromesso quello raggiunto dall'ormai ex maggioranza su uno dei temi in assoluto più divisivi: su proposta dalla capogruppo pd Debora Serracchiani tutti i partiti si sono impegnati a non presentare in aula nuovi emendamenti quando lunedì il ddl andrà in votazione a Montecitorio per poi venire subito rispedito in Senato per l'ok definitivo.

Festeggiano ovviamente i tassisti, che a colpi di scioperi improvvisi e proteste violente hanno continuato per settimane ad insistere sullo stralcio, criticando innanzitutto l'uso della legge delega, l'idea di promuovere la concorrenza «anche in sede di conferimento delle licenze» come recitava l'art. 10, e l'indicazione di dover adeguare l'offerta dei loro servizi «mediante l'uso di applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l'interconnessione dei passeggeri e dei conducenti», ovvero app come Uber e Lyft. 

Ovviamente festeggia tutto il centrodestra (di governo e non) che sui taxi, come in precedenza sui balneari, ha condotto una vera e propria battaglia che alla fine ha fatto indispettire pure Draghi. 

«È una vittoria del buonsenso» affermano i deputati leghisti della Commissione Trasporti Elena Maccanti ed Edoardo Rixi. «Se il governo ci avesse seguito subito avremmo evitato le sabbie mobili in cui si era impantanato il ddl concorrenza». «È grazie a Fratelli d'Italia e a tutto il centrodestra che l'articolo 10 sarà stralciato - rivendica il capogruppo Fdi Francesco Lollobrigida -. Questo è l'unico modo per difendere il comparto dalla sleale competizione delle multinazionali».

Non la pensa allo stesso modo Davide Gariglio del Pd secondo il quale, invece, è «solo grazie al senso di responsabilità» dei dem che il ddl Concorrenza verrà votato dall'aula della Camera nei prossimi giorni. «In questo modo mettiamo in sicurezza la seconda rata dei fondi europei per il Pnrr e portiamo a casa un risultato utile per le imprese e per le città, perché i comuni hanno tante difficoltà e non potrebbero fare a meno dei fondi europei» spiega la presidente della Commissione attività produttive della Camera Monica Nardi (Pd), secondo la quale il governo (per quanto dimissionario) potrà comunque far marciare la riforma visto che non tutte le norme attuative prevedono un parere delle commissioni parlamentari.

I sindacati, revocato in extremis l'ennesimo sciopero previsto in questi giorni, incassano un risultato che inseguivano da mesi. «Bene lo stralcio - commenta Riccardo Cacchione di Usbtaxi -. Tiriamo un sospiro di sollievo per noi e per tutti gli utenti che si rivolgono a quello che dovrebbe essere un servizio pubblico essenziale».

«Ha vinto il servizio pubblico bene comune» commenta il coordinatore nazionale di Unica Cgil Taxi, Nicola Di Giacobbe che però ora si aspetta che venga regolamentato l'uso delle app per frenare lo strapotere delle multinazionali. Nettamente contrari alla svolta, invece, i consumatori. Secondo il presidente di Assoutenti Furio Truzzi «ancora una volta lo Stato italiano cede alle violenze e alle pressioni della lobby corporativa dei tassisti, dimostrando una debolezza che non ha eguali nel mondo».

Mauro Evangelista per il Messaggero il 17 settembre 2022.

Arrivare in aeroporto a Roma e cercare un taxi può trasformarsi in un incubo. Soprattutto nelle ore notturne. A Ciampino se sei romano e devi fare una normale corsa in cui il tassista non può speculare, meglio rinunciare. 

A Fiumicino la situazione è un filo migliore, ma anche qui è uno slalom tra abusivi disonesti, regolari che vogliono scegliersi il cliente, altri che alla fine ti fanno salire ma se chiedi di pagare con la carta di credito fanno di tutto per impedirtelo. Premessa: questo non vale per tutti i tassisti, alcune cooperative hanno organizzato un ottimo servizio, però la sacca ai limiti della legalità esiste ancora. Racconto di una famiglia tornata dalle vacanze in Grecia: «Avevamo ancora in testa i ricordi delle spiagge bianche. Ti accoglie una schiera di tassisti con alcuni strani capobanda, iniziano a mercanteggiare, cincischiano perché vogliono i turisti, non i romani. Uno cede e accetta di portarci a destinazione. Per mezz' ora, durante la corsa, ci racconta i suoi guai, il cane che sta male, la macchina che si è rotta, ci stordisce di chiacchiere. Serve a preparare il terreno: quando gli chiediamo di pagare con carta di credito, ci squadra e ci dice: ma non ve l'ho detto che ho un po' di guai, il pos rotto. Ci guardiamo e ci diciamo: ben tornati a Roma».

Caccia ai tassisti che raddoppiano le tariffe. I furbetti utilizzano vari stratagemmi per spillare più soldi agli ignari turisti stranieri. Ignazio Riccio il 19 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il problema è stato segnalato anche allo staff del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e sta creando non pochi disagi in città. Alcuni tassisti autonomi, in particolare quelli che operano alla stazione ferroviaria Termini e nei due aeroporti di Ciampino e Fiumicino, non seguono alcuna regola e applicano tariffe molto più alte di quelle comunali agli inconsapevoli turisti stranieri. Di solito lavorano negli orari più inconsueti e si fermano all’esterno degli spazi consentiti, agendo come gli abusivi. Molto spesso capita che rifiutano di far salire a bordo clienti italiani, proprio per non essere scoperti, accogliendo in prevalenza cinesi, giapponesi e americani che di domande non ne fanno troppe.

Che code per un taxi… ma Gualtieri pensa in grande

Chiaramente non tutti gli autonomi si comportano in maniera scorretta, ma il numero degli irregolari cresce sempre di più. I furbetti utilizzano vari stratagemmi per spillare più soldi agli ignari turisti stranieri. Come riporta il quotidiano la Repubblica, alcuni tassisti chiedono la tariffa doppia giustificando il sovrapprezzo per il doppio viaggio necessario per prelevare altri clienti. Anche i sindacati sono insorti per questa pratica che rischia di screditare un’intera categoria e per questo motivo i vigili urbani di Roma stanno indagando per stanare i tassisti scorretti.

Palazzo Chigi assediato dalla rivolta dei taxi: prove di autunno caldo

Nei due aeroporti è stato aumentato il numero degli steward e delle hostess con il compito di indirizzare i turisti stranieri nella scelta dei mezzi da utilizzare per raggiungere il centro di Roma e i blitz nelle zone calde dove operano gli irregolari e i furbetti sono stati intensificati. Diverse, infatti, sono le sanzioni che sono state comminate ai tassisti che non rispettano le norme. Addirittura a via del Corso, quindi in pieno centro, è stato fermato un 45enne alla guida di un taxi inesistente, con numero di licenza falso.

Milano, tassista litiga per il Pos, distrugge i souvenir dei turisti e poi fugge a porte aperte. La Repubblica su il 23 Agosto 2022.

Ancora una disavventura per i clienti dei tassisti che provano a rifiutarsi di accettare i pagamenti con il Pos (obbligatori). Stavolta ne fanno le spese due turisti a Milano. Nei pressi della Stazione Centrale, al momento di saldare la tariffa, il tassista prima si rifiuta di accettare il pagamento con carta e insulta i turisti e poi, dopo le insistenze di questi ultimi, si decide a tirare fuori il terminale Pos, ma continua a insultare il turista. Alla fine con modi bruschi tira fuori valigie e sacchetti dei turisti facendoli cadere a terra e distruggendoli (erano, a quanto ha raccontato il turista ai testimoni, oggetti in vetro di Murano). A quel punto anche i turisti iniziano a filmare e pretendono di essere risarciti dei danni e cercano di trattenere il tassista rimontando nella vettura, ma il tassista scappa a tutta velocità con portellone e sportello aperto, superando anche un incrocio senza rallentare.

Da repubblica.it il 24 agosto 2022.

Due turisti australiani - presumibilmente padre e figlia - che scendono da un taxi in via Carlo Tenca a Milano, non lontano dalla stazione Centrale. L'uomo chiede al tassista, mentre sta scaricando i bagagli dal cofano, di pagare con il pos, che è obbligatorio da fine giugno, ma il conducente evidentemente cerca di ottenere un pagamento in contanti. A quel punto i toni si alzano, il turista si agita per ottenere quello che è un suo diritto, rivolgendosi anche ai passanti per illustrare la situazione. Il tassista cede controvoglia, usa il pos per passare la carta ma a quel punto scarica i bagagli con tale mala grazia da far cadere alcuni sacchetti, rompendone il contenuto. Non contento a quel punto va via, con portellone e portiera posteriore aperti, bruciando anche un semaforo rosso.

Accade a Milano, lunedì pomeriggio, e tutta la scena viene ripresa con il cellulare da una persona che si affaccia al balcone richiamata dalle urla. Una scena che arriva anche sul tavolo dell'assessore alla Sicurezza del Comune Marco Granelli che ricostruisce quanto accaduto e promette provvedimenti, perché "quello che è accaduto a due turisti australiani non rappresenta Milano e la sua capacità di accogliere visitatori e visitatrici da ogni parte del mondo. Meno che mai rappresenta la categoria dei tassisti. E ringrazio la Polizia locale per il positivo contributo in questa brutta vicenda".

Spiega ancora l'assessore: "L'episodio di via Carlo Tenca, nei pressi di un albergo, ripreso dal telefonino di un cittadino, è stato confermato ai nostri agenti: dopo aver chiesto di pagare tramite pos il costo della corsa, due turisti hanno ricevuto il diniego del tassista e ne è nata una discussione, durante la quale alcuni souvenir che si trovavano nel bagagliaio dell'auto sono caduti a terra danneggiandosi. L'allontanamento del tassista non ha impedito all'Unità 'Freccia 1' del Reparto Radio Mobile della Polizia locale, la squadra adibita al controllo del trasporto pubblico locale, di individuarlo e rintracciarlo, dopo aver ricevuto la segnalazione dal Radio Taxi a cui i turisti si erano a loro volta indirizzati per denunciare l'accaduto".

Il tassista è stato quindi identificato e, davanti agli agenti, "si è reso disponibile a risarcire il danno, ma procederemo a trasmettere il fascicolo alla Commissione Tecnica Disciplinare, per l'apertura del procedimento disciplinare", conclude l'assessore.

Milano, Selvaggia Lucarelli contro l’assessore Granelli: «Il Pd difende la lobby dei tassisti». Lui: «No, abbiamo sospeso licenze». Chiara Baldi su Il Corriere della Sera il 25 agosto 2022. 

Selvaggia Lucarelli all’attacco dell’assessore alla Sicurezza del Comune Marco Granelli per la vicenda della coppia di turisti a cui un tassista ha rotto i souvenir prima di lasciarli a piedi perché volevano pagare con il pos. In due storie su Instagram la giornalista ha condiviso lo status dell’assessore che, secondo lei, «difende i tassisti: questo è il Pd — scrive Lucarelli — capito come la lobby dei tassisti lo tiene per le palle?».

In un precedente post su Facebook, infatti, Granelli aveva scritto: «Quanto accaduto a due turisti australiani non rappresenta Milano e la sua capacità di accogliere visitatori e visitatrici da ogni parte del mondo». E, aveva aggiungo, «meno che mai rappresenta la categoria dei tassisti». Parole che hanno fatto infuriare Lucarelli che giovedì ha quindi dedicato alla vicenda due storie su Instagram. A quel punto, è arrivata la controreplica di Granelli, che su Facebook ha spiegato le sue ragioni: «Non stiamo proteggendo una lobby. In meno di 48 ore abbiamo fatto intervenire la Polizia locale, individuato e convocato il tassista e aperto un procedimento disciplinare a suo carico, dove rischia la sospensione. Forse c’è chi preferisce i comunicati di condanna, le gogne mediatiche, lo scaricabarile. A noi no. Noi siamo per agire, subito e in modo concreto, colpendo chi sbaglia».

Poi, conclude: «E alla faccia di chi è sotto scacco della categoria (preferisco non usare le parole della signora), per la prima volta, dopo 60 anni, grazie a noi e alla Polizia locale sono state revocate 2 licenze per 2 tassisti che avevano manomesso il tassametro».

Alessandro Camilli per blitzquotidiano.it il 24 agosto 2022.

Una sindrome si aggira tra i tassisti. Non solo tra i tassisti, ma tra i tassisti in maniera più lampante che in altri gruppi sociali. E tra i tassisti la sindrome assume forme specifiche e induce sintomi altrettanto specifici. E’ l’allergia tassista al Pos. Casi anche a Milano che è invece la città dove i tassisti erano finora quasi indenni dalla suddetta sindrome. 

Anche a Milano un tassista alla parola, anzi alla combinazione di due parole, pagamento e Pos, ha visto il suo organismo aggredito dall’allergia e relativi sintomi (il video in fondo all’articolo). Ha alzato la voce, perso il controllo, punito gli insolenti passeggeri-clienti sbattendo loro in terra i bagagli e quindi è sgommato via da tanta provocazione subita. Insomma i sintomi e le manifestazione tipici della allergia tassista al Pos: ira, incontenibile ira, alterazione della voce, del respiro, pulsione alla maniera forte. 

Al Sud il problema non c’è, non c’è il Pos

Al Sud d’Italia buona parte delle categoria ha risolto in nuce il problema della insorgente allergia al Pos, al Sud molto spesso in auto il Pos non c’è. E se lo chiedi ti guardano con la tenerezza che si riserva ad un bambino che chiede il gelato alla cioccolata appena sveglio: non si può, non si fa, non esageriamo… 

A Roma il Pos in auto lo hanno quasi tutti ma è esplicito che se paghi col Pos fai loro una scortesia se non dispetto. Non tutti certo, ma non pochi. Gli allergici al Pos dicono che coi pagamenti elettronici ci rimettono. Ma non è vero, non è questo il vero problema. Il vero problema è ideologico-culturale, sì proprio culturale.

Il Pos appare al tassista come intrusione statale nella loro assoluta autonomia, il taxi come casa mia dove le regole le faccio io. E poi questi pagamenti via Pos sono anche tracciabili, intrusione su intrusione nella libertà tassista. D’altra parte hanno vinto su Draghi, perché dovrebbero arrendersi al Pos? 

Il video del tassista che a Milano ha scaricato due turisti australiani. La scena è stata ripresa da un telefonino ed ora il tassista è stato rintracciato.

Da corriere.it il 27 agosto 2022. 

Caro Aldo, mi capita di prendere il taxi a Milano o a Bologna dove vivo e c’è un tassametro che parte e ti dice cosa spendi. Siamo stati a Napoli e abbiamo preso il taxi due volte facendo lo stesso tragitto dalla stazione dei treni all’imbarco dei traghetti per le Eolie. All’andata 20 euro perché era domenica senza tassametro, al ritorno 13 euro perché quella era la tariffa concordata dal Comune con i tassisti. Non aggiungo altro. Marco Deluigi 

Caro Marco, Si lasci dire che le è andata bene. Per lo stesso tragitto a me è accaduto di molto peggio. La verità è che prendere il taxi a Napoli è spesso un’incognita. Puoi trovare una persona deliziosa e corretta, con cui conversare amabilmente e a cui pagare la corsa in base al tassametro, come accade in tutto il mondo; ma puoi trovare uno che tenterà in ogni modo di spillarti più denaro del dovuto, inventando supplementi o extra immaginifici (il più simpatico e sfrontato mi disse: «Dotto’, lei andava di fretta, io ho accelerato, e la velocità ha un costo»).

Come molti tra coloro che amano Napoli e ci vanno spesso, anch’io tendo ad affidarmi a due o tre tassisti che conosco, in particolare il fido Antonio, benché accanito Novax; però non sempre sono disponibili, perché spesso lavorano a giorni alterni e nel weekend sono volentieri al mare. 

L’alternativa sarebbero gli Ncc, che però costano il doppio o anche il triplo delle cifre da lei indicate. Sempre meglio che a Palermo, dove gli ultimi due taxi che ho preso non avevano azzerato il tassametro della corsa precedente (nel secondo caso il tassametro era nascosto dal sedile davanti reclinato) . Inevitabilmente ho pensato: se lo fanno a me che sono italiano, cosa accadrà a un giapponese? A questo punto, gentile signor Deluigi, già vedo i siti specializzati in diffamazione (ce ne sono parecchi, e di successo) fare un bel titolo inventato sull’ennesimo attacco al Sud. 

È vero il contrario: chi ama il Sud ha il dovere di denunciare antiche furbizie che fanno il male dei molti tassisti che lavorano onestamente e in genere della città. Perché per i visitatori, stranieri e no, molto spesso una città comincia da un taxi. E la prima impressione conta. 

Roma, sui turisti è guerra tra taxi e ncc. Corse più salate: il reportage da Fiumicino. Francesca Mariani su Il Tempo il 04 luglio 2022

Aeroporto di Fiumicino, parcheggio Taxi agli arrivi del Terminal 3: benvenuti all'inferno. Come in un suk, gli autisti si contendono i clienti, finendo spesso per litigarseli. La mattina, il pomeriggio. La ressa c'è sempre. Ma la situazione va ancora più fuori controllo di sera, tra le 20.30 e le 23.30. La domanda è sempre la stessa, prima di iniziare la corsa: «Roma, dove?». Il primo a porla è un uomo con la scritta «official taxi» sulla maglietta gialla, che cerca di smistare i turisti: «Chi va a Roma? », domanda. E se qualcuno va più vicino o verso Ostia viene lasciato indietro o mandato a cercare la vettura al Terminal 1, lontano 500 metri dove poi più o meno si ripete la stessa pantomima. Ma spesso, in realtà, le trattative iniziano prima che i viaggiatori si avvicinino alle vetture. I tassisti se li dividono: «I miei sono quelli là». E non mancano le battute a sfondo sessista: «Questa pure a casa me la porto» e «paga in natura», scherza un tassista commentando il magnifico aspetto di una turista bionda. Meno entusiasmo suscita una coppia formata da un uomo e una donna all'apparenza indiani. I due contestano il prezzo proposto e un giovane autista commenta con un altro tassista: «Vediamo cosa decidono, devo vedere semi conviene».

Anche se le norme prevedono la stessa tariffa fissa per chi deve raggiungere una via che si trovi all'interno delle Mura Aureliane: 50 euro, che diventano 60 se il taxi ha la licenza del comune di Fiumicino. Ma il problema non è questo. Alcuni titolari delle vetture provano a proporre il tassametro invece della tariffa fissa: «Così non ci rimette nessuno», spiegano ai malcapitati. Che alla fine potrebbero pagare circa il doppio del previsto. Ancora troppo poco per alcuni conducenti che provano a sparare cifre più sostanziose in cambio magari di un giro panoramico, soprattutto se vedono che i viaggiatori sono asiatici e benestanti. E se la trattativa non va in porto provano a scaricare i clienti parsimoniosi dicendo che il Pos non funziona. Ovvio che gli altri tassisti in fila capiscono il trucco e alcuni non ci stanno. «Non hai la carta, te? », chiede un collega. «Vale per sempre però, eh?», insiste. Spiega un tassista: «Alcuni con questi trucchetti incassano annualmente 120/150 mila euro dichiarandone 20 mila. Il loro problema è quello di non far entrare soldi nel conto corrente; per questo evitano di prendere le corse economiche: se incassano con il Pos devono fare necessariamente la ricevuta fiscale, e non possono mantenere la dichiarazione dei redditi tra 15 e 20 mila euro». «Questi comportamenti esistono da quando esiste l'aeroporto - spiega Daniela Carola, comandante dei vigili del Comune di Fiumicino Una volta si potevano sequestrare i mezzi, avremmo bisogno di normative più stringenti».

«Nell'ambito aeroportuale c'è una confusione totale- spiega Claudio Fagotti, rappresentante del sindacato AdiTaxi - ci sono 35 auto di Fiumicino che vanno autonomamente al prezzo di 60 euro, mentre per i "romani" la tariffa è 50». «Mi guardavano come un marziano, ma sono riuscito a portare all'attenzione di tutti questo fenomeno», racconta Alessandro Onorato, assessore al Turismo, Grandi Eventi e Sport del Comune di Roma. «Dopo oltre 6 anni, finalmente sono ripartiti i controlli da parte del Git della Polizia di Roma Capitale contro questo fenomeno: siamo stati noi a richiedere la convocazione del Comitato Provinciale per l'Ordine e la Sicurezza su questo tema: la polizia municipale ha ripreso con successo il servizio quotidiano di controllo e repressione contro i procacciatori di corse e di questo siamo molto soddisfatti». Ma non è finita qui. L'idea, infatti, è quella di introdurre degli steward per i controlli e un Daspo per comportamenti di questo tipo».

Mario Landi per leggo.it il 30 luglio 2022.

«Non ti ci porta nessuno a Ostia», profezia di tassista. Triste ma tutto vero: accade all'aeroporto di Fiumicino, il principale scalo italiano, dove i taxi da sempre fanno il bello e cattivo tempo. 

Un esempio? In barba alle regole si rifiutano di accompagnare i clienti in quartieri vicini allo scalo: non solo ad Ostia ma anche Acilia, Mostacciano, Casal Palocco o Spinaceto. 

Il motivo? Dopo aver fatto la lunga fila vogliono prendere il cliente con la tariffa piena per Roma Centro, almeno 50 euro, e lasciano a piedi tutti gli altri. Visto che per Ostia bastano appena 20 euro, meglio rifiutare di prendere a bordo alcuni clienti. Una vergogna. 

In un video esclusivo di cui Leggo è venuto in possesso, si vedono chiaramente le difficoltà di un passeggero che, sceso dall'aereo con bagaglio al seguito, cerca un taxi. Gli viene chiesto subito per dove e, alla risposta Ostia, si sente rispondere un no secco. Dal primo taxi e, a seguire, dagli altri in fila. 

«Ho registrato tutto perché la situazione è diventata insostenibile - racconta Giulio (il vero nome è un altro, ma per paura ha chiesto di essere protetto dall'anonimato), autore del video girato la sera del 22 giugno -. Ostia è un quartiere del Comune di Roma eppure non si trova un taxi disponibile a portartici. Non è la prima volta che mi succede: vivo all'estero, ho i genitori a Ostia, e ogni volta, quando rientro a Roma, non so mai cosa mi aspetta. Praticamente quelli di Ostia sono cittadini romani di serie B».

Nel video si sentono chiaramente le risposte dei tassisti: «Non tocca a me», «Non ti ci porta nessuno ad Ostia» e ancora «Chiedi a quegli altri» dirottando i clienti sui taxi speciali per il Comune di Fiumicino. 

«Ma non posso prendere i taxi del comune di Fiumicino per un quartiere di Roma - continua Giulio - alla fine mi sono rivolto a due finanzieri che hanno intimato al tassista di farmi salire. Peccato che poi, una volta a bordo, il conducente si sia scatenato contro di me, tra insulti e minacce di lasciarmi a piedi, facendo finta di sentirsi male». 

Già in passato Giulio ha dovuto discutere per avere un servizio che, in teoria, dovrebbe essere garantito: «Una volta purtroppo dovevo correre in ospedale per vedere un mio parente - racconta - ero rientrato a Roma proprio per quel motivo e non avevo tempo da perdere. 

Eppure anche in quell'occasione ho dovuto discutere. Qui sono i tassisti che scelgono il cliente, scartando una grande fetta di cittadini, tutti quelli delle zone limitrofe all'aeroporto. Bisogna discutere per tutto: anche per pagare con il pos. Hanno la macchinetta a bordo eppure non funziona mai. Risultato? Una volta un tassista mi ha addirittura portato al bancomat a prelevare i contanti. All'estero non esiste un trattamento del genere». Vedere il videodenuncia per credere.

"La rabbia dei tassisti è senza motivo, con loro vogliamo collaborare": il capo di Uber Italia offre la pace.  Arcangelo Rociola su La Repubblica il 20 Luglio 2022.  

Intervista a Lorenzo Pireddu, dal 2019 general manager della divisione italiana del colosso californiano. "Non vogliamo liberalizzazioni, ma ammodernare la legge del 1992 sui trasporti". E sul discorso di Draghi, che al Senato ha ribadito la necessità di una riforma della concorrenza, dice: "Bene che ci sia un governo forte, capace di fare le riforme che servono"

I nuovi slogan dei tassisti contro Uber lo hanno "sorpreso", ma "la loro rabbia è senza motivo". Non chiede la liberalizzazione del mercato delle licenze, ma "un ammodernamento della legge sui trasporti, perché oggi non considera l'impatto delle nuove tecnologie". E del discorso di Draghi al Senato, che ha blindato la riforma della concorrenza sui trasporti indicandola tra i capisaldi per una nuova azione di governo, ha apprezzato soprattutto la possibilità "che ci sia un esecutivo forte, capace di avere la spinta giusta per fare le riforme necessarie".

Lorenzo Pireddu è il capo di Uber Italia. Classe 1983, ha assunto la guida della divisione italiana del colosso californiana nel 2019 come general manager. La sua nomina fa parte di un cambio radicale che Uber ha deciso a livello globale per mettersi alle spalle gli anni della gestione di Travis Kalanick, finita di nuovo sotto i riflettori dopo la pubblicazione degli Uber Files. Dopo giorni di no comment, Pireddu ha deciso di parlare dell'attuale situazione di Uber in Italia con Italian Tech.  

Si aspettava un ritorno degli slogan e degli striscioni dei tassisti contro la sua azienda la scorsa settimana? 

"Non lo nascondo, siamo sorpresi. Quello che ci colpisce di più sono le motivazioni. Queste proteste sono figlie di una paura legittima, legata a due cose: la prima è la possibile scomparsa del sistema delle licenze; la seconda è che le piattaforme come Uber possano prendere interamente il settore. Capiamo le paure, sono reali, ma va chiarita una cosa: noi abbiamo sempre creduto che la liberalizzazione del settore oggi non è una soluzione. Quindi la loro rabbia non ha motivo, è una reazione a una cosa che non abbiamo mai chiesto. Noi abbiamo solo chiesto un ammodernamento della legge del 1992, non il superamento del sistema licenze".  

Durante il suo discorso al Senato, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è stato molto esplicito sulla riforma della concorrenza. Ha chiesto ai partiti sostegno al governo, non alle proteste di piazza dei tassisti. Immagino abbia apprezzato le sue parole.

"Quello che apprezzo è che ci sia un governo che abbia la forza giusta per fare le riforme necessarie. Mi auguro che il Parlamento possa trovare la stabilità che serve a tutto il Paese in questo momento, per gestire le priorità e le sfide che sono sotto gli occhi di tutti".  

Perché è così importante per voi cambiare la legge sui trasporti del 1992?

"Semplice: è stata fatta prima che nascesse il web, gli smartphone, i telefonini. Costringe i servizi di Noleggio d'auto con conducente (Ncc) a rientrare in rimessa dopo ogni tratta. Ma non ha senso farlo se posso ricevere una richiesta via app, senza che torni in rimessa. Noi vogliamo che ci sia un'evoluzione del settore, come ce ne sono state tante in diversi settori che hanno interesse pubblico. Non si può non tenere conto delle evoluzioni tecnologiche. Ricalcando quanto dichiarato dal ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, il settore può evolvere in maniera tale che non ci siano né vincitori né vinti".  

Difficile pensare che i tassisti non la prendano come una sconfitta.

"Sulla necessità di cambiare quella legge ci hanno riflettuto diversi governi italiani, e molto prima che Uber nascesse. Non se ne è mai fatto nulla. Ma è evidente che è una necessità che la politica italiana sente a prescindere da Uber o altre piattaforme. Noi vogliamo avere regole chiare per il nostro lavoro, come vogliamo che i tassisti abbiano il loro mercato. Ripeto: né vincitori, né vinti". 

È convinto possa succedere?

"Sicuramente. Lo dicono i dati. C'è una domanda enorme sul trasporto pubblico. I nostri report interni raccontano che la domanda è cresciuta del 50% negli ultimi due anni. Quindi più alta rispetto al periodo pre Covid. C'è una richiesta enorme e un'offerta non adeguata a soddisfarla. Si potrebbe lavorare tutti, senza frizioni né accuse".  

La pubblicazione degli Uber Files ha gettato benzina sul fuoco delle proteste dei tassisti. Attività di lobbying aggressive sui governi occidentali, una gestione muscolare delle dinamiche di mercato. Lei è uno dei volti del nuovo corso di Uber, si sente di condannare quelle pratiche? 

"Sì, e come società lo abbiamo già fatto. Le nostre dichiarazioni ufficiali riconoscono che quella gestione ha commesso degli errori. È inutile negare che ci siano stati comportamenti sbagliati. E non abbiamo alcuna remora a condannarli. Ricordiamo che si tratta di file e dichiarazioni che riguardano il periodo precedente al 2017, quindi prima della nomina del nuovo amministratore delegato".  

Come è cambiata Uber?

"Io ho aderito a un codice etico che rispetto e che mi rispecchia profondamente. Oggi la governance prevede un presidente del consiglio di amministrazione indipendente, è un'azienda letteralmente diversa: il 90% dei dipendenti attuali di Uber sono stati assunti dopo il 2017. Io stesso sono entrato in Uber dopo quel periodo. Quanto all'Italia il nostro team è stato completamente rinnovato dal 2018".  

Potrebbero accusarvi di un rinnovamento di facciata.

"Che l'azienda sia diversa lo racconta anche quello che stiamo facendo. È cambiato il nostro approccio al mercato. Oggi cerchiamo di collaborare con gli altri attori del settore. Abbiamo chiesto scusa per l'approccio usato con Uber Pop (la funzione che consentiva a chiunque di poter diventare un autista Uber, con tariffe assai inferiori a quelle dei taxi). Non sono solo parole, ma anche fatti come dimostra l'accordo con It-Taxi".  

Firmato a maggio, prevedeva l'integrazione della piattaforma del consorzio dei taxi italiani nell'app di Uber. Si farà?

"Certo, è pronto. Roma sarà il progetto pilota. Entro fine settimana sull'app di Uber sarà possibile prenotare anche un taxi del consorzio. Ad oggi ha oltre 12 mila auto in 87 città. È un'alleanza con quasi al metà dei taxi presenti in Italia e racconta più delle parole quanto siamo attivi nel cercare la collaborazione con il settore". 

Le proteste di piazza non hanno messo a rischio il progetto?

"No, abbiamo continuato a lavorare con It-Taxi in maniera decisa. Loro hanno deciso di lavorare con noi per costruire letteralmente un mondo nuovo. Oggi la maggior parte del settore vuole cambiare le cose. E noi siamo disposti a mettere la nostra tecnologia a disposizione. È un processo in cui stiamo investendo tempo e risorse".

Da tg24.sky.it il 12 luglio 2022.  

Cinque rappresentanti dei tassisti si sono incatenati davanti a Palazzo Chigi, a Roma, per protestare contro l'articolo 10 del Ddl Concorrenza 

L’inchiesta Uber files

Il servizio taxi si sta spontaneamente fermando in tutta Italia dopo la pubblicazione dell'inchiesta Uber files. Lo si apprende da alcuni rappresentanti nazionali della categoria. I tassisti protestano da settimane contro l'articolo 10 del Ddl concorrenza "a difesa del servizio pubblico".

Tassisti: “Vogliamo chiarezza su vicenda che ha contorni grotteschi”

"Dopo lo scandalo Uber files vogliamo chiarezza e trasparenza su una vicenda che a questo punto assume contorni grotteschi. Chi ha scritto questo articolo? Che interessi ci sono sotto? E soprattutto nell'interesse del servizio pubblico e dell'utenza ne chiediamo il ritiro", spiegano i tassisti.

Da today.it il 12 luglio 2022.

Continua lo sciopero dei taxi in tutta Italia, anche con modalità "estreme". I tassisti protestano da giorni contro il ddl concorrenza, in particolare contro l'articolo 10, che aprirebbe a una maggiore forma di libero mercato nell’ambito del trasporto pubblico urbano non di linea. 

In più, la pubblicazione dell'inchiesta "Uber Files" sulla multinazionale Uber e rivale storica dei tassisti ha dato nuova linfa alle proteste. A Roma, Palazzo Chigi e tutta l'area intorno a Montecitorio è blindata, così come è chiuso il tratto di via del Corso contiguo la sede del governo.

Cinque tassisti si sono incatenati alle recinzioni di ferro di fronte a Palazzo Chigi: "Non firmiamo deleghe in bianco, di questo governo noi non ci fidiamo", ripetono ai curiosi e ai cronisti, convinti di restare ancora a lungo incatenati in segno di protesta contro il governo. Numero disservizi segnalati in tutta Italia, da Milano a Napoli. 

Le proteste a Napoli: piazza del Plebiscito occupata

Centinaia di taxi hanno occupato piazza del Plebiscito a Napoli. Le auto bianche sono state parcheggiate all'interno della piazza occupando così la grande area pedonale tra il Palazzo Reale e la Basilica di San Francesco di Paola. E' l'ultima forma di protesta in ordine di tempo dei tassisti napoletani, che nei giorni scorsi hanno scioperato più volte come i loro colleghi delle altre città italiane contro le misure previste dal ddl concorrenza. Lo stop dei taxi si sta ripercuotendo pesantemente in città, con lunghe file di turisti e residenti alla fermata dei pullman nei pressi della Stazione centrale di piazza Garibaldi.

Le proteste a Milano

Ancora sciopero selvaggio dei taxi a Milano nella mattinata di martedì 12 luglio. Come segnala MilanoToday, all'ombra della Madonnina, ma soprattuto in Stazione Centrale e a Linate, i taxi sono introvabili. Letteralmente. La protesta - non annunciata - ha iniziato a montare nella serata di lunedì e si è concretizzata nella giornata di oggi.

A preoccupare i conducenti, in particolare, è la possibilità che l'articolo 10 del disegno di legge concorrenza possa portare alla liberalizzazione delle licenze nel trasporto pubblico, soprattutto a vantaggio di Uber, storico rivale dei tassisti. Nei giorni scorsi i sindacati hanno chiesto lo stralcio della norma ma non è servito a nulla. 

Nella giornata di lunedì le associazioni dei lavoratori hanno proclamato altri due giorni di sciopero per il 20 e il 21 luglio, ma i tassisti milanesi hanno deciso di fermarsi prima. Non è il primo sciopero selvaggio dei tassisti: i conducenti avevano incrociato le braccia senza preavviso e senza garantire fasce di garanzia già a fine giugno.

Taxi e Ncc, la guerra delle liberalizzazioni: il perché dello sciopero sulla concorrenza. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2022.

Lo sciopero dei taxi

Nuova giornata nera per i trasporti, a causa dello sciopero dei tassisti contro il decreto Concorrenza. Lo stop di 48 ore andrà avanti dal 5 al 6 luglio. I taxi si fermano a partire dalla mattina alle 8 in tutta Italia. Ad essere contestato è l’articolo 10 del decreto, che porrebbe le basi per una liberalizzazione del settore, a cui i tassisti si oppongono da sempre e che nessun governo finora è riuscito ad avviare. Le associazioni del comparto noleggio vetture con conducente (Ncc) invece non hanno aderito alla protesta e si sono schierate a favore dell’approvazione del ddl Concorrenza, criticando l’ostruzionismo dei rappresentanti dei tassisti.

Mediazione fallita

Non ha avuto un esito positivo l’incontro di lunedì 4 luglio tra la viceministra Teresa Bellanova e i sindacati dei tassisti. «Eravamo e siamo convinti che ci fossero tutte le condizioni per rimandare lo sciopero nel frattempo proseguendo il confronto», ha fatto sapere Bellanova, al termine dei due incontri al ministero, prima con le rappresentanze sindacali dei tassisti e poi degli Ncc. Il governo, ha spiegato la viceministra, ha manifestato la disponibilità a riscrivere l’articolo 10 «senza però stravolgere l’impianto del Ddl: rafforzare la funzione integrativa e complementare degli autoservizi pubblici non di linea rispetto al TPL con l’obiettivo di creare nuove opportunità per gli operatori; mantenere la distinzione tra taxi ed ncc; introdurre una disciplina specifica delle attività delle piattaforme elettroniche; rafforzare le misure di prevenzione e contrasto dell’esercizio abusivo anche tramite l’attuazione del registro nazionale degli operatori del settore e l’introduzione delle targhe professionali; rafforzare la tutela degli utenti; garantire la formazione professionale degli autisti e promuovere lo svolgimento dell’attività in forma associativa o cooperativa». Ma i tassisti hanno deciso di confermare comunque lo sciopero. Lo sciopero nazionale si fa «perché l’articolo 10 del Ddl Concorrenza non verrà stralciato ma modificato nelle parti non sostanziali - hanno detto i sindacati dei tassisti - Siamo sempre più convinti che la riscrittura delle norme per migliorare il settore debba avvenire non con una legge delega inserita in un Ddl concorrenza ma attraverso un provvedimento di confronto tra categoria, governo e sindacati».

Taxi e Ddl concorrenza: cosa prevede l’articolo 10

La richiesta dei tassisti è che il governo stralci l’articolo 10 del ddl Concorrenza, che delega al governo l’adozione di un decreto per riformare il settore del trasporto pubblico non di linea, vale a dire taxi e i servizi di noleggio con conducente (ncc). Nel testo si fa riferimento a un «adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l’uso di applicazioni web». Passaggio che ha scatenato l’ira dei tassisti che non vogliono dover competere con servizi di noleggio con conducente e app come Uber e Lyft. Nell’articolo si parla anche di «riduzione degli adempimenti amministrativi a carico degli esercenti degli autoservizi pubblici non di linea e razionalizzazione della normativa alle tariffe e ai sistemi di turnazione», e soprattutto di «promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze». Ed è proprio lo spettro di una liberalizzazione del mercato, sempre osteggiata dai tassisti, a suscitare i malumori più forti. Una riforma era stata tentata nel 2006 dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, con il governo Prodi bis, e in seguito dal governo guidato da Mario Monti. Ma in entrambi i casi sono stati fatti pochi passi avanti, soprattutto per l’ostruzionismo dei sindacati dei tassisti.

La protesta dei tassisti

«Il governo deve togliere dal tavolo qualsiasi ipotesi di liberalizzazione. Siamo pronti al dialogo e a tenere calma pa piazza. Uno stralcio appare difficile, l’ideale sarebbe tornare in Parlamento per fare un apposito ddl», ha detto all’Agi Loreno Bittarelli, presidente della Cooperativa Radiotaxi 3570 di Roma, una delle realtà associative più grandi in Italia. «Le licenze devono restare prerogativa dei tassisti - ha aggiunto Bittarelli - il modello per noi è l’accordo con Uber che abbiamo raggiunto come It Taxi». In un comunicato congiunto le 13 sigle sindacali dei tassisti parlano dello sciopero come di una mobilitazione «spartiacque riguardo al destino dei tassisti».

La posizione degli Ncc

Le associazioni del comparto noleggio vetture con conducente (Ncc) non hanno aderito allo sciopero, poiché non condividono l’ostruzionismo dei tassisti. «La protesta dei taxi - hanno dichiarato le associazioni nazionali degli Ncc - nasce dal timore che l’articolo 10 del dl Concorrenza, in approvazione, possa portare alla liberazione dei servizi pubblici non di linea: in realtà neanche noi noleggiatori vogliamo la liberalizzazione e l’articolo in questione è relativo ad una delega del governo sulla materia della concorrenza. Il tutto con il fine di rivisitare la legge numero 21 del 15 gennaio 1992, ormai anacronistica: basti pensare che allora non esistevano nemmeno gli smartphone».

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 5 luglio 2022.  

Oggi assisteremo al più classico dei derby, la sfida Stato-Tassisti. Lo Stato parte sfavorito: finora è sempre stato battuto dagli avversari, per i quali fa il tifo un'ampia curva sud che va dalla destra di Giorgia Meloni alla sinistra di Stefano Fassina. Dunque non ci illudiamo, noi che tifiamo per lo Stato: c'è poco da fare, quando giochi contro i poteri forti.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 5 luglio 2022.

«Uso i partiti come taxi - diceva Enrico Mattei - pago e scendo». Non era una cosa tanto carina, ma così andavano allora le faccende del potere. «Il taxi sono io!» rivendicò del resto svariati decenni dopo Denis Verdini rovesciando la prospettiva in un empito di spensierata sincerità autopromozionale: «Vuoi rimanere al potere? Solo io ti conduco in dieci minuti da Berlusconi a Matteo».

Quest' ultimo non era il suo futuro genero sovranista, Salvini, ma il post-rottamatore, Renzi, del cui cuore l'ex grossista di carne di Campi di Bisenzio possedeva evidentemente le chiavi. Ma l'idea facilitatrice del taxi accompagnava così le immagini, i linguaggi e un po' anche la spregiudicatezza della vita pubblica italiana. 

Quanto poi a Berlusconi, punto di partenza delle corse verdiniane, occorre forse ricordare che la figura professionale di un taxista era significativamente compresa nel videoclip che illustrava, insieme a maestri, studenti, camerieri, pasticcieri (oltre alla giovanissima Francesca Pascale), l'indimenticabile brano Meno male che Silvio c'è.

Mentre per quanto riguarda il Giglio magico renziano il compito di accompagnare a destra e a manca il capo e Maria Elena Boschi era concretamente delegato alla cortese disponibilità del barbuto onorevole Francesco Bonifazi, perciò soprannominato Bonitaxi - e con questo si porrebbe fine al rimestio meta-linguistico sull'immaginario tassinaro. 

Anche perché più saldi vincoli avevano legato, nello spettacolo, la politica a questo servizio eminentemente urbano e particolarmente capitolino. In questo senso molti (attempati) lettori ricorderanno l'accoppiata Sordi-Andreotti che nel 1983 promise vano lustro a un film intitolato appunto Il tassinaro.

Si tratta purtroppo di una delle più brutte e imbarazzanti pellicole realizzate da Sordi, grande attore, ma piccolissimo regista e qui anche infimo sceneggiatore. Insieme a una Pampanini eccessiva che si congedava con una parolaccia e a uno svogliatissimo Fellini diretto a Cinecittà, Sordi caricava a bordo il Divo; ma questi, inquadrato nello specchietto retrovisore, risultava a disagio dietro il faccione ammiccante di quell'altro mostro sacro. 

Tra i due, oltretutto, una lunare conversazione su argomenti astrusi tipo il numero chiuso nelle università. Per gli amanti del brivido pubblico e privato, la collaborazione allietò senz' altro il botteghino, ma dispiacque alla signora Andreotti che ebbe più di una ragione a considerarla una inutile buffonata.

Dopo di che, di lì a dieci anni, i veri tassinari, sempre più esasperati per il traffico, l'abusivismo e in via di accentuata sindacalizzazione, diedero parecchio filo da torcere alle amministrazioni di sinistra, prima Rutelli, poi maggiormente Veltroni. 

Cominciarono scioperi bianchi, ululati di clacson, manifestazioni che comportavano anche temibili blocchi in zone cruciali, a piazza Venezia o alle pendici del Circo Massimo. In una di queste prove di forza, per dire il genius loci, si vide il leader della corporazione che si aggirava nella marmellata di lamiere vestito da centurione.

Quando nel 2008 la destra, con Alemanno, conquistò Roma i taxisti improvvisarono festosi caroselli e presentarono il conto. Ma non è che per loro le cose migliorarono troppo. Vedi, dopo le liberalizzazioni di Bersani e la comparsa di Uber.

Ed eccoci all'oggi. Non senza aver ricordato i barconi dei migranti, che l'improvvido Di Maio definì «taxi del mare», e la quantità di talk show che tuttora intasano la tv, «un'industria fondata sui buoni taxi», secondo Andrea Minuz. Quando in studio l'ex brigatista Etro esagerò, Massimo Giletti ritenne di congedarlo al grido: «Ti pago il taxi di tasca mia!».

I tassisti in sciopero assediano Palazzo Chigi. Il Carroccio con loro: la riforma non è in agenda. Lodovica Bulian il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Tutte le sigle sindacali contro l'articolo 10 del ddl concorrenza. Il ministro Bellanova apre a una norma che mantiene la distinzione tra auto gialle e Ncc

Sono arrivati sin davanti a Palazzo Chigi, per qualche minuto alcuni sono riusciti a irrompere nella piazza forzando i blocchi della polizia, che poi li ha fermati e li ha fatti arretrare sotto il porticato della Galleria Alberto Sordi. Erano circa un migliaio i tassisti in corteo a Roma, accompagnati da slogan e fumogeni per protestare contro il Ddl concorrenza. Ma lo sciopero di 48 ore proclamato dopo l'incontro di due giorni fa tra i sindacati e il viceministro della Mobilità e i Trasporti Teresa Bellanova, si è esteso anche in altre parti d'Italia e continuerà oggi. Hanno aderito tutte le sigle sindacali per chiedere lo stralcio dell'articolo 10. Che prevede la delega al governo di riformare il settore con «l'adeguamento dell'offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l'interconnessione dei passeggeri e dei conducenti», (Uber, ndr) e contro «la promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze, al fine di stimolare standard qualitativi più elevati». In commissione Attività produttive alla Camera è iniziato l'esame dei 400 emendamenti e secondo quanto si apprende da fonti parlamentari l'obiettivo della maggioranza sarebbe chiudere le votazioni entro la fine della prossima settimana, con l'approdo del testo in Aula che potrebbe avvenire nella terza settimana di luglio. Ma la Lega si schiera con la categoria: la riforma del trasporto pubblico non di linea non può essere fatta con una legge delega. «Questa materia è fuori dalle riforme previste dal programma di governo e rischia di diventare un tema altamente divisivo», dicono in una nota i deputati della Lega in commissione Trasporti, Elena Maccanti (capogruppo) ed Edoardo Rixi (responsabile dipartimento Infrastrutture).

«Siamo sempre più convinti attaccano le sigle che la riscrittura delle norme per migliorare il settore debba avvenire non con una legge delega inserita in un ddl concorrenza, ma attraverso un provvedimento di confronto tra categoria, governo e sindacati». Ieri il viceministro Bellanova da un lato ha confermato che che «il governo non è intenzionato a fare lo stralcio dell'articolo 10 del ddl concorrenza» ma dall'altro ha aperto «a portare avanti il confronto per chiarire meglio e puntualizzare. Al tavolo di ieri con i sindacati dei tassisti ho invitato le parti a rinviare lo sciopero di oggi per continuare a lavorare e definire meglio il testo dell'articolo 10». Il responsabile nazionale di Unica Cgil taxi, Nicola Di Giacobbe, dal palco di Piazza Venezia ha attaccato: «I tassisti sono un servizio pubblico con una tariffa amministrata dai Comuni con un numero contingentamenti. Il tentativo che c'è dietro questa delega è dare in mano questo servizio alle multinazionali, fonte dello sfruttamento del lavoro altrui. Il governo ci pone la richiesta di una delega che rimandiamo al mittente».

Ma la stessa categoria è divisa. Da un lato Cgil, Ugl e Usb, all'altro Confartgianato e le cooperative. Confartigianato Taxi e Sna Casartigiani Taxi parlano di «Grande apprezzamento per le aperture» di Bellanova a redigere un nuovo testo che permetterebbe tra le altre cose «di rafforzare la tutela degli utenti, mantenere la distinzione tra taxi e Ncc rispetto all'utenza di riferimento e introdurre una disciplina specifica delle attività delle piattaforme».

Il presidente di Conftrasporto-Confcommercio Paolo Uggè, evoca come soluzione l'accordo stretto lo scorso maggio tra Radiotaxi Roma e la compagnia di rider sharing, che prevede una percentuale del 6% per ogni corsa effettuata tramite prenotazione sulla app del servizio taxi 3570, garantendo per tutti i soci di quest'ultimo un numero più elevato di chiamate. «La strada è già stata tracciata, l'intesa attuata. Basterebbe replicarla in ogni parte d'Italia».

Paolo Baroni per “La Stampa” il 22 luglio 2022.

Alla fine l'hanno spuntata loro, i tassisti. Per mandare avanti la nuova legge sulla concorrenza, con le nuove norme sulle concessioni demaniali, il trasporto pubblico, le tlc e le assicurazioni, da mesi all'esame del Parlamento, ieri il governo ha informato i capigruppo della Camera di voler stralciare dell'articolo 10 relativo ad auto bianche ed Ncc. 

Di fatto è un compromesso quello raggiunto dall'ormai ex maggioranza su uno dei temi in assoluto più divisivi: su proposta dalla capogruppo pd Debora Serracchiani tutti i partiti si sono impegnati a non presentare in aula nuovi emendamenti quando lunedì il ddl andrà in votazione a Montecitorio per poi venire subito rispedito in Senato per l'ok definitivo.

Festeggiano ovviamente i tassisti, che a colpi di scioperi improvvisi e proteste violente hanno continuato per settimane ad insistere sullo stralcio, criticando innanzitutto l'uso della legge delega, l'idea di promuovere la concorrenza «anche in sede di conferimento delle licenze» come recitava l'art. 10, e l'indicazione di dover adeguare l'offerta dei loro servizi «mediante l'uso di applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l'interconnessione dei passeggeri e dei conducenti», ovvero app come Uber e Lyft. 

Ovviamente festeggia tutto il centrodestra (di governo e non) che sui taxi, come in precedenza sui balneari, ha condotto una vera e propria battaglia che alla fine ha fatto indispettire pure Draghi. 

«È una vittoria del buonsenso» affermano i deputati leghisti della Commissione Trasporti Elena Maccanti ed Edoardo Rixi. «Se il governo ci avesse seguito subito avremmo evitato le sabbie mobili in cui si era impantanato il ddl concorrenza». «È grazie a Fratelli d'Italia e a tutto il centrodestra che l'articolo 10 sarà stralciato - rivendica il capogruppo Fdi Francesco Lollobrigida -. Questo è l'unico modo per difendere il comparto dalla sleale competizione delle multinazionali».

Non la pensa allo stesso modo Davide Gariglio del Pd secondo il quale, invece, è «solo grazie al senso di responsabilità» dei dem che il ddl Concorrenza verrà votato dall'aula della Camera nei prossimi giorni. «In questo modo mettiamo in sicurezza la seconda rata dei fondi europei per il Pnrr e portiamo a casa un risultato utile per le imprese e per le città, perché i comuni hanno tante difficoltà e non potrebbero fare a meno dei fondi europei» spiega la presidente della Commissione attività produttive della Camera Monica Nardi (Pd), secondo la quale il governo (per quanto dimissionario) potrà comunque far marciare la riforma visto che non tutte le norme attuative prevedono un parere delle commissioni parlamentari.

I sindacati, revocato in extremis l'ennesimo sciopero previsto in questi giorni, incassano un risultato che inseguivano da mesi. «Bene lo stralcio - commenta Riccardo Cacchione di Usbtaxi -. Tiriamo un sospiro di sollievo per noi e per tutti gli utenti che si rivolgono a quello che dovrebbe essere un servizio pubblico essenziale».

«Ha vinto il servizio pubblico bene comune» commenta il coordinatore nazionale di Unica Cgil Taxi, Nicola Di Giacobbe che però ora si aspetta che venga regolamentato l'uso delle app per frenare lo strapotere delle multinazionali. Nettamente contrari alla svolta, invece, i consumatori. Secondo il presidente di Assoutenti Furio Truzzi «ancora una volta lo Stato italiano cede alle violenze e alle pressioni della lobby corporativa dei tassisti, dimostrando una debolezza che non ha eguali nel mondo».

Agenda Guia. Pnrr, che mi hai portato a fare sopra a un tassì se non mi accendi l’aria? Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 luglio 2022.

L’autista che sbaglia indirizzo perché impegnato a prendersela col collega, il separé di plexiglas, il pos rotto. Fa troppo caldo per chiedere ai tassinari di comportarsi come lavoratori normali? Per fortuna che non ho parlato con loro di Draghi

Alla stazione di Milano ci sono molti taxi, pochi passeggeri, e alcuni striscioni di protesta affissi dai liberi professionisti meno professionisti ma più liberi che ci siano. Uno dice: chi foraggia la multinazionale Uber è un infame.

All’alba bolognese, visto che ormai non si capisce più quando i taxi scioperino e quando no, mi hanno prenotato un ncc, non sono abituata a chiamarle così perché negli anni Ottanta le usavamo ma nessuno usava la dicitura «noleggio con conducente», si diceva «prendo una macchina blu», erano due società, sono rimaste le stesse, Bologna è rimasta per quello come per tutto al 1982. L’ncc mi aspetta al civico sbagliato, quando lo trovo e glielo faccio notare il guidatore s’innervosisce e se ne va. Quanto devi guadagnare per fottertene di fare la corsa per cui ti sei svegliato alle cinque?

Alla stazione di Milano il primo tassista mi dice: ho il bancomat rotto, è un problema? Beh, sì, è un problema legale. Mi guarda come se gli avessi parlato in una lingua a lui ignota. La legge dice che lei deve avere il pos. Eh, ma è rotto. Sì, e io sono miss in gambissima. Non lo dico. Ne vado a prendere un altro.

L’amica su taxi romano mi scrive: ti chiamo dopo, perché ora non posso dirti che questi stronzi di tassisti hanno fatto cadere il governo.

Il taxi che mi viene a prendere a Bologna ha l’aria condizionata spenta. Prima alla centralinista chiedevi: mi manda un taxi da pagare con la carta? Adesso, che il pos sono obbligati ad avercelo e puoi tirare fuori a sorpresa la carta a fine corsa, dovresti chiedere: mi manda un tassista che capisca che non solo deve avere l’aria condizionata ma deve pure averla accesa da prima, ché se arriva qui che è un forno se anche la accende quando salgo comunque mi si disfa la messinpiega prima che la macchina torni a temperatura potabile?

Il tassista bolognese, alla mia richiesta di accendere l’aria condizionata, risponde: io ho fatto il macellaio quindici anni, e le assicuro che non serve a niente. Oddio, sarà uno di quelli che vogliono spiegarmi che il caldo è una percezione e se non ci pensi non hai caldo? (È sicuramente una coincidenza che siano sempre uomini che non hanno mai avuto la sesta di tette e la menopausa). O intende cose più sofisticate, tipo che la carne morta marcisce comunque, con o senza condizionatore? Fa troppo caldo per chiedergli di spiegare, mi sudano i capelli, per non dir delle tette.

Mentre salgo sul secondo taxi alla stazione di Milano, sono al telefono con un’amica alla quale dico: scusa un attimo, devo dire l’indirizzo al secondo tassista perché il primo mi ha respinta. Il secondo tassista sente, tira giù il finestrino del passeggero e si mette a urlare al primo: collega, devi prendere i passeggeri in ordine. Poi fa una pausa negli strilli, durante la quale sente il signor «è un problema?» che prende ben volentieri un passeggero che paga anche lui con la carta ma va a Malpensa. Se non era per il dover portare lo scarto (che sono io), Malpensa toccava a lui. Il pelide Achille in confronto l’aveva presa bene.

L’amica sempre sul taxi romano mi scrive: mi hanno telefonato, ho detto al telefono «il governo», e questo mi sta attaccando una pezza da dieci minuti su come è stato ingiusto Draghi con loro.

A Bologna, dico al parrucchiere cinese che sto già ripartendo, speriamo non ci sia di nuovo lo sciopero dei taxi. Lui mi chiede perché i tassisti scioperino, «non lavorano da soli?», conveniamo che non vogliano pagare le tasse, poi lui mi chiede di pagare la messinpiega in contanti.

A Milano, il secondo tassista mi porta in un posto che non so dove sia. Mentre gli davo l’indirizzo era impegnato con l’ira funesta verso quello che gli aveva fregato la corsa per Malpensa, e non ha capito dove dovessi andare.

A Roma, prenoto un ncc perché devo prendere un’amica e andare in un posto prima che chiuda, mica posso rischiare di non trovare il taxi. La tizia al centralino mi dice che con una fermata intermedia sono quaranta euro. Anche l’ncc romano ha l’aria condizionata spenta quando ci salgo, la macchina inizia a essere fresca quando arriviamo a destinazione, dopo aver preso la mia amica: otto minuti in tutto. «Fanno quaranta». «Ho una carta». «No». L’amica paga lei in contanti, guardandomi come a dire: ma ci sei, che pensi veramente di poter pagare un autista romano con la carta, o ci fai?

All’aeroporto di Bologna, il taxi ha già undici euro sul tassametro. Trasecolo. Mi dice che è la tariffa minima dall’aeroporto, se non ci credo mi fa vedere il tariffario. Dico: sì, grazie. Va a prenderlo nel bagagliaio (ma perché tiene il listino prezzi nel bagagliaio?) borbottando: soccia che due maroni. Diceva il vero: c’è un minimo garantito casomai tu abitassi troppo vicino all’aeroporto e il tassista rischiasse d’incassare meno di undici euro. Rimette il listino nel bagagliaio: certi segreti bisogna sudarseli.

A Milano, il taxi che deve portarmi in aeroporto ha l’aria condizionata accesa, ma è come se non l’avesse: il separé di plexiglas fa sì che si raffreddi solo lui. «Ci hanno obbligati a metterlo col Covid». E tutti gli altri che non ce l’hanno più da due anni, il separé? E la mia messinpiega che si disfa? La prossima volta devo dire «un taxi con l’aria condizionata accesa e senza plexiglas che ne ostruisca il flusso d’aria fredda»? Mi dice che se voglio posso andare a sedermi davanti. Scendo in mezzo a via Vittor Pisani rischiando la vita pur di sedermi davanti a un bocchettone gelido e non far marcire la mia carne morta.

Alla stazione di Bologna, il tassista mi dice: la mascherina è obbligatoria. La metto pensando che nessun tassista negli ultimi mesi l’aveva o m’ha chiesto di metterla. Sarà un obbligo all’italiana, come il plexiglas, come l’aria condizionata nelle macellerie, come il pos rotto. D’altra parte, se nessuno scrive da nessuna parte «è severamente obbligatorio», lo sappiamo che finisce come pronosticato da Corrado Guzzanti, costituzionalista e antropologo: facciamo un po’ come cazzo ci pare.

LA PROTESTA CHE PARALIZZA ROMA. Lo sciopero dimostra che i taxi non sono servizio pubblico ma privilegio privato. SELVAGGIA LUCARELLI Il Domani il 05 luglio 2022

Con lo sciopero i tassisti intendono opporsi a quel temutissimo articolo 10 che riguarda  «l’adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti».

Insomma, la solita storia: i tassisti presidiano il loro fortino, non vogliono concorrenza, Uber è il male e così via.

Chissà se è servizio pubblico lasciare persone a piedi di notte, con la pioggia, perché senza contanti.

Per quasi due anni, a singhiozzo, i taxi sono rimasti fermi a causa della pandemia, hanno avuto i loro sussidi dallo stato, non hanno potuto contare su turismo e normale mobilità. Eppure, da settimane, con le città piene di turisti, non fanno che scioperare. Beati loro, verrebbe da dire, perché è evidente che possono concedersi il lusso di farlo. Un lusso curioso, visto che dichiarano al fisco poco più di mille euro al mese (non sono obbligati ad emettere ricevuta fiscale e pagano le tasse in base a studi di settore) e comprano licenze che ne costano 180mila.

LE MOTIVAZIONI

Con lo sciopero (l’ultimo è del 5 e 6 luglio) i tassisti intendono opporsi a quell’articolo 10 che riguarda «l’adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti». La solita storia: i tassisti presidiano il loro fortino, non vogliono concorrenza, Uber è il male e così via.

Naturalmente ammantano la loro arroganza di nobili ragioni: «È una risposta a chi pensa di svendere la funzione di servizio pubblico che svolgiamo», «ci batteremo fino all’ultimo respiro contro i parassiti che vorrebbero sottrarci il frutto della nostra fatica». «È la lotta di 40mila lavoratori contro la speculazione finanziaria», dicono. Commovente. Soprattutto quando parlano di servizio pubblico. Chissà se è servizio pubblico lasciare persone a piedi di notte, con la pioggia, perché senza contanti. Lasciare i turisti in fila all’aeroporto se non hanno i cento euro nel portafogli (ora ci sono le sanzioni, vedremo quanto funzioneranno).

SE QUESTO È SERVIZIO PUBBLICO

Chissà se è servizio pubblico non accettare determinate corse dagli aeroporti perché non sono vantaggiose o farle pagare cifre irragionevoli. Chissà se è normale alzare le corse fisse da e per gli aeroporti, lamentarsi delle commissioni alle banche come fossero l’unica categoria in Italia a pagarle. Chissà se è normale che non ci siano taxi a sufficienza nei weekend di sole o accompagnare i clienti al bancomat, urlando che devono prelevare perché loro non regalano soldi alle banche.

Chissà se è normale che in questi giorni alcuni tassisti in sciopero aggrediscano i colleghi che vogliono lavorare, li costringano a lasciare i clienti a un isolato dalle stazioni per non farsi vedere dai colleghi furiosi. Ad alcuni, per ritorsione, sono state staccate le targhe, ad altri gli specchietti, con tanto di minacce. Di sicuro non è normale che fino ad oggi il governo abbia sempre piegato il capo agendo per il vantaggio dei tassisti anziché per il bene dei cittadini. Mi aspetto che Draghi – uno che ha l’aria di decidere lui il prezzo della corsa – non si lasci intimorire da scioperi, cori e striscioni. È ora di aprire il mercato e chiudere definitivamente lo sportello dei taxi che si spacciano per servizio pubblico, ben attenti a tutelare solo il privato. 

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

PERCHÉ HANNO PAURA DELLE LIBERALIZZAZIONI. I tassisti speculano sulle licenze e si lamentano pure. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 07 luglio 2022

Il ritornello è sempre lo stesso: abbiamo pagato tanto. Ma la verità è che sono gli autisti a far lievitare i prezzi dei permessi

«Con quello che abbiamo pagato o stiamo pagando per la licenza, ora vogliono toglierci il lavoro!». Il tema più ricorrente tra i tassisti che protestano contro il disegno di legge Concorrenza è quello delle licenze acquistate a peso d’oro, licenze che – se diminuisse il numero delle corse da gestire – qualcuno potrebbe far fatica a pagare, visto che in molti hanno potuto ottenerle grazie a un mutuo.

UN SISTEMA FEUDALE

La preoccupazione potrebbe sembrare comprensibile se la faccenda delle licenze, in realtà, non nascondesse una delle più assurde incongruenze di tutta questa storia. Le licenze infatti vengono cedute a basso prezzo dai comuni tramite regolari bandi.

I bandi, negli anni, sono praticamente spariti per due motivi: i tassisti, per legge, possono decidere a chi cedere le licenze (un sistema feudale, verrebbe da dire) segnalando il nominativo al comune. E fin qui, ci sarebbe già molto da dire, ma siamo nelle regole. In seguito, i tassisti hanno creato una sorta di mercato interno delle licenze, opponendosi sempre con forza a nuovi bandi («Siamo già troppi») e rivendendole come se non fossero di proprietà del comune, ma cosa loro. Un loro bene privato, come una macchina o una casa. E contando appunto sul fatto che sono praticamente un numero ormai chiuso.

La liberalizzazione delle licenze ucciderebbe questo florido mercato (a Milano le licenze possono costare 200mila euro, a Venezia 400mila) e, ovviamente, la corporazione smetterebbe di essere quel fortino inespugnabile che decide le regole del gioco a spese dei cittadini e dello stato. Tra l’altro, in molti si domandano chi mai acquisterebbe licenze a questi prezzi se le dichiarazioni dei redditi dei tassisti (15mila euro l’anno di media) fossero veritiere.

Le origini del nervosismo dei tassisti sono dunque molto evidenti: da una parte l’introduzione delle sanzioni abbinate al pos obbligatorio che non consentono più di pretendere contanti e accumulare eventuali guadagni in nero. Dall’altra l’apertura eventuale alla concorrenza, che impedirebbe loro di fare il bello e il cattivo tempo e consentirebbe al cittadino di avere un servizio migliore.

Ci sono poi le denunce ormai pubbliche da parte dei clienti di soprusi e arroganza, che hanno più volte imbarazzato la categoria e, infine, la citata questione dell’eventuale liberalizzazione delle licenze, di cui si discute da tempo. «Si sta scoperchiando il vaso di Pandora e i tassisti hanno paura. Una frangia consistente, la più dura e intoccabile, ha capito che la festa sta per finire, è per quello che reagisce con violenza. Stanno annaspando».

Giovanna è figlia di uno storico tassista di Roma, di quelli che hanno avuto le licenze dal comune negli anni ‘70 e ha amici e parenti tassisti. Il padre assiste alla conversazione ma dice che fa parlare lei, che soffre nel vedere la categoria ridotta così, e alle parole della figlia annuisce con amarezza. Lei stessa voleva diventare una tassista, ma non c’è riuscita. «Quando ero giovane volevo prendere la licenza per studiare e mantenermi, ma mio padre l’aveva restituita da un po’ al comune e io dovevo comprarla a cifre folli dagli altri tassisti, non è stato possibile. Mi sono ammazzata di babysitting, ripetizioni e lavori nei pub, mia madre mi ha aiutata. Ma lo scandalo delle licenze è qualcosa di cui nella mia famiglia si è sempre discusso, perché alla fine siamo una famiglia di tassisti».

UN MALCOSTUME INVENTATO

Qual è il punto? «Il punto è che i tassisti si lamentano perché le licenze costano, dimenticando di spiegare che le licenze si comprano perché è un malcostume inventato da loro. Le licenze taxi sono un bene del Comune e dovrebbero essere disponibili per chi abbia i requisiti. Il problema è che quasi tutti i tassisti quando smettono non le riconsegnano al comune ma passano di mano in mano, le vendono al miglior offerente».

Che deve offrire quanto? «A Roma sui 130mila euro, con tanto di trasferimenti registrati da notai. Sono decenni che il comune millanta l’assegnazione di nuove licenze ma poi nei fatti il sistema è questo». I tassisti dicono che ce ne sono già troppe. «Se devi guadagnare come un primario e dichiarare quanto un commesso sì, sono troppe. Spero che il governo azzeri questi privilegi assurdi e consenta a persone come me di lavorare nel settore, magari con Uber». Perché reagiscono con questa violenza al cambiamento? «Hanno paura. Per la prima volta i loro privilegi sono davvero in pericolo e il gioco sta per finire. Articoli come i suoi su Domani li stanno destabilizzando. Stanno annaspando e non me ne dispiaccio».

Quando costa ottenere una licenza dal comune, se si ottiene l’assegnazione? «Si pagano i bolli, gli esami, le abilitazioni… poche migliaia di euro. Poi c’è la macchina che è a carico del tassista così come il collaudo e poco altro». La cosa bizzarra è che si sia creato questo mercato delle licenze col benestare più o meno tacito dei comuni e dello stato. «Questo è un privilegio concesso veramente in maniera incomprensibile. Loro vendono e rivendono ciò che hanno avuto gratis dal comune. In più, come dicevo, se vuoi la licenza in linea di massima devi conoscere un tassista che sappia chi è disposto a cedertela. Esistono delle chat WhatsApp in cui i tassisti si scambiano informazioni varie, dagli incidenti agli scioperi, e scrivono anche quando c’è qualcuno che vende le licenze, cose tipo “Ao’ ce sta tizio che venne, vóle 130mila”».

Ma il comune non interviene? «Le licenze non tornano quasi mai al comune e sinceramente non so se il comune abbia sempre idea di dove vadano a finire le licenze. Si fa ancora tutto col cartaceo, la digitalizzazione è un miraggio e chissà se c’è un database aggiornato, chissà che controlli fanno…». Però i tassisti usano questa storia dell’aver comprato la licenza a peso d’oro come argomento difensivo. «Certo, ti dicono “E se questo mercato non è regolare perché lo stato ci fa fare le compravendite dal notaio? E perché le banche per comprare le licenze ci concedono il mutuo?”». Insomma, tu avresti voglia di lavorare nel settore come tuo padre, se regolamentato. «Certo. La gente non lo sa ma tante persone potrebbero lavorare come tassisti se il meccanismo fosse sano. Sarebbe un’opportunità per moltissimi, ma finché questa lobby continua a raccontarsi come una categoria maltrattata, i poco informati tendono a darle ragione, a pensare che subisca chissà quali soprusi».

E a proposito dei mutui concessi per l’acquisto delle licenze, chiedo a G., che lavora per un istituto di credito italiano se sia vero: «Guardi, io ho a che fare con molti tassisti e vedo dichiarazioni dei redditi al limite dell’imbarazzante. Però chiedono mutui per l’acquisto di licenze con case di proprietà a garanzia e sì, confermo, tutto questo è concesso regolarmente». Insomma, la vera domanda non è neppure “Draghi terrà duro?”, ma “come è stato possibile fino a oggi tutto questo?”.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Gli insulti a Selvaggia Lucarelli tolgono ogni legittimità alla protesta dei tassisti. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 06 luglio 2022

La protesta corporativa dei tassisti ha completamente perso ogni legittimità e sarebbe molto grave se dal governo ci fosse anche la più minima apertura a una categoria che conterà sicuramente anche tante persone per bene, ma che nella sua espressione pubblica è indifendibile.

NapoliToday pubblica un video che circola in rete di tassisti in piazza che saltellano intonando in coro “Selvaggia Lucarelli è una puttana”. La colpa di Selvaggia è aver scritto su Domani quello che tanti giornalisti pensano ma non osano dire, perché sui taxi ci salgono spesso (per gli aeroporti o anche soltanto da e per gli studi televisivi) e temono ritorsioni.

Selvaggia ha scritto in prima pagina su Domani che i tassisti difendono privilegi antistorici, il valore di licenze che hanno scambiato come garanzia di profitto, invece che come rischio di impresa, e poi l’insindacabilità del loro lavoro.

Sono servizio pubblico quando devono rivendicare protezione dalla politica, e professionisti autonomi quando rifiutano regole, controlli e verifiche fiscali. 

Ho vissuto un anno negli Stati Uniti, a Chicago, e non ho mai preso un taxi. C’è Uber, Lyft e molto altro. Soltanto in Italia siamo ostaggio da decenni di questa corporazione che spaventa tutti, giornalisti e politici, e spesso anche i clienti, specie se stranieri.

Quando qualcuno rompe questo muro di indifferenza e complicità, si trova insultato in piazza. E non per le sue idee, ma perché è una donna e, dunque, inevitabilmente una “puttana” nel sillogismo di questi tassisti. Che, va ricordato, sono gli stessi a cui molte donne si affidano per tornare a casa a notte tarda quando non ci sono più metro o bus.

Non mi pare di vedere una gara di solidarietà nei confronti di Selvaggia, e neppure delle sigle dei tassisti a smarcarsi dai facinorosi.

Già questo dovrebbe essere un argomento sufficiente a ricordarci che la politica deve tutelare il diritto dei cittadini a spostarsi in sicurezza all’interno di una città, non una categoria che è pronta a difendere i propri privilegi con le armi della minaccia e dell’insulto.

STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

Maria Corbi per “la Stampa” il 7 Luglio 2022.

L'insulto. Ecco come declinano le loro ragioni i tassisti. A Napoli si scagliano contro Selvaggia Lucarelli e un video li mostra che saltellano urlando: «Selvaggia Lucarelli è una puttana». Questo perché lei ha scritto sul quotidiano Domani che «lo sciopero dimostra come i taxi non sono servizio pubblico ma privilegio privato». 

Ci risiamo. Invece di argomentare le tue critiche ti insultano.

«Sono una cliente molto assidua dei tassisti e posso dire di avere un bagaglio di esperienza che fa statistica. Quando mi sento dire "parli delle mele marce, ma la categoria è altro", evidentemente sono molto sfortunata. Incontro spesso mele marce. E io non taccio. Sono una categoria molto aggressiva, chiusa al cambiamento, vorrebbero che rimanessimo a 20 anni fa. Devono assecondare i cambiamenti».

Non lo hanno mai fatto. E la politica non li ha mai convinti o costretti.

«È una categoria che storicamente è sempre stata trattata con i guanti bianchi, iniziando dal fatto che pagano le tasse basando il loro reddito sugli studi di settore. Ridicolo.

Leggenda vuole che tutta la politica è spaventata perché significano decine di migliaia di voti. È noto che le campagne elettorali per il sindaco di Roma prevedano che si parli di tutti e tutto, tranne che di taxi nonostante la scontentezza di cittadini e turisti. 

Si parla di cinghiali, pulman, spazzatura, ma non di loro. Spero che Draghi che ha l'aria che ha uno che decide il prezzo della corsa non chini il capo. Tra le altre cose anche lui come me è stato vittima di insulti». 

Oltre le mele marce c'è chi cerca di difendere i propri diritti.

«Ci mancherebbe, bisogna tenerne conto. Ma il fatto è che loro si difendono con prepotenza, violenza verbale, arroganza. E non accettano il dissenso interno». 

Sono spaccati?

«L'altro giorno sono salita su un taxi e c'era un autista amareggiato che mi diceva di essere favorevole a un accordo con Uber ma di avere paura dei colleghi. Se lavora durante lo sciopero lo minacciano, lo aggrediscono, gli hanno strappato la sigla dal taxi. E non solo a lui». 

C'erano anche donne nel coro degli insulti. Ti stupisce?

«Io non penso che le donne siano esseri angelicati con una superiorità morale rispetto agli uomini. Molte hanno interiorizzato quella cultura lì e parlano come i maschi di cui sono ancelle. Sono parte di questo mondo retrogrado e sessista. Il mio articolo aveva una serie di contenuti che potevano essere contestati, invece si è andati come sempre sul personale. E nel mio lavoro mi accade una volta su due».

Vedi Salmo pochi giorni fa. Come è finita?

«In privato mi ha mandato messaggi laconici fingendosi benevolo. Ma è partito con un insulto sessista e ha continuato con lo stesso tono in privato».

Torni a "Ballando con le stelle" anche la prossima stagione. Spesso usano questo tuo impegno per insultarti.

«Tentano di delegittimarmi andando a prendere la cosa più effimera del mio lavoro, cercando di identificarmi con quello. E questo lo fanno sempre e solo i maschi. Sono stata invitata ad alzare palette sempre e solo da maschi e sempre colleghi. Giletti, Paragone, Monteleone, una marea. Un'ossessione maschile». 

Viene da pensare che non tollerino critiche da una donna.

«Sì, credo che sia una questione di potere. Occupo uno spazio che ritengono loro, un'invasione. Come si permette di occuparlo? Decidono loro, i maschi, se puoi contare o no. E così quelle donne cooptate nel giro diventano la peggiore rappresentazione di quella mentalità, grate e devote al maschio che le ha prese dal mucchio. Io non ho padrini, non ho uomini a cui dire grazie. Il mio spazio me lo sono presa da sola». 

Altro nemico altra corsa: Fedez.

«Qui il sessismo non c'entra, non è abituato alle critiche per l'assoluta mancanza di dissenso. Ha 20 milioni di fan e la stampa a suo favore. Dovrebbe trascurare le critiche dell'unica che le fa. Ma non si può non parlare di una persona che si espone in questo modo. E continuerò a farlo».

L'insulto che ti ha fatto più male?

«Forse quello dei due youtuber che mi dedicarono un video di 15 minuti dandomi della puttana. Fedez gli ha dato il suo avvocato per difendersi. Ma sono stati condannati. Rimango più turbata dalla solidarietà silenziosa fatta di like che da chi mi insulta». 

Tu denunci sempre? Tuo figlio è turbato dagli insulti che ricevi?

«Lui è abituato, non l'ho mai protetto da questo punto di vista. Gli ho fatto capire da subito come funzionava il mondo e il mondo del web. Non ha questo istinto di protezione perché sa che mi difendo bene da sola. È sicuro della mia forza. È invece preoccupato del fatto che si rispetti il mondo femminile». 

Da repubblica.it il 18 agosto 2022.

Una lotta senza quartiere quella dichiarata da Selvaggia Lucarelli ai tassisti. Anche quando non è direttamente coinvolta, come nel caso in questione, la giornalista non si tira indietro dal denunciare le irregolarità e gli imbrogli messi in atto dalla categoria. 

Questa volta è toccato all'influencer Kristian Pengwin che per la tratta Fiumicino-Latina ha dovuto pagare il doppio rispetto al prezzo indicato dal tassametro. Alla richiesta di spiegazioni, il tassista ha reagito mettendogli le mani addosso.

I taxi continuano le proteste per restare senza veri controlli. STEFANO IANNACCONE Il Domani il 05 luglio 2022

Lo sciopero dei tassisti ha visto la presenza di migliaia di persone che si sono avvicinate anche a Palazzo Chigi.

Il monitoraggio sulla qualità del servizio resta molto sfumato. C’è il livello dell’autorità nazionale e quello dei Comuni, ma nei fatti incidono di più le applicazioni digitali che prevedono la pubblicazione di recensioni.

A Roma c’è un apposito ufficio che raccoglie i reclami degli utenti su eventuali disservizi subiti sul taxi durante la corsa. Ma l’ufficio non è molto noto alla cittadinanza.

Dagospia il 2 luglio 2022. ALTRO CHE MASSONI E POTENTATI ECONOMICI: L’UNICA LOBBY CHE FUNZIONA IN ITALIA È QUELLA DEI TASSISTI – IL GOVERNO DRAGHI PROVA PER L’ENNESIMA VOLTA A FARE UNA MICRO-LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE E SI SCATENA UN PUTIFERIO, CON TANTO DI ANNUNCIO DI SCIOPERO PER IL 5 E 6 LUGLIO. E LA POLITICA, INVECE CHE PROCEDERE DRITTA, CHE FA? DÀ LORO ASCOLTO! DAL PD A FDI, FINO A LEGA E LEU, TUTTI SCHIERATI CON I POVERI TASSISTI, CHE NON VOGLIONO LA CONCORRENZA DELLE APP. TE CREDO: LI COSTRINGEREBBE AD ABBASSARE I PREZZI E A GARANTIRE UN SERVIZIO DECENTE!

Taxi: sciopero confermato, Bellanova tenta mediazione. (ANSA il 2 luglio 2022) - Lo sciopero di 24 ore dei tassisti previsto con ritrovo e corteo a Roma il 5 e 6 luglio è confermato. Lunedì la vice ministra delle Infrastrutture e Trasporti Teresa Bellanova, su delega del governo, ha nuovamente convocato i sindacati per trovare una mediazione in extremis. I tassisti protestano contro l'articolo 10 del Ddl Concorrenza. 

TASSISTI GLI INTOCCABILI. Francesco Grignetti per “la Stampa” il 2 luglio 2022.

Chi mette mano ai taxi, in questo Paese, rischia di restare folgorato. Manco fossero cavi dell'alta tensione. È una regola non scritta della politica. Ora ci prova il governo Draghi, che ha infilato una delega nel ddl Concorrenza che ha scatenato l'ansia della categoria. Tanto che martedì e mercoledì, salvo colpi di scena dell'ultim'ora, ci sarà uno sciopero di 48 ore dei conducenti delle auto bianche. 

Ma anche stavolta i tassisti hanno trovato ascolto in Parlamento: da Fratelli d'Italia alla Lega, al Pd, a Leu, si moltiplicano gli emendamenti che vorrebbero chiuderla lì e rinviare la questione alla prossima Legislatura. Ne sono state presentati quaranta.

Quantomeno si cerca di mettere paletti stringenti alla delega del governo, perché la parola «liberalizzazione» dalle parti delle auto di piazza fa davvero paura. Per il governo, è all'opera la viceministra alle Infrastrutture, Teresa Bellanova, renziana. Una che ha una coraggiosa storia di sindacalista alle spalle, a favore dei braccianti. E quindi molti pensavano che mai avrebbe favorito le multinazionali e le app. 

Ma ora, dopo l'incontro avuto con le sigle sindacali dei tassisti di venerdì, Bellanova è guardata con sospetto. Dice Riccardo Cacchione, coordinatore del sindacato di estrema sinistra Usb: «Il Governo sembra voler andare avanti. 

Lo sciopero rappresenterà un segnale forte. Potrebbero seguirne altri. Il servizio pubblico per natura stessa non può essere messo in concorrenza». Così non meraviglia se in odio al liberista Mario Draghi, si schiera a favore dei tassisti anche Giorgio Cremaschi, che viene dalla Cgil dura e pura. E se parla il sindacalista dell'Ugl, tanto, il tono non cambia. 

In verità ci sarà un tentativo di fermare lo sciopero in extremis. Dagli uffici della Bellanova potrebbe partire un invito a rivedersi lunedì e lì, forse, il governo potrebbe scoprire le carte. O almeno qualcuna. Ma non è detto che basti a placare gli animi. 

Premesso che Draghi non accetterebbe di cancellare l'intera materia con un tratto di penna, dentro il governo si stanno studiando i diversi emendamenti dei partiti per capire un possibile punto di caduta. Di sicuro la maggioranza è d'accordo che i tassisti non possono essere trasformati in altrettanti «rider», e che le app delle multinazionali non possono diventare le nuove divinità sul lavoro. Ma poi qualcosa deve comunque succedere e necessariamente scontenterà qualcuno. 

C'è una legge del 2019 (governo Conte I) che aveva riscritto le regole, ad esempio, ma già è subentrata una sentenza della Corte costituzionale e la situazione è mutata: perciò gli arcinemici dei tassisti, i conducenti di Ncc, sono stati liberati dall'obbligo di tornare in rimessa quando una corsa è terminata, ma ciò significa che possono aspettare la corsa successiva in strada come un taxi qualsiasi?

E poi, specie a Roma dove ci sono migliaia di conducenti Ncc che lavorano con licenze concesse da Comuni fuori provincia o addirittura fuori Regione, che fine faranno se si applicherà rigidamente la norma del 2019 che restringe il servizio Ncc alla propria provincia? 

Il deputato Davide Gariglio, Pd, è uno convinto che la materia andrebbe affrontata qui e ora, senza rinviarla a una delega troppo aperta: «Potremmo trovare noi in Parlamento le soluzioni - dice - così da non rinviare ancora, e allo stesso tempo tranquillizzare una categoria che teme moltissimo che si dia carta bianca al governo».

La partita, però, va molto al di là dell'annoso braccio di ferro tra queste due categorie di autisti perché nel settore ha fatto irruzione la modernità. Ora, per dire, i taxi devono garantire il pagamento con il Pos e c'è chi ancora accampa scuse. Manca il Registro informatico pubblico nazionale delle imprese titolari di licenza per il servizio taxi, come pure sarebbe previsto da tre anni; oppure il Foglio Elettronico di Servizio, che varrebbe invece per gli Ncc.

E sullo sfondo c'è il fantasma di Uber o piattaforme simili. Un emendamento del partito di Bellanova, Italia viva, a firma delle deputate Raffaella Paita e Sara Moretto, prevede che si distingua tra soluzioni web molto diverse tra loro: una cosa è l'interconnessione con gli utenti, e che prevede la responsabilità diretta nel trasporto da parte dei vettori; altra cosa è l'intermediazione, dove l'intermediario non è responsabile.

Si appoggiano auna sentenza della Corte di giustizia Ue del 2020 (sulle piattaforme di pura intermediazione) e una legge del 1992 (sulle piattaforme che svolgono attività di trasporto in modalità aggregata). I tassisti temono in buona sostanza che dietro la spinta alla concorrenza, si nasconda una regolazione a favore delle piattaforme tecnologiche. E alla fine è davvero isolatissimo, chi, come +Europa, chiede «l'apertura del settore a servizi a forte contenuto tecnologico come le app, senza se e senza ma, allineando il Paese a quelli più avanzati».

·        La Lobby dei Farmacisti.

Soldi pubblici e monopolio sui tamponi: la lobby delle farmacie è diventa più ricca col Covid-19. Il potere di una delle corporazioni più forti d’Italia aumenta con la pandemia: grazie ai parlamentari amici è stata evitata la concorrenza delle parafarmacie e c’è stato l’ok a un progetto del Pnrr da 100 milioni. E poi quasi 300 milioni di rimborsi statali. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 22 febbraio 2022.

Al campionato italiano delle corporazioni le farmacie non perdono mai. E da decenni. Ogni volta che rischiano di dover rinunciare a un’oncia di fatturato o di privilegio, ne escono rafforzate. La politica si scusa per i pensieri così spregevoli e le rimborsa, le tutela, le supporta. È successo anche con la pandemia: più compiti, più potere, più denaro.

Le farmacie hanno stravinto il duello con le parafarmacie, create dal decreto Bersani sulle liberalizzazioni (2006) e comunque obbligate alla presenza di un farmacista abilitato, e si sono riconfermate come l’interlocutore esclusivo del Sistema sanitario nazionale.

·        La lobby dei cacciatori.

Caccia, la lobby delle doppiette entra negli emendamenti di maggioranza. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 16 Dicembre 2022

Il “controllo delle specie di fauna selvatica” sarà possibile “anche nelle zone vietate alla caccia, comprese le aree protette e le aree urbane, anche nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di divieto”: è quanto prevede un emendamento alla Legge di Bilancio presentato da alcuni deputati di Fratelli d’Italia. Una proposta sulla quale il governo non si è ancora pronunciato e che potrebbe rimanere solo su carta o derubricata a iniziativa personale di singoli parlamentari, ma che legittimamente ha già provocato l’alzata di scudi delle associazioni ambientaliste, che parlano di una misura pensata «per compiacere la lobby venatoria e degli armieri».

L’emendamento proposto prevede che i piani di “controllo numerico mediante abbattimento o cattura” – che rispettando determinate condizioni potranno essere autorizzati dalle regioni e dalle province autonome – saranno “attuati dai cacciatori iscritti agli ambiti territoriali di caccia o nei comprensori alpini delle aree interessate”, previa “frequenza di corsi di formazione autorizzati dagli organi competenti a livello regionale” e sotto il coordinamento degli “agenti delle Polizie provinciali o regionali”. Sebbene il testo faccia riferimento al controllo e al contenimento della fauna, ENPA, LAC, LAV, Legambiente, LIPU e WWF parlano di “caccia selvaggia”. Secondo le associazioni, infatti, il controllo della fauna sarebbe solo un pretesto, e se l’emendamento dovesse essere approvato una «ristretta categoria di individui, peraltro sempre più isolata dal tessuto sociale, sarebbe autorizzata a fare strage di animali selvatici e a mettere in pericolo la pubblica incolumità». Una denuncia netta quella delle associazioni: «Governo e maggioranza hanno forse in mente di smantellare i capisaldi del legislazione ambientale del Paese proprio in un momento nel quale la biodiversità, non solo italiana ma dell’intero pianeta, ha assolutamente bisogno di maggiori tutele?». Questo si chiedono infatti le organizzazioni, secondo cui l’emendamento «non demolisce soltanto la legge 157/92 sulla tutela della fauna e regolamentazione della caccia ma anche la legge 394/91 sulle aree protette che sarebbero aperte agli spari per compiacere la lobby venatoria e degli armieri».

Quelle citate, però, non sono di certo le uniche organizzazioni ad essersi schierate contro l’emendamento: anche l’OIPA (Organizzazione Internazionale Protezione Animali), infatti, ha preso una posizione netta a riguardo, definendolo “irresponsabile”. «Siamo al Far West: un emendamento del genere apre alla mattanza indiscriminata della fauna mettendo inoltre a rischio la pubblica sicurezza e incolumità», ha infatti affermato il presidente dell’OIPA Massimo Comparotto, aggiungendo che l’organizzazione si riserva quantomeno di «segnalare questo emendamento, se approvato, alla Corte di Giustizia ambientale europea».

Volendo infine avere un quadro completo della questione, bisogna aggiungere alcuni particolari che sembrano avvalorare la posizione assunta dalle associazioni menzionate. L’articolo 19 della legge n. 157 del 1992 – che l’emendamento andrebbe a modificare – prevede infatti che il “controllo delle specie di fauna selvatica” venga “praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici”: una disposizione eliminata dall’emendamento, nel quale non vi è alcun riferimento agli stessi. Inoltre, non solo con l’emendamento “gli animali abbattuti durante le attività dei controlli” che superano l’analisi igienico sanitaria sarebbero “destinati al consumo alimentare”, ma mentre in precedenza i piani di abbattimento dovevano essere “attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali”, adesso queste ultime verrebbero chiamate in causa solo eventualmente. Non soltanto infatti, l’emendamento prevede che l’abbattimento sia attuato dai cacciatori, ma altresì che le autorità deputate al coordinamento dei piani di abbattimento “possono” tra gli altri avvalersi anche delle guardie venatorie, che dunque non rappresenterebbero più la prima categoria ad occuparsene. [di Raffaele De Luca]

·        La Lobby dei balneari.

Le spiagge italiane? Bollenti più per la Bolkestein che per il climate change. A Maruggio il 16 e 17 settembre giudici, professionisti e amministratori pubblici cercano un equilibrio tra i diktat Ue e le peculiarità delle coste e delle imprese tricolori. Cristina Lenoci su Il Dubbio il 04 settembre 2022

Le spiagge italiane? Bollenti e non solo per gli effetti del climate change. Il braccio di ferro tra Italia e Europa sulla direttiva Bolkestein – mandato ai supplementari dopo la moratoria decisa dal governo Draghi fino al 31 dicembre 2023 – lascia intravedere modi opposti di guardare a una grande risorsa del Paese – l’industria della recettività marina – e alla peculiarità del tessuto delle Pmi familiari. Quali saranno gli scenari futuri e quali i possibili punti di equilibrio giurisdizionale, economico e imprenditoriale? È questo il tema del convegno “Le concessioni demaniali marittime: una fine o un inizio?”, con il coordinamento scientifico dell’avvocata Cristina Lenoci, che si terrà a Maruggio- Campomarino ( Ta), il 16 e 17 settembre 2022, con giuristi e tecnici del settore, e con un dibattito finale tra amministratori locali, operatori del settore e rappresentanti del mondo giudiziario e accademico. Da tempo ormai, il legislatore italiano si era approcciato alle concessioni demaniali marittime e, in particolar modo, a quelle turistico- ricettive, cercando di salvaguardare quanto meno gli investimenti effettuati dal concessionario per offrire al pubblico la sua attività. Proprio per consentire al concessionario di “mettere a frutto” gli investimenti, nel 2018 e poi nel 2020, il Parlamento aveva ammesso l’utilizzo prolungato della concessione, mostrando attenzione non solo al mercato ma anche agli imprenditori che operano al suo interno. Anche nel settore portuale le concessioni demaniali marittime rappresentano una materia di rilevante attualità e in evoluzione, specie per la regolamentazione e la tassazione.

Recentemente l’approccio è cambiato nel dichiarato intento di sostenere lo sviluppo della concorrenza secondo i principi della “Bolkestein”. Così con la legge di conversione del “ddl Concorrenza”, il Parlamento ha previsto che le concessioni demaniali e i rapporti di gestione per finalità turistico, ricreative e sportive “continuano ad avere efficacia fino al 31 dicembre 2023”, nonché sino a “non oltre il 31 dicembre 2024”, “in presenza di ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva entro il 31 dicembre 2023”. Il Parlamento ha anche però demandato al governo di predisporre, entro sei mesi, uno o più decreti legislativi per riordinare e semplificare le concessioni demaniali marittime, attraverso la realizzazione del sistema informativo per la mappatura di tutte le concessioni pubbliche, oltre alla fissazione delle regole delle procedure di gara per l’affidamento delle nuove concessioni balneari ( regole che, tra l’altro, dovrebbero garantire una adeguata considerazione degli investimenti effettuati dai concessionari uscenti, nonché del valore aziendale dell’impresa e della professionalità acquisita nell’ambito della gestione delle strutture turistico- ricettive).

L’Unione europea invece, meno sensibile alle peculiarità e più orientata nel far valere le regole della evidenza pubblica, andando anche oltre alla tradizionale distinzione tra autorizzazioni e concessioni, assume che le concessioni vadano riaffidate a soggetti scelti all’esito di una procedura competitiva, caratterizzata da pubblicità e valutazione comparativa, escludendo la possibilità di proroghe per il concessionario uscente.

Ne consegue che solo Ragione vorrebbe che si consideri che soltanto il giusto mix dei principi di massima partecipazione e di affidamento potrebbe assicurare l’eliminazione di “abusi”, l’ottimizzazione delle procedure di affidamento e di gestione delle concessioni, il miglioramento dei servizi, il potenziamento delle capacità tecniche, con inevitabili positive ricadute economiche, scongiurando altresì l’incrinazione del rapporto di fiducia tra governati e governanti.

Una trasformazione importante, che molto si rifletterà sull’economia del turismo balneare italiano e su tutto quanto vi sta intorno, dalla recettività alla ristorazione. Il tema riguarda dunque non solo chi gestisce o chi andrà a gestire le spiagge italiane, ma tutta una consistente parte del settore turistico italiano. Si tratta allora, con l’attenzione che tutto questo merita, di comparare tra loro tutti quanti i fattori in gioco e di trovare tra loro i giusti e opportuni equilibri.

Il Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria, ha affrontato tale problema in modo innovativo anche rispetto a se stesso, sostenendo che “la direttiva 2006/ 123 deve essere considerata una direttiva di liberalizzazione, nel senso che è tesa ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio, garantendo l’implementazione del mercato interno e del principio concorrenziale ad esso sotteso: ‘ fissa disposizioni generali volte ad eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra i medesimi, al fine di contribuire alla realizzazione di un mercato interno dei servizi libero e concorrenziale?’” (Adunanza Plenaria, 9 novembre 2021, n. 18). Ma è davvero così? Appuntamento il 16 settembre a Maruggio Campomarino.

QUINDICI ANNI DI ERRORI E FAVORI. Dai balneari ai Benetton, Giorgia Meloni pensa che le concessioni siano regali di stato ai privati. STEFANO FELTRI, direttore. su Il Domani il 3 agosto 2022 La campagna elettorale costringe, quasi ogni giorno, Giorgia Meloni ad avventurarsi nel territorio per lei sconosciuto dell’economia. 

Giorgia Meloni difende le concessioni ai balneari ma vorrebbe riformare quelle dei grandi gruppi. 

Nel 2008 fu proprio lei, al governo, a prolungare per trent’anni quella delle Autostrade al gruppo controllato dalla famiglia Benetton. 

La campagna elettorale costringe, quasi ogni giorno, Giorgia Meloni ad avventurarsi nel territorio per lei sconosciuto dell’economia. Nell’ennesima intervista al Corriere della Sera, la leader di Fratelli d’Italia spiega la sua singolare idea di mercato: «Mi ha sempre incuriosito la visione di concorrenza e libero mercato di alcuni che proteggono e coccolano le grandi concentrazioni economiche, le grandi rendite di posizione dei monopolisti, si schierano con chi ha il controllo delle concessioni pubbliche di autostrade e aeroporti, ma invocano la concorrenza per tassisti, balneari e ambulanti».

Pochi giorni fa, a essere pignoli, lei stessa si candidava come referente dei grandi gruppi e prometteva più monopoli e rendite di posizione quando, in una intervista al Quotidiano nazionale, diceva che «Italia e Unione europea devono stabilire quali sono filiere nazionali irrinunciabili e vitali e organizzare filiere nazionali e, laddove non è possibile, affidarsi a filiere europee».

Niente genera rendite di posizione come la produzione organizzata e protetta dalla politica (perché se il mercato non produce da solo filiere nazionali, significa che sono inefficienti e dunque, per esistere, vanno sussidiate).

A DIFESA DELLE LOBBY

La linea di coerenza c’è invece nella difesa di lobby e corporazioni che si appropriano di beni pubblici e li trattano come fossero loro, spesso anche rifiutando i controlli anti evasione fiscale (e infatti Meloni propone di alzare i tetti all’uso del contante). Per tutta la legislatura, Meloni ha continuato a proporre concessioni sostanzialmente eterne per i balneari a cui chiede il voto, con proroghe di 75 anni, mentre quelle nuove – le uniche da mettere a gara – dovrebbero durare almeno 20 anni.

Ora, queste proroghe sono illegali, nel senso che violano le direttive europee, tanto che alla fine anche il governo Draghi si è dovuto adeguare per evitare la procedura di infrazione e dal 2023 scatteranno le gare. Meloni però, non ha mai veramente capito il come funziona il modello: il suo argomento per giustificare la proroga delle concessioni è che il balneare deve essere «libero di investire» sul suo stabilimento. Come se la concessione a scadenza invece lo espropriasse, e quindi dovesse – di fatto – essere equiparata a un regalo.

L’assurdità del ragionamento è palese: se Tizio ottiene un bene in concessione per 10 anni, il primo anno deciderà quali investimenti fare considerando che nell’arco del decennio devono fruttargli abbastanza da ripagare i costi e garantirgli un profitto maggiore. Un problema che riguarda lui, non c’è alcuna esternalità positiva per la società se su una spiaggia invece di un chiringuito e quattro sdraio c’è una colata di cemento e lettini in batteria. Anzi.

Se il balneare sbaglia i conti e non rientra dall’investimento, sono problemi suoi. Al massimo la concessione può stabilire delle tariffe di subentro: mettiamo che investa 50.000 euro al quinto anno che si ammortizzano su un arco decennale, e la concessione scade dopo cinque anni, se la ottiene un imprenditore diverso sarà lui a indennizzare il costo che ancora non è stato ammortizzato. In alcuni contesti le gare prevedono addirittura che il subentrante si faccia carico anche dei dipendenti, figurarsi se è un problema qualche pensilina di cemento  e qualche piscinetta. 

Tutto qua: le gare servono esattamente a questo, a far in modo che la rendita derivante dal fatto che le spiagge sono, per definizione, monopoli naturali vada ai balneari invece che allo Stato. Ma Giorgia Meloni, invece, vuole regalare le spiagge ai suoi elettori costieri, che sono meno dei bagnanti penalizzati ma assai più organizzati.

IL REGALO DI MELONI AI BENETTON

L’apparente difficoltà a capire i meccanismi delle concessioni deve essere antica. Perché la Giorgia Meloni che oggi minaccia sfracelli contro i concessionari è la stessa che faceva parte nel 2008 del governo Berlusconi che ha prolungato la concessione ad Autostrade per l’Italia, nel provvedimento più clamoroso della lunga serie di favori politici e alla famiglia Benetton azionista. Già all’epoca era noto come “decreto salva Benetton”, visto che garantiva aumenti e remunerazione degli investimenti fino al 2038.

In quei mesi, Meloni, ministro della Gioventù, non si occupava di queste minuzie ma proponeva le sue idee prive di ogni riscontro concreto come «l’Erasmus per i politici» e vaghe proposte di «assunzioni di giovani senza raccomandazioni».

Dopo il crollo del ponte Morandi gestito da Autostrade, il leader della Lega Matteo Salvini ha ammesso l’errore, non si trova traccia di pentimenti di Giorgia Meloni che si è limitata a contestare l’incoerenza del governo Conte I che proponeva la revoca della concessione ma non la attuava. 

Peraltro, sarebbe un curioso paradosso se un governo Meloni rivedesse in senso peggiorativo la concessione tra lo Stato e Autostrade adesso che la Cassa depositi e prestiti ha ricomprato la quota di controllo da Atlantia per oltre 8 miliardi di euro.

 Una riduzione della redditività attesa – comunque difficile da fare senza infiniti contenziosi legali – finirebbe per penalizzare soltanto lo Stato azionista, non certo i Benetton che ormai hanno incassato il loro tesoretto. 

Altra nota curiosa: il decreto Salva-Benetton promosso dal governo Berlusconi, con dentro Meloni, nel 2008 serviva a propiziare l’ingresso di Atlantia nella cordata per uno dei tanti tentativi (fallimentari) di salvare Alitalia. Ovviamente non ha funzionato, ma ora che la nuova versione di Alitalia, cioè Ita Airways, è prossima finalmente alla vendita, ecco che Giorgia Meloni si prepara a tornare al governo e promette di evitare la cessione a Lufthansa-Msc. Chissà a quale costo occulto per i contribuenti italiani, visto come è andata l’altra volta. 

C’è da sperare che in un possibile governo di centrodestra ci sia anche qualcuno che di concessioni e concorrenza se ne intende più di Giorgia Meloni.

Toscana, blitz in spiaggia contro i «furbetti del posticino» che lasciano ombrelloni, asciugamani o sdraio per assicurarsi lo spazio. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera su il 24 Agosto 2022

Dalla Versilia all’Elba sono diversi i blitz di guardia costiera e polizia locale contro i bagnanti che di primo mattino piazzano ombrelloni, asciugamani o sdraio per occupare un pezzo di spiaggia, di scoglio o di ciottoli. Si rischia una sanzione da oltre mille euro 

Gli agenti della polizia locale e gli uomini della guardia costiera all’opera in Toscana per far rimuovere sdraio abusive in spiaggia (Elbareport)

Sul litorale toscano li chiamano «i furbetti del posticino». Perché di buona mattina scendono in spiaggia (quella libera) e piazzano ombrelloni, asciugamani, sdraio e qualsiasi altro oggetto capace di occupare un fazzoletto di sabbia, di scoglio o di ciottoli per assicurare al «furbetto» di prendere il sole tutto il giorno a scapito del prossimo. I più spregiudicati, poi, lasciano i loro materiali balneari a giorni a volte piantandoli saldamente sulla sabbia o legandoli insieme con i lucchetti. Il problema non è solo etico ma di legge, perché è assolutamente illegale lasciare questa sorta di «segnaposti» sul litorale che appartiene a tutti e si rischia una sanzione fino a 3 mila euro .

Le multe

Multe che stanno fioccando ovunque. Come in questi giorni, soprattutto in Toscana. Così, dopo il blitz di guardia costiera e vigili urbani sul lungomare del Romito (quello del mitico film Il Sorpasso di Dino Risi) e altre azioni in Versilia, ecco un’altra operazione anti ombrelloni e sdraio abusivi all’Isola d’Elba. All’alba di lunedì 22 agosto gli agenti della municipale di Marina di Campo e gli uomini della Capitaneria di Porto hanno sequestrato decine di asciugamani, sdraio e ombrelloni «segnaposto». Pare sia fioccata anche qualche multa salata (sino a mille euro) mentre continuano gli accertamenti per identificare i proprietari.

La protesta

Qualcuno ha anche protestato e scritto una lettera a un sito locale, ElbaReport, sostenendo l’assenza di cartelli che avvertivano del divieto. «Questa cosa è assurda visto e considerato che, in mancanza di cartelli nessuno era a conoscenza della nuova regola attuata quest’anno. Ci è stato detto che sarebbe scritta nel codice navale, che ovviamente, non è assolutamente a portata di mano di chiunque», si legge nella lettera. In realtà la normativa esiste da anni e vale su tutto il territorio nazionale. 

Le proteste dei bagnanti e le dichiarazioni del comandate Nigro. Tendopoli sulla spiaggia, i vigili urbani: "non abbiamo competenze per intervenire su demanio marittimo". La Redazione su La Voce di Manduria lunedì 1 agosto 2022.

«Sono andata a fare una passeggiata al fiume Chidro e ho trovato il macello pieno di gazebi, tavoli e addirittura un gruppo elettrogeno pronto per essere montato». Inizia così la lettera di una nostra lettrice che non si è limitata a scrivere al giornale ma è andata più a fondo facendo così emergere una falla nel sistema di controllo e repressione degli abusi sulle spiagge manduriane: i vigili urbani non possono scendere in spiaggia ma devono limitarsi ad elevare sanzioni solo sulla strada.

«Ho chiamato i vigili di Manduria – racconta a signora - e mi dicono che è competenza della Capitaneria di Porto che l’ho chiamata ma mi hanno detto che dovevano intervenire i vigili». Con molta pazienza la lettrice ha richiamato la polizia municipale di Manduria che ha ribadito con fermezza che «non sono autorizzati a scendere in spiaggia». Allora «chi ci deve tutelare?», si chiede la bagnante.

Il comandante del corpo di polizia municipale, Teodoro Nigro, conferma che quella competenza specifica è della polizia marittima e non dei vigili urbani. «La linea dividente del demanio marittimo è molto chiara – dichiara il comandante -, e ognuno deve fare il suo; è sbagliato pensare che i vigili urbani debbano fare i bagnanti con il berretto oppure fare verbali inutili perchè non sono titolari di competenze di polizia marittima».

Conscio delle lamentele, l’ufficiale Nigro conferma, comunque, di aver inviato una pec al comando della Capitaneria di porto chiedendo di intervenire e dicendosi disposto per ogni eventuale collaborazione; purtroppo - aggiunge Nigro - il territorio da controllare è molto vasto e occorrerebbero diverse pattuglie per coprirlo almeno in parte mentre noi ne stiamo garantendo solo una, ad ogni modo - conclude il comandante -, a Manduria non ci siamo solo noi come organi di polizia ma ce sono tanti e non capisoc perchè l'attenzione dei cittadini è sempre e solo puntata su di noi».     

Rieccoli gli ombrelloni e sedie segnaposto. La Voce di Manduria domenica 10 luglio 2022.

San Pietro in Bevagna, Borraco, marina di Manduria. Possibile che non ostante tutte le varie segnalazioni, post vari sui social ecc... c'è ancora gente che lascia i segna posto al mare? Nessuno che controlla niente, però hanno messo i parcheggi a pagamento. Quando inizierà a cambiare qualcosa e cominciare a civilizzarsi un po? I.D'A.

Le cattive abitudini. Litorale marina di Manduria, fila di ombrelloni - Luglio 2022 scatto di Michele Dinoi. La Redazione su La Voce di Manduria giovedì 28 luglio 2022.

I soliti ombrelloni segnafila. Se San Pietro in Bevagna piange, Campomarino non ride. La Voce di Manduria lunedì sabato 30 luglio 2022.

Se San Pietro in Bevagna Piange, Campomarino non ride. E’ proprio il caso di dire guardando le immagini che ci hanno inviato dei bagnanti della marina di Maruggio.

La solita fila di ombrelloni segnaposto diventati ormai una cattiva usanza delle spiagge libere contro la quale non si riesce a trovare rimedio.

Gli autori delle foto che si riferiscono alla zona “Tayga Beach” spiaggia libera (per modo di dire) scrivono: “i vigili più volte chiamati non intervengono”.

«Non paghi? Niente mare»: dalla Liguria alla Sicilia la vostra mappa delle spiagge negate. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 19 Agosto 2022.

Peschici, Gatteo Mare, Alcamo Marina. Ma anche le Maldive del Salento, il Gargano, Ostuni. Sono tantissime le segnalazioni dei lettori che sono arrivate per la nostra campagna sulla vergogna dei litorali inibiti dai privati.

Dal comune di Alcamo Marina in provincia di Trapani, in Sicilia, a Lido di Genova, lo stabilimento più grande del capoluogo ligure. Sono tante le segnalazioni ricevute da L’Espresso sulle spiagge negate. Il diritto di accesso al mare viene quotidianamente violato a causa di abusivismo, speculazione edilizia, stabilimenti balneari che bloccano l’ingresso ai passanti, senza averne l’autorità.

Tra le regioni peggiori d’Italia, c’è la Puglia: regina delle vacanze degli italiani per l’estate del 2022 per un’indagine di Confcommercio con Swg, è anche quella in cui è più difficile andare al mare senza essere obbligati a affittare ombrellone e lettini o a pagare un ticket d’ingresso, secondo le testimonianze dei lettori che stiamo raccogliendo.

«Negli ultimi trent’anni, Ostuni è stata vittima dell’abusivismo più becero con conseguenze tristissime per un litorale ormai famoso in tutto il mondo», scrive una lettrice. «Sono andata in Puglia con un'amica di Foggia e mi ha spiegato come molte spiagge siano state privatizzate negli ultimi due decenni e come i proprietari dei residence ne impediscano l'accesso a turisti e abitanti della zona. Ne ricordo in particolare due: la Baia di Campi e quella dei Faraglioni, entrambe nel Gargano», aggiunge un’altra.

«Segnalo anche le Maldive del Salento. La spiaggia è mutilata da due giganteschi stabilimenti che rendono la parte libera ormai completamente inesistente. I prezzi per una famiglia media sono abbastanza alti. 50 euro per un ombrellone e due lettini, a qualsiasi ora si arrivi, anche per la mezza giornata. A mio avviso scandaloso», spiega un utente su Instagram.

«Provate ad andare al mare tra Cozze, una frazione del comune di Mola di Bari e San Vito, frazione di Polignano a Mare. Gli ingressi sono stati nel tempo chiusi. Non ci sono lidi, solo cancelli chiusi e un progetto, per ora bloccato, per una struttura alberghiera», scrive dal suo profilo social una lettrice, come commento alla cartina, realizzata da Legambiente, che evidenzia quali sono i comuni italiani con la maggiore percentuale di spiagge private. Tra questi, in Puglia c’è Peschici con il 74 per cento del litorale in mano ai balneari. Il comune con la percentuale più alta d’Italia è Gatteo, in Emilia-Romagna, con il 100 per cento di spiaggia data in concessione ai privati.

A proposito, sono in tanti anche quelli che dicono che preferirebbero un litorale libero dagli stabilimenti, «basterebbero bar e ristoranti vicino alla spiaggia, ma senza ombrelloni e lettini ad occuparla», secondo alcuni lettori. Tra questi anche una coppia in vacanza nel Gargano.

«Una delle spiagge che non ti da assolutamente accesso al mare, a meno che tu non prenda l’ombrellone è Baia dei Mergoli. Sembra che qui ce ne siano tantissime così perché hanno costruito tutta la parte sopra il litorale e, quindi, non si riesce a arrivare al mare. Il proprietario di uno stabilimento ci ha bloccati all’ingresso e detto che avremmo dovuto compare un biglietto indispensabile per entrare in spiaggia, che era solo attrezzata. Ce ne siamo andati».

"Approvate subito il dl concorrenza". Concessioni balneari e spiagge libere introvabili, il report di Legambiente: canoni irrisori e poco trasparenti. Redazione su Il Riformista il 29 Luglio 2022.  

Troppe concessioni balneari, tra l’altro a prezzi stracciati e non sempre riscossi dallo Stato, e spiagge libere che diventano una utopia: in alcune regioni come Campania, Liguria ed Emilia-Romagna appena il 30% delle spiagge libere è accessibile, senza costi, ai cittadini. E’ quanto emerge nel rapporto 2022 di Legambiente che chiede quanto prima l’approvazione dei decreti attuativi del dl concorrenza. Lidi che vengono gestiti in cambio di un canone definito irrisorio e, allo stesso tempo, chiedono sempre prezzi più alti ai clienti per lettini, sdraio, ombrellini e tutti i servizi bar e ristorante offerti. Lidi che sempre più spesso vietano alle persone che vi accedono di portare borse frigo e cibo da fuori.

Una fotografia raccapricciante quella che emerge nel report dell’associazione. Le concessioni infatti toccano quota 12.166 in tutta Italia in cambio di un canone, per il 2020, di 104,8 milioni di euro ma di una cifra accertata di 94,8 milioni, di cui 92,5 milioni riscossi, stando all’ultima relazione della Corte dei Conti. Si tratta di ‘canoni irrisori’, dice l’associazione che sottolinea “che tra i nervi scoperti c’è anche la scarsa trasparenza dei canoni pagati per le concessioni e la non completezza dei dati sulle aree che appartengono al demanio dello Stato“. Secondo la Relazione la cifra del 2020, inoltre, è in calo del 12% rispetto al 2019, in parte, secondo la relazione “da ascriversi alla situazione straordinaria generatasi dall’emergenza epidemiologica da Covid-19 e dai conseguenti numerosi provvedimenti normativi emanati per fronteggiarla”. I dati della media 2016-2020 parlano di entrate accertate per 103,9 milioni di euro annui, con 97,5 milioni riscossi.

Le spiagge libere sono sempre meno, in alcune regioni, come detto, appena il 30%. Nel Comune di Gatteo, in Provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (LU), Camaiore (LU), Montignoso (MS), Laigueglia (SV) e Diano Marina (IM) siamo sopra il 90% e rimangono liberi solo pochi metri spesso in prossimità degli scoli di torrenti in aree degradate.  “In Italia – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – non esiste una norma nazionale che stabilisca una percentuale massima di spiagge che si possono dare in concessione. Un’anomalia tutta italiana a cui occorre porre rimedio. L’errore della discussione politica di questi anni sta nel fatto che si è concentrata tutta l’attenzione intorno alla Direttiva Bolkestein finendo per coprire tutte le questioni, senza distinguere tra bravi imprenditori e non, e senza guardare a come innovare e riqualificare. E’ un peccato che non si sia riusciti a definire le nuove regole in questa legislatura, in modo da togliere il tema dalla campagna elettorale. Occorre, infatti, dare seguito alle innumerevoli sentenze nazionali ed europee, altrimenti si arriverà presto a multe per il nostro Paese per violazione delle direttive comunitarie e, a questo punto, anche di una legge nazionale che stabilisce di affidarle tramite procedure ad evidenza pubblica a partire dal primo gennaio 2024″.

LIGURIA – “In Liguria ci sono 114 km di spiagge e il totale delle concessioni demaniali e’ di 9.707, 1.198 concessioni per gli stabilimenti balneari e 325 per campeggi, circoli sportivi e complessi turistici che comportano un’occupazione del suolo del 69,9%”, scrive Legambiente in una nota al Rapporto in cui sottolinea che a Laigueglia in provincia di Savona e Diano Marina a Imperia “siamo sopra il 90% e rimangono liberi solo pochi metri spesso in prossimità degli scoli di torrenti in aree degradate. Chiediamo ai sindaci e ai politici regionali di avviare questa ricognizione – scrive Santo Grammatico, presidente di Legambiente Liguria – e di cominciare a mettere mano alla pianificazione degli spazi demaniali, per non arrivare in ritardo alle scadenze fissate dall’Unione europea e subire multe che sarebbero a carico di tutti i cittadini. La Regione – conclude – inserisca nella legge ligure del 2008, che prevede il 40% di spiagge libere, sanzioni economiche per quei comuni che non la rispettano”.

CAMPANIA – Negli ultimi due anni, le concessioni solo per stabilimenti balneari sono aumentate del 23%: sono 1.125 nel 2021, erano 916 nel 2016. Record per i comuni di Meta di Sorrento dove si registra l’87% di spiagge occupate, Cellole e Battipaglia rispettivamente con 84% e 68%. “Quasi impossibile – si sottolinea nel report – trovare uno spazio dove poter liberamente e gratuitamente sdraiarsi a prendere il sole e una volta trovata una spiaggia libera ecco che in alcuni casi sono poste vicino a foci dei fiumi, dove la balneazione è vietata. Ciò significa che solo il 32% del litorale della nostra regione è “free”, quasi una spiaggia su tre”. “Complessivamente in Campania – scrive Legambiente – sono 4.772 le concessioni demaniali marittime, di cui 1125 sono per stabilimenti balneari, 166 per campeggi, circoli sportivi e complessi turistici, mentre le restanti concessioni sono distribuite su vari utilizzi, da pesca e acquacoltura a diporto, produttivo”. Ma a pesare sulle poche spiagge campane è anche il problema dell’erosione costiera con la presenza di 85 km di tratti di litorale in erosione, il 54% delle spiagge basse sabbiose (escluse le isole). E poi c’è la questione legata alle coste non balneabili: complessivamente lungo la Penisola il 7,7% dei tratti di coste sabbiose è di fatto interdetto alla balneazione per ragioni di inquinamento. Sicilia e Campania contano in totale circa 55 km su 87 km interdetti a livello nazionale. “Purtroppo in Italia – osserva Mariateresa Imparato, presidente regionale di Legambiente – non esiste una norma nazionale che stabilisca una percentuale massima di spiagge che si possono dare in concessione. Un’anomalia tutta italiana a cui occorre porre rimedio”.

LE CINQUE PROPOSTE – Legambiente avanza così cinque proposte: garantire il diritto alla libera e gratuita fruizione delle spiagge; premiare la qualità dell’offerta nelle spiagge in concessione; ristabilire la legalità e fermare il cemento sulle spiagge; definire una strategia nazionale contro erosione e inquinamento e un’altra per l’adattamento dei litorali al cambiamento climatico.

Il mare in Italia è diventato un lusso per ricchi: ecco dove sono le poche spiagge libere rimaste. Il 50 per cento della costa è affidata a privati. Restano solo pochi spicchi gratuiti, in molti casi in aree urbanizzate, a ridosso di foci di fiumi e accanto ai porti. In queste condizioni chi non può spendere 30 euro al giorno dove può fare un bagno in zone davvero pulite? Antonio Fraschilla su L'Espresso il 17 Giugno 2022.

Nel Paese abbracciato dal mare ma con la metà delle spiagge in mano ai privati e la restante metà degradata e in zone urbane e inquinate, una famiglia dove può andare a fare un bagno senza spendere 30 euro al giorno? Una persona con amici e amiche dove può fare un bagno in un mare decente nel nostro Paese senza dover pagare un lido? L’Espresso ha fatto un viaggio tra le poche spiagge libere, tra aree accessibili solo sulla carta e non balneabili perché inquinate, foci di fiumi che solitamente rendono l’acqua del mare torbida e pessima, oppure quelle poche spiagge ancora gratuite e belle.

«La spiaggia è un bene comune. Anche chi è povero ha il diritto al sole e farsi un bagno». Edoardo Zanchini, Legambiente, su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

La nuova legge deve garantire equilibrio tra spiagge libere e in concessione, perché ci sono zone in cui i soliti furbi hanno privatizzato ogni centimetro di litorale. Cementificando, costruendo muri e scempi.

Che succederà ora sulle spiagge italiane? Dopo l’approvazione della contestatissima legge sulla concorrenza si apre infatti una stagione nuova, che dovrebbe portare a gare per l’assegnazione delle concessioni. Ma se tutta l’attenzione mediatica e politica si è concentrata sul destino delle imprese balneari meno chiaro, ma più importante per l’interesse generale, è cosa succederà su queste particolari aree che sono pubbliche e inalienabili, se si tornerà a ristabilire finalmente regole di corretta tutela e gestione. Il testo di legge dice che si dovrà garantire equilibrio tra spiagge libere e in concessione, che si dovrà realizzare una mappatura delle assegnazioni avvenute in questi anni e che si dovranno premiare le gestioni attente alla qualità e sostenibilità.

Sarà tutto meno che facile, ed è proprio su questi principi che è avvenuto lo scontro più feroce tra il governo e i balneari. Un conflitto che non è ancora finito, perché bisognerà approvare dei decreti attuativi, legato a due questioni ancora aperte. La prima riguarda la mappatura delle concessioni, perché se sarà fatta correttamente metterà in luce alcune situazioni di incredibile illegalità, con stabilimenti che a Pozzuoli come a Ostia hanno costruito muri e cancelli per impedire a chi non paga di accedere alle spiagge. Ma anche di centinaia di stabilimenti da Nord a Sud che, senza permessi, hanno costruito strutture, spianato dune per realizzare parcheggi, pavimentazioni per ristoranti e aree sportive. Di fronte a casi di questo tipo si dovrà ristabilire la legalità, ma non sarà facile e ci sarà da vigilare. E poi ci sono i tanti comuni liguri, romagnoli e toscani dove non esistono praticamente più spiagge libere.

A Riccione come ad Alassio e a Forte dei Marmi si arriva al 90 per cento di spiagge in concessione, per cui qui prima delle gare si dovrà approvare un piano dell’arenile che permetta di far tornare a una situazione di “equilibrio”, come dice la legge appena approvata. Oppure, per dirla senza giri di parole, che permetta anche a chi è povero di fare il bagno e sdraiarsi a prendere il sole. Un diritto che oggi è in tante aree del Paese negato e che è un caso unico in Europa. Ed è inutile che i balneari insistano con la tesi per cui così si rovina un modello di business tipico italiano, perché è proprio questa privatizzazione strisciante che ha impedito di guardare alla domanda di turismo di qualità che cresce in tutto il mondo. Dove c’è spazio per stabilimenti ben gestiti e che investono su innovazione ambientale e accessibilità per tutti, che rispettano le regole. Come ha fatto in questi giorni il sindaco di Bacoli, denunciando stabilimenti che perquisivano i bagnanti del cibo portato in spiaggia, per obbligarli a utilizzare il bar dello stabilimento. Che oltretutto non pagava da tempo le tasse al Comune.

Bisognerà distinguere tra imprenditori onesti e che gestiscono bene e chi invece in questi anni si è approfittato degli scarsi controlli pubblici. Ci sono tante zone d’Italia dove si è già trovato un equilibrio tra interesse generale alla tutela del paesaggio e dell’accesso al mare, con quello di fornire servizi attraverso attività private. Basta andare a San Vito Lo Capo, in una meravigliosa spiaggia che la sera è completamente libera perché le concessioni sono per affitto di ombrelloni e lettini, ma senza perimetrazioni delle aree. Si vede perfino il mare. Uno dei tanti diritti negati nei comuni, anche della ricca Versilia, dove ci si è dimenticati che le spiagge sono di tutti.

Edoardo Zanchini, Forum Disuguaglianze diversità - Legambiente

Angelo Agrippa per su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2022.

«Una pratica squallida, siamo intervenuti con provvedimenti di diffida contro quegli stabilimenti balneari che controllano, all’ingresso, nelle borse delle famiglie dei bagnanti, se portano acqua e cibo da casa. Se consideriamo che i titolari dei lidi spesso gestiscono anche i parcheggi attigui alla spiaggia e che per il passato alcuni di loro hanno evaso o eluso i tributi comunali, ricavando guadagni enormi senza, poi, contribuire alle spese della comunità cittadina, allora occorre intervenire e subito. Ed è ciò che abbiamo fatto».

Josi Gerardo Della Ragione è il primo cittadino di Bacoli, comune del litorale flegreo, in provincia di Napoli, che affaccia sul golfo di Pozzuoli e guarda Procida dalla terraferma. Qui la Storia e le affascinanti vestigia antiche ricordano che fu uccisa Agrippina, la madre di Nerone, e sempre qui, nella baia, era di stanza la flotta imperiale di Augusto. 

Insomma, una di quelle località dal paesaggio magnetico e suggestivo, grazie anche al suolo vulcanico, alla rigogliosa vegetazione ed ai mirabili scenari naturali. Il sindaco di Bacoli, al suo secondo mandato e leader di una formazione civica, Free, continua la battaglia per il rispetto delle regole nella sua città, da decenni abbandonata a se stessa ed al volere del più forte, spesso rappresentato da chi poteva sconfinare oltre ogni limite al buon senso. Stamane Della Ragione ha notificato le prime diffide ai concessionari degli stabilimenti balneari che «perquisiscono» i bagnanti che arrivano in spiaggia.

«Chi gestisce un’area demaniale non è il padrone»

«Trovo intollerabile vietare l’ingresso in spiaggia di bottiglie d’acqua — afferma Della Ragione —. Trovo intollerabile perquisire, all’ingresso dei lidi balneari, le borse frigo delle famiglie per impedire l’accesso ai lettini di panini preparati da casa. A Bacoli questi scempi devono finire. Sono comportamenti che offendono la nostra terra, la nostra comunità. Sia chiaro.

Chi gestisce uno stabilimento balneare non è il padrone. Non è proprietario di nulla. È il concessionario di un bene demaniale. Sia chiaro, lo ripeto meglio. Non è il padrone di nulla. Ma gestisce un patrimonio pubblico, per un tempo. Perché la spiaggia è di tutti. Perché il mare è di tutti. 

Ho profondo rispetto per quegli imprenditori che, con passione e nel rispetto delle regole, investono sui beni demaniali. Per chi li valorizza. Ho rispetto per chi paga le tasse. Ho rispetto per chi garantisce contratti regolari ai lavoratori. Ho rispetto per chi assicura la tutela dei più basilari diritti dei bagnanti». 

«Predatori del patrimonio pubblico»

Il sindaco di Bacoli ce l’ha con quelli che definisce «i prenditori»: una sorta di predatori del patrimonio pubblico che sfruttano le bellezze naturali dell’area flegrea senza restituire nulla alla comunità. Racconta di avere ereditato un bilancio comunale in dissesto, ma in virtù dell’impegno profuso per far emergere alla luce chi non pagava i tributi, in pochi anni ha dato più di una boccata di ossigeno alle casse del municipio: «Siamo al boom riscossioni a Bacoli — conferma —. Siamo arrivati a quasi 14 milioni di tasse incassate nel 2021. 

Una cifra mai raggiunta negli ultimi tempi. Abbiamo incassato oltre 3 milioni di euro in più rispetto al 2017. Anno in cui la nostra città, tra tutti i tributi locali, raggiungeva i 10,5 milioni di euro. Siamo arrivati vicino al 70%. Percentuali tra le più alte dell’ultimo decennio. Soldi che possiamo investire: più servizi per i bacolesi, più servizi per i turisti. Se consideriamo i dati di 5 anni fa, registriamo 1 milione di euro incassato dall’imposta sull’acqua e 2 milioni in aumento dalla Tari. È la svolta per le casse municipali. Perché è giusto che paghino tutti».

La differenza tra «prenditori e imprenditori»

Ma perché la sua battaglia contro una specifica categoria: quella dei commercianti o dei concessionari demaniali? «Beninteso — sottolinea il primo cittadino — non facciamo di tutta l’erba un fascio: fare l’imprenditore, soprattutto di questi tempi, non è semplice. Continueremo ad accogliere a braccia parte coloro che vogliono investire nella nostra città, rispettando il paradiso in cui si trovano. 

Poi esiste chi pensa di aver comprato, con quattro soldi, la sabbia. Poi esiste chi tratta i lavoratori come schiavi. Chi li umilia, chi li sottopaga. Poi esiste chi incassa, senza pagare i tributi locali. E chi è giunto al punto da sentirsi proprietario. Tanto da arrogarsi il diritto di vietare l’ingresso in spiaggia di una bottiglia d’acqua. Con tanto di perquisizioni all’ingresso. È paradossale. Questa categoria di prenditori di beni pubblici non è gradita a Bacoli. Dovete togliere il disturbo. Siete la rovina della nostra terra. Non ci interessano i vostri voti. Stiamo inviando lettere di diffida, affinché la si smetta con queste pratiche intollerabili».

La lobby dei balneari e la concorrenza. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 26 Maggio 2022.

La questione delle concessioni balneari di cui si discute in questi giorni ci porta a chiederci se le lobby siano pro o contro la libera concorrenza. Dai titoli dei giornali, dove si parla di “lobby del mare” o “lobby dei bagni”, sembrerebbe che la rappresentanza degli interessi sia un fenomeno a senso unico. Da una parte, una categoria che punta i piedi, perché non vuole mollare tanti piccoli monopòli e, dall’altra, lo Stato, con i suoi rappresentanti, che cerca un punto di negoziazione. I cittadini sono in mezzo, confusi tra il desiderio di non sborsare più l’equivalente del costo giornaliero di un affitto di un appartamento di 70 metri quadri per un ombrellone e due lettini e la paura che lo smantellamento di un privilegio induca un effetto domino dal quale nessuno è escluso e si salvi chi può.

È bene ricordare che il sistema è sano quando tutti gli interessi vengono rappresentati in modo organizzato. Ne abbiamo parlato con Luca Germano, professore di Scienza Politica all’Università Roma 3, per la video-rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet: “Sicuramente Lobby Non Olet proprio perché avere una maggiore rappresentanza di interessi e una possibilità da parte di più gruppi di rappresentare le proprie istanze è sicuramente un vantaggio per la democrazia” commenta il professor Germano.

Dunque più lobby significa più democrazia e anche più concorrenza. In questo quadro, hanno ragione di esistere le argomentazioni di Assobalneari, l’associazione di categoria degli stabilimenti, che ricorda gli investimenti fatti dagli attuali gestori; come, allo stesso modo, è degna di essere ascoltata la richiesta dei cittadini che desiderano andare in spiaggia e trovare una vera concorrenza; così come lo sono le esigenze di imprenditori nazionali e internazionali che vorrebbero proporre i propri servizi sulle nostre coste. Non è un caso anche il Portogallo e la Spagna stiano affrontando lo stesso processo. Quindi, si presume, che le realtà italiane potranno investire all’estero, così come quelle estere potranno farlo in Italia.

Se tutti questi interessi fossero seriamente rappresentati, ci troveremmo in un mondo con una sana concorrenza e con una lobby che non è più a senso unico.

Dagospia il 17 febbraio 2022. CONCESSIONI BALNEARI. FATTA LA LEGGE, ARRIVA LA LOBBY A FRIGNARE - I BALNEARI, DOPO ANNI DI CONCESSIONI A PREZZI RIDICOLI, PER SALVARE I LORO INTERESSI STREPITANO E LANCIANO L’ALLARME SULL’ARRIVO DEGLI STRANIERI CATTIVI CHE POTREBBERO PAPPARSI STABILIMENTI, PORTI E RISTORANTI FRONTE MARE - A FARE GOLA SONO SOPRATTUTTO LA RIVIERA ROMAGNOLA, DELLA TOSCANA E DELLA LIGURIA. LA DATA DA CERCHIARE IN ROSSO È IL 31 DICEMBRE 2023, QUANDO FINIRÀ L’ULTIMA PROROGA…

Francesco Bisozzi per "il Messaggero" il 17 febbraio 2022.  

L'approdo della Bolkestein sulle spiagge tricolori allarma i sindacati dei balneari che ora temono l'assalto dei fondi di investimento stranieri. Le coste italiane sono un business che fa gola (nel 2021 circa il 70% dei flussi turistici nel Paese era diretto verso località di mare) e l'attenzione degli investitori esteri non si concentra solo sugli stabilimenti, ma anche su porti e ristoranti e campeggi fronte mare che operano in concessione sul demanio marittimo. 

Nel complesso, calcola Confesercenti, l'applicazione della direttiva europea sulle concessioni balneari interessa 80mila imprese, di cui 30mila titolari di stabilimenti. Queste ultime da sole danno lavoro a un milione di persone e in regioni come l'Emilia-Romagna sono uno dei principali motori dell'economia.

La data da cerchiare in rosso sul calendario, dopo che martedì è arrivato l'ok in Consiglio dei ministri all'emendamento al disegno di legge sulla concorrenza per l'affidamento delle concessioni demaniali, è quella del 31 dicembre 2023, quando è prevista la fine del regime di proroga. 

LE TAPPE

Le gare prenderanno il via nel 2024 e a quel punto le spiagge tricolori potrebbero cambiare volto (e bandiera) nonostante le tutele per le piccole e medie imprese del settore che il governo ha previsto. Fanno particolarmente gola le concessioni della Riviera romagnola, del Lazio (in particolare nella zona di Fregene), della Toscana (Forte dei Marmi), della Liguria (Imperia) e del Veneto (Bibione). 

Prima di procedere con le gare i sindacati chiedono però di completare la mappatura delle concessioni per accertare l'eventuale scarsità di risorse. Così Maurizio Rustignoli, presidente della Fiba, l'associazione dei balneari di Confesercenti: «La direttiva Bolkestein si applica sulle concessioni esistenti se le risorse naturali a disposizione di nuovi potenziali operatori economici non sono sufficienti.

Ma ci sono ancora molti lotti liberi, in Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna, che possono essere messi a gara». Il problema è che le imprese del settore sono piombate nell'incertezza. E si corre il rischio di un impoverimento dell'offerta turistica per effetto di uno stop agli investimenti. 

«Non siamo contrari alle gare, ma gli imprenditori hanno bisogno di risposte, altrimenti smetteranno di investire e anche la crescita del prodotto interno lordo ne risentirà», continua il numero uno di Fiba Confesercenti. D'accordo il Sindacato italiano balneari di Confcommercio che ha convocato per oggi una conferenza sul tema alla quale parteciperà anche il ministro del Turismo Massimo Garavaglia.

 Fa il punto il numero uno del Sib, Antonio Capacchione: «Ci conforta il fatto che il provvedimento abbia preso la forma di un emendamento al disegno di legge sulla concorrenza perché ciò significa che ci sarà un passaggio parlamentare e quindi la possibilità di un miglioramento della proposta legislativa.

Da un lato è vero che il governo ha ascoltato parte delle nostre richieste, per esempio prevedendo al momento della redazione dei bandi un riconoscimento al concessionario eventualmente uscente degli investimenti, del valore aziendale dell'impresa, dei beni materiali e immateriali.

Dall'altro tuttavia riteniamo che la deadline del 2024 sia troppo vicina e che andrebbe previsto un adeguato periodo transitorio». Il governo ha deciso di accelerare per evitare le sanzioni Ue dopo che il Consiglio di Stato nel 2021 aveva giudicato illegittima la maxi proroga alla fine del 2033 introdotta dal primo governo Conte. Le misure paracadute per i concessionari non si limitano al riconoscimento degli investimenti e del valore aziendale dell'impresa.

Ai fini della scelta del concessionario verrà valorizzata in fase di gara l'esperienza tecnica e professionale già acquisita in relazione all'attività oggetto di concessione. 

LE TUTELE

Inoltre saranno tutelati i soggetti che, nei cinque anni antecedenti l'avvio della procedura selettiva, hanno utilizzato la concessione quale prevalente fonte di reddito per sé e per il proprio nucleo familiare. Il braccio di ferro sulla Bolkestein dura dal 2006, tra procedure di infrazione e proroghe sempre più estese. 

L'Europa chiede in sostanza che il rilascio di nuove concessioni e il rinnovo di quelle in scadenza seguano procedure pubbliche, trasparenti e imparziali, che consentano a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario.

Per Fabrizio Licordari, presidente di Assobalneari, associazione che aderisce a Confindustria, «in questo modo si corre il pericolo di svendere le coste e di dare la possibilità agli stranieri di venire a prendere i gioielli migliori del nostro paese». Perplessità anche da parte di Federbalneari. «Gli enti concedenti sono del tutto impreparati a gestire un percorso così complesso nel brevissimo periodo, Comuni e Regioni andranno in tilt. E poi a nostro avviso manca un impianto di tutela serio per le piccole e medie imprese», ha evidenziato il numero uno di Federbalneari, Marco Maurelli. 

“Svendono le nostre spiagge, 300mila famiglie senza lavoro”. Simona Regina su Culturaidentita.it su Il Giornale il 20 Maggio 2022.

Silvia Frassinelli, Presidente di Spiagge Made in Italy. Di cosa si tratta?

Siamo un gruppo di lavoratori, di famiglie e di realtà che hanno una grande storia da raccontare. Durante tutto l’anno ci prendiamo cura di una delle risorse più belle del nostro splendido paese: le spiagge. Abbiamo deciso di riunirci, di fare squadra, di parlarci e confrontarci, per far conoscere a tutti voi cosa vorrebbe dire svendere le nostre meravigliose spiagge alle multinazionali, togliendole a chi, fino ad oggi, le ha ripulite, creato servizi, difese da mareggiate e dissesto idrogeologico, preso in carico la sicurezza dei bagnanti, creato socialità e divertimento. Abbiamo infatti lavorato ogni giorno con passione, per farti trovare il tuo luogo preferito bello ed accogliente, così come lo hai lasciato l’anno prima. Il luogo dove i tuoi bambini potranno tornare a giocare e a gustarsi un meritato gelato. Lo facciamo in silenzio, d’inverno, mentre nessuno pensa alle nostre coste. Ci chiamano “balneari” e forse già questo nome dal sapore estivo un po’ ci penalizza e non ci permette di essere messi sullo stesso piano degli altri lavoratori: in realtà siamo persone, tante, circa trentamila, che rischiano di trovarsi senza lavoro, di perdere la propria identità e veder andare in fumo i sacrifici di una vita. 

Lei stessa una balneare. Ci racconta la sua storia?

Villa Ginori fu realizzata nel 1740 sulla costa etrusca, nel comune di Cecina (Livorno), alla foce dell’omonimo fiume, da Carlo Ginori. L’edificio, realizzato in breve tempo, avrebbe dovuto costituire il primo passo verso la colonizzazione di un territorio, quello maremmano, all’epoca inospitale, paludoso e solitario che solo dopo le bonifiche del Granduca Leopoldo rinacque a nuova vita. L’edificio divenne, nel corso del Novecento, sede del Comando Militare e centro logistico; grazie a questa funzione l’abitato circostante, noto come Marina di Cecina, conobbe un importante sviluppo proprio per accogliere le famiglie dei militari in servizio. Nel secondo dopoguerra, vicino alla Caserma di Villa Ginori, dei privati iniziarono ad affittare parte delle loro abitazioni per il periodo estivo, mentre sul tratto di spiaggia adiacente una intraprendente bagnina, la signora Armida, iniziò ad ospitare sulla spiaggia le famiglie dei militari che si fermavano sotto gli ombrelloni e le sdraio che la signora stessa ogni mattina col marito posizionava in bella mostra a richiesta e che alla sera riponeva in una improvvisata rimessa. Venne addirittura attivato un collegamento in calesse tra il Centro Storico di Cecina e Villa Ginori per rendere più facile l’accesso alla spiaggia di Marina di Cecina, per godere della natura incontaminata e dei benefici offerti dal mare. La mia famiglia lo ha acquistato negli anni 90 dall’originario proprietario per poi passare la gestione e la proprietà a me e mio marito.

La spiaggia oggi è un modello di organizzazione e pulizia, ma com’è nato il Bagno Armida?

A quell’epoca era sicuramente molto diversa: dune, sterpaglie, niente lungomare, niente alberghi. Nacque cosi il Bagno Armida, con ombrelloni e sdraio che lavoravano per un periodo di circa 30 giorni all’anno ed offriva servizi avveniristici. Oltre alla tintarella, erano molto in voga le sabbiature: il corpo, eccetto testa e collo, viene immerso in uno strato di sabbia di circa 7 cm, per un tempo che va dai 10 ai 15 minuti, mentre il capo viene protetto dal sole con appositi cappelli e fazzoletti. Al servizio di spiaggia presto si aggiunse il servizio di ristoro e così lo stabilimento negli anni 60 si consolida come punto di riferimento nel neonato turismo balneare.

Sovranismi balneari. Le spiagge fuorilegge e la democrazia in vacanza. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 21 maggio 2022.

Circa tre concessionari su quattro in Italia pagano un canone inferiore ai cinquemila euro l’anno per i loro stabilimenti. Un dato che dovrebbe far infuriare un Paese, ma la legge fondamentale della politica italiana è che ogni nicchia di rendita è protetta dai partiti per qualche consenso in più. Riuscirà Draghi a farci uscire da questo circolo vizioso? 

Lo scontro sulle concessioni balneari è l’eterno ritorno dell’identico, che riparte ogni volta dallo stesso punto, da un’impellente urgenza e finisce ogni volta allo stesso modo, con un imprescindibile rinvio. La decantazione di un problema fino alla sua putrefazione. L’Italia politica in purezza, insomma. E italianissime sono anche le forme di questa rappresentazione: un po’ sceneggiata e un po’ melodramma, un po’ commedia dell’arte e un po’ commedia all’italiana.

La storia è più o meno nota, ma vale la pena di ricapitolarla, perché pure gli equivoci e i falsi, di cui è disseminato il racconto di questa catastrofe annunciata, dicono qualcosa di chiaro e di vero del nostro dibattito democratico. In Italia si sa quante sono le concessioni balneari per attività turistico-ricreative, circa trentamila e si sa quanto fruttano ai comuni per canoni di concessione, circa cento milioni l’anno. Secondo una stima autorevole, tre concessionari su quattro corrispondono un canone inferiore ai cinquemila euro all’anno. 

Non si sa invece esattamente quanto gli stabilimenti balneari incassino ogni anno, anche ammettendo che fatturino tutto. La stima di Nomisma è di circa quindici miliardi, i sindacati di categoria dicono solo un miliardo, ma non spiegano come con un miliardo, tolte le spese, in questo settore possano campare le trentamila famiglie dei concessionari (che la riforma proposta dal Governo metterebbe sul lastrico), più quelle dei loro dipendenti e collaboratori.

Dopo anni e anni di rinvii, in cui l’Italia ha ricevuto ogni sorta di censura e di sanzione per avere continuato a assegnare e prorogare le concessioni balneari contro le regole previste dalla normativa europea, il Governo Draghi ha presentato un emendamento alla legge annuale sulla concorrenza per voltare pagina e iniziare ad assegnare le concessioni con gara pubblica, per altro sulla base di una disciplina molto prudente che favorisce gli attuali concessionari e in ogni caso riconosce loro un indennizzo a carico dei concessionari subentranti per il mancato ammortamento degli investimenti realizzati e per la perdita dell’avviamento connesso ad attività commerciali o di interesse turistico. 

Puntuale è partito il solito circo, il solito stracciamento di vesti sulla svendita delle nostre spiagge alle multinazionali straniere o alle mafie criminali. Giù le mani dalle nostre spiagge. Evviva il sovranismo balneare. Altrettanto puntualmente, il provvedimento è stato bloccato in Parlamento, in attesa di una nuova proroga delle concessioni in essere: il che significa, nella sostanza, di indennizzi per spese che non risultano da nessuna parte e per un valore delle attività superiore a quello che i concessionari stessi continuano ufficialmente a dichiarare.

La cosa diversa questa volta, rispetto a tutte le altre, è che Draghi si è scocciato e ha tenuto pubblicamente a farlo sapere. Il che promette un finale diverso della commedia, ma non lo garantisce, perché la legalizzazione del regime delle spiagge contrasta con le leggi fondamentali della politica italiana, che in ogni nicchia di rendita individua una propria nicchia di consenso, facendo della democrazia un modo per campare di rendita sulle rendite altrui. 

Questo, come si sa, è un rischio implicito nel sistema democratico, che tende a essere catturato da interessi organizzati e quindi influenti e ad abbandonare interessi pure molto diffusi, ma eterogenei e privi di rappresentanza. Però in Italia – nei partiti politici italiani, senza significative eccezioni, considerando i principali – questa patologia è considerata fisiologica, questa anomalia congenita del sistema democratico, che andrebbe sorvegliata e contrappesata giuridicamente, non solo è diventata di fatto, ma è anche considerata, in termini di diritto, la normalità, e tutti i vincoli opposti alla cosiddetta cattura del decisore  – tipicamente le normative di derivazione europea, a garanzia della trasparenza e della concorrenzialità dei mercati – sono giudicati una vera e propria violazione della democrazia e usurpazione della sovranità nazionale. 

In Italia, la malattia è diventata ufficialmente la salute e i portatori di interessi e i loro procuratori politici non devono neppure provare a nascondere favoritismi speciali dietro il paravento dell’interesse generale, perché l’idea prevalente è che non c’è alcun interesse generale che non sia il prodotto di questa democrazia di scambio e dell’universalizzazione politica del particolarismo. 

Insomma, le spiagge fuorilegge sono l’altra faccia della medaglia di una democrazia fuori di testa.

·        Le furbate delle Assicurazioni.

Striscia la Notizia stana la compagnia assicurativa: ecco l'ultima furbata per non pagare. Libero Quotidiano il 02 marzo 2022.

Una vera e propria vergogna quella denunciata da Striscia la Notizia. Nella puntata di mercoledì 2 marzo andata in onda su Canale 5 Moreno Morello torna a mortase i pretesti curiosi e stravaganti delle compagnie assicurative per ritardare, diminuire o negare i risarcimenti ai danneggiati. Questa volta il sinistro riguarda un incidente tra due auto, di cui una va a finire addosso a una vetrina sfondandola.

Peccato che l'assicurazione non voglia pagare il danno alla vetrina. Il risultato? Ecco come se ne esce. "Il danno per il quale è chiesto il risarcimento deve essere reale e determinabile, requisiti questi che finora non siamo stati in grado di stabilire". "Come no?" si chiede Morello stupito. E infatti dietro l'inviato del tg satirico di Antonio Ricci c'è una vetrina completamente rotta. Improbabile che il danno non sia reale e quantificabile. 

Ma non è tutto, perché "sulla base dell'istruttoria è esclusa la possibilità che le lesioni o la morte siano avvenute nelle circostanze indicate nella richiesta danni". Anche in questo caso la risposta sorprende Morello: "Ma quale morte? Stiamo parlando di un vetro". Insomma, di scuse pur di non pagare la compagnia assicurativa sembra averne in quantità industriale.