Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LA MAFIOSITA’
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia della mafia.
L'alfabeto delle mafie.
La Gogna.
Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.
Mafia: non è altro che una Tangentopoli.
In cerca di “Iddu”.
SECONDA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
E’ Stato la Mafia.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa Nostra - Altare Maggiore.
La Stidda.
La ‘Ndrangheta.
La Mafia Lucana.
La Sacra Corona Unita.
La Mafia Foggiana.
Il Polpo: Salvatore Annacondia.
La Mafia Lucana.
La Camorra.
La Mafia Romana.
La Mafia abruzzese.
La Mafia Emiliano-Romagnola.
La Mafia Veneta.
La Mafia Milanese.
La Mafia Albanese.
La Mafia Russa-Ucraina.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
La Mafia Cinese.
QUINTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Antimafiosi.
Non era Mafia.
Il Caso Cavallari.
Il Caso Contrada.
Il Caso Lombardo.
Il Caso Matacena.
Il Caso Roberto Rosso.
I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.
Il Business dello scioglimento dei Comuni.
Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.
Il Business del Proibizionismo.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
I tifosi.
Femmine ribelli.
Il Tesoro di Riina.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Caporalato.
Il Caporalato Agricolo.
Gli schiavi dei Parlamentari.
Gli schiavi del tessile.
Dagli ai Magistrati Onorari!
Il Caporalato dei giornalisti.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Usuropoli.
Aste Truccate.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Nimby lobbisti.
La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby dei Giornalisti.
La Lobby dell’Editoria.
Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
Fuga dall’avvocatura.
La Lobby dei Tassisti.
La Lobby dei Farmacisti.
La lobby dei cacciatori.
La Lobby dei balneari.
Le furbate delle Assicurazioni.
SETTIMA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Onoranze funebri: Il "racket delle salme.
Spettacolo mafioso.
La Mafia Green.
Le Curve degli Stadi.
L’Occupazione delle case.
Il Contrabbando.
La Cupola.
LA MAFIOSITA’
QUARTA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Cosa Nostra - Altare Maggiore.
Cosa nostra cambia nome. Ora i boss la chiamano "l'altare maggiore". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 15 agosto 2021. L'espressione è emersa in un'intercettazione dei carabinieri fra due padrini arrestati a Torretta. Da almeno vent’anni, è un chiodo fisso per i padrini. «Bisogna cambiare tutti i nomi – disse un giorno Bernardo Provenzano - Non parliamo più di picciotti, né tanto meno di uomini d’onore, di famiglie o mandamenti, mai più nominiamo la Cupola». Adesso, sembra che il nome più importante i boss l’abbiano trovato. Un nome nuovo per Cosa nostra: “L’altare maggiore”. Così due mafiosi di Torretta chiamavano l’organizzazione discutendo di un’estorsione, e non sospettavano di essere intercettati dai carabinieri del nucleo Investigativo di Palermo su ordine della procura. I mafiosi continuano a mettere insieme sacro e profano. Un’altra fissazione, nonostante la scomunica ribadita da Papa Francesco. “L’altare maggiore”, dunque. E non è solo una questione di immagine per i boss. Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra dopo le stragi del 1992, aveva addirittura nominato una commissione di studio per aggiornare il dizionario mafioso: «Cambiare nomi doveva servire ad evitare altri guai con le intercettazioni», ha spiegato il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, il capomafia di Caccamo con un passato da professore di educazione tecnica e una reputazione criminale di grande saggio, lui era stato incaricato di presiedere la commissione per le riforme mafiose. Ora, i boss di Torretta, in stretto contatto con i Gambino di New York, hanno trovato un nome suggestivo. “L’altare maggiore”. Pensavano così di scansare il Grande fratello dell’antimafia che negli ultimi anni ha fermato più volte la riorganizzazione di Cosa nostra, smascherando movimenti e tracce. Un’altra intercettazione, il 29 maggio 2018, ha svelato una riunione della commissione provinciale di Palermo, la prima dopo l’arresto di Totò Riina, avvenuto nel gennaio 1993. Quella volta, il capomafia di Villabate Francesco Colletti parlava al suo autista di “rappresentanti” che si erano riuniti per un incontro solenne. Provenzano aveva visto lontano, le intercettazioni restano uno strumento straordinario per entrare nei segreti delle mafie. Camuffamenti di parole a parte, l’espressione “altare maggiore” solleva anche un altro fronte di riflessioni. I padrini insistono per avere una religione tutta propria. Leggete cosa diceva qualche mese fa un altro mafioso a proposito del parroco di Brancaccio ucciso per ordine di Cosa nostra nel 1993: «Padre Puglisi santo… ma santo di che? — così commentava un boss di Pagliarelli, anche lui sicuro di non essere intercettato — Ha fatto miracoli? Una volta ti facevano santo quando facevi i miracoli, questo miracoli non ne ha fatti». Lo stesso odio di Giuseppe Graviano, il padrino di Brancaccio che decretò la morte del sacerdote: «Mi hanno raccontato che era un uomo litigioso — diceva al compagno dell’ora — mi hanno raccontato che aveva problemi con tutti, che insultava le persone, che diceva parolacce e che durante le omelie accusava e offendeva». I boss vogliono riprendersi l’altare maggiore, sognano i preti accondiscendenti di un tempo e le confraternite complici degli inchini. Incuranti delle scomuniche, che presto saranno anche scritte nei documenti della Chiesa, a questo sta lavorando la commissione speciale voluta dal Papa, ne fanno parte don Luigi Ciotti e l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. In quella espressione che i due mafiosi di Torretta si ripetevano, sicuri di non essere scoperti, c’è tutto il drammatico piano di riorganizzazione di Cosa nostra, che non sembra per nulla fiaccata da arresti e processi. “L’altare maggiore” non è quello dei Corleonesi fedeli a Totò Riina e Bernardo Provenzano; adesso nei primi banchi si sono seduti i “perdenti” di un tempo, ritornati dagli Stati Uniti dopo un lungo esilio. Mafiosi che hanno un rito diverso, hanno soprattutto santi diversi sull’altare maggiore.
Maurizio Acerbi per “il Giornale” il 2 marzo 2022.
Era il 1972 e Nixon era appena volato in Cina per mettere le basi al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra le due potenze. In Italia, eravamo alle prese con il processo per la strage di Piazza Fontana. In questa collocazione temporale, esce, in America, un film che avrebbe rivoluzionato non solo un genere cinematografico, quello gangster, ma la stessa storia del grande schermo.
Eppure, Il Padrino, che compie 50 anni, ha avuto una genesi travagliata. A partire dalla scelta, alla regia, di un giovane Francis Ford Coppola, ingaggiato dalla Paramount perché costava poco e perché italo-americano, in modo che si potesse «sentire il gusto degli spaghetti», come affermò Robert Evans, capo della Major. A dire il vero, il primo nome fu quello di Sergio Leone che declinò cortesemente essendo alle prese con C'era una volta in America. E, prima di Coppola, bussarono alla porta di Elia Kazan, Arthur Penn e Costa Gavras, ma tutti si rifiutarono di trasporre il romanzo di Mario Puzo.
Tra l'altro, complimenti a Peter Bart, vicepresidente Paramount che, nel 1967, capì, dopo aver letto 60 pagine del manoscritto, che sarebbe potuto diventare un grande film. Così, andò da Puzo con in mano due offerte: una da 12mila dollari per finire il lavoro e l'altra, 80mila, per trasporlo. Puzo, pieno di debiti di gioco, accettò. Come produttore esecutivo venne scelto Albert S. Ruddy, quello che aveva gestito la saga di Bond.
Mal gliene incolse, perché iniziarono i guai, con tanto di auto crivellata di colpi. Joseph Colombo, che era il boss della famiglia Colombo, una delle cinque di Cosa Nostra che controllavano le attività criminali a New York, fece di tutto per boicottare il film, fino a quando siglò un patto con Ruddy secondo il quale nella pellicola non doveva mai essere pronunciata la parola «mafia».
Come avvenne. Anche Sinatra si mise di traverso, organizzando, senza grande successo, una raccolta di fondi contro Il Padrino. Non gli era andato giù il personaggio di Johnny Fontane, a lui ispirato, come ebbe anche a dire a Mario Puzo, assalendolo in un ristorante. Non fu meno travagliata la scelta del cast. Coppola arrivò a un passo dal licenziamento perché volle tenere duro.
Per il ruolo di Vito Corleone, la Paramount voleva ingaggiare uno tra Ernest Borgnine, Edward G. Robinson, Orson Welles, George C. Scott o Gian Maria Volonté. Coppola, invece, scelse Marlon Brando che, però, era malvisto a Hollywood. Così, Francis si presentò a casa Brando facendogli firmare una lettera con la quale si impegnava a risarcire la Paramount, in caso di atteggiamenti dannosi. Bastò poi il suo provino con il cotone in bocca per convincere della bontà della scelta.
Non fu facile nemmeno la firma per Al Pacino, allora semisconosciuto, nel ruolo di Michael Corleone. La Paramount voleva Jack Nicholson, Dustin Hoffman o Robert Redford, ma Coppola non li riteneva, per la loro fisionomia, adatti al ruolo. Pacino, però, non lo aiutò. Al, infatti, era reduce da un provino pessimo: «Non avevo studiato la parte, sapevo che lo Studio non mi voleva e all'epoca non mi impegnavo per un ruolo per cui già sapevo che non sarei stato preso».
Infatti, sia lui, sia Coppola, stavano per essere licenziati quando girarono la scena dell'assassinio di Sollozzo e McClusky, perfetta, che cambiò non solo il loro, ma anche il destino del capolavoro. Il film, capace di riscrivere un genere, dove, di solito, si assisteva alla nascita e caduta del gangster di turno, offrì anche un'interessante rilettura del concetto di famiglia e della figura del padre.
Vinse tre Oscar, anche qui, non senza polemiche. Infatti, oltre a quella per Miglior film e Miglior sceneggiatura non originale, ci fu la statuetta a Marlon Brando come Miglior attore. Il quale non si presentò alla premiazione per protestare contro i maltrattamenti ai nativi d'America. Anche Al Pacino boicottò la serata in quanto, essendo più presente in scena di Brando, rivendicò il fatto che dovesse essere lui a ottenere la candidatura come miglior attore. Invece, finì nella cinquina di Attore non protagonista, dove venne battuto dal Joel Grey di Cabaret.
E che dire di Nino Rota, dato per vincitore sicuro, ma che venne penalizzato perché un anonimo lo denunciò, all'Academy, contestandogli che uno dei temi era già stato da lui utilizzato nel film Fortunella di De Filippo? Vinse con Il Padrino - parte II. Tante polemiche che non impedirono al film di incassare, nel mondo, fino ad oggi, 1.144.234.000 di dollari. Intanto, dal 28 febbraio al 2 marzo, lo potremo rivedere nelle sale nella sua versione completamente restaurata. Sarà offerto un film nella sua miglior risoluzione possibile, correggendo il colore, riparando macchie di pellicola, strappi e altre anomalie nei negativi.
Il Padrino ha 50 anni: se Brando non avesse impedito il licenziamento di Coppola… Il 15 marzo 1972 è una data storica per il cinema; restaurata tutta la saga: “The Godfather”, 1972; “The Godfather part II”, 1974; “The Godfather part III”, 1990. Sciascianamente di Valter Vecellio La Voce di New York il 23 gennaio 2022.
Se…
Se quel giorno uno scrittore con il cronico vizio del gioco d’azzardo, e per questo pieno di debiti, avesse accettato il consiglio del suo agente, e rifiutato l’offerta di circa 12mila dollari e venduto i diritti della sua storia.
Se all’interno della Paramount che acquista i diritti, avesse prevalso chi invitava a non farne nulla, perché scottati dallo scarso successo ottenuto da The Brotherhood (La fratellanza) uscito nel 1968, e malgrado un cast più che rispettabile (regia di un veterano di Hollywood, Martin Ritt; interpreti: Kirk Douglas, Alex Cord, Irene Papas).
Se Joseph Colombo, boss dell’omonima famiglia mafiosa, non avesse accettato la proposta di Albert S. Ruddy, produttore esecutivo (la parola “mafia” non sarebbe mai stata pronunciata) e avesse continuato ad alimentare la campagna per boicottare il film, “colpevole” di denigrare la comunità italo-americana, magari accompagnandola a qualche proposta che non si può rifiutare (sulla falsariga del “I’m going to make him an offer he can’t refuse”).
Se avessero detto “Sì”, Sergio Leone, o Peter Bogdanovjch, Elia Kazan, Arthur Penn, Costa Gavras, Sam Peckinpah, tutti grandi registi, maestri, ma ognuno con una sua personalità, un suo timbro e un “sentire” peculiare.
Se la scelta, invece che su Marlon Brando, fosse caduta su Ernest Borgnine, Edward G. Robinson, Orson Welles, George C. Scott, Gian Maria Volonté; se fosse stato preso in considerazione Burt Lancaster, che quel ruolo avrebbe voluto interpretarlo; se Laurence Olivier non fosse stato troppo vecchio e malato per recitare…
Se Francis Ford Coppola non fosse riuscito a convincere i capi della Paramount, Robert Evans, per primo, che Brando “era l’unico che poteva interpretare il padrino”; se avessero tenuto duro, contrari all’ingaggio dell’attore, visti gli insuccessi degli ultimi tempi; se Brando non avesse accettato le condizioni poste dalla produzione: risarcire qualsiasi suo atteggiamento dannoso.
Se Brando non avesse deciso di dare al suo personaggio una faccia da bulldog, recitando con del cotone in bocca per appesantire le guance e apparire più anziano.
Se la scelta, invece che su Al Pacino, fosse caduta su Jack Nicholson, o Dustin Hoffman, Robert Redford, Ryan O’Neal…
Se Brando non si fosse intromesso minacciando di abbandonare il set, nel caso la Paramount avesse licenziato Coppola, come intendeva fare; se invece di Gianni Russo, per il ruolo di Carlo Rizzi fosse stato scelto l’allora sconosciuto Sylvester Stallone; o Mia Farrow per quello di Kay Adams, invece di Diane Keaton; se invece di Robert Duvall, per il ruolo di Tom Hagen fossero stati scelti Bruce Dern, o Paul Newman o Steve McQueen; se per il ruolo di Apollonia avesse mostrato interesse Stefania Sandrelli, invece di lasciare il posto a Simonetta Stefanelli…
Mille altri “se” si possono fare; se tali non fossero, chissà se si sarebbe qui a parlarne, e come…
Il 15 marzo 1972 è una data storica per il cinema, per chi lo ama, per chi lo fa. Quel giorno la Paramount Pictures organizza la première mondiale, a New York, di The Godfather: Il padrino. I profitti sono donati ai “The Boys Club”. Il film ha già fatturato 15 milioni di dollari in oltre 400 teatri. Alla prima partecipano Mario Puzo, lo scrittore autore della saga; il produttore Ruddy; il gran patron della Paramount Evans; il regista del film Coppola; con loro Al Pacino, James Caan, Diane Keaton… Mancano Brando (impegnato in Europa con Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci); e Duvall: non perdona il taglio di molte scene dove lui compare.
Il film è un trionfo. Incassa centinaia di milioni di dollari (negli Stati Uniti tra i 246 e i 287), viene premiato con tre premi Oscar, su dieci nomination: miglior film (al produttore Ruddy); migliore attore protagonista (Brando, che non si presenta in segno di protesta per le ingiustizie subite dalle minoranze, e in particolare i nativi americani: la statuetta è ritirata da Sacheen Littlefeather, di origine Apache); miglior sceneggiatura non originale (a Coppola e Puzo). Nel 1988 l’American Film Institute inserisce Il padrino al terzo posto della classifica dei cento migliori film statunitensi di tutti i tempi; al secondo posto nella classifica dell’Internet Movie Database; la rivista Empire lo proclama “film più bello di tutti i tempi”, al primo posto in un elenco di cinquecento.
A cinquant’anni da quel debutto, tutta la saga (The Godfather, 1972; The Godfather part II, 1974; The Godfather part III, 1990) viene restaurata con la supervisione dello stesso Coppola. Il primo film sarà nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti dal 25 febbraio (in Italia dal 22 al 24 marzo), e un cofanetto in 4K per l’homevideo con tutti e tre i capitoli. “Sono molto orgoglioso de ‘Il Padrino’, che ha certamente definito il primo terzo della mia vita creativa”, dice Coppola. “Sono particolarmente contento che nel cofanetto sia incluso ‘The Godfather, Coda: The Death of Michael Corleone’, che comprende la visione originale mia e di Mario Puzo nel concludere definitivamente la nostra epica trilogia”.
Un restauro che si avvale delle modernissime tecnologie nel campo del restauro cinematografico raggiunte negli ultimi anni: “Abbiamo lavorato su ogni frame affinché ne fosse restituito il suo aspetto migliore rimanendo comunque fedeli al sentimento originale della saga. È gratificante celebrare questa pietra miliare insieme ai meravigliosi fan che lo hanno amato per decenni, e giovani generazioni che lo trovano ancora attuale e a coloro che lo scopriranno per la prima volta”.
La “sorpresa” sarà in Godfather part III: una nuova versione dell’ultimo capitolo. Coppola ha rimesso mano al film, cambiandone anche titolo e finale: “Mario Puzo’s The Godfather Coda: The Death of Michael Corleone”. Il regista rende omaggio allo scrittore e co-sceneggiatore (Puzo), e ripristina il titolo da lui proposto all’epoca, e cambiato dalla Paramount che voleva richiamarsi al successo delle prime due pellicole. Ci sono un nuovo inizio, un nuovo finale, alcune modifiche a scene, inquadrature e commenti musicali. La pellicola riflette così le intenzioni originali di Puzo e Coppola; fornisce “una conclusione più appropriata per ‘Il Padrino’ e ‘Il Padrino Parte II’”.
Nella nuova versione, il film inizia con la scena in cui Michael Corleone negozia un prestito multimilionario con la Banca Vaticana, mentre nel finale, anziché far morire l’anziano padrino, il nuovo montaggio lo mostra molto vecchio ma vivo. “Lasciare Michael in vita è la vera tragedia” è il commento ironico di Al Pacino.
Valter Vecellio. Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.
Simonetta Stefanelli: «Quando a 16 anni sposai il Padrino». Candida Morvillo Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.
La mamma di Violante Placido è l’attrice che interpretò Apollonia nel film di Francis Ford Coppola: «Non sapevo chi fosse Al Pacino, non mi sembrò affatto bello».
Simonetta Stefanelli ha abbandonato il cinema presto, cristallizzata per sempre nel volto bellissimo e ingenuo della sedicenne Apollonia che, nel Padrino, è la giovane sposa siciliana di Michael Corleone, seduce Al Pacino e seduce il mondo, mentre il film di Francis Ford Coppola batteva il record di incassi di Via col Vento, vinceva tre Oscar e si avviava a diventare uno dei tre film più belli della storia, stando alle principali classifiche di cinema. Oggi, è una splendida 67enne che vive in campagna fuori Roma, fa la nonna, dipinge «quadri molto allegri», scrive poesie, non rilascia interviste da decenni e fa un’eccezione solo per i 50 anni di quel capolavoro uscito il 15 marzo 1972. Nel film, la sua uccisione è la ferita che spinge il riluttante Al Pacino a tornare a New York prendere le redini della famiglia e del clan. La mezz’ora di cui Apollonia è protagonista è indimenticabile, ma, dopo, il cinema non è stato generoso con lei. Si è sposata con Michele Placido, ha cresciuto tre figli, Violante, Brenno e Michelangelo, ha divorziato, si è ritirata a vita privata.
Quanto era consapevole di girare un film che stava facendo storia?
«Ero completamente ignara. Non sapevo chi fossero Coppola e Al Pacino, conoscevo solo Marlon Brando, ne ero pazza. Quando mi offrirono la parte e mi dissero che il padrino era lui, pensai a uno scherzo. Né lui era sul set in Sicilia. Non mi accorsi di niente, girai per una settimana, fu una cosa lampo: io vedo Al Pacino, lo sposo, vengo uccisa. Non avevo idea di che altro ci fosse nel film».
Come fu scelta?
«Avevo 16 anni, stavo su un set ad Assisi e si presentò un aiuto regista di Coppola. Mi scrutò come se mi facesse le radiografie, poi disse: tu domani parti per Taormina, ne ho già parlato ai tuoi agenti e a tua mamma. Mi sono trovata su un aereo con solo le pagine del libro di Mario Puzo sul mio personaggio e che non capivo bene, perché Apollonia era un po’ smaliziata sull’amore mentre io ne ero a digiuno, non avevo mai avuto una storia. Il giorno dopo, stavo già girando l’incontro in campagna con Al Pacino».
E Al Pacino le piacque?
«Non mi sembrò bello, non mi fece effetto. Me lo presentarono solo il secondo giorno. Si sedette davanti a me, io tenevo gli occhi bassi, stavo zitta, lui zitto. Gli dico: tu parli italiano? E lui: una mano lava l’altra e tutte e due le mani lavano la faccia. Finita lì. Coppola, invece, era gentile, era con la famiglia, con Sofia nel passeggino, mi diceva di seguire l’istinto e non mi diede mai una riga di copione».
Neanche per la famosa scena della prima notte di nozze?
«Lì non c’era neppure mia mamma: ero nervosa, l’avevo mandata via. Nessuno ci aveva detto come fare. A me scivolò la bretella della sottoveste, mi si scoprì il seno e Coppola impazzì e volle fare la scena così. Poi, andai a vedere il film con la mia famiglia, pagando il biglietto, e mi vergognai da morire».
Pagando? E i tappeti rossi? E gli Oscar?
«Niente, non c’era neanche il mio nome sulla locandina, ci rimasi male. E non conobbi mai Brando».
Perché dopo non fece altri film importanti?
«Erano tempi diversi, io avevo iniziato a 13 anni, fermata per strada da uno che lavorava a Cinecittà, non avevo grandi manager o produttori e non c’erano film con bei ruoli per le donne. Ne feci altri sul filone del Padrino, ma ero una bambina. In un’intervista, mi fu chiesto che pensavo della mafia e risposi: ma la mafia non esiste! Pensi quanto ero stupida... Feci un film in costume in Spagna e qui cominciava il filone sexy, non offrivano altro a una giovane attrice».
Nel ’74, un quotidiano la definì così: «Con Ornella Muti ed Eleonora Giorgi è una delle tre moschettiere del nuovo filone erotico del cinema italiano».
«Non lo sapevo, che ridere... la moschettiera! Avrebbero potuto dire di peggio. E ho pure rifiutato tante cose, standoci male: avevo fatto un film così importante e non interessava a nessuno».
Dall’America non arrivò nulla?
«La William Morris, la più importante delle agenzie internazionali, mi offrì un contratto ma così blindato che mi fu sconsigliato di firmare».
A un certo punto, raccontò che suo marito Michele Placido le disse che la preferiva donna di casa.
«Violante non era ancora nata, lui apparteneva a una generazione non avvezza alla libertà delle donne. Ci eravamo conosciuti nel ‘72 sul set del Caso Pisciotta di Eriprando Visconti, eravamo giovani e innamorati. Comunque, quando i figli aumentarono, non mi sembrò che stavo lasciando un granché di carriera».
Oggi, come vive?
«In pace, ho un compagno. Tutti i figli fanno gli attori, sono belli, bravi. Sto scrivendo il mio primo romanzo e scrivo poesie che tengo per me. Ne ho una che sembra perfetta per questo momento. S’intitola Il matto: il cielo terso e chiaro si macchia di lingue di fuoco polvere e rimbombi... Tanti uomini senza terra... Non c’è tempo, solo vento. Parole senza senso...”».
Perché Il padrino è ancora considerato fra i film più belli?
«Chi lo sa... la bellezza non è mai spiegabile con le parole».
Palermo, Brancaccio, 29 giugno 1993
E' l'una di notte. Tre uomini stanno salendo di corsa in un grande condominio in via Azolino Hazon, che si trova a un centinaio di metri dalla parrocchia di San Gaetano. Ognuno porta due bottiglie di benzina. Il primo si ferma al quinto piano. il secondo in un'altra scala, prosegue fino al settimo. Il terzo, in un'altra scala ancora, arriva al decimo. Hanno una missione da compiere, affidata da Giuseppe e Filippo Graviano. Incendiare le porte di casa di tre persone impegnate con il parroco Pino Puglisi in un percorso di riscatto di Brancaccio: sono Pino Martinez, Giuseppe Guida, e Mario Romano, fanno parte del comitato intercondominiale di via Hazon, un gruppo di cittadini che denuncia le gravi carenze che affliggono il quartiere. Don Pino e il comitato hanno iniziato a fare cose semplici, ma rivoluzionarie per Palermo: scrivere alle istituzioni, organizzare iniziative, denunciare. Hanno acceso i riflettori su questa parte di città che sembra dimenticata dalla politica e dalla società civile.
Il raid di questa notte è la risposta dei fratelli Graviano, che non possono permettersi di perdere la faccia a Brancaccio, il loro regno. In via Hazon hanno mandato i più precisi, Gaspare Spatuzza e Salvatore Grigoli detto il Cacciatore, accompagnati da Vito Federico uno specialista nei raid incendiari. Sono loro che adesso stanno dando fuoco alle porte di casa dei cittadini che non si rassegnano alla mafia.C'è un gran fumo nelle scale, qualcuno si sveglia e inizia a urlare. I tre emissari dei Graviano sono già fuori dal palazzo. In fuga su una fiat Uno rubata e su uno scooter guidato da un complice. Non hanno ancora terminato. Giuseppe Graviano ha affidato anche un secondo incarico al gruppo, dare fuoco a una tabaccheria in piazza dei Signori, il titolare non vuole pagare il pizzo. Un altro segnale chiaro, inizia ad avanzare un'aria di ribellione alla mafia da queste parti. Una brutta aria per i mafiosi, che non possono rinunciare al dominio sul loro territorio. Quelle porte incendiate sono un segnale chiarissimo <<Dovete andare via da Brancaccio>>. Ma Don Pino e il comitato non hanno alcuna intenzione di fare passi indietro. All'omelia della messa domenicale, il sacerdote ha parole accorate <<Vorrei capire - dice - quali sono i motivi che vi spingono ad ostacolare chi sta operando per tentare di realizzare a Brancaccio una scuola media, un distretto socio-sanitario, una società migliore per tutti i nostri figli. Parliamone, discutiamone.. chi usa la violenza non è un uomo; chi si macchia di atroci delitti è simile alle bestie>>. Don Pino ha un tono di voce severo, che diventa accorato quando dice: <<Chiediamo a chi vuole ostacolare il cammino di coloro che si impegnano per il bene del quartiere di riappropriarsi della propria umanità.>>.
Sono le parole di un padre. Le parole di un uomo che vuole coinvolgere un intero quartiere contro la mafia: <<Tutti noi siamo stati colpiti - don Pino non usa mezzi termini - , è come se avessero bruciato la porta di casa a tutti noi. E, allora, se è vero che siamo cristiani dobbiamo apertamente condannare la violenza subita da Romano, Guida e Martinez. Io per primo mi impegno ad andare a casa loro, per dimostrare la mia solidarietà>>.
Testo tratto dal Libro "I fratelli Graviano". di Salvo Palazzolo. Edito da Latterza. 2022. pagine 107 - 108.
Foto tratta dal sito - Sapere.it
Mafia dei Nebrodi, arriva la stangata al maxiprocesso: 600 anni di carcere «Boss arricchiti truffando l’Ue». Alessio Ribaudo su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2022
La sentenza di primo grado sostanzialmente conferma l’impianto delle accuse mosse dagli inquirenti e dalla Dda di Messina. Condannati in 91 fra cui i presunti appartenenti alle cosche tortoriciane. La pena massima supera i 30 anni. Antoci: «Ha vinto lo Stato»
Commentatori digiuni di storia della mafia per anni li hanno descritti come rozzi montanari o, al massimo, malandrini: tutti dediti ad abigeati, estorsioni e traffici di droga di piccolo cabotaggio. Invece, nel silenzio generale, i clan tortoriciani avevano architettato raffinate truffe ai danni dell’Unione europea e dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) che gli avevano ingrossato i conti correnti e la «caratura» criminale. Niente rischiose pistole e lupare ma semplici moduli da compilare spesso certificando il falso. Un meccanismo perfetto, come gli ingranaggi che fanno funzionare gli orologi svizzeri, che si è però inceppato quando all’improvviso l’arrivo del «protocollo Antoci» ha eliminato le autocertificazioni antimafia. Racconta questo e molto di più la sentenza di primo grado del maxiprocesso «Nebrodi» con la quale al Tribunale di Patti, nel Messinese, sono stati inflitti oltre 600 anni di carcere a 91 imputati oltre a sequestri di beni per circa quattro milioni di euro. Dieci, invece, le assoluzioni. È una sentenza «miliare» quella che arriva, dopo 20 mesi: conferma sostanzialmente le accuse degli inquirenti sul fatto che ci fosse un fiume milionario di denaro pubblico su cui scorrevano gli interessi dei clan di Tortorici, nel Messinese. Un operoso centro a vocazione agricola, popolato da migliaia di onesti lavoratori, aggrappato sui Monti Nebrodi. La sentenza è miliare da molti punti di vista. Intanto è stato il più grande mai celebrato in Europa in tema di truffe ai fondi pubblici erogati all’agricoltura, sia italiani sia Ue con lo Stato che ha dimostrato di saper rispondere in tempi record se si considera la mole enorme di accuse da esaminare per il collegio presieduto da Ugo Scavuzzo e composto dai giudici Andrea La Spada ed Eleonora Vona. Poi la media delle pene è stata molto dura: sei anni e mezzo di carcere a condannato. Giusto per fare un paragone, la media è superiore allo «storico» «maxiprocesso di Palermo» che vide una media fu di 5 anni e otto mesi. Tornado al processo di lunedì, la lettura del dispositivo è arrivata alle 23, alla fine di una giornata interminabile, dopo una camera di consiglio durata otto giorni. Ad avere comminata la pena più alta è stato Aurelio Salvatore Faranda (30 anni) mentre per Sebastiano Conti Mica sono arrivati 23 anni. Invece, l’ex sindaco di Tortorici Emanuele Galati Sardo è stato condannato a 6 anni e due mesi. In linea generale, i giudici hanno sostanzialmente confermato, seppur rivedendo al ribasso alcune pene, le tesi sostenute dal procuratore aggiunto Vito Di Giorgio della Direzione distrettuale antimafia di Messina — guidata fino a poche settimane fa dal procuratore Maurizio De Lucia, oggi alla guida della Procura di Palermo — che aveva chiesto un totale di 1.045 anni di carcere per i 101 imputati. «Le truffe sono state riconosciute per buona parte — ha commentato a caldo Di Giorgio — e resta il fatto che su quella parte di territorio della provincia di Messina le truffe hanno costituito la principale fonte di arricchimento sia del gruppo mafioso dei Batanesi sia del gruppo dei Bontempo Scavo, ma teniamo conto che è solo la sentenza di primo grado». I condannati dovranno anche risarcire le parti lese fra cui associazioni «antimafia» come Libera e Addiopizzo Messina; il Centro studi «Pio La Torre» e il Comune di Tortorici, nel Messinese. «È stata riconosciuta la mafiosità per i Batanesi mentre per il gruppo dei Bontempo Scavo no — ha proseguito il procuratore aggiunto — ed è stata riconosciuta l’esistenza del 640 bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.Ndr), in alcuni casi aggravata. Sicuramente questo è un aspetto importante ma è un dispositivo talmente complesso che va letto attentamente».
Il blitz
All’alba del 15 gennaio del 2020 i carabinieri del Ros e i finanzieri del Gico — coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, guidata da Maurizio de Lucia — condussero un grande blitz che si concluse con 94 arresti (48 furono ristretti in carcere e 46 ai domiciliari) a vario titolo associazione per associazione a delinquere di stampo mafioso, danneggiamento a seguito di incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falso, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata. Inoltre furono sequestrate 151 aziende. Come si legge nelle carte dell’ordinanza del Gup di Messina: «la mafia ha scoperto che soldi pubblici e finanziamenti costituiscono l’odierno tesoro e come siano diminuiti i rischi pur se i metodi restano criminali…..» e che «il campo di maggiore operatività è divenuto il grande business derivante dalle truffe ai danni dell’Unione Europea, come detto più remunerative e meno rischiose». Un meccanismo interrotto da un coraggioso presidente dell’allora Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, che fu il primo a tagliare l’erba sotto i piedi della mafia. Ideò un «protocollo di legalità» che poi prese il suo nome e che, nel 2015, entrò nel codice Antimafia. Qualche mese dopo, il 18 maggio del 2016, fu vittima di un attentato mafioso. Per i magistrati di questo maxiprocesso «nella presente indagine di truffe milionarie e di furto mafioso del territorio trova aspetti di significazione probatoria e chiavi di lettura di quell’attentato... Antoci si è posto in contrasto con interessi milionari della mafia».
Le prime condanne
Nel corso del tempo, il banco degli imputati è diminuito di 18 posizioni perché il Gup di Messina per alcuni aveva inviato gli atti a Catania per incompetenza territoriale mentre altri quattro hanno già patteggiato la pena e, con il rito abbreviato, sono arrivate in Appello, lo scorso aprile, tre assoluzioni e cinque condanne con pene che hanno raggiunto anche i 24 anni per Sebastiano Bontempo. Gli inquirenti, hanno ricostruito da un lato il nuovo assetto del clan dei Batanesi, operante nel Tortoriciano; dall’altro si sono invece concentrate su quello dei Bontempo Scavo. Secondo l’accusa, le cosche di quest’area aveva guadagnato una caratura criminale tale da poter «dialogare» con quelle del Catanese, dell’Ennese e del Palermitano. Come disse l’allora procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho questa mafia ha compiuto «un salto di qualità anche a livello nazionale, con inserimenti nell’economia legale con sistemi illegali. Chi doveva controllare non controllava, chi doveva sostenere la formazione del fascicolo aziendale per ottenere i finanziamenti era complice dei clan che si arricchivano». I due clan oggetto dell’inchiesta «Nebrodi» per finanziarsi, utilizzavano anche il lucroso metodo di ottenere contributi comunitari concessi dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) che aveva portato nelle casse delle cosche circa 10 milioni di euro, a partire dal 2013. Tanto che la Guardia di finanza, in occasione degli ultimi arresti in zona sempre su truffe in agricoltura, ha affermato come questo sia un «territorio significativamente minato dalla pervasiva presenza di strutturate organizzazioni criminali, vieppiù di matrice mafiosa». Milioni di euro sottratti agli onesti agricoltori e allevatori dei Nebrodi che sono la maggioranza e da secoli fertilizzano quei terreni con ettolitri di sudore. Cittadini che per più di un anno hanno dovuto affrontare l’onta di vedere il proprio Comune commissariato per infiltrazioni mafiose. Nell’inchiesta non sono finiti solo presunti associati ai clan ma anche «colletti bianchi» fra cui ex collaboratori dell’Agea e persone dei centri di assistenza agricola che avevano conoscenza ottima dei meccanismi con cui vengono erogati milioni e milioni di euro e dei metodi di controllo.
Il «protocollo Antoci»
Un sistema che si «inceppò» grazie agli anticorpi iniettati dal «protocollo Antoci», ideato dalla Giuseppe Antoci che con questo controllo di legalità fu il primo a tagliare l’erba sotto i piedi della mafia. Tanto che poi subì un attentato mafioso il 18 maggio del 2016 che, proprio secondo gli inquirenti, maturò a causa di ritorsioni al suo impegno per ridare dignità ai lavoratori onesti e mettere alla porta il malaffare. Un protocollo che poi entrò a far parte del Codice antimafia e diventò norma nazionale. «Il protocollo Antoci è importante — ricordò in conferenza stampa il giorno del blitz, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho — perché per primo permise di scoprire questo tipo di attività e poi diventato uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie». Ecco perché oggi alla lettura della sentenza di primo grado proprio Giuseppe Antoci ha voluto essere presente. «Li volevo guardare negli occhi uno a uno e spiegare loro con questo mio atto di presenza — dice in lacrime Antoci — che lo Stato ha vinto. Per me oggi è un giorno importante perché anche grazie alle mie battaglie si è arrivati a questo traguardo mentre io sono vivo grazie alla mia scorta datami proprio dallo Stato, non avrò pace sinché loro non saranno individuati e condannati». Poi va oltre: «Certo, mi piacerebbe sapere chi sono tutti quegli operatori appartenenti alla pubblica amministrazione che vedevano passare documenti con nomi importanti di boss mafiosi ai quali arrivavano milioni di euro di fondi europei nei conti correnti, chi certificava tale andazzo mentre quei fondi dovevano servire al rilancio dell’agricoltura in un luogo stupendo come i Nebrodi popolato da tane persone perbene ed invece andavano ai mafiosi. Ecco, spesso penso a loro e al loro silenzio ma era paura o connivenza?». Un silenzio che, secondo Antoci, ha avuto conseguenze. «Anche quel silenzio ha armato le mani di chi quella notte voleva uccidere me e i poliziotti della mia scorta — conclude — Spero si faccia luce anche su questo. Ci sarebbe stata un’altra strage di mafia da commemorare, invece oggi celebriamo la vittoria dello Stato che dimostra che quando si muove unitariamente, quando fornisce mezzi normativi alle forze di polizia e alla magistratura per combattere le mafie, arrivano anche i risultati».
Il maxiprocesso Nebrodi. Da messina.gds.it l'1 novembre 2022
Il maxiprocesso Nebrodi è il risultato della imponente operazione condotta contro il clan dei pascoli dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, scattata il 15 gennaio 2020 con 94 arresti (48 in carcere e 46 ai domiciliari) e il sequestro di 151 imprese, conti correnti e rapporti finanziari. Al centro gli assetti dei clan tortoriciani, ma anche il business dei contributi comunitari in agricoltura concessi dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura.
L’accusa aveva formulato per i 101 imputati richieste per complessivi 1.045 anni di carcere e 30 milioni di euro di confische. Intorno alla mezzanotte i giudici, dopo una lunga camera di consiglio iniziata lunedì 24, hanno terminato di leggere la poderosa sentenza: circa un’ora per elencare le 91 condanne per oltre 600 anni di carcere e le 10 assoluzioni. Associazione per delinquere di stampo mafioso, danneggiamento a seguito di incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falso, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata i reati contestati a vario titolo.
Il processo scaturisce dai risultati delle indagini svolte nel territorio dei Nebrodi dal Gico della guardia di finanza di Messina e dai carabinieri del Ros e del Comando Tutela agroalimentare, che da un lato hanno ricostruito il nuovo assetto del clan dei Batanesi, operante nella zona di Tortorici, dall’altro si sono concentrate sulla costola del clan dei Bontempo Scavo. Si trattò di una delle più vaste operazioni antimafia eseguite in Sicilia e la più poderose sul versante dei fondi europei dell’agricoltura in mano alle mafie mai eseguita in Italia e all’estero.
Un meccanismo interrotto dal «protocollo Antoci», poi recepito nel nuovo Codice antimafia e votato in Parlamento il 27 settembre 2015. L’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, oggi presidente onorario della Fondazione Caponnetto, ha rischiato la vita in un attentato mafioso nel 2016.
L’inchiesta ha fatto luce sugli interessi dei gruppi mafiosi sui contributi comunitari concessi dall’Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura portando alla luce il business delle truffe sui fondi destinati all’agricoltura. In particolare, gli investigatori hanno accertato, che, a partire dal 2013, sarebbero stati percepiti irregolarmente erogazioni pubbliche per oltre 10 milioni di euro. Al termine dell’udienza preliminare, nel dicembre 2020, in 101 furono rinviati a giudizio mentre altri hanno definito la loro posizione con il rito abbreviato, altri ancora hanno patteggiato la pena.
Il processo, davanti al Tribunale di Patti, presieduto da Ugo Scavuzzo e composto dai giudici Andrea La Spada e Eleonora Vona si è aperto il 2 marzo 2021 nell’aula bunker del carcere di Gazzi a Messina. A luglio 2022 i pubblici ministeri Vito Di Giorgio, Antonio Carchietti, Fabrizio Monaco e Alessandro Lo Gerfo, al termine della requisitoria, hanno chiesto condanne per un totale di oltre mille anni di carcere. Lo scorso 24 ottobre i giudici, ritornati a Patti, sede naturale del tribunale dopo alcune udienze in trasferta nell’aula bunker a Messina, sono entrati in camera di consiglio.
La Mafia voleva punire anche l’ex ministro Baccini per conto di una nobildonna romana. Arrestati Guttadauro e suo figlio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Febbraio 2022
Eseguita dai Carabinieri del ROS misura cautelare a carico di Giuseppe Guttadauro e di suo figlio Mario Carlo Guttadauro per associazione di tipo mafioso. Ad entrambi viene contestata l’appartenenza alla famiglia di Cosa Nostra di Palermo - Roccella (inserita nel mandamento di Brancaccio - Ciaculli) e l’intervento sulle più significative dinamiche del mandamento mafioso di Villabate - Bagheria.
I Carabinieri del ROS, con il supporto dei colleghi del Comando Provinciale di Palermo e dello Squadrone Cacciatori Sicilia, hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Palermo dott.ssa Claudia Rosini nei confronti di Giuseppe Guttadauro 73 anni inteso “il dottore”, per la sua precedente attività aiuto primario alla Chirurgia del Civico di Palermo negli anni Ottanta, con un piede nella politica e l’altro nella mafia, e del figlio Mario Carlo Guttadauro, entrambi indagati per i delitti di associazione di tipo mafioso. Il padre nonostante la precedente detenzione per dieci anni al 41 bis, è stato posto gli arresti domiciliari, mentre il figlio Giuseppe grazie ai “trojan” inseriti dai Carabinieri del Ros nei cellulari dei due, hanno anche ricostruito le minacce di padre e figlio per la soluzione di un contenzioso da 16 milioni di euro, è stato tradotto in carcere. Ad entrambi viene contestata l’appartenenza alla famiglia di Cosa Nostra di Palermo – Roccella (inserita nel mandamento di Brancaccio – Ciaculli) e l’intervento sulle più significative dinamiche del mandamento mafioso di Villabate – Bagheria.
Nel medesimo contesto risultano indagati, ma non destinatari di misure cautelari, altri soggetti palermitani di cui tre ritenuti essere affiliati alla “famiglia” mafiosa di Palermo – Roccella e due, in concorso con Mario Carlo Guttadauro, di lesioni aggravate. Le indagini coordinate dalla D.D.A. della Procura della Repubblica di Palermo, hanno documentato le attività poste in essere da Giuseppe Guttadauro, già tratto in arresto lo scorso 22/05/2002 nell’operazione “GHIACCIO” e fratello di Filippo Guttadauro, quest’ultimo cognato del latitante Matteo Messina Denaro.
Dalle investigazioni della D.D.A. palermitana è emerso che Giuseppe Guttadauro, trasferitosi a Roma dopo la scarcerazione avvenuta il 2 marzo 2012, avrebbe mantenuto i contatti con l’organizzazione mafiosa di riferimento anche attraverso suo figlio Mario Carlo il quale ne avrebbe mediato le interlocuzioni con gli altri indagati attivi a Palermo. Nell’alveo delle dinamiche associative, nel corso della indagine è stato tra le altre cose documentato l’intervento di Giuseppe Guttadauro che ha incaricato dell’esecuzione suo figlio Mario Carlo per risolvere i contrasti che erano sorti a Palermo in ordine all’esecuzione di lavori che dovevano essere realizzati presso una importante struttura industriale sita nella zona di Brancaccio.
Le intercettazioni hanno inoltre rivelato le aspre critiche mosse dal “dottore” alle nuove generazioni di mafiosi, innescate dalla notizia della collaborazione con la giustizia di Francesco Colletti e la sua preoccupazione per le dichiarazioni di Filippo Bisconti, nonché l’esigenza, rappresentata apertamente al figlio, di “evolversi” pur rimanendo ancorati ai principi di cosa nostra.
Il quadro indiziario ha evidenziato come Giuseppe Guttadauro fosse pure intervenuto per regolare l’attività di traffico di stupefacenti condotta da un pregiudicato bagherese ed i rapporti di quest’ultimo con i vertici pro-tempore della famiglia mafiosa di Bagheria. Inoltre, avrebbe progettato un traffico di stupefacenti con l’estero, finanziato dai sodali palermitani, avvalendosi di un soggetto albanese per reperire hashish e prevedendo, contestualmente, un canale per l’approvvigionamento di cocaina dal Sud America.
In tale attività avrebbe avuto un ruolo anche un assistente di volo, in documentati rapporti con Giuseppe Guttadauro, che avrebbe dovuto trasportare 300 mila euro in Brasile nel momento in cui il carico di droga dal Sud America fosse arrivato in Olanda. Altro particolare emerso dalle investigazioni è stata la “considerazione” goduta in determinati ambienti della Capitale dal Guttadauro al quale sarebbe stato richiesto di intervenire a sostegno di una facoltosa nobildonna romana, Beatrice Sciarra moglie del chirurgo Giuseppe Mennini, già docente dell’Università “La Sapienza” di Roma – dietro la promessa di un lauto compenso per la soluzione di un contenzioso dell’ammontare di 16 milioni di euro che una donna romana aveva contro una filiale romana dell’Unicredit.
Giuseppe Guttadauro puntava ad ottenere una ricompensa del 5 per cento sulla prima tranche da 8 milioni dalla Sciarra. Nei numerosi continui colloqui finalizzati a sbloccare quei fondi Guttadauro coinvolgeva il commercialista romano Giovanni Armacolas e l’assistente di volo dell’Alitalia Adriano Burgio, il quale secondo le accuse della procura palermitana condivise dalla Gip di Palermo Claudia Rosini “fungeva da mediatore con i dirigenti bancari“.
I Guttadauro erano pronti ad eliminare ogni ostacolo anche quando nella contesa finanziaria saltava fuori il nome dell’ex deputato e senatore Udc Mario Baccini ministro della Funzione pubblica fra il 2004 e il 2006 nel governo Berlusconi, poi fondatore del “Comitato nazionale per il microcredito“, istituto chiuso durante la permanenza di Mario Monti a Palazzo Chigi e successivamente riaperto. Guttadauro in quanto vecchia conoscenza dell’antimafia non era persona che si faceva tanti scrupoli: “Se poi a Baccini gli si devono rompere le corna per davvero, gliele rompiamo“. Giuseppe Guttadauro, ignaro delle intercettazioni, era consapevole di non potersi esporre personalmente: “Non ci posso andare io a rompergli le corna. Giusto? A me mi conoscono, ci deve andare uno che nemmeno conoscono perché se mi fanno una fotografia, mi conosce mezzo mondo…”.
Giuseppe Guttadauro contava su una rete di complici dalle molteplici conoscenze come il suo amico assistente di volo, Adriano Burgio, gli aveva garantito di aver ricevuto la telefonata “di quello della Camera dei deputati… è importantissimo“. Così la “cricca” romana sperava poter esercitare pressioni su Unicredit, per agevolare la signora Sciarra. Burgio sembrava essere molto legato a Guttadauro: “Poi ti faccio pure le delega a tuo figlio per prendere i soldi” mentre parlavano di alcuni conti correnti in Albania. Guttadauro voleva trasferire all’estero alcuni patrimoni , ma precisava “Non mi devi fare niente per ora ti ho chiesto solo se abbiamo la possibilità“. Burgio era il nuovo contatto di Guttadauro con la politica: “Questo Armacolas è un professionista – diceva il “boss”, mentre sorseggiava un caffè al bar, e intanto il suo telefonino continuava a fare da microspia – “digli all’amico tuo se se lo mette nella lista e vediamo di farlo eleggere…. E abbiamo un altro là“. Burgio esponeva qualche problema perché le liste erano state già presentate, e si lamentava pure di difficoltà per l’ottenimento di finanziamenti regionali. Guttadauro gli rispose: “Se fossimo stati a Palermo ti direi: che ti serve? E te li farei portare a casa“.
La questione Sciarra stava molto a cuore al boss palermitano “romanizzato”: “La signora si sente minacciata dall’ Unicredit” aggiungeva ancora Guttadauro all’amico assistente di volo. E spiegava il vero motivo del suo interessamento: “Non mi interessa la pubblicità… film… non mi interessa niente… io dopo 23 anni di carcere di cui gli ultimi 10 al 41 bis, a me non interessa fare la prima donna… ma per qualche soldo”. E spiegava le sue ragioni di stare molto attento: “Io ho il parente del mio parente il più importante latitante che c’è… il secondo nel mondo… (il superlatitante Matteo Messina Denaro n.d.r.) più importante che c’è in Italia… ma tu perché pensi che mi stanno appresso? Per me?“.
Il “dottore” Guttadauro fungeva da mediatore della Sciarra con l’Unicredit, ignaro di essere intercettato dai Carabinieri del Ros grazie al trojan inoculato nel suo telefonino. “Gli andiamo a dire a tre personaggi che devono finirla e poi facciamo discorsi? – diceva Giuseppe Guttadauro al commercialista Armacolas – Abbiamo altre cose più importanti per le mani, è giusto?”. Il boss mafioso sollecitava il commercialista a fissare un incontro con un avvocato dell’ufficio legale di Unicredit: “Quando avrai l’incontro me lo fai sapere, e io l’ho farò sapere a chi è che poi…”.
Guttadauro non avrebbe esitato a prospettare, in caso di esito infruttuoso del proprio intervento, di passare alle vie di fatto, incaricando qualcuno di malmenare i soggetti che riteneva stessero ostacolando la soluzione della vicenda. Sono state, infine, ricostruite le motivazioni di un pestaggio, che altri due indagati – su ordine di Mario Carlo Guttadauro– avrebbero portato a termine il 25 ottobre 2016 nei confronti di un giovane palermitano, reo di aver accusato il giovane Guttadauro di condotte disdicevoli.
I movimenti del “dottore” sono sempre stati seguiti e controllati dai Carabinieri del Ros con la stessa costante attenzione dedicata al fratello, Filippo Guttadauro, anche quale cognato dell’imprendibile super latitante. Un monitoraggio che ha confermato come il “boss” mafioso coltivava, come è emerso nell’ultima inchiesta, nuovi loschi traffici a Roma, senza mollare i rapporti con la roccaforte operativa del clan operante nel quartiere Brancaccio di Palermo.
Riceviamo una lettera di rettifica dalla signora Sciarra. La replica del Corriere del Giorno. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2022
Abbiamo pubblicato questa rettifica esclusivamente per ottemperare alle norme di Legge, in quanto alla signora Sciarra deve essere sfuggito qualcosa....
Riceviamo dall’ Avv. Augusto Pizzoferrato quale legale di fiducia della Sig.ra Beatrice Sciarra la seguente lettera di rettifica che pubblichiamo integralmente ai sensi dell’art.8 Legge 47/1948 in relazione al nostro articolo del 14 febbraio con il titolo “La Mafia voleva punire anche l’ex ministro Baccini per conto di una nobildonna romana. Arrestati Guttadauro e suo figlio” :
“ Non corrisponde al vero la circostanza che la Sig.ra Beatrice Sciarra abbia mai avuto contatti diretti con il Sig. Giuseppe Guttadauro né tantomeno mai la stessa ha chiesto a quest’ultimo di fungere da mediatore per risolvere una grossa contesa finanziaria con Unicredit. La Sig.ra Beatrice Sciarra conosce il Sig. Guttadauro solo perché quest’ultimo svolgeva la stessa attività del suo ex marito, Prof. Giuseppe Mennini (medico chirurgo) e per tale motivo gli eventuali incontri sono sempre stati assolutamente casuali ed occasionali. Si precisa, altresì, che la Sig.ra Beatrice Sciarra non è stata raggiunta da alcun avviso di garanzia dagli Uffici della Procura di Palermo e, per tale motivo, risulta totalmente estranea a qualunque ipotesi delittuosa ascrivibile al Sig. Guttadauro “
Abbiamo pubblicato questa rettifica esclusivamente per ottemperare alle norme di Legge, in quanto alla signora Sciarra deve essere sfuggito qualcosa:
i contatti e/o rapporti fra la signora Sciarra ed il noto mafioso Giuseppe Guttadauro emergono dall’ordinanza emessa dal G.I.P. del Tribunale di Palermo dott.ssa Claudia Rosini sulla base di indagini del ROS dei Carabinieri. Sarà quindi all’ Autorità Giudiziaria che la signora Sciarra dovrà chiarirli, e non certamente a noi.
trattandosi di un’ordinanza “cautelare” e non essendo state chiuse le indagini, trovandosi coinvolta a ragione o per caso in una vicenda di mafia, è normale che al momento non abbia ricevuto alcuna comunicazione dall’ Autorità Giudiziaria o notizia dell’eventuale avvenuta sua iscrizione nel registro degli indagati. Che peraltro ai sensi dell’art. 335 comma 3-bis del Codice di Procedura Penale indica che “Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabile“. Quindi c’è solo da attendere. Redazione CdG 1947
Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 13 febbraio 2022.
Al grido di «rompere le corna a Mario Baccini» il boss Giuseppe Guttadauro marciava su Roma, almeno secondo i pm. Era il 2018 e il «dottore», com' è noto il boss, sognava percentuali generose come remunerazione per la sua mediazione in una curiosa contesa: quella fra l'aristocratica Beatrice Sciarra e l'istituto bancario Unicredit. Sedici milioni di euro che il padrino, con il proprio muscolare intervento, avrebbe dovuto sbloccare in favore della nobildonna.
Anche a costo di punire l'ex ministro della Funzione pubblica Baccini, reo di aver tentato di pilotare la vertenza Unicredit contro la Sciarra attraverso il magistrato del Consiglio di Stato Eugenio Mele. Nessun dubbio, scrivono i magistrati, che Guttadauro «fosse divenuto il referente in certi ambienti della "Roma bene" per la risoluzione, con metodo mafioso, di loro private controversie».
La storia, annota la gip Rosina Carini, «restituisce uno spaccato davvero sconsolante ed allarmante circa il pervicace potere mafioso riconosciuto a soggetti quali il predetto indagato...». Morale, quel grido («rompiamo le corna a Mario Baccini») risuona nelle orecchie dell'ex ministro oscuro e inquietante, ma andando indietro con la memoria non affiora nulla. «Oggi mi ha chiamato un amico: "Mario c'è una roba che ti riguarda sui siti". Ho letto e mi sono domandato come mai non avessi saputo nulla dalle forze dell'ordine. Forse ritenevano non vi fossero rischi concreti nei miei confronti. Voglio sperarlo» spiega al telefono l'ex ministro del centrodestra.
La frase, letta per intero, suona così: «Io sono insoddisfatto... inc... con quello che mi fai e ti vengo a dire: finiscila perché se no "ti vengo a rompere le corna e non se ne parla più"». Baccini continua a correre con la memoria indietro negli anni, nella speranza di ricostruire qualche frammento utile, ma invano: «Quando ero ministro - dice - mi è capitato di parlare con il dottor Giuseppe Mennini, marito della Sciarra, molto attento alle iniziative istituzionali. Ma nulla so di sua moglie e della questione Unicredit».
Ma davvero lei sarebbe intervenuto su un consigliere del Consiglio di Stato affinché la banca avesse la meglio? «Da ministro della Funzione pubblica vedevo migliaia di consiglieri ma mai nessuno dal nome Mele - replica -. Inoltre tentare di influenzare le decisioni di un magistrato non è nel mio Dna per così dire. Dubito fortemente di una simile ricostruzione. La dico tutta: se davvero mi fossi opposto ai voleri di un boss ne sarei orgoglioso, ma non mi risulta di averlo mai fatto... É probabile che la vicenda sia solo frutto di millanterie. Certo, le minacce sembrano autentiche e dovrò spiegarlo alla mia famiglia».
E «donna Beatrice»? Le parole della gip e le intercettazioni la descrivono come volitiva, determinata, pericolosa. Possibile? Beatrice Sciarra, 65 anni, sposata con il chirurgo Mennini, sarebbe decisa a infliggere la punizione all'ex ministro: «Era stata la stessa Sciarra - esplicita in una conversazione Guttadauro - a sollecitargli in qualità (lui) di capomafia, un intervento punitivo di carattere violento sul proprio oppositore, l'ex onorevole Baccini».
Felice Cavallaro per corriere.it il 13 febbraio 2022.
Del «dottore» della mafia collegato per indiretta parentela con Matteo Messina Denaro si parla dal 2001, da quando grazie a una soffiata eccellente trovò e distrusse le microspie collocate dall’antimafia nel salotto di casa sua, a Palermo. Ma scattano di nuovo gli arresti, dopo vent’anni di carcere a pene alternate, per Giuseppe Guttadauro, 73 anni, aiuto primario alla Chirurgia del Civico di Palermo negli anni Ottanta, un piede nella politica e l’altro nella mafia.
Arresti domiciliari per il boss rimasto dieci anni al 41 bis. Da qualche tempo trasferitosi a Roma dove era appena rientrato da un viaggio in Marocco. Va peggio al figlio maggiore, Mario Carlo, finito in carcere per la stessa inchiesta dei carabinieri del Ros che, grazie ai trojan inseriti nei cellulari, hanno anche ricostruito le minacce di padre e figlio per la soluzione di un contenzioso da 16 milioni di euro.
Le intercettazioni
Un affare a sostegno di una nobildonna romana, Beatrice Sciarra, contro una filiale dell’Unicredit. Pronti ad eliminare ogni ostacolo anche se nella contesa finanziaria saltava fuori il nome dell’ex ministro Mario Baccini. Con Guttadauro senior determinato: «Se poi a Baccini gli si devono rompere le corna per davvero, gliele rompiamo». Questa vecchia conoscenza dell’antimafia è stata sempre seguita con la stessa costante attenzione dedicata al fratello, Filippo Guttadauro, a sua volta, cognato dell’imprendibile super latitante.
Un monitoraggio che confermerebbe come il boss non avrebbe mollato i rapporti con la roccaforte operativa del quartiere Brancaccio a Palermo. Coltivando, secondo l’ultima inchiesta, nuovi traffici loschi a Roma. Con «il dottore» coinvolto perfino in una partita di droga, trasferendo 300 mila euro in Brasile per fare trasportare un carico dal Sud America in Olanda. Spicca in queste storie la figura del figlio, irruente, al centro anche di un (presunto) pestaggio «commissionato» nel 2016 contro un ragazzo che si sarebbe permesso di avanzare dubbi sulle sue «condotte contrarie alle regole morali di Cosa nostra».
La soffiata di Cuffaro
Il tempo sembra essersi fermato davanti ai protagonisti di queste pagine di mafia che cominciano le loro sciagurate carriere negli anni Settanta e ancora dominano la scena. Appunto, come Guttaduaro “il dottore” arrestato un’altra volta lo scorso maggio insieme con il fratello Filippo. Entrambi entrati ed usciti di scena da quell’intrigo che ruota attorno al re Mida della Sanità siciliana Michele Aiello e all’ex presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro, accusato di essere stato il perno della soffiata culminata nella distruzione delle microspie in casa Guttadauro.
I favori di Cosa nostra
Quelle ed altre intercettazioni permisero allora di cogliere i distinguo interni alle «famiglie». Con tutti i dubbi legati ad alcune stragi forse compiute dalla mafia in sintonia con altre “entità” o forse per inconfessabili interessi incrociati. Si sfogava Guttadauro con un medico suo amico, Salvatore Aragona: «Ma chi c... se ne fotteva di ammazzare Dalla Chiesa... Andiamo, parliamo chiaro... E perché glielo dovevamo fare questo favore...». Inquietante riflessione che dal 1982 rimbalza al 1992, subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, quando questa eminenza grigia sembra prendere le distanze dalla sanguinaria violenza di Riina e Provenzano: «Non l’ho capito questo spingere determinate esasperazioni. Perché farci mettere nel tritacarne...».
Le legnate di Baccini
Apparentemente sembrava volere sempre appianare e mediare. Proprio a Roma «il dottore» sperava di assecondare la richiesta di aiuto arrivata dalla signora Sciara, moglie di Giuseppe Mennini, chirurgo e già docente dell’Università «La Sapienza». Puntava a una ricompensa del 5 per cento sulla prima tranche da 8 milioni, Nei vorticosi colloqui finalizzati a sbloccare quei fondi Guttadauro ha finito per coinvolgere il commercialista Giovanni Armacolas e l’assistente di volo dell’Alitalia Adriano Burgio, che per la procura e la gip di Palermo Claudia Rosini «fungeva da mediatore con i dirigenti bancari». Pronto il boss a far pesare minacce pesanti.
Pronto alla violenza e «a dare legnate» parlando dell’ex deputato e senatore Udc Mario Baccini, ministro della Funzione pubblica fra il 2004 e il 2006 nel governo Berlusconi, poi fondatore del «Comitato nazionale per il microcredito», istituto chiuso durante la permanenza di Mario Monti a Palazzo Chigi e poi riattivato. Ma Guttadauro, ignaro delle intercettazioni, sapeva di non potersi esporre troppo: «Non ci posso andare io a rompergli le corna. Giusto? A me mi conoscono, ci deve andare uno che nemmeno conoscono perché se mi fanno una fotografia, mi conosce mezzo mondo...».
Lezione di mafia
Di qui forse la scelta di scatenare il figlio, anche a costo di contraddire qualche vecchia «lezione di mafia» un tempo impartita auspicando le regole di una mafia camaleonte, pronta ad insabbiarsi. Lo stesso modello offerto in passato con una vera e propria «lezione» all’altro figlio, Francesco, tempo fa pure lui arrestato: «Ti devi evolvere, ma rimanere con quella testa». Gli stessi consigli suggeriti a un altro rampollo di famiglia, Fabio Scimò, deciso a fare «carriera»: «Non puoi scendere a livello dei picciutteddi. Devi metterti a un livello diverso». Parola del «dottore».
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 14 febbraio 2022.
«Sono quattro banditelli da tre lire». U dutturi aveva pochi dubbi. Le nuove leve della mafia sono poca cosa rispetto alla vecchia guardia. Questo ciò che pensa Giuseppe Guttadauro, 73 anni. Il dottore, il suo soprannome. Di fatto è un medico, è stato primario dell'ospedale Civico di Palermo. Lui, esponente di spicco di Cosa nostra, vedeva i giovani del grande crimine, deboli. Fragili. Ieri per il boss e il figlio, sono scattate di nuovo le manette. Entrambi sono ai domiciliari con l'accusa di associazione mafiosa. È la terza volta che viene arrestato. Era già accaduto nel 1984 e poi nel 1994.
L'ACCUSA Anche questa volta la procura gli contesta l'appartenenza alla famiglia mafiosa, quella di Palermo-Roccella (inserita nel mandamento di Brancaccio-Ciaculli). Il dottore aveva i gradi di grande ufficiale del crimine e per questo aveva voce in capitolo sulle più significative dinamiche del mandamento. In questo scenario accusava i giovani boss di scarsa tenuta «questo capo di tutto eh... neanche un giorno di carcere si è fatto e si è pentito», ma il suo cuore e soprattutto i suoi affari continuavano a essere legati a doppio filo a Cosa nostra. Nonostante gli anni di carcere scontati e la certezza di essere ancora oggetto delle attenzioni degli inquirenti, Guttadauro, storico padrino del mandamento di Brancaccio, non ha mai interrotto i suoi legami con le cosche.
La galera l'aveva lasciata nel 2012, dopo tre condanne definitive si era trasferito a Roma, proprio per tentare di non destare l'attenzione degli inquirenti, ma, attraverso il figlio Carlo, continuava a decidere le sorti delle «famiglie» mafiose palermitane e trafficava in droga. L'inchiesta che ha svelato gli affari dell'anziano capomafia, coordinata dalla Dda di Palermo, nasce dalle indagini per la ricerca del boss Matteo Messina Denaro: il fratello di Guttadauro, Filippo, è cognato del padrino ricercato. Del «dottore» il gip di Palermo sottolinea la avversione naturale al rispetto delle regole dell'ordinamento giuridico. «Ti devi evolvere, hai capito? Il problema è rimanere con quella testa, ma l'evoluzione...», diceva al figlio, suo trait d'union con i clan, invitandolo a rispettare le regole di Cosa nostra pur stando al passo con i tempi.
CONTROVERSIE Da Roma il dottore, che aveva una florida attività di commercio ittico in Marocco - è stato arrestato proprio mentre rientrava dal nord Africa - dirimeva le controversie tra i clan sull'esecuzione di lavori edili commissionati dall'Eni a Brancaccio, progettava la costruzione di un grosso distributore di carburante, gestiva, insieme al clan di Bagheria e Roccella un traffico di stupefacenti, occupandosi dell'approvvigionamento della cocaina dal Sudamerica e dell'hashish dall'Albania. Il giudice, che lo ha messo ai domiciliari, sottolinea il ruolo ancora decisionale di Guttadauro che «forte della sua caratura mafiosa da soggetto che aveva ricoperto posizione di vertice in seno alla consorteria, ancora poteva dirimere i contrasti insorti sul territorio e risolvere, con autorità para statale le vertenze criminali».
A Roma il dottore aveva stretto relazioni importanti con esponenti dei salotti buoni. L'inchiesta ha svelato che aveva cercato di risolvere un contenzioso tra una facoltosa romana, Beatrice Sciarra, moglie di un chirurgo docente alla Sapienza, e Unicredit. A incaricare il boss di risolvere il problema sarebbe stata la Sciarra che vantava un credito di 16 milioni di euro con l'istituto di credito. In cambio del suo intervento il capomafia aveva pattuito un compenso del 5% della somma che la donna avrebbe incassato.
Guttadauro, emerge dalle intercettazioni, aveva fatto capire che sarebbe passato, in caso di esito infruttuoso della sua mediazione, all'azione violenta, incaricando qualcuno di «dare legnate» al soggetto che impediva la transazione, l'ex ministro Mario Baccini. Baccini, a dire di un altro intermediario, assieme all'ex consigliere di Stato Eugenio Mole, avrebbe potuto interferire nella questione pregiudicandone l'esito. Guttadauro venne coinvolto nell'indagine, denominata talpe alla Dda, che costò una condanna per favoreggiamento alla mafia a 7 anni all'ex governatore siciliano Totò Cuffaro.
Massimo Sanvito per Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022.
Il dottore comandava ancora. Ufficialmente commerciante di pesce in Marocco e impegnato nel volontariato a Roma, nei fatti mafioso mai sopito, nonostante le tre condanne, soggiorno nella Capitale, contatti buoni coi salotti romani, da lì gestiva i traffici illegali tra i clan palermitani per i lavori edili commissionati dall'Eni a Brancaccio, progettava la costruzione di un nuovo grande distributore di carburante e smazzava i carichi di cocaina dal Sudamerica e quelli di hashish dall'Albania insieme ai clan di Bagheria e Roccella.
Per i giovani di Cosa Nostra non aveva parole carine - «sono quattro banditelli da tre lire» - mentre al figlio Mario Carlo dava lezioni: «Ti devi evolvere, hai capito? Il problema è rimanere con questa testa, ma l'evoluzione...». Giuseppe Guttaduro, ex primario dell'ospedale civico di Palermo, storico padrino del mandamento Brancaccio-Ciaculli, è finito in manette (ai domiciliari). Ancora. Insieme al pargolo (in galera): l'accusa, manco a dirlo, è associazione di stampo mafioso. I Carabinieri del Ros lo hanno preso mentre stava rientrando a Roma dal Nordafrica. Dal 2012, quando fu scarcerato, non avevano mai spesso di tenerlo d'occhio.
L'INCHIESTA Decisiva è stata l'inchiesta, coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Palermo e dal procuratore aggiunto Paolo Guido, nata dalle indagini per le ricerche del superlatitante Matteo Messina Denaro, cognato di Filippo Guttadauro, il fratello del dottore. In un'intercettazione, il più giovane della famiglia, Mario Carlo, in risposta a un amico che gli chiedeva se pensava di essere controllato, diceva: «Ma certo, ho il parente del mio parente che è il più importante latitante che c'è. Il secondo del mondo, il più importante che c'è in Italia».
Anche i telefoni di Giuseppe erano sotto monitoraggio dei Carabinieri. Lo ascoltavano mentre parlava di carichi di droga che passavano per Rotterdam. «Questi salgono 100 chili al mese. Allo scarico funziona così. Ci sono i doganieri, che prendono il 25 per cento». Ma il narcotraffico era solo una parte della sua quotidianità criminale. Dall'inchiesta che lo ha coinvolto è emerso anche l'interessamento da parte del dottore nel cercare di risolvere un contenzioso tra Beatrice Sciarra, nobildonna romana e moglie di un chirurgo docente alla Sapienza, e Unicredit.
Lei vantava un credito di ben 16 milioni di euro con la banca e Guttadauro avrebbe mediato per trovare una soluzione in cambio del 5% della somma recuperata. Prima con le buone e poi con le cattive se non fosse andata come diceva lui, incaricando qualcuno di «dare legnate» a chi ostacolava la transazione.
Ovvero l'ex ministro Mario Baccini. Il gip di Palermo, dell'ex primario dell'ospedale civco, ha sottolineato «la perdurante appartenenza al sodalizio di tipo mafioso, in particolare della famiglia di Roccella». E ancora: «Forte della sua caratura mafiosa da soggetto che aveva ricoperto posizione di vertice in seno alla consorteria, ancora poteva dirimere i contrasti insorti sul territorio e risolvere, con autorità para statuale le vertenze criminali».
Già, perché Guttadauro era già stato arrestato nell'84, nel '94 e nel 2002 nell'operazione "Ghiaccio" che coinvolse anche l'ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, a sua volta condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia. L'inchiesta, coordinata dai pm della dda dell'epoca, Maurizio de Lucia e Michele Prestipino, svelò, proprio partendo dagli accertamenti sul medico, una rete di informatori che davano notizie riservate su indagini in corso anche all'imprenditore mafioso Michele Aiello.
RIVELAZIONI Il nome del presidente della Regione emerse da un'intercettazione effettuata a casa del boss di Brancaccio. Era il 15 giugno 2001 e una cimice nascosta registrò: «Ragiuni avia Totò Cuffaro».
Ad avvisare Guttadauro che all'interno del suo appartamento ci fossero microfoni era stato Domenico Miceli, anch' egli medico, delfino del governatore, che proprio da lui aveva ricevuto l'informazione. Il dottore era stato scarcerato nel 2012 per poi trasferirsi subito a Roma. Non voleva dare troppi sospetti. Eppure il suo legame con la mafia è sempre rimasto solido, un patto di sangue con Cosa Nostra e le famiglie di Brancaccio. Disprezzava le nuove generazioni di mafiosi e odiava i pentiti.
«Questo capo di tutto eh... neanche un giorno di carcere si è fatto e si è pentito», diceva. E dispensava consigli ai più giovani. Un maestro criminale che dispensava consigli ai suoi allievi: «Non puoi scendere a livello dei picciutteddi, non va bene. Devi metterti a un livello diverso».
L'operazione e le accuse. Cosa Nostra, arrestati “il dottore” Giuseppe Guttadauro e il figlio: “Dal jet set romano alla droga dal Sudamerica”. Vito Califano su Il Riformista il 13 Febbraio 2022.
Arrestati “il dottore” Giuseppe Guttadauro e il figlio Mario Carlo. L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal gip del Tribunale di Palermo ed eseguita dai carabinieri del Ros a Palermo. L’accusa è di associazione di tipo mafioso: padre e figlio sono accusati di appartenere alla famiglia di Cosa Nostra di Palermo-Roccella inserita nel mandamento di Brancaccio-Ciaculli. Sarebbero intervenuti anche nelle più significative dinamiche del mandamento mafioso di Villabate-Bagheria. Giuseppe Guttadauro è ai domiciliari, il figlio in carcere.
Le indagini sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Giuseppe Guttadauro era medico all’Ospedale Civico di Palermo, fratello di Filippo, cognato del superlatitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Era stato arrestato l’ultima volta nel maggio del 2002 e scarcerato nel 2012. Secondo gli investigatori avrebbe mantenuto contatti con l’organizzazione mafiosa di riferimento tramite il figlio Mario Carlo. Guttadauro padre fu coinvolto nella vicenda giudiziaria sulle talpe alla Dda in cui fu indagato anche l’ex Presidente della Regione Siciliana Toto Cuffaro, che in questi giorni presenta nell’isola il proprio movimento politico.
Secondo le indagini Mario Carlo Guttadauro sarebbe intervenuto per conto del padre per risolvere i contrasti sorti a Palermo e per una questione per precisa: dei lavori che dovevano essere realizzati in una struttura industriale nella zona di Brancaccio. “Il dottore”, com’era soprannominato Giuseppe Guttadauro, sarebbe stato infastidito dai comportamenti delle nuove generazioni di mafiosi, desunte dalla collaborazione di Francesco Colletti (uomo d’onore poi pentito), e preoccupato dalle dichiarazioni di un altro collaboratore, Filippo Bisconti. Le informazioni sono state apprese dalle intercettazioni.
Oltre a curare gli affari di Cosa Nostra con i vertici pro-tempore della famiglia mafiosa di Bagheria, curando il traffico di droga di un bagherese, si sarebbe occupato anche della pianificazione dell’arrivo dell’hashish dall’Albania e di cocaina dal Sud America. Un assistente di volo avrebbe dovuto trasportare 300 mila euro in Brasile nel momento in cui il carico di droga dal Sud America fosse arrivato in Olanda.
L’Agi scrive che l’influenza di Guttadauro si sarebbe estesa fino a Roma, dove si era trasferito dopo la scarcerazione: gli sarebbe stato chiesto, dietro lauto compenso, di intervenire per risolvere un contenzioso da 16 milioni di euro che una facoltosa donna romana aveva con un istituto bancario; se la mediazione fosse fallita sarebbe scattato il pestaggio dei soggetti che ostacolavano la soluzione. La vicenda avrebbe provato le frequentazioni dell’arrestato nel jet set della Capitale.
A Palermo due indagati avrebbero picchiato a sangue, secondo le indagini sul mandato del figlio, un giovane che aveva accusato Mario Carlo Guttadauro. Giuseppe avrebbe parlato al figlio della necessità di “evolversi” pur conservando i “principi” di Cosa Nostra. Nell’ambito della stessa indagine sono indagati, ma non destinatari di provvedimenti cautelari, altri soggetti palermitani, tre dei quali considerati affiliati alla famiglia di Palermo-Roccella, e due in concorso con Mario Carlo Guttadauro, di lesioni aggravate.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Finisce l'era dei pizzini, cellulari criptati dalla Calabria per i boss siciliani. Sequestrati tre telefonini, caccia ai codici per decifrarli. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 21 gennaio 2022.
La nuova frontiera delle comunicazioni criminali. Fbi ed Europol sono già riusciti a bucare i sofisticati software, ma sul mercato sono arrivati nuovi modelli.
Boss e trafficanti di droga palermitani provano ad arginare il Grande fratello delle intercettazioni con telefonini criptati di ultima generazione, che assicurano comunicazioni “ blindate”. Negli ultimi mesi, ne sono stati sequestrati tre in città. E, adesso, un’indagine della direzione distrettuale antimafia sta cercando di ricostruire da dove arrivino. Una pista porta in Calabria: i boss dell’ndrangheta già da anni utilizzano gli ultimi ritrovati della tecnologia per le loro comunicazioni intercontinentali riguardanti i traffici di droga.
Palermo, «Dessert» il cavallo purosangue che ha fatto arrestare 22 mafiosi. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2022.
L’animale venne ucciso per vendetta in una stalla: dall’indagine sulla sua morte è emerso uno scontro tra clan per la gestione di una grossa partita di droga. Decisive le intercettazioni.
Non hanno fatto trovare la testa sanguinante di un cavallo sul talamo di un padrino. Ma, scimmiottando la trama del film di Francis Ford Coppola, un puledro l’hanno azzoppato davvero a colpi di revolver. In una stalla. Sotto gli occhi di un purosangue terrorizzato, poi ucciso a sua volta sempre per vendetta. Perché gli stalloni diventano in questa storia di mafia ambientata a Carini, a metà strada fra Palermo e il suo aeroporto, le vittime sacrificali di una lotta spietata fra due clan. Una mini-guerra senza picciotti caduti sul campo perché a pagare stavolta sono i meno implicati di tutti. Innocenti animali investiti dall’odio di controfigure che non hanno niente a che vedere con i Marlon Brando o gli Al Pacino descritti da Mario Puzo.
Il «napoletano» e lo «sporco»
Tutto nasce da una partita di un chilo e duecento grammi di droga contesi fra Andrea Giambanco e Giuseppe Mannino, «il napoletano» e «lo sporco», come vengono identificati nelle intercettazioni i protagonisti di una storiaccia approdata ai 17 arresti (22 inclusi i domiciliari) di ieri mattina e partita dalla notte del 17 luglio, dal raid in una stalla della vicina Torretta dove questi boss pronti ad ostacolarsi a vicenda custodivano i loro destrieri. È quello di Giambanco ad essere ferito per primo. La mafia di campagna davanti a presunti sgarri arriva al taglio degli ulivi. Adesso lo sgarro porta a sparare allo stinco di una bestia bloccata e indifesa nel suo box. Quella notte al proprietario, «il napoletano», la notizia arriva in fretta. Volano telefonate per i veterinari che soccorrono l’animale ferito guardandosi bene dall’avvertire i carabinieri. Poi, all’alba, echeggia un altro colpo di pistola. Stavolta per la contro-vendetta. Uccidendo con uno squarcio alla gola Dessert, il purosangue dello «sporco», quel Mannino citato in eloquenti intercettazioni da Giambanco rimproverando un suo uomo, Giuseppe Anile: «Ma tu come hai fatto ad immischiarti con lo spuorco, fammi capire?». E quello, pronto a giustificarsi attaccando: «“Cornuto e sbirro ‘sto spuorco».
L’eredità di Bono, il boss
Forse sospettavano soffiate di cui potevano fare a meno i carabinieri del colonnello Angelo Pitocco, entrati in allarme dopo i primi indizi raccolti a Carini. Decisi a fare chiarezza. Anche con intercettazioni telefoniche capaci di ricostruire una folta rete di spacciatori divisi fra le famiglie di Giambanco e Mannino. Con i due capi decisi a contendersi, poi anche con un gruppo guidato da Maurizio Di Stefano, l’eredità lasciata a Carini da Alessandro Bono, un «signore della droga» condannato a vent’anni di carcere giusto un anno fa.
La chat e il cinese
Non si sa quanto tempo resteranno in cella, ma l’ordinanza firmata dal gip Walter Turturici offre uno spaccato inquietante. Non solo per il sequestro di cinque chili di eroina. Anche per il sistema «aziendale» scoperto, visto che nelle chat dei clan erano compresi 500 nomi di fruitori costantemente monitorati. Richiamati se per qualche giorno non effettuavano acquisti. Come un call center. Subito contattati per verificare eventuali problemi o la scelta di avere cambiato fornitore. «Ciao ragazzi, sugnu u ‘zu Andrea, questo è il mio numero...», oppure «Ciao ho cambiato moto...». Ecco alcuni messaggi di Bonanno effettuati utilizzando un’utenza intestata a tale Xu Jianping, un cinese nato nel 1980, ufficialmente residente a Curti, nel Casertano. Forse ignaro di un traffico con 15 mila contatti al mese finalizzati ad altrettante «forniture». Un business che ha per vittime i fruitori e quel povero Dessert, il cavallo pulito dello «sporco».
Da lasicilia.it il 19 gennaio 2022.
Un assessore del Comune di Palagonia, Antonino Ardizzone, con delega alle Attività ricreative, Sport, Turismo e Spettacolo, è stato arrestato dai carabinieri per concorso nell’omicidio di Francesco Calcagno, assassinato nel paese della Piana di Catania il 23 agosto del 2017. Per la Dda, il delitto «sarebbe stato commesso per agevolare un gruppo mafioso legato alla "Stidda" e avrebbe collegamenti con l’uccisione, il 5 agosto del 2016, del consigliere comunale Marco Leonardi».
L’arresto è stato eseguito da carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Catania e della compagnia di Palagonia, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip su richiesta della Procura etnea.
Le indagini dei militari dell’Arma sono state coordinate dalla Dda della Procura distrettuale di Catania. Per l’uccisione di Calcagno, assassinato con cinque colpi di pistola in un fondo agricolo, i carabinieri il 7 settembre del 2017 hanno arrestato il presunto autore materiale del delitto, Luigi Cassaro, 54 anni. Per la sua identificazione fu autorizzata la diffusione di un video in cui si vedeva l’uomo armato di pistola inseguire la vittima e poi fuggire.
Calcagno, nell’ottobre del 2016 uccise a colpi di pistola in un bar, Marco Leonardi, un consigliere comunale eletto in una lista civica, anche lui armato. Dopo si costituì ai carabinieri confessando l’omicidio, sostenendo di avere agito per legittima difesa e parlando di un credito che vantava dalla vittima. Anche in quel caso la dinamica del delitto fu ricostruita grazie a un video.
Secondo l’accusa, l'assessore Ardizzone «avrebbe fatto da tramite tra il mandante ed alcuni esponenti di rilievo della cosca mafiosa della "Stidda" per il reperimento del killer, per vendicare la morte di Marco Leonardi», ucciso da Calcagno.
Ad Ardizzone, arrestato dai carabinieri in esecuzione di un’ordinanza del Gip di Catania, la Procura distrettuale etnea contesta il reato di concorso in omicidio aggravato anche per agevolare l’attività criminosa di un gruppo mafioso attivo a Canicattì (Agrigento) e Palagonia ritenuto un’articolazione territoriale della «Stidda».
Le indagini hanno permesso di inquadrare l’omicidio di Calcagno, assassinato nel suo podere di campagna il 23 agosto del 2017, come "ritorsione" per l’omicidio del consigliere comunale Marco Leonardi, ucciso il 5 ottobre del 2016 in un bar di Palagonia dopo una lite, pare per motivi economici, da Calcagno che sostenne la tesi della legittima difesa. Il delitto, contesta la Procura di Catania, sarebbe stato anche «uno strumento per affermare la presenza anche sul territorio di Palagonia di un gruppo mafioso vicino alla "Stidda", tradizionalmente operante nell’agrigentino e di cui l’indagato farebbe anche parte».
Secondo l’accusa «Ardizzone su richiesta del mandante (da individuarsi tra i soggetti vicini a Marco Leonardo), si sarebbe attivamente adoperato, con l’aiuto di esponenti di rilievo del citato sodalizio mafioso - dallo stesso conosciuti come tali - per la ricerca e il reperimento del killer che avrebbe dovuto eseguire materialmente l’omicidio del Calcagno».
Le indagini proseguono per individuare altri responsabili. Per l’omicidio risulta essere stato condannato con sentenza definitiva a 30 anni di reclusione Luigi Cassaro, arrestato il 7 settembre del 2017 con l’accusa di essere l’esecutore materiale. Ad "incastrarlo" un video in cui si vedeva l’uomo armato di pistola inseguire la vittima e poi fuggire.
Preso in Spagna Gioacchino Gammino. Riconosciuto su Google Maps, latitante catturato dopo 20 anni in fuga: “Come avete fatto?” Vito Califano su Il Riformista il 5 Gennaio 2022. “Come avete fatto? Non telefonavo alla mia famiglia da dieci anni”, ha lamentato il latitante al momento dell’arresto. Ecco come hanno fatto: due uomini che parlano in strada, sul marciapiede, davanti a un negozio di frutta e verdura. L’immagine dritta dritta da Google Maps riprendeva proprio lui: Gioacchino Gammino, boss agrigentino della “Stidda”, gruppo attivo soprattutto tra Agrigento, Caltanissetta e Ragusa. Era condannato all’ergastolo per omicidio. Ricercato dal vent’anni, dal 2002, è stato catturato in Spagna. La storia è stata raccontata da Repubblica.
L’operazione della Dia è stata coordinata dal Procuratore di Palermo (che sta per insediarsi a Roma) Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dal sostituto Gianluca De Leo. L’immagine di Google Maps arrivava da Galapagar, paese di circa 25mila abitanti, nella comunità autonoma di Madrid, capitale della Spagna. Alle spalle dei due, nell’immagine, che discutono il negozio: l’attività “El huerto de Manu”. Che però risulta chiusa da qualche tempo.
Tramite il numero di telefono gli agenti sono risaliti a un locale vicino, La cocina de Manu, anche questo chiuso nel 2014 ma che sulla sua pagina Facebook annoverava una foto del latitante, oggi 61enne, ma ancora riconoscibile per una cicatrice sulla parte sinistra del mento. Lo chef, a quanto pare. Gammino era fuggito dal carcere di Rebibbia a Roma durante le riprese di un film, con l’attrice Vittoria Belvedere, nel 2002.
“Come avete fatto a trovarmi? Non telefonavo alla mia famiglia da dieci anni”, ha detto incredulo l’uomo il 17 dicembre scorso quando è stato arrestato. È considerato tra i componenti del commando che il 29 agosto 1989, a Campobello di Licata, in piena faida tra Cosa Nostra e Stidda, assassinò per errore un passante scambiando con un mafioso. Giovanni Falcone, che indagò su di lui, lo considerava uno dei canali di collegamento con i clan che gestivano lo spaccio in Lombardia. Gammino in passato era fuggito in Spagna, nel 1998. Fermato a Barcellona, qualche mese dopo, era evaso poco più di tre anni dopo da Rebibbia.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
«Gli ‘ndranghetisti non ragionano più in termini di territorio ma di potere economico e politico». ANTONIO ANASTASI il 13 Dicembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.
L’analisi di Antonio Nicaso sull’evoluzione degli ‘ndranghetisti che non puntano più sul territorio bensì sul potere economico e politico
Lo “sguardo presbite” della ‘ndrangheta e quello miope dei legislatori. Un anno fa, con “Complici e colpevoli”, si sono concentrati sul Nord Italia. Nel loro nuovo libro, l’analisi del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dello storico delle mafie Antonio Nicaso, si spinge “Fuori dai confini”.
Sotto la lente sempre la ‘ndrangheta, l’unica organizzazione criminale ad essere presente in tutti i continenti, e la sua espansione in quelle che una volta venivano chiamate le “aree non tradizionali” per distinguerle dai territori della genesi storica delle mafie. La tesi di fondo di “Fuori dai confini. La ‘ndrangheta nel mondo”, 143 pagine che si leggono tutte d’un fiato, pubblicate da Mondadori, è che nessun Paese è immune da quello che non può più essere equiparabile a una patologia contagiosa, come non sono immuni i sistemi politici e istituzionali.
Le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico e sociale in Germania, per esempio, sono possibili perché là le intercettazioni sono quasi sconosciute ed è più facile riciclare soldi sporchi che in Italia, dove gli accertamenti patrimoniali delle forze dell’ordine sono più stringenti. Una mafia, quella calabrese, sempre più deterritorializzata e dallo «sguardo presbite», ma se questo fa parte da tempo del dominio conoscitivo di magistrati e studiosi del calibro degli autori del libro, non lo è per il legislatore.
Né quello italiano né quello europeo né quello del resto del mondo. Chi non vuole capire che le mafie che non sparano sono quelle più sul pezzo, perché si si aggiornano, si ramificano e sono figlie del loro tempo, un tempo fatto di interconnessioni e social media, e per questo non sono meno pericolose di quelle sanguinarie che tengono sotto scacco interi territori del Meridione d’Italia, non ha colto che c’è un fenomeno che chiama in causa proprio giurisdizioni opache e non in grado di contrastare, attraverso adeguati strumenti normativi, l’occultamento di ingenti flussi finanziari e dei loro titolari effettivi.
Non a caso il libro si conclude con l’immagine, descritta da David Foster Wallace, del pesce anziano che va nella direzione opposta di due pesci giovani e chiede com’è l’acqua, mentre quelli giovani si fermano e rispondono: «Che cavolo è l’acqua?». Una metafora per rappresentare l’assuefazione dei mercati ai capitali mafiosi, ormai componente strutturale del capitalismo globale. Anche se Nicaso e Gratteri sembrano proprio non credere all’inconsapevolezza dei mercati, perché i soldi delle mafie sono parte integrante dell’economia globale. Ne abbiamo parlato con il professor Nicaso.
La strategia del basso profilo viene ripercorsa meravigliosamente nel libro. La tesi è quella di una ‘ndrangheta affaristica, che si muove sotto traccia e manda le giovani leve a studiare nelle migliori università italiane e del mondo perché possano servire al meglio l’organizzazione criminale. Professore, in che consiste lo “sguardo presbite” della ‘ndrangheta?
«Lo sguardo presbite è quello con cui la ‘ndrangheta acquisisce tutte le competenze necessarie per affrontare le nuove sfide. Mandare i figli alle università è più una metafora del futuro, di una possibile svolta, delle capacità di adattamento. Pensiamo al cyber space e ai profitti che genera. Prima o poi ci sarà una forma ibrida di criminalità organizzata che porterà gli ‘ndranghetisti a ragionare non più in termini di territorio ma di acquisizione di potere economico e politico grazie alla possibilità di entrare nei meandri del dark web. Penso ad una mafia capace di guardare lontano e di tenere conto delle nuove opportunità, per esempio le droghe sintetiche e il reinvestimento dei proventi in giurisdizioni opache. Lo stanno già facendo, gli ‘ndranghetisti, con applicazioni che si fanno costruire da tecnici informatici, con la criptofonia. La Dia dice che la ‘ndrangheta è la mafia che più di ogni altra si è adeguata alla rivoluzione digitale. Ecco perché bisogna attrezzarsi nell’azione di contrasto, non si fa più i conti con un’organizzazione che si muove in un territorio ristretto».
Se la ‘ndrangheta è presbite, il libro chiama in causa legislatori quantomeno miopi di fronte a una ‘ndrangheta che centellina la violenza, quindi desta meno allarme sociale, ma riesce a occultare i propri capitali nelle piazze finanziarie off-shore e a infiltrarsi nel tessuto socio-economico di Paesi sforniti di norme antiriciclaggio stringenti come quelle italiane…
«Se le mafie si sono globalizzate è perché l’azione di contrasto non ha fatto altrettanto. Il problema di fondo è questo. L’Italia ha gli strumenti per combattere il fenomeno, anche se andrebbero migliorati, ma molti altri Paesi non hanno gli strumenti né la capacità analitica per comprendere la pericolosità del fenomeno. Se la ‘ndrangheta spara di meno, ed è sempre meno violenta, diventa difficile convincere un legislatore a combattere un fenomeno che non si percepisce o non si vuole percepire. Questo è un grande problema in Europa, dove si confisca meno dell’uno per cento della ricchezza criminale delle mafie. Eppure se facciamo una mappatura della ‘ndrangheta, la troviamo in una quarantina di Paesi. Nonostante l’iniziativa dell’Interpol, non c’è grande volontà politica perché il progetto è finanziato solo dall’Italia, anche se molti Paesi hanno aderito».
Il modello italiano nell’attacco globale alla ‘ndrangheta continuerà ad essere tale dopo la stretta sulle intercettazioni e sul contante?
«La ‘ndrangheta quando fa riciclaggio non tiene conto di piccole modifiche normative, se si alza la soglia del contante questo può aiutare qualche piccolo trafficante, le grandi manovre si fanno nei Paesi che ancora tengono in piedi società di comodo o non hanno registri dei proprietari degli investimenti. L’Italia sta diventando sempre più periferica negli investimenti della ‘ndrangheta, in Calabria restano le briciole che rischiano di diventare briciole nel resto d’Italia perché le mafie hanno capito che è più vantaggioso investire all’estero, dove si trovano sempre meno ostacoli. All’estero la presenza dei broker della ‘ndrangheta è sempre più massiccia».
Il libro si apre con un capitolo sull’Ucraina. Dopo la guerra, le cosche avranno più armi? La ‘ndrangheta sta già sfruttando la crisi?
«Questo non è possibile ancora stabilirlo, ma alla luce di quanto le cosche hanno fatto in passato c’è il rischio che le armi possano finire nelle mani dei trafficanti e di chi le andrà eventualmente ad acquistare e utilizzare. C’è un allarme per evitare che possa ripetersi ciò che accadde alla fine della guerra nell’ex Jugoslavia, quando gli ‘ndranghetisti acquistarono plastico e kalashnikov tramite mediatori della Sacra corona unita in Montenegro. Il rischio è concreto perché durante la guerra russo-ucraina armi potenti sono finite in mano a persone che fino ad un anno fa facevano tutt’altro, magari erano professionisti o giovani disoccupati».
C’è anche un capitolo sulla Triple Frontera, luogo paradisiaco ma anche zona franca per le attività criminali, dove la ‘ndrangheta è sbarcata da tempo perché non si accontenta di essere l’interlocutore privilegiato dei narcos colombiani…
«La ‘ndrangheta ha rapporti con tutti, soprattutto con il Primeiro Comando da Capital, organizzazione che sta acquisendo sempre maggiore potere in America Latina, e da organizzazione carceraria si sta espandendo dappertutto. Nella Triple Frontera si saldano alleanze, si trovano investitori e riciclatori di denaro, si trovano armi, è una zona franca per tutti coloro che hanno necessità di acquistare cocaina o precursori chimici per droghe sintetiche, è uno di quei posti dove chi ha potere e denaro non può non esserci, perché la si creano fortune economiche».
Uno degli affari principali delle holding dell’illecito è quello del gaming. Il paradiso fiscale Malta è sempre più spesso la sede delle piattaforme del gioco d’azzardo online controllato dalla ‘ndrangheta…
«Questa è una delle prospettive del mondo digitale, ed è emersa con grande evidenza. Le bische di una volta sono divenute private room nei siti online, videopoker in cui si gioca virtualmente attraverso hacker. Insieme alle scommesse clandestine è una di quelle cose che la ‘ndrangheta ha abbracciato subito, senza remore, utilizzando piattaforme per il gioco d’azzardo. Sono prospettive che fanno fare soldi da portare poi alla luce per cui bisogna muoversi anche off line. Le mafie che immaginiamo sono quelle che hanno un piede off line e l’altro on line, coniugano spazio reale e virtuale e Malta offre l’opportunità di rastrellare soldi. Ma se è possibile giocare o scommettere dal mondo virtuale, a portare in superficie i soldi spesso sono professionisti che garantiscono questo servizio o banche che nascono e muoiono nel giro di una settimana».
Nel capitolo su ‘ndrangheta e realtà virtuale si analizza, tra l’altro, il fenomeno dei neomelodici e dei trapper che simpatizzano con disvalori legati al mondo criminale totalizzando migliaia di visualizzazioni. Si ricorda anche che il procuratore Gratteri, subito dopo la maxi operazione di Cosenza con 200 arresti, è stato minacciato di morte durante una diretta su Tik Tok. I social vengono però utilizzati dalle mafie anche per esteriorizzare potenza attraverso lo sfoggio delle loro ricchezze. Cosa si cela dietro questa nuova autonarrazione della ‘ndrangheta?
«Le nuove generazioni non sono quelle che avevano paura di portarsi dietro il telefonino pensando di avere un carabiniere in tasca, ma utilizzano i social media, smanettano sulle tastiere dei pc, hanno un profilo Facebook e minacciano su Tik Tok. Cose impensabili in passato, ma oggi sono realtà concreta. I mime sostituiranno i pizzini, gli emoji sostituiranno le lettere minatorie. In un mondo in evoluzione anche gli ‘ndranghetisti dovranno inventarsi una nuova narrazione, ma la strategia coagulante resterà sempre quella di creare consenso, senso d’identità e appartenenza».
Il dark web, con la consegna delle droghe sintetiche a domicilio, fenomeno accentuatosi dopo il lockdown, è la nuova frontiera? La ‘ndrangheta globale ha fiutato anche questo affare?
«Il dark web garantisce introiti straordinari, c’è attenzione delle grandi mafie che durante la pandemia hanno sfruttato le nuove tecnologie per vendere prodotti e servizi illegali. C’è da dire che le forze dell’ordine si stanno attrezzando e le polizie postali di tutto il mondo stanno rafforzando i loro ranghi perché è cambiato il protocollo investigativo e non si possono più fare indagini senza social media, ormai si seguono le foto postate su Fb anziché fare servizi di pedinamento. Con l’arrivo del metaverso i mafiosi potranno essere rappresentati da avatar nelle riunioni e organizzare spedizioni di droga dal proprio divano. Ma se il broker è rimasto sul divano e ha partecipato a una riunione virtuale un avatar, come si farà a stanarli, quando gli ‘ndranghetisti dialogheranno tramite piattaforme che consentono di interagire in sicurezza? Ecco perché bisogna avere lo sguardo presbite. Ma sul piano politico si sta tornando indietro perché si stanno mettendo in discussione misure che sembravano acquisite, consolidate ed efficaci nella lotta contro la criminalità mafiosa».
La geografia della 'ndrangheta, viaggio tra le cosche attive in Calabria. Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2022.
La geografia della ‘ndrangheta, viaggio attraverso le cosche attive nel territorio della Calabria provincia per provincia
Pubblichiamo stralci della relazione della Dia al Parlamento (secondo semestre 2021) dalla quale si evince chiaramente la geografia delle cosche aggiornata dagli analisti dell’antimafia. È solo il caso di appuntare che la relazione è aggiornata alla fine del 2021, per cui, per esempio, non risultano le recentissime ricostruzioni degli inquirenti sui clan operanti a Cosenza e hinterland, secondo il “sistema” confederato a cui si fa riferimento nella maxi inchiesta “Reset” risalente a qualche settimana fa.
Indice
‘NDRANGHETA, LE COSCHE IN PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA
‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CATANZARO E NEL CAPOLUOGO
‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI VIBO VALENTIA
‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CROTONE
‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI COSENZA
‘NDRANGHETA, LE COSCHE IN PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA
Mandamento CENTRO
Le pronunce giudiziarie e le analisi di settore degli ultimi anni confermano una ripartizione delle aree di influenza della criminalità organizzata reggina secondo le macro-aree del “mandamento centro” che ricomprende la città di Reggio Calabria e le zone ad essa limitrofe, del “mandamento tirrenico” che si estende sull’omonima zona tirrenica la c.d. “Piana” e del “mandamento ionico” che insiste sulla fascia jonica la c.d. “Montagna”.
Nella città di Reggio Calabria si conferma una certa stabilità degli assetti criminali verosimilmente in linea con la strategia di silente salvaguardia dei superiori interessi economici delle cosche. (…) Nel mandamento centro risultano egemoni le cosche LIBRI, TEGANO, CONDELLO e DE STEFANO come peraltro testimoniato da importanti e recenti pronunciamenti giudiziari.
Continuando con la mappatura geo-criminale del mandamento centro oltre ai menzionati DE STEFANO, CONDELLO, LIBRI e TEGANO si registra l’operatività della ‘ndrina SERRAINO nei quartieri reggini di San Sperato e nelle frazioni di Cataforio, Mosorrofa e Sala di Mosorrofa e nel comune di Cardeto. (…)
Nei rioni Modena, Ciccarello e San Giorgio Extra risultano attivi i ROSMINI legati ai SERRAINO e i BORGHETTO-ZINDATO-CARIDI federati alla cosca LIBRI. (…)
A sud della città risultano attivi a Sambatello-Gallico gli ARANITI mentre nel quartiere Geb-bione è operativa la cosca LABATE-ti mangiu. (…)
Nel comune di Scilla l’attivismo dei NASONE-GAIETTI è stato in parte ridotto da un’azione investigativa conclusa dai Carabinieri il 15 luglio 2021. (…)
Per concludere a S. Lorenzo, Bagaladi e Condofuri si conferma la presenza della cosca PAVIGLIANITI legata alle famiglie FLACHI, TROVATO, SERGI e PAPALIA. (…)
Mandamento TIRRENICO
Le cosche del mandamento tirrenico continuano ad esprimere una spiccata vocazione imprenditoriale. In linea di massima l’ingerenza delle cosche si espliciterebbe attraverso la gestione per interposta persona degli appalti secondo logiche prestabilite di spartizione.
Nella Piana di Gioia Tauro si continua a registrare l’operatività dei gruppi PIROMALLI e MOLÈ nei cui confronti è proseguita l’azione di contrasto anche di natura ablativa da parte delle autorità inquirenti verso i patrimoni illecitamente accumulati. Particolarmente incisiva è stata l’azione di contrasto sul territorio della Piana di Gioia Tauro a carico dei gruppi PIROMALLI e MOLÈ risultati destinatari di numerosi provvedimenti giudiziari. (…)
Nell’area di Gioia Tauro oltre ai citati PIROMALLI risulta attivo anche il gruppo DE MAIO-BRANDIMARTE.
LA SITUAZIONE A ROSARNO E SAN FERDINANDO
Nel comprensorio di Rosarno e San Ferdinando si registra l’operatività delle cosche PESCE e BELLOCCO particolarmente capaci nell’infiltrare l’economia locale ma anche impegnati in diversi traffici illeciti specie in ambito portuale, nelle estorsioni, nell’usura e nella gestione dei giochi e delle scommesse. I gruppi sono stati interessati nel semestre in esame da varie decisioni giudiziarie e azioni investigative che ne hanno affievolito la capacità operativa. (…)
Si ricorda che nel mese di gennaio 2021 i Carabinieri a conclusione dell’operazione “Faust” avevano dato esecuzione ad una misura restrittiva nei confronti di 49 persone ritenute re-sponsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, traffico di stupefacenti, detenzione illegale di armi, tentato omicidio, usura e procurata inosservanza di pena. L’attività investigativa avviata dal 2016 aveva consentito di acclarare la radicata operatività della cosca PISANO detta anche dei “diavoli di Rosarno” collegata ai PESCE e mediante una rete collaudata di cointeressenze criminose anche con altre cosche del territorio della provincia di Reggio Calabria quali quelle di Polistena (RC) e di Anoia (RC).
(…) Anche le famiglie CACCIOLA e GRASSO risultano radicate nella Piana di Gioia Tauro e sono riconducibili alla società di Rosarno. (…) Nell’area di Rizziconi permane l’operatività della famiglia CREA con proiezioni anche nel centro e nord Italia. (…)
A Sinopoli, Sant’Eufemia e Cosoleto si registra l’influenza degli ALVARO. A Cittanova permane l’operatività delle famiglie FACCHINERI e ALBANESE – RASO-GULLACE colpite nel periodo in esame da numerosi provvedimenti ablativi della DIA. Mentre a Taurianova si registra l’egemonia del gruppo AVIGNONE-ZAGARI-VIOLA-FAZZALARI e del sodalizio SPOSATO-TALLARIDA. Nel comune di Laureana di Borrello infine risulterebbero attivi i sodalizi LAMARI e CHIN-DAMO-FERRENTINO. (…)
Mandamento IONICO
Le cosche del mandamento ionico confermano una forte propensione per il traffico internazionale di stupefacenti, riuscendo a movimentare grandi quantitativi di droga grazie a consolidati rapporti di affidabilità con i fornitori stranieri. Per quanto attiene alla mappatura geo-criminale delle consorterie si richiama in primo luogo il locale di Platì in seno al quale si conferma l’operatività delle cosche federate BARBARO-TRIMBOLI-MARANDO che annoverano proiezioni operative nel nord Italia. Nel locale di San Luca risultano egemoni le cosche PELLE-VOTTARI-ROMEO e NIRTA-STRANGIO.
Proprio San Luca è da sempre considerato la “mamma” di tutti i locali di ‘ndrangheta. Qui è infatti presente il Santuario della Madonna di Polsi noto per i summit nel cui corso si orientano gli affari, si definiscono le alleanze, si dirimono le controversie e vengono dettate le strategie criminali della ‘ndrangheta.
Si ricorda inoltre che esponenti della famiglia sanlucota GIORGI detti “Boviciani” sono risultati coinvolti tra gli altri nell’operazione “Platinum – DIA” del maggio 2021, in quanto ritenuti re-sponsabili di narcotraffico (…)
Con riguardo al locale di Africo risulta egemone la cosca MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI fortemente proiettata anche oltre i confini regionali. Nel corso della stesura della presente relazione è stata perfezionata la procedura di estradizione di un noto esponente della cosca MORABITO, i cui dettagli saranno approfonditi nella prossima relazione (…)
Per quanto riguarda il locale di Siderno è attiva la cosca COMMISSO caratterizzata da una spiccata vocazione a proiettare all’estero i propri interessi criminali soprattutto in Canada. Tale consorteria risulta in contrapposizione ai COSTA-CURCIARELLO insistenti nel medesimo territorio. (…)
Le cosche CATALDO e CORDÌ dopo quarant’anni di faida tra le più cruente della storia della ‘ndrangheta sembrerebbero aver trovato un equilibrio con la spartizione del comprensorio di Locri cui si sarebbero adeguati anche i sodalizi AVERSA-ARMOCIDA, URSINO e FLOCCARI satelliti delle due principali cosche. (…)
LE COSCHE DI ‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CATANZARO E NEL CAPOLUOGO DELLA CALABRIA
Nel semestre in parola nel Distretto di Catanzaro lo scenario criminale e l’operatività della criminalità organizzata ha confermato la pericolosità delle cosche incentrata sulla sempre maggiore capacità di penetrazione nei contesti economici, politico-amministrativi e sociali.
Si osserva tuttavia una staffetta generazionale causata dal venir meno di capi e affiliati di rilievo decimati dai numerosi arresti e dalle inchieste giudiziarie.
Nel territorio di Catanzaro non si sono registrati mutamenti significativi circa la mappatura criminale dove rimane salda la presenza dei clan “storici” come i GAGLIANESI, nonché quella dei GRANDE ARACRI di Cutro e dei cd. ZINGARI (famiglie COSTANZO-DI BONA, ABBRUZZESE-BEVILACQUA, PASSALACQUA, BERLINGERI) attivi nelle attività usuraie con la finalità di rilevare attività economiche in sofferenza per poi “affidarle” a prestanome.
È doveroso tener presente come la criminalità organizzata in questo ultimo periodo potrebbe annoverare tra i suoi interessi principali quello verso i fondi del PNNR. Anche il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha lanciato l’allarme sul pericolo concreto che i fondi del PNRR e le imprese siano nel mirino dell’‘ndrangheta. (…)
IL RUOLO DEI GRANDE ARACRI
La cosca dei GRANDE ARACRI continua ad esprimere la sua presenza nel territorio mentre nel capoluogo risulta attiva quella dei GAGLIANESI e degli ZINGARI soprattutto nei quartieri meridionali della città. (…) Permane l’operatività delle ‘ndrine nel settore degli stupefacenti in linea con il trend che vede la criminalità organizzata calabrese come principale importatore e distributore del mercato degli stupefacenti. (…)
Nell’area del territorio di Lamezia Terme ed in particolare in Sambiase, Sant’Eufemia, Curinga e Nocera Terinese è attiva la cosca IANNAZZO-DA PONTE-CANIZZARO. La TORCASIO-CERRA-GUALTIERI opera invece a Nicastro soprattutto nel centro storico e in località Capizzaglie. Nel restante territorio di Nicastro sono attivi i GIAMPÀ. (…)
Nella zona di Soverato operano oltre alla sopracitata cosca dei GALLACE di Guardavalle i SIA-PROCOPIO-TRIPODI. Infine nell’area delle cd. Preserre, ovvero nei comuni di Chiaravalle e Torre di Ruggiero sono attive le cosche IOZZO-CHIEFARI.
‘NDRANGHETA IN CALABRIA, LE COSCHE NELLA PROVINCIA DI VIBO VALENTIA
Nella provincia di Vibo Valentia continua l’egemonia della cosca dei MANCUSO di Limbadi qualificato interlocutore con i clan della provincia di Reggio Calabria e in particolare con quelli stanziati da tempo nella Piana di Gioia Tauro.
La provincia vibonese negli ultimi tempi è stata oggetto di diverse operazioni e inchieste giu-diziarie quali “Rinascita-Scott” e “Imponimento” ampiamente descritte nei semestri precedenti. (…)
A Vibo Valentia si registra la presenza dei LO BIANCO-BARBA, dei CAMILLÒ-PARDEA e dei PUGLIESE, mentre sul litorale del capoluogo dei MANTINO-TRIPODI che vantano proiezioni anche fuori regione. Nell’hinterland della città è persistente il locale di Piscopio.
Nelle zone tra Maierato, Stefanaconi e Sant’Onofrio risultano rispettivamente attive le famiglie PETROLO, PATANIA e BONAVOTA. Nell’area di Serra San Bruno sono presenti i VALLELUNGA-Viperari, mentre nel comune di Soriano Calabro gli EMANUELE in contrasto con i LOIELO.
Nella zona di Zungri e Briatico rimane attiva l’operatività degli ACCORINTI-FIAMMINGO-BARBIERI-BONAVENA, a Tropea sono presenti i LA ROSA, mentre nei comuni di Piz¬zo Calabro, Francavilla Angitola, Filogaso e Maierato sarebbero attive le famiglie FIUMARA, MANCO e CRACOLICI.
‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CROTONE
Nel territorio della provincia crotonese si continua a registrare la presenza egemone dei GRANDE ARACRI di Cutro, ormai da anni punto di riferimento delle altre consorterie criminali della provincia con significative proiezioni nel nord Italia.
Nel capoluogo risulterebbero operative le famiglie VRENNA-CORIGLIANO-BONAVENTURA e i BARILARI-FOSCHINI. La famiglia TORNICCHIO-MANETTA rimarrebbe egemone in località Cantorato, mentre i MEGNA e i RUSSELLI sarebbero attivi nella frazione di Papanice e a sud del capoluogo, nella zona di Isola di Capo Rizzuto sono attivi gli ARENA-NICOSCIA-MANFREDI-CAPICCHIANO. (…)
La famiglia MANFREDA rimarrebbe egemone nell’area di Petilia Policastro ove si registra l’operatività di epigoni dei COMBERIATI-GAROFALO che appaiono fortemente indeboliti dalle inchieste degli ultimi anni con una presenza sempre meno attiva.
A Mesoraca risulta attivo il gruppo FERRAZZO mentre a Cirò risultano operativi i FARAO-MARINCOLA i quali confermerebbero la loro pericolosità anche nel nord Italia. A Strongoli sarebbero presenti i GIGLIO, mentre a Belvedere di Spinello, Rocca di Neto, Santa Severina e in altri comuni della Valle del Neto risultano attivi gli IONA-MARRAZZO-OLIVERIO e a Roccabernarda i BAGNATO.
‘NDRANGHETA IN CALABRIA, LE COSCHE NELLA PROVINCIA DI COSENZA
La provincia di Cosenza continua a registrare la presenza e l’operatività delle cosche LANZINO-PATITUCCI, PERNA-CICERO, nonché quella degli ABBRUZZESE e RANGO-ZINGARI rappresentata da eredi della cosca BRUNI e degli ZINGARI con a capo elementi della famiglia RANGO.
Gli interessi criminali nell’area sono sempre rivolti sia alle tradizionali attività illecite quali le estorsioni, l’usura e i traffici di droga, sia agli appalti. (…)
Nella zona tirrenica della provincia risulterebbero tuttora attivi i clan dei VALENTE-STUMMO a Scalea e nell’area di Paola dei MARTELLO-SCOFANO-DITTO e SERPA tra loro contrapposti e dei RANGO-ZINGARI di Cosenza.
Ad Amantea invece sarebbero operative le famiglie BESALDO, GENTILE e AFRICANO, mentre i MUTO risulterebbero attivi soprattutto nel traffico di sostanze stupefacenti a Cetraro.
Sul versante jonico cosentino dalla Sibaritide fino a Scanzano Jonico (MT) sono tuttora egemoni a Cassano allo Ionio gli ABBRUZZESE e i FORASTEFANO-PORTORARO-FAILLACE a Rossano i GALLUZZI-ACRI-MORFÒ, nonché altri gruppi locali dediti prevalentemente al traffico di sostanze stupefacenti, alle estorsioni e ai correlati atti intimidatori specie nelle zone a vocazione turistica.
Estratto dall'articolo di Luca De Vito e Massimo Pisa per “la Repubblica” il 7 settembre 2022.
Pillole di codice criminale: «Bisogna guardare anche chi c'è dietro nella vita, non solo con chi stai parlando adesso: se noi andiamo dal figlio di Franco Coco, dobbiamo guardare chi c'è dietro, il rispetto». Solo chi porta un certo cognome, come il figlio di don Pepè, può andare a discutere a muso duro di certi affari.
Nel nome dei padri. I Flachi e i Coco Trovato. Che negli anni Ottanta e Novanta imposero la loro legge alla Comasina e a Bruzzano, quartieri a nord di Milano […].
Già arrestato e condannato insieme al capostipite una decina di anni fa, rampante boss del movimento terra e del pizzo alle discoteche, Davidino Flachi aveva diversificato gli affari: hashish e cocaina, kalashnikov e truffe alle assicurazioni. Col peso del suo nome ("il Gigante", lo motteggiavano gli affiliati per la sua statura) a fare da garanzia nella grammatica criminale milanese. […]
Ora il suo clan è stato azzerato da un'inchiesta della Guardia di Finanza di Milano e quella di Pavia, coordinate dalla Dda del capoluogo lombardo che ha portato a tredici fermi e a una serie di sequestri.
Sigilli anche per una carrozzeria di Cormano, nell'hinterland, base dei traffici. È nelle vicende legate a questa officina che salta fuori il nome di Franco Terlizzi, ex partecipante dell'Isola dei Famosi , un passato da pugile e coinvolto, come pr e buttafuori della storica discoteca Hollywood, nella vecchia inchiesta che aveva portato in carcere don Pepè e Davidino.
Per i pm Gianluca Prisco e Francesco De Tommasi della Dda milanese, e Andrea Zanoncelli della Procura di Pavia, Terlizzi era di fatto un prestanome che serviva a gestire l'officina il cui core business erano gli incidenti simulati: «Tu non fai un cazzo e prendi il grano ma ti rendi conto, Franco? », gli diceva Flachi intercettato.
E poi ancora: «Se tu sei in piedi è grazie a me ma lo vuoi capire... qua se non ci sono io la baracca qua chiude». Terlizzi, secondo le indagini, era anche il tramite con le forze dell'ordine: un ex carabiniere a cui Flachi e Terlizzi si rivolgevano per presentare le denunce di danneggiamento alla caserma di Milano Affori e un poliziotto in servizio alla Dia, che indirizzava l'ex pr al commissariato Centro.
E che, secondo i pm, gli passava informazioni sulle indagini, motivo per cui i magistrati hanno deciso di procedere d'urgenza con il fermo. Difeso dall'avvocato Antonino Crea, Terlizzi si è dichiarato estraneo ai fatti e pronto a spiegare.
Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 7 settembre 2022.
Tra i clienti della carrozzeria c'era anche l'ex moglie del calciatore Massimo Oddo. Per lei, il «pugile» Franco Terlizzi chiede attraverso l'ex carabiniere Cosimo Caputo (in congedo da dieci anni e oggi indagato) un appuntamento «di cortesia» in caserma per una denuncia: «Gli hanno rigato tutta la macchina. Puoi venire tu? Mi fai un piacere enorme. Ce l'ho in carrozzeria».
Ma l'ex boxeur dei pesi massimi leggeri diventato noto all'Isola dei famosi (edizione 2018), aveva contatti con mezza Milano. Quella dello spettacolo e della notte: 66 mila seguaci su Instagram, pr ed ex security della discoteca Hollywood di corso Como, grande tifoso milanista, un presente come personal trainer dei Vip, scatti con i più diversi volti noti di tv e sport, da Raffaella Fico e Massimiliano Allegri a Paolo Ruffini e Filippo Inzaghi, fino a Fedez, con cui ha una foto del dicembre 2020. È finito in manette all'alba di ieri nel blitz della Direzione distrettuale antimafia di Milano contro i nuovi assetti del clan Flachi della 'ndrangheta.
Tredici i fermi eseguiti dalle fiamme gialle di Milano e Pavia e firmati dai pm Gianluca Prisco e Andrea Zanoncelli. Terlizzi, 60 anni, è accusato di aver organizzato una serie di truffe alle assicurazioni e di intestazione fittizia di beni per conto della famiglia mafiosa. Tra i clienti della carrozzeria «Nuova Milano» di Cormano che si rivolgevano a Terlizzi e soci per «fare la cresta» sulle assicurazioni denunciando sinistri mai avvenuti, c'era anche una persona, ora indagata, imparentata alla lontana con la famiglia Maldini.
E gli investigatori della guardia di Finanza hanno annotato 337 contatti nel periodo d'indagine con Piercesare Maldini, fratello del manager e storico capitano rossonero Paolo. «Non posso negare di conoscere Davide Flachi, ma con lui ho solo avuto rapporti professionali e commerciali.
Non ho mai avuto a che fare con le ipotetiche truffe e i traffici di droga contestati», le parole di Terlizzi all'avvocato difensore.
Eppure già nel 2012 il suo nome era emerso nell'inchiesta Redux-Caposaldo che aveva portato alla condanna del boss Pepé Flachi, il re della Comasina, e di suo figlio Davide.
Il capofamiglia, uno dei nomi più importanti della 'ndrangheta in Lombardia, è morto a 70 anni, ergastolano, a gennaio di quest' anno. Al funerale gli abbracci e le lacrime, avevano solo certificato quello che già era chiaro: il figlio Davide Filippo Vincenzo, 43 anni, ne avrebbe preso la piena eredità. «Lui è piccolino però picchia di brutto, e poi essendo "figlio di", la gente aveva paura. Prima lo rispettavano per il padre, ora per lui stesso».
Tanto che nelle intercettazioni dei suoi tirapiedi, «Davidino», così chiamato da sempre per la statura non proprio imponente, era diventato con un tocco di ruffianeria «il gigante»: «È messo bene, ha delle belle amicizie... è uno che si fa valere. Già ai tempi lo avevano arrestato perché era con suo padre (Pepé, ndr), gli hanno dato l'associazione perché prendevano le tangenti in tutta Milano».
Davide Flachi è il braccio violento della famiglia: «È già tanto che entri ancora in Comasina ad abitare - l'intimidazione a un addetto alle consegne di droga - ti piglio la testa e te la faccio volare pezzo di me... metti le mani in tasca e pensi di farmi il lavoro a me. Il lavoro lo faccio io a te e a tutta la tua settima generazione».
Nell'inchiesta non viene contestato il reato di associazione mafiosa ma ruota intorno al traffico di coca, hashish e marijuana. «Cugino, mi raccomando fai una vita tranquilla, stai lontano dai paesani», così Flachi jr istruiva il suo fedelissimo Santo Crea.
Grazie a cellulari criptati la banda comprava e vendeva droga e armi con tanto di foto promozionali: «Senti hanno armi, un mitra, un fucile a pompa e una 22. Vogliono 3.500 euro, con tutti i colpi». Il provvedimento di fermo è scattato per il rischio di fuga e inquinamento delle indagini: Terlizzi aveva contatti anche con un ispettore di polizia in servizio alla Dia. Anche a lui si rivolgeva per avere vie «privilegiate» per le denunce fasulle di incidenti mai avvenuti.
Rocco Morabito estradato dal Brasile: il boss della ‘ndrangheta rientrato in Italia dopo 30 anni. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 6 Luglio 2022.
Il 55enne atterrato nella notte a Ciampino. La sua cattura da parte dei carabinieri dopo decenni di latitanza. Dalla villa in Calabria agli affari a Milano, storia di uno dei massimi ricercati in Italia e fra i principali broker internazionali della cocaina.
Già massimo ricercato d’Italia, secondo soltanto a Matteo Messina Denaro, il 55enne Rocco Morabito, appena sbarcato nella notte all’aeroporto di Ciampino dopo il sì brasiliano all’estradizione, è stato (e forse rimarrà) avanguardia pura della ‘ndrangheta. Nella definizione, coniata da un alto ufficiale dei carabinieri che gli diede la caccia infine scoprendo i tre ipertecnologici bunker nella villa di Africo, uno dei piccoli paesini calabresi culle delle cosche, si sintetizzano le coordinate criminali di Morabito. Il quale, sparito da trent’anni, non voleva la galera italiana come non la gradisce la medesima ‘ndrangheta.
L’evasione
Lui, fra i primissimi a insistere sull’apertura internazionale delle cosche e divenuto il re dei broker della cocaina, avrebbe preferito una prigione come quella di Montevideo, dove infatti, nel giugno 2019, approfittando di favori interni nonché di una struttura debole nei sistemi di sicurezza, evase in agio. Senza contare che nei penitenziari sudamericani sono frequenti le ribellioni che innescano fughe di massa e, in generale, la fragilità di certe nazioni, a rischio di derive autoritarie o colpi di Stato, rimescola ogni aspetto della società civile, insomma comprese anche le prigioni e chi le comanda, aprendo improvvisi scenari inaspettati purché uno sia pronto con la testa, le gambe e il portafoglio. Quanto alle cosche, Rocco Morabito, del quale si elogiano le capacità di scacchista d’anticipare le mosse con sorprendente astuzia, e del quale inoltre si ripete la certezza d’essere un unto del Signore, un intoccabile, uno che anche qualora cadesse mai affonderebbe, è personaggio scomodo. Qui, in Italia. Conserva ramificati segreti su infinite trame, e fa niente se queste si siano ambientate per lo più tra Argentina, lo stesso Uruguay che lo vide recluso, e da ultimo il Brasile teatro dell’arresto definitivo, che reca il marchio del Ros dei carabinieri.
La «partita»
Era il maggio dello scorso anno. Forte di pesanti conoscenze nell’intero continente, Morabito era convinto forse non tanto di allontanarsi di nuovo dalle celle, quanto piuttosto di imbrogliare le carte ed evitare il rimpatrio. E difatti, nella complicata partita che regola le estradizioni, dove basta la riga scritta male di un fax o un cavillo burocratico a invalidare il provvedimento, l’iniziale partenza del boss era stata rimandata. In agenda, gli investigatori italiani sarebbero dovuti andare in Brasile sette giorni fa; l’hanno fatto soltanto domenica, ma è un ritardo ben accetto in quanto la magistratura e la diplomazia sono venute a capo del caso.
Il fuoristrada
Seppur in ritardo rispetto a quanto previsto, l’atterraggio del Falcon con a bordo Morabito è stato modulato per le 2.45; ora lo aspettano il canonico iter e soprattutto il carcere duro. Soprannominato nel poco sofisticato alfabeto della ‘ndrangheta ‘u tamunga in quanto proprietario di una Munga, un fuoristrada di fabbricazione tedesca, fin da giovane Morabito ha cercato, anche esteticamente, di distanziarsi dai classici schemi degli uomini di ‘ndrangheta, uno smarcamento avvenuto grazie anche alle frequenti permanenze a Milano. Del resto il feudo calabrese gli stava stretto, lui guardava al mondo, e non è un caso che, in quegli anni di Africo e di perquisizioni dei carabinieri, vivesse nella villa con una donna portoghese, di grande eleganza, affabile e sofisticata, la quale accoglieva gli investigatori in vestaglia manifestando una naturale calma al contrario di famigliari di ricercati che strepitano, ostacolano le operazioni, minacciano azioni legali. Dopodiché c’era, in quei bunker iper-tecnologici, non unicamente l’aspirazione di un potente boss a servirsi del meglio sul mercato per la propria «protezione», ma anche l’esempio pratico della necessità di svecchiarsi, di guardare al futuro, di uscire da una logica provinciale che contemplava schemi prefissati in quanto eredità di padri, nonni, zii, suoceri.
I successori
Se è giusto, con questa estradizione, parlare di «fine» per Rocco Morabito, s’aprono innegabilmente infiniti interessi sul tesoro assemblato nella longeva latitanza, sulle persone in debito col boss, su quelle che conservano informazioni sugli affari e le valigie piene di banconote, su eventuali politici a libro paga, e anche sul futuro dell’assenza di Morabito. Nonostante gli anni recenti siano stati caratterizzati dalla scomparsa dell’anonimato con gli arresti e le detenzioni, comunque il boss era là, in Sudamerica. Aveva un posto, aveva un ruolo. Ma dai concorrenti e dai rampanti era anche considerato – la storia del crimine gira come tutte le altre storie – uno dell’antichità, uno che aveva vissuto la sua epoca. E siccome è la droga che detta il ritmo, ovvero il denaro, sarà già bagarre per riempire il vuoto lasciato da u’ tamunga. Che dunque, la Cupola albanese in stretti rapporti con i narcos sudamericani, dopo aver scalato posizioni passando da ruoli da galoppini a quello di prima inter pares, festeggerà il ritorno in Italia di Morabito, potrebbe non essere soltanto una leggenda o uno di quei racconti gonfiati dal patriottismo e della megalomania balcanica.
A UN ANNO DAL SUO ARRESTO. Estradato in Italia dal Brasile il boss ‘ndranghetista Rocco Morabito. Il Domani il 06 luglio 2022
Era tra i latitanti più pericolosi in circolazione. Arrestato in Brasile il 25 maggio del 2021 ora dovrà scontare in Italia 30 anni di reclusione
È atterrato questa mattina all’aeroporto di Ciampino a Roma Rocco Morabito, il boss della ‘ndrangheta considerato uno dei narcotrafficanti più importanti a livello internazionale.
Il 56enne era stato arrestato in Brasile poco più di un anno fa, nel 25 maggio del 2021, grazie a un’operazione congiunta tra i carabinieri del Ros, Dea e Fbi dopo l’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla procura generale di Reggio Calabria. Il boss fu individuato a João Pessoa insieme a un altro latitante di ‘ndrangheta, Vincenzo Pasquino.
Morabito è stato latitante per 23 anni dal 1994 al 2017 prima di essere arrestato a Punta del Este in Uruguay da dove, però, riesce a scappare due anni più tardi grazie ai suoi contatti anche con il mondo della politica. Era considerato tra i dieci criminali più ricercati al mondo e il secondo in Italia dopo Matteo Messina Denaro.
LE ACCUSE
In Italia Morabito, detto “U Tamunga”, è stato condannato a 30 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di stupefacenti dopo l’operazione Fortaleza. È considerato uno dei boss delle ‘ndrine più pericolose della Locride e negli anni Novanta i suoi carichi di droga, provenienti dal Sudamerica, inondarono tutta Milano.
Il boss della ‘ndrangheta aveva relazioni con le più pericolose organizzazioni criminali del Sudamerica, dai brasiliani del Primeiro Comando da Capital (Pcc) ai cartelli colombiani.
Estradato Rocco Morabito, boss mafioso del narcotraffico. Valentina Dardari il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.
Morabito è un boss della 'ndrangheta ed è considerato uno dei uno dei più importanti trafficanti internazionali di droga. Il 56enne è atterrato all'aeroporto di Roma Fiumicino alle prime ore dell'alba.
Il boss 56enne della 'ndrangheta Rocco Morabito, considerato uno dei più importanti trafficanti di droga in tutto il mondo, è atterrato all'aeroporto di Roma Ciampino questa mattina. Morabito è stato estradato dal Brasile, dove era stato arrestato dalla polizia federale brasiliana il 25 maggio del 2021, durante una operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, supportati dal Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia - progetto I-Can e dalle agenzie statunitensi Dea e Fbi. Il boss deve adesso scontare una pena definitiva di 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti.
Pericoloso a livello internazionale
La Procura della Repubblica di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri, ha coordinato le indagini che hanno portato all'arresto e all'estradizione di Morabito, che era stato posto in arresto in seguito a un provvedimento restrittivo della Procura Generale di Reggio Calabria diretta dal Gerardo Dominijanni. Il boss è considerato uno dei massimi broker del narcotraffico internazionale, e per questo motivo era stato inserito nella lista dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del programma speciale di ricerca del Ministero dell'Interno. Rocco Morabito, imparentato con il noto esponente di vertice della 'ndrangheta Giuseppe Tiradritto Morabito, è stato al centro di una complessa indagine.
La svolta nelle indagini
Nel settembre del 2017 era stato arrestato in Uruguay dal Ros dopo 23 anni di latitanza, ma il 24 giugno 2019 era poi riuscito a evadere da un carcere di Montevideo, proprio mentre era in attesa di estradizione verso l'Italia. Dal momento della sua evasione si erano perse le tracce. Nel maggio del 2021 è arrivata la svolta nelle indagini, condotte a livello internazionale, grazie anche al monitoraggio delle tracce telematiche, che hanno reso possibile la localizzazione del latitante a João Pessoa, dove è poi stato rintracciato mentre si trovava in compagnia di un altro ricercato della 'ndrangheta, Vincenzo Pasquino. Quest’ultimo era ricercato dal Comando Provinciale Carabinieri di Torino che stava conducendo delle indagini parallele coordinate dalla locale Procura Distrettuale, diretta da Anna Maria Loreto.
L’unione investigativa tra i reparti dell'Arma dei Carabinieri e la Polizia Federale brasiliana ha confermato ancora una volta come una intensa collaborazione investigativa tra le forze di polizia possa portare a grandi risultati, andando a colpire anche importanti esponenti del narcotraffico internazionale. Inizialmente le procedure di estradizione sembravano essersi arenate a causa di un procedimento penale che era stato aperto dalla Magistratura di San Paolo nei confronti del boss, ma fortunatamente sono poi andate a buon fine grazie al lavoro unito tra l'Ambasciata d'Italia in Brasile, il Progetto I-Can e le Autorità brasiliane. Il Progetto I-Can è promosso e finanziato dall'Italia attraverso Interpol, e ha costituito una rete di 13 Paesi in tutto il mondo con l’obiettivo di contrastare la minaccia a livello globale data dalla 'ndrangheta.
Rocco Morabito estradato dal Brasile: era latitante da 23 anni. Il Dubbio il 6 luglio 2022.
Era stato arrestato il 25 maggio 2021 dalla polizia federale brasiliana, nel corso di un’operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria
Rocco Morabito, 56 anni, boss della ‘ndrangheta e ritenuto uno dei più importanti trafficanti di droga al mondo, è atterrato all’aeroporto di Roma – Ciampino nella mattinata del 6 luglio 2022. Morabito è stato estradato dal Brasile, dove era stato arrestato il 25 maggio 2021 dalla polizia federale brasiliana, nel corso di un’operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, supportati dal Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia – progetto I-Can e dalle agenzie statunitensi Dea e Fbi. Deve scontare una pena definitiva di 30 anni di reclusione.
Le indagini che hanno portato all’arresto e all’estradizione di Rocco Morabito, sono state coordinate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri. Morabito, arrestato in forza di un provvedimento restrittivo della Procura Generale di Reggio Calabria diretta dal Gerardo Dominijanni, deve scontare una pena definitiva a 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti. L’arrestato, considerato uno dei massimi broker del narcotraffico internazionale, era inserito nella lista dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del “programma speciale di ricerca” del Ministero dell’Interno.
Morabito, legato da vincoli di parentela con il noto esponente di vertice della ’ndrangheta Giuseppe Tiradritto Morabito, è stato al centro di una complessa indagine: arrestato in Uruguay nel settembre 2017 dal Ros dopo 23 anni di latitanza, il 24 giugno 2019 era riuscito ad evadere da un penitenziario di Montevideo, quando era in attesa di estradizione verso l’Italia. Da quel momento se ne erano perse le tracce.
La svolta nelle indagini dei Carabinieri si è avuta nel maggio 2021 quando le indagini a livello internazionale, sviluppate anche attraverso il monitoraggio delle scie telematiche, hanno permesso di localizzare il latitante a João Pessoa, dove è stato rintracciato in compagnia di un altro ricercato di ’ndrangheta, Vincenzo Pasquino. Questo, era sua volta ricercato dal Comando Provinciale Carabinieri di Torino che stava conducendo parallele indagini coordinate dalla locale Procura Distrettuale, diretta da Anna Maria Loreto.
La sinergia investigativa tra i reparti dell’Arma dei Carabinieri e la Polizia Federale brasiliana, in costante raccordo operativo con il Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia – progetto I-Can e con il supporto delle agenzie statunitensi Dea e Fbi, ha ulteriormente confermato come la fattiva e intensa collaborazione investigativa tra forze di polizia possa portare a colpire i più importanti esponenti del narcotraffico che operano in una dimensione transnazionale.
La rapidità delle procedure di estradizione, che sembravano essersi arenate a causa di un procedimento penale aperto dalla magistratura di San Paolo nei confronti di Morabito, è stata resa possibile grazie all’intensa attività di raccordo tra l’Ambasciata d’Italia in Brasile, il Progetto I-Can e le Autorità brasiliane. Il Progetto I-Can, promosso e finanziato dall’Italia attraverso Interpol, ha costituito una rete di 13 Paesi in tutto il mondo per il contrasto alla minaccia globale costituita dalla ’ndrangheta.
Dovrà scontare 30 anni di reclusione. Rocco Morabito estradato dal Brasile: il super boss della ‘ndrangheta rientrato in Italia dopo 30 anni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Luglio 2022.
È stato uno dei massimi ricercati d’Italia, secondo soltanto a Matteo Messina Denaro. Rocco Morabito, 55 anni, è stato estradato in Italia dal Brasile dove era stato arrestato il 25 maggio 2021. Nella notte il suo arrivo all’aeroporto di Ciampino. Deve scontare una pena definitiva a 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti.
Morabito fu arrestato dalla polizia federale brasiliana, nel corso di un’operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, supportati dal Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia – progetto I-Can (Interpol Cooperation Against ‘ndrangheta) e dalle agenzie statunitensi Dea e Fbi. Le indagini sono state coordinate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri.
Le procedure di estradizione, che sembravano essersi arenate a causa di un procedimento penale aperto dalla Magistratura di San Paolo nei confronti di Morabito, è stata resa possibile grazie all’intensa attività di raccordo tra l’Ambasciata d’Italia in Brasile, il Progetto I-Can e le Autorità brasiliane. Il Progetto I-Can, promosso e finanziato dall’Italia attraverso Interpol, ha costituito una rete di 13 Paesi in tutto il mondo per il contrasto alla minaccia globale costituita dalla ‘ndrangheta.
Morabito, arrestato in forza di un provvedimento restrittivo della Procura Generale di Reggio Calabria diretta da Gerardo Dominijanni, deve scontare una pena definitiva a 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti. L’interessato, considerato uno dei massimi broker del narcotraffico internazionale, era inserito nella lista dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del “programma speciale di ricerca” del Ministero dell’Interno. Legato da vincoli di parentela con il noto esponente di vertice della ‘ndrangheta Giuseppe Tiradritto Morabito, è stato al centro di una complessa vicenda investigativa: arrestato in Uruguay nel settembre 2017 dal Ros dopo 23 anni di latitanza, il 24 giugno 2019 era riuscito ad evadere da un penitenziario di Montevideo, quando era in attesa di estradizione verso l’Italia. Da quel momento se ne erano perse le tracce. In Italia è stato ripetutamente condannato per oltre 100 anni di carcere in totale per traffico internazionale di droga.
Prima dell’arresto il boss della ‘Ndrangheta era considerato il latitante italiano più pericoloso dopo Matteo Messina Denaro, il capo della mafia siciliana. Ha 55 anni, 25 dei quali vissuti da fuggitivo. Era stato già arrestato nel 2017 in Uruguay, dove però era riuscito a evadere dal carcere Central di Montevideo dov’era detenuto nel 2019. L’arresto in Brasile proprio un anno fa in un’operazione dei carabinieri del Ros. I carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale lo avevano rintracciato a Joao Pessoa, zona est del Brasile, insieme a un altro narcotrafficante, Vincenzo Pasquino, torinese, anche lui latitante. Rocco Morabito era considerato il numero uno tra i broker che gestiscono il traffico di cocaina con i cartelli del Sudamerica. Alla sua cattura avevano collaborato anche Fbi e Dea.
Morabito è originario di Africo, in provincia di Reggio Calabria, soprannominato “Il Tamunga” per via del grosso fuoristrada Dkw Munga, considerato pressoché indistruttibile, con cui scorrazzava per la Locride. Ha studiato all’Università di Messina e nel 1988, quando aveva 22 anni, era stato arrestato per minacce rivolte a uno dei suoi professori universitari. Nell’89 suo fratello Leo Morabito è stato ucciso in un agguato mafioso e l’anno successivo anche Rocco è stato ferito in un altro agguato. A Milano, a 25 anni, aveva iniziato a costruire il suo impero fondato sul traffico della coca. Nel capoluogo lombardo si divideva fra traffici e la bella vita nei locali.
Prima di diventare latitante, assieme ad altri affiliati, Rocco Morabito era stato visto a Baia Domizia di Sessa Aurunca, all’interno dell’abitazione di Alberto Beneduce, boss e narcotrafficante camorrista conosciuto con il soprannome di “A’ cocaina” e trovato qualche settimana dopo carbonizzato nel bagagliaio di un’auto. In Sudamerica era fuggito con la falsa identità di Francisco Antonio Capeletto Souza, imprenditore brasiliano d’origine. Aveva messo su una redditizia attività di import-export e una coltivazione intensiva di soia. Quando era stato arrestato in Uruguay, viveva in una villa con piscina, una Mercedes, 13 cellulari, 12 carte di credito e un passaporto brasiliano. Anche in quel caso l’estradizione era stata autorizzata. A poche settimane dal trasferimento in Italia evase dalla terrazza del carcere. Secondo quanto scoperto dall’operazione Magma in quella fuga era stato aiutato da esponenti della ‘ndrina Bellocco residenti tra Buenos Aires e Montevideo.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 giugno 2022.
Maxi operazione contro la ‘Ndrangheta in Australia: la polizia è riuscita a identificare più di 5.000 membri dell’organizzazione criminale che vivono e fanno affari oltre oceano. La Polizia Federale Australiana sta indagando su 51 clan della criminalità organizzata italiana, di cui 14 della ‘Ndrangheta, grazie a un'app-spia che gli agenti sono riusciti installare sui telefoni dei malavitosi.
Il maggior numero di clan è concentrato nel Nuovo Galles del Sud. I clan operano a livello nazionale e lavorano a stretto contatto con numerosi gruppi criminali organizzati, tra cui bande mediorientali, triadi asiatiche, bande di motociclisti australiani e cartelli sudamericani. La polizia australiana sta lavorando con le forze dell’ordine colombiane, statunitensi e italiane nel tentativo di interrompere la rete globale della criminalità organizzata italiana.
«La nostra visione dei clan continua a crescere, i nuovi poteri ai sensi del Surveillance Legislation Amendment Act del 2021, le nostre capacità di leader mondiali e le nostre reti internazionali stanno iniziando a rimuovere il mantello di segretezza che ha consentito ai membri della ‘Ndrangheta di operare in Australia impunemente per troppi anni» ha detto il vicecommissario Nigel Ryan.
Con l’aiuto delle autorità italiane, la polizia australiana è riuscita a ricostruire i rapporti familiari dei clan. «La ‘ndrangheta non è solo un problema australiano, è un problema globale. È responsabile del 70% del traffico di cocaina mondiale. In Australia, è anche responsabili del traffico di cannabis e metanfetamine» ha aggiunto Ryan.
«Durante l'operazione Ironside, le forze dell'ordine hanno accusato un certo numero di membri della 'Ndrangheta, alcuni dei quali stavano prendendo ordini dai capi in Calabria. La 'ndrangheta sta inondando l'Australia di droghe illecite e sta tirando le fila delle bande di motociclisti fuorilegge australiani, che sono dietro alcune delle violenze più significative nelle nostre comunità».
«Sono diventati così potenti in Australia che quasi possiedono alcune di queste bande, che spostano droga per i loro finanziatori della 'ndrangheta, o compiono atti di violenza per conto della 'ndrangheta».
Mercoledì ricorre il primo anniversario dell'operazione Ironside, la più grande repressione della criminalità organizzata australiana, che ha portato a centinaia di arresti tramite AN0M, un'app spia sviluppata dall’Fbi che la malavita è stata indotta con l'inganno a installare.
Più di 300 telefoni AN0M sono stati scoperti in Italia durante i raid dello scorso anno, molti dei quali forniti da australiani. I dati ottenuti da AN0M hanno fornito alla polizia una visione senza precedenti dei clan mafiosi e di come operano.
Degli oltre 1000 arresti in tutto il mondo, 383 sono avvenuti in Australia e variavano da presunti boss della mafia, motociclisti anziani, lavoratori aeroportuali e altri addetti ai lavori.
Sono stati accusati di 2340 reati in Australia, mentre sono state sequestrate più di 6,3 tonnellate di droghe illecite, 147 armi da fuoco e 55 milioni di dollari in contanti.
Degli arresti, 42 delinquenti accusati nell'ambito dell'operazione Ironside si sono già dichiarati colpevoli o sono stati condannati.
Dei quattro arresti delle ultime settimane, tre sarebbero legati alla 'ndrangheta e sarebbero stati accusati di essere coinvolti in un complotto per importare 1,2 tonnellate di cocaina dall'Ecuador.
La polizia australiana ha recentemente ospitato le forze dell'ordine di Italia, Colombia e Stati Uniti per lavorare insieme per identificare i membri della 'Ndrangheta e agire contro di loro. Anche altri gruppi criminali internazionali sono stati messi all'erta.
«Se sei un membro di un cartello che opera fuori dal Messico, un membro di una triade che opera fuori dall'Asia o un membro di una banda di motociclisti fuorilegge in Australia, e hai un impatto sugli australiani a causa della tua attività illegale, allora sarai preso di mira dall'AFP», ha avvertito Ryan.
«Milioni di dollari al giorno vengono riciclati in Australia per conto di organizzazioni illegali di droga. Il riciclaggio di denaro rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza nazionale australiana poiché sovverte, sfrutta e distorce i mercati legittimi e l'attività economica».
Il vicecommissario ha ammesso che smantellare la 'Ndrangheta in Australia sarà un compito lungo e impegnativo a causa di anni di vita nascosta. «Sono stati in grado di rimanere sotto il radar vivendo vite modeste, in case modeste. Mescolano i loro soldi illegittimi con i soldi delle loro legittime attività di costruzione, agricoltura o ristorazione e tutto ciò rende più difficile non solo identificare la criminalità, ma anche dimostrare l’illecito», ha affermato Ryan.
«È diventato molto evidente, attraverso ciò che abbiamo visto sulla piattaforma Anom attraverso l'operazione Ironside, che gli italiani sono stati in grado di volare sotto il radar per molti, molti anni. Gli italiani si sono stabiliti dai primi anni '20 in Australia e il modo in cui hanno operato negli anni è effettivamente cambiato e hanno potuto, in molti modi, legittimare i loro affari e i loro guadagni illeciti. Quindi questo è davvero un avvertimento alla criminalità organizzata italiana che è nel nostro radar».
Così la ‘Ndrangheta ha aperto la sua prima locale a Roma. Una cellula indipendente benedetta dai piani alti in Calabria e colonia del clan Alvaro. Di cui riproduce riti arcaici e stile nelle minacce: «Gli butto tanto di quell’acido in faccia alla moglie, che quando la guarda deve dire “per colpa mia”. A lui lo metto sulla sedia a rotelle». Francesca Fagnani su L'Espresso il 30 maggio 2022.
Qualcosa sta cambiando (e non in meglio) se le mafie tradizionali approdano a Roma non solo per inquinarne l’economia con i loro immensi capitali sporchi, accumulati altrove, ma anche per restare e radicarsi. La cronaca ci ha abituato a considerare la città una gigantesca lavatrice messa a disposizione di clan e faccendieri, attraverso un’infinità di attività commerciali, difficili da controllare se intestate a prestanome incensurati.
Da ilreggino.it il 21 maggio 2022.
Beppe Sculli, ex calciatore di Lazio e Genoa, e nipote del boss Giuseppe Morabito “u Tiradrittu”, Carlo Zacco, “trafficante” siciliano il cui padre, “Nino il bello”, negli anni Ottanta fu proconsole milanese di Cosa nostra, Girolamo Piromalli, detto Mommino, il cui nonno omonimo è a capo di una delle più potenti cosche della Calabria, sarebbero, secondo quanto riporta Il fatto quotidiano, i nuovi re della mala di Milano.
Questo nuovo scenario – che, secondo quanto raccontato dal giornalista Davide Milosa, vede summit mafiosi organizzati ai tavoli di ristoranti di lusso della città meneghina, boss in trasferta che alloggiano nel prestigioso hotel Palazzo Parigi e concessionarie di supercar gestite in modo occulto dalla cosca dei Commisso di Siderno – sarebbe emerso dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Domenico Ficarra, classe ’84, detto “Corona” coinvolto nell’inchiesta “Cavalli di razza”, coordinata dalla Dda di Milano e accusato, oltre che di estorsione, anche di essere tra i capi di un’organizzazione mafiosa tra Milano e Como.
«La famiglia Ficarra – spiega il nuovo pentito in uno dei sei verbali depositati dalla Procura al processo con rito abbreviato iniziato ieri è stata sempre al servizio di Molè (…). Fino all’omicidio di Rocco Molè (2008) eravamo a sua disposizione per tutto. Io rimasi sconvolto, ero molto legato a Rocco, dopo l’omicidio sono salito a Milano (…). Abbiamo colto l’occasione per iniziare a insediarci in Lombardia», mirando Cesare Pravisano, ex politico e funzionario di banca, e avvicinandosi ai Piromalli. «Pravisano – spiega Ficarra – era diventato il nostro bancomat».
Domenico Ficarra, racconta che lo zio Massimiliano Ficarra, anche lui coinvolto nell’inchiesta e finito in carcere per un giro di frodi fiscali, è il commercialista della cosca. «Era a disposizione di Rocco Molè e riciclava i loro soldi (…) organizzava truffe milionarie e Molè incassava gli interessi (…). Dopo la morte di Molè si era avvicinato ai Piromalli (…). Seguiva l’autolavaggio di Girolamo Piromalli detto Mommino», boss in ascesa all’interno della cosca con interessi a Milano, indagato per mafia in Calabria.
Secondo il pentito, il «trafficante di droga» è invece Antonio Carlino, che con il commercialista Ficarra si è preso l’esclusivo ristorante “Unico” all’ultimo piano del World Join Center, primo grattacielo della nuova Milano verticale.
«Carlino – spiega Ficarra – mi disse di appartenere alla ‘ndrangheta e in mia presenza tirò fuori un sacco con dentro mezzo milione in contanti. Sul tavolo aveva 6 chili di cocaina» che «furono portati a Milano (…). Un chilo è stato dato a Giuseppe Sculli in via San Marco a Milano (…) presso un’abitazione di Sculli data in affitto a Daniele Ficarra (zio del pentito, ndr). Mio zio mi ha riferito di cessioni di cocaina a Carlo Zacco il quale venne anche da me per chiedermi dove trovare mio zio per avere droga (…). Carlino aveva grosse disponibilità economiche (…) e necessità di riciclare denaro (…). Quando veniva a Milano alloggiava all’hotel Palazzo Parigi».
'Ndrangheta in Emilia, Giovanardi e l'impresa dei clan: il processo non s'ha da fare. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 19 maggio 2022
Negli audio integrali depositati al processo emerge l’impegno a favore dell’imprenditore poi condannato per mafia.
L’ex senatore è imputato a Modena per aver fatto pressioni su carabinieri e prefettura con lo scopo di salvare una ditta inquinata dalla ‘ndrangheta.
«Ho agito da senatore», si difende Giovanardi. Ora tocca alla Corte costituzionale valutare il caso.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Lecco, le mani della ‘ndrangheta sugli affari. «Ci descrivono come mostri, ma siamo mafiosi brava gente». Barbara Gerosa e Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.
La mafia calabrese ha infiltrato il tessuto imprenditoriale lombardo acquisendo consenso sociale e sostegno. La provincia di Lecco ha il record per le interdittive antimafia emesse negli ultimi due anni.
«La gente ci descrive come fossimo dei mostri...Parlano come se fossimo delle persone senza scrupoli, come se fossimo cattivissimi, come se ammazziamo la gente così, a caso... No, non è vero. È che sappiamo farlo quando serve... io so essere cattivo quando serve... se non serve faccio la persona normale» . Vincenzo Marchio, 39 anni, condannato in primo grado a 12 anni, non era neanche nato quando nel lontano 1967 il boss Franco Coco Trovato sbarcò nella Brianza lecchese da Marcedusa in provincia di Catanzaro iniziando da manovale nell’edilizia, passando poi nel ‘74 per le rapine, fino a diventare nel giro di una manciata di anni il padrino assoluto del Nord della Lombardia. Da 30 anni è in cella con una condanna al carcere a vita.
Le interdittive antimafia
Eppure il suo nome è quanto di più noto e al tempo stesso impronunciabile. Perché in cinquant’anni la ’ndrangheta di Lecco ha messo radici così profonde da diventare uno degli esempi più fulgidi di come la mafia calabrese, ritenuta rozza e bovara, abbia saputo penetrare il tessuto imprenditoriale lombardo acquisendo consenso sociale e sostegno tra la popolazione del Nord. E non è un caso allora che proprio la provincia di Lecco abbia il record per le interdittive antimafia emesse negli ultimi due anni. Si tratta di provvedimenti che colpiscono le aziende riconducibili alle famiglie mafiose o che in qualche modo ne subiscano il condizionamento. Sono 26 i provvedimenti firmati dagli ex prefetti Michele Formiglio e Castrese De Rosa (uno poi revocato) ai quali va aggiunto quello siglato a inizio maggio dal neo prefetto Sergio Pomponio rivolto alla «Nuova carrozzeria lecchese» di via Tagliamento. Tra i soci Roberto Mandaglio, 44 anni, arrestato a novembre nell’operazione «Cavalli di razza». Un record negativo che restituisce l’immagine di una mafia che è sempre più attenta alle imprese e sempre meno violenta sul territorio.
Le alleanze tra i clan
Una precisa strategia, come spiega con la sua viva voce Marchio intercettato nell’inchiesta «Cardine-Metalmoney» eseguita nel febbraio di un anno fa. Gli ’ndranghetisti vogliono apparire buoni, benefattori. Ma anche questa non è una novità visto che già negli anni Ottanta «l’Unione commercianti deliberò di attribuire al ristorante Wall street» del boss Coco Trovato «e al suo titolare Eustina Musolino, una medaglia d’oro, mentre fu l’Ordine ospedaliero militare di Betlemme a riconoscere a Franco Coco Trovato il cavalierato dell’Ordine (su richiesta dell’Unione commercianti)». Brava gente, i mafiosi di Lecco. Anche se ammazzavano e sparavano, cercando di farlo però rigorosamente a Milano grazie all’alleanza con i potenti De Stefano di Reggio Calabria (la figlia sposò l’erede di don Paolino De Stefano) e il clan della Comasina guidato da Pepé Flachi. A Lecco, invece, i boss ricevevano onori e premi.
Il boss Cosimo Vallelonga
Succede anche cinquant’anni dopo quando sono tutti alla corte di Cosimo Vallelonga, boss condannato per mafia, che nel «suo» mobilificio Arredomania di La Valletta Brianza, attività colpita proprio da interdittiva, era tornato a comandare e ad incontrare imprenditori, vittime e padrini. La vicenda è al centro dell’inchiesta Cardine-Metalmoney. Ma più che le 522 pagine dell’ordinanza firmata dal gip milanese Alessandra Clemente, a raccontare il clima che si vive ancora a Lecco è la lista delle parti civili, le vittime al processo. Una soltanto: Wikimafia, la libera enciclopedia sulle mafie. «Come è possibile che nonostante due condanne definitive per mafia, Vallelonga sia riuscito in così poco tempo a tornare a gestire i suoi affari in tutta tranquillità senza scatenare la riprovazione sociale che in contesti normali dovrebbe sorgere nella popolazione?», si chiede provocatoriamente il direttore Pierpaolo Farina. La risposta è nella storia, nel metodo con cui la ’ndrangheta ha saputo radicarsi su questo territorio.
«Tacita e remissiva acquiescienza»
«I tratti caratteristici della consorteria malavitosa da anni radicata nel territorio lecchese risultano essere idonei a formare, all’interno della società civile, quel senso di tacita e remissiva consapevolezza o acquiescenza al fenomeno criminale e ai suoi referenti», aveva ammonito il prefetto De Rosa. Parole che nel consiglio comunale che ha discusso la nascita della Commissione speciale antimafia — che si è riunita per la prima volta lunedì — sono state accolte con una presa di distanza da parte di diversi consiglieri: «Le parole dell’ex prefetto sono suonate eccessive e non corrispondenti alla realtà. Nessuno disconosce la presenza storica e attuale della mafia nel territorio, ma non accettiamo rilevi generici e immeritati di essere una comunità disattenta e poco critica con un sistema malavitoso».
'Ndrangheta capitale, nelle carte dell'inchiesta i contatti con Alemanno e Pirozzi: "Gli apriremo le porte dei mercati per farlo votare". Andrea Ossino su La Repubblica il 25 maggio 2022.
Un pentito parla dell'amicizia con l'ex primo cittadino di Roma Alemanno mentre il clan è pronto a sostenere l'ex sindaco di Amatrice, Pirozzi, candidato alla presidenza della Regione Lazio. Nelle intercettazioni i boss si vantano dei nuovi affari: "Abbiamo tutte le mense della Rai, dei comandi dei carabinieri e di ministeri".
Un esponente di una blasonata famiglia di 'ndrangheta con "agganci fortissimi" in politica. Un pentito che parla dei rapporti tra l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e il pregiudicato Antonino Penna. E poi il socio del boss Vincenzo Alvaro che si prodiga per portare i voti al candidato Sergio Pirozzi in occasione delle elezioni regionali del Lazio del 2018.
LE MANI SULLA CAPITALE. ‘Ndrangheta a Roma, il boss con 3 milioni di euro e il ruolo della massoneria.
GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 10 maggio 2022
Bin Laden”, “Scarpacotta”, “Beccausu”, “Melo u Jack”. Non fatevi ingannare dai soprannomi ridicoli dei protagonisti della mafia calabrese che si è presa Roma.
Di simpatico in questa organizzazione criminale chiamata ‘ndrangheta non c’è nulla. La ‘ndrangheta capitale è silente, i loro capi parlano poco, si muovono molto e rapidamente concludono affari con la borghesia romana. Nella capitale frequentano medici, imprenditori, commercialisti.
E hanno uomini che oltre a prestare i loro servigi rappresentano il contatto con la massoneria in Calabria e nel Lazio. Ecco le intercettazione e i documenti sulla cosca romana.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
'Ndrine a Roma, l'ultima cena del boss tra ìnduja e libri mastri: "La famiglia è sacra". Floriana Bulfon su La Repubblica l'11 Maggio 2022.
Vincenzo Alvaro festeggiato dai figli. Per gli inquirenti è a capo della ’ndrina romana assieme a Antonio Carzo. Il racconto della festa di Pasqua al ristorante Binario 96. A capotavola siede Alvaro, l’uomo che ha gestito il Café de Paris finora uscito indenne da tutte le inchieste: “Sulla Ferrari non salgo, io sono terra terra”.
Floriana Bulfon per “la Repubblica” l'11 maggio 2022.
L'ultima cena l'hanno celebrata come da tradizione il Giovedì Santo. Si sono ritrovati tutti per festeggiare e rinsaldare i legami.
A capotavola siede Vincenzo Alvaro, l'uomo che ha gestito il Café de Paris ed è riuscito a passare indenne attraverso le inchieste più clamorose dell'antimafia. Alla sua destra, lungo la tavolata che si snoda per una sala intera del Binario 96 tra caciocavalli e prosciutti appesi, i familiari più stretti: i maschi accanto al patriarca, le femmine in fondo tra passeggini e bambini.
Sono proprio loro gli unici a tenere un tono di voce comprensibile a chi è a distanza lasciando trapelare un accento milanese, segno dei rapporti con i compaesani che si sono fatti rispettare in Lombardia. Si possono distinguere anche i ragazzi che giocano a denari e quelli che preferiscono i bastoni: i primi con il look borghese - maglioncino blu, camicia e scarpe buone - gli altri con la felpa con il cappuccio.
Potrebbe sembrare una serata conviviale, tra bis di primi e torte con la panna: semplici clienti come tanti altri in un ristorante anonimo del quartiere Tuscolano frequentato da gruppi di amici e giovani coppie.
Alvaro del resto non possiede nulla, quel ristorante da duecento coperti è ufficialmente di Sebastiano Cordiano (arrestato ieri per mafia: secondo gli investigatori ha messo anche a disposizione un ristorante poco più in là, All'Angoletto , per organizzare riunioni di famiglie di 'ndrangheta come i Farao-Marincola di Cirò), eppure tra uno spaghetto mantecato nel grana e un pacchero all'amatriciana, quel nonno calvo, un po' sovrappeso e dall'aria dimessa, si alza, gira tra i tavoli. Si capisce che è il capo, tanto che è pronto a dispensare consigli: quando gli chiedi se la pizza venga fatta secondo la tradizione napoletana o bassa come vuole quella romana risponde: «Noi la facciamo in tutti e due i modi, come la vuole il cliente».
Capacità di adattamento e di mimetizzazione. In realtà la cameriera - una giovane con accento dell'Est Europa - servirà un ibrido, né bassa né alta, ma con tanto di supplì alla 'nduja. Mescolanza di tradizione e spirito imprenditoriale, proprio come l'inedita diarchia affidata ad Alvaro e ad Antonio Carzo per fondare la prima filiale della 'ndrangheta a Roma.
Il modello imprenditoriale segue quello del Café de Paris , usando prestanome cui intestare bar e pizzerie, ma questa volta la colonizzazione è fuori dalla Dolce Vita e dai radar del centro storico.
Zone che danno meno nell'occhio ma densamente abitate come quella che si snoda dalla basilica di San Giovanni verso est. Nulla è lasciato al caso, tanto che gli altri 'ndranghetisti, secondo quanto emerge dall'inchiesta, si rivolgono a lui per gli investimenti nella capitale. Alvaro ha visione, sa dove conviene portare i soldi e sa che per far funzionare un posto serve il controllo. Non sfoggia auto di lusso né vestiti firmati: «A me piace essere umile, terra terra» spiega al suo socio quando non accetta di salire su una Ferrari.
Lavora dalla mattina alla sera: alza la serranda, si occupa della cassa, dei fornitori. Si muove nella capitale come se giocasse una partita di Monopoli, accumulando sempre nuove proprietà. E così lo puoi trovare al bancone di Zio Melo, un laboratorio di cornetti, pan brioche e torte per comunioni e compleanni: una volta era una sede del Cerbiatto, celebre per lo spot "il cornetto appena fatto" trasmesso dalle prime radio romane.
«I nostri valori sono l'onestà, la trasparenza e la sostenibilità sia ambientale sia aziendale» si legge nel promo dell'attività.
Con un avvertimento: «Voi conoscete il nostro metodo: si basa sull'osservazione dei dettagli». Al centro c'è la famiglia: «È sacra. È il valore aggiunto di ognuno di noi» scrive sua figlia Palmira sui social specificando «cit. Papà» con tanto di cuoricino. Oggi lei, giurista d'impresa festeggiata alla laurea con una corona d'alloro munita di peperoncini, è finita arrestata per intestazione fittizia con l'aggravante mafiosa.
Stessa accusa per la sorella maggiore Carmela (non arrestata) che quando si è sposata in una villa a Cerveteri nel giugno 2017 per i 500 invitati ha previsto un tableau senza nomi buono per mantenere l'anonimato. Ai domiciliari anche la moglie Grazia Palamara mentre i cognati Antonio e Giovanni Palamara e i nipoti Bruno Palamara e Teodoro Gabriele Barresi sono finiti in cella con l'accusa di associazione di stampo mafioso. Alvaro 'ndranghetista a sua insaputa, per parafrasare il libro di uno dei suoi avvocati, Fabrizio Gallo, è uscito indenne da tutti i processi.
Gli era rimasta solo l'imputazione di intestazione fittizia ma cadendo l'aggravante mafiosa è andata prescritta. Da allora non ha fatto altro che allargare il suo impero. E persino lo scorso giovedì Santo, quando la Cassazione conferma invece alcune confische di un'indagine passata, non si mostra preoccupato. Forse perché molte di quelle attività sono già state svuotate, facendosi beffa dello Stato.
E così a fine serata, mentre gli altri prendono ancora amari calabri e ammazzacaffè, l'uomo a capo del primo "locale" di 'ndrangheta dentro una metropoli si mette in disparte. Carta e penna è intento a far di conto: sono gli incassi "del pijamose Roma", quelli di una città che si è piegata in silenzio al potere della 'ndrangheta, accettandone i quattrini e chinando il capo davanti al rischio delle minacce. Ieri è arrivato il brusco risveglio.
Duro colpo alla prima 'ndrina tutta romana: 77 arresti. Gestivano bar e pescherie, gli affari nella Capitale. Augusto Parboni su Il Tempo l'11 maggio 2022
«Sei arrivato a Roma, al centro della Capitale, hai aperto un bel locale, sei come il Papa». Non usano mezzi termini alcuni degli indagati della maxi inchiesta della Dda che ha portato all’arresto di 77 persone affiliate alla ’ndrangheta, accusate, a seconda delle posizioni processuali, di associazione mafiosa, detenzione di armi, spaccio, estorsione aggravata, fittizia intestazione di beni, riciclaggio, peculato e truffa ai danni dello Stato, per fotografare le loro «conquiste». La città eterna, infatti, secondo gli inquirenti, era diventata da anni la piazza per «ripulire», tramite attività commerciali, tutti i proventi illeciti della criminalità calabrese, ed era diventata addirittura una «lavatrice» sempre pronta a riciclare montagne di soldi grazie a decine di affiliati. Con «l’autorizzazione» dei boss calabresi.
Lo schema, secondo gli inquirenti romani e calabresi, si ripeteva, sempre uguale, con una serie vorticosa di investimenti in bar, pescherie, piccoli supermercati, soprattutto situati in zone periferiche dell’area nord della Capitale. I legami con la «casa madre», quella calabrese, venivano tenuti con grande riserbo: le riunioni tra i boss di Roma e i vertici della ’ndrina calabrese non dovevano dare nell’occhio e per questo si sarebbero svolti anche in occasione di matrimoni o funerali. Gli indagati agivano, in base alle indagini dei pm, in autonomia, ma si affidavano spesso alla «mala romana» per intimidire o riscuotere crediti.
L’ipotesi è che «sul territorio della Capitale si sia riprodotta una struttura criminale non consistente semplicemente nel fatto che una serie di soggetti calabresi abbiano iniziato a commettere reati nella città», ma, secondo chi indaga, «i soggetti in questione sono risultati operare secondo tradizioni di ’ndrangheta: linguaggi, riti, doti, tipologia di reati tipici della criminalità della terra d’origine e trapiantati a Roma dove la ’ndrangheta si è trasferita con la propria capacità di intimidazione». L’organizzazione, in base alle indagani andate avanti per anni, si sarebbe fondata su una ’ndrina «locale», che operava a Roma dal 2015 dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria. È quanto emerge dall’indagine della Dda della Capitale e Dia, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò che ha portato a 43 arresti a Roma. Al vertice dell’organizzazione criminale ci sarebbero Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ’ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Le indagini hanno evidenziato come fino all’estate del 2015 non ci fosse una «locale» attiva nella Capitale. Nell’estate di 7 anni fa Carzo avrebbe poi ricevuto dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria l’autorizzazione per costituire un struttura «locale» che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di ’ndrangheta. Il gruppo operava su diversi quartieri di Roma, soprattutto nelle zone di Roma nord, tra i quali Primavalle, con una gestione degli investimenti nel settore della ristorazione (locali, bar, ristoranti e supermercati) e nell’attività di riciclaggio di ingenti somme di denaro.
Il boss Vincenzo Alvaro, scrivono gli inquirenti in migliaia di pagine di ordinanza di custodia cautelare, sarebbe stato di fatto il manager designato per operare su Roma e sui cui aveva competenze criminali di primo piano. A lui sarebbero spettati «compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere, degli obiettivi da perseguire e delle vittime da colpire, impartisce direttive alle quali gli altri associati danno attuazione». L’operazione è stata messa a segno nella Capitale dalla direzione investigativa antimafia e dalla direzione distrettuale antimafia, coordinate dalla procura: ha portato a 43 arresti a Roma, mentre altre 34 persone sono state arrestate nel corso di un’indagine della procura di Reggio Calabria. Tra di loro c’è il sindaco di Cosoleto, Antonino Gioffré.
Un «elemento di riflessione riguarda le minacce di Carzo contro il giornalista Klaus Davi - scrive il gip Sturzo - reo di aver attirato l’attenzione sulla ’ndrangheta a Roma avendo progettato di voler affiggere alle fermate della metropolitana i nomi dei boss calabresi e tra questi proprio Carzo e Alvaro, mettendo in pericolo la loro copertura». Grande apprezzamento del prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, «per l’imponente operazione che ha consentito di sgominare una locale di ’ndrina operante sul territorio della Capitale». Il prefetto «ringrazia gli uomini della Dia e delle forze dell’ordine ed i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Roma che, in coordinamento con i colleghi di Reggio Calabria, hanno segnato un altro importante punto nella lotta alla criminalità organizzata, ribadendo il forte impegno delle Istituzioni nel contrasto alle consorterie malavitose».
"Una carovana pronta a fare una guerra", così la 'ndrangheta aveva messo le mani su Roma. Intercettazioni choc. Augusto Parboni su Il Tempo l'11 maggio 2022
«Una carovana pronta a fare una guerra». «Ma se noi siamo qua a Roma...sì che siamo assai pure qua...non è che...volta e gira, siamo qualche 100 di noi, altri in questa zona...nel Lazio». Sono solo alcune delle intercettazioni degli arrestati contenute nell’ordinanza nei confronti di uno dei boss, Vincenzo Alvaro, ascoltato dagli investigatori durante anni di accertamenti e che farebbero riferimento alla presunta rete criminale sul territorio da parte degli indagati.
Alvaro «concorre nella commissione di alcuni delitti, soprattutto in materia di intestazioni fittizie di attività commerciali, settore nel quale è un autentico punto di riferimento non solo per tutti gli altri sodali, ma anche per soggetti appartenenti ad altre cosche e che intendono investire sul territorio della Capitale» scrive il gip. «Dietro di me c’è una nave», diceva inoltre un altro degli indagati, spalleggiandosi delle intime amicizie e frequentazioni con Domenico Alvaro (già condannato definitivo per 416 bis), impedendo alle vittime così di denunciare alle forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni». «Non è che io devo comandare qua a Roma...a Roma io lo so, questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli sono...questi dentro Roma, tutto l’Eur che sta tutto con noi...mano mozza...li conosciamo tutti...a Torvajanica...al Circeo...sono amico di tutti e mi rispetto con tutti», riporta il gip nelle carte. Non solo. «Siamo di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso fino al settembre 2020 - si legge nell’ordinanza - e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società».
«Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto». Così parlavano di sè inoltre gli arrestati nell’ambito dell’operazione che ha portato alla scoperta, a Roma, del gruppo di ’ndranghetisti che, secondo chi indaga, rappresentava una diretta «propaggine» della ’ndrina calabrese cui faceva riferimento e dalla quale era stato autorizzato ad operare nella città eterna. L’ok al «lavoro» a Roma era arrivato direttamente dalla «casa madre» di Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria. Nelle migliaia di carte si fa riferimento anche alle armi che l’organizzazione avrebbe avuto a disposizione. Nell’inchiesta spunta anche il nome di Silvio Berlusconi, pronunciato nelle intercettazioni da alcuni indagati. Il 17 dicembre 2017, infatti, due indagati stavano guardando la televisione quando, a un certo punto, compariva Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, «il quale stava presentando il nuovo simbolo del partito, l’albero della libertà. Vedendo tali immagini, immediatamente Giuseppe P. faceva un collegamento con l’albero della scienza che - per come emerge dalle dichiarazioni di diversi collaboratori, alcune delle quali richiamate anche in sentenze ormai definitive - costituisce un simbolo della ‘ndrangheta si legge nel provvedimento restrittivo del gip - e nel fare tale collegamento Giuseppe P. pronunciava alcune affermazioni autoaccusatorie, sostanzialmente definendosi appartenente alla ‘ndrangheta. Infatti, innanzitutto diceva» all’interlocutore «che se lui o uno dei suoi avessero fatto un’intervista come quella di Berlusconi, avendo accanto quell’albero, avrebbero preso dieci anni di galera».
Nelle carte dell’inchiesta emerge anche che alcuni del clan calabrese venivano definiti i «russi». E alcuni di loro sono stati intercettati mentre minacciavano alcuni affiliati. «Io ti taglio un orecchio, lo dissi davanti a tua moglie...ti taglio le gambe». non solo: «[…]Non giocare con me che io sono l'uomo più lavoratore, più onesto che esiste su questa terra...mi rompo il culo...ma non appartieni alla mia famiglia...non la deve toccare nessuno...se sbagliano io vengo e gli taglio la testa, pure a mio figlio...lo metto per terra...il sangue lo faccio cadere per terra...ma che tu vai a rompere i coglioni alla famiglia...non è corretto...e non è corretto questo».
Infine l’indagato Giovanni P., quando nel 2010 morì suo suocero, «ci disse - si legge nell’ordinanza - che quest’ultimo aveva consentito il raggiungimento della pax mafiosa dopo sette anni di guerra di mafia e per tale ragione avrebbe meritato il Nobel per la pace come Bill Clinton».
Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 29 aprile 2022.
Legami sempre più stretti tra le famiglie calabresi e la malavita romana. Con gli affari che si allargano dallo spaccio di droga al riciclaggio di denaro sporco.
È quanto emerso durante l'audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali in commissione antimafia. Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi ha avviato la commissione illustrando la mappatura degli insediamenti mafiosi nella Capitale.
Si tratta di gruppi che «costituiscono proiezioni a Roma delle organizzazioni mafiose tradizionali, vale a dire Ndrangheta, Camorra e in misura minore, Cosa Nostra.
Soggetti che - ha spiegato Piantedosi - mantengono legami storici con consorterie mafiose d'origine costituenti, inoltre, una testa di ponte per ogni genere di interesse».
Così hanno confermato le ultime inchieste giudiziarie coordinate dalla direzione distrettuale antimafia romana, e degli omologhi uffici giudiziari calabresi che hanno confermato l'operatività di affiliati alle ndrine.
Un lungo elenco quello stilato dal prefetto Piantedosi che comprende le famiglie originarie del Reggino, del vibonese, Castelnuovo di Porto, Rignano Flaminio, Riano e Capena.
Secondo l'analisi: «Gli elementi confermano che le diverse organizzazioni mafiose continuano a considerare Roma come terminal privilegiato dello sviluppo delle proprie reti criminali, ritenendo la complessità e l'estensione del complesso capitolino come una importante risorsa da sfruttare per l'ampliamento dei propri interessi illeciti» ha sottolineato il prefetto. In conclusione «la mafia a Roma, è una presenza soggettivamente plurima e oggettivamente diversificata.
Non c'è un solo soggetto in posizione di forza e di preminenza rispetto agli altri. Ma sullo stesso territorio interagiscono e coesistono diverse entità criminali che si rispettano reciprocamente».
Durante la commissione sono state illustrate anche le operazioni delle forze dell'ordine.
«Dal 2021 ad oggi - ha sottolineato il prefetto Piantedosi - sono state revocate le licenze per motivi di ordine e sicurezza pubblica a 21 attività commerciali, per lo più bar» spesso acquisiti da elementi malavitosi «e divenuti basi logistiche per attività criminali, in larga parte legate allo spaccio della droga.
Altri dieci esercizi sono monitorati dalle forze dell'ordine per lo stesso motivo». Infine, durante la commissione è stata analizzato l'illecito utilizzo del patrimonio abitativo pubblico.
«Costituisce un altro dei filoni di attività frequentemente praticato dalle organizzazioni mafiose in questo contesto metropolitano» ha precisato il prefetto. Nello specifico, quello dell'occupazione abusiva di alloggi Ater «Insieme ad altre forme di assistenza, come il supporto legale ai detenuti, il sostegno economico alle loro famiglie, rientra tra le misure del cosiddetto welfare criminale.
Un sistema per conquistare consenso presso le fasce deboli della popolazione e rendere tangibile l'esercizio di una sorta di controllo sociale. Ma anche per assicurarsi la disponibilità in loco di manovalanza pronta ad assolvere alle incombenze all'attività di spaccio, oppure ad essere impiegati in attività illecite» ha concluso il prefetto.
Alessia Marani per il Messaggero l'11 maggio 2022.
«Il Lazio è zona nostra». Della «famiglia nostra», per indicare i «cento» tra ndranghetisti e gruppi criminali romani che avevano creato un unico sodalizio e fatto loro la Capitale, «siamo come i papi». E ancora: «Siamo pronti a fare una guerra». Sembrano finiti i tempi in cui la ndrangheta a Roma non poteva operare in esclusiva perché città come la Capitale o Milano dovevano essere lasciate «zone libere» per non attirare sospetti e indagini, «senza pretendere di avere il controllo militare esclusivo del territorio come nelle regioni di origine».
Lo aveva spiegato un pentito riferendo parole dei calabresi di Anzio.
Adesso, invece, chi non voleva piegarsi alla ndrangheta doveva fare i conti con gli spezzapollici dei capi clan Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo. Intimidazioni e minacce rivolte direttamente agli imprenditori e ai commercianti finiti nel racket criminale gestito dalle ‘ndrine che partiva dalla Capitale e arrivava fino al litorale. Quarantatré persone sono finite nella maxi operazione della Dia e della Procura di Roma con l'accusa di associazione mafiosa, narcotraffico, commercio di armi, riciclaggio e intestazione fittizia dei beni.
GLI EQUILIBRI Era Vincenzo Alvaro, il boss calabrese romano di adozione, l'anello di congiunzione tra la ndrangheta e la criminalità romana. I nomi sono quelli che ricorrono nella mala così come nelle inchieste giudiziarie: Fasciani, Casamonica e Gallace.
Legami anche con i sodali di Diabolik, come si evince dalle carte. È proprio Alvaro l'uomo che avrebbe dovuto garantire una vera e propria «pax» criminale tra le varie consorterie. «A lui - scrivono gli investigatori - spettavano i ruoli di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere, degli obiettivi da perseguire e delle vittime da colpire». A bussare alle porte dei gestori delle attività commerciali erano i Fasciani e i Casamonica, la lunga mano «armata» della ndrangheta su Roma: «la propaggine di sotto», come la definisce Carzo in una intercettazione, basandosi sul modello Ostia.
Ossia come i Fasciani avevano gli Spada in qualità di subordinati, così i clan calabresi avevano i Casamonica e i Fasciani. A sedersi al tavolo delle trattative e a gestire il recupero crediti per chi aveva contratto debiti con l'organizzazione era il fratello di don Carmine, Terenzio: l'unico in libertà. Nella rete era poi finita una serie di negozi intestati a prestanome e che servivano come lavatrice per riciclare il denaro sporco: pescherie, ristoranti ma anche imprese legate al ritiro delle pelli e degli olii esausti. E dopo aver pagato la retta: «Sbrigati ad andartene perché se no neanche ritorni a casa. Cerca su internet i Fasciani».
L'area che va dai Castelli all'Eur era il raggio d'azione dei Casamonica. A fare gli affari era il capo Mano monca, al secolo Giuseppe Casamonica. A Lavinio, invece, era il boss Carzo ad avere: «tutti quegli amici», quelli da andare a trovare per rinfrancare alleanze, ma con discrezione, senza destare i sospetti delle forze dell'ordine.
I LEGAMI Vincenzo Alvaro era chiamato addirittura zio da Gianluca Almaviva, il sodale di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik. I legami con Piscitelli e i capi delle cosche calabrese sono l'ulteriore prova che per entrare nel giro dello spaccio, la ndrangheta a Roma voleva accedere dalla porta principale. Girava con chili di droga Almaviva - finito già nell'operazione Grande Raccordo Criminale - e con 13mila euro in contanti.
«Il padre di zio - diceva Almaviva - è colui che al tempo delle faide del dopoguerra ha riunito tutte le famiglie e ha creato la pace». La pax criminale che tutti hanno cercato fino alla fine. Minacce, poi, anche per il giornalista Klaus Davi che aveva proposto al Campidoglio di affiggere nelle stazioni della metro alcuni volantini dove erano riportate le foto e i nomi dei boss calabresi trapiantati nella Capitale.
Valeria Di Corrado Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'11 maggio 2022.
Non bastava aver messo le mani su ben 24 società da Torpignattara al Tuscolano, aver iniziato a stringere accordi pure con i Moccia per spartirsi i locali da rifornire, la locale di ndrangheta capeggiata da Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, finiti in carcere insieme ad altre 75 persone tra la Capitale e la Calabria a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda e della Dia, puntava a consolidare il proprio potere e ad espandersi ancora, conquistando catene di supermercati e bar di lusso intorno al Vaticano. Avendo chiaro come a Roma bisognava però muoversi con cautela considerata l'esistenza di una Procura composta da tutti «quelli che combattevano dentro i paesi nostri...
Cosoleto... Sinopoli... tutta la famiglia nostra...», dirà proprio Carzo ad un suo interlocutore facendo riferimento agli ex procuratori Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Renato Cortese (un tempo dirigente della Squadra Mobile) e per questo definiti «maledetti».
LE AMBIZIONI Ma oltre agli affari c'era pure l'ambizione di entrare nella massoneria o almeno era questo il desiderio di Domenico Carzo, figlio di Antonio che di fronte a due medici - ritenuti dei validi condotti per entrare in una loggia - negherà che suo padre, suo zio e suo nonno siano o siano stati elementi di spicco della criminalità. Ma al netto di quelle che potevano essere le pulsioni e le intraprendenze dei singoli, sempre Carzo tenderà più volte a ribadire come nonostante gli screzi, avuti o probabili, la loro è una «famiglia».
E la famiglia non si tradisce, la si protegge e le si dà da mangiare. Il pasto prediletto restavano i locali da acquisire tramite prestanome e teste di legno al fine di riciclare soldi sporchi provenienti da più fronti. Ed è così che tra gli obiettivi rientra la catena di supermercati Elite. Il cognato di Vincenzo Alvaro, Giovanni Palamara, parlando con Giuseppe Penna veniva informato da quest' ultimo della ristrutturazione di uno dei supermercati della catena e che grazie a questo sarebbe stato possibile inserirsi per ottenere una fornitura.
Palamara si mostra subito interessato: «Digli per la pasta Pino abbiamo la pasta fresca... all'uovo... la facciamo sotto vuoto anche per i supermercati... io gliela porto ai supermercati» e il Penna che, a distanza di qualche ora, manda un messaggio: «Gianni cercamo di farti prendere Elite ho saputo che porta prodotti di prima scelta a 56 punti vendita su Roma tu e chi per te venite a parla prossimamente».
Poi c'è l'avanzata verso altri bar, stavolta mica al Quadraro o a Torpignattara, ma in pieno centro a due passi dalla Basilica di San Pietro. Un'operazione ghiotta per chi come Vincenzo Alvaro era riuscito a fuggire dall'operazione sul caffè de Paris. Sempre il Penna, che trattava affari per importanti locali di Roma, propone alla locale di rilevare delle attività sequestrare ad un compaesano di Vibo Valentia. Nello specifico si tratta di un bar tabaccheria in via del Mascherino, di altri due bar e di un ristorante sempre nella zona del Vaticano e di un'osteria a Trastevere.
«Per avere 3 bar al centro storico... scusate, io non sono uno scemo, al centro storico di Roma, i bar più prestigiosi del mondo... avoglia a dire che tieni per le mani bar California e Cafè de Paris... - dice Penna - a questi che ha questo gli fanno una pip... ci siamo salvati tutti i parenti e tutti gli amici...».
Forte degli anni passati in carcere, Carzo commissiona al figlio Domenico e ad un altro affiliato il pestaggio di un uomo che doveva rientrare di ben 250 mila euro. «Penso che dopo sta passata...di cazzotti ... poi a cuccia... poi glielo dici... gli devi dire la prossima volta ti va peggio con l'a...ha detto mio padre che vuole tirarti l'acido in faccia per bruciarti». Parlando con il malcapitato debitore gli dirà: «se ti piglio ti scanno come un capretto...». Anche per gli affiliati che sbagliano non c'è pietà: chi vìola le regole del clan deve rispondere al Tribunale della ndrangheta in una sorta di processo con relative sanzioni. Intanto oggi un giudice vero, quello che ha ordinato gli arresti, interrogherò Alvaro e Carzo.
Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'11 maggio 2022.
Figlie innamorate dei propri padri. Anche se questi sono al vertice di una locale di ndrangheta che divorando bar, pasticcerie, tabaccherie si è insinuata nella Capitale. Non si vede il crimine laddove nel crimine si nasce e si cresce. «Negli occhi, sul viso, nell'aria c'è una parte di te... e ho capito che se mi rifletto guardandomi il viso non mi riconoscono, ma poi un sorriso mi taglia la faccia e mi dico: sono identica a te», scrive Palmira Alvaro su Instagram a commento di una foto che la ritrae con suo padre Vincenzo. Quel boss che insieme ad Antonio Carzo ha trapiantato il germe della ndrangheta a Roma istituendo una autonoma locale benedetta dalla casa madre calabrese. Lei non ha neanche trent' anni ma non rinnega la sua famiglia. Esegue tutto ciò che il boss-padre gli dirà di fare, come si conviene a quelle figlie educate al rispetto e alla devozione a-tutti-i-costi. Dedicherà la sua tesi di laurea al «papà, per quello che sono e per molto altro ancora».
Ed è così, crescendo nel mito del padre, che Palmira finirà in carcere a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda di Roma e della Dia che ha portato a 77 arresti (43 nella Capitale e 34 in Calabria).
LA CONNIVENZA La figlia del boss non è soltanto questo ma anche una giovane donna che cura e prende parte agli affari di famiglia. Nell'ordinanza firmata dal gip Gaspare Sturzo si ricostruisce il ruolo di questa ragazza che dal 2011 al 2018 effettua transazioni su carte Postepay a lei riconducibili, o al padre, per 116.168,50 euro.
Ma Palmira Alvaro è pressoché una nulla tenente: risulta aver percepito redditi di lavoro dipendente solo nel 2015 e per 1.841,97 da un cinese, M. Z., titolare di una tabaccheria in via S. Maria del Buon Consiglio, di proprietà di una società sottoposta a confisca poiché riconducibile a Vincenzo Alvaro. Quei soldi, che la ragazza farà girare, in realtà provengono da due società la Novecento srl e la Tortuga srl, a capo di alcuni bar per i quali la giovane lavorerà, che - come scriverà il gip - «si sono viste sistematicamente sottrarre ingenti importi dai ricavi generati dall'esercizio delle attività commerciali».
In sostanza la figlia del boss su mandato dello stesso prelevava dalle società dei soldi per i «propositi criminali dell'Alvaro di realizzare - è scritto ancora nelle carte - manovre fraudolente per favorirne gli interessi economici». Vincenzo Alvaro comandava e la figlia eseguiva senza domande: «Ehi papà dimmi» dice Palmira quando il padre la chiama al telefono (è il settembre 2017) «se mi fai una ricarica di mille euro nella Postepay». «Ci sono mille euro in contanti lì?» prosegue il boss.
La figlia controlla ma in uno dei locali delle due società ci sono «sei!... Seicento pà!». Palmira Alvaro «concorreva a svuotare i conti correnti» della società Novecento srl «previa comunicazione al padre - è scritto nell'ordinanza - dell'importo massimo disponibile per eseguire la transazione e compiendo poi la ricarica sulla carta Postepay indicata attraverso il terminale Sisal installato presso il bar Pedone. Non solo, riscuoteva direttamente le somme trasferite sulle carte a lei intestate e le trasferiva in contanti ai correi, impedendo in questo modo una diretta tracciabilità della movimentazione finanziaria».
Compartecipe anche la madre della ragazza e moglie del boss che ha continuato a gestire il bar Pedone anche dopo l'esecuzione del sequestro penale. Gli inquirenti arriveranno dunque a cristallizzare «Una fedele esecuzione - si legge ancora nell'ordinanza - senza alcun tipo di dubbio o di obiezione sollevata». Come si confà alle figlie devote.
La 'ndrangheta a Roma voleva bar, osterie e supermercati Elite. Augusto Parboni su Il Tempo il 12 maggio 2022.
Alla ’ndrangheta romana non bastava gestire pasticcerie, pescherie, pub e ristoranti. Il suo obiettivo era infatti quello di allargarsi a tal punto da voler gestire anche una catena di supermercati. In base alle indagini condotte dalla procura di Roma, i 43 arrestati due giorni fa, accusati di far parte di un’associazione mafiosa calabrese, avrebbero tentato di mettere le mani sulla catena di supermercati «Elite». Nelle migliaia di pagine di ordinanza che tra Roma e Reggio Calabria ha portato a 77 misure cautelari, tra carcere e domiciliari, spuntano intercettazioni che fanno proprio riferimento all’intenzione di chiudere l’affare sui supermercati. «Nelle vicinanze della sua abitazione stavano ristrutturando un supermercato della catena "Elite” e i lavori di ristrutturazione dell’immobile li stava eseguendo un suo amico, tale “Roberto”, grazie al quale sarebbe stato possibile inserirsi per ottenere una fornitura e, in prospettiva, espandersi sugli altri numerosi supermercati della medesima catena presenti nella provincia di Roma...“ma siccome ne stanno facendo uno grosso (costruendo)...un amico gli sta facendo tutti i lavori...e stavo vedendo per il pane...si compra il pane...sto parlando qua con questo amico nostro...e lui ci stiamo facendo tutta la roba...ho detto...casomai già lo conoscete perché...mi sta dicendo"...(e riferendosi a terza persona in ambientale si sente chiedere il numero e la persona risponde 58) 58 centri supermercati su Roma....Ah...(sempre in ambientale si riferisce a terza persona dicendo che va via e che si vedranno dopo)...aspe...il supermercato Elite...ne stanno aprendo uno grosso qua...noo...c'è un amico nostro...che ci sta facendo tutta la roba...benotelle...cose...questa roba per terra...no?...ed è venuto a prendersi la mia motopala”».
Uno degli indagati, in base a quanto riportato dagl gip nel provvedimento restrittivo, si mostrava subito interessato alla proposta e spiegava che «avrebbero potuto fornire non solo pane, ma anche generi alimentari di altra natura (“digli per la pasta Pino...abbiamo la pasta fresca all’uovo...la facciamo sotto vuoto anche per i supermercati...io gliela porto ai supermercati”). Proseguendo, si apprendeva che lo stesso indagato, grazie all’intermediazione di “Roberto”, si sarebbe adoperato per avere un contatto preliminare con il direttore del supermercato». Insomma, il clan calabrese che ha avuto l’ok per poter operare in «autonomia» nella Capitale, per mesi ha cercato di ottenere il monopolio della catena di supermercati nella città eterna. Ma la presunta attività criminale degli arrestati avrebbe tentato anche di «appropriarsi» di attività commerciali a due passi dal Vaticano: bar, tabacchi e osterie, alcune delle quali a Borgo Pio. Nelle carte dell’inchiesta, gli inquirenti riportano anche alcuni spaccati della mentalità dell’organizzazione criminale sotto l’aspetto familiare. Spiegano, cioè, quali, secondo gli arrestati, devono essere i comportamenti da seguire e quelli che invece devono essere perseguiti, giustificando, in alcuni casi, anche delitti di parenti. «Solo con l’omicidio della madre la famiglia aveva potuto recuperare l’onore che era stato compromesso in quanto la stessa era stata accusata che da vedova aveva avuto altre molteplici relazioni sentimentali, trascurando i suoi doveri di fedeltà verso il defunto e di prendersi cura dei figli».
Per il presunto boss della ’ndrangheta a Roma, Antonio Carzo, era rischioso stare nella Capitale, «dove erano stati trasferiti una serie di magistrati e di ufficiali di pg che avevano lavorato in Calabria e avevano combattuto a Sinopoli e Cosoleto contro la cosca Alvaro ("tutta la famiglia nostra")». È quanto si legge nell’ordinanza con cui il gip di Roma Gaspare Sturzo ha disposto 43 arresti nell’ambito dell’indagine della Dda della Capitale e della Dia, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò e dai pm Giovanni Musarò e Francesco Minisci, nei confronti della prima ’ndrina calabrese attiva a Roma. A parlare in un dialogo intercettato è proprio Carzo: «...comunque c’è una Procura...qua a Roma...era tutta...la squadra che era sotto la Calabria. Pignatone, Cortese, Prestipino». «Sono tutti qua», interviene l’interlocutore. E il boss conclude: «E questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri...Cosoleto...Sinopoli...tutta la famiglia nostra...maledetti».
E ancora: «Si deve evidenziare che già in una conversazione captata il 9 settembre 2017 Carzo, traendo spunto da un’iniziativa di Klaus Davi e poi commentando l’ergastolo comminato a Carlo Cosco a Milano e l’esito del processo "Aemilia" a Bologna - scrive il gip - aveva sottolineato la necessità di stare "quieti quieti", ritenendo evidente che in quel momento storico la magistratura e le forze dell’ordine avessero preso di mira la ’ndrangheta ("ormai bisogna capire...c’è stato un periodo che hanno bersagliato i siciliani...Cosa Nostra....e noi...sotto traccia facevamo...ora è da capire che ci hanno preso in tiro a noi calabresi e ora invece dobbiamo stare più quieti"), precisando che, comunque, "eh le cose si fanno..."».
Valeria Di Corrado Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 12 maggio 2022.
Non bastava aver messo le mani su ben 24 società da Torpignattara al Tuscolano, aver iniziato a stringere accordi pure con i Moccia per spartirsi i locali da rifornire, la locale di ndrangheta capeggiata da Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, finiti in carcere insieme ad altre 75 persone tra la Capitale e la Calabria a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda e della Dia, puntava a consolidare il proprio potere e ad espandersi ancora, conquistando catene di supermercati e bar di lusso intorno al Vaticano. Avendo chiaro come a Roma bisognava però muoversi con cautela considerata l'esistenza di una Procura composta da tutti «quelli che combattevano dentro i paesi nostri...
Cosoleto... Sinopoli... tutta la famiglia nostra...», dirà proprio Carzo ad un suo interlocutore facendo riferimento agli ex procuratori Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Renato Cortese (un tempo dirigente della Squadra Mobile) e per questo definiti «maledetti».
LE AMBIZIONI Ma oltre agli affari c'era pure l'ambizione di entrare nella massoneria o almeno era questo il desiderio di Domenico Carzo, figlio di Antonio che di fronte a due medici - ritenuti dei validi condotti per entrare in una loggia - negherà che suo padre, suo zio e suo nonno siano o siano stati elementi di spicco della criminalità. Ma al netto di quelle che potevano essere le pulsioni e le intraprendenze dei singoli, sempre Carzo tenderà più volte a ribadire come nonostante gli screzi, avuti o probabili, la loro è una «famiglia».
E la famiglia non si tradisce, la si protegge e le si dà da mangiare. Il pasto prediletto restavano i locali da acquisire tramite prestanome e teste di legno al fine di riciclare soldi sporchi provenienti da più fronti. Ed è così che tra gli obiettivi rientra la catena di supermercati Elite. Il cognato di Vincenzo Alvaro, Giovanni Palamara, parlando con Giuseppe Penna veniva informato da quest' ultimo della ristrutturazione di uno dei supermercati della catena e che grazie a questo sarebbe stato possibile inserirsi per ottenere una fornitura.
Palamara si mostra subito interessato: «Digli per la pasta Pino abbiamo la pasta fresca... all'uovo... la facciamo sotto vuoto anche per i supermercati... io gliela porto ai supermercati» e il Penna che, a distanza di qualche ora, manda un messaggio: «Gianni cercamo di farti prendere Elite ho saputo che porta prodotti di prima scelta a 56 punti vendita su Roma tu e chi per te venite a parla prossimamente».
Poi c'è l'avanzata verso altri bar, stavolta mica al Quadraro o a Torpignattara, ma in pieno centro a due passi dalla Basilica di San Pietro. Un'operazione ghiotta per chi come Vincenzo Alvaro era riuscito a fuggire dall'operazione sul caffè de Paris. Sempre il Penna, che trattava affari per importanti locali di Roma, propone alla locale di rilevare delle attività sequestrare ad un compaesano di Vibo Valentia. Nello specifico si tratta di un bar tabaccheria in via del Mascherino, di altri due bar e di un ristorante sempre nella zona del Vaticano e di un'osteria a Trastevere.
«Per avere 3 bar al centro storico... scusate, io non sono uno scemo, al centro storico di Roma, i bar più prestigiosi del mondo... avoglia a dire che tieni per le mani bar California e Cafè de Paris... - dice Penna - a questi che ha questo gli fanno una pip... ci siamo salvati tutti i parenti e tutti gli amici...».
Forte degli anni passati in carcere, Carzo commissiona al figlio Domenico e ad un altro affiliato il pestaggio di un uomo che doveva rientrare di ben 250 mila euro. «Penso che dopo sta passata...di cazzotti ... poi a cuccia... poi glielo dici... gli devi dire la prossima volta ti va peggio con l'a...ha detto mio padre che vuole tirarti l'acido in faccia per bruciarti». Parlando con il malcapitato debitore gli dirà: «se ti piglio ti scanno come un capretto...». Anche per gli affiliati che sbagliano non c'è pietà: chi vìola le regole del clan deve rispondere al Tribunale della ndrangheta in una sorta di processo con relative sanzioni. Intanto oggi un giudice vero, quello che ha ordinato gli arresti, interrogherò Alvaro e Carzo.
Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 12 maggio 2022.
Figlie innamorate dei propri padri. Anche se questi sono al vertice di una locale di ndrangheta che divorando bar, pasticcerie, tabaccherie si è insinuata nella Capitale. Non si vede il crimine laddove nel crimine si nasce e si cresce. «Negli occhi, sul viso, nell'aria c'è una parte di te... e ho capito che se mi rifletto guardandomi il viso non mi riconoscono, ma poi un sorriso mi taglia la faccia e mi dico: sono identica a te», scrive Palmira Alvaro su Instagram a commento di una foto che la ritrae con suo padre Vincenzo. Quel boss che insieme ad Antonio Carzo ha trapiantato il germe della ndrangheta a Roma istituendo una autonoma locale benedetta dalla casa madre calabrese. Lei non ha neanche trent' anni ma non rinnega la sua famiglia. Esegue tutto ciò che il boss-padre gli dirà di fare, come si conviene a quelle figlie educate al rispetto e alla devozione a-tutti-i-costi. Dedicherà la sua tesi di laurea al «papà, per quello che sono e per molto altro ancora».
Ed è così, crescendo nel mito del padre, che Palmira finirà in carcere a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda di Roma e della Dia che ha portato a 77 arresti (43 nella Capitale e 34 in Calabria).
LA CONNIVENZA La figlia del boss non è soltanto questo ma anche una giovane donna che cura e prende parte agli affari di famiglia. Nell'ordinanza firmata dal gip Gaspare Sturzo si ricostruisce il ruolo di questa ragazza che dal 2011 al 2018 effettua transazioni su carte Postepay a lei riconducibili, o al padre, per 116.168,50 euro.
Ma Palmira Alvaro è pressoché una nulla tenente: risulta aver percepito redditi di lavoro dipendente solo nel 2015 e per 1.841,97 da un cinese, M. Z., titolare di una tabaccheria in via S. Maria del Buon Consiglio, di proprietà di una società sottoposta a confisca poiché riconducibile a Vincenzo Alvaro. Quei soldi, che la ragazza farà girare, in realtà provengono da due società la Novecento srl e la Tortuga srl, a capo di alcuni bar per i quali la giovane lavorerà, che - come scriverà il gip - «si sono viste sistematicamente sottrarre ingenti importi dai ricavi generati dall'esercizio delle attività commerciali».
In sostanza la figlia del boss su mandato dello stesso prelevava dalle società dei soldi per i «propositi criminali dell'Alvaro di realizzare - è scritto ancora nelle carte - manovre fraudolente per favorirne gli interessi economici». Vincenzo Alvaro comandava e la figlia eseguiva senza domande: «Ehi papà dimmi» dice Palmira quando il padre la chiama al telefono (è il settembre 2017) «se mi fai una ricarica di mille euro nella Postepay». «Ci sono mille euro in contanti lì?» prosegue il boss.
La figlia controlla ma in uno dei locali delle due società ci sono «sei!... Seicento pà!». Palmira Alvaro «concorreva a svuotare i conti correnti» della società Novecento srl «previa comunicazione al padre - è scritto nell'ordinanza - dell'importo massimo disponibile per eseguire la transazione e compiendo poi la ricarica sulla carta Postepay indicata attraverso il terminale Sisal installato presso il bar Pedone. Non solo, riscuoteva direttamente le somme trasferite sulle carte a lei intestate e le trasferiva in contanti ai correi, impedendo in questo modo una diretta tracciabilità della movimentazione finanziaria».
Compartecipe anche la madre della ragazza e moglie del boss che ha continuato a gestire il bar Pedone anche dopo l'esecuzione del sequestro penale. Gli inquirenti arriveranno dunque a cristallizzare «Una fedele esecuzione - si legge ancora nell'ordinanza - senza alcun tipo di dubbio o di obiezione sollevata». Come si confà alle figlie devote.
L'inchiesta già finita in polvere nel 2009. Dopo il flop “mafia” la procura di Roma ci riprova: ecco ‘ndrangheta capitale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Maggio 2022.
Se a Roma non esiste Mafia Capitale, ci sarà almeno ‘Ndrangheta Capitale. Ci aveva già provato a dimostrarlo nel 2009 la Procura di Pignatone e Prestipino ed era andata male, dieci anni dopo, compreso il dissequestro del mitico Café de Paris. Ci riprovano oggi, inquirenti e forze dell’ordine, in coordinamento con la procura di Reggio Calabria con il sequestro di 24 società e 72 arresti, 43 nel Lazio e 35 in Calabria. Il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino ha guidato le indagini, mentre il suo ex capo e mentore Giuseppe Pignatone sostiene l’operazione con un editoriale su Repubblica dal titolo “Il contagio della ‘ndrangheta”.
Può essere che quest’operazione, apparentemente così brillante perché ha portato agli arresti di personaggi come Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro e alla scoperta dell’esistenza a Roma di una vera ‘ndrina calabrese, avrà il meritato successo, coronato da sentenze dei tre gradi di giudizio. Così si potrà cancellare l’onta delle decisioni di segno opposto del passato. Quella che ha negato l’esistenza della mafia a Roma e l’altra identica sulla presenza della ‘ndrangheta. Ma è proprio necessario dover comunicare al mondo che la capitale d’Italia, se proprio non è il centro nevralgico della mafia che fu di Riina e Provenzano, quanto meno è ‘Ndrangheta Capitale?
Certo, se esistesse già il fascicolo delle performance dei magistrati, qualche macchiolina il nome di Vincenzo Alvaro, considerato il capo della ‘ndrina romana, dovrebbe averla lasciata. Nei fascicoli dei pm e magari, se fosse possibile, anche nelle carriere di qualche giornalista. Non occorre essere di Roma e conoscere via Veneto per ricordare la storia gloriosa di quel Café de Paris frequentato negli anni cinquanta e sessanta da Frank Sinatra, Federico Fellini e Marcello Mastroianni. Quel luogo magico oggi non esiste più soprattutto a causa di un’indagine sballata della Procura di Roma. Era il 22 luglio del 2009 quando guardia di finanza e carabinieri del Ros posero sotto sequestro preventivo il bar, insieme ad altri centri commerciali, ristoranti e società varie, e misero le manette a una serie di persone, presunte affilate alla ‘ndrangheta. Nel mirino soprattutto l’imprenditore calabrese Vincenzo Alvaro, ritenuto il proprietario occulto del locale di via Veneto e il capo dell’infiltrazione mafiosa nell’economia della città.
Anche allora, proprio come oggi, apparvero titoloni allarmistici per la scoperta delle “mani”, o dei “tentacoli” della organizzazione mafiosa sulla capitale d’Italia. È impressionante come la storia giudiziaria di questo Paese, quella più strillata e valorizzata dai media, si ripeta come in una perversa catena di Sant’Antonio: retata-condanne in primo grado-assoluzioni in appello con conferma di cassazione. E il reato associativo di stampo mafioso, quello su cui tutto si era retto, sbriciolato. Anche quella volta è andata così. Intanto il numero degli imputati era stato già sfrondato in primo grado, con quattordici condanne su ventiquattro imputati. Ma la sentenza -siamo nel 2014- aveva consentito di far apprezzare ai giornali i “quarant’anni alla cosca degli Alvaro”, secondo la pessima abitudine di certi cronisti giudiziari di sommare gli anni di condanna. In realtà la pena inflitta a Vincenzo Alvaro, la più pesante, era stata di sette anni di carcere. Non proprio un peso da capomafia. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che aveva coordinato le indagini, aveva espresso soddisfazione per averci visto giusto, con i sequestri preventivi di tante imprese commerciali tra cui il Café de Paris, a «conferma significativa della presenza di questi spaccati criminali nelle pieghe dell’economia della città».
I tempi della giustizia sono lunghi, si sa, ma il sistema economico non aspetta, e un locale sequestrato nel frattempo muore. E così è stato. Anche se, tra il 2018 e il 2020, una serie di sentenze ha ribaltato l’inchiesta del 2009: dalla cassazione che ha stabilito l’inesistenza del “sistema Alvaro”, fino alla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha riconsegnato ai proprietari 102 beni sequestrati, tra cui il Café de Paris ad Alvaro, e infine la terza sezione d’appello di Roma, che fa cadere l’aggravante mafiosa e assolve tutti gli imputati. Un mucchio di polvere. Questa è la storia che nessun giornale racconta (un plauso a Mattia Feltri, l’unico ad averne fatto accenno). Naturalmente non è detto che l’abbaglio del 2009 e poi del 2014 debba ripetersi nel 2022 e negli anni successivi. Ma ci sarà qualche inquirente, o qualche giudice a rammaricarsi se nel frattempo quelle che erano fiorenti attività commerciali sono morte e qualche imprenditore è finito sul lastrico? Ci pensino gli entusiasti del blitz di oggi. Dal prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, al sindaco Roberto Gualtieri e al Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La mafia calabrese alla conquista del mondo. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 12 aprile 2022.
Dai sequestri di persona ai grandi traffici internazionali di stupefacenti, la cocaina acquistata direttamente dai narcos sudamenticani e distribuita in tutta Europa, affari sporchi e affari puliti, corrieri e infiltrati dentro gli apparati dello stato. Una forza eversiva dove l'arcaico si mescola con il futuro, leggende e giuramenti, colletti bianchi e fiumi di soldi che inondano e inquinano l'economia legale. Con il quartiere generale che è sempre là, fra l'Aspromonte e la Sila.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
È una strage quella che svela all'Europa la potenza della ‘Ndrangheta. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2007, sei ragazzi sono stati uccisi davanti al ristorante “Da Bruno” a Duisburg, nel cuore della Germania.
Sono tutti calabresi, uno di loro ha in tasca un “santino” bruciato, il segno del battesimo nel crimine che conta. Il massacro ha come movente la vendetta dei clan Nirta-Strangio contro i clan Pelle-Vottari. Una faida antica. Ma la mattanza non è avvenuta a San Luca, è avvenuta in Westfalia. A migliaia di chilometri dall'Aspromonte.
Così si scopre, all'improvviso, che oltre alla Cosa Nostra siciliana e alla Camorra napoletana c’è anche la ‘Ndrangheta calabrese. Nonostante la mafia di Reggio o della costa ionica o di quella tirrenica avesse già conquistato pezzi d'Italia, nonostante due guerre che avevano lasciato a terra centinaia di cadaveri, nonostante magistrati e carabinieri uccisi laggiù nel silenzio più cupo.
E, proprio grazie all'indifferenza e alle complicità, anno dopo anno la ‘Ndrangheta si è presa territori e comprato amici. A Milano, a Torino, in Emilia Romagna, a Roma. E in Olanda, in Lussemburgo, in Belgio, in Canada e anche in Australia.
Dai sequestri di persona ai grandi traffici internazionali di stupefacenti, la cocaina acquistata direttamente dai narcos sudamenticani e distribuita in tutta Europa, affari sporchi e affari puliti, corrieri e infiltrati dentro gli apparati dello stato.
Una forza eversiva dove l'arcaico si mescola con il futuro, leggende e giuramenti, colletti bianchi e fiumi di soldi che inondano e inquinano l'economia legale. Con il quartiere generale che è sempre là, fra l'Aspromonte e la Sila.
Da oggi e per circa quindici giorni sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XV° legislatura - presidente Francesco Forgione - che per prima ha dedicato un'inchiesta interamente sulla 'Ndrangheta. Sulle sue origini, sulla sua struttura, sul suo esercito, sui suoi legami con la politica e con le logge segrete. E poi sulle sue sterminate ricchezze.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA
Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.
LA MAFIA CALABRESE. La strage di Duisburg, così si scopre la potenza della ‘Ndrangheta.
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA DELLA XV LEGISLATURA su Il Domani il 12 aprile 2022.
Con la strage di Ferragosto a Duisburg la Germania e l’Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l’enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Sono passate da poco le due della notte fra il 14 e il 15 agosto 2007 a Duisburg, nel Nord Reno Westfalia. Sebastiano Strangio, trentanove anni, cuoco, calabrese originario di San Luca, chiude il suo ristorante e, con due camerieri e tre amici, si accinge a tornare a casa. I sei sono appena entrati nelle macchine, parcheggiate a qualche decina di metri dal ristorante, quando vengono raggiunti e stroncati dal fuoco incrociato di due pistole calibro nove.
Nel giro di pochi secondi vengono esplosi ben 54 colpi da esecutori spietati e lucidi. Lo testimoniano, fra l’altro le rosate strette sulle fiancate delle macchine, il fatto che, ad azione in corso, i due esecutori abbiano addirittura cambiato i caricatori delle pistole, e il colpo di grazia inflitto con calma e determinazione a tutte le vittime. Gli assassini scompaiono dopo aver completato il lavoro con i colpi di grazia.
Nelle due macchine rimangono i cadaveri di Sebastiano Strangio, Francesco Giorgi (minorenne), Tommaso Venturi (che proprio quella sera aveva festeggiato i diciotto anni), Francesco e Marco Pergola (20 e 22 anni, fratelli, figli di un ex poliziotto del commissariato di Siderno) e Marco Marmo, principale obiettivo dell’inaudita azione di fuoco perché sospettato di essere stato il custode delle armi utilizzate per uccidere, a San Luca il precedente Natale, Maria Strangio, moglie di Giovanni Nirta.
Le vittime fanno in vario modo riferimento al clan Pelle-Vottari, in lotta da oltre quindici anni con il clan Nirta-Strangio (non induca in errore il nome del cuoco che, pur chiamandosi Strangio, fa riferimento al clan Pelle Vottari).
Con la strage di Ferragosto a Duisburg la Germania e l’Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l’enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico. Molte cose colpiscono gli stupefatti investigatori tedeschi e l’immaginario collettivo: la determinazione e la professionalità degli assassini, il numero e l’età dei morti, il fatto che la strage sia stata compiuta nel cuore dell’Europa civilizzata a migliaia di chilometri di distanza da San Luca e un santino bruciato - indicatore inequivoco di una recente affiliazione rituale - trovato in tasca a uno dei giovani assassinati.
Parte sotterraneo da San Luca ed erompe a Duisburg un connubio esplosivo fra vendette ancestrali e affari milionari, un misto di faide tribali e di spietata modernità mafiosa, producendo uno shock improvviso e micidiale per l’opinione pubblica e per le autorità tedesche. In realtà, però, i segni premonitori c’erano già tutti da tempo e la strage di Ferragosto è un indicatore tragico e quasi metaforico della sottovalutazione da parte delle autorità tedesche della ‘ndrangheta e del suo grado di penetrazione e radicamento in quel paese, oltre che in Europa e nel resto del mondo.
La presenza ‘ndranghetista in Germania risalente già agli anni settanta e ottanta (quando a più riprese viene rilevata la presenza delle famiglie Farao di Cirò in provincia di Crotone, dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, delle famiglie di Reggio Calabria, delle storiche famiglie mafiose originarie di Africo, di San Luca, di Bova Marina e di Oppido Mamertina) era ben nota alle autorità tedesche anche solo per le richieste di assistenza giudiziaria e investigativa della magistratura e delle forze di polizia italiane. Già nel 2001 l’indagine dei Carabinieri convenzionalmente denominata Luca’s aveva poi segnalato, anche alle autorità tedesche, il ristorante “Da Bruno” davanti al quale si è verificata la strage, e in generale, il cospicuo fenomeno del riciclaggio di denaro sporco nel settore della ristorazione, in quel paese.
La segnalazione non aveva prodotto concreti risultati investigativi, e la percezione che si ricava da questo scarso riscontro (a parte le carenze della legislazione tedesca in materia di repressione del riciclaggio e, più in generale, di aggressione dei patrimoni illeciti) è che l’atteggiamento delle autorità tedesche fosse di rimozione del problema, considerato, in modo più o meno inconsapevole, affare altrui. Affare degli italiani. Affare nostro.
La strage di Duisburg, come una metafora, spiega meglio di ogni discorso, meglio di ogni analisi, meglio di ogni riflessione, che il modello di crimine globale, rappresentato dalla ‘ndrangheta, non è (solo) affare nostro. Il 15 agosto ha rotto un tabù, ma chi fosse stato attento ai segnali, agli indizi, alle crepe, avrebbe potuto dire anche prima che era solo questione di tempo. Se nel sottosuolo della civilizzazione europea circolano certi fluidi ribollenti e miasmatici, prima o poi questi fluidi salteranno fuori, non appena si produca una crepa nella superficie.
La strage di Duisburg è stata come un geiser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. La crepa nella superficie in questo caso viene da lontano. Da un altrove inquietante e nascosto, lontano nello spazio e lontano nel tempo.
TUTTO NASCE A SAN LUCA
Questo altrove è San Luca, località strategica nella storia e nell’attualità della ‘ndrangheta, luogo cruciale per il controllo dei traffici di droga che producono enormi profitti e sede altresì di una lunga e sanguinosa faida che vede lo scontro fra due gruppi familiari dell’aristocrazia mafiosa calabrese. I Nirta-Strangio (principi del narcotraffico con basi in Olanda, Germania e oltreoceano) da un lato e Vottari-Pelle-Romeo (il cui capobastone, 'Ntoni Pelle negli anni passati era stato designato, al santuario della Madonna di Polsi, capo crimine, cioè reggente e garante di tutta la ‘ndrangheta secondo il modello organizzativo federale elaborato dopo la guerra-pace del ‘91), dall’altro.
La faida nasce per un motivo banale, per una bravata di giovinastri finita in tragedia. È una sera di carnevale del 1991, un gruppo di ragazzi vicini alla famiglia Strangio prende a bersagliare con uova marce il circolo ricreativo di Domenico Pelle, facendosi beffe delle proteste e delle imprecazioni del titolare. L’offesa non rimane impuntita e la sera di San Valentino due giovani della famiglia Strangio vengono uccisi, altri due feriti. Da quel momento gli anni novanta vengono segnati da un’impressionante sequenza di attentati e uccisioni che colpiscono ora l’una, ora l’altra parte in conflitto.
La faida culmina nell’omicidio del Natale 2006 quando un gruppo di killer armati di pistole e fucili uccide Maria Strangio moglie di Giovanni Nirta. Seguono altri omicidi, latitanze volontarie (il comportamento, tipico di quella zona, di uomini che, pur non avendo pendenze giudiziarie, si danno a latitanze di fatto, si nascondono per sfuggire alla vendetta altrui o per preparare più agevolmente la propria), scosse sempre più intense e pericolose che preludono alla mattanza di Ferragosto.
Come si diceva, vari elementi di questo inaudito episodio colpiscono l’immaginario collettivo e l’intelligenza degli investigatori. Non sfugge, a questi ultimi: – Il ritrovamento, accanto alla sala del ristorante “Da Bruno”, di un locale chiaramente destinato alle pratiche di affiliazione, con tutte le necessarie dotazioni iconografiche. – Il ritrovamento, nel portafogli di una delle vittime, Tommaso Venturi, di un santino di San Michele parzialmente bruciato; chiaro indizio di un’affiliazione celebrata poco prima.
Non sarà inutile al proposito ricordare che qualche ora prima, il 14 agosto, il giovane Venturi aveva festeggiato il diciottesimo compleanno potendosi da ciò desumere che l’ingresso formale nella consorteria mafiosa era stato fatto coincidere (secondo una tradizionale attenzione ai dettagli simbolici) con il passaggio alla maggiore età. – La circostanza che la strage avveniva (come altri episodi topici della faida di San Luca), sempre in prospettiva simbolica e rituale, in un giorno di festa. – Il fatto che gli attentatori parlino il tedesco, come risulta pacificamente da una delle testimonianze raccolte nell’immediatezza del fatto e che dunque appartengano all’immigrazione criminale di seconda generazione o comunque evoluta, poliglotta e dunque più pericolosa.
Le indagini, finalmente coordinate, delle autorità italiane e tedesche, consentono ben presto di verificare l’ipotesi investigativa formulata subito dopo il fatto. Responsabili della strage sono infatti appartenenti alla cosca Nirta–Strangio, e personaggio chiave dell’eccidio è una figura paradigmatica della ‘ndrangheta del terzo millennio, in perfetto equilibrio fra tradizione e modernità: Giovanni Strangio.
Si tratta di un imprenditore della ristorazione in Germania (titolare di due ristoranti a Kaarst), è poliglotta, si muove con estrema disinvoltura sull’asse italo tedesco e fino al dicembre 2006 (quando, in occasione dei funerali di Maria Strangio, viene arrestato dalla Polizia per detenzione di una pistola) era sostanzialmente incensurato. Che un soggetto con queste caratteristiche (e, lo si ripete, con un curriculum criminale pressoché inesistente), chiaramente dedito al segmento affaristico dell’attività criminale sia diventato uno dei ricercati più importanti d’Italia e d’Europa per la partecipazione ad un’azione di sterminio eclatante e senza precedenti, dà un’idea efficace della posta in gioco per le cosche di San Luca.
Non vi è dubbio che gli appartenenti alla cosca Nirta Strangio fossero consapevoli che il trasferimento della faida dalla Calabria in Germania avrebbe avuto l’effetto di accendere i riflettori sulla ‘ndrangheta generando un’accelerazione investigativa da parte italiana e una presa di coscienza della gravità del fenomeno da parte tedesca. È quanto emerge anche dal contenuto degli incontri tenuti in Germania, da una delegazione della Commissione parlamentare, nella missione preparatoria di questa relazione.
Chi aveva progettato quella strage con modalità così paurosamente spettacolari ne era ben consapevole, sapeva di dover pagare un prezzo e ha deciso di pagarlo pur di affermare la propria supremazia e il proprio progetto di potere criminale. È così che una sanguinosa faida d’Aspromonte (peraltro inserita nella lista delle dieci priorità criminali, stilata nel 2007 dal capo della D.D.A. di Reggio Calabria, Salvatore Boemi) porta all’attenzione dell’Europa e del mondo una mafia con caratteristiche singolari e apparentemente contraddittorie. Un modello criminale caratterizzato da impreviste e sorprendenti analogie con altri fenomeni della postmodernità. Un paradossale paradigma per gli studiosi moderni del concetto di efficacia.
L’ORIGINE DELLA PAROLA ‘NDRANGHETA
Riflettere brevemente sul significato della parola ‘ndrangheta non è un mero esercizio accademico e offre invece interessanti spunti di riflessione e analisi storica. L’ipotesi etimologica più convincente fa riferimento al vocabolo greco andragatia il cui significato allude alle virtù virili, al coraggio, alla rettitudine.
L’andragatia è la qualità dell’uomo coraggioso, retto e meritevole di rispetto e la ‘ndrangheta storicamente ha sempre cercato il consenso presentandosi come portatrice di questi valori popolari e in particolare di un sentimento di giustizia e ordine sociale che i poteri legali non erano in grado di assicurare, in ciò manipolando strumentalmente la sfiducia delle popolazioni nei confronti dello Stato e delle Istituzioni. Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ‘‘ndrangheta, è che essa non è un’organizzazione di povera gente ma una struttura (composta da soggetti che si autodefiniscono portatori di virtù altamente positive) molto più complessa e dinamica, che, pur se in modo autoreferenziale, si considera un’elite e che tende all’occupazione delle gerarchie superiori della scala sociale. Il principale punto di forza della ‘ndrangheta è nella valorizzazione criminale dei legami familiari.
La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone; essa è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ‘ndrina. È in ciò, come vedremo, la più importante ragione del successo della ‘ndrangheta, della sua straordinaria vitalità attuale, della sua superiorità rispetto ad altre forme di aggregazione criminale. Storicamente ogni ‘ndrina familiare era autonoma e sovrana nel proprio territorio (di regola corrispondente al comune di residenza del capobastone), a meno che non ci fossero altre famiglie ‘ndranghetiste.
In tal caso si operava una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c’erano più ‘ndrine la coabitazione era regolata dal ‘locale’, una sorta di struttura comunale all’interno della quale trovavano compensazione le esigenze, anche contrastanti, delle diverse famiglie. È bene precisare che non c’è mai stata una struttura di vertice della ‘ndrangheta calabrese paragonabile a quella della Commissione di Cosa Nostra e fu solo nel 1991 che, per superare un conflitto che aveva generato diverse centinaia di omicidi, fu costituita una struttura unitaria di coordinamento.
Le donne hanno avuto e hanno attualmente un ruolo importante in questa realtà criminale, non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella diretta gestione degli affari illeciti durante la latitanza o la detenzione del marito, hanno, nel tempo, ricoperto ruoli oggettivamente sempre più rilevanti. La ‘ndrangheta, tra l’altro, a differenza delle altre organizzazioni mafiose, prevede un formale (ancorché subordinato) inquadramento gerarchico per le donne, le quali possono giungere fino al grado denominato “sorella d’umiltà”.
Per lungo tempo la ‘ndrangheta è stata sottovalutata, quando non addirittura ignorata dagli studiosi dei fenomeni criminali organizzati. Per lungo tempo è stata letta come una folkloristica, ancorché sanguinaria, filiazione della mafia siciliana. Per lungo tempo è stata considerata un fenomeno criminale pericoloso ma primitivo e tale visione fu favorita, fra l’altro, da un’errata lettura dell’esperienza dei sequestri di persona.
A uno sguardo superficiale tale pratica criminale richiamava quelle dei briganti dell’Ottocento o del banditismo sardo mentre una lettura più attenta avrebbe in seguito mostrato come i sequestri di persona costituirono una fonte strategica di accumulazione primaria, rafforzando al tempo stesso il controllo del territorio calabrese e il radicamento della ‘ndrangheta nelle località del centro e del nord Italia.
Il trasferimento degli ostaggi nelle zone dell’Aspromonte, la lunga permanenza nelle mani dei carcerieri, la collaborazione delle popolazioni, la sostanziale incapacità dello Stato di interrompere le prigionie, conferirono prestigio alla ‘ndrangheta, le diedero un alone di potenza e conferirono a quei territori – nell’immaginario collettivo - quasi una dimensione di extraterritorialità. L’accumulazione primaria di cospicui capitali che in seguito sarebbero serviti a finanziare i più proficui traffici della cocaina si univa a un piano, negli anni sempre più esplicito e consapevole, di potere e di controllo del territorio e del consenso.
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA DELLA XV LEGISLATURA
Da mafia rurale al monopolio del traffico di cocaina in Europa. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 13 aprile 2022
Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina, quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina (mediando fra le due rotte, quella africana e quella colombiana), quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri.
In tutte queste realtà operano attivamente delle ‘ndrine che, a partire dagli anni sessanta del Novecento e ancor prima – gli anni trenta per quanto riguarda il Canada e l’Australia – si erano spostate dalla Calabria per spargersi letteralmente in tutto il mondo.
Gli ‘ndranghetisti arrivarono in questi nuovi territori dapprima al seguito degli emigrati, ma poi, e sempre più spesso, in seguito ad un’ esplicita scelta di politica mafiosa di vera e propria colonizzazione criminale. La ‘ndrangheta affronta le sfide della globalizzazione con una modernissima utilizzazione di antichi schemi, con una combinazione di strutture familiari arcaiche e di un’organizzazione reticolare, modulare o per usare l’espressione di un grande studioso della modernità e della post modernità, Zygmunt Bauman – liquida.
Su questa definizione e sulla sua utilità per comprendere la natura e la terribile efficacia del fenomeno, si tornerà più avanti. Come si sottolinea in una recente relazione della Direzione Nazionale Antimafia, la chiave di volta organizzativa rimane «la struttura di base del locale (vero e proprio presidio territoriale, idoneo ad assicurare il controllo del territorio, da intendersi nella sua accezione più ampia, comprensiva di economia, società civile, organi amministrativi territoriali; mentre la cosca assume caratteri operativi dinamici, flessibili in relazione alle esigenze poste da attività criminali che si articolano su territori più ampi di quelli di riferimento originario), ma proprio in relazione al narcotraffico e ad altri traffici internazionali in genere, la ‘ndrangheta ha assunto un assetto organizzativo da rete criminale».
La struttura di base di tipo familiare ha rappresentato un decisivo fattore di riduzione del danno prodotto dai collaboratori di giustizia e ha permesso una penetrazione e un radicamento formidabili al di fuori della Calabria. Tra gli anni ottanta e novanta la tempesta dei collaboratori di giustizia travolse Cosa Nostra, la camorra, la Sacra Corona Unita e le altre mafie pugliesi.
Solo la ‘ndrangheta attraversò questa bufera quasi indenne o comunque limitando fortemente i danni: i pentiti furono pochi, e pochissimi quelli con posizioni di vertice nei sodalizi criminali. La ragione di ciò è proprio nello schema familiare della ‘ndrina: se la cosca è costituita in primo luogo dai membri della famiglia, la scelta di collaborazione con la giustizia (in generale non facile) può diventare straordinariamente lacerante e pressoché insopportabile.
Lo ‘ndranghetista che decida di collaborare è infatti tenuto in primo luogo ad accusare i propri familiari, il padre, il fratello, il figlio, trovandosi a dover infrangere un tabù ancora più potente di quello costituito dall’obbligo di fedeltà mafiosa sancito nelle cerimonie di affiliazione e innalzamento. Si tratta di uno straordinario fattore di protezione, di un anticorpo interno e strutturale del modello ‘ndranghetistico, di un potente fattore di vitalità.
Sul lungo periodo il modello organizzativo della ‘ndrangheta si è dunque rivelato più agile, più flessibile, più efficace di quello gerarchico, monolitico e rigido di Cosa Nostra, rispetto al quale l’aggressione del vertice del sodalizio ha costituito finora un’efficace strategia di indebolimento e di disarticolazione. Strategia inattuabile contro la ‘ndrangheta per l’inesistenza, anche dopo la pace del 1991 (quella che seguì alla sanguinosa guerra fra i De Stefano e gli Imerti-Condello che in poco più di cinque anni lasciò per le strade della Calabria molte centinaia di morti) e la conseguente introduzione di una struttura centrale di coordinamento e composizione dei conflitti.
I mafiosi calabresi sono considerati dai cartelli colombiani come i più affidabili per la loro capacità di gestione degli affari criminali, per la loro disponibilità di basi d’appoggio in tutta Italia, in tutta Europa e in tutto il mondo (oltre alla Calabria, ovviamente, il centro e il nord Italia, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, la Gran Bretagna, il Portogallo, la Spagna, la Svizzera, l’Argentina, il Brasile, il Cile, la Colombia, il Marocco, la Turchia, il Canada, gli Usa, il Venezuela, l’Australia) e, come si diceva, per la loro ridotta permeabilità al pericoloso fenomeno dei collaboratori di giustizia.
Oggi dunque la ‘ndrangheta ha una sostanziale esclusiva per l’importazione in Europa di cocaina colombiana ed è alla ‘ndrangheta che le altre mafie italiane, Cosa Nostra inclusa, devono rivolgersi per gli approvvigionamenti di questo stupefacente.
LA FORZA COLONIZZATRICE
Questo riferimento all’espansione nazionale e internazionale della ‘ndrangheta ci introduce all’analisi più approfondita del secondo, congiunto fattore di successo di questa forma del crimine organizzato.
Tale fattore di successo – direttamente collegato e anzi interconnesso a quello della struttura familiare – consiste nell’attitudine colonizzatrice, ed anzi nella vera e propria scelta strategica della ‘ndrangheta di impiantarsi e di radicarsi nelle regioni del centro e del nord Italia, a partire dalla metà degli anni cinquanta del Novecento. Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono nelle regioni del centro e del nord non per scelta ma perché inviati al confino di Polizia.
In quegli anni si riteneva che per contrastare il potere criminale nelle regioni del sud fosse necessario recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine. Lo strumento era quello del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni – dai 3 ai 5 – fuori dal suo comune di nascita o di residenza.
In tal modo i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, furono inviati nelle regioni del centro e del nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie o strade di grande comunicazione. Ma l’idea di recidere i legami con il territorio (adatta a un’epoca pre-moderna) non poteva funzionare in un periodo storico in cui rapidissimo era già lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni.
Ferrovie, autostrade, aerei e lo sviluppo della telefonia consentirono sostanzialmente di annullare l’effetto dei provvedimenti di soggiorno obbligato e ciò anche in relazione a una nota paradossale della relativa disciplina. Se infatti il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno.
Il contesto mafioso si riproduceva dunque nelle località di soggiorno obbligato dove si verificavano riunioni operative e financo cerimonie di affiliazione. Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia.
Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante.
L’esempio più clamoroso è quello di Bardonecchia dove il condizionamento del mercato del lavoro e lo stesso consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Altri comuni dell’hinterland milanese come Corsico e Buccinasco, ancora oggi, sono pesantemente condizionati dalla ‘ndrangheta.
In estrema sintesi e conclusivamente sul punto si può dire che la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi; quella principale in Calabria, l’altra nei comuni del centro-nord Italia oppure nei principali paesi stranieri che sono cruciali per i traffici internazionali di stupefacenti.
Un’organizzazione mafiosa che trova il modo di affrontare le sfide e i cambiamenti imposti dalla modernità globale, nel modo più sorprendente e inatteso: rimanere uguale a se stessa. In Calabria come nel resto del mondo.
I TRAFFICI DI DROGA
Non sarà inutile ricordare in proposito che nel 1988 l’allora dirigente della squadra mobile di Cosenza (poi divenuto dirigente del Sismi e ucciso a Bagdad il 4 marzo 2005 durante una missione) Nicola Calipari recuperò in un appartamento a Sidney un incartamento con rituali di affiliazione, formule di giuramento e codici. Un incartamento simile per molti aspetti a quello sequestrato dai Carabinieri nelle campagne di San Luca già negli anni trenta del secolo scorso.
Il rispetto della tradizione criminale come premessa per la proiezione nazionale e internazionale dei traffici illeciti. Negli ultimi anni numerosissime indagini hanno messo in luce queste caratteristiche della ‘ndrangheta e hanno mostrato come essa sia oramai l’organizzazione più ramificata e radicata territorialmente nelle regioni del centro-nord e in molti paesi stranieri di tutti i continenti.
Basterà citare una sola di queste indagini, a mero titolo esemplificativo, per avere un’idea delle dinamiche criminali, delle proiezioni nazionali ed internazionali, delle enormi proporzioni economiche del fenomeno. Nel 2004 l’operazione convenzionalmente denominata Decollo concludeva una complessa indagine transnazionale durata alcuni anni che aveva interessato diverse regioni italiane: Lombardia, Calabria, Emilia-Romagna, Campania, Lazio, Liguria, Piemonte e Toscana; e poi paesi stranieri come Colombia, Australia, Olanda, Spagna e Francia. Le famiglie Mancuso di Limbadi e Pesce di Rosarno furono accusate di aver immesso sul mercato «ingentissimi quantitativi di cocaina tra il Sud America (Colombia e Venezuela), l’Europa (Italia, Francia, Spagna, Olanda e Germania), l’Africa (Togo) e l’Australia, riciclandone quindi i proventi con le più diversificate tecniche di trasferimento e di dissimulazione»
La droga era nascosta all’interno di containers che trasportavano carichi di marmo, plastica, cuoio, scatole di tonno, materiale tutto oggetto di import-export tra Sud America ed Europa. Una partita di droga di 434 kg di cocaina era arrivata al porto di Gioia Tauro nel marzo del 2000, un’altra di 250 kg sempre di cocaina proveniente da Cartagena in Colombia era arrivata a Gioia Tauro nel gennaio del 2004.
Tra le due date, d’inizio e di conclusioni delle indagini, una miriade di altri episodi. Una parte del riciclaggio dei proventi avveniva in Australia attraverso “un sofisticato meccanismo di intermediazione che vedeva l’impiego di specialisti in grado di assicurare i passaggi bancari necessari a perfezionare i trasferimenti del denaro”. Il contagio delle ‘ndrine da Limbadi e Rosarno all’Australia. Da San Luca a Duisburg. Molecole criminali che schizzano, si diffondono e si riproducono nel mondo. Una mafia liquida, che si infiltra dappertutto, riproducendo, in luoghi lontanissimi da quelli in cui è nata, il medesimo antico, elementare ed efficace modello organizzativo.
Alla maniera delle grandi catene di fast food, offre in tutto il mondo, in posti fra loro diversissimi, l’identico, riconoscibile, affidabile marchio e lo stesso prodotto criminale. Alla maniera di Al Qaida con un’analoga struttura tentacolare priva di una direzione strategica ma caratterizzata da una sorta di intelligenza organica, di una vitalità che è quella delle neoplasie, e munita di una ragione sociale di enorme, temibile affidabilità. Il segreto per la ‘ndrangheta è questo. Tutto nella tensione fra un qui remoto e rurale e arcaico e un altrove globalizzato, postmoderno e tecnologico.
Tutto nella dialettica fra la dimensione familiare del nucleo di base, e la diffusione mondiale della rete operativa. La capacità di far coesistere con inattesa efficacia una dimensione tribale con un’attitudine moderna e globalizzata è stata fino ad oggi la ragione della corsa al rialzo delle azioni della ‘ndrangheta nella borsa mondiale delle associazioni criminali.
Proprio questa tensione, questo fattore di successo potrebbe rivelarsi però, in prospettiva, un fattore di disgregazione. Le ‘ndrine infatti sono, individualmente considerate, troppo piccole per reggere gli enormi traffici che hanno messo in moto.
Sono in continua competizione fra loro e, paradossalmente, la loro diffusione planetaria si accompagna a un’intensificata ossessione per il controllo (militare, politico, amministrativo, affaristico) dei circoscritti territori di rispettiva competenza. Una febbre di crescita, una situazione instabile ed entropica che comincia a produrre gravi scricchiolii e potrebbe generare una crisi di sistema. Sul punto è necessaria qualche precisazione. La ‘ndrangheta si è mossa sempre cercando di evitare la sovraesposizione, la luce dei riflettori, l’attenzione dei media.
Le ‘ndrine si sono combattute in modo sanguinoso, hanno ucciso migliaia di persone, hanno intimidito con minacce e attentati centinaia di amministratori locali, ma non hanno mai realizzato azioni capaci di attirare in modo durevole l’attenzione nazionale e men che meno quella internazionale.
La ‘ndrangheta ha in sostanza adottato una strategia opposta a quella dei corleonesi e la Calabria non ha mai conosciuto una stagione di stragi o di morti eccellenti. Fanno eccezione gli omicidi di Ludovico Ligato nel 1989 e di Antonino Scopelliti nel 1991, ma si tratta appunto di eccezioni, caratterizzate da specifiche peculiarità e che non alterano i termini di un modello di condotta mantenuto sostanzialmente integro nei decenni.
In quest’ultimo biennio però, sono accaduti fatti che mettono in crisi quel modello e la febbre di crescita cui si faceva cenno ha generato azioni clamorose che non trovano riscontro nella lunga storia precedente. Una di queste azioni è la strage di Duisburg.
L’altra è l’omicidio di Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, colpito dai sicari mentre usciva dal seggio dove aveva votato per le primarie dell’Unione. La prima volta che la ‘ndrangheta mira così in alto nella gerarchia politico-amministrativa. In entrambi i casi la ‘ndrangheta accetta il rischio che queste azioni comportano. Per entrambi i casi, forse, l’accettazione di questo rischio potrebbe essere stata un calcolo sbagliato
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA
LA ‘NDRANGHETA. Le origini della mafia calabrese, un tempo sconosciuta e impunita. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 14 aprile 2022.
La scoperta del termine ‘ndrangheta è molto più recente e per trovarne le prime tracce dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso. La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa meno conosciuta e meno indagata. Uno dei suoi punti di forza risiede esattamente in questa scarsa conoscenza e debole attività investigativa
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
1869. Quell’anno gli elettori della città di Reggio Calabria furono chiamati a votare per due volte. Le elezioni amministrative erano state annullate e si dovettero rifare. L’attiva presenza in campagna elettorale e durante le votazioni di elementi mafiosi aveva alterato il risultato della competizione. In quelle giornate si erano registrati anche fatti di sangue. Tra le altre persone colpite, anche un medico, sfregiato al volto in pieno giorno.
Il fatto, per quei tempi era enorme e aveva suscitato scalpore e scandalo nell’opinione pubblica. Il prefetto di Reggio Calabria, che si era recato personalmente dalla vittima per verificare le circostanze dell’accaduto, era convinto, come scrisse in una relazione, che “lo sfregio” fosse stato fatto “per grane elettorali”. I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che giravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero “obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità”.
Siamo nel lontanissimo 1869, potremmo essere ai nostri giorni. Uno dei lati meno conosciuti della ‘ndrangheta è proprio il suo rapporto con la politica che, com’è accaduto per Cosa nostra e la camorra, è molto antico anche se è stato meno visibile e a lungo ritenuto inesistente o sottovalutato nella sua dimensione ed importanza.
Essa si è inserita nelle litigiosissime lotte per il potere che in Calabria per un lunghissimo periodo storico – dalla metà dell’Ottocento in poi – si sono caratterizzate come uno scontro furibondo tra famiglie contrapposte che si contendevano i voti usando tutti i mezzi, non esclusi i metodi violenti e mafiosi. Ad inizio decennio, nel 1861, il prefetto di Reggio Calabria aveva notato un’attività di camorristi. Chiamava così i delinquenti dell’epoca non avendo altro nome per definirli.
La scoperta del termine ‘ndrangheta è molto più recente e per trovarne le prime tracce dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso. La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa meno conosciuta e meno indagata.
Uno dei suoi punti di forza risiede esattamente in questa scarsa conoscenza e debole attività investigativa che le ha consentito di agire indisturbata senza subire le attenzioni riservate storicamente da parte degli inquirenti alla mafia siciliana. Per anni e anni essa è stata considerata un’organizzazione criminale secondaria, una mafia minore, una mafia di serie B.
Non a caso tutte le proposte fatte a partire dagli anni sessanta da parlamentari calabresi, da sindaci, da varie organizzazioni di estendere la competenza della commissione parlamentare antimafia anche in Calabria oltre che in Sicilia sono sempre cadute nel nulla.
Si arrivò ad estendere la competenza superando il vincolo territoriale che la relegava alla Sicilia molto tardi, nella X Legislatura con la Commissione antimafia presieduta dal senatore Gerardo Chiaromonte.
Molti ritenevano che il fenomeno mafioso calabrese fosse espressione degli ultimi decenni e fosse nato durante il boom economico degli anni ’60 che aveva portato grandi cambiamenti anche in Calabria determinando un’accelerazione anche dei processi criminali e mafiosi. Era un grosso abbaglio.
Quello che allora apparve a molti come un fenomeno nuovo e originale era in realtà la manifestazione più recente e più evidente di un fenomeno molto antico. La ‘ndrangheta, insomma, non era nata negli anni sessanta del secolo scorso, come molti scrissero e dissero.
NATA NELL’OTTOCENTO
La sua nascita avviene sotto forma di società segreta e non è dubbio che il modello di società segreta più vicino, più simile, più aderente alla realtà, ai valori, alle esigenze della delinquenza organizzata, fosse rappresentato dalla massoneria e dalle società segrete che fiorirono nella prima metà dell’Ottocento, importate in Calabria dai francesi di Gioacchino Murat, con programmi anticlericali, giacobini e pre-risorgimentali.
Tale caratteristica è molto importante per la comprensione del fenomeno e della sua evoluzione sino ai nostri giorni. Essa aveva sicuramente una duplice funzione: la prima, difensiva, per assicurare invisibilità rispetto al potere ufficiale, alla repressione poliziesca e giudiziaria; la seconda, offensiva, per meglio realizzare l’inserimento nei circuiti del potere, nella società e nello stato.
Una siffatta caratteristica, mutuata dalla massoneria del tempo, conservò intatta la sua forza coesiva e il suo vincolo omertoso, rendendola unica, pur nelle sue continue trasformazioni, nel panorama delle organizzazioni criminali.
La ‘ndrangheta - “picciotteria” è il termine usato fino all’inizio del nuovo secolo - è già presente in molti comuni della Calabria post-unitaria, ma lo Stato di allora non ne coglie l’importanza e la pericolosità. Molti, però, non si accorsero della sua attività solo perché non ne era conosciuto il nome, mentre le azioni che segnavano il suo progredire venivano attribuite a formazioni criminali di varia denominazione che non venivano ricomprese in un’associazione riconoscibile con un nome, un’identità, un’organizzazione comune.
Erano in pochi a vedere come invece quei fatti potevano essere attribuiti a un fenomeno che stava prendendo sempre più piede e andava radicandosi. Si estendeva anche grazie ad un sapiente uso dei codici e dei rituali, di modalità simboliche e immaginifiche che avevano il potere di affascinare i giovani, di attrarli nell’orbita ‘ndranghetista, di educarli alla legge dell’omertà e alla convinzione che ci fossero altre leggi più importanti di quelle dello Stato e che tutto ciò fosse appannaggio di una società speciale, composta da “veri” uomini: gli uomini d’onore.
Sorgono così le ‘ndrine a carattere familiare e si diffondono nelle città e nei villaggi più sperduti. Ogni ‘ndrina comanda in forma monopolistica nel suo territorio ed è autonoma dalle altre ‘ndrine operanti nei territori vicini. Il modello organizzativo della ‘ndrangheta si fonda sul “locale”, presente sul territorio laddove esiste un aggregato di almeno 40 uomini d’onore, con un’ organizzazione gerarchica che affida il ruolo di “capo società” a chi possiede il grado di “sgarrista”, regolando la vita interna su rigide e vincolanti regole: assoluta fedeltà e assoluta omertà.
Il mondo esterno, separato da quello della ‘ndrina, era composto da soggetti definiti “contrasti”, categoria inferiore destinataria di disprezzo e dagli uomini dello Stato, gratificati dal giudizio “d’infamità”.
Nella ‘ndrangheta sono sempre esistiti accordi tra famiglie di diversi comuni ed è anche capitato che “capobastone” influenti e prestigiosi estendessero la loro influenza nei territori vicini a quello dov’era insediata la propria famiglia, ma non si è mai arrivati ad un centro di comando unico. Per trovare qualcosa di simile dobbiamo arrivare agli accordi successivi alla guerra di mafia tra il 1985 e il 1991.
IL MODELLO ORGANIZZATIVO ‘NDRANGHETISTA
Il modello organizzativo è profondamente differente dalle altre organizzazioni mafiose: si basa sulla forza dei vincoli familiari e sull’affidabilità garantita da questi legami, un formidabile cemento che unisce e vincola gli ‘ndranghetisti uno all’altro e ne impedisce defezioni e delazioni.
Lo si vede quando esplose il fenomeno dei collaboratori di giustizia. La ‘ndrangheta ha avuto sicuramente un numero meno rilevante di collaboratori e fra essi nessuno era un capo famiglia.
Né ci sono mai stati collaboratori dello spessore criminale di quelli siciliani o campani. La struttura familiare e i suoi codici morali hanno impedito a molti ‘ndranghetisti di parlare. Tra l’altro, il fatto che le ‘ndrine fossero autonome l’una dalle altre ha fatto sì che le poche collaborazioni colpissero la famiglia di appartenenza lasciando intatte le altre, anche le più vicine al loro territorio.
Su questo aspetto è utile un approfondimento. Le collaborazioni di un certo spessore degli anni ’90 sono rimaste in linea di massima casi isolati. Tuttavia le ultime audizioni effettuate in Commissione colgono i segni di una possibile inversione di tendenza. Secondo Mario Spagnuolo, procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, «negli ultimi 4 anni, si è riscontrato un aumento esponenziale (qualitativamente appagante) di collaboratori di giustizia e questo non solo nelle zone in cui tradizionalmente si collabora (il cosentino) ma anche nel crotonese, qualche buon collaboratore di giustizia nel vibonese, ma, soprattutto, sono aumentati i testimoni di giustizia».
E questa rappresenta una novità che incide favorevolmente sul rapporto tra lo Stato e colui che mette la propria vita nelle mani della giustizia. Appare inoltre significativo quanto affermato dal direttore della Direzione Anticrimine Centrale della Polizia di Stato, Franco Gratteri: «per quanto riguarda i collaboratori, posso dire che esponenti organici a famiglie del crotonese, persone importanti che hanno commesso azioni illecite, violente e di una certa gravità, hanno scelto o stanno scegliendo di collaborare. Si tratta di un fatto importante, ma da prendere per quello che è e non saprei dove possa portare in futuro».
Dalle parole del direttore emerge però tutta la complessità del rapporto tra i collaboratori della ‘ndrangheta e la giustizia e la difficoltà nel trasformare il fenomeno della collaborazione in un dato acquisito e costante dell’azione di contrasto.
I dati ci indicano comunque che dal 1994 al 2007, i collaboratori di giustizia in Calabria, pongono la ‘ndrangheta al terzo posto per collaborazioni dopo la camorra e Cosa nostra. Su un totale complessivo di 794 collaboratori di giustizia solo 100 provengono dalla ‘ndrangheta (il 12,6 per cento), mentre 243 dalla mafia siciliana, 251 dalla camorra, 85 dalla Scu, 115 da altre organizzazioni. In controtendenza invece, risulta essere il dato relativo ai testimoni di giustizia. In particolare, su un totale di 71 testimoni, quelli che hanno reso dichiarazioni su fatti di ‘ndrangheta sono 19 (circa il 27 per cento); su fatti di camorra 26, sulla mafia siciliana 12 (e qui emerge altro dato significativo), 2 sulla Sacra Corona Unita e infine 12 su altre organizzazioni.
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA
LA MAFIA CALABRESE. ‘Ndranghetisti e massoni, il giuramento su Garibaldi, Mazzini e La Marmora. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 15 aprile 2022.
La “Santa”, la struttura di ‘ndrangheta creata nella metà degli anni ’70 del secolo scorso. Ad essa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Gli anni ’70 rappresentano un vero e proprio spartiacque che segnerà il corso e la storia della ‘ndrangheta, ponendo le basi della sua evoluzione sino a giungere alla potenza economica e militare che oggi ne contraddistingue il ruolo sui territori e nello scenario criminale internazionale.
In quegli anni si salda anche il tanto analizzato e indagato rapporto con la massoneria, storicamente radicata nella società calabrese.
Scrivono a questo proposito i magistrati della Dda di Reggio Calabria: «Si tratta dell'ingresso dei vertici della 'ndrangheta nella massoneria, che non può avvenire se non dopo un mutamento radicale nella ‘cultura’ e nella politica’ della ‘ndrangheta, mutamento che passa da un atteggiamento di contrapposizione, o almeno di totale distacco, rispetto alla società civile, ad un atteggiamento di integrazione, alla ricerca di una nuova legittimazione, funzionale ai disegni egemonici non limitati all'interno delle organizzazioni criminali, ma estesi alla politica, all'economia, alle istituzioni.
L'ingresso nelle logge massoniche esistenti o in quelle costituite allo scopo doveva dunque costituire il tramite per quel collegamento con quei ceti sociali che tradizionalmente aderivano alla massoneria, vale a dire professionisti (medici, avvocati, notai), imprenditori, uomini politici, rappresentanti delle istituzioni, tra cui magistrati e dirigenti delle forze dell'ordine. Attraverso tale collegamento la 'ndrangheta riusciva a trovare non soltanto nuove occasioni per i propri investimenti economici, ma sbocchi politici impensati e soprattutto quella copertura, realizzata in vario modo e a vari livelli (depistaggi, vuoti di indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti di processi, etc.), cui è conseguita per molti anni quella sostanziale impunità, che ha caratterizzato tale organizzazione criminale, rendendola quasi "invisibile" alle istituzioni, tanto che solo da un paio di anni essa è balzata all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale e degli organi investigativi più qualificati.
Naturalmente l'inserimento nella massoneria, che per quanto inquinata, restava pur sempre un'organizzazione molto riservata ed esclusiva, doveva essere limitato ad esponenti di vertice della 'ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei "locali", in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società.
Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, che restavano in vigore solo per i gradi meno elevati e per gli ingenui, ma non vincolavano certo personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi.
Persino l'attività di confidente, un tempo simbolo dell'infamia, era adesso tollerata e praticata, se serviva a stabilire utili relazioni con rappresentanti dello Stato o se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori. E più oltre: «Esigenze razionalizzatrici dunque che in qualche modo anticipavano e preparavano quei nuovi assetti della 'ndrangheta che hanno formato oggetto della presente indagine, ma che rispondevano anche alla necessità di ‘segretazione’ dei livelli più elevati del potere mafioso, al fine di sottrarli alla curiosità degli apparati investigativi ed alle confidenze dei livelli bassi dell'organizzazione».
UN LUNGO FILO ROSSO
Un lungo filo rosso unisce dunque ‘ndrangheta e massoneria, anche se, stando alle pacifiche conclusioni alle quali sono pervenute indagini giudiziarie e storiche, la reciproca compenetrazione delle due società segrete si consolidò a partire dalla seconda metà degli anni ’70, in singolare e non certo casuale consonanza con quanto avveniva dentro Cosa Nostra, come ebbe a riferire il collaboratore di giustizia Leonardo Messina davanti alla Commissione parlamentare antimafia: «Molti degli uomini d'onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra».
Rimane dunque aperto il tema di come rendere efficace il livello giudiziario e penale quando emerge una dimensione occulta del potere e la sua doppiezza. Le conclusioni sin qui riferite trovano riscontro in alcuni dei documenti “interni” della ‘ndrangheta.
In essi si fa riferimento alle formule di iniziazione alla “Santa”, la struttura di ‘ndrangheta creata nella metà degli anni ’70 del secolo scorso. Ad essa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione.
Due sono gli elementi che appaiono decisivi. Il primo è costituito dall’impegno assunto dai santisti di “rinnegare la società di sgarro”. Dunque le vecchie regole, ancora valide per tutti i “comuni” mafiosi, non valgono più per la nuova èlite della ‘ndrangheta.
I santisti possono entrare in contatto con politici, amministratori, imprenditori, notai, persino magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, se questo può essere utile per l’aggiustamento dei processi, per lo sviamento delle indagini, per stabilire rapporti sotterranei di confidenza e di reciproco scambio di favori.
L’infamità non rappresenta più uno sbarramento invalicabile, può essere aggirata e superata in vista dei vantaggi che la rete dei contatti non più preclusi può assicurare. Il secondo importante elemento è costituito dalla “terna” dei personaggi di riferimento prescelti per l’organizzazione della “Santa”.
Non più gli Arcangeli della società di sgarro – Osso, Mastrosso e Carcagnosso, giunti dalla Spagna in Italia dopo 29 anni vissuti nelle grotte di Favignana- ma personaggi storici, ben noti nella tradizione culturale e politica italiana: Garibaldi, Lamarmora, Mazzini. I primi due, generali dell’esercito italiano, un tempo, in quanto portatori di divisa al servizio dello Stato, sarebbero stati considerati “infami” per definizione, per eccellenza.
Come va spiegato allora un richiamo così solenne ed esplicito a tali personaggi? Qual è il messaggio che attraverso tale indicazione si vuole mandare al popolo della ‘ndrangheta? La risposta è chiara se si osserva come Garibaldi, Lamarmora, Mazzini erano tutti e tre appartenenti a logge massoniche, per di più in posizioni di vertice (Garibaldi fu Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 24 maggio all’8 ottobre del 1864).
L’INGRESSO NELLA SOCIETÀ CIVILE
La ‘ndrangheta, insomma, da corpo separato, si trasforma in componente della società civile, in potente lobby economica, imprenditoriale, politica, elettorale. Da allora diventa l’interlocutore imprescindibile, il convitato di pietra, di ogni affare, investimento, programma di opere pubbliche avviato sia a livello regionale che centrale, ma anche di ogni consultazione elettorale, amministrativa e politica.
Per arrivare a questo risultato, tuttavia, i santisti non potevano entrare in contatto “diretto” con gli esponenti delle istituzioni e del potere economico, almeno all’epoca. Oggi, probabilmente, tutto questo è possibile senza mediazioni, ma in quella fase storica era necessario passare attraverso camere di compensazione, che consentissero a quei contatti la necessaria dose di riservatezza, affidabilità, sicurezza. Furono le logge massoniche ad offrire una tale possibilità. Non tutte certo. Alcune di quelle già esistenti diedero la propria disponibilità, altre furono create per l’occasione, ma sicuramente il sistema massonico-mafioso costituì il formidabile strumento di integrazione delle mafie nel sistema di potere dominante e di captazione nella borghesia degli affari.
Da allora in avanti, il fenomeno ‘ndrangheta appare sempre più con i caratteri di componente strutturale della società meridionale, e non solo, di “istituzione tra le istituzioni”, di attore diretto e principale delle politiche di sviluppo, di investimento, realizzate in quelle aree da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali.
Per questo è verosimile che il ruolo della massoneria, accertato e necessario in altre fasi, sia in gran parte superato, almeno nelle forme finora conosciute.
È però necessario abbandonare alcune categorie di lettura fortemente radicate nella cultura dell’antimafia, categorie che appaiono oggi superate e addirittura di ostacolo ad una lettura idonea a fornire strumenti di analisi e soprattutto di contrasto in grado di avere una qualche possibile efficacia. La prima categoria è quella dell’emergenza.
Se la ‘ndrangheta vive ed opera dall’Unità d’Italia e se essa, con il passare di oltre un secolo e mezzo, ha conservato intatte fisionomia e presenza, accrescendo la sua forza economica e il potere di condizionamento politico, allora di emergenziale nella sua presenza vi è davvero poco.
È piuttosto un fenomeno dinamico, funzionale all’attuale assetto economico-sociale e quindi non contrastabile solo con i consueti interventi repressivi di carattere giudiziario. La definizione della mafia come “antistato”, poi, è di quelle che appaiono suggestive ed accattivanti ma legate all’immagine di una criminalità simile al fenomeno terroristico, intenzionata cioè ad abbattere lo Stato di diritto per sostituirsi ad esso.
Di fronte ad un fenomeno storico di tale portata, non solo non vi è mai stata una seria, duratura, coerente, volontà politica di condurre un’azione di contrasto decisa e irremovibile ma, al contrario, si è registrata, da sempre, una linea ambigua e contraddittoria.
Alle debolezze istituzionali ed ai ritardi culturali si è aggiunto un vero e proprio sistema di collusioni e mediazioni sociali ed economiche, fino a determinare un livello di organicità degli interessi mafiosi alle dinamiche della società determinando il relativo degrado della politica e delle istituzioni. Si è reso così sempre più labile, in intere aree della Calabria il confine tra lo Stato e gli interessi della ‘ndrangheta.
Con questa forza la ‘ndrangheta ha sempre cercato, quando ne ha avuto l’opportunità, di valicare l’area del proprio insediamento.
Il suo essere “locale” – non a caso auto-definizione della sua struttura organizzata centrale - non è mai stato considerato una gabbia o una limitazione al proprio agire mafioso, ha invece rappresentato una pedana di lancio verso altri territori –geografici, economici e sociali- nei quali stabilire relazioni in cui sviluppare nuove attività criminali.
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA
LA ‘NDRANGHETA. Tra passato e futuro, un crimine invisibile che governa la Calabria. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 16 aprile 2022
«La ‘ndrangheta è invisibile come l’altra faccia della luna», così il procuratore dello stato della Florida a Tampa, Julie Tingwall, descrive negli anni ’80 le cosche calabresi operanti in America. Una definizione assai appropriata
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Nel fiume di parole che hanno inondato la Germania e l’Italia immediatamente dopo la strage di Duisburg colpisce in particolare il fatto che la scoperta della ‘ndrangheta sia legata ad una descrizione della stessa come un’organizzazione chiusa, arretrata, avvolta in una faida sanguinaria e feroce.
Tutto ciò sembra stridere con l’epoca in cui viviamo, caratterizzata da processi di globalizzazione di tutte le attività produttive e umane e da una straordinaria capacità di trasmettere informazioni su scala planetaria.
La grande contraddizione, dunque, sarebbe tra una società oramai globalizzata in tutti i suoi aspetti ed una ‘ndrangheta arretrata ed arcaica. In effetti questa mafia agisce e pensa contemporaneamente localmente e globalmente, controlla il territorio, segue e interviene nell’evoluzione dei mercati internazionali.
Per questo oggi è la più robusta e radicata organizzazione, diffusa nell’intera Calabria e ramificata in tutte le regioni del centro-nord, in Europa e in altri paesi stranieri cruciali per le rotte del narcotraffico. Con questo dinamismo ha articolato e diversificato le sue attività.
Abbandonati i sequestri di persona e continuando a controllare l’intero ciclo dell’edilizia, ha investito nella sanità, nel turismo, nel traffico dei rifiuti, nella grande distribuzione commerciale, assumendo anche un ruolo chiave nel controllo dei grandi flussi di denaro pubblico. Ha conquistato ruolo imprenditoriale e soggettività politica.
Una nuova dimensione modellata sulle pieghe della società calabrese, dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino allo Stretto. Niente di vecchio e di arcaico, quindi.
Ma un soggetto criminale moderno con una borghesia mafiosa, lontana apparentemente da tradizionali logiche militari, come dalla gestione delle più imbarazzanti attività criminali (traffico di droga, armi, esseri umani; tutti settori affidati ormai a gruppi collaterali), inserita progressivamente nei salotti buoni, della società; in questo modo si fanno gli affari, si costituiscono le società miste, si appaltano i servizi pubblici, si scelgono i consulenti di chi governa, per determinare le grandi scelte del territorio.
L’inserimento negli organismi elettivi sarebbe già di per sé pericoloso e inquinante, ma esso è a sua volta foriero di ulteriori infiltrazioni: la pratica delle assunzioni clientelari, degli affidamenti di lavori, di forniture e servizi a imprese collegate, consente di allargare sempre di più l’area dell’inquinamento mafioso, sino a stravolgere il mercato del lavoro al pari di quello degli appalti.
La ‘ndrangheta diventa così oltre che soggetto imprenditoriale anche soggetto sociale, contribuendo a dare risposte drogate ai bisogni insoddisfatti dai limiti e dall’assenza di politiche pubbliche.
LE FAMIGLIE E IL TERRITORIO
«La ’ndrangheta è invisibile come l’altra faccia della luna», così il procuratore dello stato della Florida a Tampa, Julie Tingwall, descrive negli anni ’80 le cosche calabresi operanti in America. Una definizione assai appropriata se si considera che l’abilità di mimetizzarsi, di muoversi nell’ombra, nel sottobosco dell’illegalità e nelle pieghe della legalità, costituisce una delle caratteristiche più evidenti della ’ndrangheta, sia in Calabria che nelle sue proiezioni nazionali ed internazionali.
Fino a tre decenni fa, nonostante gestisse efficacemente il traffico di droga e delle armi sul territorio nazionale, non aveva assunto pienamente una dimensione strutturalmente transnazionale. Negli ultimi due decenni le cose sono cambiate e la ‘ndrangheta, partendo dalla Calabria ha affermato la sua presenza negli Stati Uniti, nell’America del Sud e nel Canada, in Europa e in Australia, creando una rete operativa efficiente come poche per compartimentazione e segretezza e riproducendo ovunque le strutture organizzative presenti storicamente nella regione di origine.
Sono decine le cosche e centinaia gli affiliati insediati all’estero. La ‘ndrangheta in questa affermazione sul piano internazionale, si è posta nei confronti delle organizzazioni criminali degli altri paesi in termini di assoluta affidabilità, soprattutto nel campo del narcotraffico, come agli occhi dei cartelli colombiani ai quali è stata capace di offrire maggiori garanzie rispetto alle altre mafie.
In particolare è apparsa più affidabile di Cosa nostra e della camorra, colpite dalla repressione e incrinate nella loro credibilità dal fenomeno dei collaboratori di giustizia. Benché le rigide regole di compartimentazione territoriale operanti all’interno delle rispettive aree di influenza nelle cinque province calabresi portino le singole cosche ad operare in maniera sostanzialmente autonoma, è netta la loro tendenza a strutturarsi in holding criminali per la gestione dei traffici internazionali di droga o per l’infiltrazione negli appalti pubblici riguardanti territori che ricadono sotto l’influenza di più gruppi mafiosi.
Il livello di pervasività è elevatissimo con punte estreme nella provincia di Reggio Calabria dove esso assume una capillarità tale da condizionare ogni aspetto della vita sociale ed economica. Le cosche operanti nell’intera provincia evidenziano differenti caratteristiche e modalità di espressione a seconda della zona di radicamento.
Le cosche dell’area tirrenica, così come buona parte di quelle presenti nel capoluogo, praticano l’occupazione del territorio come principale fattore di accumulazione economica realizzando sia il sistematico condizionamento di tutti i settori produttivi sia lo sfruttamento delle risorse destinate alla realizzazione di importanti opere pubbliche.
Le cosche dell’area ionica, attive su un territorio che offre minori opportunità economiche, caratterizzato da una morfologia impervia ed aspra (dalla costa fino alle vette dell’Aspromonte) e per questo difficilmente permeabile a un’efficace controllo da parte delle forze di polizia, si sono dedicate per anni ai sequestri di persona.
I profitti di questa attività hanno poi costituito la base per l’ingresso in grande stile nel traffico internazionale degli stupefacenti.
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA
LA ‘NDRANGHETA. Il porto di Gioia Tauro, regno di traffici gestiti da una “supercosca”. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 17 aprile 2022
Capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali, coste stuprate dall’abusivismo e dalla cementificazione selvaggia, campagne moderne e ordinatamente coltivate ed ettari di fondi abbandonati, rare isole produttive modernamente attrezzate e reperti di archeologia industriale, usurati dal tempo, testimoni di uno sviluppo promesso e mai arrivato.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Percorrendo la Calabria dal Pollino allo Stretto, zigzagando tra le interruzioni dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria e “gustando” i tempi lunghi imposti da lavori in corso infiniti, si può toccare con mano l’effetto del processo distorto di modernizzazione che negli ultimi trent’anni ha trasformato il paesaggio sociale e produttivo della regione.
Capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali, coste stuprate dall’abusivismo e dalla cementificazione selvaggia, campagne moderne e ordinatamente coltivate ed ettari di fondi abbandonati, rare isole produttive modernamente attrezzate e reperti di archeologia industriale, usurati dal tempo, testimoni di uno sviluppo promesso e mai arrivato.
Nonostante l’impegno politico e finanziario profuso nei decenni - dalla Cassa per il Mezzogiorno a tutta la politica degli interventi straordinari - uno sviluppo armonico della realtà calabrese continua a rimanere una chimera, un obiettivo il cui conseguimento spesso si allontana di pari passo con l’avanzare di programmi e progetti di investimento, inesorabilmente frenati anche dalla presa che la ‘ndrangheta mantiene sull’intera economia della regione.
A fronte della fragilità e permeabilità dell’apparato politico amministrativo e della lentezza con cui procedono gli interventi volti ad una sua razionalizzazione e ad un miglioramento della sua efficienza, la ‘ndrangheta ha manifestato, al contrario, una rapida capacità di adeguarsi alle trasformazioni intervenute nel contesto economico e sociale.
Forte del suo atavico radicamento territoriale, mantenuto costante nel tempo, ed irrobustita da disponibilità finanziarie sempre maggiori, ha acquisito una sempre maggiore capacità di condizionamento ed inquinamento degli organi ed apparati amministrativi e politici calabresi.
Esempi emblematici rimangono i casi del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, grandi, strategiche ed eternamente incompiute infrastrutture, su cui le cosche hanno esteso nel tempo i loro tentacoli sovrastando in alcune fasi il tentativo di contrasto, che pure negli anni ha ottenuto significativi risultati.
In entrambi i casi risulta essersi perpetuato il perverso paradigma in base al quale le infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti e subappalti per la realizzazione delle grandi infrastrutture con quanto ne consegue in termini di dispersione delle risorse e di qualità delle realizzazioni sono state favorite nel corso dei decenni dagli accordi stretti, e spesso raggiunti in via preventiva, tra le grandi imprese nazionali e i capi delle più importanti famiglie mafiose dei territori interessati dai lavori.
Tali patti non si sarebbero potuti stringere in assenza di un sistema di connivenze con gli apparati politico amministrativi. Le indagini svolte e i diversi processi celebrati nell’ultimo decennio hanno messo a nudo un diffuso atteggiamento di pressoché totale assenza di collaborazione da parte degli imprenditori con le forze dell’ordine e la magistratura, oltreché una piena sudditanza alle varie pratiche estorsive: dal pagamento del pizzo, all’imposizione delle forniture e della manodopera, all’accettazione dell’estromissione da gare di appalto e lavori in favore di imprese riconducibili alle famiglie mafiose.
Su tale costume non ha inciso negli ultimi tempi neanche la posizione assunta da Confindustria Sicilia, che ha finalmente approvato un codice deontologico che prevede l’espulsione delle imprese che non denunciano la loro condizione di assoggettamento a Cosa nostra, né la presa di posizione dei vertici nazionali dell’organizzazione, che hanno invitato i loro iscritti a recidere i rapporti con le organizzazioni mafiose.
È significativa la circostanza, certamente non casuale, che proprio Confindustria di Reggio Calabria sia stata commissariata. Ma indagini e processi, come sottolineato dalla Direzione Nazionale Antimafia, hanno evidenziato anche il persistere di un grave problema di infiltrazioni e collusioni tra famiglie mafiose e pubbliche amministrazioni locali.
Così spiega il meccanismo un’ordinanza del gip di Catanzaro del 13/9/2006, emessa nei confronti di appartenenti al clan Mancuso: «La struttura in esame, inoltre, secondo quanto emerso dalle indagini, è riuscita ad infiltrarsi anche nel settore della pubblica amministrazione, pilota l’assegnazione di gare ed appalti pubblici e quindi beneficia, in modo diretto o indiretto, delle notevoli risorse finanziarie a tal fine stanziate. Dalle indagini è emerso dunque uno spaccato desolante delle attività economiche pubbliche o private svolte nel contesto territoriale sopraindicato: tutte le più significative ed importanti realtà produttive e commerciali appaiono dominate dal potere mafioso che annienta la libertà d’iniziativa economica privata, inquina la gestione della cosa pubblica, in una parola impedisce il reale sviluppo del territorio le cui risorse naturali, lungi dall’essere patrimonio della collettività, in realtà diventano strumento di arricchimento e consolidamento dei componenti del gruppo per cui si procede» ed ancora «I Mancuso erano soliti infiltrarsi ad ogni livello sia economico che politico operando unitamente alle famiglie Piromalli e Pesce sulla zona della Piana di Gioia Tauro. In particolare i Mancuso controllavano tutto il vibonese....».
PORTO FRANCO
La Commissione Antimafia della XV Legislatura per la sua prima missione in Calabria ha scelto simbolicamente di cominciare il suo lavoro d’inchiesta nel porto di Gioia Tauro. Si sono svolte lì le prime audizioni. Gioia Tauro ed il suo porto rappresentano la metafora di un processo di modernizzazione senza sviluppo che ha segnato il corso della storia della Calabria da decenni.
È alla fine degli anni ’60, infatti, nel vivo di una straordinaria stagione politica e culturale che animò il dibattito meridionalista che ebbe proprio in Calabria importanti protagonisti, che si afferma la prima grande idea di programmazione degli interventi pubblici. Da allora tanto tempo è passato ma forse quella, al di là delle diverse opinioni, rimane l’ultima grande idea organica di sviluppo della Calabria.
Da quel momento sono cambiate le politiche di intervento verso il Sud al fine di accorciare il divario dal resto del Paese. Rimane però un dato: la Calabria si colloca agli ultimi posti in tutti gli indicatori di sviluppo, economici e sociali. Una storia di illusioni e disincanto che ha animato scontri politici e lotte sociali, dibattiti parlamentari e interessi materiali, grandi inchieste giornalistiche ed azioni giudiziarie.
Una storia complessa con tanti protagonisti e un convitato di pietra: la ‘ndrangheta. II porto, progettato negli anni ‘60 come porto industriale al servizio del mai realizzato V° Centro Siderurgico, venne inaugurato solo nel 1992 e la sua definitiva destinazione fu quella di terminal-hub per containers, sulla base di un progetto dell’imprenditore Angelo Ravano, legale rappresentante della multinazionale Contship Italia, che mirava a farne il principale scalo di transhipment di containers del Mediterraneo.
Il progetto fu condiviso dal Governo dell’epoca, che siglò con il Ravano un apposito “Protocollo di Intesa”. Ed in effetti l'attività avviata dalla Contship e dalla sua filiazione Medcenter Containers Terminal (MCT) si è sviluppata a ritmo elevato, fino a far assumere allo scalo, nel 1995, il ruolo leader nel settore del transhipment nell’area mediterranea.
Le indagini condotte tra il 1996 ed il 1998 dalla Squadra Mobile e dalla Dia di Reggio Calabria, confluite nel processo denominato “Porto”, e conclusosi con la condanna di numerosi imputati, dimostrano come l’interesse e la volontà della ‘ndrangheta di mettere le mani sulla straordinaria occasione di arricchimento costituita dal Porto si fossero manifestate ancor prima che il concessionario iniziasse la sua attività.
Contestualmente, già nella fase ideativa del progetto, si era manifestata la subalternità alla ’ndrangheta della Contship Italia e del suo leader e fondatore Angelo Ravano, con l’obiettivo di realizzare senza ostacoli ed interferenze il suo progetto imprenditoriale.
Ravano mostrava così di considerare l’organizzazione mafiosa non un nemico della libera iniziativa economica, da contrastare e denunciare, ma un interlocutore affidabile e necessario a tutela e garanzia della realizzazione del proprio progetto imprenditoriale.
Il processo, conclusosi nel 2000, ha dimostrato che la realizzazione del più importante investimento di politica-industriale mai pensato per il Sud, era stato preceduto da un preventivo accordo tra la multinazionale diretta dall’imprenditore Angelo Ravano e le cosche Piromalli – Molè di Gioia Tauro e Bellocco – Pesce di Rosarno, allora come oggi dominanti nella Piana di Gioia Tauro, unite in un unico cartello e unitariamente rappresentate nelle trattative dal boss Piromalli.
La circostanza, peraltro, non può suscitare meraviglia, poiché da numerose indagini è emerso come le cosche del reggino, a differenza di quelle radicate in altre realtà territoriali, dopo la fine della guerra fratricida, agli inizi degli anni novanta, avevano dato vita ad una sorta di rete federale ai cui vertici sedevano i capi delle maggiori famiglie, con l’obiettivo di gestire e ripartire tra loro gli affari e dirimere eventuali controversie.
L’accordo prevedeva il pagamento di una sorta di “tassa” fissa di un dollaro e mezzo su ogni container trattato in cambio della “sicurezza” complessiva dell’area portuale. La cifra potrebbe apparire irrisoria ma va rapportata al numero complessivo di containers trattati annualmente, quasi 3 milioni oggi e circa 60mila all’epoca, per capire quanto essa rappresenti un’enorme fonte di liquidità.
Per gestire l’affare miliardario dell’estorsione alla Contship, secondo i giudici del Tribunale di Palmi, le cosche della Piana, sia le più importanti che le minori, si erano federate in una sorta di “supercosca”. Il progetto non riguardava solo il pagamento della “tassa sulla sicurezza”, crescente proporzionalmente allo sviluppo delle attività delle società portuale, ma anche quello di ottenere il controllo delle attività legate al porto, dell’assunzione della manodopera e i rapporti con i rappresentanti dei sindacati e delle istituzioni locali.
La ‘ndrangheta, quindi, coglieva l’occasione che le consentiva di uscire dalla sua condizione di arretratezza per divenire protagonista dinamico della “modernizzazione” della Calabria. Il progetto, nonostante l’azione della magistratura, è stato in parte realizzato: esso ha portato, infatti, al sostanziale dissolvimento di qualunque legittima concorrenza da parte di imprese non mafiose o non soggette alla mafia, estromesse dai lavori, dalle forniture, dai servizi e dalle assunzioni di manodopera ed ha introdotto elementi di scarsa trasparenza nei comportamenti di enti ed istituzioni locali.
Tra questi enti spicca il Consorzio per lo Sviluppo dell’Area Industriale che, nei primi anni, era l’unico organo competente in materia di approvazione di progetti, assegnazione di aree, spesa dei finanziamenti etc.
Negli anni a seguire a ciò si sono aggiunti sia la confusione di poteri e competenze tra il Consorzio e la costituita Autorità portuale sia i conseguenti conflitti tra i due Enti aggravati dall’assenza di controlli e di coordinamento da parte della regione e degli altri enti locali.
Dagli elementi raccolti da questa Commissione i problemi evidenziati sono ancora oggi irrisolti. Perdura il controllo diretto o indiretto da parte della ‘ndrangheta su buona parte delle attività economiche riconducibili all’area interessata e la capacità delle cosche di utilizzare le strutture portuali per traffici illeciti, e anche leciti, di varia natura.
Permangono ugualmente scelte e comportamenti di poca trasparenza degli enti titolari di competenze sull’area portuale e sull’adiacente area di sviluppo industriale.
Tale situazione, se non vi si pone rimedio, è inevitabilmente destinata ad aggravarsi in relazione agli ingenti investimenti che nei prossimi anni interesseranno l’intera area di Gioia Tauro e lo sviluppo dello Scalo: - costruzione dell’impianto per la rigassificazione del gas naturale liquefatto, cui si accompagnerebbe la cosiddetta “piastra del freddo”, con l’insediamento di aziende manifatturiere e logistiche legate all’utilizzo del freddo, sottoprodotto dell’impianto principale; - piattaforma logistica intermodale, destinata a sfruttare le grandi aree disponibili per l’allestimento di molteplici servizi collegati allo scalo merci, che verrebbe collegato a differenziate reti di trasporto; - hub automobilistico, destinato ad accogliere i veicoli esportati in Europa dalle industrie dell’Estremo Oriente, con relativo adeguamento di tutte le strutture oggi esistenti.
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA
LA MAFIA CALABRESE. Le grandi famiglie della Piana divise fra cocaina e rifiuti tossici. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 18 aprile 2022
Le attività di intelligence ed investigative hanno dimostrato che gran parte delle attività economiche che ruotano attorno e all’interno dell’area portuale sono controllate o influenzate dalle cosche della Piana, che utilizzano la struttura anche come scalo per i loro traffici illeciti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Le cosche Piromalli – Molè, Bellocco- Pesce e le altre ad esse collegate hanno già dimostrato di non trascurare alcun settore economico nelle zone da esse dominate, con una grande capacità di adeguarsi sia dal punto di vista strettamente criminale che da quello finanziario ed imprenditoriale alle nuove opportunità offerte loro sul territorio.
Le attività di intelligence ed investigative hanno dimostrato che gran parte delle attività economiche che ruotano attorno e all’interno dell’area portuale sono controllate o influenzate dalle cosche della Piana, che utilizzano la struttura anche come scalo per i loro traffici illeciti. Peraltro, come rilevato dalla stessa Dda la fase di pace che caratterizza l’attuale momento storico e l’assenza di manifestazioni eclatanti di violenza verso le imprese può avere una sola spiegazione: le cosche hanno deciso di gestire nel silenzio i grandi affari che si prospettano nella Piana e di continuare a sfruttare nel modo migliore il controllo che esse esercitano sul porto.
Sempre la Dda di Reggio Calabria, con un’indagine condotta assieme ai Ros dei Carabinieri, ha svelato l’esistenza di un gruppo criminale con funzionari infedeli dell’Agenzia delle Dogane, responsabile di controlli doganali irregolari. Il circuito delle verifiche doganali e dei servizi di intelligence e di controllo dei containers sbarcati – circa 3.000.000 nel 2006 – ha un’importanza strategica per il contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Del resto è l’intera gamma delle attività interne e dell’indotto a subire il condizionamento mafioso: dalla gestione dello scalo alle assegnazioni dei terreni dell’area industriale, dalla gestione della distribuzione e spedizione delle merci al controllo dello sdoganamento e dello stoccaggio dei containers.
TANTE ATTIVITÀ ILLECITE
Ma il porto offre alle cosche anche un’importante opportunità per diversificare le proprie attività illecite:
Traffico illecito di rifiuti: l’indagine “Export” del luglio 2007, condotta dalla Procura della Repubblica di Palmi, ha consentito il sequestro, nell’area portuale, di 135 containers carichi di rifiuti di diversa specie e qualità diretti in Cina, India, Russia ed in alcune nazioni del Nord Africa. Si tratta di un’indagine particolarmente complessa che coinvolge anche le Procure di Bari, Salerno, S. Maria Capua Vetere, Monza e Cassino e riguarda 743.150 Kg. di rifiuti da materie plastiche, 154.870 Kg. di contatori elettrici, 1.569.970 Kg. di rottami metallici, 10.800 Kg. di parti di autovetture e pneumatici, 695.840 Kg. di carta straccia. Rilevantissimo è il numero delle persone indagate con il coinvolgimento di 23 aziende italiane operanti nel campo dello smaltimento dei rifiuti.
Contrabbando di tabacchi: questa attività sta attraversando, nuovamente, una fase di espansione, e, contemporaneamente, una fase di trasformazione dei modelli tradizionali. La crescita delle vendite illegali di tabacchi coincide con il generale aumento dei consumi mondiali – specie delle zone più povere – frutto dell’intensa opera di marketing delle multinazionali. I grandi produttori di sigarette, infatti, vogliono recuperare, a livello mondiale, le perdite determinate dalla notevole contrazione della domanda, verificatasi negli ultimi anni nei paesi occidentali, e soprattutto negli Usa, in conseguenza dei successi delle campagne antifumo e dei sempre più diffusi impedimenti legali al consumo.
Il 7 giugno 2006, nove tonnellate di tabacco di contrabbando di marca ''Bon'', per un valore di un milione e mezzo di euro, sono state sequestrate dalla guardia di finanza al termine di un’operazione condotta nel porto di Gioia Tauro. Il carico è stato scoperto all’interno di un container proveniente da Jebel Ali (Emirati Arabi) con la motonave ''Msk Detroit''. Il contenitore carico di sigarette, ma che avrebbe dovuto trasportare giocattoli, era destinato in Croazia.
Il 2 agosto 2006 sono state sequestrate oltre sei tonnellate di sigarette. Erano nascoste all'interno di un container sempre proveniente da Jebel Ali (Emirati Arabi) e con successiva destinazione Salonicco (Grecia). Il container doveva contenere ''pannelli di cartongesso'' e invece sono state trovate oltre 30 mila stecche di sigarette di marca ''Passport'' per un valore di oltre un milione di euro”.
Traffico di sostanze stupefacenti: Il porto, come evidenziato dall’operazione “Decollo bis”, rappresenta un nodo strategico per tutte le rotte mediterranee della droga. Questa operazione portava all’emissione da parte del Gip di Catanzaro di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 112 soggetti, tra i quali alcuni esponenti della cosca Pesce di Rosarno.
Nell’ambito della stessa operazione, nel porto di Salerno venivano sequestrati 541 kg. di cocaina, importata attraverso la ditta Marmi Imeffe di Vibo Valentia con destinazione il porto di Gioia Tauro. L‘operazione è una delle tante che provano come il porto nella fase della massima espansione delle sue attività fosse già utilizzato dalle ‘ndrine come porta d’accesso di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti.
Anche dalle audizioni degli organi a ciò istituzionalmente demandati, è emerso che, nonostante indubbi progressi in tema di prevenzione e repressione (rafforzamento dell’apparato di contrasto, creazione del Commissariato Straordinario per la sicurezza del porto; Patto Calabria Sicura, stipulato tra Ministero degli Interni, Regione Calabria, Provincia di Catanzaro, Provincia di Reggio Calabria; Programma Calabria) l’area portuale di Gioia Tauro continui a mantenere intatta la sua problematicità.
È stato evidenziato, infatti, che il bacino portuale, che oggi movimenta più di 7500 containers al giorno su tratte internazionali ed intercontinentali, e che presenta enormi potenzialità di espansione, necessita del potenziamento dei sistemi di controllo sulle attività che in esso si svolgono.
Nello specifico, il Prefetto di Reggio Calabria ha posto la necessità di una verifica dell’entità – in termini di uomini e mezzi - e dell’efficacia sia della presenza di Capitaneria di Porto che della Guardia di Finanza, in modo da rendere effettivi e capillari i controlli sui movimenti di merci in un’area di così vasta portata, visto che le cosche esercitano un «pacifico e disciplinato controllo del territorio grazie al flusso economico determinato dal sistema porto anche nell’indotto», con conseguente «rarefazione di manifestazioni violente nella zona».
Anzi, «l’assenza di attentati o danneggiamenti di alcun tipo nell’area del Porto è il chiaro segnale di un controllo che non ha bisogno di prove di forza per continuare ad aumentare e consolidare il proprio potere».
Tuttavia il contesto descritto potrebbe essere messo in crisi dall’eclatante e simbolico omicidio del boss Rocco Molè, capo dell’ala militare della cosca Piromalli-Molè, avvenuto nei pressi della sua abitazione, a Gioia Tauro, il 1° febbraio 2008.
LE DIFFICOLTÀ DELLO STATO NEL CONTRASTARE LA MAFIA
La conclusione cui giunge il Prefetto è indicativa delle difficoltà anche degli organi dello Stato nello sviluppo dell’azione di contrasto: in un contesto così pervaso dalla presenza mafiosa, inabissata o dissimulata all’interno del sistema delle imprese e delle attività legali, sul piano della prevenzione generale, l’attività di forze di polizia e magistratura pur di elevatissima professionalità, è insufficiente e occorre attivare una rete di infiltrazione non convenzionale idonea a raccogliere informazioni utili su cui fondare l’opera dei primi.
Conferma che arriva anche dal Presidente dell’Autorità Portuale che ha segnalato due casi inquietanti.
Nel primo caso, nell’ambito di un procedimento finalizzato al rilascio di una concessione demaniale pluriennale richiesta dalla società Meridional trasporti, l’Autorità portuale, dopo avere accertato che la società risultava in possesso di certificazione antimafia, acquisiva un’informazione prefettizia che, al contrario, segnalava il pericolo di infiltrazione mafiosa a carico della stessa, mettendo così a nudo un problema più generale che deve far riflettere sull’efficacia reale della stessa certificazione antimafia.
Nel secondo caso, nel corso di lavori già affidati in subappalto all’impresa Tassone – contratto di nolo a caldo – l’Autorità portuale acquisiva informazioni prefettizie che segnalavano il pericolo di infiltrazioni mafiose a carico del subappaltatore. La conseguente ingiunzione all’appaltatore principale di revocare il contratto di sub appalto, restava, tuttavia, priva di effetto poiché la ditta non veniva allontanata dal cantiere.
La persistente criticità della situazione dell’area portuale è stata evidenziata anche dalla Dac (Direzione Centrale Anticrimine) nella relazione del gennaio 2008 consegnata alla Commissione, che ha evidenziato il riproporsi di segnali allarmanti della persistente presa delle cosche sulle intere attività economiche della piana.
Un’inchiesta conclusa nel 2001 portava, infatti, all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di dieci soggetti tra i quali Carmelo Bellocco e Antonio Piromalli, indagati per associazione mafiosa ed estorsione, ritenuti responsabili di controllare e condizionare con tali mezzi la regolarità delle attività incentrate sul porto di Gioia Tauro.
È particolarmente allarmante che nell’area portuale siano ancora presenti imprese accertatamente mafiose già individuate nel corso dell’indagine “Porto” le quali, ricorrendo al semplice espediente del cambiamento di denominazione o ragione sociale, hanno tranquillamente continuato per anni, e continuano tuttora, ad operare.
In questo contesto è comunque positivo che sia stato rinforzato il dispositivo di contrasto con la creazione di un pool investigativo composto da operatori della Sezione Criminalità Organizzata della Squadra Mobile di Reggio e del Commissariato ps di Gioia Tauro con il compito esclusivo di investigare e fronteggiare le infiltrazioni mafiose nel porto.
La Commissione, pertanto, sulla base dei comuni allarmi lanciati dai soggetti istituzionali ascoltati nelle audizioni, sottolinea il perdurare delle infiltrazioni mafiose nel tessuto economico ed imprenditoriale nell’area portuale e ne evidenzia il peso sociale ed economico, con una capacità delle principali cosche della Piana di intessere relazioni ambigue e pericolose sia con i soggetti economici che con quelli istituzionali.
In relazione a tale quadro, particolare preoccupazione suscita il preannunciato arrivo di ingenti finanziamenti europei, nazionali e regionali. Lo stesso Dpef del 2007 ha inserito Gioia Tauro tra le aree destinatarie di investimenti particolareggiati.
In questo quadro la Commissione auspica che si determini il massimo sostegno alle forze di polizia ed alla magistratura sviluppando in modo sempre più efficace l’azione di contrasto anche con un migliore coordinamento interforze di tutti i corpi di polizia. Utile potrebbe essere l’impegno degli apparati di intelligence, al fine di acquisire e fornire a polizia e magistratura informazioni altrimenti difficilmente disponibili.
Attività da sviluppare comunque in modo trasparente e sotto il controllo delle istituzioni parlamentari. È altrettanto necessario superare la confusione di poteri e competenze tra Enti ed istituzioni territoriali e regionali causa anch’essa della scarsa trasparenza dei processi decisionali e punto di fragilità in cui, come già è avvenuto, più facilmente si annida il pericolo di infiltrazioni mafiose. Infine, diventa sempre più urgente l’istituzione di una banca dati centralizzata delle certificazioni e delle informative antimafia e la stipula di protocolli che definiscano procedure certe e automatiche per lo scambio di informazioni tra la Dna, la Dia e il ministero degli Interni.
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA
LA ‘NDRNGHETA. L’Autostrada del Sole e gli affari delle ‘ndrine svincolo dopo svincolo. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA Il Domani il 19 aprile 2022.
Altrettanto emblematico è il caso dell’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria, l’autostrada mulattiera, eterna incompiuta, simbolo materiale della permanenza nel Paese di una storica questione meridionale e della precarietà della condizione della Calabria.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Altrettanto emblematico è il caso dell’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria, l’autostrada mulattiera, eterna incompiuta, simbolo materiale della permanenza nel Paese di una storica questione meridionale e della precarietà della condizione della Calabria, eternamente malata, perennemente in “cura” ma costantemente incapace di guarire dai suoi mali strutturali.
L’autostrada, realizzata in meno di dieci anni, tra la metà degli anni sessanta e la metà degli anni settanta doveva unire il Mezzogiorno d’Italia al resto del Paese ed all’Europa, e rappresentare una sorta di via d’uscita dal sottosviluppo e dall’arretratezza.
Per questa sua funzione strategica, considerate le condizioni sociali delle aree interessate, la legge 729 aveva previsto anche l’esenzione dal pedaggio. La sua costruzione, sebbene portata a termine in tempi accettabili in relazione alla sua lunghezza – oltre 440 chilometri - fu segnata, fin dalle prime fasi, dalla presenza delle organizzazioni mafiose e dal loro intervento, che ne hanno accompagnato la storia infinita fino ai nostri giorni.
Come ebbe a sottolineare l’allora Questore di Reggio Calabria Santillo, già in quei primi anni ‘70, le imprese settentrionali vincitrici degli appalti si rivolgevano agli esponenti mafiosi prima ancora di aprire i cantieri: contraevano così una sorta di precontratto per garantirsi la sicurezza e affidare loro le guardianìe, per selezionare l’assunzione di personale e assegnare le forniture di calcestruzzo e le attività di movimento terra.
Negli anni l’autostrada, che era stata progettata con caratteristiche tecniche rispecchianti la classificazione delle strade dell’epoca, ha manifestato in modo sempre più evidente gravi limiti, inadeguata a sopportare i crescenti volumi di traffico e l’esplosione del trasporto su gomma.
Questi limiti, assieme all’aggiornamento della normativa sulle caratteristiche geometriche delle strade, sulle strutture in cemento armato, sulle aree sismiche, sulla stabilità dei pendii e sui parametri di sicurezza, hanno reso necessaria la sua riqualificazione.
Così, dal 1997, sono perennemente in corso lavori di ammodernamento ed ampliamento della struttura, sostenuti da finanziamenti pubblici nazionali ed europei interminabili, con continui incrementi delle previsioni di spesa e relativi aggiornamenti dei bandi di gara.
LE INCHIESTE DELLA MAGISTRATURA
Un affare senza fine di cui non poteva non occuparsi oltre alla ‘ndrangheta anche la magistratura. La prima inchiesta, denominata “Tamburo” e coordinata dalla Dda. di Catanzaro, nel 2002 portava all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 40 indagati, tra i quali imprenditori, capimafia, semplici picciotti e funzionari dell’Anas.
Con la stessa ordinanza venivano sequestrate diverse imprese attive nei lavori di movimento terra, nella fornitura di materiali edili e stradali e nel nolo a caldo di macchine. La seconda, più recente, denominata “Arca” e coordinata dalla Dda di Reggio Calabria ha portato all’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 15 indagati.
In questo caso, oltre al sequestro di diverse imprese impegnate nei subappalti, tra gli arrestati, assieme ai capimafia e ai titolari di imprese, compare anche un sindacalista della Fillea – Cgil. Da entrambe le inchieste emerge un vero e proprio sistema fondato sulla connivenza delle imprese e sulle collusioni e le inefficienze della pubblica amministrazione che, immutabile nel tempo, caratterizza in Calabria, ogni intervento pubblico finalizzato alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali.
È opportuno precisare che si tratta di procedimenti in corso e che sui fatti che ne costituiscono oggetto non è stata ancora emessa sentenza definitiva ma, lungi dall’assumere i provvedimenti giudiziari come fonte di verità definitivamente sancita, la Commissione può e deve tuttavia utilizzarne i dati di maggiore interesse che rappresentano anche i più recenti elementi di conoscenza.
In ogni caso si tratta di elementi vagliati dall’autorità giudiziaria e, al di là dell’iter processuale, di fatti oggettivamente certi. Le due indagini hanno preso in considerazione i lavori di ammodernamento dell’autostrada riguardanti due distinte aree territoriali: l’inchiesta della Dda di Catanzaro ha analizzato i lavori ricadenti nel tratto Castrovillari – Rogliano in provincia di Cosenza, la seconda, della Dda di Reggio Calabria, i lavori ricadenti nel tratto Mileto – Gioia Tauro. Nell’uno e nell’altro, il meccanismo di controllo e sfruttamento realizzato dalle diverse organizzazioni mafiose è lo stesso.
Questa omogeneità di comportamenti è stata spiegata dal collaboratore Antonino Di Dieco, un commercialista che negli anni aveva assunto un ruolo di primo piano nelle cosche del cosentino ed era poi divenuto il rappresentante della famiglia Pesce nella provincia di Cosenza, il quale ha riferito come tutte le principali famiglie, i cui territori erano attraversati dall’arteria autostradale, avevano raggiunto tra loro un accordo per lo sfruttamento di quella che costituiva una vera miniera d’oro.
L’accordo prevedeva una sorta di predefinizione delle procedure applicabili ed una ripartizione su base territoriale delle zone di competenza con i relativi “pagamenti” secondo il seguente schema riferito dallo stesso Di Dieco:
le famiglie della sibaritide, con quelle di Cirò, per il tratto che andava da Mormanno a Tarsia;
le famiglie di Cosenza, per il tratto che andava da Tarsia sino a Falerna;
le famiglie di Lamezia (Iannazzo), per il tratto che andava da Falerna a Pizzo;
la famiglia Mancuso per il tratto che andava da Pizzo all’uscita Serre;
la famiglia Pesce per il tratto compreso tra la giurisdizione di Serre e Rosarno;
la famiglia Piromalli per il tratto rientrante nella giurisdizione di Gioia Tauro;
le famiglie Alvaro - Tripodi, Laurendi, Bertuca per il restante tratto che da Palmi scende verso Reggio Calabria.
LA SPARTIZIONE DEL TERRITORIO
Ricostruendo geograficamente le tratte si può quindi affermare che i lavori vanno avanti sotto uno stretto controllo mafioso. Ovviamente questo non è estraneo all’enorme ritardo accumulato dalle imprese per la realizzazione dell’opera moltiplicando i suoi costi. Si è così evidenziato una sorta di “pedaggio” istituzionalizzato, da casello a casello.
Questo è quanto avviene alla fine degli anni ’90. Vent’anni prima, invece, all’epoca della costruzione dell’arteria, il meccanismo denunciato dal Questore Santillo era il seguente: - la ‘ndrangheta imponeva senza grandi difficoltà alle grandi imprese affidatarie degli appalti – dagli atti processuali citati sono risultate coinvolte imprese quali la Asfalti Syntex SpA; la Astaldi Spa; l’Ati Vidoni – Schiavo; la Condotte SpA; la Impregilo SpA; la Baldassini & Tognozzi Spa - le funzioni di capo area o direttore dei lavori a soggetti graditi alle cosche, i quali si curavano di mediare le richieste mafiose e portarne l’esito a buon fine.
Ecco di cosa si trattava:
- pagamento di una percentuale del 3 per cento sull’importo complessivo dei lavori;
- assunzione di lavoratori in cambio del controllo sui loro comportamenti.
A riguardo risulta assai significativo che l’ordinanza di custodia cautelare abbia raggiunto tale Noè Vazzana, indagato per avere fatto parte dell’associazione mafiosa nella sua qualità di sindacalista, favorendo l’assunzione di lavoratori del luogo (legando così gli stessi all’associazione da un punto di vista clientelare in un’area ad altissimo indice di disoccupazione) e garantendo che sui cantieri di lavoro non vi fossero lotte o problemi sindacali; affidamento dei subappalti a proprie imprese o imprese da esse controllate, provvedendo all’emarginazione di quelle non disposte a rientrare nel quadro predefinito dalle cosche; -imposizione di forniture di materiali di qualità inferiore a quella prevista dai contratti a fronte di prezzi invariati.
Questo meccanismo, che si è ripetuto del tutto identico a distanza di anni, funzionava alla perfezione in primo luogo per la sostanziale adesione delle imprese appaltanti che, dopo avere trattato e dopo avere accolto le richieste estorsive, si davano da fare per farvi fronte ricorrendo al sistema delle sovrafatturazioni o consentendo l’apertura dei cantieri in subappalto prima ancora che questi fossero autorizzati dalla stazione appaltante principale.
Ma, ciò era possibile anche per la sostanziale assenza di controlli quando non per la connivenza, da parte degli organi ad essi preposti: in particolare il Responsabile Unico del procedimento ed il Direttore dei lavori, entrambi espressione della Stazione appaltante, in questo caso l’Anas, Ente Pubblico Economico (art. 1 dello Statuto D.P.R. 242 del 21/4/1995), che sarebbe stato obbligato al rigoroso rispetto della normativa in materia di lavori pubblici.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
LA ‘NDRANGHETA. Una holding criminale che controlla appalti pubblici e imprese private. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 20 aprile 2022
Non si possono comprendere la forza della ‘ndrangheta, la sua diffusione, il suo radicamento nella regione e l’espansione delle sue attività al nord ed all’estero, se non se ne coglie in profondità la natura di grande holding economico-criminale.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Ovviamente il problema delle infiltrazioni mafiose non è limitato all’autostrada A3, che pure ne rappresenta il caso emblematico, ma riguarda l’intero settore dei lavori pubblici in Calabria e nella fascia tirrenica del reggino in particolare, in cui le famiglie Piromalli – Molè e Bellocco – Pesce possono vantare una lunga tradizione.
Infatti, come riferito dalla D.A.C. nella relazione citata, già nell’anno 2002 a conclusione di un’inchiesta della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, era stata emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 43 indagati appartenenti alle cosche predette, per reati analoghi a quelli relativi ai lavori autostradali commessi in occasione di appalti pubblici per lavori interessanti l’intero versante tirrenico della provincia di Reggio.
Nel luglio 2007, a conclusione di un’altra inchiesta della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, è stata eseguita ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 16 indagati, appartenenti alla cosca Crea, storica alleata dei Piromalli di Gioia Tauro e degli Alvaro di Sinopoli, responsabili, tra l’altro, di avere ottenuto il controllo di appalti pubblici nel comune di Rizziconi (RC) attraverso la diretta assegnazione di lavori ad imprese riconducibili alla locale famiglia.
Che il problema sia diffuso e radicato e che nessuna parte del territorio calabrese ne sia esente è testimoniato, inoltre, da due inchieste condotte dalla Procura Distrettuale di Catanzaro e dalla Procura della Repubblica di Paola, che hanno portato al sequestro del porto di Amantea ed al sequestro del porto di Cetraro, strutture entrambe controllate dalla ‘ndrangheta e non solo per gli interessi sugli appalti riguardanti il loro ammodernamento ma anche per le opportunità che i porti, anche quelli a vocazione diportistica, offrono ormai per lo sviluppo dei traffici illeciti.
Dalla situazione descritta emerge che le cosche, facendosi esse stesse imprenditrici, o controllando in modo diffuso e capillare il settore degli appalti e dei lavori pubblici e privati, condizionano il mercato del lavoro, segnato in Calabria da una debolezza strutturale e di conseguenza esercitano un condizionamento sociale diffuso capace di incidere sui diversi livelli istituzionali e sulla pubblica amministrazione.
LA FORZA DELLA ‘NDRANGHETA
Non si possono comprendere la forza della ‘ndrangheta, la sua diffusione, il suo radicamento nella regione e l’espansione delle sue attività al nord ed all’estero, se non se ne coglie in profondità la natura di grande holding economico-criminale. La storia degli ultimi decenni ha mutato e segnato il corso di questa evoluzione da mafia arcaica a mafia imprenditrice a centrale finanziaria della globalizzazione. Mantenendo sempre, come un tratto costante, il controllo maniacale, quasi ossessivo, del territorio e delle strutture sociali ed economiche ad esso riferite. Anni di trasformazioni e di interventi per lo sviluppo segnati da grandi flussi finanziari dello Stato e dell’Unione Europea destinati alla Calabria hanno accompagnato questo salto di qualità, la cui evoluzione si era già sperimentata, dopo i primi anni ’70, col controllo degli appalti per l’autostrada Salerno-Reggio Calabria e l’insediamento industriale nell’area di Gioia Tauro. Per questo vanno colti i nessi tra le dinamiche del processo di modernizzazione della Calabria e le ragioni del suo mancato sviluppo economico, produttivo, sociale e civile, e in questo doppio processo va individuato il ruolo che la ‘ndrangheta ha avuto nel drenare risorse immense aggredendo, attraverso la permeabilità della macchina amministrativa e della politica, la cosa pubblica ed il bene collettivo. Il Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno presentato nel 2007, nella parte che riguarda la Calabria, presenta il quadro di una regione con un p.i.l. pro-capite di 13.762 euro, pari al 54,6% del p.i.l. pro-capite del Centro-Nord Italia, un tasso di disoccupazione di circa il 13%, un’economia sommersa, in crescita, pari al 27% e lavoratori irregolari, ancora in crescita, per oltre 176.000 unità. Dallo stesso Rapporto risulta che le imprese che pagano il “pizzo” nella regione sono 150.000, la metà del totale delle imprese esistenti nella regione, con una punta del 70% a Reggio Calabria. Qualora corrispondessero alla realtà queste percentuali, basate su stime della Confesercenti, preoccuperebbero meno dei dati relativi ad altre regioni del Sud (secondo i dati, infatti, un terzo delle imprese soggette ad estorsione in Italia ha sede in Sicilia, dove il 70% e talvolta l’80% delle imprese è vittima di estorsioni, mentre a Napoli, nel Barese e nel Foggiano la quota di imprese soggette a estorsione rispetto al totale è pari al 50%). Ma è davvero così? In realtà, la situazione è di gran lunga peggiore e ciò è confermato anche dall’analisi effettuata dai responsabili degli Uffici di Procura della Repubblica sulla base delle risultanze giudiziarie. Basta il dato dell’usura, che secondo il Rapporto Svimez fa segnare in Calabria la percentuale più alta di commercianti vittime del fenomeno in rapporto ai soggetti attivi: il 30% con 10.500 commercianti coinvolti in regione. Ma anche in questo caso, il quadro sembra notevolmente più preoccupante se si esaminano i dati emersi dalle indagini giudiziarie.
Nell’ambito del distretto di Catanzaro “è praticamente inesistente l’impresa resistente alla criminalità organizzata”. Non esiste, se non in rarissimi casi, la denuncia spontanea all’Autorità Giudiziaria da parte delle imprese vittime della criminalità organizzata semplicemente perché in alcuni distretti del territorio - come quello del vibonese- non esiste la categoria delle “imprese vittime”. Quando non sono direttamente colluse, infatti, le imprese sono acquiescenti alle mire e agli interessi della criminalità organizzata e ciò avviene in tutti gli ambiti economici: imprese agricole (specie nella sibaritide, nell’alto Ionio e nel crotonese), imprese turistiche (nel Vibonese e lungo la costa crotonese), imprese commerciali (nel lametino), grande distribuzione, ma soprattutto nell’edilizia, con un’egemonia mafiosa sull’intero ciclo del cemento. Nel settore turistico, il meccanismo viene svelato grazie ad uno dei rari casi di collaborazione. Il rappresentante di Parmatour SpA in Calabria, con una denuncia all’autorità giudiziaria, rendeva note le sistematiche estorsioni in danno di alcuni villaggi-vacanze in Calabria, di proprietà della società.
I villaggi turistici erano: il Triton Club di Sellia Marina, nonché il Sabbie Bianche e il Baia Paraelios di Parghelia (Vibo Valentia). Gli estorsori venivano indicati come incaricati o appartenenti, per il primo villaggio, alla famiglia Arena di Isola Capo Rizzuto e per gli altri due alla cosca dei Mancuso. Nello specifico, l’operatore economico spiegava che gli Arena ritiravano annualmente la somma di 40.000 euro, oltre ad imporre varie assunzioni di parenti ed amici, mentre i Mancuso, preposti al controllo del “corretto” svolgimento delle attività, avrebbero lucrato un contributo del 10% sugli introiti. Per inciso, in data 28.11.2007, il GIP di Catanzaro ha disposto il giudizio nei confronti dei tre incaricati dei villaggi turistici oggetto delle estorsioni per favoreggiamento, aggravato dalla mafiosità, per avere negato, nel corso delle indagini preliminari, di avere mai ricevuto pressioni estorsive.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
Pizzo e usura, tanti silenzi e Confindustria Reggio commissariata. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 21 aprile 2022
Purtroppo, in questo contesto non si è mai espressa una reale volontà delle imprese di affrancarsi dalla forza pervasiva della mafia. Tanto è vero che, per quanto riguarda il pizzo “pagano tutti, commercianti, artigiani e imprese”. Il numero delle denunce è relativo, quasi inesistente e l’associazionismo è ancora debole; le associazioni antiracket sono, infatti, meno di dieci.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
L’incidenza della criminalità organizzata, già notevole di per sé, diviene devastante in una regione caratterizzata da un tessuto produttivo estremamente debole e da sempre dipendente dalla politica degli incentivi statali e dalla gestione dei flussi di finanziamento pubblico.
Purtroppo, in questo contesto non si è mai espressa una reale volontà delle imprese di affrancarsi dalla forza pervasiva della mafia. Tanto è vero che, per quanto riguarda il pizzo “pagano tutti, commercianti, artigiani e imprese”.
Il numero delle denunce è relativo, quasi inesistente e l’associazionismo è ancora debole; le associazioni antiracket sono, infatti, meno di dieci, a differenza di quanto accade in altre regioni martoriate dalla presenza della criminalità mafiosa.
Non è un caso che Confindustria di Reggio Calabria sia stata commissariata dai vertici nazionali rendendo ancora più macroscopica la differenza con la nuova direzione della Confindustria siciliana e con le iniziative da essa adottate.
Né si può tacere la vicenda che interessa un imprenditore di Crotone il quale, rinviato a giudizio per concorso esterno e associazione mafiosa, ha chiesto al giudice il rito abbreviato ma, nel silenzio dei vertici regionali e nazionali dell’associazione, continua a mantenere la carica di presidente degli industriali di Crotone e di vicepresidente degli industriali della Calabria.
Nel reggino l’usura è diventata ormai una forma di riciclaggio indiretto delle risorse incamerate dalle organizzazioni mafiose attraverso il traffico di sostanze stupefacenti. Ma non bisogna sottovalutare anche la “funzione sociale” che purtroppo l’usura rappresenta su territori controllati dalle cosche ed investiti da forti processi di crisi economica, con le conseguenti difficoltà delle piccole e medie imprese di restare sul mercato.
Il sistema di rapporti che lega la ‘ndrangheta alle imprese appare così stretto e generalizzato da non risparmiare neanche le imprese nazionali che in Calabria riescono ad aggiudicarsi gli appalti per le grandi opere pubbliche, solo in quanto entrano o, peggio, contrattano di entrare nel “sistema di sicurezza” affidato alle famiglie mafiose che controllano il territorio e garantiscono l’impresa da incidenti e danneggiamenti in cambio del 4-5 per cento degli introiti.
Un vero e proprio “costo d’impresa” aggiuntivo. Secondo le dichiarazioni di uno dei pochi collaboratori di giustizia vi sono stati casi in cui gli accordi tra cosche e imprese non si limitavano a fissare l’importo dovuto dall’impresa per essere garantita - nel caso specifico il 5 per cento - ma si occupavano anche di come la stessa potesse recuperare quella “spesa indeducibile”.
Spesso, tale ‘recupero’ avveniva con l’assegnazione di un piccolo appalto per la realizzazione di un’opera di minor valore. Casi come questo sono emblematici ma purtroppo non isolati e dimostrano quanto i costi della criminalità, alla fine del ciclo, si ribaltino sempre sulla collettività.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
LA MAFIA CALABRESE. Così le amministrazioni pubbliche si piegano alla ‘Ndrangheta. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 22 aprile 2022
Le mani delle cosche sulle attività di carattere pubblico rappresentano così un dato costante che spesso assume le forme di una gestione parallela dell’amministrazione della res pubblica, attraverso l’elezione diretta di sindaci ed amministratori locali o il controllo degli apparati amministrativi, dai Comuni alle A.S.L., dalle Asi alle società miste per la gestione dei servizi.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Alle tradizionali forme di arricchimento e di accumulazione dei profitti la ‘ndrangheta coniuga da sempre il proprio primato nella gestione dei grandi flussi di denaro pubblico. Le modalità di accaparramento sono varie (appalti pubblici, contributi, frodi comunitarie, truffe in danni di enti etc.) ma hanno come dato comune il condizionamento degli amministratori locali e l’inquinamento della pubblica amministrazione.
Le mani delle cosche sulle attività di carattere pubblico rappresentano così un dato costante che spesso assume le forme di una gestione parallela dell’amministrazione della res pubblica, attraverso l’elezione diretta di sindaci ed amministratori locali o il controllo degli apparati amministrativi, dai Comuni alle Asl, dalle Asi alle società miste per la gestione dei servizi.
Fondamentale, per la natura stessa della ‘ndrangheta, è il controllo delle istituzioni al livello più immediato del rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Ancora il dott. Scuderi, nella relazione inviata alla Commissione, illustra la costituzione di società “miste” caratterizzate dalla partecipazione dell’amministrazione pubblica e di imprese private a diretta copertura mafiosa, creando una vera e propria compenetrazione delle istituzioni locali con il potere criminale egemone sul territorio. È il caso di molti Comuni.
Un esempio emblematico è rappresentato dal Comune di San Gregorio d’Ippona. Nell’operazione “Rima” sono stati arrestati tre consiglieri comunali di opposizione, tra i quali l’ex sindaco. L’inchiesta ha evidenziato la capacità della cosca “Fiarè”, satellite dei Mancuso, di penetrare nella pubblica amministrazione.
LA VICENDA DI SEMINARA
Ancora più inquietante è la vicenda del Comune di Seminara, situato tra la piana di Gioia Tauro e le falde dell’Aspromonte. Alla vigilia delle elezioni amministrative del 27 maggio 2007 si tiene un incontro tra Rocco Gioffrè, capo della ‘ndrina di Seminara e Antonio Pasquale Marafioti, Sindaco uscente del paese e dubbioso sulla sua ricandidatura: “tu ti devi candidare – dice Gioffrè – perché qui decido io e la tua elezione è sicura. Possiamo contare su mille e cinquanta voti e sono più che sufficienti per vincere”.
La previsione si rivela esatta con una precisione da fare invidia alle migliori società di sondaggi: la lista del sindaco Marafioti, una lista civica di centro-destra, vince con mille e cinquantotto voti. I due non sanno che la conversazione è intercettata dai carabinieri e questo dialogo insieme a tanti altri elementi investigativi, il 17 novembre del 2007 porterà in carcere i due interlocutori e il vice sindaco, Mariano Battaglia, l’ex sindaco al tempo del primo scioglimento del comune nel 1991, Carmelo Buggè e l’assessore Adriano Gioffrè, nipote del boss.
L’inchiesta coordinata dalla D.D.A. di Reggio Calabria ha svelato il controllo completo da parte della cosca Gioffrè sul comune: dalle attività economiche gestite a livello locale alle concessioni comunali, dagli appalti ai progetti di finanziamento con fondi regionali ed europei. Come se non bastasse il “sistema” si estende oltre i confini del comune. Il sindaco Marafioti è anche il Presidente del Pit 19 della Calabria (Consorzio di 10 comuni tutti più grandi di Seminara, amministrati dai più diversi schieramenti politici, dal centro-destra al centro-sinistra) e dispone di fondi per 20 milioni di euro.
Il vice sindaco Battaglia, invece, è il Presidente del Consorzio intercomunale “Impegno giovani” che avrebbe il compito della diffusione della cultura della legalità nelle scuole, con un fondo di 850 mila euro tratti dal Pon – Sicurezza del Ministero dell’Interno.
I clan, secondo i magistrati, non possono perdere occasioni così ghiotte per ingrossare le proprie tasche: alle elezioni del 2007 avvicinano uno ad uno gli elettori, pagano il viaggio degli emigrati per il voto, scelgono il Segretario della I° Sezione elettorale che ha il compito del riepilogo delle preferenze.
E che dire del Comune di Filandari dove il controllo del territorio arriva “al punto da imporre le tasse sui mezzi di trasporto che ne attraversano le strade”. Sono solo alcuni esempi di una situazione molto più diffusa, di quanto si possa immaginare e di quanto gli stessi media non raccontino.
IL CASO PIROMALLI
Ma in Calabria si arriva anche al paradosso. Il rampollo della famiglia mafiosa più importante della Piana, (sentenza del Tribunale civile di Palmi, del 4 luglio 2007) Gioacchino Piromalli, di 38 anni, è condannato al risarcimento di 10 milioni di euro a favore delle amministrazioni comunali di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando di Rosarno.
È una sentenza storica frutto della costituzione di parte civile di queste amministrazioni al momento di avvio del processo “Porto”.
Dopo la condanna Piromalli, che è avvocato, dichiara di essere nulla tenente e di poter procedere al risarcimento solo attraverso prestazioni professionali.
Il tribunale di sorveglianza, come se nulla fosse e come se non conoscesse la reale identità del soggetto, gira la richiesta alle amministrazioni comunali interessate che concordano di accettare il risarcimento come proposto dal Piromalli, rimettendo comunque ogni decisione al tribunale.
La vicenda è ora al vaglio della Procura di Reggio Calabria che ha inquisito i tre sindaci e il vice sindaco di Gioia Tauro per associazione mafiosa “per aver compiuto un atto non di loro competenza per un tipo di risarcimento non previsto dalla legge”.
Al di là delle responsabilità penali resta da chiedere come sia stato possibile che tutti i soggetti, Tribunale di sorveglianza e amministrazioni comunali, abbiano considerato tutto ciò normale, rendendosi protagonisti di una vicenda che ha piegato le istituzioni all’arroganza della ‘ndrangheta.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
LA ‘NDRANGHETA. Comuni sciolti per mafia, quando è lo Stato che cerca di “infiltrarsi”. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 23 aprile 2022
A conferma della gravissima situazione esistente in alcune realtà il Procuratore Nazionale antimafia Piero Grasso, nell’audizione del 7 febbraio 2007, ha affermato: «in certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi», sottolineando così la sottrazione di intere aree del territorio calabrese al governo e al controllo delle istituzioni repubblicane.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
In questo contesto diffuso di degrado politico e della pubblica amministrazione purtroppo non sono molti i consigli comunali calabresi sciolti per infiltrazione mafiosa e sarebbe utile analizzarne approfonditamente le ragioni. Eppure la storia dello scioglimento dei comuni, in un certo senso, comincia proprio nella Piana di Gioia Tauro.
È il 3 maggio 1991, i telegiornali danno notizia di quella che verrà ricordata come la “strage di Taurianova”. Nella cittadina vengono uccise 4 persone. Ad una di esse viene decapitata la testa e lanciata in aria diventa oggetto di un macabro tiro al bersaglio. Il fatto conquista le prime pagine di tutti i giornali italiani e stranieri.
Il governo dell’epoca, nell’ottica dell’emergenza che ha storicamente contraddistinto la storia altalenante della legislazione antimafia, emana il decreto (convertito in legge nel luglio del 1991) con il quale si prevede la possibilità di procedere allo scioglimento dei consigli comunali o provinciali sospettati di essere infiltrati o inquinati dalle cosche mafiose.
Da allora (fino al 2007, ndr) in Italia sono stati sciolti 172 consigli comunali, dei quali 38 in Calabria: 23 in provincia di Reggio, 7 in provincia di Catanzaro, 5 in provincia di Vibo Valentia, 3 in provincia di Crotone. A distanza di alcuni anni, per 3 comuni – Melito Porto Salvo (Rc), Lamezia Terme (Cz) e Roccaforte del Greco (Rc) - si è reso necessario ricorrere ad un secondo scioglimento.
Questo dimostra come la legislazione vigente non è completamente efficace a recidere i legami tra le organizzazioni mafiose ed esponenti del mondo politico e come lo scioglimento non abbia sempre rappresentato e non rappresenti tuttora un’occasione di bonifica della macchina amministrativa che spesso, anche a consigli comunali sciolti, continua a garantire le stesse logiche di governo del territorio, gli stessi interessi e gli stessi contatti con i boss.
IL CASO LAMEZIA TERME
Alcuni comuni, tra il 2004 e il 2005, hanno fatto ricorso al Tar o al Consiglio di Stato per impugnare il provvedimento di scioglimento e per 5 di essi il ricorso è stato accolto. Si tratta dei comuni di Santo Andrea Apostolo sullo Ionio, Botricello, Cosoleto, Monasterace, Africo e Strongoli.
Osservando le dimensioni dei comuni sciolti, Lamezia Terme, con i suoi 70 mila abitanti, è l’unico di dimensioni elevate e dopo due scioglimenti (30 settembre 1991 e 5 novembre 2002) ha intrapreso la strada di una difficile ricostruzione del tessuto democratico.
Seguono altri 2 comuni con una popolazione inferiore ai 20 mila abitanti, Melito Porto Salvo (30 settembre 1991 e 28 febbraio 1996) e Roccaforte del Greco (10 febbraio 1996 e 27 ottobre 2003), tutti in provincia di Reggio Calabria. Gli altri scioglimenti hanno riguardato comuni non superiori a 5 mila abitanti quando non di piccolissime dimensioni come Marcedusa, Calanna e Camini, inferiori ai mille abitanti.
A conferma della gravissima situazione esistente in alcune realtà il Procuratore Nazionale antimafia Piero Grasso, nell’audizione del 7 febbraio 2007, ha affermato: «In certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi», sottolineando così la sottrazione di intere aree del territorio calabrese al governo e al controllo delle istituzioni repubblicane.
Quanto ciò incida non solo sul sistema dei diritti e sul bene comune ma anche sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini ha «segni evidenti e tipici del governo del territorio da parte di amministratori organici alla mafia o collusi e dunque caratteristiche comuni alle amministrazioni sotto il controllo mafioso sono costituiti inoltre dall’assenza di piani regolatori, dell’assoluta inefficienza dei servizi di polizia municipali, da gravi disservizi nella raccolta e nello smaltimento dei rifiuti, dal dilagante e distruttivo abusivismo edilizio, da gravi carenze nella manutenzione di infrastrutture primarie (strade, scuole, asili), da assunzioni clientelari di personale, da anomalie nell’affidamento di appalti e servizi pubblici, ma, soprattutto, dalle drammatiche condizioni di dissesto finanziario».
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
LA MAFIA CALABRESE. La ricchezza delle mafie e quei beni confiscati destinati all’abbandono. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 24 aprile 2022
È interessante comprendere quanto, nonostante gli sforzi ed i risultati ottenuti dalla magistratura e dalle forze di polizia, di fronte alla potenza economica accertata della ‘ndrangheta sia risibile il livello dell’aggressione ai suoi patrimoni.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
La forte incidenza della vera e propria patologia calabrese nella gestione ed erogazione dei fondi comunitari, legata anche al livello di penetrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni pubbliche, a vario titolo coinvolte nei procedimenti amministrativi di erogazione dei fondi, è ricavabile anche dall’analisi dei casi di frodi complessivamente svolta a livello annuale dall’Olaf.
L’incidenza finanziaria totale delle irregolarità, compresi i sospetti di frode, stimata per l’intera Unione Europea, era stata, nel 2006, di 1.155,32 milioni di euro, con 12.092 irregolarità comunicate da tutti gli stati membri. Il dato inquietante è che nella sola Calabria, con una popolazione pari a circa lo 0,4 per cento di quella europea, si consuma l’1,58 per cento del totale delle frodi ai danni del bilancio comunitario e le indebite percezioni in Calabria ammonterebbero a circa il 6,54 per cento del totale comunitario.
A fronte del quadro appena descritto risulta evidente che il rafforzamento economico e finanziario della ‘ndrangheta è passato anche attraverso una paziente ed incessante opera di appropriazione indebita di pubblici finanziamenti destinati al sistema delle imprese.
Questo costante travaso non è stato e non è sufficientemente contrastato dalle pubbliche amministrazione regionali e locali, anche quando esse non risultano contigue o non favoriscono direttamente le indebite appropriazioni.
Così come, assolutamente insufficiente appare la legislazione in materia di controlli sui procedimenti di aggiudicazione, lasciati esclusivamente al potere di auto-organizzazione delle stesse amministrazioni erogatrici dei finanziamenti, creando un meccanismo di commistione e di autotutela reciproca tra controllori e controllati.
Il potenziale economico della mafia calabrese, la capacità pervasiva dei suoi capitali ed il suo dinamismo sui mercati internazionali ripropongono la centralità dell’aggressione alle ricchezze ed ai capitali mafiosi per incrinare la forza delle cosche sul territorio e la loro capacità di conquistare consenso sociale.
Nel corso della XIII legislatura la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia approvò una relazione sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Calabria in cui veniva posto l’accento sul divario crescente tra ricchezze criminali e numero e valore dei beni individuati, a loro volta di gran lunga maggiori rispetto a quelli posti sotto sequestro ed a quelli poi fatti oggetto di confisca.
L’inchiesta condotta da questa Commissione ha consentito, in più occasioni, di riscontrare il permanere delle difficoltà in cui versa l’azione di contrasto patrimoniale; difficoltà accentuate dalla scelta operata dalle cosche di separare nettamente i canali della conduzione materiale del traffico di sostanze stupefacenti dai canali finanziari (attraverso cui vengono effettuati i pagamenti relativi al traffico di stupefacenti e gli investimenti dei profitti illeciti) e rese plasticamente visibili dall’enorme divario tra beni sequestrati e beni confiscati. È interessante comprendere quanto, nonostante gli sforzi ed i risultati ottenuti dalla magistratura e dalle forze di polizia, di fronte alla potenza economica accertata della ‘ndrangheta sia risibile il livello dell’aggressione ai suoi patrimoni.
I BENI CONFISCATI
Secondo i dati forniti dall’Agenzia del Demanio ed aggiornati al dicembre 2006, sul territorio della Calabria insistono 1.093 beni immobili confiscati dal 1982 al 2006, pari al 15 per cento degli immobili confiscati in totale sul territorio nazionale. Più in dettaglio, sul totale di 1.093 beni immobili confiscati, la consistenza per tipologie è la seguente: abitazioni 562, pari al 51,4 per cento del totale; terreni 363, pari al 33,2 per cento del totale; locali 122, pari all’11,1 per cento del totale; capannoni 18, pari all’1,6per cento del totale; altri beni immobili 28, pari al 2,6per cento del totale.
Per quanto concerne il rapporto tra il territorio calabrese e l’attività di confisca, i beni immobili confiscati nella regione sono 886, pari al 12 per cento del totale nazionale confiscato. All’esito di recenti indagini giudiziarie è stato accertato che, sul totale di 1.093 beni immobili confiscati esistenti nel territorio calabrese, oltre 800 sono i beni immobili confiscati nella sola provincia di Reggio Calabria; di essi, poco più di 300 risultano consegnati dall’Agenzia del demanio alle competenti amministrazioni comunali.
Dall’indagine è emerso che gli immobili confiscati e consegnati a 25 comuni della provincia di Reggio Calabria, compreso il comune capoluogo, hanno avuto la seguente sorte: - sono stati assegnati ad enti e/o associazioni con notevole ritardo; - alcuni di essi non sono stati mai assegnati ad alcun ente; - altri ancora risultano in uso e/o nella disponibilità dei soggetti nei cui confronti lo Stato aveva proceduto alla confisca.
In relazione ai fatti appena riportati in sintesi, sono state accertate responsabilità di rilievo penale a carico di amministratori e funzionari di 25 comuni della provincia di Reggio Calabria, compreso il comune capoluogo.
Peraltro, in alcuni casi sono state accertati diretti legami di parentela tra amministratori e funzionari dei Comuni in questione e soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta. Le condotte accertate nel corso delle indagini sono sintomatiche, da un lato, delle difficoltà a rendere efficace un’azione che miri alla sottrazione alle cosche della disponibilità di beni di provenienza illecita; dall’altro lato offrono la possibilità di comprendere quanta resistenza oppongano le organizzazioni colpite da provvedimenti di sequestro o confisca dei beni.
Un esempio dell’arrogante potere esercitato dalle cosche sul territorio anche con riferimento all’azione che lo Stato riesce a portare avanti in questo campo, può essere tratto dal comune di Gioia Tauro, ove sono state riscontrate situazioni in cui soggetti appartenenti a cosche molto forti come quelle facenti capo alle famiglie Piromalli e Molè hanno ancora nella propria disponibilità i beni ad essi confiscati; a ciò si aggiunga l’opposizione e la reazione delle cosche all’assegnazione dei beni confiscati a finalità sociali, come previsto dalla legge 109/1996: a tal proposito, non si può dimenticare, per restare agli avvenimenti degli ultimi tempi, la distruzione dei macchinari e danneggiamenti ai capannoni della cooperativa agricola Valle del Marro - Libera Terra nell’estate del 2007. […].
Simile la situazione per le aziende confiscate alla ‘ndrangheta. Dai dati forniti dall’Agenzia del Demanio emerge che nel periodo 1982/2006 in Calabria sono state confiscate 59 aziende, pari al 7per cento del totale delle aziende confiscate su scala nazionale. Più in dettaglio, la tipologia di beni aziendali confiscati risulta la seguente: imprese individuali 35, pari a circa il 60 per cento del totale; società in nome collettivo 5, pari all’8,5 per cento del totale; soc. in accom. semplice 9, pari a circa il 15per cento del totale; soc. a responsab. limitata 9, pari a circa il 15per cento del totale; società per azioni 1, pari a circa l’1,5per cento del totale.
Rispetto al dato nazionale si rileva una differenza: la maggior parte delle aziende confiscate, circa il 60per cento, è costituita da imprese individuali, alle quali si aggiunge circa il 24per cento di società di persone (s.a.s. e s.n.c.). La media nazionale, invece, evidenzia che il 51per cento delle aziende confiscate è rappresentato da società di capitali.
Le aziende confiscate operavano nei seguenti settori: costruzioni (16), commercio (18), alberghi e ristoranti (2), agricoltura (14), trasporti e magazzinaggio (3), manifatturiero (2), estrazione di minerali (1), pesca (1), altre attività (2).
Questi dati molto parziali indicano la tendenza della ‘ndrangheta ad investire nei settori del commercio, delle costruzioni e dell’agricoltura.
Anche per la Calabria, infine, si confermano i gravi limiti, fino al danno per la credibilità del contrasto ai patrimoni ed alle ricchezze mafiose, dell’azione dell’Agenzia del Demanio nella gestione dei beni. Si ripropone, quindi, l’esigenza di un suo superamento parallelo all’adeguamento dell’intera legislazione sulla materia
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
LA MAFIA CALABRESE. Cocaina, la ‘Ndrangheta ha conquistato Milano e la Lombardia. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 25 aprile 2022
Milano e la Lombardia rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ‘ndrangheta in tutto il nord Italia. Di questi insediamenti è utile fornire alcuni brevi spaccati, tutti legati a doppio filo con i territori d’origine com’è caratteristica della ‘ndrangheta e come indicato dalla ricostruzione della mappa delle famiglie in altra parte di questa relazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Milano e la Lombardia rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ‘ndrangheta in tutto il nord, dalle coste adriatiche della Romagna ai litorali del Lazio e della Liguria, dal cuore verde dell’Umbria alle valli del Piemonte e della Valle d’Aosta.
Di questi insediamenti è utile fornire alcuni brevi spaccati, tutti legati ferreamente a doppio filo con i territori d’origine com’è caratteristica della ‘ndrangheta e come indicato dalla ricostruzione della mappa delle famiglie in altra parte di questa relazione.
Il 13 gennaio 1994 nel corso dell’XI Legislatura la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia approvava la relazione sugli insediamenti e le infiltrazioni di organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali, le principali regioni del Nord e del Centro Italia.
La relazione si collocava contestualmente in quella stagione straordinaria di lotta alla mafia che, soprattutto in Lombardia, aveva visto la disarticolazione di intere organizzazioni a seguito di operazioni di polizia coordinate dalle Procure Distrettuali che avevano portato all’arresto, e quasi sempre alla condanna, di migliaia di appartenenti a gruppi criminali soprattutto affiliati alla ‘ndrangheta.
La relazione già evidenzia come in Lombardia la ‘ndrangheta era l’organizzazione più potente, cita i risultati di operazioni quali Wall Street e Nord-Sud che allora erano in pieno svolgimento e che, insieme alle successive, in particolare l’operazione Count Down dell’ottobre 1994 e l’operazione Fiori della Notte di San Vito, del novembre 1996, riguardante il clan Mazzaferro,sono sfociate nei grandi dibattimenti sino ai primi anni del 2000 che si sono conclusi con centinaia di condanne.
LE INCHIESTE DEGLI ANNI NOVANTA
Si può affermare che con tali operazioni è stata quasi eliminata la componente militare di imponenti organizzazioni, dai soldati fino ai generali, e sono stati “riconquistati” dalle forze dello Stato territori che erano fortemente condizionati da cosche come quelle di Coco Trovato nel lecchese, i Morabito-Palamara-Bruzzaniti e i Papalia-Barbaro-Trimboli.
Da allora nessun’altra indagine approfondita di impulso parlamentare si è occupata degli insediamenti mafiosi in Lombardia nonostante il nord del paese e Milano siano stati investiti da grandi processi di trasformazione economici e sociali, di deindustrializzazione di intere aree e periferie urbane e, in questi cambiamenti, le mafie abbiano riguadagnato silenziosamente ma progressivamente terreno.
Le ‘ndrine sono state in grado di recuperare il terreno perduto grazie ad una strategia operativa che ha evitato manifestazioni eclatanti di violenza, tali da attirare l’attenzione e divenire controproducenti, attuando piuttosto un’infiltrazione ambientale anonima e mimetica tale da destare minor allarme sociale e da far assumere alle cosche e ai loro capi le forme rassicuranti di gestori e imprenditori di attività economiche e finanziarie del tutto lecite.
In tal modo si è realizzato un controllo ambientale che, in sentenze già passate in giudicato, è stato definito “selettivo” e cioè strettamente funzionale nel suo “stile” al raggiungimento degli scopi del programma criminoso in un’area geografica giustamente ritenuta diversa per cultura, mentalità e abitudini rispetto a quella di origine.
Non per questo un controllo meno pericoloso in quanto più idoneo, proprio per la sua invisibilità, a rimanere occulto e ad essere meno oggetto di risposte tempestive da parte delle forze dell’ordine e della società civile.
La strategia di “inabissamento” di queste cosche invisibili che sono riuscite a riprodursi nonostante i colpi loro inferti dalle grandi indagini degli anni ’90 è stata favorita da un insieme di condizioni.
In sintesi i fattori che negli ultimi anni hanno giocato a vantaggio delle cosche operanti in Lombardia possono essere i seguenti: - la capacità delle cosche, e soprattutto quelle calabresi per la loro strutturazione familistica di tipo orizzontale, di rigenerarsi tramite l’entrata in gioco di figli e familiari di capi-cosca arrestati e condannati all’ergastolo o a pene elevatissime a seguito dei processi degli anni ’90.
In pratica ogni cosca, da quella di Coco Trovato a quella di Antonio Papalia a quella dei Sergi, ha visto il formarsi, sotto la guida dei capi detenuti, di una nuova generazione; - le scarse risorse specializzate messe in campo dallo Stato in Lombardia e in genere nel Nord-Italia per combattere la mafia. Basti pensare ad un distretto come quello di Milano che comprende anche città con forte presenza mafiosa come Como, Lecco, Varese e Busto Arsizio, con le forze in campo costituite da poco più di 200 uomini: 40 uomini del Ros carabinieri, 50 uomini del Gico, 55 dello Sco della Polizia di stato cui si aggiungono 68 uomini della Dia che ha competenza peraltro su tutta la Lombardia; - l’insufficienza di uomini, più volte denunziato dai rappresentanti della Dda è pari all’insufficienza di mezzi, causa spesso del rallentamento di alcune indagini; - altro elemento che ha influito soprattutto nell’opinione pubblica è rappresentato dall’esplosione, negli ultimi anni, del tema della percezione della sicurezza che, soprattutto in un’area come Milano e il suo hinterland ha spostato l’attenzione sulla microcriminalità in genere collegata alla presenza di stranieri e di altri soggetti operanti sul terreno della devianza sociale.
E ciò, nonostante l’incessante lavoro e i risultati importanti ottenuti dalla Dda. In questo contesto di “disattenzione” le cosche hanno scelto come sempre le attività criminose più remunerative con minori rischi e hanno evitato, per quanto possibile ma con successo, le faide interne e i regolamenti di conti che avevano preceduto soprattutto con sequele impressionanti di omicidi le indagini degli anni ’90 e che avevano avuto l’effetto di suscitare un immediato e controproducente allarme sociale.
Del resto in una metropoli come Milano in cui, secondo le statistiche, circa 120.000 milanesi fanno uso stabile o saltuario di cocaina, c’è “posto per tutti” ed è stato possibile, per i vari gruppi attuare una divisione del mercato e del lavoro in grado di soddisfare tutti senza concorrenze sanguinose, dall’acquisto delle grosse partite sino alla rivendita nelle varie zone.
Le numerose operazioni condotte dalle forze dell'ordine e dalla magistratura hanno consentito di delineare un quadro della criminalità organizzata, prevalentemente di matrice calabrese, presente sul territorio lombardo.
Le cosche ivi operanti, sviluppatesi con i tratti tipici della malavita associata negli anni '70, presentano una struttura costante, caratterizzata da un nucleo di persone legate strettamente tra loro da vincoli di parentela, spesso formalmente affiliate alla 'ndrangheta, a cui si affianca una base numericamente più ampia con funzioni esecutive, che assicura un apporto continuo nella realizzazione degli obiettivi criminali.
Malgrado il contatto con realtà diverse, i componenti di questi gruppi hanno mantenuto le peculiarità comportamentali e gli atteggiamenti culturali della criminalità organizzata calabrese.
IL RADICAMENTO DELLE COSCHE
La Lombardia è da sempre retroterra strategico dei più importanti sodalizi criminali calabresi e gli eventi registrati offrono ulteriori riscontri per quanto concerne la massiccia presenza nella regione di soggetti legati alla ‘ndrangheta, con interessi, come si vedrà, principalmente nel settore del traffico di stupefacenti, nella gestione dei locali notturni e nell’infiltrazione all’interno dell’imprenditoria edilizia.
Anche per la ‘ndrangheta, sul territorio lombardo, prevale una strategia di un basso profilo di esposizione, pur non mancando atti violenti, quali l’agguato in viale Tibaldi di Milano, dell’aprile 2007, ove un pregiudicato calabrese è stato ferito con colpi di arma da fuoco per motivi forse correlabili alle attività illegali del caporalato, che sembra costituire un mercato in espansione per la ‘ndrangheta.
Non sono neppure mancati episodi estorsivi, che hanno coinvolto pregiudicati di origine calabrese, con interessi nel campo dell’edilizia a Caronno Pertusella (Va). Tuttavia l’aspetto militare, pur se cautelativamente messo in sonno, non è certo stato abbandonato dalla strategia dei gruppi calabresi e si ha almeno un esempio di tale potenzialità dal sequestro di un imponente arsenale a disposizione della ‘ndrangheta calabrese rinvenuto in un garage di Seregno nell’ambito dell’operazione “Sunrise” nel giugno 2006.
L’arsenale era a disposizione di Salvatore Mancuso e del suo gruppo appartenente al clan di Limbadi (Vv) da tempo sbarcato in Brianza.
Un vero e proprio deposito di armi micidiali: kalashnikov, mitragliatori Uzi, Skorpion, munizioni e cannocchiali di precisione, bombe a mano. Le attività criminali accertate sono state le truffe, il traffico di droga e l’associazione a delinquere finalizzata all’usura. Il prosieguo dell’indagine consentiva l’ulteriore arresto complessivamente di 32 persone, originarie del Vibonese, indiziate di traffico di droga, usura e truffe.
Le attività usurarie venivano praticate attraverso un membro dell’organizzazione, titolare di imprese edili ed altre società, che erogava a imprenditori in difficoltà prestiti con interessi fino al 730 per cento. Le truffe avvenivano, con meccanismi complessi di mancati pagamenti, ai danni di società di lavoro interinale, conseguendo illeciti introiti per oltre 800 mila euro.
Le indagini hanno messo in luce anche un elevatissimo gettito, proveniente dalle attività estorsive e valutato in circa 3 milioni di euro.
Da quanto detto consegue che l’attività assolutamente prevalente, quella che si potrebbe dire di “accumulazione primaria”, rimane l’introduzione e la vendita di partite di sostanze stupefacenti, in assoluta prevalenza cocaina, canalizzate in Italia tramite i contatti anche stabili e “residenziali” delle cosche con i fornitori operanti nell’area della Colombia e del Venezuela.
In questo campo l’attività di contrasto è stata in grado in questi ultimi anni di assestare alla “nuova generazione” delle cosche alcuni colpi importanti che tuttavia, data l’enorme estensione del mercato e l’enormità dei guadagni e dei ricarichi, sono passibili di essere riassorbiti dai gruppi come una sorta di rischio d’impresa in termini di perdita temporanea di uomini e di guadagni.
Tra le operazioni condotte con successo si può citare la “Caracas Express” eseguita dalla squadra mobile di Milano che ha portato all’emissione di 47 ordini di custodia nei confronti di appartenenti al clan di Rocco Molluso e Davide Draghi di Oppido Mamertina appartenente all’area dei Barbaro-Papalia ed operante in particolare nella fascia Sud-est di Milano.
IL NARCOTRAFFICO
La potenzialità di mercato di tale gruppo, che dà il senso dell’entità complessiva dello spaccio di cocaina a Milano, era evidenziata dall’acquisto e dalla rivendita ogni mese di 20 chili di cocaina purissima proveniente dal Sud America.
Sui rapporti tra la ‘ndrangheta e i cartelli colombiani produttori di cocaina, sono importanti i riscontri dell’Operazione “Stupor Mundi”, conclusasi nel mese di maggio 2007 a Reggio Calabria con l’emissione di 40 arresti. La dimensione del traffico era desumibile dalla dimostrata capacità degli arrestati di acquistare partite, fino a tremila chili, di stupefacente allo stato puro, direttamente dalla Colombia.
La cocaina sequestrata nel corso dell’operazione aveva un valore sul mercato di circa 60 milioni di euro. Venivano accuratamente ricostruite le rotte dei traffici di cocaina che, partendo dal Sud America, ed in particolare dalla Colombia, giungevano, attraverso l’Olanda, soprattutto in Piemonte ed in Lombardia.
Estremamente significativa dell’incidenza del monte di affari prodotti dai traffici di cocaina è il riciclaggio in attività imprenditoriali e la capacità di gruppi con i propri capi condannati all’ergastolo di rimpadronirsi in pochi anni del territorio. Lo ha dimostrato l’indagine “Soprano” che ha visto nel dicembre del 2006 l’arresto, ad opera della Polizia di stato e della Guardia di Finanza, di 37 persone appartenenti alla famiglia Coco Trovato.
Tale famiglia nonostante la condanna all’ergastolo dei capi Franco Coco Trovato e Mario Coco Trovato è riuscita infatti a rioccupare il territorio di influenza, e cioè quello di Lecco, grazie alla discesa in campo e alla reggenza di figli, nipoti e consanguinei indicati nell’ordinanza di custodia cautelare. [...] Uno spaccato particolare è rappresentato da Quarto Oggiaro, il quartiere popolare da sempre tra i più degradati della periferia nord-ovest di Milano.
Una vera e propria zona franca per l’illegalità, con settecento delle quattromila case popolari gestite dalla Aler, l’ente comunale milanese che amministra il patrimonio edilizio pubblico, occupate abusivamente e con l’accesso controllato direttamente dagli uomini della ‘ndrangheta.
In questo territorio, suscitando grande clamore sui media locali, nell’estate del 2007 è ricomparso in forze il gruppo Carvelli di Petilia Policastro (Kr), anch’esso colpito dalle indagini degli anni ’90 ma ugualmente riuscito a riprodursi. Alcuni interventi di polizia hanno fatto emergere un vero e proprio controllo militare dello spaccio tra i casermoni del quartiere con file di acquirenti che si presentavano praticamente alla luce del sole nei vari punti dove operavano gli spacciatori stabilmente presidiati da chi era addetto alla guardia e al rifornimento.
Risale allo stesso mese di agosto 2007, e cioè poco dopo il fallito tentativo di “bonifica” di Quarto Oggiaro, l’omicidio proprio di Francesco Carvelli figlio dell’ergastolano Angelo Carvelli e nipote del sorvegliato speciale Mario Carvelli, considerato l’attuale padrone del quartiere.
Il regolamento di conti, uno dei non numerosi verificatisi negli ultimi anni, risponde con ogni probabilità ad una logica di assestamento dei rapporti tra i vari gruppi operanti nell’area.
L’enorme liquidità in eccesso prodotta dai traffici di cocaina e in misura minore ma significativa dalle estorsioni viene canalizzata, secondo i dati che provengono dalle principali strutture investigative e fra di esse la Dia, in alcuni settori produttivi ed economici attraverso imprese apparentemente legali.
Si tratta del settore dell’edilizia nel quale va compreso sia a Milano sia nell’hinterland quello degli scavi e del movimento terra, delle costruzioni vere e proprie, sino all’intermediazione realizzata da agenzie immobiliari collegate, del settore ristoranti e bar, del settore delle agenzie che forniscono addetti ai servizi di sicurezza, soprattutto per locali pubblici e discoteche; del settore dei servizi di logistica, cioè il facchinaggio e la movimentazione di merci, con la gestione di società cooperative, come quelle controllate dalle cosche presso l’Ortomercato di Milano.
Storicamente, però, per le cosche calabresi l’edilizia rappresenta il settore primario che consente, fra l’altro, di utilizzare anche mano d’opera a bassa specializzazione e di sviluppare e controllare fenomeni quali il caporalato delle braccia.
Questa attività criminale sfrutta da anni manodopera clandestina giunta sulle coste crotonesi e catanzaresi con le carrette del mare e fatta fuoriuscire dai Cpt di Crotone e Rosarno. Anche nell’edilizia non mancano le estorsioni in danno di concorrenti o di imprese riottose.
Lo testimoniano incendi in cantieri o danneggiamenti di attrezzature che vengono segnalati soprattutto nell’hinterland. Tuttavia persino le minacce estorsive non sono necessarie quando, come nella maggioranza dei casi, si verte in realtà in una situazione di completo monopolio ed in ampie zone della Brianza o del triangolo Buccinasco-Corsico-Trezzano non è nemmeno pensabile che qualcuno con proprie offerte o iniziative “porti via il lavoro” alle cosche calabresi che hanno le loro imprese diffuse sull’intero territorio. Con i quali poi vengono pagate le reciproche prestazioni, hanno la possibilità di nascondere l’origine di somme provenienti dai traffici illeciti e di ottenere in modo abbastanza semplice flussi di denaro pulito.
In questo senso appare pienamente condivisibile il giudizio finale formulato dal responsabile della Dda presso la Procura di Milano secondo cui in settori come quello dell’edilizia non è nemmeno necessaria l’intimidazione diretta poiché è sufficiente l’intimidazione “percepita”, cioè quella non esercitata con minacce aperte ma con la semplice “parola giusta al momento giusto”.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
LA MAFIA CALABRESE. L’Ortomercato, il movimento terra e il riciclaggio di denaro sporco. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 26 aprile 2022.
Già nel 1993 un’indagine della Dda di Milano aveva messo in luce un commercio di cocaina e di eroina tra Italia, Sud-America e Thailandia per 300 chilogrammi di sostanze al mese che viaggiavano appoggiandosi alla Sical Frut una società che operava presso l’Ortomercato di Milano e rispondeva allo stesso clan dei Morabito
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
L’intervento dell’Autorità giudiziaria ha anche portato alla luce l’infiltrazione diffusa e organica in un settore strategico dell’economia lombarda, e quello relativo all’insediamento o meglio reinsediamento della cosca Morabito-Bruzzaniti-Palamara all’interno dell’Ortomercato di Via Lombroso.
L’Ortomercato di Milano è il più grande d’Italia. Ogni notte vi fanno capo centinaia di camion che distribuiscono i prodotti in tutta la regione. Dei tremila lavoratori impiegati quasi la metà sono irregolari. Il giro di affari è di 3 milioni di euro al giorno con 150 tra imprese e cooperative interessate.
Già nel 1993 un’indagine della Dda di Milano aveva messo in luce un commercio di cocaina e di eroina tra Italia, Sud-America e Thailandia per trecento chilogrammi di sostanze al mese che viaggiavano appoggiandosi alla Sical Frut una società che operava presso l’Ortomercato di Milano e rispondeva allo stesso clan dei Morabito.
L’ordinanza di custodia cautelare emessa in data 26.4.2007 nei confronti di Salvatore Morabito, Antonino Palamara, Pasquale Modaffari e altre 21 persone ha messo in luce che la cosca Morabito-Bruzzaniti grazie all’arruolamento dell’imprenditore Antonio Paolo titolare del consorzio di cooperative Nuovo Co.Se.Li. era riuscita ad utilizzare le strutture dell’Ortomercato e i suoi uffici come punto di riferimento per gli incontri, e logistico per la gestione di grosse partite di sostanze stupefacenti.
Tra di esse i 250 chilogrammi di cocaina provenienti dal Sud America, giunta in Senegal a bordo di un camper e sequestrati in Spagna dopo aver viaggiato sotto la copertura di un’attività di rallye.
La cosa che più inquieta è che Morabito, appena terminato nel 2004 il periodo di soggiorno obbligato ad Africo, grazie all’arruolamento dell’operatore economico Antonio Paolo, aveva goduto per i suoi spostamenti all’interno dell’area commerciale addirittura di un pass rilasciato dalla So.Ge.Mi. e cioè la società che gestisce per conto del Comune di Milano l’intera area dell’Ortomercato.
Al punto che il Morabito entrava nell’Ortomercato con la Ferrari di sua proprietà. Tale mancanza di controlli appare peraltro diretta conseguenza del fatto che da tempo l’area, nonostante la gestione comunale, era divenuta “zona franca”, controllata da un caporalato aggressivo, padrone del lavoro nero e all’interno della quale il Presidio di Polizia risultava chiuso da anni, mentre i Vigili Urbani evitavano quasi sempre di intervenire.
La capacità di influenza di Morabito era giunta al punto che il suo “controllato”, Antonio Paolo, aveva acquistato le quote della società Spam srl che, per ragioni di certificazione antimafia Morabito e i suoi associati non avevano più potuto gestire formalmente, e tale società aveva chiesto e ottenuto dalla So.Ge.Mi., e quindi in pratica dal Comune, la concessione ad aprire nello stabile di Via Lombroso, ove peraltro ha sede la stessa So.Ge.Mi il night club “For the King”, inaugurato il 19.4.2007 alla presenza di noti boss della ‘ndrangheta come, tra gli altri, Antonino Palamara. Il sequestro preventivo delle quote sociali della Spam è stato adottato dal GIP di Milano e confermato dal Tribunale del Riesame il 5.6.2007.
I provvedimenti dell’autorità giudiziaria di Milano con i quali sono state sequestrate le quote sociali della Spam srl evidenziano un’altra ragione di interesse. Antonio Paolo, dopo aver rilevato la società nella quale Morabito era rimasto il socio occulto e il vero dominus, aveva ottenuto dalla Banca Unicredit ed esattamente dalla filiale della centrale via San Marco di Milano un anomalo finanziamento di 400mila euro che doveva servire a pagare le spese della ristrutturazione del night For the King, peraltro a posteriori, visto che la ristrutturazione era già avvenuta.
Ciò mette a nudo un sistema col quale non solo qualche Cassa Rurale di provincia ma anche istituti maggiori assicurano finanziamenti a noti esponenti mafiosi senza effettuare i controlli necessari e senza chiedersi chi siano i soggetti così indebitamente favoriti.
Un’altra conseguenza significativa dell’indagine relativa alle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ortomercato è stato il sequestro propedeutico alla confisca di numerose quote societarie e beni immobili per un valore complessivo di quasi quattro milioni di euro effettuato nei confronti di due fiduciari del gruppo Morabito-Bruzzaniti e cioè Francesco Zappalà, un dentista che non aveva mai esercitato la sua professione medica, ma che disponeva a Milano di una villa lussuosa e del suo braccio destro Antonio Marchi.
L’evidente sproporzione tra i redditi dichiarati e gli investimenti societari e immobiliari effettuati certamente come prestanome della cosca di riferimento, ha consentito infatti il sequestro di quote sociali di varie società utilizzate per l’acquisto di immobili, di appartamenti e bar a Milano, uno dei quali in zona abbastanza centrale, di una villa con box a Cusago nell’hinterland milanese, di terreni nel torinese, di appartamenti a Massa Carrara e a Finale Ligure nonché di terreni a Bova Marina, nel reggino, zona di provenienza di quasi tutti i componenti del gruppo.
L’INCHIESTA DIRTY MONEY
Lo scenario dell’indagine chiamata Dirty Money, resa possibile da una stretta collaborazione tra le autorità elvetiche e quelle italiane, vede, secondo la ricostruzione dell’accusa, la presenza della cosca Ferrazzo di Mesoraca (KR) ramificatasi in Lombardia tra Varese e Ponte Tresa e in Svizzera a Zurigo. Proprio qui vengono allestite due grosse “lavatrici”, e cioè due società finanziarie, la Wsf ag e la Pp finanz ag che dovevano occuparsi di raccogliere i capitali di investitori svizzeri e internazionali per intervenire sul mercato Forex ed operare transazioni su divise.
In realtà tali finanziarie erano divenute il luogo ove depositare e far transitare ingenti somme provenienti dalle attività illecite della cosca. A partire dall’inizio degli anni 2000, era iniziata la programmata spoliazione delle società stesse, con il dirottamento dei capitali, sia quelli di provenienza illecita sia quelli affidati dagli investitori a conti offshore e società nella disponibilità degli amministratori, tutti legati direttamente o indirettamente alla ’ndrangheta.
Prima che il caso esplodesse e che nel 2003 fosse dichiarato il fallimento di entrambe le società operanti in Svizzera, con la distrazione di decine di milioni di franchi, l’obiettivo dell’operazione era il reimpiego dei capitali puliti in investimenti immobiliari di prestigio in Sardegna e in Spagna, sempre controllati dalla cosca regista del progetto.
Tali investimenti, che avrebbero così consentito di far rientrare in Italia e di ripulire somme notevoli in attività formalmente lecite, sono stati interrotti solo dalle indagini.
L’indagine Dirty Money, caratterizzata da complessi accertamenti finanziari, costituisce un passo importante perché forse per la prima volta in Lombardia non ci si è trovati di fronte al caso tipico di riciclaggio reso possibile dall’intervento di un funzionario di banca compiacente o al riciclaggio consueto in esercizi di ristorazione.
È un fenomeno ben diverso e, per così dire, “strutturale”, costituito dalla scelta del gruppo criminale di allestire in proprio una grossa macchina societaria, funzionale ai suoi scopi e utilizzata non solo per inghiottire i depositi degli investitori, ma per ripulire ingenti masse di denaro provenienti dalle attività illecite condotte in Italia.
Le indagini attualmente più significative evidenziano preoccupanti segnali della persistente presenza di organizzazioni di tipo mafioso, che, soprattutto nell’area metropolitana di Milano e nelle province confinanti, si caratterizzano più per una capillare occupazione di interi settori della vita economica e politico-istituzionale, che per la tradizionale e brutale gestione militare del territorio in connessione con le attività tipiche delle associazioni mafiose: dal traffico di stupefacenti all’usura, allo sfruttamento della prostituzione e alle estorsioni in danno dei pubblici esercizi, ecc..
In sostanza, nelle zone a più alta densità criminale, Rozzano, Corsico, Buccinasco, Cesano Boscone, per citarne alcuni, le tradizionali famiglie malavitose di origine meridionale, sempre più saldamente radicate al territorio, hanno iniziato a gestire e a sfruttare le zone di influenza, stringendo, dal punto di vista istituzionale, alleanze con spregiudicati gruppi politico-affaristici e, dal punto di vista economico, inserendosi nel campo imprenditoriale con illimitate disponibilità economiche.
Altra indagine di rilievo nasce dagli accertamenti espletati dal Ros Carabinieri, in aggiunta a quelli già svolti dalla Dia in relazione ad un esposto anonimo, che segnalava inquietanti rapporti tra personaggi di un Comune dell’hinterland milanese e gruppi malavitosi organizzati di stampo mafioso localizzati nel medesimo comune e in quelli limitrofi.
Le più recenti acquisizioni investigative hanno anche confermato l’esistenza in un altro Comune dell’hinterland milanese di un gruppo politico-affaristico ed un continuo riferimento ai “calabresi”, anche in relazione alle recenti elezioni amministrative. Nell’ambito di un altro procedimento penale è emerso il coinvolgimento di elementi appartenenti alla Cosca di Isola Capo Rizzuto nell’acquisizione illecita degli appalti dell’alta velocità ferroviaria e del potenziamento dell’autostrada Milano-Torino in diverse tratte lombarde.
Avvalendosi delle potenzialità fornite dalla prima piazza economico finanziaria a livello nazionale, la ‘ndrangheta attua il riciclaggio e/o il reimpiego dei proventi derivanti dalla gestione, anche a livello internazionale, di attività illecite (traffico di sostanze stupefacenti, armi ed esplosivi, immigrazione clandestina, turbativa degli incanti, ecc.), inserendosi insidiosamente nel tessuto economico legale, grazie all'esercizio di imprese all’apparenza lecite (esercizi commerciali, ristoranti, imprese edili, di movimento terra, ecc).
La prevalenza criminale calabrese, peraltro, non è mai sfociata in assoluta egemonia, sicché altre organizzazioni italiane (Cosa nostra, Camorra e Sacra Corona Unita) e straniere (albanesi, cinesi, nord africane, ecc.) con essa convivono e si rafforzano, generando l’attuale situazione di massima eterogeneità.
LE ATTIVITÀ DELLA ‘NDRANGHETA IN LOMBARDIA
In definitiva, quanto alle caratteristiche peculiari delle organizzazioni criminali monitorate, è stato possibile individuare due distinte realtà territoriali, le quali hanno, però, mostrato un’incidenza criminale omogenea: Milano e il suo hinterland, quale centro nevralgico della gestione di attività illecite aventi connessioni con vaste zone del territorio nazionale; area brianzola (Province di Milano, Como e Varese), dove il denaro proveniente dalle attività illecite viene reinvestito in considerazione della “felice” posizione geografica che la vede a ridosso del confine con la Svizzera e della ricchezza del tessuto economico che la caratterizza.
Nel corso degli ultimi anni, una ulteriore conferma della forte presenza della ‘ndrangheta si è rilevata nell’area dell’hinterland sud–ovest del capoluogo lombardo (in particolare nei comuni di Corsico, Cesano Boscone, Rozzano, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio ed Assago) con particolare riferimento alle ‘ndrine provenienti dalla Locride, nonché dalla piana di Gioia Tauro.
Le principali ‘ndrine sono: “Morabito-Bruzzaniti-Palamara”, “Morabito-Mollica”, “Mancuso”, “Mammoliti”, “Mazzaferro”, “Piromalli”, “Iamonte”, “Libri”, “Condello”, “Ierinò”, “De Stefano”, “Ursini-Macrì”, “Papalia-Barbaro”, “Trovato”, “Paviglianiti”, “Latella”, “Imerti-Condello Fontana”, “Pesce”, “Bellocco”, “Arena-Colacchio”, “Versace”, “Fazzari” e “Sergi”.
Geograficamente il territorio lombardo può essere così suddiviso:
A Milano e hinterland opera attivamente la Cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti, che, tra l’altro, “utilizza” varie società aperte presso l’ortomercato, per fare arrivare nella metropoli ingenti “carichi di neve”, la cui domanda si è capillarmente diffusa tra i vari ceti sociali.
A Monza le “famiglie” Mancuso, Iamonte, Arena e Mazzaferro; • A Bergamo, Brescia e Pavia le “famiglie” Bellocco e Facchineri;
A Varese, Tradate e Venegono le “famiglie” Morabito e Falzea;
A Busto Arsizio e Gallarate la “famiglia” Sergi.
Le categorie economiche maggiormente a rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata si possono indicare così:
- costruzioni edili attraverso piccole aziende a non elevato contenuto tecnologico, che si avvalgono della compiacenza di assessori ed amministratori locali amici e si infiltrano negli appalti pubblici;
- autorimesse e commercio di automobili;
- bar, panetterie, locali di ristorazione;
- sale videogiochi, sale scommesse e finanziarie;
- stoccaggio e smaltimento rifiuti;
- discoteche, sale bingo, locali da ballo, night clubs e simili (che implicano possibilità di conseguire ingenti incassi e di fare “girare” droga);
- società di trasporti;
- distributori stradali di carburante;
- servizi di facchinaggio e pulizia;
- servizi alberghieri;
- centri commerciali;
- società di servizi, in specifico, quelle di pulizia e facchinaggio.
I canali attraverso i quali viene “lavato” il denaro appaiono i più ingegnosi e diversificati. Recenti inchieste, ad esempio, raccontano che le cosche sono sempre più interessate ai cosiddetti Money transfert, gli sportelli da cui gli stranieri inviano denaro all’estero.
Sul territorio nazionale restano gli euro puliti dei lavoratori extracomunitari, fuori dai confini si volatilizzano i soldi sporchi. Altro canale utilizzato è quello dei supermercati e dei loro scontrini.
I registratori di cassa, emettono ricevute a raffica, anche con qualche cifra in più; così gli ‘ndranghetisti stanno aprendo catene di negozi e centri commerciali in società con cinesi. Altro settore su cui scommette la criminalità calabrese è quello dei giochi: nell’anno 2006, in Lombardia, i locali specializzati hanno fatturato 4,6 miliardi di euro, laddove le sale scommesse (54 in Lombardia, 41 in Milano e provincia) hanno registrato 1,5 miliardi di euro di puntate, il 55 per cento in più rispetto all’anno precedente.
Le cosche calabresi hanno fatto un definitivo salto di qualità, non limitandosi più a dare vita a delle s.r.l., ma anche a S.p.A., acquisendo, come nelle società quotate in borsa, i trucchi della scatole cinesi. La ‘ndrangheta è diventata, peraltro, una autentica banca parallela, “aiutando” imprenditori in difficoltà, offrendo fideiussioni bancarie e prestiti.
Negli istituti di credito i protetti dalle cosche ottengono “affidamenti mafiosi” per attività perennemente in perdita o mutui per immobili già di proprietà dell’organizzazione perché i direttori della filiale bene sanno che le garanzie sono altrove.
In cambio lo sportello “’ndranghetista” riceve capitali puliti o deleghe per conti correnti ed assegni da utilizzare nei circuiti ufficiali. Gli adepti, per i loro traffici, utilizzano internet con abilità singolare, ma, al contempo, doppi fondi e spalloni, criptano le loro comunicazioni con sistemi come Voip e Skype e poi parlano al telefono con l’antichissimo linguaggio dei pastori.
La ‘ndrangheta ha costruito una rete fatta di broker e commercialisti, avvocati e dirigenti di banca: una mafia “invisibile” più profusa alle transazioni online che ai picchetti armati ed alle estorsioni (in Lombardia, l’unica faida in corso insanguina la provincia di Varese, zona calda per la presenza dell’aeroporto di Malpensa) e le armi che continuano a pervenire dall’est europeo e dalla Svizzera vengono riposte negli arsenali.
In quanto “globale e locale” da semplice organizzazione si è tramutata in sistema.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
Dai villaggi dell’Aspromonte al narcotraffico su scala globale. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 27 aprile 2022
La ’ndrangheta calabrese, e in particolare le cosche del quadrilatero Africo – San Luca – Platì - Ciminà nella provincia di Reggio Calabria e il gruppo Mancuso di Limbadi nella provincia di Vibo Valentia, hanno acquisito un ruolo di grande rilievo nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti e, in modo particolare, della cocaina proveniente dal Sud America.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
È un dato pacificamente condiviso nelle investigazioni giudiziarie degli ultimi 10 anni quello per cui la ‘ndrangheta calabrese, e in particolare le cosche del quadrilatero Africo – San Luca – Platì - Ciminà nella provincia di Reggio Calabria e il gruppo Mancuso di Limbadi nella provincia di Vibo Valentia, avrebbero acquisito un ruolo di grande rilievo nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti e, in modo particolare, della cocaina proveniente dal Sud America.
Le strutture morfologiche di questo traffico e le modalità operative attraverso cui esso si incanala risultano invece meno evidenti all’analisi investigativa. La piena consapevolezza delle modalità con cui i gruppi calabresi si incaricano dell’approvvigionamento dello stupefacente, dello stoccaggio delle partite e del loro smercio sul mercato nazionale ed europeo ha ingenerato la convinzione che i clan siano pienamente operanti nel settore attraverso un consistente impegno di uomini delle ‘ndrine in tutti gli snodi dell’attività di transhipment della cocaina.
Una ricognizione più accurata delle indagini e un esatto profilo criminale dei soggetti identificati e tratti in arresto nel corso di diversi procedimenti penali, soprattutto quelli instaurati presso le Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria e Catanzaro, induce ad una diversa, e di certo non meno allarmante, conclusione.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 i capi delle ‘ndrine calabresi che avevano a disposizione remoti canali di contatto con i produttori e gli intermediari sudamericani hanno preso direttamente in mano il nuovo business compiendo un salto di qualità, per passare dal ruolo di tradizionale smercio di ingenti partite di droga (cocaina ed eroina in primo luogo) sui mercati del Centro e del Nord Italia, a quello del diretto approvvigionamento (anche per svariate tonnellate, come ha evidenziato l’operazione “Cartagine” dell’Arma dei Carabinieri in Piemonte) presso i produttori colombiani e boliviani.
SVILUPPO CRIMINALE
Questa opzione ha segnato un passaggio epocale verso la “terziarizzazione” della ‘ndrangheta calabrese, che da utente finale o comunque operativamente marginale del narcotraffico, si è dislocata sulle rotte della cocaina assumendo impegni diretti con i cartelli dei produttori e diventando essa stessa in taluni casi (come ha dimostrato l’operazione “Decollo” dell’Arma dei Carabinieri con la Dda di Catanzaro) coproduttrice della pasta da coca nei laboratori siti presso le piantagioni del Sud America.
Questo salto di qualità è stato reso possibile dalla concomitanza di diversi fattori strategici. In primo luogo, agli inizi degli anni ’90, la scelta di Cosa nostra di condurre operazioni stragiste di intimidazione delle istituzioni repubblicane, ne ha notoriamente determinato l’isolamento, provocando una capillare attività di repressione da parte dello Stato che ne sta, ancora oggi, destrutturando le capacità operative e criminali.
A questo va aggiunto il diffondersi tra le file di Cosa nostra del fenomeno dei collaboratori di giustizia che ne ha incrinato la credibilità sia agli occhi delle altre organizzazioni criminali italiane che a quelli dei grandi cartelli del narcotraffico internazionale.
L’assenza di un “soggetto forte” del prestigio e del rilievo di Cosa nostra e il concomitante endemico collasso degli assetti camorristici in Campania, fatta eccezione dei clan Casalesi, ha fatto sì che le ‘ndrine calabresi operassero in posizione di sostanziale monopolio nell’approvvigionamento della cocaina.
E questo proprio negli anni in cui la cocaina conquistava spazi crescenti nel mercato dei consumatori italiani ed europei. L’intuizione dei gruppi attestati nella provincia di Reggio Calabria è stata quella di trarre ulteriore profitto da questa posizione di acquirenti privilegiati per contrattare con i narcos l’acquisto della droga direttamente nei luoghi di produzione, e quindi ad un prezzo relativamente modesto (tra i 1.200 e i 1.500 dollari al chilo), assumendosi il rischio del trasporto della merce direttamente dal Sud America.
Ciò da un lato ha offerto la possibilità di moltiplicare i profitti e dall’altro ha spinto le cosche calabresi a sperimentare una nuova logistica, capace di dischiudere ai gruppi di ’ndrangheta prospettive assolutamente innovative e inesplorate verso la modernizzazione dei traffici illegali.
Il secondo fattore strategico che ha di certo agevolato il disegno egemonico dei clan, è sicuramente rappresentato dalla loro capillare diffusione praticamente in tutti i continenti: dal Sud America all’Australia, dalla Germania alla Spagna, dalla Francia alla Svizzera al Canada. Da anni le ‘ndrine calabresi possono contare su gruppi di affiliati, spesso su veri e propri “locali”, capaci di fornire il supporto organizzativo che questa evoluzione su scala internazionale imponeva.
Analizzando la biografia criminale di alcuni dei principali artefici di questa nuova architettura mafiosa è possibile cogliere alcune costanti: comuni frequentazioni, co-detenzioni, parentele rivelatesi decisive per strutturare la logistica della droga in paesi altrimenti estranei.
I processi di globalizzazione, la caduta del muro di Berlino, l’allargamento dell’Unione europea, la nuova area di Schengen, sono stati colti dalle famiglie calabresi, per dare impulso a questa costruzione di rotte non solo del narcotraffico ma anche dei capitali illeciti.
ALLEANZE STRATEGICHE
Agevolando - a dispetto di ogni intenzione - proprio i gruppi di ’ndrangheta che più di altri potevano vantare alleanze e presenze nel nuovo scenario politico-economico. Ancora oggi destano sorpresa alcune intercettazioni telefoniche di circa 10 anni or sono nel corso delle quali uomini delle cosche di San Luca compongono numeri di telefono boliviani e peruviani e colloquiano in dialetto calabrese con i propri complici che risiedono da anni in quel continente.
Così come inquietano le immagini riprese dalla Polizia di Stato italiana e dalla Polizia canadese nelle quali si intravede un boss latitante della caratura di Antonio Commisso passeggiare tranquillamente tra una decina di compaesani e altri mafiosi tra le strade di Toronto. D’altronde, da Antonio Giampaolo catturato in Venezuela nel 2001 a Luigi Facchineri, catturato a Cannes nel 2002, a Santo Maesano catturato a Madrid nel 2003, per giungere sino all’operazione che ha determinato la cattura di sei latitanti tra il Belgio e l’Olanda nel 2006 è ormai evidente come le strutture della ’ndrangheta coinvolte anche nel narcotraffico si siano costantemente avvalse di una capillare rete transnazionale e internazionale per rafforzare la propria posizione di egemonia sulle altre organizzazioni criminali.
Un terzo fattore forse determinante che ha stabilmente contribuito ad accrescere l’operatività criminale delle ‘ndrine è sicuramente rappresentato dalla spendibilità nello scenario delle transazioni illegali nazionali e internazionali di una sorta di “logo”, un marchio di “qualità” e affidabilità indiscusso presso i partner e le altre organizzazioni allocate nella filiera del narcotraffico.
Le famiglie calabresi infatti sono tra i pochissimi soggetti criminali in grado di approvvigionarsi costantemente di cocaina presso i fornitori sudamericani, assicurando comunque il pagamento delle partite di stupefacente.
I risultati del procedimento penale denominato “Igres” della Dda di Reggio Calabria sono al riguardo particolarmente significativi nella parte in cui evidenziano il modo in cui gli uomini della ’ndrangheta calabrese, a differenza di elementi pur di primo piano di Cosa nostra palermitana, fossero abilitati al prelievo della cocaina a condizione di assoluto favore in Colombia e nella piena fiducia dei fornitori.
Gli stretti collegamenti con soggetti operanti nei Paesi produttori hanno agevolato la crescita della ‘ndrangheta sino a renderla punto di riferimento anche per le altre organizzazioni endogene. Indubbiamente l’attività di contrasto svolta dallo Stato in questi anni ha determinato assestamenti e svolte operative particolarmente significative da parte della ‘ndrangheta calabrese, che attualmente gestisce il narcotraffico della cocaina con modalità solo parzialmente coincidenti con quelle in uso nel decennio scorso.
I procedimenti penali celebrati in Calabria, in Piemonte e in Lombardia per tutti gli anni ’90 a carico di boss e gregari delle famiglie ‘ndranghetiste hanno determinato l’irrogazione di pesanti condanne, spesso molto più consistenti di quelle derivanti dalla celebrazione di processi per il delitto di associazione mafiosa. […] Ciò ha comportato un progressivo affievolimento del diretto impegno degli uomini di primo piano delle “locali” calabresi nel traffico internazionale di droga.
La cura del territorio, l’assistenza ai latitanti e ai detenuti, le estorsioni, gli appalti, il riciclaggio, i rapporti di infiltrazione nella politica e nelle istituzioni sono tutti settori illegali che – come si è dimostrato in altra parte della relazione – la ‘ndrangheta calabrese e reggina in particolare non poteva e non intendeva dismettere.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA
La profezia di Nicola Gratteri sulla 'ndrangheta nel litorale di Roma, cosa aveva detto da Floris. Gianfranco Ferroni su Il Tempo il 18 febbraio 2022.
Qualcuno si è stupito della maxi operazione svolta a Roma e dintorni contro la 'ndrangheta, eppure una «profezia» c'è stata, proprio sul tema del blitz. Chi guarda con attenzione la trasmissione di Giovanni Floris su La7 ha potuto ascoltare, dalla voce del procuratore della repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, la sintesi del «modus operandi» dell'organizzazione calabrese: il magistrato parlava proprio della strategia di infiltrazione negli enti locali, in particolare quelli piccoli. E Floris lo ha intervistato a Roma, due giorni prima del blitz. Un vaticinio?
A. Mar. C. Moz. per "il Messaggero" il 21 Febbraio 2022.
L'esuberanza del figlio e del nipote dei boss che si credono tali solo in ragione dei vincoli parentali - quando invece dentro la ndrangheta i ruoli vengono riconosciuti solo dopo l'impegno sul campo - ha rischiato di far scoppiare una guerra tra la locale di Anzio e Nettuno e il clan Di Silvio-Spada.
È il settembre del 2019 quando il figlio di Giacomo Madaffari, uno degli uomini ai vertici dell'organizzazione riconosciuta dalla casa madre di Santa Cristina d'Aspromonte, e un affiliato del gruppo con il ruolo di sgarro (Cosimo Tedesco) fanno irruzione nel quartiere Europa, base dei Di Silvio/Spada, minacciando i figli di questi con una pistola e rubando loro 30 grammi di cocaina a pegno di un presunto credito.
«Lo prendo a martellate in testa davanti a te domani, li metto i pinneji do marteju nto cerveju domani» dice Tedesco a Daniele Paduano nel raccontare l'imboscata che, chiaramente, non passa inosservata tanto che dal clan Di Silvio-Spada parte un'ambasciata diretta proprio a Madaffari per cercare di risolvere la questione senza che ci siano strascichi. E baffo o baffetto (al secolo Giacomo Madaffari) quando viene a conoscenza dell'accaduto non reagisce bene.
Si infuria perché quei ragazzi avrebbero potuto creare seri problemi, incrinando un equilibrio nato anni prima e che voleva radicati ad Anzio tanto il gruppo di ndrangheta quanto quello degli Spada-Di Silvio. A conoscere il fatto anche Bruno Gallace: «M' hanno detto che Spartaco è venuto qua!.. Perché dice che uno gli ha rotto i c.......» racconta al suo fidato collaboratore Vincenzo Italiano che ribatte: «Una guardia?» e Gallace risponde: «No! Uno dei Tedesco dice che...mo vedemo se se piegano questi...».
Italiano informa poi Gallace che ad Anzio c'è «na zingara.. na parente loro che c'ha bisogno de... dice che Mario Tedesco è annato al quartiere Europa ha puntato na pistola a uno e gli ha levato...». Ma quello che si adira di più è proprio Madaffari in quanto nella questione sono coinvolti direttamente il figlio, il nipote ed un suo sottoposto, il Tedesco appunto.
Con la moglie Baffo si sfogherà per trovare un modo per porre un freno senza che davvero scoppi una guerra tra clan per motivi poi che nulla hanno a che vedere con gli affari, a partire dal traffico di stupefacenti. Madaffari ha ricevuto un'ambasciata per «vedere quello che devo fare, perché non vogliono avere problemi, non voglio avere discussioni che li minacciano che li sparano», dice Baffo alla consorte che replica: «Vai lì... vedi se li pizzichi lì e chiamali chiamali a tutti e due insieme allora a questo punto... non voglio fanno queste cose veramente...eh».
Madaffari è preoccupato: «Questi... prima o poi gli buttano qualche botta nella testa a tutti e due» e la moglie: «Sì, sì, si ecco... devono smetterla subito! Perché a questi avvisano prima...». «Devo prenderli ed affogarli a tutti e due» dice Baffo. La discussione va avanti. La moglie del boss: «Non si devono avvicinare più lì, perché ti hanno avvisato a te, perché la prossima volta fanno fanno... prima ci avvisano gli dici e poi sapere quello che fanno».
«Di loro sono ragazzini - spiega Madaffari - ma dietro di loro non ci sono ragazzini, dietro di loro ci sono altre persone, di altre maniere». La coppia prova a mettersi in contatto con il figlio e con il nipote ma entrambi non si trovano e non rispondono. Madaffari perde la pazienza: «Ma questo - sempre alla moglie - non doveva rientrare a casa? Chiamalo al telefono, digli che lo voglio a casa per le otto stasera!».
Alla fine, è il 10 ottobre del 2019, Madaffari riceve un'ulteriore telefonata da un tale Francesco che si qualifica come il ragazzo del quartiere Europa. La conversazione - si legge nelle carte dell'ordinanza - verteva sulla vicenda e alla fine Baffo promette che si sarebbe recato personalmente al quartiere Europa nel tentativo dunque di mettere fine alla questione.
Questione che in realtà si dimostrerà doppia in quanto Mario Tedesco non solo si sarebbe recato al quartiere Europa con il figlio e il nipote di Madaffari ma avrebbe compiuto un'altra analoga rapina con identiche modalità sempre ai danni di un membro del clan Di Silvio residente però a Latina. Il coinvolgimento del figlio di Baffo e del nipote, però, sarebbe da ricondurre al solo episodio del quartiere Europa, tra le case popolari di Anzio.
Valentina Errante per "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.
«Abbiamo sbancato tutti». Così esultavano gli uomini dell'ndrangheta all'indomani delle elezioni amministrative ad Anzio. «Qua il botto l'ha fatto Candido, proprio alla grande proprio». Candido è Candido De Angelis, che il giorno prima di questa conversazione intercettata dai carabinieri l'11 giugno 2018 era diventato sindaco del Comune in provincia di Roma, con una lista civica sostenuta dal centrodestra. Così le cosche si sarebbero infiltrate nelle amministrazioni del litorale, con l'obiettivo di mettere le mani sul ricco business dello smaltimento dei rifiuti.
Sono 65 le misure cautelari eseguite ieri (39 in carcere e 26 ai domiciliari) su richiesta dei procuratori aggiunti della Dda di Roma Michele Prestipino e Ilaria Calò. Si ipotizzano l'associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, l'estorsione aggravata, la detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. I carabinieri del Nucleo investigativo di Roma, ieri, si sono presentati anche negli uffici comunali di Anzio e Nettuno per perquisirli e recuperare gli atti sugli appalti concessi alle cosche. «L'appalto ce lo famo tra noi», dicevano. Ora per le due amministrazioni partirà il lungo iter dello scioglimento per mafia.
LE NDRINE Le carte dell'operazione di ieri raccontano come due distinti gruppi criminali, distaccamenti delle ndrine di Santa Cristina d'Aspromonte in provincia di Reggio Calabria e di Guardavalle, in provincia di Catanzaro da anni si fossero infiltrate nelle amministrazioni e così mentre gestivano il narcotraffico utilizzando consolidati canali con il Sud America, investivano in aziende per lo smaltimento dei rifiuti e non solo. E si assicuravano gli appalti garantendo voti e con la forza dell'intimidazione. Dalla loro parte anche uomini delle forze dell'ordine, pronti a cedere informazioni riservate.
LE INTERCETTAZIONI «Ieri abbiamo vinto le elezioni», dice uno degli indagati intercettato. «Il sostegno si è concentrato nella località denominata Falasche, corrispondenti alle sezioni 15-16-17 del comune di Anzio», si legge nell'ordinanza. Gli investigatori captano le conversazioni all'indomani dell'elezione di De Angelis, che non risulta nell'elenco degli indagati. «Candido è il sindaco, ha vinto e basta!». E ancora «Ieri abbiamo vinto le elezioni».
E poi aggiunge: «Ha vinto Candido, al primo turno... e io sto con lui, pure al mandato scorso, dopo fatti vedere. Stavolta non c'è trippa per gatti, tutti fuori a zappare la terra». Ma gli uomini dei clan si preoccupano anche dell'immagine dei loro presunti referenti e di essere troppo presenti: «Non posso mettermi in tutte le elezioni, poi dicono che è colluso con la mafia». Subito dopo le amministrative era Giuseppe Ranucci, eletto consigliere comunale e poi diventato assessore ai Lavori pubblici, a chiamare uno degli uomini del clan dando la sua massima disponibilità: «Per qualsiasi cosa fatti sentire».
Ma quando è l'ora di battere cassa il boss si infuria perché non ha avuto riscontri immediati: «A Pi' la ditta non è intestata a me è intestata a mio nipote e pure se è intestata a me io faccio la gara d'appalto prendo l'appalto e il lavoro lo faccio io e basta non ci stanno problemi capito?» E poi aggiunge: «Mo' se è cosi chiamo a Candido e farlo venire qua perché se io mi sento preso per il culo diventa un macello, diventa un casino diventa proprio un casino sta cosa m' ha stranito». Nessun dubbio sull'esito dei procedimenti: «Ora chiamo l'assessore - dice uno degli arrestati - e gli dico ora mi prendo il patrimonio e le scuole e quello a occhi chiusi li dà a me»
NETTUNO Anche a Nettuno le cosche avrebbero cercato di orientare le elezioni del 2019. Per il gip «emerge la contiguità» di alcuni dei principali indagati «con vari esponenti politici» di Nettuno. In occasione delle amministrative uno degli affiliati si era «attivato per convogliare i voti» su uno dei consiglieri eletti nella lista del sindaco Alessandro Coppola, anche lui non indagato. In una conversazione Giacomo Madaffari, capo di una delle due organizzazioni mafiose, si preoccupava per Coppola: «Ci arrestano e cacciano pure Coppola». In un'altra conversazione uno degli arrestati ricorda di aver minacciato un uomo che aveva vinto una gara di un appalto per la manutenzione delle scuole. «E com' è che stai a fare le scuole ad Anzio? - si legge - È il primo intervento che fai? Ecco, dico, basta! Devi venire te da Aprilia a fare il malandrino ad Anzio» e lui mi ha risposto: «perché ad Anzio che c'è la mafia?».
LO SCIOGLIMENTO Nei prossimi giorni il prefetto Matteo Piantedosi convocherà un comitato per l'Ordine e la sicurezza al quale prenderanno parte anche i magistrati della Dda di Roma. Poi dovrebbe essere nominata una commissione ispettiva. Il primo passaggio per procedere allo scioglimento delle due amministrazioni e nominare i commissari.
Alessia Marani per "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.
Attentati incendiari, proiettili nelle buste indirizzate ai consiglieri, teste mozzate di animali come inquietanti messaggi di morte: da questi episodi i carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci sono partiti per passare al setaccio i legami tra la ndrina di Anzio e Nettuno e le amministrazioni locali. Adesso per i due Comuni del litorale a Sud di Roma si paventa l'ipotesi dello scioglimento.
Un dejà vu per Nettuno che aveva già vissuto il commissariamento nel 2005. Gli atti delle indagini verranno vagliati in queste ore personalmente dal prefetto Matteo Piantedosi il quale se - come sembra emergere dalle informative raccolte dagli inquirenti coordinati dalla Dda - riterrà concrete le ipotesi di infiltrazioni mafiose nei gangli della macchina amministrativa provvederà all'insediamento di due distinte commissioni di indagine, una per ciascun ente, con il compito di approfondire lo status quo.
Secondo quanto stabilito dall'articolo 143 sul Testo unico degli enti locali, ci saranno tre mesi di tempo, più altri tre se si riterrà necessario un supplemento di inchiesta, per poi decretare lo scioglimento. Per Candido De Angelis (non indagato), sindaco di Anzio per oltre tredici anni, significherebbe la debacle dopo una carriera politica costellata di successi. Successi che, stando alle indagini dei carabinieri e della Direzione distrettuale antimafia presso la Procura di Roma, sarebbero stati ottenuti anche grazie all'apporto di membri dello Stato maggiore della ndrina di Santa Caterina d'Aspromonte e di Guardavalle, ovvero autentici pezzi da novanta della malavita organizzata calabrese impiantati a due passi dalla Capitale, con pari dignità e poteri.
Giuseppe Riggio e Antonio Riggio, due affiliati, intercettati dai militari l'11 giugno 2018, in piena campagna elettorale ad Anzio, parlano tra di loro. Giuseppe sta seguendo l'andamento dei voti nel seggio di Lavinio, Antonio è in Calabria. Un posto vale l'altro per loro, litorale laziale o Aspromonte, non c'è differenza. Commentano la imminente elezione di De Angelis. Antonio contatta Giuseppe: «Pare che è arrivato un messaggio che ce l'ha fatta!». E Giuseppe risponde: «Sbancau proprio», ossia «ha sbancato». Antonio replica: «Mo sono in arrivo qua al bar, che stamattina si decide anche qui». Antonio: «Dove?». Giuseppe: «A Guardavalle».
Ieri mattina i carabinieri sono entrati nei due Comuni per effettuare le prime perquisizioni. In una stanza dell'Ufficio demanio di Anzio hanno sistemato le montagne di documenti sequestrati, quindi hanno posto i sigilli al locale. Tra le carte acquisite dai militari ci sono soprattutto le determine per l'affidamento di concessioni e appalti che riguardano i servizi comunali: rifiuti, mense, lavori pubblici, trasporti.
Non ultimo le licenze commerciali e le concessioni balneari. Il sindaco De Angelis si dice certo di avere «sempre esercitato liberamente il mandato elettorale», confidando «nell'operato della magistratura». Il teorema degli inquirenti è chiaro. La succursale romana della Ndrangheta funziona secondo lo stesso schema: voti in cambio di appalti tra fiumi di cocaina dal Sudamerica, i cui proventi vanno riciclati in attività pulite. Succede così che la Camassambiente spa, con sede legale a Bari, nel 2016 si aggiudica l'appalto per i rifiuti ad Anzio, valore 38 milioni di euro. A fornire la lista delle persone da assumere ci pensavano direttamente i calabresi. Il responsabile comunale del procedimento nel commentare la presenza di diversi pregiudicati all'interno della società, parlando con un funzionario comunale ammette: «Li hanno messi loro... che li abbiamo messi noi? (...) Le liste ce le davano loro del personale da assumere... hai capito?». Tra i dipendenti figurava anche Salvatore Madaffari, figlio del capo della ndrina Giacomo, ma al lavoro, manco a dirlo, non andava mai. L'ambiente è tra i principali settori a cui puntano gli ndranghetisti.
IL BUSINESS A PONZA La ndrina si muoveva anche per allargarsi al vicino territorio di Latina. L'8 gennaio 2019, i carabinieri ascoltano una conversazione tra Davide Perronace e un uomo non meglio identificato. Quest' ultimo gli propone un affare che avrebbe in mente sfruttando la conoscenza di Angelo Ferullo (non indagato) già a capo del Latina calcio e di un altro gancio. Dice: «Questo ha una società che costruisce convertitori per bruciare rifiuti speciali, a impatto zero.. sta cosa se la dobbiamo fare la possiamo fare in Ghana, perché c'ho un aggancio forte al ministero dello sviluppo», salvo poi ripiegare su Ponza: «Siccome il Ghana è un paese sottosviluppato .. questa cosa però la possiamo fare anche a Ponza che non può trattare l'immondizia sul posto perché è un'isola...».
A. Mar. per "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.
«Io ci do una mano a Pino il lombetto perché Zi' Pino per qualsiasi cosa lo chiami è sempre disponibile». Davide Perronace, uno dei capi della ndrina di Anzio, intercettato dai carabinieri di via In Selci, si dice convinto del sostegno elettorale dato a Giuseppe Ranucci (non indagato), ex assessore all'Ambiente di Anzio.
Pino il lombetto era considerato affidabile dai sodali, sebbene i più sul litorale lo conoscano per il suo temperamento sopra le righe, tanto che l'anno scorso dovette lasciare lo scranno in Comune dopo avere minacciato i vigili urbani accusati di accanirsi nei controlli anti-Covid nella sua palestra. Nel 2014 prese anche a pugni un imprenditore.
IL SUMMIT Il legame tra la famiglia Ranucci (il figlio è consigliere a Nettuno, anche lui non indagato) e i Perronace risulta confermato da una conversazione del 7 giugno del 2018 dalla quale, scrive il gip, «si desumeva che Gabriele Perronace aveva effettuato lavori edili gratuiti presso l'abitazione di Luca Ranucci». Non solo. È lo stesso Lombetto a confidare in alcune conversazioni con l'amico Marco Maranesi (non indagato) e tale Moreno, di essere stato appoggiato dai clan: «Detta tra me e te pure Davide Perronace, la famiglia Erri mi hanno dato una mano».
Il settore Ambiente era nel mirino del clan che cercava di riciclare i proventi del narcotraffico nel business dei rifiuti. Emergono altresì i collegamenti tra la ndrina e Gualtiero Di Carlo, detto Walter, successore di Ranucci, come annota il gip. Mentre i carabinieri li immortalano entrambi riprendendoli in un summit il 18 febbraio 2020 presso la società G&g Ecospurgo dei Perronace con Davide Perronace, Vincenzo e Rocco Daniele Gallace.
Dopo essere stato eletto, però, Perronace passa all'incasso e pretende di aggiudicarsi gli appalti. Avendo percepito una certa resistenza di Ranucci, al telefono con il figlio Gabriele che di fatto tiene i contatti con gli assessori e il sindaco Candido De Angelis (non indagato), è furioso: «Io faccio la gara d'appalto, prendo l'appalto e il lavoro lo faccio io e basta, capito? ... Mo se è così chiamo a Candido e farlo venire qua perché se io mi sento preso per il culo diventa un macello diventa un casino, sta cosa m' ha stranito proprio».
Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 19 febbraio 2022.
Gli appalti, ad Anzio, dovevano andare solo alla ndrangheta. Nessuno doveva ostacolare le ambizioni di Davide Perronace, affiliato del grande crimine finito in carcere accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. La politica locale, in parte, ne era succube. Alcuni consiglieri comunali erano sotto scacco. La regola da rispettare era quella mafiosa. Il metodo, per imporla, la minaccia. La conversazione tra Perronace e un suo parente, registrata dalle cimici piazzate dai carabinieri di via In Selci, il 19 agosto del 2018, ne è un esempio. Perronace racconta allo zio Vincenzo Gallace le pesanti intimidazioni che aveva rivolto a un consigliere comunale, Antonio Geracitano.
Quest' ultimo, secondo la sua tesi, non l'aveva aiutato ad ottenere un appalto per alcuni lavori per le fognature del comune di Anzio. Questo è ciò che riferisce a Gallace in merito all'incontro con l'esponente politico: «Stai buono che ti meno immediatamente .. a te già non ti doveva venire l'idea di fare questa cosa, perché poi lo sai che viene qualcuno e ti dice oh che stai a fare? .. se fai un altro intervento e se hai il camion mo che sta facendo l'intervento alla scuola, lo chiami e gli dici che se ne devono andare».
APPALTI Perronace era sicuro, ormai, di aver messo le mani su diversi appalti e, rivolgendosi sempre a Gallace, gli spiega che «compare, da oggi mi prendo il patrimonio, le scuole ... e quello a occhi chiusi me li dà a me!». Le minacce, tuttavia, non erano rivolte solo ai politici che esitavano ad accontentare le richieste della ndrangheta. Perronace faceva capire anche ai titolari di altre aziende che ad Anzio non potevano lavorare.
Ecco il resoconto, intercettato dagli investigatori, che l'uomo offre sempre allo zio. «E com' è che stai a fare le scuole ad Anzio? È il primo intervento che fai? Ecco, dico, basta! Non li fai più, perché ad Anzio ci stanno otto autospurghi .. devi venire te da Aprilia dico a fare il malandrino ad Anzio? Mi ha detto: perché ad Anzio che c'è la mafia? No ad Anzio non c'è la mafia, ad Anzio c'è la gente che va a lavorare dico e su un comune come Anzio non devo lavorare io devono lavorare gli autospurghi di Anzio».
Perronace, però, non avrebbe aggredito solo un rivale in affari che si era permesso di sconfinare nel suo comune. Questo increscioso episodio, dal suo punto di vista, l'avrebbe spinto a rappresentare le sue rimostranze anche al mondo politico della piccola città a sud ovest di Roma. Insomma a quei consiglieri comunali che avrebbero permesso ad un'azienda di Aprilia di vincere un bando. «Si è recato direttamente in comune - si legge nell'ordinanza del gip Livio Sabatini - per intimare alla consigliera Laura Nolfi ed al marito di non compiere ulteriormente simili atti di aggiudicazione».
INTIMIDAZIONI Il nome di Perronace era uno di quelli che incuteva timore in città e non solo tra i concorrenti in affari o gli esponenti politici. Anche la macchina amministrativa era, in qualche modo, sottomessa agli interessi dell'uomo. Così scrive il gip Sabatini: «Nel corso del dialogo con Gallace, Perronace affermava inoltre di avere esplicitamente minacciato Maurizio Perica, impiegato presso il secondo ufficio tecnico lavori pubblici del comune di Anzio».
Il dipendente pubblico era colpevole di aver affidato un lavoro non al boss ma ad un altro membro della sua famiglia: «C'ho detto Mauri' quello è mio zio...però a me non mi devi prendere per il culo! Quindi dato che mi hai preso per il culo mo ti dico una cosa: se mio zio Agazio infila il canale dentro ad un pozzetto ... ti faccio ricordare dico il giorno che mi hai conosciuto a me! Faccio il modo che non ti fai più la barba!»
Dagotraduzione dal Guardian il 19 febbraio 2022.
Gli ascolti delle notizie sono in forte calo, la fiducia del pubblico nei giornalisti è ai minimi storici e uno dei nomi più famosi nel settore dei media è in una crisi post-pandemia di serie A in vista di un'importante elezione di medio termine.
Ma il denaro continua ad arrivare, circa un miliardo di dollari all'anno di profitto per la sua società madre, WarnerMedia di AT&T, mentre le decisioni sui contenuti basate sui dati spingono la rete verso ossessioni da tabloid e un tono radicato nell'esagerazione e nell'allarme.
La CNN, la società fondata nel 1980 da Ted Turner sulla scorta dei ricavi di una delle più grandi cineteche di film classici del mondo, si è trovata a un bivio che all'interno assomiglia almeno a una crisi.
Due settimane fa il presidente della CNN Jeff Zucker è stato licenziato bruscamente per non aver rivelato una relazione romantica con una collega anziana. Pochi credono alla narrativa, dal momento che la relazione era nota da anni e almeno un conduttore della CNN, Don Lemon, ha versato lacrime in onda alla partenza di Zucker.
La partenza di Zucker sembrava più probabilmente correlata a un altro licenziamento scandaloso, quello del conduttore Chris Cuomo, che ha citato in giudizio la rete per un 60 milioni di dollari dopo essere stato licenziato per aver svolto un ruolo fuori misura e non dichiarato nel plasmare la difesa di suo fratello, l'ex governatore di New York Andrew Cuomo, contro le accuse di molestie sessuali.
Gli scandali fanno eco a episodi precedenti in cui i dirigenti delle principali organizzazioni televisive americane sono stati accusati di operare una cultura dell'impunità per altri dirigenti senior, quasi sempre maschi. Sembra illustrare un problema più ampio ai vertici di queste aziende: organizzazioni estremamente potenti i cui dirigenti sembrano aver presupposto che le normali regole non si applicassero a loro.
Prendi il grande rivale della CNN, Fox News. Nel 2016, il capo di Fox News Roger Ailes è stato licenziato dopo uno scandalo di molestie sessuali. Una causa intentata dagli azionisti, che nominava l'eredità di Ailes e l'azionista di controllo della 21st Century Fox, Rupert Murdoch, ha affermato che Ailes aveva «molestato sessualmente dipendenti e collaboratori impunemente per almeno un decennio» e che Murdoch e altri avevano consentito a Bill O'Reilly ancora di Fox News di molestare diverse dipendenti di sesso femminile.
La società ha pagato 55 milioni di dollari per risolvere le denunce di molestie sessuali e in seguito ha perso le migliori conduttori femminili tra cui Megyn Kelly, Greta Van Susteren e Gretchen Carlson.
Lo scandalo Fox News è stato seguito due anni dopo da uno scandalo di molestie sessuali che ha coinvolto il CEO della CBS Leslie Moonves che includeva accuse di un tentativo di insabbiamento da parte dei dirigenti della CBS. A Moonves è stato successivamente negato un pacchetto di fine rapporto di 120 milioni di dollari. Ciò è seguito al licenziamento di Charlie Rose, co-conduttore del programma mattutino della CBS, nel novembre 2017 dopo che diverse donne lo hanno accusato di molestie e cattiva condotta.
Ma i problemi della CNN, mentre mancano accuse comparabili contro Zucker, la cui relazione era consensuale, suggeriscono che altri problemi sono in gioco in un nuovo settore in uno stato di turbolenza quasi costante.
Il pubblico della CNN nella prima settimana di gennaio è sceso complessivamente del 90% e in particolare nella fascia demografica critica ambita dagli inserzionisti rispetto all'anno precedente, mentre la rete sta attirando critiche per le posizioni editoriali.
Secondo Ariana Pekary, editore pubblico per la CNN presso la Columbia Journalism Review e giornalista di MSNBC che ora si concentra sui difetti sistemici dei notiziari commerciali, una narrazione di una cultura tossica e dominata dagli uomini non descrive completamente i problemi a portata di mano nel settore radiotelevisivo degli Stati Uniti.
Invece alcuni dei problemi riguardano ciò che è sullo schermo, non chi c'è dietro.
«Zucker era iperconcentrato sulle valutazioni e sugli incentivi finanziari e questo ha portato i cambiamenti nelle notizie verso l'opinione perché l'opinione guida le valutazioni», ha affermato Pekary. «La CNN si occupa più di cercare di creare una narrazione che pensano che il pubblico seguirà, quindi costruiscono la copertura attorno a determinati personaggi che sono nei notiziari ogni giorno o riappariranno».
Zucker era stato portato alla CNN nel 2012, due anni dopo aver lasciato la NBC, dove aveva guidato gli ascolti della divisione intrattenimento con programmi come The Apprentice di Donald Trump, che ha contribuito a ristabilire la sua immagine pubblica e, secondo alcuni, ha reso possibile la sua presidenza.
Nonostante il background di Zucker in reality TV e notiziari del mattino, l'allora società madre della CNN, Time Warner, assunse Zucker per migliorare le valutazioni e iniettare "più passione" nella programmazione.
Secondo il Washington Post, Zucker è riuscito a rendere redditizia la rete, espandendo la programmazione oltre le notizie. Tra le nuove offerte c’era Parts Unknown di Anthony Bourdain, insieme a una nuova divisione di documentari progettata per creare una programmazione per gli spettatori del fine settimana.
Pekary ha lasciato MSNBC nel 2020, scrivendo sul suo sito web che provenendo dalla radio pubblica, «dove nessuna decisione a cui ho mai assistito era basata su come un argomento o un ospite avrebbe "valutato" a cosa, al telegiornale "Ho visto tali scelte - è praticamente cotto nel processo editoriale – e quelle decisioni influenzano i contenuti delle notizie ogni giorno”».
La pressione di prendere decisioni editoriali basate su sondaggi e dati sull'audience, spiega Pekary, inizia negli incontri di notizie mattutine, dove Zucker era notoriamente una forza sempre presente alla CNN. «Ecco perché la copertura di ora in ora si attiene alle stesse storie e narrazioni. Prendono decisioni su ciò che secondo loro il pubblico valuterà migliore, in base a ciò che ha fatto bene e ai social media».
Pekary ha recentemente notato che, in assenza di Donald Trump per guidare gli ascolti, la CNN si è spinta in modo aggressivo nel «regno del materiale simile ai tabloid». C'era Gabby Petito, la donna di Long Island uccisa dal suo ragazzo nel Wyoming, e il coinvolgimento di Alec Baldwin nella morte della direttrice della fotografia Halyna Hutchins.
Il problema non è esclusivo delle notizie via cavo, ma solo esagerato. La devozione alle valutazioni, ragiona Pekary, ha deformato il controllo editoriale e la credibilità delle notizie via cavo e del settore delle notizie in generale.
Secondo i dati dell'annuale barometro della fiducia di Edelman, il 56% degli americani concorda con l'affermazione che «giornalisti cercano di proposito di fuorviare le persone dicendo cose che sanno essere false o grossolane esagerazioni».
Una percentuale ancora maggiore – il 58% – ha affermato di ritenere che «la maggior parte delle testate giornalistiche è più preoccupata di sostenere un'ideologia o una posizione politica che di informare il pubblico».
Per la CNN, la saga di Cuomo è iniziata con Chris Cuomo che intervistava spesso suo fratello in onda - un chiaro conflitto di interessi - prima di trasformarsi in un confronto per molestie sessuali. Dopo che Jeffrey Toobin, un analista legale di lunga data della CNN, si è esposto durante una chiamata Zoom con i colleghi del New Yorker, è stato rimesso in onda.
La devozione ai dati ha creato opportunità di concorrenza da altre fonti, a volte controverse. Due settimane fa, il podcaster Joe Rogan si è ritrovato in una faida pubblica con Neil Young e altri per la disinformazione di Covid.
Pekary afferma che le notizie via cavo potrebbero riscattarsi se si concentrassero maggiormente sulla raccolta di notizie e meno sulla vendita di opinioni, che è più economico da produrre al di fuori degli enormi stipendi per i talenti in onda. Meno importa chi comanda. Ma con la CNN che realizza 1 miliardo di dollari di profitto per la sua società madre, l'incentivo al cambiamento è limitato.
«Non importa chi è al comando, non vedo che il formato cambia tanto quanto credo dovrebbe», ha detto. «Trascorrono moltissimo tempo, soprattutto in prima serata, a rielaborare l'indignazione del giorno, mentre potrebbero produrre una programmazione di notizie molto migliore con un formato diverso che in realtà informa un pubblico più ampio, ma stanno cercando il minimo comune denominatore».
MALAGIUSTIZIA. Sentenze comprate in Calabria: Manna interdetto da avvocato, ma resta sindaco. NELLO TROCCHIA su Il Domani l'11 gennaio 2022.
Verdetti comprati, 'ndranghetisti accusati di omicidio assolti, un avvocato sindaco che resta al suo posto. È la sintesi del caso delle sentenze pilotate che oltre a minare ulteriormente la credibilità del potere giudiziario racconta anche di una battaglia tra pubblici ministeri e giudici che ora arriva fino in Cassazione.
La procura di Salerno, guidata dal procuratore Giuseppe Borrelli, sta facendo luce su una mefitica pratica di corruzione che coinvolge magistrati e avvocati calabresi.
Marcello Manna è sindaco di Rende, in provincia di Cosenza, presidente dell'Anci calabrese, l'associazione che riunisce i comuni, ma è anche avvocato. È indagato per corruzione, avrebbe corrotto Marco Petrini, quando quest'ultimo era presidente della Corte di assise d'appello di Catanzaro.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
La storia del giovane boss della ‘ndrangheta che traffica cocaina con il diploma antimafia. Il ventiseienne Rocco Molè voleva vendicare lo zio ucciso e riportare la famiglia in alto nelle gerarchie criminali. Per il narcotraffico verso nord ha ingaggiato chimici colombiani e sommozzatori della marina militare peruviana. E mentre frequentava la comunità Abele di don Ciotti, organizzava il racket in Lombardia. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 10 gennaio 2022.
La ’ndrangheta è una moneta con una faccia di modernità affaristica e il rovescio di tragedia greca. Rocco Molè ha ventisei anni ed è già in carcere. Con il suo cognome non ci sarebbe da stupirsi. Il padre Girolamo detto Mommo sta scontando una lunga condanna. Lo zio omonimo è stato ucciso il primo febbraio 2008 a Gioia Tauro in contrada Ciambra, non lontano dal quartiere rom che ha dato il titolo a un film di Jonas Carpignano.
L’INCHIESTA DELL’ANTIMAFIA DI CATANZARO. Amaro del capo, tutti i contatti tra i soci Caffo e il clan di ‘ndrangheta dei Mancuso. Giovanni Tizian e Nello Trocchia su editorialedomani.it l'11 dicembre 2021. «L'amaro del capo ... è Capo Vaticano… non capo», il padrino della ‘ndrangheta ride mentre spiega al suo interlocutore russo che il liquore non si chiama così per onorare un boss di mafia ma uno dei luoghi più incantevoli della Calabria, Capo Vaticano. Il 20 marzo 2020 le cimici dei carabinieri registrano senza sosta ogni parola detta a un pranzo d’affari. Il pranzo in cui il padrino parla dell’Amaro non è l’unico indizio che ha convinto i magistrati della procura antimafia di Catanzaro a iscrivere nel registro degli indagati due dei proprietari della“Distilleria fratelli Caffo 1915”, Giuseppe Caffo e Sebastiano Caffo. «Non abbiamo ricevuto comunicazioni o notifiche, non abbiamo niente da nascondere», dice Pippo Caffo, il presidente del gruppo.
Inchiesta su Amaro del capo e il clan di ‘ndrangheta, parlano i fondatori «Siamo puliti». Giovanni Tizian e Nello Trocchia su editorialedomani.it l'11 dicembre 2021. Limbadi, nel cuore della Calabria, provincia di Vibo Valentia, è la roccaforte della più potente cosca di ‘ndrangheta, quella dei Mancuso. Il capo, Luigi Mancuso, lo chiamano il supremo, oppure, confidenzialmente, lo zio. A Limbadi c’è anche la famosa distilleria della famiglia Caffo che produce l’Amaro del Capo. Domani ha rivelato che i vertici sono indagati per concorso esterno in associazione mafiosa. «Non faccio il politologo, non faccio l’inquisitore, io conosco le persone. Se queste persone sono ‘trattate’ dagli organi dello stato, io non ho niente da rimproverargli né da rimproverarmi», dice Giuseppe Caffo quando gli chiediamo cosa pensa dei Mancuso. «Abbiamo rating legalità altissimo, siamo un’impresa pulita e fieri di lavorare nella nostra terra», dice Nuccio Caffo, amministratore delegato e figlio di Pippo.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Sicario dei boss e uomo dei servizi: si riaprono le indagini su Antonino Gioè, l’infiltrato nella strage di Capaci. L’uomo chiave dell’eccidio che ha portato alla morte del giudice Giovanni Falcone segnalato per “operazioni di intelligence”. La procura ora riapre il caso sulla sua morte. E si avviano nuove indagini anche sulla fine di un colonnello dell’ex Sismi. Enrico Bellavia su L'Espresso l'11 aprile 2022.
A suo modo un talento precoce. Un uomo d’azione la cui abilità non era passata inosservata. «Persona certamente idonea a essere adoperata per compiti di intelligence militare»: così annotavano i carabinieri di Altofonte sul fascicolo di Antonino Gioè, classe 1948, al tempo in cui, nel 1969, il futuro stragista chiave dell’eccidio di Capaci si preparava alla leva obbligatoria.
Che fosse un uomo d’azione, confermando la sinistra postilla del suo anonimo talent scout in divisa, lo dimostrò 24 anni dopo, scivolando a pancia sotto su uno skateboard per imbottire di esplosivo il cunicolo dell’autostrada saltata in aria il 23 maggio del 1992 e uccidere il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i tre agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Che Gioè fosse con un piede nella mafia e l’altro nei servizi cosiddetti deviati, è da sempre molto più di un sospetto, avvalorato da altrettanti indizi. Era l’uomo che Paolo Bellini, l’ambiguo terrorista nero della strage alla stazione di Bologna, contattò da potenziale infiltrato nella mafia. Ed era soprattutto l’uomo a cui Franco Di Carlo, il boss di Altofonte, in esilio forzato in un penitenziario inglese, affidò il compito di assecondare le richieste che certi suoi amici dei servizi erano andati a rappresentargli nel 1989, l’anno del fallito attentato ai danni di Falcone sulla scogliera dell’Addaura. «Volevano neutralizzare il giudice», spiegò Di Carlo da collaboratore di giustizia.
Più avanti, quegli stessi amici, e siamo a ridosso del 1992, erano tornati alla carica, cercando un contatto diretto dentro Cosa nostra. Questa volta il giudice faceva ancora più paura perché dall’ufficio degli affari penali del ministero di Grazia e giustizia, dopo aver assestato il colpo del maxiprocesso, si preparava a fare piazza pulita di anni di incrostate connivenze tra pezzi dello Stato e la mafia. E ancora una volta Gioè era il tramite giusto.
Il sicario con affidavit da 007, del quale aveva anche parlato in commissione antimafia il procuratore Gianfranco Donadio, di sicuro partecipò alla strage mafiosa di Capaci, telefonando per tre volte a tre ore dallo scoppio della bomba a un’utenza del Minnesota con un apparecchio inizializzato utilizzando dei numeri assegnati da una centrale telefonica di Roma Nord, base di una struttura riservata per i collegamenti speciali dei servizi.
Poi, da Bellini, Gioè ricevette il suggerimento per spostare al Nord, ai monumenti e alle chiese, la strategia delle bombe. Prima c’era stata la strage di via D’Amelio per uccidere Paolo Borsellino, 19 luglio 1992, ma stranamente Gioè e il gruppo di Altofonte, Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, non fu impiegato. Gioè si limitò a consegnare dei telecomandi. Lì c’era forse qualche altro «infiltrato nella mafia» su cui la moglie di Di Matteo suggerì al marito di tacere quando il figlio Giuseppe, tenuto in ostaggio per oltre 700 giorni e poi sciolto nell’acido, era nelle mani dei suoi ex compari. E Di Matteo non ha mai voluto approfondire la questione.
Ma torniamo a Gioè. All’indomani del secondo ciclo di attentati a Firenze, Roma, e Milano nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, quando era già in carcere da più di 4 mesi, finì vittima di uno strano suicidio in cella su cui adesso torna a indagare la procura di Roma, su input della Direzione nazionale antimafia.
Il dubbio è che lo abbiano fatto fuori per tappargli la bocca. E la nuova inchiesta promette di riaprire a ritroso molti capitoli inesplorati della enigmatica biografia di questo uomo d’onore con ottime entrature negli apparati di sicurezza.
A partire proprio da quel sinistro accreditamento che giovanissimo lo portò a prestare servizio da paracadutista con tanto di brevetto di lancio in quella stessa caserma, la Vannucci di Livorno, dove si addestrano i reparti specializzati dei carabinieri del Reggimento Tuscania. Tant’è che l’inchiesta promette di esplorare i contorni di un altro suicidio, quello di Mario Ferraro, il colonnello dei servizi, uomo del generale Giuseppe Santovito e per suo tramite contatto privilegiato di Franco Di Carlo con il mondo dell’intelligence, trovato impiccato al porta asciugamani del bagno nel suo appartamento all’Eur, il 16 luglio del 1995. Un’altra morte rimasta avvolta da mistero: la posizione del corpo, la ripulitura dell’appartamento da parte di non meglio precisati emissari, le relazioni pasticciate dei primi agenti.
Ma chi era davvero Nino Gioè? Un uomo della mafia o un uomo di una certa parte dello Stato? O di tutte e due insieme? E con chi aveva iniziato a parlare nel penitenziario romano di Rebibbia, unico tra gli stragisti a scontare solo un giorno di carcere duro al 41 bis?
Dal processo d’appello sulla ’ndrangheta stragista, in corso a Reggio Calabria, è venuto fuori, lo ha riportato Repubblica, che Gioè si apprestava a collaborare. Molti indizi convergono. Tuttavia non ci sono tracce di verbali, né di colloqui investigativi. Chi erano dunque gli interlocutori? Chi poteva permettersi il lusso di entrare a Rebibbia, parlargli e non lasciare tracce. Gioè, formalmente detenuto pericolosissimo perché stragista, godeva di un certo trattamento di favore.
Santino Di Matteo che ha condiviso lo stesso carcere con lui prima di essere trasferito all’Asinara, ha raccontato di essersi molto stupito quando, vedendolo da una finestra nel cortile interno di Rebibbia, gli raccontò che aveva colloqui giornalieri con il fratello e riceveva buon cibo dell’amministrazione. «Rimasi colpito perché a noi non era concesso neanche il pane», si insospettì Di Matteo. Le carceri, in quel momento storico, si erano trasformate in incubatori di potenziali nuovi collaboratori. Ma all’opera, per stimolare le voci di dentro dall’universo mafioso, c’erano molte figure impegnate a indirizzare le rivelazioni, ben prima che approdassero a verbali ufficiali redatti davanti ai magistrati.
Qualunque fosse stata davvero la scelta di Gioè lo deve aver tormentato. Gino La Barbera, suo amico e allievo, pure lui a Rebibbia, notò che si era lasciato andare: barba lunga e capelli arruffati. Da Radio Carcere seppe che Gioè giustificava l’aspetto trasandato con la necessità di dissimulare le proprie sembianze in vista di eventuali confronti e riconoscimenti. Ma la cosa non convinse l’amico. La storia del presunto suicidio di Gioè che tanto inquietava il magistrato Loris d’Ambrosio, consigliere giuridico del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, a colloquio, intercettato, con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, ha da sempre il sapore di una messinscena.
Gioè si sarebbe tolto la vita annodando i lacci delle scarpe, che in teoria non avrebbe dovuto avere, al terzo anello della grata della cella che occupava da solo, lasciandosi poi cadere da un’altezza minima. Il cappio lasciò però un segno al collo come se fosse stato tirato dal basso, il corpo presentava dei segni compatibili con uno strangolamento alle spalle e alcune costole erano fratturate. «Nel tentativo di rianimarlo», testimoniarono gli agenti penitenziari. Anche se le costole rotte erano molto più giù del cuore. Ma fu lo stato dei luoghi a sconcertare. Sotto alla finestra c’era un tavolino, attaccato al muro e con la cena al suo posto. Tutto in ordine, come se la scena fosse stata ricomposta, non ha potuto mancare di notare il funzionario della Dia Michelangelo Di Stefano davanti al pm Giuseppe Lombardo al processo di Reggio Calabria.
Sul tavolo della cella, una lettera di commiato di sei pagine con una grafia che cambia in corso di scrittura in cui Gioè si definiva «un mostro» che «ora sta ritrovando la serenità». Non un riferimento esplicito al suicidio e invece una sorta di liberatoria per alcune delle persone che involontariamente aveva fatto arrestare, tra cui il boss della ‘ndrangheta Domenico Papalia. Dopo Capaci, con La Barbera, Gioè si era rintanato, sebbene non fosse ufficialmente ricercato, nel covo di via Ughetti, a Palermo e lì, ignaro di essere intercettato dalla Dia, aveva parlato a ruota libera. La Barbera aveva fatto riferimento «all’attentatuni», aprendo uno squarcio sulla composizione del gruppo che avrebbe portato alla verità giudiziaria sulla strage di Capaci.
Strano posto via Ughetti, frequentato anche da una coppia di agenti del Sisde amanti clandestini. L’improvvida chiacchierata di Gioè con La Barbera fu il secondo dei gravi infortuni della sua carriera di mafioso iniziata nel 1976. Il primo gli era costato il carcere quando di anni ne aveva 31. Aveva dimenticato una pistola in una trattoria di Palermo. E quando era andata a riprenderla aveva trovato i poliziotti del capo della Mobile, Boris Giuliano. In quel 1979, attraverso una bolletta che aveva in tasca, gli agenti erano risaliti al covo ancora caldo del boss corleonese Leoluca Bagarella in via Pecori Giraldi e avevano messo le mani su una partita di eroina e su una valigia di soldi provenienti dall’America. Giuliano fu ucciso quello stesso anno. Gioè che aveva inguaiato i suoi, rimediò una condanna a 11 anni e 10 mesi. Gliene abbuonarono un bel po’ e nell’86 riassaporò la libertà. Dopo un periodo da soggiornante obbligato a Moncalvo, vicino ad Asti, nel 1990, andò ufficialmente a lavorare da benzinaio nell’impianto della sorella ad Altofonte. E, incredibilmente, frequentava ancora lo stesso covo di via Giraldi. A marzo del 1992 aveva già cambiato lavoro. Era operaio presso la ditta edile di Altofonte che aveva la manutenzione dei cunicoli dell’autostrada di Capaci. Un furgone bianco di quella ditta fu notato anche alla vigilia dell’attentato da due testimoni. Uno era un poliziotto ma poi senza ragione apparente cambiò versione. Gioè ebbe ancora il tempo, tra Capaci e via D’Amelio, di eliminare il boss di Alcamo, Vincenzo Milazzo. Lo avevano attirato in trappola per interrogarlo. Volevano chiedergli della parentela della sua compagna con un agente dei servizi. Ma mentre era in corso l’interrogatorio, Gioè affrettò i tempi e freddò Milazzo. L’indomani toccò anche alla compagna che era incinta. E anche quelle furono tappate.
Il suicidio di Nino Gioè, le stragi e il ritorno del teorema trattativa con la “ndrangheta stragista”. In una drammatica lettera prima di morire scriveva: «Ero diventato un mostro e lo sono... spero che (le mie parole) possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati, coinvolti in vicende giudiziarie». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 gennaio 2022. Giunge notizia, rivelata da Repubblica, che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria ha messo agli atti del processo d’appello ‘ndrangheta stragista, il fatto che il boss Nino Gioè avrebbe voluto collaborare con la giustizia. Ufficialmente si sarebbe suicidato in carcere di Rebibbia la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993. Ora, con questi nuovi atti, si farebbe largo l’ipotesi che in realtà sarebbe stato ucciso, simulandone il suicidio. Subito prende piedi di nuovo l’ipotesi dei servizi segreti deviati, addirittura – nell’articolo de La Repubblica – spunta il nome del “protocollo farfalla”. Ma cosa c’entra con il 1993, quando è assodato che parliamo di una operazione di intelligence fallimentare effettuata tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004? Un miscuglio di suggestioni che prestano il fianco alla tesi della “ ’ndrangheta stragista”, molto simile al teorema trattativa Stato-mafia, ma integrata con la componente calabrese.
I motivi del perché Gioè è morto
Che sia possibile un suicidio simulato, non è una ipotesi peregrina. Non è un caso che i collaboratori con la giustizia, in carcere vanno protetti e messi in sezioni isolate dai mafiosi. A maggior ragione uno come Antonio Gioè. Infatti era situato in una cella singola, seppur nello stesso braccio dove era recluso Totò Riina. Gioè era coinvolto nella strage di Capaci e catturato dalla Dia nel marzo del 1993. Il 29 luglio dello stesso anno fu trovato suicida nella cella del carcere di Rebibbia, impiccato alle sbarre coi lacci delle sue scarpe. Emersero subito delle perplessità e i sospetti manifestati, e non solo dagli investigatori, sulla spontaneità del suicidio di Gioè, e l’ipotesi tra le altre formulate che il suicidio fosse stato determinato in Gioè dal timore di poter rivelare i nomi dei partecipanti alle stragi e da maltrattamenti subiti durante la detenzione da esponenti delle forze dell’ordine, per estorcergli rivelazioni utili alle indagini, nel contesto di una gestione arbitraria dei detenuti, avallata da taluni settori investigativi.
Come si evince dalle risultanze processuali, Gioè, prima della cattura, era stato intercettato mentre parlava di progetti di uccisione degli agenti del carcere di Pianosa e di un attentato al Palazzo di giustizia di Palermo. Attraverso di lui, gli investigatori avevano individuato il commando della strage di Capaci. In un interrogatorio del 10 settembre ’96, fatto congiuntamente dai Pm delle Procura di Palermo, Caltanissetta e Firenze, il pentito Giovanni Brusca è stato sentito pure sul suicidio di Gioè, e nel rispondere ne dipingeva una personalità autodistruttiva, accennando al fatto che spesso Gioè faceva discorsi su delle sue letture riguardanti casi di suicidio con metodi particolari di avvelenamento, per non essere costretti a parlare. Quindi Brusca non aveva avuto dubbi che Gioè si fosse effettivamente suicidato in carcere. Il dubbio, quindi, rimane.
Gioè aveva infranto le regole di Cosa Nostra
Ma non finisce qui. Gioè, prima di morire, ha lasciato una drammatica lettera. «Stasera sto trovando la pace e la serenità che avevo perso circa 17 anni fa. Ero diventato un mostro e lo sono stato – scriveva – fino a quando ho preso la penna per scrivere queste due righe, che spero possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati, che solo per mia mostruosità si ritroveranno coinvolti in vicende giudiziarie».
Il boss avrebbe infranto nel modo peggior le regole di Cosa nostra, parlando dei segreti della mafia tramite il suo telefonino intercettato, senza però rendersi conto di essere controllato dagli investigatori. Da qui le “minacce” a lui e ai suoi familiari, le “pressioni” di cui deve essere stato oggetto forse anche in carcere che lo avrebbero spinto al suicidio.
Gioè, infatti nella lettera, parlava delle «moltissime fandonie» dette «per millanteria» e registrate dalle forze dell’ordine, tentando di scagionare dalle sue accuse alcuni boss. Nella lettera, Gioè aggiunse anche questo: «…dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato all’editore una tessera dello stesso creditore, il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato: mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il signor Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo». Ed è qui uno dei nodi dove si inserisce una delle tesi che entrò nel processo trattativa Stato-mafia. È la meno conosciuta, ma dove hanno costruito l’ennesimo castello di carta: la trattativa Gioè – Paolo Bellini sulle opere d’arte.
Paolo Bellini avrebbe deviato verso il teorema trattativa
Quest’ultimo è un personaggio ambiguo, dove è difficile distinguerlo tra la millanteria e la credibilità. Nato nel 1953, aveva un passato di estremista nei gruppi emiliani di Avanguardia Nazionale, oltre che una serie di reati alle spalle, che lo avevano portato per anni in latitanza in Sudamerica (dal 1976) ed in prigione in Italia. In carcere – sotto il falso nome di Roberto da Silva – Bellini era entrato in confidenza con Gioè, cosa che gli aveva consentito di operare informalmente come contatto tra le forze dell’ordine e la mafia a partire dal 1993.
Suggestioni a parte, le risultanze processuali indicano che l’ex ros Mario Mori svalutò l’importanza di Bellini, considerandolo non in grado di potere fronteggiare da infiltrato quei mafiosi, i quali avrebbero potuto sospettare di lui e ucciderlo subito. In effetti, come ampiamente spiegato da Brusca, e anche da Gioacchino La Barbera, loro stessi e Gioè per primo (pensiamo a quel passaggio della lettera), sospettarono dal primo istante che Bellini fosse un infiltrato, che volesse farli catturare o che avesse comunque doppie mire.
Anche gli ufficiali della Dia di Roma, cui pure lo stesso Bellini era andato a rivolgersi, chiedendo per la sua missione in Sicilia trecento milioni di lire in cambio, non la reputarono di interesse. In realtà, emerge l’ipotesi che le dichiarazioni rese da Bellini, soprattutto quelle successive al dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Firenze, sui suoi dialoghi con Gioè sulla trattativa con persone potenti di Roma, non rivestirebbero di alcuna credibilità. Perché? Le dichiarazioni dello stesso Bellini al Pm ed alla Corte d’Assise di Firenze, paleserebbero che l’idea di colpire i monumenti (stragi mafiose del 1993) fu abilmente suggerita proprio da Bellini a Gioè. Nella sentenza della corte d’assise di Firenze, emerge che anche Brusca, in tutto sul punto riscontato, ne fu diretto testimone. La verità, come sempre, è quella più semplice. Anche se mal si incastra con taluni infiniti teoremi giudiziari.
La sigla “falange armata” usata dai mafiosi per depistare
Inventata in ambienti carcerari, tanto che inizialmente appariva con il nome “Falange armata penitenziaria”, è stato sempre Brusca – durante l’interrogatorio del 96 – a rilevare che con quella sigla erano stati rivendicati gli attentati di Firenze e Milano, per depistare – diceva – deviando i sospetti sulla matrice delle bombe. Spiegava al riguardo che in precedenza anche durante discorsi fatti di tra lui e Gioè, si parlava di depistaggio, ragion per cui era portato a ritenere che al momento delle stragi del ’93 Bagarella avesse utilizzato la sigla Falange Armata. Gli sembrava di ricordare di avere sentito Bagarella pronunciare quella sigla allorché facendo una battuta di spirito, dopo una delle stragi aveva detto che erano stati i terroristi, pronunciando proprio l’espressione Falange Armata.
Ricordiamo che la sigla viene usata dalla mafia, in terra siciliana, fin dal 1992: parte dall’omicidio di Salvo Lima, attraversa quello del maresciallo Guazzelli (due omicidi che, come si evince dal verbale di Teresi del 1992, erano legati a mafia appalti), passa da Capaci a via D’Amelio, fino ad arrivare alla strage dei Geogofili e alle bombe a Roma e Milano. Da dove l’hanno presa in prestito? Apparve nei notiziari italiani nel 1990, con la sigla “falange armata penitenziaria” che ha rivendicato l’omicidio dell’educatore del carcere di Opera, in provincia di Milano, Umberto Mormile. Da lì, la fantomatica sigla viene usata da chiunque, perfino ragazzini hacker, per rivendicare qualsiasi omicidio. Anche dalla mafia.
Antonio Giangrande: Se questi son giornalisti...
In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è , pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.
La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.
La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.
A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti. Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.
Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.
Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico.
Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.
Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.
Sangue, bossoli e mare, scrive Tiziana Magrì su “Narco Mafie” il 22 set 2015. La mafia tarantina e la sua storia si articolano su un territorio complesso, strettamente legato al mare e a tutto quello che dal mare può venire. Ripercorriamone la storia recente allo scopo di ritrarre un territorio dove, al novero dei traffici illeciti, si è aggiunto il business portato dai migranti e dall’accoglienza a loro destinata sul suolo italiano. Il 3 luglio scorso, il governo, ha deciso per l’ennesima volta il futuro della città di Taranto, firmando l’ottavo decreto salva-Ilva. Un decreto che, se da un lato dovrebbe garantire 15 mila posti di lavoro, dall’altro salva ancora una volta un colosso aziendale che negli anni, dentro e fuori dalla fabbrica, è stato causa di malattie e morti. Ancora un volta, quindi, scoppia la bolla di sapone di quello che, ciclicamente, media e opinionisti chiamano “caso Taranto”; che d’altronde, suona ormai quasi “città criminale”. La morte di Taranto non è solo una questione del presente: la città sullo Jonio ha alle spalle un passato difficile (abbastanza recente), quello che va dalla fine degli anni Ottanta agli anni Novanta. È il tempo delle pistole fumanti, il periodo di piombo della criminalità tarantina. Una guerra cruenta che ha lasciato sull’asfalto, tra boss, affiliati e vittime innocenti 169 persone. Erano gli anni dei fratelli Modeo (fratellastri, in verità, stesso padre ma madri diverse): Antonio, il Messicano; e poi Riccardo, Giancarlo e Claudio. Sono stati loro a regnare sulla città. Soprattutto Antonio Modeo, in prima fila in Lotta Continua durante gli anni Settanta, ideatore prima e creatore poi della mala tarantina. Una mafia moderna, che vuole uscire dal provincialismo per diventare borghese. Modeo, faccia da duro, si presentava come un uomo ambizioso e intelligente. Soprannominato il Messicano per quella sua somiglianza con Charles Bronson, attore protagonista del film Il Giustiziere della Notte. Correva l’anno 1986 e il clan governava incontrastato sul tarantino. Al Messicano, affiliato alla Nuova camorra pugliese da Raffaele Cutolo in persona e Aldo Vuto, non manca la vena imprenditoriale: con la ditta Italferro Sud monopolizza il mercato della rottamazione e quello della mitilicoltura grazie alla Cooperativa Praia a Mare, estendendo la propria influenza anche fuori dai confini della Puglia. Antonio Modeo, con i suoi fratelli, viene arrestato e processato dal Tribunale di Bari. Ma tra loro i rapporti non sono facili. Sono in guerra per contendersi il monopolio del mercato della droga. Una frattura insanabile, che determina presto cambiamenti di alleanze e strategie tra i due clan neonati: da un lato Antonio, sostenuto dai boss Salvatore De Vitis, Matteo La Gioia, Orlando D’Oronzo, Cataldo Ricciardi e Gregorio Cicale; dall’altro i fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio, appoggiati dal boss dell’alto barese Salvatore Annacondia. È da qui che prende avvio la lunga e sanguinosa faida che trasformerà Taranto. Il 21 agosto 1989, su consenso di Cutolo, viene ammazzato Paolo De Vitis, vecchio capo della mala tarantina. Il giorno dopo, sei colpi di pistola colpiscono a morte Cosima Ceci, madre dei Modeo, nella sua casa al quartiere Tamburi. In questa trama, nell’incapacità di spezzare il filo, si delinea, chiaro, il legame grazie al quale politica e mafia si intrecciano. La Commissione Antimafia porta l’attenzione su Taranto e le sue vicende. Amministratori come Alfonso Sansone, Giancarlo Cito e l’assessore A. F., politico di scuola democristiana, finiscono sotto osservazione. Il malaffare politico è trasversale. Nel 1995, Giancarlo Cito viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e indagato per concorso in omicidio (poi assolto) per l’uccisione del boss Matteo La Gioia (rivale del clan Modeo). Cito, futuro sindaco di Taranto e parlamentare, venne condannato nel 1997 in concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi rapporti con la Sacra Corona Unita. Sarà Salvatore Annacondia, boss della malavita della zona nord del barese (e le cui rivelazioni hanno raccontato molto della mafia pugliese), affiliato al clan dei fratelli Modeo, a rivelare la complicità fra Cito e i Modeo. Il 16 agosto 1990, a Bisceglie, mentre rincasava da una giornata in spiaggia, viene freddato Antonio Modeo, all’epoca latitante. Il quadro della violenta malavita tarantina dell’era Modeo conoscerà l’inizio della sua fine proprio con la morte del Messicano, voluta da Annacondia, con la complicità, non certo di secondo piano, degli stessi Gianfranco e Riccardo Modeo. Da questo momento comandano loro, e dal carcere dirigono la guerra contro il nuovo boss Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis (subentrato al padre Salvatore). La città è in mano ai killer. Tutta l’Italia ha gli occhi puntati su Taranto. Inizia così la caccia ai nuovi mandanti ed esecutori. Inizierà la grande stagione dei blitz e del maxi-processo Ellesponto. I fratelli Modeo (Riccardo, Gianfranco e Claudio), Vincenzo Stranieri, braccio destro di Rogoli, Salvatore Annancondia, e altri esponenti criminali vengono condannati al 41bis, al carcere duro, capo d’accusa: associazione di stampo mafioso. Durante la trattativa Stato-mafia anche i fratelli Modeo parlano. Dal declino dei Modeo emergono cellule indipendenti. Da allora, in molti sono stati scarcerati o ammessi a misure alternative e per la maggior parte rientrati nel vecchio ruolo di gestori di attività illecite. Rispetto agli anni Novanta è la logica criminale a essere cambiata: non più contrasto, ma collaborazione. Identica è invece la vocazione autonoma della criminalità tarantina. Oggi come allora non ha instaurato veri e propri sodalizi con altri soggetti criminali. Non c’è la recrudescenza degli anni Ottanta e Novanta. Piuttosto un esercizio costante di potere sul territorio: l’estorsione, l’usura e il contrabbando sono fenomeni diffusi e più o meno equamente ripartiti tra i diversi clan. La nuova dimensione della mafia tarantina sono gli investimenti nell’economia legale di denaro illecitamente accumulato. Bar, supermercati e, su tutto, sale da gioco e centri scommesse. L’aspirazione è di entrare nei luoghi decisionali. Nell’ultima maxi-operazione degli agenti della squadra mobile di Taranto, condotta in collaborazione con la Dda di Lecce e denominata Alias, sono emersi chiari i rapporti tra mafia e politica. Il clan che tira le fila è quello capeggiato da Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis, entrambi già condannati nel processo Ellesponto per il reato di cui all’art. 416 bis, ed entrambi in libertà dopo oltre vent’anni. I due avevano costruito un’associazione dedita a rapine, estorsioni e traffico di stupefacenti ed erano pronti a scatenare una nuova guerra, anche per vendicarsi di chi negli anni della reclusione gli ha voltato le spalle. Tra i 52 arresti scattati con l’operazione Alias, si fa notare quello di Fabrizio Pomes, ex-gestore del Centro sportivo Magna Grecia ed ex segretario provinciale del Nuovo Psi. Pomes, secondo gli inquirenti, era un fiancheggiatore dell’organizzazione dei boss D’Oronzo-De Vitis per conto dei quali creava cooperative per la gestione della struttura sportiva di proprietà comunale. Nel prosieguo dell’inchiesta, Alias 2, è emerso il nome della neo consigliera provinciale Giuseppina Castellaneta, moglie del fratello di Nicola De Vitis e accusato di estorsione ai danni di Gino Pucci, ex presidente dell’Amiu, l’azienda municipalizzata di gestione dei rifiuti. I clan del vecchio ordine con al seguito nuove leve vogliono, ora come ora, giocare pulito e mettere le mani sull’imprenditoria locale che resiste alla crisi. L’ingerenza della criminalità nel comparto dei lavori pubblici si presenta sotto molteplici aspetti. Un esempio illuminante: i mezzi per la movimentazione terra, che vengono presi a nolo da un’azienda esecutrice dei lavori, sarebbero messi a disposizione da imprese direttamente riconducibili ai clan. In provincia (vero epicentro del potere mafioso è la zona Manduria/Sava), dove i capi indiscussi del litorale jonico fanno ancora riferimento a Vincenzo Stranieri, sottoposto al carcere duro, capo assoluto dello spaccio di stupefacenti su quasi tutto il territorio tarantino. Il tristemente noto pluri-omicidio del 17 marzo dello scorso anno, in cui furono uccisi Domenico Orlando, pregiudicato in semilibertà, la sua compagna Carla Fornari e il suo figlioletto di tre anni, Domenico Petruzzelli, ha dato prova di come la contesa del mercato della droga sia in fase di riassestamento con l’uscita dalla galera dei vecchi leader e la smania dei nuovi intraprendenti boss. Sono proprio le nuove leve ad andare alla ricerca di nuovi accordi e alleanze. I D’Oronzo/De Vitis, ad esempio, sono in relazione con i Mollica di Africo, con cui stanno stringendo accordi per l’approvvigionamento di sostanze stupefacenti dai canali del Sud America, Africa e Sud-est asiatico.
«La Puglia è nostra», l'intercettazione di Walter Modeo nell'inchiesta per droga e mafia. La Voce di Manduria domenica 23 gennaio 2022. «La Puglia è nostra». Così, in un’intercettazione captata dalla Guardia di Finanza di Brindisi che indagava su delega della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, il manduriano Walter Modeo, esaltava il suo presunto potere criminale mentre preparava le armi per un attentato di fuoco contro gli appartenenti al clan rivale di Giovanni Donatiello, 60 anni di Mesagne da poco libero dopo 30 di carcere per reati di mafia. Era il 27 maggio del 2019. La cimice della procura antimafia registra i rumori dello scarrellamento dei fucili mentre Modeo parla con un trafficante di Oria che gli aveva chiesto protezione contro le richieste estorsive dei mesagnesi. «Te ne puoi andare – dice il manduriano -, quelli non sanno neanche con chi si sono messi contro, mille e cinquecento dipendenti abbiamo tra albanesi, russi e ucraini, quelli non sanno neanche con chi cazzo si mettono contro, il clan mio è operativo, noi comandiamo qua, la Puglia è nostra, punto». È uno dei passaggi più forti delle numerose intercettazioni ambientali e telefoniche riportate nelle 489 pagine dell’ordinanza della giudice Cinzia Vergine che firma 23 misure di custodia cautelare nei confronti di altrettante persone di diversa provenienza e nazionalità. Tra questi anche 5 manduriani, tre dei quali coinvolti anche nella recente inchiesta «Cupola» dell’antimafia leccese: oltre a Modeo, Nazareno Malorgio e Elio Palmisano, tutti arrestati ieri per reati di droga, i primi due con l’aggravante dell’associazione mafiosa. L’inchiesta coinvolge in tutto 45 gli indagati che devono rispondere a vario titolo di traffico internazionale di stupefacenti, estorsione aggravata da metodo mafioso, detenzione e porto in luogo pubblico di armi comuni ed armi da guerra, danneggiamento, violazione agli obblighi imposti dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale ed autoriciclaggio. Le indagini hanno riguardato un’organizzazione criminale transnazionale con base in Albania in grado di importare nelle provincie di Brindisi e Taranto grosse partite di eroina e cocaina in arrivo dalla Turchia e dall’Olanda, poi smistate sulle diverse piazze di spaccio della regione pugliese ed in provincia di Reggio Calabria.
“La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato … Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, queste avrebbe forse potuto esistere?….All’epoca tenevo ancora il relativo registro, in cui figurava che per l’immondizia entravano 100 milioni al mese, mentre poi mi sono reso conto che in realtà il profitto era di almeno 600-700 milioni al mese….Sono inoltre al corrente del fatto che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scarica nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti aerei tramite elicotteri: da qualche verbale dovrebbe risultare che ho mostrato quei luoghi…..Vi erano fusti che contenevano tuolene, ovvero rifiuti provenienti da fabbriche della zona di Arezzo: si trattava di residui di pitture.…I rifiuti venivano anche da Massa Carrara, da Genova, da La Spezia, da Milano….Vi sono molte sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di lavorazione di tutte le specie, tra cui quelli provenienti da concerie….. è diventato un affare autorizzato, che faceva entrare soldi nelle casse del clan. Tuttavia, quel traffico veniva già attuato in precedenza e gli abitanti del paese rischiano di morire tutti di cancro entro venti anni; non credo, infatti, che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via avranno forse venti anni di vita!….Qui si parla di milioni, non di migliaia. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato, vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord, tra i quali vi era anche un mio camion. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno…..Fino al 1992 noi arrivavamo nella zona del Molise (Isernia e le zone vicine), a Latina … Non so cosa è accaduto dopo. Se vogliono, possono arrivare anche a Milano ….In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta. Noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C’è la prova … Io, ad esempio, avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a fare eleggere il sindaco. Prima il sindaco era socialista e noi eravamo democristiani. Dopo la guerra con i Bardellino… Ci avrebbe fatto piacere anche se fosse rimasto socialista, perché era la stessa cosa. Per esempio, a Frignano avevamo i comunisti. A noi importava non il colore ma solo i soldi, perché c’era un’uscita di 2 miliardi e mezzo al mese. Posso raccontare un aneddoto, anche perché è già stato verbalizzato ed i protagonisti sono agli arresti, tranquilli. A Villa Literno, che era di mia competenza, ho fatto io stesso l’amministrazione comunale. Abbiamo candidato determinate persone al di fuori di ogni sospetto, persone con parvenze pulite ed abbiamo fatto eleggere dieci consiglieri, mentre prima ne prendevano tre o quattro. Un seggio lo hanno preso i repubblicani, otto i socialisti ed uno i comunisti (un certo Fabozzo). La sera li abbiamo riuniti e ne mancava uno. Io li ho riuniti e ho detto loro: “tu fai il sindaco, tu fai l’assessore e via di questo passo. Mi hanno detto: “ma manca un consigliere per avere la maggioranza”. All’epoca c’era Zorro, il quale era capo zona e dipendeva da me; ho detto: andate a prendere Enrico Fabozzo e lo facciamo diventare democristiano. Infatti, lo facemmo assessore al personale. La sera era comunista e la mattina dopo diventò democristiano. E così che si facevano le amministrazioni. Il patto era che gli affari fino a 100 milioni li gestiva il comune, oltre i 100 milioni, con i consorzi, ci portavano l’elenco dei lavori e noi li assegnavamo. Ai comuni dicevamo che sui grandi lavori avrebbero trattato direttamente con noi al 2,50 per cento. C’era una tariffa: 5 per cento sulle opere di costruzione e 10 per cento sulle opere stradali. Perché le strade si debbono rifare ogni anno? Perché non venivano fatte bene, perché se il capitolato stabiliva che vi dovessero essere sei centimetri di asfalto, in realtà ne venivano messi tre, perché il cemento utilizzato non era quello previsto, e così via. Il sistema generale era così. Speriamo che cambi….Il mercato dei rifiuti in Italia è uno solo e veniva tutto gestito da poche persone. Poi i clan si sono intromessi e hanno detto (come hanno fatto per le strade): noi vi facciamo passare i camion, non ve li distruggiamo, ma ci dovete dare tanto. Poiché era più conveniente dare ai clan che lavorare di nascosto … Ma per poter fare ciò serviva gente che entrasse in queste associazioni culturali, quindi gente intelligente, che studiava…..” Carmine Schiavone - audizione dell’ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo di rifiuti.
Carmine Schiavone, l’esperto di finanza del clan dei Casalesi, l’uomo che muoveva i miliardi degli affari illeciti dell’associazione camorristica si apre alle telecamere di Sky Tg24 e alla maniera sua avverte che ancora tanta gente è destinata a morire a causa dei rifiuti tossici che giacciono nel sottosuolo del basso Lazio e Campania, finanche nella loro stessa terra, Casal di Principe. Esce dal processo Spartacus dove come pentito ha svelato i movimenti economici dell’intero clan ma avverte pure che le mafie sopravviveranno e che nessuno sarà in grado di sconfiggerle (e sembra non sia una minaccia quanto una promessa). L’intervista dura 9 minuti e è agghiacciante per due motivi: per il messaggio che manda alle istituzioni, ovvero che non sono migliori della camorra e perché avverte che una bomba a orologeria di veleni e scorie nucleari è destinata a esplodere a breve nel basso Lazio a Latina dove nelle cave sono interrati fusti con rifiuti nucleari. Il che già ha scatenato le reazioni di tutti quei movimenti che da tempo lottano nella Terra dei Fuochi per essere ascoltati proprio da quelle istituzioni che Schiavone non esita a definire corresponsabili con la camorra. E ne spiega il perché: Ci sono forti interessi a livello economico a livello elettorale e noi spostavamo 70 mila 80 mila voti da un partito all’altro e questo faceva la differenza nelle elezioni. Ma si stanno a rendere conto che ci stanno 5 milioni di persone a morire? Abbiamo scelto basso Lazio e Campania perché facevano parte dei Casale. Era terra nostra. Caso ha voluto che proprio il giorno prima su Avvenire don Maurizio Patriciello il prete di Caivano che si batte contro l’omertà e la strage nella Terra dei fuochi scrivesse: Vedere morire i figli è qualcosa di orrendo, insopportabile. Soprattutto se si poteva evitare. Il popolo semplice non riesce a capire il motivo di tanti ritardi e omissioni, di questo lasciar mano libera a chi viola la legge, a chi uccide. E comincia a serpeggiare il pensiero che, in realtà, non si voglia proprio intervenire. Che sia in atto una strategia per non arrivare a soluzioni. Che si voglia nascondere qualcosa o qualcuno. Che questa situazione «faccia comodo» a tanti. Non ha tutti i torti, la povera gente. Si sente presa in giro. I verbi coniugati da chi comanda sono sempre al futuro: faremo, diremo, provvederemo. Calato il sipario dell’occasione pubblica, resta solo un silenzio angosciante. E la gente muore, di cancro. E la Campania ancora non ha un registro tumori. E il nuovo ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ancora non viene a vedere con i suoi occhi che cosa sta accadendo in questa regione bella e disgraziata. E si fanno illazioni… Qui si agonizza e si lotta tra fuochi e fumi assassini, e chi ci governa e ci rappresenta ancora pronuncia parole come fumo leggero. Queste morti sono sempre più dolorose e insopportabili. Si muore per motivi vergognosi ed evitabili. Per silenzi omertosi. Per denaro e per potere. Ma chi se non lo Stato, nel quale continuiamo caparbiamente a credere e a sperare, deve prendere di petto la situazione?
Come risponderanno, se risponderanno, politica e istituzioni?
«Esprimo grande soddisfazione per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti’»: così Laura Boldrini, sulla decisione dell’Ufficio di Presidenza. «Si tratta della prima volta che la Presidenza della Camera - senza che questo sia richiesto dalla magistratura - decide di rendere pubblico un documento formato da Commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto». «Lo dovevamo in primo luogo - ha proseguito la presidente della Camera - ai cittadini delle zone della Campania devastate da una catastrofe ambientale cosciente e premeditata, come ho avuto modo di dire anche recentemente a Pollica, per la commemorazione dell’assassinio del sindaco Angelo Vassallo: cittadini che oggi hanno tutto il diritto di conoscere quali crimini siano stati commessi ai loro danni per poter esigere la riparazione possibile. Troppo spesso, nella storia del nostro Paese, il segreto è stato infatti invocato non a tutela non dei diritti di tutti ma a copertura degli interessi di alcuni. La fiducia nelle istituzioni - ha sottolineato Laura Boldrini - si rinsalda anche facendo luce su zone d’ombra immotivate e perciò inaccettabili all’opinione pubblica».
Ecomafia, la profezia del boss Schiavone: "Gli abitanti del Casertano moriranno di cancro". Le parole del pentito del clan dei Casalesi nel 1997: "C'erano camion con sostanze tossiche". Poi l'accusa alla cosca: "Aveva affari milionari", scrive “Libero Quotidiano”. "Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro". Furono queste le parole che il pentito del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, profetizzò nel corso dell'audizione dell'ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta su mafia e rifiuti tossici. Verbali che solo oggi, dopo la rimozione del segreto, sono diventati pubblici: "un segnale di trasparenza e attenzione da parte dell'ufficio di presidenza della Camera nei confronti delle popolazioni della Campania, colpite dal dramma dei rifiuti tossici", come ha sottolineato Valeria Valente, Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati. La profezia - "Quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti del paese rischiano tutti di morire di cancro entro vent'anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita", ribadiva Schiavone sedici anni fa, per poi spiegare: "C'erano camion che arrivavano dalla Germania, camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scaricati nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti tramite elicotteri. Lì ci sono i bufali e non cresce più l'erba. C'erano rifiuti anche da Genova, Massa Carrara, La Spezia e Milano. Erano sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di ogni tipo di lavorazione". Il pentito del clan dei Casalesi raccontava anche degli affari milionari della cosca: "Con i soldi del traffico di rifiuti - diceva - si pagavano i mensili agli affiliati, le spese per i latitanti, gli avvocati, circa due miliardi e mezzo di lire al mese, comprese le spese extra. Per l'immondizia entravano nelle casse del clan dei Casalesi circa 600-700 milioni di lire al mese". Le ecomafie - Carmine Schiavone, durante l'audizione del '97, ricostruiva la genesi dell'ecomafia del Casertano: "A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti". Poi, ecco spuntare Cerci e Chianese: "Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti". "In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C'è la prova. Io ad esempio avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a far eleggere il sindaco. Prima era socialista e noi eravamo democristiani. A Frignano avevamo i comunisti. A noi non importava il colore ma solo i soldi, perché c'erano uscite di due miliardi e mezzo al mese".
Il traffico illegale delle scorie pericolose, i fusti tossici interrati nelle cave, le coperture politiche e massoniche, la maledizione del cancro, scrivono Antonio Castaldo e Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. L’anno è il 1997, il collaboratore Carmine Schiavone aveva già raccontato tutto. È l’audizione davanti alla commissione parlamentare sulle Ecomafie del pentito che con le sue confessioni ha fatto crollare il clan dei Casalesi. L’operazione Spartacus risale a due anni prima. Di rifiuti interrati e di rischi per la salute non si parlava ancora. E non se ne parlò neanche negli anni successivi, perché le dichiarazioni del cugino di Francesco «Sandokan» Schiavone sono rimaste secretate per oltre 16 anni. La Camera ha deciso di renderle pubbliche giovedì 31 ottobre 2013. «Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro», affermò Schiavone, con un tono profetico che purtroppo è stato confermato dai fatti. Le ricerche del Cnr e del Pascale, fatte proprie dal ministero della Salute, descrivono un’impennata della mortalità per tumori nelle province di Napoli e Caserta. Riferendosi al traffico illegale di rifiuti nocivi, Schiavone spiegò che divenne un business «autorizzato» per il clan dei Casalesi nel 1990. «Tuttavia - riferì il pentito - quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti rischiano tutti di morire di cancro entro 20 anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita». Nel corso della sua audizione, Schiavone cita i nomi dei referenti del clan per gli affari nello smaltimento illegale dei rifiuti. Cita Cipriano Chianese, a capo della Resit, e il suo socio Gaetano Cerci. Ovvero gli stessi imprenditori che continueranno a fare affari con lo Stato negli anni successivi, quando l’emergenza rifiuti diventerà incontrollabile. E che ora sono sotto processo. «Chianese - aggiunse Schiavone - aveva introdotto Cerci in circoli culturali ad Arezzo, a Milano, dove aveva fatto le sue amicizie. Attraverso questi circoli culturali entrò automaticamente in un gruppo di persone che gestiva rifiuti tossici. Lavorava a Milano, Arezzo, Pistoia, Massa Carrara, Santa Croce sull’Arno, La Spezia. Cerci si trovava molto bene con un signore che si chiama Licio Gelli». A proposito dei profitti enormi ottenuti smaltendo i rifiuti tossici, oltre 600 milioni di lire al mese, Schiavone aggiunge particolari sulle coperture ai più alti livelli garantite all’organizzazione criminale: «Il nostro era un clan di Stato... La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato... Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, questo avrebbe forse potuto esistere?». Schiavone ricostruì anche la genesi delle ecomafie casertane: «A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti». Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti: «In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. (...) socialisti, democristiani, ma anche comunisti se serviva». Rifiuti tossici sono stati interrati lungo tutto il litorale Domitio e sversati anche nel lago di Lucrino, specchio d’acqua nell’area flegrea. Schiavone raccontò che erano coinvolte diverse organizzazioni criminali - come mafia, `ndrangheta e Sacra Corona Unita - tanto da fare ipotizzare che in diverse zone di Sicilia, Calabria e Puglia, le cosche abbiano agito come il clan dei Casalesi. Il collaboratore di giustizia si soffermò sulle modalità di smaltimento. «Avevamo creato un sistema di tipo militare, con ragazzi incensurati muniti di regolare porto d’armi che giravano in macchina. Avevamo divise e palette dei carabinieri, della finanza e della polizia. Ognuno aveva un suo reparto prestabilito». Schiavone citò una serie di località nell’hinterland di Napoli: «Pure a Villaricca abbiamo fatto scaricare 520 fusti tossici in una cava che fu scavata nel terreno tramite Mimmuccio Ferrara. Durante lo scarico un autista rimase cieco». Ma anche luoghi molto frequentati, a due passi dai centri abitati: « A Casal di Principe, dietro il campo sportivo e nei pressi della superstrada (recentemente è stato fatto un sopralluogo e non è stato trovato nulla)». I camion delle ecomafie imperversavano poi lungo il litorale domizio: «Nel 1992 c’erano 10mila ettari di terreni che costeggiavano tutta la Domitiana, tutti per l’Eurocav e tutto scavato a 30, 40 e 50 metri. Le draghe estraevano sabbia e le buche venivano sistematicamente riempite. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato in un anno». Sotto terra sono finite anche scorie nucleari: «Sono al corrente che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari che sono stati scaricati nelle discariche. Alcuni dovrebbero trovarsi in un terreno sul quale oggi vi sono i bufali e su cui non cresce più erba». Come avveniva l’interramento? «Di notte i camion scaricavano rifiuti e con le pale meccaniche vi si gettava sopra un po’ di terreno. Tutto questo per una profondità di circa 20-30 metri nella zona di Parete o di Casapesenna, in cui la falda acquifera è più bassa vi sono punti che si trovano a 30 metri».
I verbali del pentito Schiavone. "In Puglia le discariche della camorra". Le rivelazioni dell'uomo dei casalesi all'Antimafia: "Per tutti gli anni Ottanta la camorra ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La camorra per tutti gli anni '80 ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia. Lo ha raccontato nel 1997 il pentito Carmine Schiavone alla commissione parlamentare antimafia in un verbale che soltanto giovedì è stato dissecretato. Ma lo hanno confermato anche le indagini più recenti in tema di mafia e di rifiuti, come ha spiegato in audizione di alcuni mesi fa l'ex procuratore di Bari, Antonio Laudati. "Parlavamo spesso di Puglia - spiega il pentito - c'erano discariche nelle quali si scaricavano sostanze che venivano da fuori, in base ai discorsi che facevamo negli anni fino al 1990-1991". Schiavone parla di "Salento, ma sentivo parlare anche delle province di Bari e Foggia". Pochi i riferimenti precisi anche perché, dice, "il nostro era un discorso "accademico" interno che facevamo, dicendo: mica siamo solo noi, lo fanno tutti quanti". Il traffico riguardava "sostanze tossiche, fanghi industriali, rifiuti di lavorazione, rifiuti radioattivi ". Tutto materiale che veniva nascosto metri e metri sotto terra, dove ancora oggi è probabilmente conservato. È bene ricordare che in alcune zone del Salento si registrano percentuali di malattie oncologiche assai superiori alla media. Quei dati sono stati oggetto nei giorni scorsi di una riunione all'Istituto superiore di Sanità nella quale l'Arpa Puglia e il ministero hanno previsto un percorso comune: l'anomalia nei numeri c'è, ed è importante. Bisogna trovare ora le cause. I rifiuti interrati potrebbero essere uno dei problemi. Tornando alle dichiarazioni di Schiavone, il pentito ha parlato anche del "supporto" logistico dei clan locali: "In effetti - ha messo a verbale . in Puglia, la Sacra corona unita non è mai stata nessuno. Era sorta inizialmente insieme al gruppo della Nuova camorra organizzata di Cutolo, e poi fu staccata. C'erano gruppi che operavano con noi e con i siciliani. Nel Brindisino operava un certo Bicicletta, un certo D'Onofrio che stava con Pietro Vernengo, il suo capozona. Con me operavano un certo Tonino 'o Zingaro e Lucio Di Donna, che era di Lecce". Le parole di Sandokan sono però state integrare e in parte superate dal quadro tracciato nei mesi scorsi dal procuratore Laudati sempre in commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. È stato il magistrato a parlare del legame tra i casalesi e il foggiano. "Se io devo smaltire un frigorifero e lo butto a Savignano Irpino - ha detto - rischio l'arresto nella flagranza, se mi sposto di un chilometro e mezzo, se mi va male prendo una contravvenzione. Dove butta il frigorifero la criminalità organizzata? ". Le indagini stanno verificando anche in questo caso "sinergie" criminalità locale e Casalesi. Ma c'è altro. Alcune aziende, "anche a partecipazione pubblica - ha detto Laudati - hanno avuto forme di condizionamento dalla criminalità organizzata sul modello di quello che è successo in Campania".
«Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro». E di quel filone d’inchiesta «non ho memoria che uscisse qualcosa riferibile alla Puglia». Il prefetto Nicola Cavaliere, uomo di Stato d’altissimo lignaggio, con una pluridecennale carriera che l’ha portato in posizioni apicali in Polizia e nel servizio segreto per la sicurezza interna (Aisi), nonché cittadino onorario di Mesagne, nel Brindisino, dove ha vissuto molto a lungo, puntualizza a Marisa Ingrosso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” alcune dichiarazioni di Carmine Schiavone che lo chiamano in causa e che riguardano la Puglia, come territorio in cui sarebbero stati sepolti rifiuti illecitamente. L’ex camorrista e collaboratore di giustizia, infatti, fu ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Era il 7 ottobre del 1997 e soltanto ora quei verbali sono stati desecretati e pubblicati sul web. In essi Schiavone spiega che esisteva una «cupola» che si occupava di smaltire illecitamente nel Sud Italia i rifiuti speciali e tossici provenienti soprattutto delle grandi aziende del Nord ed europee, Germania in testa. Della «cupola» dei veleni facevano parte insospettabili, i «colletti bianchi». Gente che aveva agganci con alcuni «circoli culturali» e - secondo il pentito - con esponenti della Massoneria dell’epoca, come lo stesso «venerabile », Licio Gelli. Secondo quanto dice Schiavone, per alcuni anni la criminalità organizzata era stata tagliata fuori dal business. Ma poi la «cupola» decise di coinvolgere anche i clan, ottenendone aiuto logistico e coperture, in cambio di alcuni miliardi di lire. Schiavone dice d’essere entrato nell’affaire alla fine degli anni Ottanta: «La vicenda è iniziata nel 1988; all’epoca mi trovavo ad Otranto», afferma in audizione al presidente della Commissione Massimo Scalia. Secondo l’ex boss, «fusti e casse » sono stati tombati in «scavi abusivi». Afferma: «Ricordo di aver accompagnato i rappresentanti della Criminalpol, dello Sco (con Nicola Cavaliere) nei luoghi di quelle che non erano cave ma scavi che poi sono stati chiusi». Scavi profondi «circa 20-24 metri» che arrivavano alla falda sotterranea dell’acqua «sui quali - dice Schiavone - esiste un’ampia documentazione che credo sia in possesso dello Sco, della Criminalpol (all’epoca c’era Cavaliere)». Epperò, sentito in proposito dalla «Gazzetta», il prefetto chiarisce molto bene questi passaggi. «Schiavone - dice Nicola Cavaliere - non l’ho mai conosciuto, né mai mi sono interessato direttamente dell’inchiesta». «Si tenga conto che - asserisce il superpoliziotto - nel periodo 1990-1994 ero a capo della Mobile Roma (lì contribuì allo smantellamento della Banda della Magliana) e che nel periodo 1994-1997 ero alla Criminalpol di Roma». «Quindi, io non mi sono mai interessato. Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro».....
C’E’ MAFIOSO E MAFIOSO. LA LETTERA DI ANNA STRANIERI PER IL PADRE VINCENZO.
"La figlia del boss scrive alla ministra Cancellieri". Sulla “LA VOCE di Manduria” giornale online è stata pubblicata la lettera che di seguito riportiamo. La lettera è stata spedita al Ministero della Giustizia. E' di Anna Stranieri che si rivolge al Ministro Cancellieri chiedendo pari opportunità per suo padre, detenuto da 30 anni, più dei due terzi, 22 anni, in regime di 41 bis. In parole semplici: in segregazione. Il caso è stato ampiamente trattato quando nel seguito si parla della provincia di Taranto e delle sue problematiche taciute. "Pregiatissima ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Mi chiamo Anna Stranieri e sono la figlia di Vincenzo Stranieri, detenuto ininterrottamente da 30 anni, 22 dei quali in regime di carcere duro del 41 bis. Lei ha detto al Pese che il Suo intervento per scarcerare la signora Giulia Ligresti l’avrebbe fatto per chiunque anche per i delinquenti e i mafiosi. Ebbene, mio padre è stato condannato perché ritenuto un mafioso ma non ha mai ucciso nessuno. Io sono cresciuta senza averlo mai potuto toccare e accarezzare e ho potuto vederlo solo una volta al mese, quando mi è stato possibile farlo, avendolo inseguito in tutte le carceri d’Italia dove è stato. Ora è gravemente malato, è stato tre volte rinchiuso in manicomio, soffre di manie di persecuzione, è delirante e a volte non riconosce nemmeno noi parenti. Non le chiedo di fare per lui ciò che ha fatto per la signora Ligresti, ma almeno le faccia togliere il 41 bis per dare la possibilità a noi familiari di visitarlo quando ci pare e di curarlo come merita ogni ammalato. Mantenga fede a quello che ha detto a noi italiani per giustificare il suo interessamento per la signora Ligresti, sua amica. Mi faccia dimenticare con un suo interessamento per mio padre che è stata lei a mettere la firma sugli ultimi due decreti di conferma del 41 bis per mio padre malato che ha dimenticato cosa sia la libertà."
Anna Stranieri, Manduria.
Giunta Tommasino, si cambia, scrive martedì 15 marzo 2011 "La Voce di Manduria". Salvo sorprese, oggi il sindaco Paolo Tommasino dovrebbe ridisegnare l’assetto della propria giunta. Come anticipato dal nostro giornale una decina di giorni fa, a conquistare la nomina di nuovo assessore saranno Antonio Curri per la La Lista Girardi, Franca Becci per la Lista Pionati Alleanza di Centro e Gianleo Greco per il gruppo degli ex indipendenti del Gai, Giorgio Duggento, Leonardo Moccia e Nicola Muscogiuri (quest’ultimo ha aderito al Fli di Fini).I licenziati saranno Piero Dabramo che dovrà lasciare il posto all’amico di partito, Curri e Francesco Ferretti De Virgilis in favore della sorella del coordinatore della lista, Franca Becci. Come la prenderanno costoro non è dato sapere. Delle voci insistenti circolate sin dai primi giorni dell’annunciato rimpasto, li davano come dimissionari volontari. Un «invito» a cui i due licenziati avrebbero risposto con un garbato rifiuto: «Se vuole cacciarci deve assumersi lui le responsabilità», fa sapere uno di loro. Intanto i problemi per il sindaco non finiscono qui perché oltre alle deleghe assessorili deve anche designare quella di vicesindaco. Secondo gli accordi, la carica appartenuta a Gregorio Capogrosso (di cui più nessuno parla) dovrebbe andare a Franca Becci. Ma l’ex sindaco e assessore, Curri, pare abbia già espresso desiderio di tenere a quel posto.
Fiducia ed imparzialità. Già, non ci sono prove, eppure si considera Sabrina e Cosima colpevoli del delitto di Sarah Scazzi. Invece per definire il comune di Manduria come mafioso ci sarebbero le prove, ma non per il Ministro Cancellieri, per la quale il Comune di Manduria (paese limitrofo ad Avetrana) non sarà sciolto per infiltrazioni mafiose così come si temeva e come avevano chiesto sia i tre commissari ministeriali che per sei mesi hanno tenuto sotto accertamento la macchina amministrativa, sia il prefetto di Taranto, Claudio Sammartino. Lo ha definitivamente stabilito il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, nel decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. «Dalla documentazione esaminata – si legge nel provvedimento del ministro – non emerge la concomitanza di elementi concreti, univoci e rilevanti tali da pregiudicare il funzionamento dei servizi ed i legittimi interessi della collettività, amministrata da un commissario straordinario sin dal 19 aprile 2012». L’atto ministeriale ripercorre l’iter dell’accertamento antimafia innescato dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce e dal decreto del prefetto di Taranto con il quale, il 29 marzo del 2011 istituiva la commissione d’indagine composta da due prefetti e dal maggiore della Guardia di Finanza, Giuseppe Dell’Anna. I tre commissari finirono il loro lavoro, durato sei mesi, proponendo lo scioglimento del Consiglio che, di fatto, si era autosciolto per il venir meno della maggioranza di centrodestra. Sulla scorta di quest’analisi, Il 4 novembre 2012, anche il prefetto di Taranto inviava al ministro una sua relazione nella quale, scrive la Cancellieri, «venivano valutati gli elementi di cui all’articolo 134, comma 1 del decreto legislativo 18 agosto 2000, numero 267». Considerato tutto questo, il ministro ha comunque deciso che «non sussistono i presupposti per lo scioglimento o l’adozione di altri provvedimenti», stabilendo così la conclusione del procedimento.
E su come si combatte la mafia da queste parti ne dà notizia Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. L’udienza preliminare a carico dei 31 indagati dell’operazione Giano da parte dell’antimafia di Lecce che ha dato origine al sospetto di infiltrazione mafiosa nel comune di Manduria, si è chiusa con un colpo di scena. Il gup Carlo Cazzella ha stralciato la posizione dell’ingegnere comunale Antonio Pescatore dichiarandosi incompetente sul caso specifico e rinviando tutto alla Procura di Taranto. Secondo il giudice salentino, il reato contestato al dirigente comunale (avrebbe favorito una società controllata da elementi della sacra corona unita nella gestione dei parcheggi a pagamento) non è di competenza della direzione distrettuale antimafia ma della procura ordinaria. Resta a Lecce invece il giudizio a carico di tutti gli altri indagati tra cui imprenditori, esponenti della malavita locale e l’ex boss della Scu, Vincenzo Stranieri che ha partecipato all’udienza grazie ad un collegamento in videoconferenza da un carcere del centro Italia dove è recluso in regime di isolamento del 41 bis. La decisione del gup Cazzella di derubricare il reato di mafia all’ingegnere Pescatore (che a questo punto risponderebbe al massimo del solo abuso d’ufficio), pone buone speranze per il futuro amministrativo del comune finito sotto i riflettori del ministero i quali, come si sa, hanno proposto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Pescatore, infatti, è l’unico indagato che avrebbe potuto tessere il filo rosso capace di collegare la criminalità organizzata con le attività politica e amministrativa dell’ente. A meno che le indagini dei magistrati antimafia non abbiano nel frattempo individuato responsabilità dirette dei politici che al momento non risulterebbero indagati. Durante l’inchiesta ci sono stati momenti di tensione tra il giudice e Vincenzo Stranieri che si è lamentato per le parole pronunciate sul suo conto quando il magistrato pensava di non essere ancora collegato con il sistema. Le piaccia o no, lei mi deve ascoltare perché è un mio diritto, ha detto più o meno Stranieri che è apparso molto provato e abbattuto dal punto di vista fisico. L’operazione Giano ha portato il blitz scattato il 14 febbraio del 2011 che portò in carcere 16 persone e 2 agli arresti domiciliari, per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, concernenti armi ed esplosivi, attentati dinamitardi, tentato omicidio, rapina, estorsioni, traffico di sostanze stupefacenti e spari in luogo pubblico. Tredici invece gli indagati a piede libero tra cui l’ingegnere Pescatore difeso dall’avvocato Raffaele Fistetti. Ma anche Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno” spiega bene l’ambiente. Niente revisione del processo. Francesco Cavallari è l’unico colpevole. La Corte d’Appello di Lecce ha rigettato l’istanza di revisione della sentenza con la quale il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato nel 1995 il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi con l’accusa di associazione mafiosa nei confronti dell’ex «re» della sanità privata pugliese imputato nell’ambito dell’operazione «Speranza». Tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui l’istanza di revisione del processo sulla base di quello che ai suoi difensori appare un paradosso: non può esistere un sodalizio mafioso con se stesso. Di diverso avviso il sostituto procuratore generale Antonio Maruccia che, al termine di una discussione durata due ore, ha chiesto fosse dichiarata l’inammissibilità dell’istanza. Ci sono volute altre cinque ore di camera di consiglio perché i giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Giacomo Conte, relatore Nicola Lariccia) entrati nel merito, rigettassero l’istanza. «Tra quindici giorni leggeremo le motivazioni - dice l’avvocato Mario Malcangi che non si dà per vinto - ma certamente faremo ricorso per Cassazione. Sedici giudici (Tribunale di Bari, Corte d’Appello di Bari, Corte di Cassazione sia nel merito, sia sotto il profilo cautelare) hanno in un certo senso “perso” contro un solo giudice, quello che ha ratificato il patteggiamento». Se l’istanza fosse stata accolta, la condanna sarebbe stata immediatamente revocata, con tutte le conseguenze non solo sul piano penale, ma anche su quello civile. A partire dalla restituzione dei beni che furono confiscati a Cavallari.
“Dentro una vita” è il racconto di 18 anni “carcere duro”. Privazioni, violenze, abusi, torture psicologiche e fisiche inflitte in base alle regole del «41 bis» (la legge che regolamenta il regime carcerario riservato a chi è accusato di reati di criminalità organizzata), raccontate dal “numero due” della Sacra corona unita pugliese, Vincenzo Stranieri. La storia di un bullo di paese che diviene un boss: furti, rapine, sequestri di persona, attentati, rituali di affiliazione. Poi, nel 1984, l’arresto. Vincenzo Stranieri, detto «Stellina», non sta scontando ergastoli né condanne per omicidio. Nonostante tutto nessuno è in grado di dire quando tornerà libero. Dopo 25 anni di prigionia l’ex boss, quarantanovenne, è stanco. Non è un pentito, ma è certamente un uomo che sa di aver sbagliato: «Se mi si vuole dare una possibilità d’inserimento, dimostrerò che sono cambiato». Ma in Italia le cose vanno diversamente. “Al di là della costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciassette anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affetti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di Diritto” (dalla prefazione al volume di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino). L’autore è Nazareno Dinoi, Giornalista, scrive di cronaca giudiziaria e nera per il ‘Corriere del Mezzogiorno’ della Puglia. Ha scoperto, portandola alla ribalta nazionale, un’oscura storia di violenze e abusi sui giovani detenuti del carcere minorile di Lecce da parte delle guardie carcerarie. Per quei fatti il Tribunale di Lecce non è riuscito a raggiungere una sentenza prosciogliendo tutti per prescrizione dei reati. Vive a Manduria (Taranto) e collabora con diverse testate, anche nazionali. Ha scritto ‘Anime senza nome’ (1999) e ‘Kompagno di sogni’ (2003). LE PRIME PAGINE DEL LIBRO….
Prologo
Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Vincenzo Stranieri non aveva ancora quindici anni. Un’impressionante sequenza di arresti e di scarcerazioni ha poi segnato la sua vita da uomo libero sino all’età di ventiquattro anni quando, il 7 giugno del 1984, le sicure si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Oggi Vincenzo Stranieri di anni ne ha 49 e il suo conto con la giustizia è ancora aperto. Il boss manduriano che per la magistratura e i collaboratori di giustizia è stato il numero due della Sacra corona unita di Pino Rogoli, l’ex piastrellista di Mesagne divenuto capo della potente «quarta mafia» italiana, è ancora considerato uno dei 430 criminali più pericolosi e irriducibili d’Italia.
Per questo è sottoposto al regime di carcere duro conosciuto come 41 bis. I reati per i quali è stato giudicato colpevole sono sequestro di persona, traffico di droga, detenzione di armi, estorsioni e associazione mafiosa. Minacce, danneggiamenti e violenza, invece, sono tutti reati che ha maturato durante la sua lunga vita di recluso indocile. Per ben sei volte ha distrutto la cella dove si trovava rinchiuso. Non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, ma nonostante tutto nessuno è ancora in grado di dire quando tornerà libero.
Il principio
A quindici anni Stranieri viveva già con una donna più grande di lui di cinque anni che mise incinta prestissimo. A diciotto anni aveva moglie, due figli (avuti quando era ancora minorenne) e un’attività criminale che rendeva abbastanza da permettergli un’esistenza più che agiata. Quanto gli costerà tutto quel successo, quel lusso, però, lo capirà in seguito ma senza pentimenti. Il super detenuto, infatti, pur dissociandosi, in seguito, dal crimine, si è quasi sempre dichiarato innocente. A sedici anni il primo figlio, Antonio, a diciassette un’altra bambina, Anna. A quell’epoca aveva messo da parte quattro condanne per un totale di sedici mesi da scontare, mentre un decimo della sua vita lo aveva passato in galera per furti e violenza aggravata. E dire che quando aveva ventidue anni, tra sconti di pena, detenzione già fatta, condoni e amnistie, il suo debito con la giustizia era sceso ad appena venticinque giorni di cella. Poco più di tre settimane dietro le sbarre e sarebbe stato un uomo libero. Ma quella vita portata all’eccesso non ammetteva soste. Così, una sera d’estate del 1984, fu arrestato per il rapimento della manduriana Anna Maria Fusco, figlia dell’imprenditore del vino, Antonio Fusco (protagonista, quest’ultimo, due anni dopo, dello scandalo del Primitivo avvelenato al metanolo).
Dentro una vita
Sulla soglia del mezzo secolo di vita, tre quarti dei quali passati in gabbia, spinto dal desiderio della figlia Anna che vuole raccontare al mondo la storia di un padre che non l’ha vista crescere, sposarsi, diventare mamma, il detenuto speciale ha deciso di raccontarsi. E lo fa nell’unica maniera possibile per uno nelle sue condizioni: impugnando la penna (fosse un uomo libero avrebbe acceso il computer) e tracciando linee d’inchiostro sulle pagine ingiallite di una grossa computisteria che conservava da tempo.
Racconto – I
Oggi, 28 aprile 2008, è lunedì e mi trovo rinchiuso nel carcere di Opera a Milano. Tante volte mi sono chiesto a cosa potesse servirmi questo quadernone che porto in giro da otto anni. Ora, improvvisamente, mi è chiaro: ne farò un libro, con l’aiuto del Buon Dio e della sua Gloria. Lo leggerà qualcuno? A volte i buoni consigli vengono ascoltati, altre volte no. Io dico che chi mi ascolterà diventerà bravo e andrà in Paradiso. Lo spunto per questo libro nasce dalla proposta di un mio nuovo amico, un giornalista del mio paese che personalmente non conosco. L’idea, però, è partita da una persona a me molto cara, mia figlia Anna, a cui voglio un bene dell’anima come ne voglio a mio figlio Antonio, a mia moglie Paola, ai miei nipoti, a mia nuora e mio genero. Anche per loro ho accettato di offrire questo contributo, spero utile. Nel raccontare la mia vita ometterò alcuni particolari, a volte anche i nomi. Cercherò di descrivere ciò che ho vissuto in questi quasi cinquant’anni di “non vita” in cui è accaduto di tutto. Cose belle poche. E tante cose brutte.
Quando, agli inizi del 2008, si fa convincere dalla figlia Anna a raccontare quella che lui stesso definisce la sua «non vita», Stranieri si trova rinchiuso nella sezione di massima sicurezza del carcere Opera di Milano. In quella città c’era stato più volte, da uomo libero e poi da latitante. Ed è da lì che inizia la sua memoria.
Racconto – II
Porcaccia miseria, sono passati 24 anni dall’ultimo arresto. Ad Opera a Milano, dove mi trovo adesso, c’ero già stato esattamente 24 anni fa e qualche mese. Sarà un caso? Proprio 24 anni fa mi trovavo in questa città, da latitante, ma libero. Mi cercavano per alcune rapine commesse nei comuni della provincia di Taranto. Mi presero qui a Milano e dopo pochi giorni mi trasferirono a Taranto per affrontare il processo che finì con il confronto con le mie stesse vittime che mi scagionarono. Fui rimesso in libertà a maggio del 1984 e il 7 giugno di quello stesso anno mi riarrestarono per il sequestro Fusco. Da allora non ho più lasciato questi luoghi infami. Le carceri le puoi dipingere come vuoi, puoi anche ricoprirle d’oro, ma restano pur sempre luoghi di sofferenza. Chi dice o crede il contrario si sbaglia enormemente, parola mia. Forse qualcuno mi dirà che il carcere deve per forza essere un luogo di sofferenza. Ha ragione, ma solo perché non è lui che soffre, ma soffrono altri. Vale bene la parola di Gesù che dice: «Ipocrita chi carica il peso sugli altri quando su di lui non sposterà nemmeno una piuma».
Conosciuto dagli inquirenti come «Stellina», per via della sagoma a cinque punte tatuata sulla fronte, Stranieri è stato ospite di tutte le principali carceri italiane dove ancora si trova sottoposto al regime riservato ai mafiosi più pericolosi e ai terroristi. Più della metà della sua vita l’ha trascorsa ininterrottamente rinchiuso. Non una detenzione semplice: da diciassette anni vive separato dal mondo da un vetro che gli impedisce qualsiasi contatto con l’esterno, anche di accarezzare i suoi parenti che lo vanno a trovare non più di una volta al mese. Durante i colloqui la sua voce è filtrata da un interfono per cui nessuno dei familiari, oggi, sarebbe in grado di riconoscerla dal vivo. I suoi figli, nel frattempo, sono diventati adulti e genitori. Il 23 maggio del 1992, diciassette anni dopo quel primo arresto nel minorile di Lecce, la sua permanenza carceraria fu irrimediabilmente e drammaticamente influenzata dall’attentato di Capaci, a Palermo, in cui il sicario di Totò Riina, Giovanni Brusca, azionò il telecomando che fece esplodere cinque quintali di tritolo uccidendo il capo della Superprocura nazionale antimafia, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. La risposta dello Stato a quel terribile crimine, fu l’istituzione della «carcerazione di sicurezza» che prevedeva la cancellazione dei diritti per tutti i detenuti con condanne per reati di natura mafiosa. Stranieri, nel frattempo in carcere per il sequestro Fusco, era stato coinvolto nel primo maxi processo contro la Nuova camorra pugliese di Raffaele Cutolo e poi in quello sulla Sacra corona unita di Rogoli. In questi processi, istruiti prima dalla Procura di Bari e poi da quelle di Lecce e Brindisi, fu ritenuto colpevole di aver fatto parte di un’associazione organizzata e pertanto soggetto all’isolamento. Così, nell’estate del 1993, dopo nove anni di detenzione normale, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, firmò personalmente la lista dei primi 236 dannati da internare. In quell’elenco, oltre al manduriano Stranieri, c’erano Bernardo Brusca, Vito Buscemi, Salvatore Buccarella, Giuseppe Calò, Raffaele Cutolo, Nicola Di Salvo, Giacomo Gambino, Michele Greco, tutta la famiglia dei Madonia, Sebastiano Mesina, Franco Parisi, Antonio Perrone, Giuseppe Piromalli, Giuseppe Rogoli, Biagio Sciuto e tanti altri. I padrini, i capi bastoni e i gregari della mafiosità italiana, insomma, furono isolati in celle singole nel carcere dell’Asinara e sottoposti a regole rigidissime contenute nel nuovo ordinamento carcerario del 41 bis.
Racconto – III
Sono passati 24 anni e la mia vita è piena di ricordi. La memoria è l’unica macchina del tempo che viaggia alla velocità del pensiero. Con la mente puoi andare velocissimo, in un secondo puoi tornare a quando eri bambino, travalicare le frontiere dello spazio e del tempo. Grande cosa è la mente umana. Purché la si sappia controllare. Se la lasci troppo libera, quella, è come un leone che ti sbrana. A volte è meglio non pensare troppo. Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza ma ci ha dotati di un valore che è il libero arbitrio.
È un valore troppo grande che deve essere usato a piccole dosi sennò sono dolori e sofferenze, come quelle che ho passato e sto passando io e tutte le persone che mi amano. Certo, ognuno può fare della sua vita quello che vuole. Da ragazzi si è onnipotenti. Uno crede di essere furbo, più furbo dei suoi genitori, dei nonni, di tutti quelli che lo hanno cresciuto. Loro ti dicono di stare attento, di non commettere errori e tu, a quell’età, sei infastidito di tante raccomandazioni.
Inizia proprio lì la storia di tutto: in questo negare i consigli è racchiuso l’inizio della perdizione. Non ascolta oggi, non ascolta domani e sei fritto, per sempre. C’è poi chi nasce con una stella storta, come quella che mi son fatto tatuare sulla fronte. Succede così che quella stella te la porti per tutta la vita e sta a te decidere se deve continuare in quel modo o se è meglio mettere un freno a quella vita troppo di fretta. La mia è andata avanti così, per niente bene. Proprio per niente. Giorni fa ero sdraiato sul letto, guardavo di fronte il cancello chiuso, le sbarre alla finestra, cemento tutto intorno. Per quanto? Per 20 ore al giorno e per tanti anni. Bello, vero? Bello un cavolo! Non c’è niente di bello in un carcere, lo ripeto, tutto è sofferenza e non credete alle scemenze che vi raccontano sulla vita carceraria perché qui tutto è dolore. L’unico vantaggio di questa sofferenza è che ti fa crescere e puoi incontrare Dio. A me è successo. È nel dolore che ritrovi il Signore e ti avvicini a lui che è stato processato e condannato ingiustamente, portato a morire da innocente sulla croce dal potere di allora.
Venti ore al giorno a guardare il soffitto
Il detenuto in 41 bis non ha diritti. Può avere un solo colloquio al mese, con familiari o conviventi di grado diretto, della durata non superiore ad un’ora. In alternativa all’incontro visivo può avere una telefonata ogni trenta giorni. In questo caso, però, il parente deve recarsi nella sede dove è detenuto il congiunto e da lì telefonargli attraverso la rete interna. Ogni colloquio deve essere ascoltato e registrato. L’internato può godere di due ore d’aria al giorno più altre due di socialità (mensa, chiesa, palestra, biblioteca, cinema-tv). Per le restanti venti ore rimane da solo chiuso in cella. Nel 2009 un ulteriore inasprimento delle misure detentive speciali ha ridotto a due ore il tempo da trascorrere fuori dalla cella. Altre restrizioni nell’ora di aria che in gergo viene definita “passeggio”, vietano raggruppamenti superiori a quattro detenuti per volta. Essi non devono avere la stessa provenienza geografica. Il Ddl 733 convertito in legge il 22 luglio del 2009 (Pacchetto sulla sicurezza), ha inasprito ulteriormente le norme del 41 bis prevedendo l’internamento di tutti i detenuti con tale regime in un unico penitenziario situato su un’isola. La famiglia può inviargli due pacchi al mese, del peso non superiore ai dieci chili, più altre due spedizioni straordinarie all’anno (Natale, Pasqua), contenenti abiti, biancheria, indumenti intimi, calzature e cibo. Sono vietate persino le bevande gassate come l’aranciata. Tutto viene controllato dall’addetto alla censura: indumento per indumento, pezzo per pezzo, pagina per pagina. Anche i libri devono essere attentamente visionati e superare il controllo. Il colloquio si svolge attraverso un vetro e, di solito, con l’ausilio di un citofono. Tutta la corrispondenza in arrivo e in partenza è sottoposta a visione. Il fornellino scaldavivande è consentito solo durante il giorno. Il detenuto può ricevere somme limitate di denaro (attualmente sino a 500 euro mensili); è vietata l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive; è impossibile la nomina e la partecipazione a rappresentanze dei detenuti come anche lo svolgimento di attività artigianali per proprio conto o per conto terzi. Gli ospiti delle sezioni del 41 bis non possono frequentare corsi scolastici, possono studiare solo per conto proprio e l’unico intermediario con i professori è un educatore. A queste limitazioni del decreto ministeriale, vanno aggiunte quelle imposte a discrezione del singolo direttore del carcere. Per i figli minori di 12 anni, inoltre, è consentito un solo colloquio visivo al mese senza vetro divisorio e per la durata non superiore ai 10 minuti. In Italia sono diffusi i casi di figli di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psichiatrici. Quando fu istituito l’isolamento carcerario per i mafiosi, i due figli di Vincenzo Stranieri, Antonio e Anna, avevano già superato i dodici anni di età per cui ora non ricordano, se non vagamente, contatti diretti, pelle a pelle, con il padre. Il primogenito, caratterialmente più debole rispetto alla sorella, ha sviluppato e sta pagando questo distacco sino all’estremo limite della follia con continui ricoveri in reparti psichiatrici. Torniamo al 41 bis: naturalmente per chi vi è sottoposto la vita diventa un inferno. I segni di un inevitabile stress emotivo emergono dalle lettere che Vincenzo Stranieri invia costantemente alla famiglia. In una di queste, datata 13 marzo 2008, scrive alla figlia Anna.
“Ciao tesoro di papà, come stai? Spero bene di te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly e tutti di casa. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua del Signore che vi auguro di trascorrere serenamente e felicemente tutti in famiglia con la più viva speranza che la prossima la passiamo insieme, se il Buon Dio vuole. Ne sono passate 24 di Pasque, è forse pure l’ora di tornare a casa. (…) Papà, state appresso agli avvocati. Per i pacchi usate la posta celere. Dice che ci mette un giorno ad arrivare e vediamo… la prima volta mandate roba che non va a male salumi, formaggi, pane, capicollo, lo potete mettere pure sotto vuoto in cellofan o nelle buste tagliato a pezzi come facevate a Spoleto. - Parlando della prossima seduta in Tribunale del riesame che dovrà decidere la proroga del carcere duro, puntualmente riconfermata, scrive: “Speriamo vada bene. Dopo 16 anni forse è pure l’ora che cambi qualcosa in meglio perché di peggio abbiamo già visto di tutto. (…) Vi mando un bacione forte a te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly, Antonio e Giusy e tutti di casa. Vi voglio un mondo di bene. Tuo papà Vincenzo”.
(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza Opera a Milano)
Il bisogno d’interrompere quel tremendo isolamento compare in maniera ancora più evidente in una delle tante corrispondenze con il sottoscritto.
“Caro Nazareno, vedi se c’è qualcuno disposto ad offrirmi un lavoro per corrispondenza, un giornale, magari, o qualcos’altro e se vieni a trovarmi con qualche parlamentare vorrei discutere proprio di questo. Qua stiamo venti ore al giorno in cella a poltrire. Moltiplicato per 25 anni sono un’enormità, diciassette di 41 bis, per cosa poi? A loro dire per recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere pure la ragione: venti ore a guardare il soffitto, a cosa e a chi servono?”. (Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza dell’Aquila, 16 marzo 2009)
Fin qui il racconto che parla di chi, dai benpensanti è indicato come un mafioso, detestabile e detestato. E la gente cosiddetta “perbene” cosa fa?
Il prezzo per la propria libertà è alto. Le ritorsioni non finiscono qui. Sono stato prontamente imputato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) ho riportato le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti: Magistratura che, in conflitto d’interessi, non si astiene dall’accusare e dal giudicare in processi, in cui si palesa la loro responsabilità inerente ad errori giudiziari; Forze dell’ordine che denunciano i reati e solo il 10% di questi si converte in procedimento penale.
Potenza ha reiteratamente archiviato ogni denuncia presentata contro gli abusi e le omissioni della Procura di Taranto, compresa quella inerente una richiesta di archiviazione in cui essa stessa era denunciata e nonostante le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito e nonostante gli articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.
La denuncia a Potenza è stata presentata da un Pubblico Ministero di Taranto, che ha chiesto l’archiviazione per un procedimento, in cui si era denunciato il fatto che presso il comune di Manduria non si rilasciavano legittime ricevute all’ufficio protocollo e che il comandante dei vigili urbani era vincitore del concorso da lui indetto, regolato e con funzioni di comandante pro tempore e di dirigente dell’ufficio del personale.
Stranieri libero dopo 37 anni di carcere: era il numero 2 della Sacra Corona Unita. Nazareno DINOI su Il Quotidiano di Puglia e la Voce di Manduria Venerdì 7 Gennaio 2022.
Dopo 37 anni e mezzo di carcere, tutti trascorsi con il regime di isolamento del 41 bis, il manduriano Vincenzo Stranieri, ex numero due della Sacra corona unita, ha fatto ritorno nella sua Manduria da uomo libero con il solo obbligo di firma.
Ha trascorso le festività nella sua casa paterna dove vive la figlia Anna che quando suo padre fu arrestato l'ultima volta aveva appena cinque anni e da allora non ha mai smesso di aspettarlo. Ora è lei che lo assiste e lo cura dalle ferite interiori e fisiche (è stato operato di tumore alla gola), prodotte da quasi 38 anni di restrizione ininterrotta ed altri sei precedenti iniziati quando era ancora minorenne.
Da boss a nonno di quattro nipotini
Entrato l'ultima volta in carcere quando aveva 24 anni, il temutissimo boss della malavita tarantina ha ora 61 anni e fa il nonno di quattro nipoti in una Manduria che non riconosce più.
«C'è molta confusione, troppe macchine, tante cose che non conosco», confida lui indicando il televisore a schermo piatto e lo smartphone sul tavolo della figlia. «Quello proprio non riesco ad usarlo», ammette l'ex boss. Una vera diavoleria per lui che quando ha perso la libertà i pochi telefoni nelle case erano con la numerazione a ruota e i bar che offrivano il servizio avevano l'apparecchio a gettoni e le funzioni a distanza con wifi o bluetooth erano trucchi da fantascienza.
La stella tatuata sulla fronte e quel soprannome che lo segnò
Arrestato per la prima volta l'11 febbraio del 1975, Stranieri, alias «stellina» per la stella a cinque punte tatuata sulla fronte, non aveva ancora quindici anni. In tanti anni di isolamento, il boss di Manduria che è stato il numero due della Sacra corona unita fondata quando era in carcere insieme al mesagnese Pino Rogoli, non è stato mai un ergastolano, non ha avuto condanne per omicidi neanche come mandante. Si è macchiato di numerosissimi reati contro il patrimonio, traffico di sigarette, armi e droga.
Il reato più pesante per il quale è stato condannato definitivamente, costatogli l'isolamento per 37 anni, è stato quello del sequestro della manduriana Annamaria Fusco, figlia dell'imprenditore del vino, Antonio Fusco, rimasta per sei mesi nelle mani di una banda di sequestratori del Gargano prima di essere rilasciata dopo inenarrabili sofferenze e il pagamento di un ricco riscatto.
Il carcere duro applicato ai detenuti più pericolosi
Per le sentenze, Stellina fu il basista e organizzatore di quel rapimento compiuto con l'aiuto di altri malavitosi del posto che hanno pagato pene inferiori ed altri rimasti sconosciuti sui quali il boss non ha mai ammesso l'esistenza negando a sua volta e sino alla sentenza definitiva ogni suo coinvolgimento.
Detenuto per quella condanna, dopo la strage di mafia di Capaci del 1992 in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, lo Stato reagì istituendo il regime di carcere duro (41 bis). Il nome di Vincenzo Stranieri fu inserito nell'elenco dei primi 236 detenuti più pericolosi d'Italia a cui fu applicato quel regime di massimo isolamento dal quale il manduriano si è liberato qualche settimana fa. Oggi, assistito dalla figlia e coccolato dai nipoti, Stellina non ama parlare del suo passato.
Vincenzo Stranieri, una vita al 41 bis. L'ex boss della Sacra Corona Unita, molto malato, è il detenuto da più tempo nel carcere duro. Gaetano De Monte l'11 Aprile 2017 su osservatoriodiritti.it.
Vincenzo Stranieri, l’ex boss della Sacra Corona Unita, è il detenuto italiano che ha passato più tempo al 41 bis, il regime di carcere duro inizialmente previsto solo per i mafiosi. Ora l’uomo è gravemente ammalato e la figlia Anna chiede che sia curato.
Stranieri oggi ha 56 anni e si trova in cella, senza interruzioni, dal 1984. E da 25 anni è detenuto in regime di massima sicurezza. È un uomo gravemente ammalato e invalido, raccontano le cartelle cliniche. L’ultima relazione sanitaria di qualche settimana fa lo descrive come «un paziente con una diagnosi infausta a medio termine». Il tribunale di sorveglianza dell’Aquila doveva valutare, lo scorso 4 aprile, se concedere o meno la sospensione della misura di sicurezza detentiva. Ma il giudizio è slittato, come spiega uno dei legali dell’uomo, l’avvocato Fabiana Cubitoso: «Ho ricevuto una richiesta di aiuto da Stranieri nel luglio scorso e mi sono subito mobilitata per lui. Il suo stato di salute è molto grave, come riconosciuto dallo stesso procuratore capo, che aveva espresso per due volte parere favorevole alla sospensione della misura detentiva».
Il tribunale di sorveglianza, a cui spetta l’ultima parola, ha sospeso il giudizio «per il conferimento di incarico peritale ad un medico residente nella città aquilana». I magistrati, cioè, dovranno accertare se lo stato di salute di Stranieri – che non ha mai ricevuto condanne per omicidi o altri fatti di sangue, ma è considerato un importante esponente dell’organizzazione mafiosa pugliese – sia compatibile con il regime detentivo del 41 bis. Il responso dei giudici di sorveglianza dovrebbe arrivare non prima di qualche settimana.
UN’ATTESA DI OLTRE 30 ANNI
L’attesa dura da parecchio tempo, come racconta la figlia di Stranieri. «Mio padre ormai è un internato», dice Anna. «Il 13 maggio 2016, dopo 31 anni, aveva terminato di scontare la sua pena, ma invece di farlo uscire dal carcere gli è stata applicata una misura di sicurezza detentiva che lo costringe a stare chiuso altri due anni in una casa agricola». E così nella primavera scorsa l’ex boss era uscito dal carcere di Terni per rientrare in quello dell’Aquila.
La misura personale detentiva di cui parla Anna Stranieri è tra quelle previste dall’articolo 216 del codice penale, «l’esecuzione in colonia agricola o casa di lavoro», e prevede, appunto, il lavoro come strumento di reinserimento sociale del detenuto. In Italia però non ci sono strutture di questo tipo. O meglio, ne esiste soltanto una a Saliceta, in provincia di Modena. Per questo gli internati sottoposti a questa misura ritornano in carceri normali. Ed è questo il caso anche di Vincenzo Stranieri.
La figlia considera l’internamento del padre una ingiusta detenzione. «Come può lavorare una persona che si alimenta soltanto con un sondino gastrico?», si chiede Anna. «È evidente che c’è un accanimento nei suoi confronti. Mio padre è isolato dal mondo da quando aveva 24 anni. Ora ne ha quasi sessanta. Ha subito diversi ricoveri in ospedali psichiatrici e molti trattamenti sanitari obbligatori».
LA MALATTIA
Qualche settimana fa l’uomo è stato ricoverato d’urgenza nella casa di cura sanitaria del carcere di un’altra città, ma sarà comunque il tribunale dell’Aquila a decidere se sospendere la misura di sicurezza detentiva, come chiedono la famiglia e i legami dell’uomo, e a stabilire se potrà essere curato in una struttura sanitaria più adeguata.
«Il calvario di mio padre cominciò sette anni fa nel penitenziario dell’Aquila», ricorda Anna. Era il 17 aprile del 2010. Quel giorno Stranieri fu trasferito dal penitenziario abruzzese all’ospedale giudiziario di Livorno perché era profondamente debilitato e incapace di nutrirsi. «Lo trovai che aveva perso 40 chili e non mi riconobbe nemmeno», dice ancora la donna. «Mi rivolsi ai parlamentari del gruppo radicale che depositarono interrogazioni e denunce, ma tutto rimase lettera morta».
Ciò che la figlia di Vincenzo Stranieri chiede per il padre «non è l’impunità, né la scarcerazione, ma che sia curato». I legali dell’uomo, inoltre, presentarono un esposto anni fa «perché il detenuto vive uno stato di malessere causato da diverse vessazioni, minacce e torture attuate nei suoi confronti dal personale della polizia penitenziaria». Un allarme che la figlia dell’ex boss continua a ripetere ancora oggi: «Mio padre sta morendo al 41 bis sottoposto a tortura».
Parole simili sono state usate di recente anche dal garante nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. Presentando a marzo al Parlamento il lavoro svolto dall’Autorità di Garanzia, infatti, Palma ha detto: «Dobbiamo poter chiamare tortura ciò che ne ha tutte le caratteristiche». Un monito con cui ha indirizzato alle istituzioni diverse raccomandazioni in materia di privazione della libertà, tra le quali la «necessità di abolire le cosiddette aree riservate, ovvero i reparti interni ancora più chiusi rispetto alle sezioni ex 41-bis», così come si legge nella relazione presentata dal garante.
25 ANNI DI EMERGENZA
Il 41 bis era stato introdotto inizialmente come una misura di ordine pubblico emergenziale, approvato nell’estate del 1992 in seguito alla strage di Capaci, in cui morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. «Il sospetto è che con il tempo sia una misura servita, estendendone il suo ambito di applicazione anche ad altri tipi di reati e fattispecie, ad esercitare un’arma di pressione e ricatto verso i detenuti», dice Alessio Scandurra, componente del comitato direttivo nazionale di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. «La nostra posizione sul 41 bis non può che essere fortemente critica, perché sicuramente il quadro normativo del nostro ordinamento penitenziario è in larga parte condivisibile in via teorica, ma non se possono condividere le linee applicative».
Secondo Scandurra, «i caratteri della sospensione dei diritti, dell’emergenza della pena e della straordinarietà dell’intervento, tutte prerogative del 41 bis, si trovano in palese contraddizione con lo spirito del nostro ordinamento». Tanto che «è stato largamente provato che i detenuti che per lunghi anni vivono in certe condizioni presentino poi gravissimi problemi sanitari e relazionali».
Proprio in questo senso, dunque, il caso di Vincenzo Stranieri sta facendo scuola. Se ne parla anche nell’ultimo rapporto sul sistema detentivo speciale redatto dalla commissione parlamentare straordinaria per la Tutela e la promozione dei diritti umani. L’indagine conoscitiva sulle condizioni detentive in Italia contiene alcune raccomandazioni «sulla necessità di facilitare lo svolgimento dei colloqui favorendo le visite senza il vetro divisorio, prevedendo la possibilità di dedicare alle visite con i minori di 12 anni un intervallo di tempo al di fuori dei 60 minuti totali riservati al colloquio con i familiari».
C’è una componente preventiva di intimidazione molto importante che è presente in una misura di questo tipo, sostiene il rappresentante di Antigone, «e sicuramente non può essere tollerata, perché se è vero che i diritti umani sono universali, sono anche diritti di chi ha torto, di chi sta ancora, oppure di chi è stato, dalla parte sbagliata».
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INTERROGAZIONE A RISPOSTA ORALE 3/00826 presentata da ZAMPARUTTI ELISABETTA (PARTITO DEMOCRATICO) in data 04/01/2010.
Atto Camera Interrogazione a risposta orale 3-00826 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI lunedì 4 gennaio 2010, seduta n.262 ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO.
- Al Ministro della giustizia.
- Per sapere - premesso che: l'ex boss della Sacra Corona Unita Vincenzo Stranieri, oggi 49enne, aveva 24 anni quando fu arrestato nel 1984 e, da allora, non è più uscito dal carcere dove sta espiando - secondo il provvedimento di cumulo pene emesso l'11 aprile del 2007 dalla procura generale della Repubblica di Taranto - la pena complessiva di anni 29, mesi 4 e giorni 3 di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione ed altro (non sta scontando ergastoli, quindi, nè ha condanne per omicidio); già affiliato alla camorra di Raffaele Cutolo e passato alla Sacra Corona Unita di Pino Rogoli quando era già in carcere, Stranieri ha ancora un sospeso con la giustizia che riguarda il processo nato dall'inchiesta cosiddetta «Corvo» dove è imputato a piede libero per un contrabbando di tabacchi lavorati esteri (niente a che fare con l'associazione mafiosa), contrabbando al quale secondo l'accusa avrebbe partecipato da dentro il carcere ristretto in regime di 41-bis; Vincenzo Stranieri, attualmente detenuto nel supercarcere di L'Aquila, è sottoposto ai regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario ininterrottamente da 17 anni, cioè dal momento della sua istituzione avvenuta nell'agosto del 1992; il 3 dicembre 2009, con decreto del Ministro della giustizia, a Stranieri è stata notificata l'ennesima proroga del regime di carcere duro, motivata con una formula che negli anni si è ripetuta sempre la stessa: «non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell'organizzazione criminale di appartenenza»; oltre alle note informative e alle segnalazioni degli organi investigativi e giudiziari che di decreto in decreto si ripetono nell'ultimo provvedimento applicativo del 41-bis compare una «novità» segnalata dalla direzione distrettuale antimafia (DDA) di Lecce che secondo il Ministro Guardasigilli sarebbe indicativa tra le altre della capacità di Vincenzo Stranieri di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata; nella suddetta nota, la DDA di Lecce si esprime testualmente come segue: «Da segnalare infine il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatagli a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008 (nonostante l'interessamento di "persone sempre più influenti" che il giornalista avrebbe interessato per incontrare Stranieri, evidentemente con scarso successo!). Secondo tale schema, Stranieri avrebbe dovuto, tra l'altro, indicare "con quale degli imputati dei primi processi a Lecce e Brindisi mantenesse rapporti epistolari", se "avesse letto il libro di Antonio Perrone" (esponente fin dal primo momento della S.C.U. della zona a Nord di Lecce, avente influenza nella città di Trepuzzi, condannato all'ergastolo per omicidio, oltre che per il delitto di cui all'articolo 416-bis c.p., e autore di un libro sulla vita della S.C.U. e sulle modalità della sua partecipazione ad essa), se abbia letto "quello di Salvatore Mantovano" ed il giornalista aggiunge se abbia saputo che l'autore è stato ucciso (ma sbaglia il cognome perchè la persona in questione si chiama Padovano, detto Nino Bomba, esponente "storico" e di primo piano della criminalità mafiosa salentina, affiliato alla Sacra Corona Unita e "responsabile" del territorio di Gallipoli, autore di un libro sulla condizione carceraria, ucciso il 6 settembre 2008 su mandato del fratello Rosario per conflitti all'interno della famiglia "naturale" e di quella "mafiosa" di appartenenza di entrambi). E infine il giornalista chiede a Stranieri "quali personaggi pubblici o politici o cosiddetti vip (ammesso che Manduria ne abbia mai avuti) ricordi dopo tanti anni di assenza da Manduria". Si ritiene, pertanto, che nei confronti Stranieri Vincenzo debba essere mantenuto il regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario di cui all'articolo 41-bis...»; un giornalista in questa vicenda esiste effettivamente e agli interroganti risulta essere Nazareno Dinoi, corrispondente da Lecce e Taranto del Corriere del Mezzogiorno (inserto pugliese del Corriere della Sera) e coautore con Vincenzo Stranieri del libro di prossima pubblicazione «Dentro una vita», con prefazione del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D'Elia, nel quale l'ex boss di Manduria racconta la sua storia da delinquente e, poi, di detenuto da 17 anni al carcere duro; agli interroganti risulta altresì che Nazareno Dinoi, nella primavera del 2008, in previsione della scrittura del libro, avrebbe avanzato al Ministero della giustizia formale richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, ricevutane risposta negativa, avrebbe deciso di procedere per via epistolare, sempre qualificandosi ed esplicitando le finalità del carteggio -: se il giornalista di cui si riferisce nella nota della DDA di Lecce corrisponda al nome di Nazareno Dinoi e se corrisponda al vero che il giornalista abbia avanzato al Ministero della giustizia richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, in seguito, deciso di intrattenere con lui un rapporto epistolare finalizzato alla scrittura di un libro sulla storia dell'ex boss di Manduria; in tal caso, se non intenda accuratamente verificare che i «dati» e i «fatti» indicativi dell'attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata segnalati dalla DDA di Lecce siano tali da giustificare la permanenza ancora, dopo 17 anni, del detenuto in regime di carcere duro. (3-00826)
Un nuovo testimone di giustizia inizia a parlare: trema la mafia foggiana. È già sotto protezione e vive con la famiglia in una località protetta. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Settembre 2022
Fermato il 22 luglio scorso con l'accusa di aver contribuito al tentato omicidio di un costruttore di cui era dipendente, il 46enne Domenico Solazzo ha detto di esser stato costretto a farlo e ha riferito particolari su un altro tentato omicidio. Ora, dunque, è diventato un testimone di giustizia e vive con la sua famiglia in una località segreta.
L’uomo era accusato, in concorso con altri sei foggiani, tra cui il boss Emiliano Francavilla, del tentato omicidio aggravato dalla mafiosità dell’imprenditore Antonio Fratianni, agguato sventato dalla squadra mobile la sera del 26 giugno. A lui si contestava di aver piazzato un gps sull'auto del costruttore per tracciarne i movimenti. Subito dopo il fermo riferì agli agenti e al pm della Dda di Bari di essere stato minacciato di morte da Emiliano Francavilla e Michele Ragno (un altro dei fermati) per installare il dispositivo sul veicolo. Aggiunse che Fratianni doveva essere ucciso per non aver restituito al clan Sinesi-Francavilla 600mila euro ricevuti due anni prima per costruire un palazzo in città; e riferì anche che lo stesso Fratianni era l’autore materiale del tentato omicidio di Antonello Francavilla (fratello maggiore di Emiliano e come lui al vertice della batteria mafiosa) e del figlio 15enne, compiuto il 2 marzo scorso a Nettuno in una abitazione dove la vittima era agli arresti domiciliari per estorsione.
Solazzo ha spiegato che Ragno gli confessò particolari in merito al tentato omicidio: «Fratianni - ha detto - andò a casa di Antonello Francavilla a volto scoperto, gli chiese di fargli il caffè e quando quest’ultimo si girò gli sparò». Sulla scorta di quelle rivelazioni, che hanno portato al fermo dello stesso Fratianni il 2 agosto, la Dda dispose l'immediata liberazione di Solazzo che non finì quindi in carcere. Il pm Bruna Manganelli ha poi chiesto le archiviazioni delle accuse a carico di Solazzo per non aver commesso il fatto essendo emersa la sue estraneità, e ha anche chiesto e ottenuto dal gip di Bari Antonella Carfagna l’incidente probatorio per interrogare il testimone alla presenza dei sei indagati e dei loro difensori. L’incidente probatorio si svolgerà nelle prossime settimane a Bari.
UCCISI NEL 2017. Mafia, a cinque anni dall'omicidio San Marco in Lamis ricorda i fratelli Luciani. Vittime innocenti, uccisi perché testimoni oculari di un duplice omicidio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Agosto 2022
«Cinque anni fa la morte di due fratelli, Luigi e Aurelio Luciani, vittime innocenti di mafia, che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Così come abbiamo il dovere di non dimenticare il dolore che da quel giorno provano i loro familiari. Luigi e Aurelio erano nel posto sbagliato nel momento sbagliato o meglio, loro erano al loro posto, al posto giusto, al lavoro, di mattina sui campi. Erano gli altri a non essere al loro posto, ad essere nel posto sbagliato e ad aver portato nel posto sbagliato noi e la nostra provincia». Così l’assessora al Welfare e consigliera del M5S Puglia, Rosa Barone, in occasione del quinto anniversario della strage di San Marco in Lamis (Foggia), il 9 agosto del 2017, quando vennero uccisi il boss di Manfredonia, Mario Luciano Romito, e il cognato Matteo De Palma. I fratelli Luciani assistettero per caso al duplice omicidio e furono uccisi perché testimoni scomodi.
«Dalla morte dei fratelli Luciani - prosegue Barone - lo Stato non ha più potuto girare la testa, far finta di niente, ha dovuto prendere una posizione. Da quel 9 agosto del 2017 la storia di questa terra è cambiata: la guerra alla mafia ha cambiato passo e il territorio ha iniziato ad avere quell'attenzione che chiedeva da tempo». «Sicuramente - conclude - tanto ancora c'è da fare, ma la presenza dello Stato si sente. Oggi ricordiamo la morte dei fratelli Luciani, ma ogni giorno lavoriamo perché non vengano dimenticati. È il minimo che dobbiamo a loro e ai loro cari».
Foggia, il neo pentito spiega il fenomeno delle estorsioni: «Si sa che si deve pagare». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Maggio 2022.
Alcuni commercianti non opporrebbero resistenza, ad altri «bisogna farglielo capire».
«Chi apre un’attività a Foggia, chi è proprio di Foggia, che è nato in quella città, sa che deve pagare». Patrizio Villani, il neo pentito della mafia foggiana, squarcia il velo sul fenomeno delle estorsioni in città. Lo ha fatto rispondendo ai magistrati nel corso della sua deposizione, dopo essersi pentito il 10 maggio.
Il pm della Dda di Bari, Perrone Capano, gli ha anche chiesto se a Foggia per fare le estorsioni siano necessarie intimidatori o basti semplicemente recarsi presso l’attività commerciale. «Ci stanno posti - ha detto Villani - dove non devi fare niente, devi solo chiedere e ci sta l’attività che te li da; e ci stanno posti dove non vogliono pagare e devi fare le lettere, i proiettili; oppure quando chiudono vai con un motore vestito e ti fai vedere con la pistola in mano e gliela batti vicino al vetro».
Le dichiarazioni di Villani sono racchiuse in un verbale di 130 pagine messo a disposizione della difesa nel corso del processo abbreviato denominato «Decima Bis» in corso nell’aula bunker di Bitonto e che conta una quindicina di imputati tra cui lo stesso Villani. Secondo Villani le vittime di estorsioni direbbero: «Li devo dare allo Stato? Li do a loro - si legge nel verbale - «Chi invece no, quello la devi lavorare un pò, li devi andare a minacciare, gli devi rendere la vita impossibile, glielo devi far capire».
Poi, sul fatto che gli attentati dinamitardi contro le attività commerciali si concentrino in particolar modo ad inizio d’anno - 11 quelli avvenute nelle prime settimane del 2022 - ha spiegato che «è solo ironia della sorte che è l’inizio dell’anno; non c'è una scelta - spiega - è una casualità».
Attentato al boss della mala foggiana Antonello Francavilla. Colpito gravemente anche il figlio 15enne. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2022.
Antonello Francavilla, finito al centro di numerosissime operazioni mentre è ancora pendente in Cassazione la condanna per estorsione contro un imprenditore agricolo foggiano ha scelto Nettuno per scontare i domiciliari, ritenendolo un posto sicuro anche in ragione di vecchie consolidate amicizie che potrebbero aver garantito all'uomo la tranquillità di una protezione.
Antonello Francavilla, classe 1977, boss della Società di Foggia. Un pezzo da novanta nella mala pugliese da anni insieme al suocero, Roberto Sinesi, a capo di una delle più potenti batterie di zona con propagazioni anche nel Gargano, che opera nel traffico internazionale e spaccio di droga ed estorsioni trasferitosi a Nettuno sul litorale a sud di Roma, dove vive da marzo 2021 da pregiudicato agli arresti domiciliari con tanto di braccialetto elettronico alla caviglia dopo la condanna a 6 anni nel processo per estorsioni “Rodolfo”, dopo aver passato otto anni come detenuto. Era stato arrestato in un blitz antidroga nel novembre del 2013, accusato di associazione mafiosa e concorso nell’importazione di 300 quintali di hashish dal Marocco in Puglia.
Francavilla viveva un piccolo appartamento ricavato da villetta anonima in via Greccio a Nettuno, è stato oggetto di un tentativo di omicidio in cui è rimasto ferito il figlio Mario di soli 15anni, ricoverato in gravissime condizioni al Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Il “boss” è stato soccorso e trasportato all’’ospedale “Riuniti” di Anzio-Nettuno dove i chirurghi lo hanno operato, per ferite al torace, all’altezza dello sterno, all’addome, all’intestino, causando un’emorragia al pancreas, all’avambraccio destro, a uno zigomo e all’ulna.
Francavilla, finito al centro di numerosissime operazioni mentre è ancora pendente in Cassazione la condanna per estorsione contro un imprenditore agricolo foggiano ha scelto Nettuno per scontare i domiciliari, ritenendolo un posto sicuro anche in ragione di vecchie consolidate amicizie che potrebbero aver garantito all’uomo la tranquillità di una protezione. L’appartamento preso in affitto nella villetta sembrerebbe essere di proprietà di un uomo del posto, ma a collegarlo alla piccola cittadina del litorale potrebbero esserci anche altri interessi. Da una prima verifica, il suo nome non viene accostato ai clan di ‘ndrangheta recentemente smantellati dal Nucleo investigativo dei Carabinieri di via In Selci e quindi prende piede l’ipotesi di collegamenti per affari sul traffico di droga da Foggia al litorale laziale.
A metà giornata Francavilla ha sentito suonare il campanello di casa ed avvicinatosi alla porta ha chiesto “chi è ?“. Sentendo rispondere “Polizia” da pregiudicato agli arresti domiciliari sa benissimo che potrebbe trattarsi di un controllo e quindi ha aperto la porta trovandosi di fronte due uomini, con i volti coperti dalle mascherine, che gli hanno sparano a bruciapelo senza riuscire ad ucciderlo. Il figlio Mario quindicenne, sentendo gli spari ha provato a nascondersi in bagno ma i due “killer” hanno sparano anche contro di lui ferendolo al torace ed alla testa, dileguandosi dopo l’omicidio fallito. Contro il “boss” Francavilla sono stati esplosi tre colpi da una calibro 38, due dei quali hanno colpito il figlio, Mario Francavilla che è stato soccorso e trasportato in eliambulanza al Policlinico Gemelli venendo sottoposto a un primo intervento chirurgico.
La prima ad aver dato l’allarme è stata un’amica del Francavilla il quale aveva scelto Nettuno come luogo dove stare ai domiciliari probabilmente perchè conosce il piccolo Comune romano da anni ma anche perché qualsiasi richiesta per scontare la pena a Foggia, considerato il “peso” mafioso dell’uomo, sarebbe stata respinta per motivi di sicurezza. La donna che ha chiamato i soccorsi conosce Francavilla da anni e ieri mattina è stata avvisata da sua figlia, allarmata dalla moglie del Francavilla che dopo l’agguato ha trovato la forza di telefonare alla moglie per chiedere soccorso.
“Chiama qualcuno hanno provato ad ammazzarci” avrebbe detto al telefono il “boss” prima di perdere conoscenza. Di fronte alla villetta è accorsa l’amica di famiglia che ha dato l’allarme alle 12.32 di eiri quando il 112 ha ricevuto la chiamata di soccorso dirottata al 118. “L’ho visto ricoperto di sangue – ha riferito la donna – e si preoccupava solo del figlio salvate mio figlio, hanno sparato anche a lui”. Ma su chi possa essere stato il sicario a sparare a bruciapelo non ha fornito alcuna informazione mentre veniva trasportato in ospedale. Solo poche e confuse parole sono state riferite dal Francavilla agli investigatori che hanno sequestrato alcune immagini di impianti di videosorveglianza, intorno alla villetta.
I “sicari” sono arrivati alla residenza di Antonello Francavilla grazie ad una “soffiata” in quanto oltre al figlio che si era recato a Nettuno per trovare il padre in occasione della festa di carnevale, a Nettuno. L’altro figlio più grande era andato a trovarlo altre volte in passato, “non crediamo che il sicario o i sicari abbiano dovuto seguire lui per arrivare al padre, sapevano dove trovarlo e hanno agito pur sapendo che in casa c’era un ragazzino… sono mer…“, dicono gli amici e i familiari del Francavilla arrivati da Foggia al Gemelli. A indagare sul duplice tentato omicidio è la Squadra Mobile di Roma, dopo che ieri sono arrivati sul posto gli agenti della Sezione Omicidi ed i colleghi della Criminalità organizzata, insieme agli agenti del commissariato di Anzio.
Nettuno ed Anzio rappresentano ormai un territorio pesantemente infiltrato in virtù della presenza della ‘ndrangheta, rappresentata dalle famiglie Gallace, Perronace e Madaffari, nel quale nascondersi facilmente, potendo godere della protezione di esponenti della malavita organizzata. Un territorio come rivela una recente indagine della Dda di Roma che ha smantellato un’organizzazione legata alla ‘ndrangheta specializzata nel traffico internazionale di cocaina con l’emissione di 65 ordinanze di custodia cautelare. Operazione di qualche giorni fa. Così come non è un caso che ad Anzio e Nettuno nei primi anni 2000 il sistema informatico di ricerca “precedenti” e “rintraccio” la sera dopo le otto non funzionava e quindi latitanti e fuggitivi anche fermati ai controlli non venivano segnalati. E così i clan mafiosi sono cresciuti negli anni.
E’ ipotizzabile che Francavilla sappia benissimo chi è il mandante e le ragioni dell’agguato ma da boss navigato qual è, a capo di una delle più forti e potenti “batterie” di zona, abbia deciso di non parlare. Non è da escludere quindi che nelle prossime ore possano esserci delle ritorsioni nel Foggiano, motivo per cui le forze dell’ordine sono già allertate, in quanto il clan Francavilla-Sinesi, è da anni è in a guerra con un’altra “batteria” del gruppo Moretti-Pellegrino-Lanza che opera e delinque sempre con la droga, il traffico di stupefacenti e le estorsioni nello stesso territorio.
Antonello Francavilla è da tempo ritenuto il capo indiscusso della “Società Foggiana”, gli inquirenti lo ritengono un uomo molto pericoloso e determinato. La sua organizzazione, il suo clan ha delle caratteristiche paramilitari di stampo mafioso. È presente in Italia e in alcune amministrazioni pubbliche, riuscito ad infiltrarsi nel comune di Foggia durante le consiliature del sindaco Franco Landella, che ha portato lo scioglimento per mafia del consiglio comunale.
Adesso sarà compito del Procuratore Aggiunto della DDA di Roma Ilaria Calò scoprire come mai Antonello Francavilla abbia scelto proprio Nettuno per scontare i domiciliari. Redazione CdG 1947
La società foggiana: la mafia che spara anche ai bambini. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 04 marzo 2022
La società foggiana, la mafia spietata che controlla Foggia e provincia, porta la faida nel Lazio a Nettuno dove si è consumato un tentato duplice omicidio.
Lo fa mostrando il suo tratto distintivo: la violenza. «La lupara bianca a Foggia e sul Gargano è stata molto usata nelle faide. Da noi nel foggiano si sotterravano nelle campagne, sul Gargano le persone sono state buttate nelle grotte di profondità. Una cosa che si è sempre detta è che alcuni sono stati dati in pasto ai maiali, ma prima bruciavano i capelli perché gli animali non li mangiavano», dice l’ex killer pentito.
La società foggiana, negli ultimi anni, ha colpito anche giovanissimi e bambini, raggiunti dai proiettili durante gli agguati contro i rivali.
La società foggiana, la mafia spietata che controlla Foggia e provincia, porta la faida nel Lazio a Nettuno dove si è consumato un tentato duplice omicidio. Lo fa mostrando il suo tratto distintivo: la violenza. Non ha alcuna pietà e colpisce bambini e giovanissimi estranei a logiche criminali.
«Quando è iniziata la faida, noi della batteria Sinesi eravamo i più cattivi. Ci dividemmo perché volevano imporci il pizzo sui proventi delle rapine, da lì nasce lo scontro», racconta un ex killer, oggi collaboratore di giustizia che ci aiuta a tratteggiare profili e affari delle famiglie in conflitto.
I sicari sparano senza alcuno scrupolo come è accaduto nell’agguato che ha portato al ferimento del boss Antonello Francavilla e del figlio, un ragazzo di 16 anni. Il criminale, si tratta di un solo soggetto, ha suonato al citofono fingendosi poliziotto, ha prima sparato al padre e poi ha raggiunto il giovane che si era inutilmente rifugiato in bagno. Ora è in fin di vita, ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma mentre il padre dopo l’iniziale miglioramento versa in condizioni critiche. L’agguato potrebbe essere nato nell’ambiente carcerario e il sicario potrebbe essere non foggiano, ma arrivato a Nettuno per ‘fare un favore’ a un clan alleato.
Foto concessa dal quotidiano L'Immediato
Il boss libero
Antonello Francavilla, genero del boss Roberto Sinesi, stava scontando i domiciliari per una condanna non definitiva per estorsione nella città laziale.
Tra gli altri uomini della mala in libertà ci sono i figli del boss Federico Trisciuoglio, ma anche Fabio Tizzano, legato ai Moretti che si trova anche lui ai domiciliari. Le batterie che si fanno la guerra sono tre: i Sinesi-Francavilla, i Moretti-Pellegrino-Lanza e i Trisciuoglio. Sinesi e Moretti un tempo erano alleati. Poi le strade si sono divise per una richiesta estorsiva sulle rapine effettuate e sgarbi reciproci. Erano gli anni Ottanta quando eroina ed estorsioni hanno riempito le casse della società foggiana che nonostante agguati e uccisioni mantiene una cassa comune.
«I capi non si arrenderanno mai, qualcuno ha mandato fuori a dire che bisogna fare casino, le colpe non devono cadere solo sui vertici. Infatti gli omicidi, le bombe non si sono fermate», racconta l’ex killer oggi pentito.
Poi piano piano si sono infiltrati nell’economia con imprenditori sotto scacco e altri che hanno preferito diventare organici grazie anche al rapporto con la pubblica amministrazione e la politica.
«Abbiamo messo le mani su tutto, la gestione delle case popolari, sugli ospedali, sulle onoranze funebri, noi avevamo il controllo su ogni cosa. Io avevo una ditta ed ero riuscito a entrare nel sistema degli appalti pubblici, ma spesso noi non eseguivamo i lavori, prendevamo solo soldi. I costi raddoppiavano e noi guadagnavamo. Ci siamo presi tutto, abbiamo cominciato a imporre il pizzo a tappeto e chi non pagava moriva. Ci servivano i soldi per pagare gli avvocati che arrivano da Milano», dice l’ex killer oggi pentito.
Negli ultimi tre anni sono stati sciolti per condizionamento malativoso. Monte Sant’Angelo, Mattinata (comuni non distanti dal litorale dove comanda l’altra mafia, quella dei montanari), ma anche Manfredonia, Cerignola e proprio Foggia, ancora “governata” da una commissione straordinaria.
Come le altre organizzazioni criminali anche la società foggiana spara a ragazzi e a bambini, ma è l’ultima a riempire le cronache con giovani vite a rischio a causa di una faida interminabile. Nel 2016 Roberto Sinesi era in auto con la figlia e con il nipotino, figlio di Antonello Francavilla. Due sicari si sono avvicinati e hanno iniziato a sparare, hanno colpito il boss e il bambino di quattro anni. Entrambi sono stati feriti gravemente, ma si sono salvati. All’attentato hanno risposto i Sinesi con l’agguato ai figli del boss Trisciuglio e poi l’uccisione di Roberto Tizzano dell’altra batteria rivale.
Proiettili contro i bambini
Ma nelle sparatorie sono stati spesso coinvolti i bambini. Solo nel luglio scorso sono stati feriti in due agguati altri due bimbi di 12 e sei anni. Mentre l’Italia festeggiava la vittoria agli Europei di calcio, i proiettili della mala locale, a San Severo, hanno raggiunto un pregiudicato uccidendolo e ferendo il nipote di sei anni. Non potrà più camminare, dicono i medici. A San Severo ci sono altre famiglie criminali legate alle batterie foggiane.
In cinque anni tre bambini e un ragazzino sono stati colpiti dai proiettili della mala foggiana. Non ci sono solo quelli raggiunti dai colpi d’arma da fuoco, ma anche quelli che sono scomparsi perché presumibilmente vittima di lupara bianca, morti ammazzati i cui corpi non si trovano più. Nel 2009 è scomparso a Monte Sant’Angelo Alessandro Ciavarella, aveva 16 anni. Non è mai stato trovato. Stessa sorte è toccata a Francesco Armiento, neanche trentenne, che nel 2016 è scomparso da Mattinata. La madre Luisa Lapomarda cerca ancora verità e giustizia.
«La lupara bianca a Foggia e sul Gargano è stata molto usata. Da noi nel foggiano si sotterravano nelle campagne, sul Gargano le persone sono state buttate nelle grotte di profondità. Una cosa che si è sempre detta è che alcuni sono stati dati in pasto ai maiali, ma prima bruciavano i capelli perché gli animali non li mangiavano», dice l’ex killer pentito.
In una manifestazione antimafia, svoltasi a Foggia nel 2020, i bambini che sfilavano portavano in mano uno striscione che recitava così: «Siamo tutti contro la mafia, la mafia a Foggia è pericolosa e non si può più vivere così, ne va del nostro futuro». Ma nessuno li ha ascoltati.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
La mafia a Foggia bombarda i negozi così in città torna la paura. Un negozio di parrucchiere a San Severo distrutto da una bomba. Foto tratta dal sito di informazione l'Immediato che racconta quotidianamente le mafie foggiane. NELLO TROCCHIA su Il Domani l'11 gennaio 2022.
«Sono attacchi terroristici in piena regola». Le parole sono di Piernicola Silvis, per 4 anni questore di Foggia, la città che ha iniziato il 2022 con bombe, negozi che saltano in aria e spari.
«Io mi aspetto che ci sia qui la presenza della ministra Lamorgese nei prossimi giorni, diversamente saremo noi ad andare a Roma a rivendicare l’attenzione che siamo certi di meritare», dice Francesco Miglio, sindaco di San Severo. Il comune, a Foggia, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Negli ultimi tre anni sono stati sciolti per condizionamento malativoso Monte Sant'Angelo, Mattinata, sul litorale dove comanda l'altra mafia quella dei montanari, ma anche Manfredonia e Cerignola.
Bombe a Foggia, in città la malavita gestiva anche la videosorveglianza. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 16 Gennaio 2022.
Contro la stagione delle bombe lo stato ha risposto con perquisizioni a tappeto, centinaia di inquirenti hanno eseguito controlli alla ricerca di armi e ordigni.
«Fatti i cazzi tuoi, voi giornalisti siete pieni di merda», dice Alessandro Carniola, di mestiere imprenditore, considerato dagli inquirenti frequentatore di pregiudicati, omertoso, inserito «nel circuito che alimenta le casse della mafia foggiana».
Tra gli ordigni, otto, che hanno colpito San Severo e Foggia, due hanno centrato un locale di Carniola e il furgone di una ditta che distribuisce il caffè in tutta la città, marchio da lui creato.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Nove bombe in nove giorni. La mafia foggiana attacca lo Stato. Giuliano Foschini su La Repubblica il 17 gennaio 2022.
Dopo gl arresti e i commissariamenti dei Comuni più importanti, i clan hanno alzato lo scontro. Colpiti negozi e mandati segnali interni. Ma salgono le denunce per estorsione. Oggi il vertice con il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese.
"Il mare è nostro!" gridava agli uomini del clan qualche mese fa un boss di queste parti, Pietro La Torre. Ed è loro anche il fuoco di queste notti, nove bombe in nove giorni, nove boati che hanno spaccato vetrine e fatto tremare vetri, distrutto progetti e spaventato futuri. Il punto è che da qualche tempo a questa parte la terra, e l'aria, non sono più cosa soltanto della mafia foggiana, la quarta mafia, quella senza un nome ma con forza e potere sterminati, "la più urgente emergenza criminale del Paese" l'ha definita qualche settimana fa, davanti alla gente di questa terra, il ministro della Giustizia, Marta Cartabia.
Che sta accadendo in Puglia, o meglio, in provincia di Foggia? Succede che da qualche tempo è arrivato finalmente lo Stato. Che ha arrestato mafiosi e fiancheggiatori, commissariato comuni (compreso quello di Foggia) e aziende. E ora, come risposta, la mafia gli ha dichiarato guerra.
I numeri: in nove giorni, in questo 2022, la criminalità organizzata ha piazzato nove bombe diverse tra Foggia e la provincia. Hanno distrutto negozi e parrucchieri, hanno punito commercianti onesti e regolato conti interni con il chiaro obiettivo di lanciare messaggi. Perché tutti capiscano che nulla è cambiato. Che chi comandava, comanda. "La mafia sta provando a reagire ai colpi che la squadra Stato ha inflitto ai clan in questi mesi: ai successi della polizia giudiziaria, a quelli dell'antimafia sociale che ora finalmente c'è" ragiona il procuratore distrettuale antimafia, Roberto Rossi.
Mafia del pesce a Foggia, Cafiero De Raho: "Svela debolezza dei clan". Rossi: "Li batteremo"
Fino a qualche anno fa, le statistiche raccontavano che l'80 per cento dei commercianti e degli imprenditori locali pagavano il pizzo. Oggi i numeri dicono che ci sono segnali da cui ripartire: le denunce per estorsione, ha documentato Tano Grasso, nell'ultimo anno sono aumentate dell'11 per cento a fronte di un calo della delittuosità del 9. E se non bastano i numeri a spiegare, ci sono le parole. Le mafie foggiane non conoscevano pentiti. Perché, come ha spiegato il sostituto procuratore antimafia Giuseppe Gatti che vive da un decennio sotto scorta perché i foggiani volevano ucciderlo, rubando proprio le parole a un mafioso, "qui il pentito non esce perché è tutta una famiglia: una famiglia significa il sangue. E più fiducia del sangue non ce ne sta". Ora invece anche il sangue ha cominciato a tradire. Qualche pentito è apparso. Repubblica ha potuto leggere le dichiarazioni di uno di loro, Orazio Coda, uomo del clan Raduano: "Dopo che si è creato l'antiracket - ha detto - nessuno ha mai toccato questi imprenditori perché si sapeva che era galera sicuro. Perché i commercianti erano tutelati dallo Stato".
Bisognava dunque colpire gli altri, subito. Perché non seguissero l'esempio. "Ma è ora che bisogna reagire, e non lasciarci soli" grida il sindaco di San Severo, Francesco Miglio. Perché se è vero che questa dei clan è una reazione allo Stato, ora lo Stato non può fermarsi. San Severo in questi giorni si è svegliata quattro volte con le bombe che hanno distrutto saracinesche e vetrine. Ma il cuore della città si è accartocciato quest'estate: mentre tutta l'Italia era per strada per festeggiare la vittoria dell'Italia al campionato europeo di calcio, la mafia uccideva Mario Anastasio, pregiudicato. Accanto a lui c'era suo nipote, Dodo, 6 anni. Ha preso una pallottola e, forse, non camminerà mai più. E siccome il sangue chiama sangue, dopo Anastasio nell'estate di San Severo è morto Luigi Bonaventura: secondo gli inquirenti è stata una risposta all'omicidio di luglio.
"Non lasciateci soli", ripete Miglio, accanto a chi dice "basta" alla mafia. C'è, però, anche chi dice soltanto "basta": a Foggia qualcuno comincia a storcere il naso per il commissariamento del Comune, nelle amministrazioni dove si è da poco votato si cominciano a rivedere amici di mafiosi. "Questo è il momento più delicato: non bisogna abbassare la guardia", ha spiegato, non a caso, il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, che oggi sarà a Foggia al fianco del ministro degli Interni, Luciana Lamorgese. Chiederanno alla gente di avere coraggio, ma c'è chi chiede loro di non fermarsi.
Ieri il Procuratore Rossi - che lavora al fianco del capo dell'ufficio di Foggia, Ludovico Vaccaro - ha scritto al Csm chiedendo i sette magistrati e il personale che manca in organico. L'antimafia - Libera, le associazioni degli imprenditori, le scuole - stanno facendo sforzi straordinari. Ma è un fatto che il presidente regionale di Confindustria, Sergio Fontana, che tanto si è speso per l'antiracket di questa terra, sia stato oggetto qualche settimana fa di un'intimidazione, e ora la Procura sta proprio valutando se ci sia un filo con Foggia. "Noi non ci arrendiamo" ha detto Massimo, uno dei commercianti che ha visto saracinesca e negozio saltare in aria. "Ma, per favore, non lo fate nemmeno voi".
Il 2021 della mafia in Italia tra processi, indagini e politica. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 31 dicembre 2021.
La sentenza sul processo Stato-Mafia, quella sul clan romano Casamonica, lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Foggia.
Ci sono fatti di mafia che hanno segnato il 2021 di cui si è parlato, altri, invece, sono stati pressoché ignorati. La maggioranza ricade in questa seconda categoria.
Difficile sintetizzare un anno di mafia in un solo articolo. Per quanto possa sembrare incredibile ogni giorno del 2021 c’è stato un arresto, un’indagine o un segnale che rivelano quanto sia ancora tentacolare il potere della criminalità organizzata.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Onorata società foggiana. La preoccupante ascesa della Quarta mafia. Pietro Mecarozzi su l'Inkiesta il 21 gennaio 2022.
Estorsioni, usura, riciclaggio e droga. Sono i pilastri dell’organizzazione criminale che agisce in Puglia, sempre più potente e violenta. Si è divisa in quattro articolazioni principali e fa affari con le cosche tradizionali ed estere, sfidando a viso aperto lo Stato.
Una galassia di famiglie malavitose, ora riunite in storiche alleanze, ora contrapposte in faide sanguinose. Un’organizzazione basata su violenza e affari. La mafia foggiana, conosciuta anche come Quarta mafia, è questo e molto altro.
È sopratutto l’associazione mafiosa che in questi ultimi anni, nell’ombra, è riuscita maggiormente a crescere e allargare i propri confini, diramandosi – secondo quanto riporta la Dia nella sua ultima relazione – in quattro articolazioni principali: la società foggiana, la mafia garganica, la malavita cerignolana e la mafia sanseverese.
La prima si muove prevalentemente nella città di Foggia. Il Gargano invece è la terra dei “Montanari”, passati dall’abigeato al traffico di droga (fatta arrivare dall’Albania o coltivata in loco). La malavita cerignolana è specializzata nei furti di auto e, soprattutto, nelle rapine ai furgoni portavalori. Un vero e proprio marchio di fabbrica per i clan di Cerignola, che non disdegnano colpi in trasferta, anche all’estero. La criminalità sanseverese svolge invece un ruolo determinante nel traffico degli stupefacenti grazie ai rapporti con altri gruppi della provincia e con camorra, ’ndrangheta e criminalità albanese.
«È senza dubbio un fenomeno criminale da non sottovalutare, di vaste proporzioni all’interno del quale si è fatto troppo silenzio e per tanto tempo», spiega Vincenzo Musacchio, criminologo e ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services.
La Quarta mafia fonde violenza e corruzione in un’unica strategia criminale: «Per gli operatori economici ci sono le bombe. Per le amministrazioni locali c’è la corruzione. I mafiosi locali controllano il voto eleggono i loro rappresentanti e poi ottengono favori. In questa situazione ormai endemica la dimensione di degrado del foggiano è a livelli emergenziali».
Le cronache locali raccontano di guerre spietate a colpi di morti ammazzati, ma anche di lunghe tregue, funzionali alla pianificazione degli spazi di influenza per quelli che sono gli affari delle famiglie: racket delle estorsioni, usura, riciclaggio, gioco d’azzardo e droga.
Nei primi undici giorni di gennaio nella provincia di Foggia sono esplose otto bombe. Tre a San Severo, una a Vieste, quattro a Foggia. Sono stati colpiti un parrucchiere, una concessionaria di auto, un negozio di giochi, una profumeria, un fioraio, una ditta di distribuzione di caffè, un ristorante e l’abitazione del parente di un presunto esponente della criminalità organizzata. Mentre mercoledì notte un attentato incendiario è stato compiuto contro l’automobile di Generoso Rignanese, assessore al Bilancio del Comune di Monte Sant’Angelo.
Che si tratti di mafia lo hanno stabilito sentenze della magistratura. Le 25 condanne alla mafia foggiana, eseguite su richiesta del pubblico ministero Gianrico Carofiglio, confermano l’esistenza di un’associazione a delinquere ben strutturata.
«Undici bombe in dieci giorni sono un attacco diretto allo Stato. Il messaggio lanciato è chiarissimo: qui comandiamo noi, nulla è cambiato e nulla cambierà. In realtà la mafia è costretta a reagire con forza e crudeltà per rispondere agli arresti di questi ultimi mesi. Si sta costituendo la prima associazione anti-racket, si comincia a vedere l’antimafia sociale e questo le mafie foggiane non possono permetterlo», continua Musacchio.
La società foggiana controlla con la violenza un territorio molto vasto: la provincia di Foggia è la terza per grandezza dopo Sassari e Bolzano, è più vasta dell’intera regione Liguria. E detiene alcuni record negativi: è la provincia al primo posto in Italia, secondo i report annuali, in quanto a numero di estorsioni denunciate (28,1 ogni 100mila abitanti) ed è seconda in classifica, dietro Caltanissetta, per numero di omicidi volontari (2,3 ogni 100mila abitanti). È seconda, dietro Crotone, per tentati omicidi (3,9 ogni 100mila abitanti) ed è al terzo posto dopo Reggio Calabria e Vibo Valentia per denunce per associazione mafiosa (1,5 ogni 100mila abitanti).
Il comune di Foggia, nell’agosto scorso, è stato sciolto per associazione mafiosa. In precedenza era successo solo a un altro capoluogo di provincia, Reggio Calabria, nel 2012. Il sindaco della Lega, Franco Landella, è indagato per corruzione e concussione. Altre amministrazioni comunali della provincia erano state sciolte in precedenza: Cerignola, Monte Sant’Angelo, Mattinata e Manfredonia.
Ad oggi, a Foggia e nel tavoliere i clan egemoni (chiamate “batterie”) sono i Moretti-Pellegrino-Lanza, i Sinesi-Francavilla e il clan Trisciuoglio-Tolonese. «Nel Gargano abbiamo le famiglie Li Bergolis, Alfieri e Primosa di Monte Sant’Angelo. Le famiglie dei Tarantino e dei Ciavarella di San Nicandro Garganico. A San Severo abbiamo una estensione foggiana del clan Moretti-Pellegrino-Lanza e il clan La Piccirella-Testa», svela Luigi Bonaventura, ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura, collaboratore di giustizia di ben 14 procure italiane e straniere. A Cerignola operano il clan Piarulli-Ferraro e il clan Tommaso-D’Angelo. A Lucera i clan predominanti sono Ritucci-Cenicola, Papa-Ricci, Bayan-Di Corso, Tedesco e Barbetti.
Pur conservando distinte segmentazioni, hanno radici comuni e, soprattutto, si muovono in sintonia cercando di non calpestarsi i piedi e spartendosi in accordo i relativi territori di pertinenza. «Questi gruppi si espandono infiltrandosi anche i territori ancora sani quali il Molise, l’Abruzzo, le Marche. Hanno anche contatti molto stretti con le mafie albanesi e nigeriane». Ma non solo: «Hanno rapporti molto forti con la ’Ndrangheta. Per dare un’idea: la zona del Salento per anni è stata chiamata da molte cosche “Le due Calabrie” per la presenza imponente di mandamenti ’ndraghetisti, tra cui la ’ndrina Alvaro e la Bellocco», rivela Bonaventura.
Ma come nasce questa organizzazione criminale? E come è strutturata? «Questa mafia si basa sulla violenza. È una loro caratteristica, che va controtendenza con il modus operandi delle mafie tradizionali, che preferiscono sempre più la corruzione e l’infiltrazione nella politica», spiega Antonio Laronga, procuratore aggiunto di Foggia.
La Quarta mafia nasce alla fine degli anni’70. Sono gli anni in cui Cosa Nostra, appena conclusa la prima guerra di mafia, prova a ridefinire i propri assetti e fonda le prime commissioni interprovinciali, finalizzate a garantire la pace interna. In Calabria la ’ndrangheta comincia a crescere, a evolversi, ad abbandonare l’ambiente rurale e ad allargare i propri orizzonti. E, soprattutto, è negli anni ’70 che Raffaele Cutolo dà vita alla Nuova Camorra Organizzata.
Proprio quest’ultimo sarà fondamentale per la nascita della Società. In un hotel di Foggia nel 1979, Raffaele Cutolo si incontra con le principali bande di malviventi della regione. Ha un unico obiettivo: colonizzare la Puglia per esportare il suo progetto di Nuova Camorra Organizzata, estendendo così il suo dominio. Nasce così la criminalità organizzata pugliese.
«Quando ancora il codice interno delle cosche vietava di avere affiliati non calabresi, la mia famiglia è stata tra le prime a stabilire un collegamento con Taranto e creare una “succursale” criminale», continua Bonaventura. Con quali scopi? «La Puglia è un punto strategico per Camorra e ’Ndrangheta, che trovando campo aperto hanno fiutato l’occasione di fare ricchi affari, da prima con il traffico di stupefacenti poi con quello di armi», aggiunge il collaboratore di giustizia.
La loro principale fonte di guadagno resta infatti il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti. «Le coste pugliesi sono un punto di approdo privilegiato per lo sbarco in Italia di decine di tonnellate di stupefacenti destinati al mercato nazionale ma anche a quello europeo e internazionale», dice Musacchio.
Negli ultimi cinquant’anni, però, la storia criminale della Puglia è contrassegnata dalla violenza delle “faide”. La più famosa è ambientata a Sannicandro Garganico, dove a partire dal 1981, si contano decine di morti tra le famiglie Tarantino e Ciavarella. La scena si è poi spostata a Monte Sant’Angelo, terra dei Libergolis, protagonisti di una altrettanta spietata guerra con i Romito di Manfredonia, che nell’agosto del 2017 culminerà nella strage di San Marco in Lamis, nella quale perderanno la vita anche i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, due agricoltori venutisi a trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato.
«L’uso sistematico della violenza e familismo: sono questi i pilastri della Quarta mafia. Hanno la ferocia di “Cosa Nostra”, la consanguineità della ’ndrangheta, l’organizzazione in gruppi autonomi e il fiuto per gli affari della Camorra. A questo si aggiunge un’omertà della popolazione difficile da scalfire», dice Laronga. Le mafie foggiane, inoltre, non conoscono pentiti. anche se negli ultimi anni qualcuno ce n’è stato, ma si tratta di «pesci piccoli, non c’è una fuoriuscita che potrebbe rovesciare il regime criminale instaurato», commenta Laronga.
Nel frattempo, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ha definito la situazione criminale del foggiano una «emergenza nazionale», mentre il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese afferma che «dobbiamo far sentire la presenza forte dello Stato». Ma la realtà è un’altra. «Per molto tempo, a livello istituzionale, c’è stata una sottovalutazione di questo fenomeno. Complice anche la riforma della geografia giudiziaria del 2012-2013, che ha provocato nel territorio foggiano la chiusura di un tribunale e una procura della Repubblica e ben sei sezioni distaccate giudiziarie. Una defezione che ha lasciato campo aperto a questa mafia», conclude Laronga.
· Il Polpo: Salvatore Annacondia.
Bari, i Capriati hanno un nuovo capo.È Filippo, nipote del boss Tonino. L’impianto accusatorio regge sino in Cassazione. Isabella Maselli su la Gazzetta del Mezzogiorno il 9 Settembre 2022
Filippo Capriati, 51 anni, è il capo indiscusso del «nuovo» omonimo clan mafioso di Bari Vecchia, costituito sul «brand» della storica organizzazione criminale capeggiata da Tonino Capriati, suo zio. Il ruolo di Filippo Capriati come organizzatore del clan è scritto nero su bianco in una sentenza ormai definitiva sul controllo mafioso del porto di Bari, che nell’aprile 2018 portò all’arresto di 17 persone, compreso Filippo. «Il dato incontrovertibile - diceva la Corte di Appello di Bari - è che Filippo sia riuscito a continuare ad esercitare, attraverso i propri affiliati (talvolta congiunti), un controllo sui movimenti dei mezzi, merci e persone, all’interno dell’area portuale, fatto di indubbio rilievo per gli interessi del clan, attesa la evidente importante strategica del sito controllato. Tale importanza era stata colta già da parecchi anni, e dallo stesso Filippo in qualità di membro, però, della famiglia e dello storico clan dello zio».
Diventato poi «promotore del nuovo sodalizio» dopo la scarcerazione nel 2014 a seguito di una lunga detenzione, «aveva posto le basi per il controllo sui movimenti all’interno dell’area portuale, tramite persone a lui fedeli». Il porto, hanno ricostruito le indagini della squadra mobile coordinate dal pm della Dda di Bari Fabio Buquicchio, «costituiva una base logistica del clan, un’area in cui i suoi adepti potevano muoversi, incontrarsi, occultare beni (anche illeciti), apprendere informazioni in merito a merci in arrivo, e così via». Nel processo è stato riconosciuto il risarcimento danni alla Cooperativa Ariete (che gestiva i servizi nel porto e di cui alcuni imputati erano dipendenti) e alla Autorità portuale.
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del difensore del boss, l’avvocato Gaetano Sassanelli, ha però annullato con rinvio la condanna a 20 anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga. Si tratta del reato che, tra quelli contestati (compreso quello di capo dell’associazione mafiosa) prevede le pene più elevate e Filippo Capriati è l’unico a non aver rinunciato ai motivi di appello arrivando fino in Cassazione per ottenere il riconoscimento della sua non colpevolezza almeno sulla gestione del traffico di droga. E i giudici - anche se ancora non si conoscono le motivazioni - gli hanno dato ragione, disponendo che questa parte del processo torni davanti ai giudici di Bari per un appello bis.
Anche per altri cinque imputati la Suprema Corte ha annullato con rinvio le sentenze di condanna, mentre con il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità degli ulteriori undici ricorsi, quelle condanne diventano definitive. Tra questi c’è il fratello di Filippo, 49 anni, anche lui ai vertici del clan (condannato con sentenza passata in giudicato a 10 anni e 8 mesi di reclusione).
Era tra i killer di Michele Fazio, ucciso per errore a 16 anni: a Bari vecchia fuochi d'artificio per la scarcerazione. Chiara Spagnolo su la Repubblica il 31 agosto 2022.
Il 39enne Lello Capriati ha scontato la pena di 19 anni ed è tornato in libertà festeggiato in una delle piazze vicine al luogo dell'agguato. Dei quattro arrestati per l'omicidio è quello che ha riportato la condanna più pesante ed è stato detenuto in diversi penitenziari
Gli auguri di una "presta libertà" in pochi giorni hanno trovato piena realizzazione: il 39enne Lello Capriati ha lasciato il carcere dopo 19 anni ed è stato accolto con un tripudio di fuochi d'artificio in una delle piazze principali di Bari vecchia, a poca distanza dal commissariato di Polizia.
E anche dall'abitazione di Lella e Pinuccio Fazio, i genitori di Michele, ucciso per sbaglio a 16 anni, il 12 luglio 2001, da un commando di cui faceva parte anche Capriati. Per quell'omicidio Raffaele, detto Lello, è stato condannato e ha pagato fino all'ultimo giorno il suo debito con la giustizia.
Senza mai trascurare il legame con la famiglia e con la gente del borgo antico, che sui social gli ha riservato valanghe d'affetto dopo che si è diffusa la notizia della ritrovata libertà.
Del resto è proprio grazie ai social che amici, parenti ed ex sodali hanno potuto continuare ad avere sue notizie per tutti questi anni, grazie ai video postati dalla moglie e dai figli ma anche da sorella e nipoti.
Lello è il nipote dello storico boss Tonino Capriati e fratello di Filippo e di Domenico, quest'ultimo assassinato a Japigia il 21 novembre 2018 e per la cui morte sono sotto processo Maurizio Larizzi e Domenico Monti. Nella loro vita le lotte fra i clan sono state una costante.
E proprio da una di queste faide sono nati i guai di Lello e la sua lunga detenzione. Michele Fazio fu ucciso per errore, in risposta all'assassinio di Francesco Capriati da parte degli Strisciuglio. Proprio su di loro doveva abbattersi la vendetta, ma il commando sbagliò: cercavano Marino Catacchio o Vito De Felice e colpirono il sedicenne Michele.
A quattro anni dal delitto furono arrestati Raffaele Capriati, Francesco Annoscia e Michele Portoghese, all'epoca minorenne, mentre Leonardo Ungredda fu ucciso prima dell'arresto.
I tre killer sono stati condannati e tutti hanno finito di scontare la pena. Capriati, che all'epoca aveva 19 anni, ha riportato la condanna più pesante ed è stato detenuto in diversi penitenziari, nei quali si è fatto molti amici che hanno salutato con gioia la sua ritrovata libertà.
Ad attenderlo all'aeroporto c'erano la moglie e i figli. Una volta arrivati a Bari vecchia, poi, un susseguirsi di parenti e amici, con i fuochi d'artificio sparati nel bel mezzo di piazza San Pietro in una sera di pochi giorni fa, mentre Bari era ancora gremita di turisti.
Agli auguri di buon ritorno a casa si sono aggiunti quelli di riprendere presto in mano la sua vita e anche le considerazioni di altre mogli di detenuti eccellenti, che si augurano di poter riabbracciare presto i loro cari.
Il ritorno di Raffaele Capriati, naturalmente, non è passato inosservato a forze dell'ordine e Direzione distrettuale antimafia, così come agli uomini di altri clan baresi. Nei lunghi anni della sua detenzione molte cose sono cambiate e arresti e omicidi hanno trasformato equilibri e fatto tessere nuove alleanze.
Una volta tornato a casa, Lello avrà tutta una vita da ricostruire. Per ora nei video si mostra felice accanto ai familiari, forte anche del rispetto che la moglie ha conquistato nei lunghi anni d'attesa e che - dopo il conto alla rovescia fatto nelle settimane precedenti alla liberazione e le lacrime versate all'aeroporto di Palese - sui social ha lanciato anche un avvertimento a chi proverà ad avvicinarsi al marito: "Ti spenno come fuss 'na gallina", ovviamente tutto cantato.
La Politica, ieri e oggi. La criminalità organizzata allunga i propri tentacoli anche a Bitonto. Negli anni '70 si assistette alla crescita del potere delle mafie e alla loro diffusione in tutta Italia. Con inevitabili conseguenze anche politiche. Michele Cotugno il 10 Gennaio 2021 su dabitonto.com.
Come già accennato nella puntata precedente di questa rubrica, negli anni ’70 si assistette non solo ad un generico aumento del numero dei reati, ma anche ad un’evoluzione della malavita organizzata. Sotto diversi aspetti. Le organizzazioni di stampo mafioso, infatti, si diffondono sempre più, anche in regioni molto lontane da quelle di origine, nel Nord Italia, grazie all’immigrazione e alle nuove povertà create dalla crisi economica dell’inizio di quel decennio, che aveva fornito nuove braccia ad una malavita in espansione. Che approfittò anche per buttarsi in nuovi business, come quello della droga, il cui uso aumentò a dismisura tra i giovani, favorito da alcune frange della contestazione sessantottina che, delle sostanze stupefacenti, fecero uso sin dagli anni ’60.
Una mafia che già in passato aveva mostrato di sapersi adattare ai mutamenti della società e dell’economia. Come successe negli anni ‘50, con la riforma agraria, lo smembramento della grande proprietà terriera e, contemporaneamente, la riduzione del peso economico dell’agricoltura a favore di altri settori economici, l’industrializzazione, l’aumento demografico nelle città, con il conseguente allargamento degli agglomerati urbani. La mafia si trasformò, diventando, da fenomeno prettamente legato all’agricoltura, una realtà presente anche nelle città, in settori economici in espansione, come quello dell’edilizia (fu in questo contesto che, in molte grandi città si consumarono grandi speculazioni edilizie che, in seguito, avrebbero anche contribuito a creare quartieri poveri, destinati a lavoratori, privi di servizi e, specialmente dopo la crisi economica, luoghi di miseria e degrado).
Sfruttando, inoltre, i flussi migratori e i flussi economici, le varie organizzazioni mafiose italiane si espansero anche in altre regioni. Si espansero al nord, favorendo il trasferimento dalle proprie zone di origine di alcuni loro membri e legandosi con il contesto criminale locale. Ad esempio, le indagini su alcuni casi di rapimenti, nella Lombardia degli anni ’70, sottolinearono un grado di penetrazione mafiosa nella regione tale da destare seria preoccupazione.
Sempre all’inizio degli anni ’70, i giornali denunciarono spesso la presenza della mafia, evidenziando, ad esempio, le intimidazioni ai danni di lavoratori meridionali del settore edilizio, o in quello delle operazioni di manutenzione e di pulizia. Lavoratori costretti a sottostare alle richieste, ai ricatti e ai metodi violenti di intermediari abusivi di manodopera (il fenomeno del caporalato, per spiegarci meglio), per poter lavorare.
La malavita operò, si arricchì e si infiltrò nelle regioni settentrionali, quindi, tramite sequestri di persona, l’intermediazione ricattatoria nell’assunzione della manodopera nelle aziende, gestione di locali notturni e mercati ortofrutticoli, traffico di droga. Quest’ultima attività illecita, trovò mercato fiorente e redditizio nelle grandi città settentrionali.
Ma la diffusione della malavita organizzata in nuove regioni non riguardò solamente il Settentrione. Ad essere oggetto della ramificazione delle associazioni mafiose, furono anche regioni meridionali che, fino a quel momento, non avevano una grande presenza di organizzazioni criminali strutturate come la camorra campana, la ‘ndrangheta calabrese o Cosa Nostra siciliana. Regioni come la Puglia, prima, e la Basilicata dopo. Non che, ovviamente non avessero una propria criminalità. Ma questa era per lo più formata da gruppi dediti a delinquenza comune.
Il “grande passo”, in Puglia, lo si ebbe tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, con l’arrivo della nuova camorra organizzata del boss campano Raffaele Cutolo, che volle estendere i propri traffici nella nostra regione per sfruttare la sua posizione geografica ideale, per la vicinanza all’Albania, per attività come il traffico di droga o il contrabbando di sigarette.
«Nata negli anni ’80 come filiazione della camorra, la criminalità organizzata pugliese ha, infatti, ereditato alcuni caratteri “arcaici” delle mafie – come i rituali e i codici di affiliazione – ma in un’ottica d’innovazione e autonomia, favorita anche dall’affermarsi dell’epoca delle politiche neoliberiste, dall’espansione dei mercati (e del corrispettivo allargarsi delle “zone grigie” tra il legale e l’illegale e, più in generale, dall’ideologia del profitto, che avrebbe mutato non solo i volti delle città,, ma i costumi dei cittadini» scrive don Luigi Ciotti alla prefazione del libro “Criminali di Puglia” di Nisio Palmieri.
E per estendersi, La camorra offrì la sua protezione ai gruppi criminali nostrani, fino a quando, a seguito delle vicende giudiziarie che portarono all’arresto di Cutolo, i clan pugliesi furono più liberi dal controllo della camorra. E così, dalle ceneri dell’impero di Cutolo, sorsero nuove organizzazioni di stampo mafioso come la Sacra Corona Unita, la mafia barese, quella garganica.
Organizzazioni nuove, che iniziarono a spartirsi le attività illecite sul territorio. Iniziarono ad uccidere. Iniziarono a scontrarsi tra loro in lunghe e sanguinose faide (che, piccola nota simpatica, in un discorso che simpatico non le è affatto, trovarono anche spazio nella comicità di Toti e Tata che, parodiando la storica serie Rai “La piovra”, portarono su Telenorba “Il Polpo”, storia di un’improbabile quanto divertente lotta tra clan della mala).
Le nuove organizzazioni mafiose pugliesi assorbirono le mentalità di tutte le organizzazioni mafiose delle altre regioni, come sottolineò il pentito Salvatore Annacondia in un’audizione tenutasi il 30 luglio 1993 e pubblicata nel volume “Salvatore Annacondia: storia della mafia del nord barese”: «La malavita pugliese è abbastanza pericolosa ed è molto più avanzata delle altre perché ha assorbito tutte le mentalità, sia della mafia siciliana, sia della ‘ndrangheta calabrese, sia, infine, della camorra campana. La Puglia era un campo aperto a tutti».
Proprio il capoluogo divenne uno dei più grandi mercati della droga, come spiegheremo nella prossima puntata, in cui ci soffermeremo sul fenomeno della diffusione del consumo di droga, sulle sue cause, sui suoi effetti e, soprattutto, sui suoi risvolti politici.
A queste dinamiche, purtroppo, non sfuggì neanche a Bitonto. Del resto, che le grandi organizzazioni mafiose avessero allungato i propri tentacoli anche sul nostro territorio lo si può dedurre anche dal tentativo, fortunatamente non andato in porto, di Totò Riina, di acquistare dei terreni e stabilirsi proprio qui in città. Il “Da Bitonto” raccontò questa storia già quattro anni fa, quando, partendo da alcuni fatti accaduti a Valenzano, nell’agosto 2016, sottolineò il rapporto che i mafiosi corleonesi ebbero con Bari e con Bitonto: «Tutto inizia nel 1969, quando Riina, Liggio e altri affiliati mafiosi sono sottoposti, dinanzi alla Corte d'Assise del capoluogo, a un processo con l'accusa di omicidi plurimi, macellazione clandestina e associazione mafiosa. I giudici, però – minacciati qualche giorno prima della sentenza da una lettera fatta recapitare proprio dal boss corleonese – assolvono gli imputati per insufficienza di prove. Riina e Liggio, restano in Puglia e si spostano di qualche chilometro, a Bitonto, dove, almeno inizialmente, alloggiano all'(ei fu) Hotel Nuovo. Nella città dell'olio, Totò u Curtu vorrebbe anche rimanerci, e chiede addirittura la residenza, sostenendo di aver trovato, nel frattempo, un lavoro come commesso dal suo legale di fiducia. Non è tutto, perché sempre in quei giorni, Riina era intenzionato anche ad acquistare un terreno agricolo, non lontano dalla Poligonale. Il 17 giugno 1969, però, i due boss ricevono due fogli di via obbligatori, emessi dal questore di Bari Girolamo Lacquaniti. I due mafiosi, considerati "socialmente pericolosi", ricevono il divieto di soggiornare a Bitonto e in Puglia per 3 anni. Il Capo dei Capi, allora, torna a Corleone, sua città natale».
Ma, al di là della mera cronaca, quel che qui ci interessa più sottolineare è che con il rafforzarsi delle mafie da un lato e la sempre crescente crisi del sistema politico dall’altro, aumentarono anche i casi di corruzione, dal momento che, in un sistema debole, fatto da partiti che sempre più perdevano centralità e potere di controllo, vedevano la propria membership ridursi in termini numerici e di rilevanza, diventavano liquidi e si affidavano a grandi attrattori di consensi locali, diventava più facile far valere, per le organizzazioni criminali, il proprio peso, far sentire la propria voce. E, dunque, dalla debolezza del sistema partitico che aumenterà il fenomeno della corruzione e non dalla sua forza, come sostenne una narrazione antipartitica che si impose successivamente, contribuendo enormemente alla crisi politica dei primi anni ‘90. E che il sistema partitico avesse iniziato a sgretolarsi lo si vedrà già verso la fine degli anni ’70, come spiegheremo più avanti.
Salvatore Annacondia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Salvatore Annacondia (Trani, 31 ottobre 1957) è un mafioso e collaboratore di giustizia italiano.
Vita criminale
Titolare di un noto ristorante di Trani, Salvatore Annacondia è stato a capo della più sanguinosa organizzazione criminale del nord barese che ha seminato paura e morte negli anni '80 e inizi del '90. Dal crollo della prima Repubblica, "Manamozz" (così era chiamato dato che aveva perso l'uso di una mano nella pesca a strascico) cominciò a collaborare con la giustizia ed a svelare i segreti della malavita barese e nazionale.
Negli anni '80-'90 è stato uno dei più importanti boss della malavita del nord barese, e ha operato principalmente nei comuni della Provincia di Barletta-Andria-Trani, tra cui Trani, Bisceglie e Barletta.
Non aderì alla Sacra corona unita di Giuseppe Rogoli, ma entrò nel gruppo mafioso di Cosa Nostra siciliana guidato da Nitto Santapaola, formando un presunto ramo mafioso in Puglia.
Secondo le investigazioni, Annacondia è stato uno degli esecutori dell'omicidio di Antonio Modeo, boss della Sacra corona unita, che sarebbe stato organizzato anche dai fratelli dello stesso Modeo. È stato processato a Bari nel 1990.
Nell'ottobre 1992 iniziò a collaborare con la giustizia perché intristito dal fatto che da quando suo figlio capì che era un criminale e avrebbe potuto morire come suo zio iniziò a deperirsi tale da dover andare in diverse cliniche per curarsi. È considerato uno dei primi collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della mafia pugliese: interrogato dal sostituto procuratore della DNA Alberto Maritati, ha reso dichiarazioni sugli attentati a Roma, Firenze e Milano del 1993, sull'incendio del Teatro Petruzzelli di Bari[10], sulle infiltrazioni della 'Ndrangheta in Lombardia e rivelò di aver corrotto il giudice Corrado Carnevale per avere una sentenza favorevole. Ha svelato inoltre l'organigramma dei clan pugliesi e le sue dichiarazioni sono sfociate nel maxi-processo denominato "Dolmen" con 115 imputati per traffico e spaccio di droga, traffico d'armi, omicidi ed estorsioni, che si concluse nel 2006 dopo otto anni di udienze con 31 condanne all'ergastolo.
A giugno 2018 durante il processo 'ndrangheta stragista in cui si sta accertando un presunto coinvolgimento della mafia calabrese nelle stragi di Cosa Nostra negli anni '90 depone affermando che: "La 'Ndrangheta calabrese è la mamma di tutti, abbracciava tutti i gruppi in Italia: Camorra, Cosa nostra e pugliesi. Non c'era gruppo che non avesse contatti con la Calabria". Parla poi della situazione criminale ai tempi a Milano: "A Milano tutti facevano capo alla famiglia De Stefano di Reggio Calabria facente capo a Tegano, non c’era foglia che si muoveva senza il consenso dei Tegano".
‘Mano Mozza’, genesi e sviluppo del clan Annacondia. Daniela Spera il 25 Maggio 2021 su iltaccoditalia.info.
A partire dalla metà degli anni ’80 ‘mano mozza’, capo di una sanguinosa organizzazione mafiosa, ha seminato terrore fino ai primi anni ’90. La Puglia era un territorio strategico per le cosche calabresi, siciliane e campane. A nord di Bari, c’era terreno fertile per fondare una nuova organizzazione di stampo mafioso. Due giovani giornaliste ci raccontano la mafia pugliese in quegli anni, nel libro ‘Mano Mozza’. A pochi giorni dall’anniversario della strage di Capaci, continuare a parlarne è un dovere.
Qualche giorno fa, il Comando provinciale della Guardia di Finanza di Taranto ha eseguito una misura di custodia cautelare del gip di Lecce per 13 indagati. L’accusa è illecito smaltimento di rifiuti e associazione per delinquere. L’operazione è nata da un sequestro nel torinese. L’indagine, detta All Black, ha riguardato 44 persone e una società della Campania di trattamento dei rifiuti. Vi sono confluite due inchieste, una del Noe di Torino e Lecce e una del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto. L’immondizia era destinata a essere bruciata o tombata nelle campagne. La scelta del Sud Italia, secondo gli inquirenti, è stata dettata dai legami che i capi di questa associazione per delinquere hanno con camorra e ‘ndrangheta.
Una doverosa premessa che ci fa ben comprendere quanto la mafia sia, ancora oggi, ben radicata nei territori. E quanto il Sud Italia sia territorio strategico. La mafia è ovunque. Nessun settore ne è esente. È una piaga che riguarda tutti noi, non solo i magistrati. Ma per contrastare questo mondo sotterraneo occorre conoscerlo. E qualcuno deve raccontarlo. È questo l’obiettivo delle autrici del libro, appena pubblicato, ‘Mano Mozza’, edito da Radici Future.
‘Mano Mozza’ è un titolo forte, d’impatto. È il soprannome di un boss di una cupola mafiosa, Salvatore Annacondia, ma racchiude un mondo che ruota intorno alla criminalità mafiosa pugliese. Racconta la genesi e lo sviluppo di una mafia in un territorio, la Puglia, strategico sia per le cosche calabresi sia per le mafie siciliane e campane.
Il libro è frutto di una collaborazione tutta al femminile. Due giornaliste ripercorrono le fitte trame di una parte della criminalità pugliese, raccontando le verità processuali e dando voce a chi, ancora oggi, combatte la mafia. Da Trani a Barletta, da Molfetta ad Andria.
Valentina Maria Drago è laureata in giurisprudenza, presso l’Università degli Studi di Trento. Ha conseguito un master in Comunicazione presso l’Università Milano –Bicocca e l’abilitazione come giornalista pubblicista. Oggi è una professionista della comunicazione. Lavora in un’agenzia PR e media relation.
Emma Barbaro è una giornalista freelance, autrice di numerose inchieste sul caporalato, agromafie e tratta degli esseri umani. Dal 2016 è caporedattrice del periodico indipendente ‘Terre di Frontiera’ e ha collaborato con La Repubblica di Bari. E’ nata e vive ad Avellino, in Campania. A lei abbiamo chiesto di parlarci di questo libro dal titolo evocativo.
Emma Barbaro
Da dove nasce l’ispirazione per questo libro e perché avete voluto raccontare una parte del mondo della mafia pugliese?
“Mano Mozza” nasce innanzitutto dall’esigenza di colmare un vuoto narrativo. Ho sempre pensato che una storia non esiste se nessuno la racconta. E che, a maggior ragione, non esistano “storie di provincia”. Io e Valentina Drago ci siamo accorte che alla narrazione sulle criminalità pugliesi mancava ancora un tassello fondamentale. E, con l’aiuto dei magistrati e delle istituzioni che quelle mafie le hanno combattute e continuano a combatterle a viso scoperto, abbiamo deciso di provare a colmare quel vuoto. Perché non puoi pensare di sconfiggere un virus purulento che ammala un Paese intero, non solo la Puglia, se prima non lo conosci. Non ci sono rimedi né vaccini se non sai contro chi o cosa combattere. Ecco, la speranza, nel nostro piccolo, e di aver contribuito a farlo.
Spesso anche le questioni ambientali sono al centro di affari malavitosi. In particolare, il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti. In passato hai curato inchieste legate all’eolico. Come si inserisce questo tema nel contesto della mafia?
Anni e anni di inchieste giornalistiche e di processi ci confermano che le questioni ambientali rappresentano un business irrinunciabile per le mafie. Che sull’ambiente, spesso, giocano una partita al ribasso: i traffici di rifiuti o, piuttosto, la corsa all’accaparramento delle nuove e vecchie forme di approvvigionamento energetico servono, nella loro ottica, a reinvestire capitali derivanti da altri tipi di traffici illeciti. E questo è un fatto storico ormai accertato.
Come si muove oggi la mafia?
I mafiosi di oggi raramente cercano lo scontro diretto e, soprattutto, raramente si mostrano per ciò che sono in realtà. La loro indubbia capacità è quella di mimetizzarsi adattandosi all’ambiente, inquinando le regole del mercato e la capacità di scelta, anche politica, del singolo. Per dirla con Nicola Gratteri, la loro sopravvivenza è regolata dalla legge darwiniana dell’evoluzione: per esistere e resistere, devono rendersi invisibili. I business ambientali, dato il contesto, spesso rappresentano una delle leve della loro invisibilità. Una delle più pericolose aggiungerei.
In quanto tempo e con quali mezzi documentali avete ricostruito i fatti?
Per ricostruire eventi, personalità e storie ci abbiamo impiegato oltre un anno e mezzo. Non era semplice. Innanzitutto dovevamo reperire e poi studiare tutti i faldoni dei processi a partire dalla metà degli anni Ottanta fino ai giorni nostri. Parliamo dunque sia di sentenze passate in giudicato, sia di processi ancora aperti. Poi, una volta acquisito tutto il materiale utile, abbiamo intervistato di volta in volta i magistrati e le istituzioni direttamente coinvolti. E anche questo ovviamente ci ha richiesto del tempo.
Chi vi ha dato il maggiore supporto?
In questo lavoro di ricostruzione minuziosa abbiamo ricevuto il supporto di due sostituti procuratori della DDA di Bari, dell’ex coordinatore della DDA di Bari Pasquale Drago, del Generale di Brigata Gerardo Iorio, che attualmente è il Comandante del Gruppo Carabinieri per la Tutela del Lavoro di Roma, del Dottor Francesco Mandoi, procuratore aggiunto della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e del Dottor Leonardo Rinella, che tra il 1989 e il 1993 fu Procuratore della Repubblica presso la Pretura Circondariale di Trani e, successivamente, venne applicato alla DDA di Bari. Insomma, è stato un lavoro lungo, duro e decisamente meticoloso che speriamo possa dare i suoi frutti. Specie in termini di consapevolezza.
Hai mai pensato che questo potesse essere un libro ‘scomodo’ per qualcuno?
Quando si sceglie di scrivere un libro sulle mafie e, soprattutto, su quanto le mafie abbiano inciso e continuino ad incidere su un territorio si parte dall’implicita accettazione del rischio. Che è la stessa accettazione del rischio che qualunque giornalista d’inchiesta sposa nel momento in cui affronta un tema scomodo.
Insomma bisogna parlarne, senza paura…
Se le criminalità si nutrono del silenzio e scelgono di mimetizzarsi nella cosiddetta società civile, ebbene è chiaro che nel momento stesso in cui le si costringe a venire allo scoperto si diviene indesiderabili. Ma non per questo ci si lascia intimidire.
Quale segno vorresti lasciare nei lettori?
Personalmente non ho la presunzione di lasciare il segno in qualcuno. Vorrei lasciar loro in eredità una storia, la nostra storia. Credo questa sia la vocazione più intima di un giornalista che, per come interpreto io questo mestiere, non scrive mai per sé ma sempre per qualcun altro.
Cosa rappresenta per te ‘Mano Mozza’?
Spero che sia una leva della consapevolezza diffusa. E spero possa essere un’arma per conoscere e combattere le mafie.
I segreti mai svelati del pentito Anacondia. A Trani l'ex abitazione. Viene intitolata oggi a Paolo Borsellino l’abitazione tranese dell’ex boss Salvatore Annacondia (in una foto segnaletica dell'epoca). Alla fine degli anni Novanta la «Gazzetta» lo incontrò in una località segreta. Ecco il racconto. GAETANO CAMPIONE e CARMELA FORMICOLA su lagazzettadelmezzogiorno.it il 13 Dicembre 2013
Viveva sotto falso nome ad Ancona quando lo incontrammo. Volevamo raccogliere i suoi segreti e farne un libro, «La verità del superpentito», o qualcosa del genere. Salvatore Annacondia. Tra gli anni Ottanta e i Novanta il suo nome faceva tremare, sì, anche dopo il suo pentimento, deciso nel 1991, dopo aver guardato negli occhi sua moglie Giusy durante un colloquio nel carcere di Foggia, che gli diceva: «Tuo figlio sta morendo per colpa tua...». Salvatore Annacondia, il boss di Trani. Ma parlare di Trani, come raggio d'azione della sua egemonia (e della sua ferocia) sarebbe senz’altro riduttivo.
Aveva stretto accordi con mafiosi e imprenditori con giudici e politici. Aveva affari molto grossi in ballo, trafficava in droga, puniva i nemici, aveva capitali investiti in mezzo mondo. Spietato. Intelligente. Occhi di ghiaccio. In una stanza di un albergo tranquillo, dove stabilimmo di incontrarci, davanti a un registratore acceso, si nascondeva il braccio destro con una giacca a quadri, il braccio della mano mancante. Strano vederlo così, un freddo assassino, quasi vergognarsi di quella menomazione fisica.
Ce lo raccontò subito, come aveva perso la mano. «A 16 anni lavoravo in una marmeria, ed ero anche bravo, ero un lavoratore. Un sabato la mano destra per poco non mi finisce sotto una sega. Mi spaventai da morire. La mattina dopo i miei amici mi dicono vieni andiamo a pesca. Che non era un semplice andiamo a pesca, perché andare a pesca significava pescare di frodo, con l'esplosivo... ma era anche un po' un gioco, una sfida di ragazzi. Insomma era una domenica bella di sole, inizio giugno. Ci buttiamo in acqua e... E dopo... Insomma, mi saltò la mano, con l'esplosivo. In un attimo. Terribile. È allora che sono cambiato, lo so».
La sua vita ce la raccontò per alcuni giorni, inquietante e violenta, grandiosa come certe saghe di mafia. Poche domande, le nostre, un fiume di parole, le sue. In quella stanza d'albergo, dopo alcune ore, si sciolse una certa freddezza tra noi: lui, il criminale sanguinario, noi i giornalisti sciacalli. «Mi piacete - ci disse a un certo punto - andiamo a pranzo». Pranzo sul mare, ristorantino placido. Menu di pesce, ovviamente.
Brandendo con la mano sinistra un grosso scampo e staccandogli la testa con un morso, cominciarono le sue memorie di assassino. Sono 72 gli omicidi che si è attribuito, in alcuni casi esecutore, molte più volte mandante. Le sue gesta di boia le ha sempre raccontate con una specie di gusto. Come quando uccise una donna tedesca, la compagna di un commerciante di droga. Erano lì, a casa sua, non avevano ancora pagato la «roba» e, quel che è peggio, non volevano pagarla. «Mi venne una rabbia...» Così spara prima contro di lui poi contro di lei. Era la prima volta che uccideva una donna. «Lei era alta, bella donna, aveva più o meno il tuo fisico, un po' più alta... quando raccogliemmo il cadavere sembrava all'improvviso dimezzata. Sembrava un fuscello, la morte le aveva tolto il peso, il volume».
Sempre a tavola ci raccontò dell'omicidio di un uomo il cui cognome era Gallo. Gli spara a bruciapelo e quello rotola per le scale, nella sua abitazione, a Trani (quella che oggi diventa a tutti gli effetti un simbolo dell’antimafia). «Stavamo finendo di pulire il sangue che arrivano i carabinieri per il solito controllino... Il maresciallo disse: che è successo? E io “Abbiamo ucciso una gallina"».
Salvatore Annacondia in quegli anni diventa famoso anche perché i suoi nemici o chi non pagava la droga o chi gli pestava i piedi in qualche modo, veniva ucciso «impilato» nei copertoni degli autotreni ai quali i suoi scagnozzi davano fuoco nelle cave abbandonate alla periferia di Trani. Le vittime venivano «impilate » ancora parzialmente in vita, magari dopo un pestaggio, e poi arse vive. Così fece uccidere anche una donna che andava a dire in giro che Giusy, ai tempi di Milano - dove Salvatore, che all’epoca saccheggiava i treni merci - la conobbe - «faceva la vita».
Giusy è una donna bellissima, almeno lo era quando l'abbiamo conosciuta, oltre 10 anni fa, ad Ancona. Magra e sinuosa, nonostante le quattro gravidanze, silenziosa, discreta, con gli occhi verdi in fondo ai quali avresti potuto cogliere un vaghissimo spavento.
Spavento per il mondo che si era lasciata alle spalle? O per quello che era nascosto nel futuro? Nelle fotografie del loro matrimonio - lei in un barocchissimo vestito bianco, lui in smoking - che Salvatore ci mostrò nella sua casa anconetana a pochi passi dal mare, lo sguardo di Giusy era ben più fiero. A casa passammo un intero pomeriggio, con i bambini che giocavano in giardino e lui che parlava di cose indefinite, non ultima la nostalgia per la Cattedrale di Trani. «L'ultima volta l'ho vista dall'elicottero, perché sono sceso in Puglia per una testimonianza. L'ho chiesto al pilota: puoi scendere un po’ di quota? Vorrei vedere la Cattedrale».
Puglia, arresto per usura: revocata identità di protezione al pentito Annacondia. Redazione di Borderline24 il 30 Settembre, 2021
Torna a presentarsi al mondo con il suo nome Salvatore Annacondia, ex boss del nord Barese che negli anni ’90 aveva scelto di collaborare con la giustizia e che, da allora, per circa un ventennio ha vissuto sotto un’altra identità.
Quest’ultima, infatti, sarebbe stata revocata a seguito di un arresto con l’accusa di usura e l’apertura di un fascicolo e di un processo che è tutt’ora in corso. La notizia è stata rivelata, nel corso di un’intervista rilasciata a Telenorba, dallo stesso pentito.
Salvatore Annacondia è stato condannato a 30 anni di reclusione per le sue condotte criminali risalenti ad un periodo precedente agli anni ’90. Successivamente, scegliendo di collaborare con la giustizia, ha permesso l’arresto e le condanne di decine di boss e di affiliati ai clan pugliesi.
Tolta l’identità segreta al pentito Annacondia, fu lui a svelare il nome della mafia foggiana. Su Rizzi disse: “È il Papa della città”. Francesco Pesante il 30 Settembre 2021 su immediato.net
Negli anni ’90 collaboratore di giustizia, è tornato a chiamarsi con il suo nome. La sua identità di protezione gli è stata infatti revocata. Importanti le sue rivelazioni in alcuni maxi processi.
L’ex boss del nord barese, Salvatore Annacondia detto “Manomozza”, divenuto negli anni ’90 collaboratore di giustizia e che per oltre una ventina di anni ha vissuto con una identità che gli è stata data in virtù della sua collaborazione, è tornato a chiamarsi con il suo nome. La sua identità di protezione gli è stata infatti revocata dopo un arresto per usura e il conseguente processo che è in corso. A rivelarlo – come riporta Ansa – è lo stesso pentito in una intervista ad Antonio Procacci nella trasmissione ‘Il Graffio’ che andrà in onda domani sera su Telenorba. Annacondia, condannato a centinaia di anni di reclusione (poi convertiti in 30 anni) nei maggiori processi alla criminalità organizzata pugliese, ha consentito con le sue rivelazioni l’arresto e le condanne di decine di affiliati e boss di clan pugliesi.
Il nome di Annacondia è legato a doppio filo con la storia della “Società Foggiana”. L’uomo, tranese, è tra i pentiti “forestieri” più noti nella storia della mafia locale. L’ex boss, soprannominato “Manomozza” per aver perso una mano quando era ragazzo a causa di un ordigno, fu a lungo detenuto nel carcere di Foggia. Negli anni ’90, proprio mentre si trovava nel penitenziario dauno, Annacondia decise di collaborare confessando decine di omicidi tra commessi e ordinati. Fu sentito persino nel processo sulla trattativa Stato-Mafia a Palermo.
“Manomozza” rivelò di essere tra gli autori materiali della triplice lupara bianca di San Giovanni Rotondo nel 1991, quando ebbe l’incarico di sequestrare un garganico coinvolto in una guerra di mafia tra Lombardia e Campania. Annacondia avrebbe dovuto sequestrarlo e consegnarlo alla ‘ndrangheta ma il piano fallì. Tre persono furono uccise e bruciate in una discarica di Trani. Il criminale tranese prese parte anche al processo “Panunzio” degli anni ’90, terminato con il riconoscimento giudiziario della mafia foggiana, e fu lui a spiegare che l’organizzazione malavitosa si chiamava “Società”. Giosuè Rizzi, storico boss foggiano, ucciso in via Napoli nel 2012, venne soprannominato “il Papa di Foggia” proprio da Annacondia. (In foto, da sinistra, Giosuè Rizzi e Salvatore Annacondia; sullo sfondo, il corpo di Rizzi)
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“In carcere avevo pistole, champagne e cocaina”. Le rivelazioni di Annacondia: “Capace di mangiare un cuore crudo”. Di Redazione su immediato.net il 3 Ottobre 2021
Il capomafia tranese negli anni ’80 e ’90 ha perso l’identità segreta e in un’intervista esclusiva a Telenorba si scaglia contro lo Stato: “Uffici deviati”. E sul caso De Benedictis: “Non mi meraviglia”.
“Sono capace di mangiare un cuore crudo e sparare da 40 metri colpendo il bersaglio. Lo Stato non sfidasse tanto le persone, pensasse a garantire la sicurezza. Tu non puoi istigare a farmi ritornare a quello che ero”. Sono le parole, molto forti, pronunciate dall’ex boss pentito Salvatore Annacondia, 64enne tranese detto “Manomozza”. Il capomafia incontrastato negli anni ’80 e ’90 è stato intervistato da Antonio Procacci a “Il Graffio”, trasmissione di Telenorba. Per oltre una ventina di anni, Annacondia ha vissuto con un’identità segreta ma ora è tornato a chiamarsi con il suo nome. La sua identità di protezione gli è stata infatti revocata dopo un arresto per usura e il conseguente processo che è in corso. Condannato a centinaia di anni di reclusione (poi convertiti in 30 anni) nei maggiori processi alla criminalità organizzata pugliese, “Manomozza” ha consentito con le sue rivelazioni l’arresto e le condanne di decine di affiliati e boss di clan pugliesi. Compresi i capi delle batterie di Foggia e provincia.
A Telenorba, l’ex pentito dichiara: “Oggi la mia paura non è la criminalità organizzata, ognuno risponde delle proprie azioni. Ma io ho paura dello Stato e delle forze dell’ordine al suo servizio. Parlo di uffici deviati dello Stato”.
Poi un commento sulla corruzione nel mondo giudiziario pugliese, travolto in questi mesi dal caso dell’ex gip De Benedictis, arrestato con l’accusa di aver agevolato la scarcerazione di presunti mafiosi. “Il caso De Benedictis? Non mi meraviglia niente”, dice Annacondia. L’ex pentito ha svelato di avere anche lui, in passato, manipolato alcune decisioni giudiziarie come un ordine di scarcerazione a suo favore ad inizio degli anni ’90 quando era in carcere a Foggia. Una scarcerazione impedita in extremis grazie all’intervento dell’integerrimo Pasquale Drago, già coordinatore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari.
“In carcere c’è la mamma della corruzione – le parole di Annacondia -. Oggi trovano i telefoni in cella? Io in carcere possedevo pistole, champagne e cocaina. E mangiavamo aragoste. Avevamo tutto. Era un albergo a 5 stelle. Si è più sicuri in carcere che da pentito”.
I collegamenti con Foggia
Il nome di Annacondia è legato a doppio filo con la storia della “Società Foggiana”. L’uomo, tranese, è tra i pentiti “forestieri” più noti nella storia della mafia locale. L’ex boss, soprannominato “Manomozza” per aver perso una mano quando era ragazzo a causa di un ordigno, fu a lungo detenuto nel carcere di Foggia. Negli anni ’90, proprio mentre si trovava nel penitenziario dauno, Annacondia decise di collaborare confessando decine di omicidi tra commessi e ordinati. Fu sentito persino nel processo sulla trattativa Stato-Mafia a Palermo.
Giosuè Rizzi e Annacondia; sullo sfondo, l’omicidio del “Papa”
“Manomozza” rivelò di essere tra gli autori materiali della triplice lupara bianca di San Giovanni Rotondo nel 1991, quando ebbe l’incarico di sequestrare un garganico coinvolto in una guerra di mafia tra Lombardia e Campania. Annacondia avrebbe dovuto sequestrarlo e consegnarlo alla ‘ndrangheta ma il piano fallì. Tre persono furono uccise e bruciate in una discarica di Trani. Il criminale tranese prese parte anche al processo “Panunzio” degli anni ’90, terminato con il riconoscimento giudiziario della mafia foggiana, e fu lui a spiegare che l’organizzazione malavitosa si chiamava “Società”. Giosuè Rizzi, storico boss foggiano, ucciso in via Napoli nel 2012, venne soprannominato “il Papa di Foggia” proprio da Annacondia.
Annacondia in tv: «Lo Stato mi ha tradito ed oggi sono un fantasma. Ho avuto Trani nelle mie mani, ma non ci tornerei». Di Nico Aurora il 2 Ottobre 2021 su ilgiornaleditrani.net.
«Ho avuto Trani nelle mie mani, ma non so se ci tornerò. Di certo, lo Stato mi deve prima restituire una identità, perché oggi sono un fantasma». Così Salvatore Annacondia, intervistato da Antonio Procacci nell’ambito della rubrica «Il graffio», di Telenorba, la trasmissione di Enzo Magistà che ha focalizzato l’attenzione sull’ex boss del nord barese divenuto collaboratore di giustizia, e per 30 anni sottoposto a protezione nell’ambito del patto stipulato con lo Stato in cambio delle sue dichiarazioni.
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Per tutto questo tempo ha vissuto nelle Marche con un altro nome e cognome e rifacendosi una vita grazie anche al fondo specificatamente destinato ai collaboratori di giustizia. Il suo ristorante in quel di Civitanova Marche è stato molto frequentato anche da personaggi di spicco del jet set e è sembrato voltare veramente pagina rispetto al suo passato.
Ciononostante, come in più di un’occasione il sito Cronache maceratesi ha posto in risalto, Annacondia è stato indagato in alcuni procedimenti penali avviati dalla Procura della Repubblica di quel luogo ed oggi e sotto processo per uno di quelli.
Tanto è bastato per fare decadere le tutele della protezione e farlo ritornare a tutti gli effetti Salvatore Annacondia, sebbene senza i documenti: «Sono un fantasma per colpa dello Stato», ha dichiarato al microfono e con la sola tutela dell’oscuramento del volto. Pochi, però, i peli sulla lingua soprattutto per richiamare la sua forte personalità criminale.
Eppure, da ragazzo, poco c’era mancato che Salvatore Annacondia sfondasse nel mondo del cinema: «Avevo 13 anni, lavoravo in un locale di Milano e incontrai casualmente Federico Fellini: mi voleva a Roma ma non ci andai perché il destino ha voluto che facessi altro».
Di quell’altro Annacondia non mostra pentimento, tanto da affermare che ancora oggi, se volesse, sarebbe in grado di sparare a 40 metri di distanza e centrare l’obiettivo.
Ciò che oggi ha determinato il suo nuovo ingresso in scena è quello che lui definisce un “tranello” dello Stato: «Ho aiutato in tutte le maniere la magistratura nelle sue indagini e cosa ho avuto in cambio? Ritrovarmi adesso ad essere un fantasma perché ci sono settori della pubblica amministrazione che non funzionano».
Annacondia dice di vivere alla giornata e non sapere scrutare il suo futuro, ma sul passato è lucido e spietato: «Ho commesso più crimini del diavolo, ma non ho mai fatto né usura, né estorsioni perché non mi è mai piaciuto succhiare il sangue delle persone. Certo, ho avuto in mano la vita delle persone ma ho anche fatto del bene a tanti e aiutato chi di dovere nel fare indagini che, diversamente non si sarebbero fatte: meritavo rispetto e lo Stato non deve sfidarmi a ritornare quello che ero».
Annacondia non nasconde di avere paura di ritorsioni, «perché una persona deve vivere nella paura se vuole vivere», ma forse è proprio per questo che dichiara di non volere tornare a Trani, anche se la tentazione sarebbe forte.
Su Trani, però, dipinge con incredibili lucidità, orgoglio e compiacenza, un passato in cui lui era «la» città in tutti i sensi: «Ho corrotto forze dell’ordine e magistrati, in carcere ho fatto entrare di tutto fra armi, droga, champagne e bische. Il carcere con me era un albergo a cinque stelle, anche se con le sbarre. E a chi dice che con me Trani era una città avvolta nel terrore rispondo che, invece, fui proprio io a trasformarla: feci trasferire i malfamati alla 167, aprii il mio ristorante e feci illuminare tutto il porto, subito dopo con l’Amet facemmo la stessa cosa nel centro storico. Con me a Trani c’era la tranquillità. Certo, ci furono anche gli omicidi, ma lontano dalla gente, perché fra la gente si stava sereni».
I delinquenti di oggi agiscono con il metodo mafioso evocando il suo nome, e Annacondia cosa risponde loro? «Scordatevi di me e trovatevi un lavoro onesto. Io ero quasi in ufficio di collocamento e ho aiutato tante persone, oggi aiutate voi stessi lavorando in tutta onestà.
Quanto al proposito di fare saltare la cattedrale, Annacondia chiude davvero col botto: «Avrei voluto lasciare un segno di me in quel modo, ma poi amavo così tanto la mia città che non solo ci rinunciai, ma l’ultima cosa che feci fa farla illuminare».
Fra gli ospiti della trasmissione il dottor Pasquale Drago, il magistrato che nel 1991 fece arrestare Annacondia prima che si imbarcasse per Cipro: «Quello che ha dichiarato davanti alle telecamere conferma la sua rilevante personalità, purtroppo criminale. Certamente, oggi qualcuno coverà vendetta nei suoi confronti e non posso non essere preoccupato per la fine del programma di protezione, perché questo potrebbe mettere in pericolo l’ordine pubblico».
L’avvocato penalista Michele Laforgia è parso Invece poco tenero nei confronti dell’ex boss: «Un grande seduttore, le cui dichiarazioni spesso sono state veritiere ma in altre occasioni del tutto infondate come nel caso dell’incendio del teatro Petruzzelli. Certamente non possiamo sentirci persino in debito con chi ha commesso almeno 50 omicidio e concorso in altri 200».
Il difensore di Annacondia, Gabriele Cofanelli, ha parlato invece di «scelta drastica e tecnicamente sbagliata dello Stato. Il processo in cui il mio assistito è imputato è ancora in corso e la privazione dell’identità è alquanto incomprensibile, soprattutto perché oggi Salvatore Annacondia svolge un lavoro onesto e vive una vita dignitosa».
Il sindaco Amedeo Bottaro, chiamato in causa dallo stesso Annacondia, risponde così: «Non sono stato certo io a ripulire la città dopo di lui, ma una magistratura cui dovremmo essere sempre grati. Spiace che ancora oggi questa persona parli utilizzando termini mafiosi, facendo comprendere di essere ancora in grado di scatenare l’inferno. Però prendo per buono quello che dichiara alla fine, quando si rivolge ai giovani invitandoli a non seguire il suo esempio: fa bene e speriamo che la stessa cosa valga anche per lui, rispetto al suo passato».
Salvatore Annacondia, lo Stato revoca al più importante boss pugliese la nuova identità dopo trenta anni. Stasera intervista tv". Noinotizie.it l'1 Ottobre 2021.
Matteo Messina Denaro in macchina, nel dicembre 2009, nella campagna dell’agrigentino. Lato passeggero. Pochi fotogrammi, da telecamere piazzate nei pressi di casa del boss Pietro Campo. Esclusiva tg2. In tema di mafia e criminalità organizzata, ecco in arrivo un’altra esclusiva. È di telenorba.
Di seguito il comunicato:
Salvatore Annacondia, a capo della più sanguinosa organizzazione criminale pugliese degli anni Ottanta e Novanta, è tornato. Trent’anni dopo il suo arresto e la lunga collaborazione con la giustizia, il boss del nord barese ha di nuovo il suo vecchio nome. A rivelarlo è lui stesso in un’intervista esclusiva rilasciata ad Antonio Procacci e che andrà in onda venerdì 1 ottobre, alle 21.20, al Graffio, il programma condotto dal direttore Enzo Magistà e in onda alle 21.20 su Telenorba e TgNorba24.
Lo Stato ha revocato l’identità con cui “manomozza” si era rifatto una vita, gettandosi alle spalle un curriculum che l’ha portato ai vertici della criminalità organizzata in Italia: 70 omicidi per sua mano, oltre 200 uomini e donne uccisi per sua volontà, narcotrafficante internazionale, vicino ai massimi esponenti della ‘ndrangheta. Clamorosa anche la sua collaborazione con lo Stato: migliaia di persone arrestate e condannate grazie alle sue dichiarazioni, testimone nei più importanti maxi processi italiani.
Nella prima puntata stagionale del Graffio, a cui interverranno il magistrato Pasquale Drago, già coordinatore della Ddi di Bari, il sindaco di Trani Amedeo Bottaro e l’avvocato penalista Michele Laforgia, sarà trasmessa la prima parte di un’intervista esclusiva ad Annacondia, che parla per la prima volta in tv. Si parlerà delle ultime vicende, quello che lui definisce il tradimento dello Stato ai danni dei pentiti, della sua famiglia, del rapporto con Trani, anche con una incredibile rivelazione. E poi ancora le mafie pugliesi, la corruzione di giudici e delle forze dell’ordine, gli omicidi, gli agguati clamorosi falliti, un autentico fiume in piena.
Salvatore Annacondia, il boss pugliese avrebbe dovuto ammazzare Totò Riina ma sbagliò macchina. INTERVISTATO DA "IL GRAFFIO" HA ANCHE RICOSTRUITO LO STERMINIO NELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DI TARANTO. Noinotizie.it il 9 Ottobre 2021.
Di seguito un comunicato diffuso da Telenorba:
“Totò Riina doveva morire, per mano mia, nel 1989. Fallimmo per uno sbaglio di macchina”. Lo ha raccontato Salvatore Annacondia, a capo della più sanguinosa organizzazione criminale pugliese degli anni Ottanta e Novanta, nell’intervista esclusiva rilasciata ad Antonio Procacci e andata in onda ieri sera al Graffio, il programma di approfondimento di Telenorba condotto dal direttore Enzo Magistà.
Manomozza, così era chiamato il boss di Trani, ha raccontato che a chiedergli di uccidere il capo di Cosa Nostra fu un pezzo grosso della ‘ndrangheta. Gli disse giorno e ora in cui Riina sarebbe transitato su una strada nei pressi di Como. “Ci appostammo, doveva passare di là alle 15.30”, ricorda Annacondia. “Mimmo Tegano mi disse che sarebbe passata una Twin Spark rossa e che cinque minuti dopo sarebbe passato Riina a bordo di un Mercedes 5.000. Quando passò la Twin Spark ci preparammo, ci mettemmo in mezzo alla strada. Vedemmo il Mercedes, ma all’ultimo momento ci accorgemmo che era un 200 E, a bordo c’era due anziani. Con la coda dell’occhio vidi il 5000 che girò e andò via. Il tempo di metterci in macchina e li perdemmo. Non avessi fallito i giudici Falcone e Borsellino e tanta altra gente sarebbe ancora in vita”.
Nella trasmissione di ieri è andata in onda la seconda parte dell’intervista (la prima andò in onda venerdì 1 ottobre). Annacondia ha parlato anche dell’omicidio di un ragazzo di Trani, tale Giovanni, l’unico che porta sulla coscienza degli oltre 200 omicidi di cui è stato incolpato. “Non meritava di morire, mi sono fidato di uno dei miei uomini, per la prima volta non ho ragionato”, ha detto, quasi commosso, Annacondia. “Vorrei che la famiglia mi perdonasse”. Nessun pentimento, invece, per tutti gli altri delitti. “Mai ucciso gente che non c’entrava”, ha sottolineato.
Manomozza ha parlato anche dei suoi rapporti con gli altri clan pugliesi: “Tonino Capriati nell’86 aveva delle quote con noi nel contrabbando di sigarette, Gianfranco e Claudio Modeo mi chiesero di sistemare la guerra a Taranto nell’88 e gliel’ho sistemata, tutti i vertici che contavano furono tutti ammazzati”.
Annacondia: «Stavo per uccidere Riina, avrei salvato Falcone e Borsellino». Bari, l’ex boss pentito parla in una intervista tv dell’attentato fallito. Romolo Rossi su Il Corriere del Mezzogiorno il 12 ottobre 2021.
Totò Riina il boss dei corleonesi, capo della mafia stragista degli anni ‘90, sarebbe dovuto morire per mano di un altro boss, Salvatore Annacondia numero uno della più potente organizzazione criminale pugliese degli anni ‘80 e ‘90, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. È stato lui stesso a raccontarlo nel corso di una intervista esclusiva rilasciata all’emittente pugliese Telenorba, nel programma Il Graffio. Annacondia, detto Manomozza, ha rivelato la circostanza inedita che sarebbe stato un capo ndrangheta a chiedergli di uccidere Salvatore Riina. L’attentato a Riina sarebbe stato quindi pianificato anche in base alle indicazioni della ‘Ndrangheta. Annacondia e soci sapevano il giorno in cui Riina sarebbe passato in auto su una strada nei pressi di Como. Il commando si appostò in attesa di una Mercedes 5000 con a bordo Riina, preceduta da una Twink Spasrk rossa. «Ci appostammo pronti a entrare in azione — spiega Annacondia — ma all’ultimo momento ci accorgemmo che la Mercedes non era quella giusta e a bordo c’erano due anziani, mentre l’auto di Riina», evidentemente messa sull’avviso dai movimenti sospetti, «girò e andò via. Se non avessimo fallito — continua Annacondia — i giudici Falcone e Borsellino e tante altre persone oggi sarebbero ancora vive».
Trani – L’accusa di Annacondia: “per lo Stato sono un fantasma”. "Volevo far saltare la Cattedrale". Antonella Loprieno su batmagazine.it il 2 ottobre 2021.
Annacondia, lo Stato sotto accusa.
E’ in sintesi il contenuto delle dichiarazioni di Salvatore Annacondia durante l’intervista rilasciata al giornalista Antonio Procacci durante la trasmissione “Il Graffio” di Telenorba condotta dal direttore Enzo Magistà.
Spazio a “manomozza”, Salvatore Annacondia , ex boss della malavita del nord barese per aver commesso almeno 50 omicidi e concorso in altri 200.
Nato e vissuto a Trani, è diventato poi collaboratore di giustizia. Per 30 anni ha vissuto sotto protezione dello Stato in cambio di nomi e fatti.
Stato che, a sentirlo, gli avrebbe tolto l’identità facendolo diventare un fantasma.
Attualmente abita nelle Marche dove ha vissuto con un altro nome e cognome. Gestisce un ristorante a Civitanova Marche. Anche qui le cronache si sono occupate di lui in quanto indagato ed ancora sotto processo per procedimenti penali della Procura della Repubblica marchigiana.
Procedimenti che hanno fatto decadere il regime di protezione facendolo tornare ad essere Salvatore Annacondia, ma senza identità perche non ha i documenti.
Pertanto, dice, resto un fantasma per colpa dello Stato. A Trani, non so se ci ritornerò, eppure ho avuto la città nelle mie mani”, ma poi aggiunge che “la tentazione è forte”.
Certo avrebbe potuto avere la città nelle sue mani diversamente, facendola conoscere nel mondo, ma “il destino, continua ancora, ha voluto che facessi altro.
Avevo 13 anni, lavoravo in un locale di Milano e incontrai casualmente Federico Fellini: mi voleva a Roma ma non ci andai, anche Maiorca quando venne a Trani mi avrebbe voluto alla sua scuola di Genova perche sott’acqua si accorse che avevo fiato da vendere”.
Non si pente di quanto ha fatto: “ho commesso più crimini del diavolo, ma non ho mai fatto né usura, né estorsioni perché non mi è mai piaciuto succhiare il sangue delle persone. Ho aiutato chi di dovere nel fare indagini che diversamente non si sarebbero fatte. Meritavo rispetto e invece cosa ho avuto in cambio? Ritrovarmi adesso ad essere un fantasma.
Non nasconde le sue malefatte a Trani: “ho corrotto forze dell’ordine e magistrati, in carcere ho fatto entrare di tutto fra armi, droga, champagne e bische. Il carcere con me era un albergo a cinque stelle, anche se con le sbarre.
Si vanta perfino di aver trasformato la città: ”feci trasferire i malfamati alla 167, aprii il mio ristorante e feci illuminare tutto il porto, subito dopo con l’Amet facemmo la stessa cosa nel centro storico. Con me a Trani c’era la tranquillità. Certo, ci furono anche gli omicidi, ma lontano dalla gente.
Conclude con una frase inquietante riferendosi al suo intento di far saltare la Cattedrale: “avrei voluto lasciare un segno di me in quel modo, ma poi amavo così tanto la mia città che non solo ci rinunciai, ma l’ultima cosa che feci è farla illuminare”.
Un plauso all’operato della magistratura è giunto dal sindaco di Trani, Amedeo Bottaro. Delle parole di Annacondia tiene per buone il monito lanciato ai giovani quando li ha invitati a non seguire il suo esempio. Bottaro si augura, infine, che la stessa cosa valga anche per lui, rispetto al suo passato.
Camera dei Deputati- Senato della Repubblica
XI Legislatura
COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLA MAFIA E SULLE ASSOCIAZIONI CRIMINALI SIMILARI
Seduta di venerdì 30 luglio 1993
Presidenza del Presidente Luciano Violante
Audizione del Collaboratore di Giustizia Salvatore Annacondia
La seduta comincia alle 10,20. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente) .
Audizione del collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia.
PRESIDENTE. Signor Annacondia, lei è davanti alla Commissione parlamentare antimafia che intende porle alcune domande sull'organizzazione criminale di cui lei ha fatto parte. Una prima serie di domande le sarà posta da me, mentre una seconda tornata direttamente dai commissari. Innanzitutto le chiediamo di dire come si chiama, quando è nato, che
scuole ha frequentato e che lavoro ha svolto; mi riferisco al lavoro lecito, se ne ha svolto uno.
SALVATORE ANNACONDIA. Mi chiamo Annacondia Salvatore, sono nato a Trani il 31 ottobre 1957. Titolo di studio è la terza media.
PRESIDENTE. Ha svolto qualche attività lavorativa?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì, commerciante.
PRESIDENTE. In che cosa?
SALVATORE ANNACONDIA. Di abbigliamento, di accessori vari, sanitari, ceramiche.
Le parti sostituite dalla parola OMISSIS sono state segretate con delibera della Commissione del 3 agosto 1993.
PRESIDENTE. Quando è entrato a far parte della criminalità organizzata pugliese?
SALVATORE ANNACONDIA. Sono entrato a far parte della vita tra il 1974 e il 1975.
PRESIDENTE. Quando ha detto che è nato?
SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1957.
PRESIDENTE. Quindi, a 17-18 anni?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì.
PRESIDENTE. In Puglia oppure in altri posti?
SALVATORE ANNACONDIA. Emigrai dalla Puglia a Milano.
PRESIDENTE. Andò dalla Puglia a Milano?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Nel 1976 ero già a Milano.
PRESIDENTE. E come entrò? Aveva già contatti con la criminalità quando andò a Milano?
SALVATORE ANNACONDIA. I contatti con la criminalità erano amici locali che si erano già trasferiti anni prima a Milano.
PRESIDENTE. Quindi, lei prese contatto con questi suoi amici a Milano?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì.
PRESIDENTE. Può spiegare come avvenne poi la sua lenta salita nel mondo criminale?
SALVATORE ANNACONDIA. I primi anni di vita nel mondo, nell'ambiente, si svolsero intorno al 1976 quando andai a Milano e conoscevo degli amici miei di Trani, che da molti anni erano già emigrati a Milano. I primi anni della mia vita si sono svolti su a Milano quando andavamo a rubare sui treni davanti ai semafori, nelle ferrovie.
PRESIDENTE. Può spiegare cosa vuol dire che rubavate sui treni?
SALVATORE ANNACONDIA. Aspettavamo davanti ai semafori. Quando passavano i treni merci e si fermavano al semaforo rosso noi tagliavamo il blindo, aprivamo e scaricavamo la merce che stava. Questo fatto durò per un annetto, alcuni anni; e la testa iniziava a capire di più, perché vivendo al nord non è come vivere al sud, si imparano tante cose.
Questo per dirle che la vita che si può svolgere su al nord, a Milano, non si poteva svolgere al sud. Si inizia a conoscere il fior della vita, conoscendo locali notturni; iniziando a frequentare altri ambienti si insegnano tante cose. Perché quello che noi non avevamo al sud l'abbiamo capito su al nord, abbiamo intrapreso la loro mentalità, diciamo dell'ambiente vero della malavita. Questo abbiamo portato al sud poi.
PRESIDENTE. Quindi, a Milano lei è entrato in contatto con una mentalità criminale più organizzata, più dinamica. Questo vuol dire?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché i piccoli ladruncoli che eravamo al paese, vivendo su al nord, abbiamo potuto capire cos'era stare sul marciapiede.
PRESIDENTE. Cosa intende per "stare sul marciapiede"?
SALVATORE ANNACONDIA. Stare sul marciapiede sarebbe la strada.
PRESIDENTE. A Milano è entrato in contatto con qualche criminale o con qualche organizzazione criminale particolarmente importante?
SALVATORE ANNACONDIA. In quegli anni iniziammo a conoscere qualcuno, poi me ne tornai giù al paese dove, nel 1978, fui arrestato per la prima volta. Uscii dal carcere con gli obblighi della sorveglianza. La mia vita è iniziata nel 1981, 1980-1981, quando ci inserimmo proprio in un altro ambiente, facemmo il primo salto di qualità. Si fondò a Trani una cooperativa per ex detenuti ed iniziammo, tramite un'altra persona - di cui non posso fare il nome perché coperto da segreto istruttorio per le indagini in corso - ad avere prime esperienze, come appalti...
PRESIDENTE. Andiamo con ordine. Lei stava a Milano ed io prima le ho chiesto se era entrato in contatto con qualche organizzazione criminale o con qualche criminale importante.
SALVATORE ANNACONDIA. Guardi, signor presidente, all'epoca - come le ho detto - eravamo giovani, conoscevamo tanta gente ma noi avevamo la testa a modo nostro. Cercavamo di opzionare proprio le loro idee e di questo noi abbiamo portato tutto giù.
PRESIDENTE. Ho capito, però può rispondere con precisione alla domanda? Lei ha conosciuto a Milano una organizzazione criminale particolare o dei criminali importanti particolari?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì.
PRESIDENTE. Chi sono?
SALVATORE ANNACONDIA. Questi li ho conosciuti negli anni successivi.
PRESIDENTE. Ho capito, dopo.
SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché in quegli anni si conoscevano tante persone, ma eravamo dei giovanotti. Potevamo solo servire.
PRESIDENTE. Adesso ho capito. Poi lei è tornato giù.
SALVATORE ANNACONDIA. Sì.
PRESIDENTE. Giù è stato arrestato. Per che cosa?
SALVATORE ANNACONDIA. La prima volta fui arrestato per furto.
PRESIDENTE. Poi uscì e si inserì in questa cooperativa di ex detenuti.
SALVATORE ANNACONDIA. La costituimmo proprio questa cooperativa per ex detenuti.
PRESIDENTE. Che attività lavorativa svolgeva questa cooperativa?
SALVATORE ANNACONDIA. Si occupava di parcheggi, pulizie in pretura, una serie di tipi di appalti. Nel 1981 ci fu un' escalation particolare ed iniziammo a prendere il controllo del territorio.
PRESIDENTE. Quando parla di "territorio", a quale zona si riferisce?
SALVATORE ANNACONDIA. Iniziammo con Trani. Poi, pian piano, cominciammo ad avere altre conoscenze, altre persone...
PRESIDENTE. Perché parla del 1981? Cosa segna questa data?
SALVATORE ANNACONDIA. Il 1981 è l'anno in cui per la prima volta facemmo un tentato omicidio. La situazione è andata avanti per tutto il 1981 ed il 1982 ed il nostro capo non dico che fu decimato, ma si allontanò per paura delle nostre menti: oramai, lo avevamo superato.
PRESIDENTE. All'epoca, chi era il vostro capo?
SALVATORE ANNACONDIA. Chiamiamolo capo... Era un tale Nicola Delisanti, un grosso cervellone nell'imprenditoria. Poi è accaduto che nel 1983 fui arrestato per omicidio, tentato omicidio e porto abusivo di armi. Questo ha segnato la mia scalata ai vertici.
PRESIDENTE. Ciò perché si trattò di un delitto importante?
SALVATORE ANNACONDIA. Era un delitto importante, molto importante, perché questo ragazzo aveva una fama...
PRESIDENTE. Si riferisce alla persona che fu uccisa?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Aveva una fama di grande picchiatore. Dopo questo omicidio, ampliai le mie amicizie nelle carceri, all'epoca in cui si è cominciata a costituire la vera malavita in Puglia, negli anni ottanta, nel 1983...
PRESIDENTE. Quindi, la vera malavita in Puglia si costituisce nei primi anni ottanta.
SALVATORE ANNACONDIA. Sì.
PRESIDENTE. Può spiegare le caratteristiche della criminalità pugliese?
SALVATORE ANNACONDIA. La malavita pugliese è abbastanza pericolosa ed è molto più avanzata delle altre perché ha assorbito tutte le mentalità, sia della mafia siciliana sia della 'ndrangheta calabrese sia, infine, della camorra campana. La Puglia era un campo aperto a tutti. In tutti gli anni di frequentazione con queste persone abbiamo assorbito la loro mentalità e si è iniziata a costituire la Sacra corona unita.
PRESIDENTE. Lei ne ha fatto parte?
SALVATORE ANNACONDIA. Non ho fatto parte della Sacra corona unita perché noi eravamo in un altro territorio e non abbiamo aderito...
PRESIDENTE. In quale parte della Puglia si muoveva la Sacra corona unita?
SALVATORE ANNACONDIA. La Sacra corona è stata fondata a Lecce.
PRESIDENTE. Voi, invece, eravate a Trani.
SALVATORE ANNACONDIA. Sì, eravamo nel nord-barese.
PRESIDENTE. Quando lei parla di "noi", a chi si riferisce?
SALVATORE ANNACONDIA. Quando parlo di "noi", mi riferisco a me ed al mio gruppo.
PRESIDENTE. Ho capito. Quindi, voi non aderiste alla Sacra corona unita.
SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1984 non aderimmo alla Sacra corona unita perché bisognava vedere un po' le caratteristiche di questa associazione, di questa fondazione. La Sacra corona unita si costituì a livello regionale. All'epoca, nei primi anni, non era altro che una famiglia, anche se abbastanza ampia. Nel 1986 iniziarono le rotture nella Sacra corona unita, che allargò il suo territorio anche su tutto Brindisi, paese nativo di Pino Rogoli.
PRESIDENTE. Rogoli era del brindisino, di Mesagne.
SALVATORE ANNACONDIA. Sì, di Mesagne. Ci fu una grossa rottura. Fu trovato un documento di Pino Rogoli a Porto Azzurro nel quale egli dichiarava di aver fondato questa famiglia per contrastare i napoletani. In realtà, si iniziò per il contrasto tra queste famiglie...
PRESIDENTE. In realtà...?
SALVATORE ANNACONDIA. Si fondò la Sacra corona unita, che fu data dalla Calabria, dalla 'ndrangheta, per le idee di Pino Rogoli che voleva contrastare i napoletani; in realtà, non era per contrastare i napoletani, ma per fondare una nuova generazione. Ciò significava avere la santizzazione di questa famiglia.
PRESIDENTE. Cosa vuol dire "santizzazione"?
SALVATORE ANNACONDIA. Per dare il nome "Sacra corona unita" significa che all'epoca in Puglia non vi erano capintesta. Noi l'abbiamo ottenuta... L'hanno ottenuta attraverso la Calabria perché il padre della Sacra corona unita era Umberto Bellocco, grande 'ndranghetista, uno dei capi decimi della 'ndrangheta.
PRESIDENTE. Cosa fece questo Bellocco?
SALVATORE ANNACONDIA. Dette le regole della Sacra corona unita.
PRESIDENTE. Può spiegarci meglio questo aspetto? Se non abbiamo capito male, la santizzazione si ha quando un'organizzazione più importante ne legittima un'altra.
SALVATORE ANNACONDIA. Sì, quando legittima un'altra organizzazione. Ci vogliono almeno dieci persone che siano capi, che abbiano il capo decima, ossia un sestino.
PRESIDENTE. Chi è il sestino?
SALVATORE ANNACONDIA. E' il massimo del grado. Il settimo grado è il massimo. Per dare un grado del genere come capo decima, ci vogliono dieci famiglie che si debbono riunire.
PRESIDENTE. Ho capito.
SALVATORE ANNACONDIA. Queste dieci famiglie a quell'epoca non c'erano in Puglia. Quindi, tutto è stato dato dalla Calabria. Adesso in Puglia si può formare un capo decima.
PRESIDENTE. Lei ha detto che all'epoca non vi erano in Puglia le dieci famiglie che avrebbero potuto creare questa struttura, per cui Bellocco, dalla Calabria, autorizzò...
SALVATORE ANNACONDIA. Sì, lui ha dato tutte le regole alla Sacra corona unita.
PRESIDENTE. Quali sono le regole ed i gradi della Sacra corona unita?
SALVATORE ANNACONDIA. Il primo grado è il picciotto; dopo il picciotto, viene il camorrista; dopo il camorrista, lo sgarrista; dopo lo sgarrista, vengono il santista, il vangelo e poi il sestino. Dopo il sestino, viene il capo mandamentale, il settimo grado. Dal primo al secondo grado si è picciotti o camorristi. Lo sgarrista ha una piccola zona, che può innalzare sotto la sua responsabilità. Il santista è un capo zona, un capofamiglia. Di seguito viene il vangelo, come il crimine, tutte cose che rappresentano un gruppo...
PRESIDENTE. Il vangelo è un gruppo grande?
SALVATORE ANNACONDIA. E' un capo zona, è un capo famiglia, più alto del santista.
PRESIDENTE. Dopo il vangelo viene il sestino?
SALVATORE ANNACONDIA. Sì.
PRESIDENTE. E poi?
SALVATORE ANNACONDIA. Poi viene il capo mandamentale.
PRESIDENTE. Da quanto tempo esistono questi gradi?
SALVATORE ANNACONDIA. Sono centinaia d'anni che esistono queste cose.
PRESIDENTE. Si riferisce alla Calabria?
SALVATORE ANNACONDIA. Tutto questo è stato fondato molti anni fa, centinaia di anni fa.
PRESIDENTE. Questi gradi li avete acquisiti dalla Calabria, dalla 'ndrangheta?
SALVATORE ANNACONDIA. La Sacra corona unita è stata fondata dalla Calabria.
PRESIDENTE. Lei ha d