Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA MAFIOSITA’

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia della mafia.

L'alfabeto delle mafie.

La Gogna.

Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

In cerca di “Iddu”.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

E’ Stato la Mafia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa Nostra - Altare Maggiore.

La Stidda.

La ‘Ndrangheta.

La Mafia Lucana.

La Sacra Corona Unita.

La Mafia Foggiana.

Il Polpo: Salvatore Annacondia.

La Mafia Lucana.

La Camorra.

La Mafia Romana.

La Mafia abruzzese.

La Mafia Emiliano-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Milanese.

La Mafia Albanese.

La Mafia Russa-Ucraina.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Cinese.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Antimafiosi.

Non era Mafia.

Il Caso Cavallari.

Il Caso Contrada.

Il Caso Lombardo.

Il Caso Matacena.

Il Caso Roberto Rosso.

I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

 

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

I tifosi.

Femmine ribelli.

Il Tesoro di Riina.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caporalato.

Il Caporalato Agricolo.

Gli schiavi dei Parlamentari.

Gli schiavi del tessile.

Dagli ai Magistrati Onorari!

Il Caporalato dei giornalisti.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Usuropoli.

Aste Truccate.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Nimby lobbisti.

La Lobby.

La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby dei Giornalisti.

La Lobby dell’Editoria.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Fuga dall’avvocatura.

La Lobby dei Tassisti.

La Lobby dei Farmacisti.

La lobby dei cacciatori.

La Lobby dei balneari.

Le furbate delle Assicurazioni.

 

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massoneria Occulta.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Sanità: pizzo di Stato.

Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Spettacolo mafioso.

La Mafia Green.

Le Curve degli Stadi.

L’Occupazione delle case.

Il Contrabbando.

La Cupola.

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Cosa Nostra - Altare Maggiore.

Cosa nostra cambia nome. Ora i boss la chiamano "l'altare maggiore". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 15 agosto 2021. L'espressione è emersa in un'intercettazione dei carabinieri fra due padrini arrestati a Torretta. Da almeno vent’anni, è un chiodo fisso per i padrini. «Bisogna cambiare tutti i nomi – disse un giorno Bernardo Provenzano - Non parliamo più di picciotti, né tanto meno di uomini d’onore, di famiglie o mandamenti, mai più nominiamo la Cupola». Adesso, sembra che il nome più importante i boss l’abbiano trovato. Un nome nuovo per Cosa nostra: “L’altare maggiore”. Così due mafiosi di Torretta chiamavano l’organizzazione discutendo di un’estorsione, e non sospettavano di essere intercettati dai carabinieri del nucleo Investigativo di Palermo su ordine della procura. I mafiosi continuano a mettere insieme sacro e profano. Un’altra fissazione, nonostante la scomunica ribadita da Papa Francesco. “L’altare maggiore”, dunque. E non è solo una questione di immagine per i boss. Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra dopo le stragi del 1992, aveva addirittura nominato una commissione di studio per aggiornare il dizionario mafioso: «Cambiare nomi doveva servire ad evitare altri guai con le intercettazioni», ha spiegato il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, il capomafia di Caccamo con un passato da professore di educazione tecnica e una reputazione criminale di grande saggio, lui era stato incaricato di presiedere la commissione per le riforme mafiose. Ora, i boss di Torretta, in stretto contatto con i Gambino di New York, hanno trovato un nome suggestivo. “L’altare maggiore”. Pensavano così di scansare il Grande fratello dell’antimafia che negli ultimi anni ha fermato più volte la riorganizzazione di Cosa nostra, smascherando movimenti e tracce. Un’altra intercettazione, il 29 maggio 2018, ha svelato una riunione della commissione provinciale di Palermo, la prima dopo l’arresto di Totò Riina, avvenuto nel gennaio 1993. Quella volta, il capomafia di Villabate Francesco Colletti parlava al suo autista di “rappresentanti” che si erano riuniti per un incontro solenne. Provenzano aveva visto lontano, le intercettazioni restano uno strumento straordinario per entrare nei segreti delle mafie. Camuffamenti di parole a parte, l’espressione “altare maggiore” solleva anche un altro fronte di riflessioni. I padrini insistono per avere una religione tutta propria. Leggete cosa diceva qualche mese fa un altro mafioso a proposito del parroco di Brancaccio ucciso per ordine di Cosa nostra nel 1993: «Padre Puglisi santo… ma santo di che? — così commentava un boss di Pagliarelli, anche lui sicuro di non essere intercettato — Ha fatto miracoli? Una volta ti facevano santo quando facevi i miracoli, questo miracoli non ne ha fatti». Lo stesso odio di Giuseppe Graviano, il padrino di Brancaccio che decretò la morte del sacerdote: «Mi hanno raccontato che era un uomo litigioso — diceva al compagno dell’ora — mi hanno raccontato che aveva problemi con tutti, che insultava le persone, che diceva parolacce e che durante le omelie accusava e offendeva». I boss vogliono riprendersi l’altare maggiore, sognano i preti accondiscendenti di un tempo e le confraternite complici degli inchini. Incuranti delle scomuniche, che presto saranno anche scritte nei documenti della Chiesa, a questo sta lavorando la commissione speciale voluta dal Papa, ne fanno parte don Luigi Ciotti e l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. In quella espressione che i due mafiosi di Torretta si ripetevano, sicuri di non essere scoperti, c’è tutto il drammatico piano di riorganizzazione di Cosa nostra, che non sembra per nulla fiaccata da arresti e processi. “L’altare maggiore” non è quello dei Corleonesi fedeli a Totò Riina e Bernardo Provenzano; adesso nei primi banchi si sono seduti i “perdenti” di un tempo, ritornati dagli Stati Uniti dopo un lungo esilio. Mafiosi che hanno un rito diverso, hanno soprattutto santi diversi sull’altare maggiore.

Maurizio Acerbi per “il Giornale” il 2 marzo 2022.

Era il 1972 e Nixon era appena volato in Cina per mettere le basi al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra le due potenze. In Italia, eravamo alle prese con il processo per la strage di Piazza Fontana. In questa collocazione temporale, esce, in America, un film che avrebbe rivoluzionato non solo un genere cinematografico, quello gangster, ma la stessa storia del grande schermo. 

Eppure, Il Padrino, che compie 50 anni, ha avuto una genesi travagliata. A partire dalla scelta, alla regia, di un giovane Francis Ford Coppola, ingaggiato dalla Paramount perché costava poco e perché italo-americano, in modo che si potesse «sentire il gusto degli spaghetti», come affermò Robert Evans, capo della Major. A dire il vero, il primo nome fu quello di Sergio Leone che declinò cortesemente essendo alle prese con C'era una volta in America. E, prima di Coppola, bussarono alla porta di Elia Kazan, Arthur Penn e Costa Gavras, ma tutti si rifiutarono di trasporre il romanzo di Mario Puzo.

Tra l'altro, complimenti a Peter Bart, vicepresidente Paramount che, nel 1967, capì, dopo aver letto 60 pagine del manoscritto, che sarebbe potuto diventare un grande film. Così, andò da Puzo con in mano due offerte: una da 12mila dollari per finire il lavoro e l'altra, 80mila, per trasporlo. Puzo, pieno di debiti di gioco, accettò. Come produttore esecutivo venne scelto Albert S. Ruddy, quello che aveva gestito la saga di Bond. 

Mal gliene incolse, perché iniziarono i guai, con tanto di auto crivellata di colpi. Joseph Colombo, che era il boss della famiglia Colombo, una delle cinque di Cosa Nostra che controllavano le attività criminali a New York, fece di tutto per boicottare il film, fino a quando siglò un patto con Ruddy secondo il quale nella pellicola non doveva mai essere pronunciata la parola «mafia».

Come avvenne. Anche Sinatra si mise di traverso, organizzando, senza grande successo, una raccolta di fondi contro Il Padrino. Non gli era andato giù il personaggio di Johnny Fontane, a lui ispirato, come ebbe anche a dire a Mario Puzo, assalendolo in un ristorante. Non fu meno travagliata la scelta del cast. Coppola arrivò a un passo dal licenziamento perché volle tenere duro.

Per il ruolo di Vito Corleone, la Paramount voleva ingaggiare uno tra Ernest Borgnine, Edward G. Robinson, Orson Welles, George C. Scott o Gian Maria Volonté. Coppola, invece, scelse Marlon Brando che, però, era malvisto a Hollywood. Così, Francis si presentò a casa Brando facendogli firmare una lettera con la quale si impegnava a risarcire la Paramount, in caso di atteggiamenti dannosi. Bastò poi il suo provino con il cotone in bocca per convincere della bontà della scelta.

Non fu facile nemmeno la firma per Al Pacino, allora semisconosciuto, nel ruolo di Michael Corleone. La Paramount voleva Jack Nicholson, Dustin Hoffman o Robert Redford, ma Coppola non li riteneva, per la loro fisionomia, adatti al ruolo. Pacino, però, non lo aiutò. Al, infatti, era reduce da un provino pessimo: «Non avevo studiato la parte, sapevo che lo Studio non mi voleva e all'epoca non mi impegnavo per un ruolo per cui già sapevo che non sarei stato preso».

Infatti, sia lui, sia Coppola, stavano per essere licenziati quando girarono la scena dell'assassinio di Sollozzo e McClusky, perfetta, che cambiò non solo il loro, ma anche il destino del capolavoro. Il film, capace di riscrivere un genere, dove, di solito, si assisteva alla nascita e caduta del gangster di turno, offrì anche un'interessante rilettura del concetto di famiglia e della figura del padre.

 Vinse tre Oscar, anche qui, non senza polemiche. Infatti, oltre a quella per Miglior film e Miglior sceneggiatura non originale, ci fu la statuetta a Marlon Brando come Miglior attore. Il quale non si presentò alla premiazione per protestare contro i maltrattamenti ai nativi d'America. Anche Al Pacino boicottò la serata in quanto, essendo più presente in scena di Brando, rivendicò il fatto che dovesse essere lui a ottenere la candidatura come miglior attore. Invece, finì nella cinquina di Attore non protagonista, dove venne battuto dal Joel Grey di Cabaret.

E che dire di Nino Rota, dato per vincitore sicuro, ma che venne penalizzato perché un anonimo lo denunciò, all'Academy, contestandogli che uno dei temi era già stato da lui utilizzato nel film Fortunella di De Filippo? Vinse con Il Padrino - parte II. Tante polemiche che non impedirono al film di incassare, nel mondo, fino ad oggi, 1.144.234.000 di dollari. Intanto, dal 28 febbraio al 2 marzo, lo potremo rivedere nelle sale nella sua versione completamente restaurata. Sarà offerto un film nella sua miglior risoluzione possibile, correggendo il colore, riparando macchie di pellicola, strappi e altre anomalie nei negativi.

Il Padrino ha 50 anni: se Brando non avesse impedito il licenziamento di Coppola… Il 15 marzo 1972 è una data storica per il cinema; restaurata tutta la saga: “The Godfather”, 1972; “The Godfather part II”, 1974; “The Godfather part III”, 1990. Sciascianamente di Valter Vecellio La Voce di New York il 23 gennaio 2022.

Se…

Se quel giorno uno scrittore con il cronico vizio del gioco d’azzardo, e per questo pieno di debiti, avesse accettato il consiglio del suo agente, e rifiutato l’offerta di circa 12mila dollari e venduto i diritti della sua storia.

Se all’interno della Paramount che acquista i diritti, avesse prevalso chi invitava a non farne nulla, perché scottati dallo scarso successo ottenuto da The Brotherhood (La fratellanza) uscito nel 1968, e malgrado un cast più che rispettabile (regia di un veterano di Hollywood, Martin Ritt; interpreti: Kirk Douglas, Alex Cord, Irene Papas). 

Se Joseph Colombo, boss dell’omonima famiglia mafiosa, non avesse accettato la proposta di Albert S. Ruddy, produttore esecutivo (la parola “mafia” non sarebbe mai stata pronunciata) e avesse continuato ad alimentare la campagna per boicottare il film, “colpevole” di denigrare la comunità italo-americana, magari accompagnandola a qualche proposta che non si può rifiutare (sulla falsariga del “I’m going to make him an offer he can’t refuse”).

Se avessero detto “Sì”, Sergio Leone, o Peter Bogdanovjch, Elia Kazan, Arthur Penn, Costa Gavras, Sam Peckinpah, tutti grandi registi, maestri, ma ognuno con una sua personalità, un suo timbro e un “sentire” peculiare.

Se la scelta, invece che su Marlon Brando, fosse caduta su Ernest Borgnine, Edward G. Robinson, Orson Welles, George C. Scott, Gian Maria Volonté; se fosse stato preso in considerazione Burt Lancaster, che quel ruolo avrebbe voluto interpretarlo; se Laurence Olivier non fosse stato troppo vecchio e malato per recitare…

Se Francis Ford Coppola non fosse riuscito a convincere i capi della Paramount, Robert Evans, per primo, che Brando “era l’unico che poteva interpretare il padrino”; se avessero tenuto duro, contrari all’ingaggio dell’attore, visti gli insuccessi degli ultimi tempi; se Brando non avesse accettato le condizioni poste dalla produzione: risarcire qualsiasi suo atteggiamento dannoso.

Se Brando non avesse deciso di dare al suo personaggio una faccia da bulldog, recitando con del cotone in bocca per appesantire le guance e apparire più anziano.

Se la scelta, invece che su Al Pacino, fosse caduta su Jack Nicholson, o Dustin Hoffman, Robert Redford, Ryan O’Neal…

Se Brando non si fosse intromesso minacciando di abbandonare il set, nel caso la Paramount avesse licenziato Coppola, come intendeva fare; se invece di Gianni Russo, per il ruolo di Carlo Rizzi fosse stato scelto l’allora sconosciuto Sylvester Stallone; o Mia Farrow per quello di Kay Adams, invece di Diane Keaton; se invece di Robert Duvall, per il ruolo di Tom Hagen fossero stati scelti Bruce Dern, o Paul Newman o Steve McQueen; se per il ruolo di Apollonia avesse mostrato interesse Stefania Sandrelli, invece di lasciare il posto a Simonetta Stefanelli…

Mille altri “se” si possono fare; se tali non fossero, chissà se si sarebbe qui a parlarne, e come…

Il 15 marzo 1972 è una data storica per il cinema, per chi lo ama, per chi lo fa. Quel giorno la Paramount Pictures organizza la première mondiale, a New York, di The Godfather: Il padrino. I profitti sono donati ai “The Boys Club”. Il film ha già fatturato 15 milioni di dollari in oltre 400 teatri. Alla prima partecipano Mario Puzo, lo scrittore autore della saga; il produttore Ruddy; il gran patron della Paramount Evans; il regista del film Coppola; con loro Al Pacino, James Caan, Diane Keaton… Mancano Brando (impegnato in Europa con Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci); e Duvall: non perdona il taglio di molte scene dove lui compare.

Il film è un trionfo. Incassa centinaia di milioni di dollari (negli Stati Uniti tra i 246 e i 287), viene premiato con tre premi Oscar, su dieci nomination: miglior film (al produttore Ruddy); migliore attore protagonista (Brando, che non si presenta in segno di protesta per le ingiustizie subite dalle minoranze, e in particolare i nativi americani: la statuetta è ritirata da Sacheen Littlefeather, di origine Apache); miglior sceneggiatura non originale (a Coppola e Puzo). Nel 1988 l’American Film Institute inserisce Il padrino al terzo posto della classifica dei cento migliori film statunitensi di tutti i tempi; al secondo posto nella classifica dell’Internet Movie Database; la rivista Empire lo proclama “film più bello di tutti i tempi”, al primo posto in un elenco di cinquecento.

A cinquant’anni da quel debutto, tutta la saga (The Godfather, 1972; The Godfather part II, 1974; The Godfather part III, 1990) viene restaurata con la supervisione dello stesso Coppola. Il primo film sarà nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti dal 25 febbraio (in Italia dal 22 al 24 marzo), e un cofanetto in 4K per l’homevideo con tutti e tre i capitoli. “Sono molto orgoglioso de ‘Il Padrino’, che ha certamente definito il primo terzo della mia vita creativa”, dice Coppola. “Sono particolarmente contento che nel cofanetto sia incluso ‘The Godfather, Coda: The Death of Michael Corleone’, che comprende la visione originale mia e di Mario Puzo nel concludere definitivamente la nostra epica trilogia”.

Un restauro che si avvale delle modernissime tecnologie nel campo del restauro cinematografico raggiunte negli ultimi anni: “Abbiamo lavorato su ogni frame affinché ne fosse restituito il suo aspetto migliore rimanendo comunque fedeli al sentimento originale della saga. È gratificante celebrare questa pietra miliare insieme ai meravigliosi fan che lo hanno amato per decenni, e giovani generazioni che lo trovano ancora attuale e a coloro che lo scopriranno per la prima volta”.

La “sorpresa” sarà in Godfather part III: una nuova versione dell’ultimo capitolo. Coppola ha rimesso mano al film, cambiandone anche titolo e finale: “Mario Puzo’s The Godfather Coda: The Death of Michael Corleone”. Il regista rende omaggio allo scrittore e co-sceneggiatore (Puzo), e ripristina il titolo da lui proposto all’epoca, e cambiato dalla Paramount che voleva richiamarsi al successo delle prime due pellicole. Ci sono un nuovo inizio, un nuovo finale, alcune modifiche a scene, inquadrature e commenti musicali. La pellicola riflette così le intenzioni originali di Puzo e Coppola; fornisce “una conclusione più appropriata per ‘Il Padrino’ e ‘Il Padrino Parte II’”.

Nella nuova versione, il film inizia con la scena in cui Michael Corleone negozia un prestito multimilionario con la Banca Vaticana, mentre nel finale, anziché far morire l’anziano padrino, il nuovo montaggio lo mostra molto vecchio ma vivo. “Lasciare Michael in vita è la vera tragedia” è il commento ironico di Al Pacino.

Valter Vecellio. Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

Simonetta Stefanelli: «Quando a 16 anni sposai il Padrino». Candida Morvillo Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.

La mamma di Violante Placido è l’attrice che interpretò Apollonia nel film di Francis Ford Coppola: «Non sapevo chi fosse Al Pacino, non mi sembrò affatto bello».

Simonetta Stefanelli ha abbandonato il cinema presto, cristallizzata per sempre nel volto bellissimo e ingenuo della sedicenne Apollonia che, nel Padrino, è la giovane sposa siciliana di Michael Corleone, seduce Al Pacino e seduce il mondo, mentre il film di Francis Ford Coppola batteva il record di incassi di Via col Vento, vinceva tre Oscar e si avviava a diventare uno dei tre film più belli della storia, stando alle principali classifiche di cinema. Oggi, è una splendida 67enne che vive in campagna fuori Roma, fa la nonna, dipinge «quadri molto allegri», scrive poesie, non rilascia interviste da decenni e fa un’eccezione solo per i 50 anni di quel capolavoro uscito il 15 marzo 1972. Nel film, la sua uccisione è la ferita che spinge il riluttante Al Pacino a tornare a New York prendere le redini della famiglia e del clan. La mezz’ora di cui Apollonia è protagonista è indimenticabile, ma, dopo, il cinema non è stato generoso con lei. Si è sposata con Michele Placido, ha cresciuto tre figli, Violante, Brenno e Michelangelo, ha divorziato, si è ritirata a vita privata.

Quanto era consapevole di girare un film che stava facendo storia?

«Ero completamente ignara. Non sapevo chi fossero Coppola e Al Pacino, conoscevo solo Marlon Brando, ne ero pazza. Quando mi offrirono la parte e mi dissero che il padrino era lui, pensai a uno scherzo. Né lui era sul set in Sicilia. Non mi accorsi di niente, girai per una settimana, fu una cosa lampo: io vedo Al Pacino, lo sposo, vengo uccisa. Non avevo idea di che altro ci fosse nel film».

Come fu scelta?

«Avevo 16 anni, stavo su un set ad Assisi e si presentò un aiuto regista di Coppola. Mi scrutò come se mi facesse le radiografie, poi disse: tu domani parti per Taormina, ne ho già parlato ai tuoi agenti e a tua mamma. Mi sono trovata su un aereo con solo le pagine del libro di Mario Puzo sul mio personaggio e che non capivo bene, perché Apollonia era un po’ smaliziata sull’amore mentre io ne ero a digiuno, non avevo mai avuto una storia. Il giorno dopo, stavo già girando l’incontro in campagna con Al Pacino».

E Al Pacino le piacque?

«Non mi sembrò bello, non mi fece effetto. Me lo presentarono solo il secondo giorno. Si sedette davanti a me, io tenevo gli occhi bassi, stavo zitta, lui zitto. Gli dico: tu parli italiano? E lui: una mano lava l’altra e tutte e due le mani lavano la faccia. Finita lì. Coppola, invece, era gentile, era con la famiglia, con Sofia nel passeggino, mi diceva di seguire l’istinto e non mi diede mai una riga di copione».

Neanche per la famosa scena della prima notte di nozze?

«Lì non c’era neppure mia mamma: ero nervosa, l’avevo mandata via. Nessuno ci aveva detto come fare. A me scivolò la bretella della sottoveste, mi si scoprì il seno e Coppola impazzì e volle fare la scena così. Poi, andai a vedere il film con la mia famiglia, pagando il biglietto, e mi vergognai da morire».

Pagando? E i tappeti rossi? E gli Oscar?

«Niente, non c’era neanche il mio nome sulla locandina, ci rimasi male. E non conobbi mai Brando».

Perché dopo non fece altri film importanti?

«Erano tempi diversi, io avevo iniziato a 13 anni, fermata per strada da uno che lavorava a Cinecittà, non avevo grandi manager o produttori e non c’erano film con bei ruoli per le donne. Ne feci altri sul filone del Padrino, ma ero una bambina. In un’intervista, mi fu chiesto che pensavo della mafia e risposi: ma la mafia non esiste! Pensi quanto ero stupida... Feci un film in costume in Spagna e qui cominciava il filone sexy, non offrivano altro a una giovane attrice».

Nel ’74, un quotidiano la definì così: «Con Ornella Muti ed Eleonora Giorgi è una delle tre moschettiere del nuovo filone erotico del cinema italiano».

«Non lo sapevo, che ridere... la moschettiera! Avrebbero potuto dire di peggio. E ho pure rifiutato tante cose, standoci male: avevo fatto un film così importante e non interessava a nessuno».

Dall’America non arrivò nulla?

«La William Morris, la più importante delle agenzie internazionali, mi offrì un contratto ma così blindato che mi fu sconsigliato di firmare».

A un certo punto, raccontò che suo marito Michele Placido le disse che la preferiva donna di casa.

«Violante non era ancora nata, lui apparteneva a una generazione non avvezza alla libertà delle donne. Ci eravamo conosciuti nel ‘72 sul set del Caso Pisciotta di Eriprando Visconti, eravamo giovani e innamorati. Comunque, quando i figli aumentarono, non mi sembrò che stavo lasciando un granché di carriera».

Oggi, come vive?

«In pace, ho un compagno. Tutti i figli fanno gli attori, sono belli, bravi. Sto scrivendo il mio primo romanzo e scrivo poesie che tengo per me. Ne ho una che sembra perfetta per questo momento. S’intitola Il matto: il cielo terso e chiaro si macchia di lingue di fuoco polvere e rimbombi... Tanti uomini senza terra... Non c’è tempo, solo vento. Parole senza senso...”».

Perché Il padrino è ancora considerato fra i film più belli?

«Chi lo sa... la bellezza non è mai spiegabile con le parole».

Palermo, Brancaccio, 29 giugno 1993

E' l'una di notte. Tre uomini stanno salendo di corsa in un grande condominio in via Azolino Hazon, che si trova a un centinaio di metri dalla parrocchia di San Gaetano. Ognuno porta due bottiglie di benzina. Il primo si ferma al quinto piano. il secondo in un'altra scala, prosegue fino al settimo. Il terzo, in un'altra scala ancora, arriva al decimo. Hanno una missione da compiere, affidata da Giuseppe e Filippo Graviano. Incendiare le porte di casa di tre persone impegnate con il parroco Pino Puglisi in un percorso di riscatto di Brancaccio: sono Pino Martinez, Giuseppe Guida, e Mario Romano, fanno parte del comitato intercondominiale di via Hazon, un gruppo di cittadini che denuncia le gravi carenze che affliggono il quartiere. Don Pino e il comitato hanno iniziato a fare cose semplici, ma rivoluzionarie per Palermo: scrivere alle istituzioni, organizzare iniziative, denunciare. Hanno acceso i riflettori su questa parte di città che sembra dimenticata dalla politica e dalla società civile.

Il raid di questa notte è la risposta dei fratelli Graviano, che non possono permettersi di perdere la faccia a Brancaccio, il loro regno. In via Hazon hanno mandato i più precisi, Gaspare Spatuzza e Salvatore Grigoli detto il Cacciatore, accompagnati da Vito Federico uno specialista nei raid incendiari. Sono loro che adesso stanno dando fuoco alle porte di casa dei cittadini che non si rassegnano alla mafia.C'è un gran fumo nelle scale, qualcuno si sveglia e inizia a urlare. I tre emissari dei Graviano sono già fuori dal palazzo. In fuga su una fiat Uno rubata e su uno scooter guidato da un complice. Non hanno ancora terminato. Giuseppe Graviano ha affidato anche un secondo incarico al gruppo, dare fuoco a una tabaccheria in piazza dei Signori, il titolare non vuole pagare il pizzo. Un altro segnale chiaro, inizia ad avanzare un'aria di ribellione alla mafia da queste parti. Una brutta aria per i mafiosi, che non possono rinunciare al dominio sul loro territorio. Quelle porte incendiate sono un segnale chiarissimo <<Dovete andare via da Brancaccio>>. Ma Don Pino e il comitato non hanno alcuna intenzione di fare passi indietro. All'omelia della messa domenicale, il sacerdote ha parole accorate <<Vorrei capire - dice - quali sono i motivi che vi spingono ad ostacolare chi sta operando per tentare di realizzare a Brancaccio una scuola media, un distretto socio-sanitario, una società migliore per tutti i nostri figli. Parliamone, discutiamone.. chi usa la violenza non è un uomo; chi si macchia di atroci delitti è simile alle bestie>>. Don Pino ha un tono di voce severo, che diventa accorato quando dice: <<Chiediamo a chi vuole ostacolare il cammino di coloro che si impegnano per il bene del quartiere di riappropriarsi della propria umanità.>>.

Sono le parole di un padre. Le parole di un uomo che vuole coinvolgere un intero quartiere contro la mafia: <<Tutti noi siamo stati colpiti - don Pino non usa mezzi termini - , è come se avessero bruciato la porta di casa a tutti noi. E, allora, se è vero che siamo cristiani dobbiamo apertamente condannare la violenza subita da Romano, Guida e Martinez. Io per primo mi impegno ad andare a casa loro, per dimostrare la mia solidarietà>>.

Testo tratto dal Libro "I fratelli Graviano". di Salvo Palazzolo. Edito da Latterza. 2022. pagine 107 - 108.

Foto tratta dal sito - Sapere.it

Mafia dei Nebrodi, arriva la stangata al maxiprocesso: 600 anni di carcere «Boss arricchiti truffando l’Ue». Alessio Ribaudo su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2022

La sentenza di primo grado sostanzialmente conferma l’impianto delle accuse mosse dagli inquirenti e dalla Dda di Messina. Condannati in 91 fra cui i presunti appartenenti alle cosche tortoriciane. La pena massima supera i 30 anni. Antoci: «Ha vinto lo Stato»

Commentatori digiuni di storia della mafia per anni li hanno descritti come rozzi montanari o, al massimo, malandrini: tutti dediti ad abigeati, estorsioni e traffici di droga di piccolo cabotaggio. Invece, nel silenzio generale, i clan tortoriciani avevano architettato raffinate truffe ai danni dell’Unione europea e dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) che gli avevano ingrossato i conti correnti e la «caratura» criminale. Niente rischiose pistole e lupare ma semplici moduli da compilare spesso certificando il falso. Un meccanismo perfetto, come gli ingranaggi che fanno funzionare gli orologi svizzeri, che si è però inceppato quando all’improvviso l’arrivo del «protocollo Antoci» ha eliminato le autocertificazioni antimafia. Racconta questo e molto di più la sentenza di primo grado del maxiprocesso «Nebrodi» con la quale al Tribunale di Patti, nel Messinese, sono stati inflitti oltre 600 anni di carcere a 91 imputati oltre a sequestri di beni per circa quattro milioni di euro. Dieci, invece, le assoluzioni. È una sentenza «miliare» quella che arriva, dopo 20 mesi: conferma sostanzialmente le accuse degli inquirenti sul fatto che ci fosse un fiume milionario di denaro pubblico su cui scorrevano gli interessi dei clan di Tortorici, nel Messinese. Un operoso centro a vocazione agricola, popolato da migliaia di onesti lavoratori, aggrappato sui Monti Nebrodi. La sentenza è miliare da molti punti di vista. Intanto è stato il più grande mai celebrato in Europa in tema di truffe ai fondi pubblici erogati all’agricoltura, sia italiani sia Ue con lo Stato che ha dimostrato di saper rispondere in tempi record se si considera la mole enorme di accuse da esaminare per il collegio presieduto da Ugo Scavuzzo e composto dai giudici Andrea La Spada ed Eleonora Vona. Poi la media delle pene è stata molto dura: sei anni e mezzo di carcere a condannato. Giusto per fare un paragone, la media è superiore allo «storico» «maxiprocesso di Palermo» che vide una media fu di 5 anni e otto mesi. Tornado al processo di lunedì, la lettura del dispositivo è arrivata alle 23, alla fine di una giornata interminabile, dopo una camera di consiglio durata otto giorni. Ad avere comminata la pena più alta è stato Aurelio Salvatore Faranda (30 anni) mentre per Sebastiano Conti Mica sono arrivati 23 anni. Invece, l’ex sindaco di Tortorici Emanuele Galati Sardo è stato condannato a 6 anni e due mesi. In linea generale, i giudici hanno sostanzialmente confermato, seppur rivedendo al ribasso alcune pene, le tesi sostenute dal procuratore aggiunto Vito Di Giorgio della Direzione distrettuale antimafia di Messina — guidata fino a poche settimane fa dal procuratore Maurizio De Lucia, oggi alla guida della Procura di Palermo — che aveva chiesto un totale di 1.045 anni di carcere per i 101 imputati. «Le truffe sono state riconosciute per buona parte — ha commentato a caldo Di Giorgio — e resta il fatto che su quella parte di territorio della provincia di Messina le truffe hanno costituito la principale fonte di arricchimento sia del gruppo mafioso dei Batanesi sia del gruppo dei Bontempo Scavo, ma teniamo conto che è solo la sentenza di primo grado». I condannati dovranno anche risarcire le parti lese fra cui associazioni «antimafia» come Libera e Addiopizzo Messina; il Centro studi «Pio La Torre» e il Comune di Tortorici, nel Messinese. «È stata riconosciuta la mafiosità per i Batanesi mentre per il gruppo dei Bontempo Scavo no — ha proseguito il procuratore aggiunto — ed è stata riconosciuta l’esistenza del 640 bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.Ndr), in alcuni casi aggravata. Sicuramente questo è un aspetto importante ma è un dispositivo talmente complesso che va letto attentamente».

Il blitz

All’alba del 15 gennaio del 2020 i carabinieri del Ros e i finanzieri del Gico — coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, guidata da Maurizio de Lucia — condussero un grande blitz che si concluse con 94 arresti (48 furono ristretti in carcere e 46 ai domiciliari) a vario titolo associazione per associazione a delinquere di stampo mafioso, danneggiamento a seguito di incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falso, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata. Inoltre furono sequestrate 151 aziende. Come si legge nelle carte dell’ordinanza del Gup di Messina: «la mafia ha scoperto che soldi pubblici e finanziamenti costituiscono l’odierno tesoro e come siano diminuiti i rischi pur se i metodi restano criminali…..» e che «il campo di maggiore operatività è divenuto il grande business derivante dalle truffe ai danni dell’Unione Europea, come detto più remunerative e meno rischiose». Un meccanismo interrotto da un coraggioso presidente dell’allora Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, che fu il primo a tagliare l’erba sotto i piedi della mafia. Ideò un «protocollo di legalità» che poi prese il suo nome e che, nel 2015, entrò nel codice Antimafia. Qualche mese dopo, il 18 maggio del 2016, fu vittima di un attentato mafioso. Per i magistrati di questo maxiprocesso «nella presente indagine di truffe milionarie e di furto mafioso del territorio trova aspetti di significazione probatoria e chiavi di lettura di quell’attentato... Antoci si è posto in contrasto con interessi milionari della mafia».

Le prime condanne

Nel corso del tempo, il banco degli imputati è diminuito di 18 posizioni perché il Gup di Messina per alcuni aveva inviato gli atti a Catania per incompetenza territoriale mentre altri quattro hanno già patteggiato la pena e, con il rito abbreviato, sono arrivate in Appello, lo scorso aprile, tre assoluzioni e cinque condanne con pene che hanno raggiunto anche i 24 anni per Sebastiano Bontempo. Gli inquirenti, hanno ricostruito da un lato il nuovo assetto del clan dei Batanesi, operante nel Tortoriciano; dall’altro si sono invece concentrate su quello dei Bontempo Scavo. Secondo l’accusa, le cosche di quest’area aveva guadagnato una caratura criminale tale da poter «dialogare» con quelle del Catanese, dell’Ennese e del Palermitano. Come disse l’allora procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho questa mafia ha compiuto «un salto di qualità anche a livello nazionale, con inserimenti nell’economia legale con sistemi illegali. Chi doveva controllare non controllava, chi doveva sostenere la formazione del fascicolo aziendale per ottenere i finanziamenti era complice dei clan che si arricchivano». I due clan oggetto dell’inchiesta «Nebrodi» per finanziarsi, utilizzavano anche il lucroso metodo di ottenere contributi comunitari concessi dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) che aveva portato nelle casse delle cosche circa 10 milioni di euro, a partire dal 2013. Tanto che la Guardia di finanza, in occasione degli ultimi arresti in zona sempre su truffe in agricoltura, ha affermato come questo sia un «territorio significativamente minato dalla pervasiva presenza di strutturate organizzazioni criminali, vieppiù di matrice mafiosa». Milioni di euro sottratti agli onesti agricoltori e allevatori dei Nebrodi che sono la maggioranza e da secoli fertilizzano quei terreni con ettolitri di sudore. Cittadini che per più di un anno hanno dovuto affrontare l’onta di vedere il proprio Comune commissariato per infiltrazioni mafiose. Nell’inchiesta non sono finiti solo presunti associati ai clan ma anche «colletti bianchi» fra cui ex collaboratori dell’Agea e persone dei centri di assistenza agricola che avevano conoscenza ottima dei meccanismi con cui vengono erogati milioni e milioni di euro e dei metodi di controllo.

Il «protocollo Antoci»

Un sistema che si «inceppò» grazie agli anticorpi iniettati dal «protocollo Antoci», ideato dalla Giuseppe Antoci che con questo controllo di legalità fu il primo a tagliare l’erba sotto i piedi della mafia. Tanto che poi subì un attentato mafioso il 18 maggio del 2016 che, proprio secondo gli inquirenti, maturò a causa di ritorsioni al suo impegno per ridare dignità ai lavoratori onesti e mettere alla porta il malaffare. Un protocollo che poi entrò a far parte del Codice antimafia e diventò norma nazionale. «Il protocollo Antoci è importante — ricordò in conferenza stampa il giorno del blitz, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho — perché per primo permise di scoprire questo tipo di attività e poi diventato uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie». Ecco perché oggi alla lettura della sentenza di primo grado proprio Giuseppe Antoci ha voluto essere presente. «Li volevo guardare negli occhi uno a uno e spiegare loro con questo mio atto di presenza — dice in lacrime Antoci — che lo Stato ha vinto. Per me oggi è un giorno importante perché anche grazie alle mie battaglie si è arrivati a questo traguardo mentre io sono vivo grazie alla mia scorta datami proprio dallo Stato, non avrò pace sinché loro non saranno individuati e condannati». Poi va oltre: «Certo, mi piacerebbe sapere chi sono tutti quegli operatori appartenenti alla pubblica amministrazione che vedevano passare documenti con nomi importanti di boss mafiosi ai quali arrivavano milioni di euro di fondi europei nei conti correnti, chi certificava tale andazzo mentre quei fondi dovevano servire al rilancio dell’agricoltura in un luogo stupendo come i Nebrodi popolato da tane persone perbene ed invece andavano ai mafiosi. Ecco, spesso penso a loro e al loro silenzio ma era paura o connivenza?». Un silenzio che, secondo Antoci, ha avuto conseguenze. «Anche quel silenzio ha armato le mani di chi quella notte voleva uccidere me e i poliziotti della mia scorta — conclude — Spero si faccia luce anche su questo. Ci sarebbe stata un’altra strage di mafia da commemorare, invece oggi celebriamo la vittoria dello Stato che dimostra che quando si muove unitariamente, quando fornisce mezzi normativi alle forze di polizia e alla magistratura per combattere le mafie, arrivano anche i risultati».

Il maxiprocesso Nebrodi. Da messina.gds.it l'1 novembre 2022

Il maxiprocesso Nebrodi è il risultato della imponente operazione condotta contro il clan dei pascoli dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, scattata il 15 gennaio 2020 con 94 arresti (48 in carcere e 46 ai domiciliari) e il sequestro di 151 imprese, conti correnti e rapporti finanziari. Al centro gli assetti dei clan tortoriciani, ma anche il business dei contributi comunitari in agricoltura concessi dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura.

L’accusa aveva formulato per i 101 imputati richieste per complessivi 1.045 anni di carcere e 30 milioni di euro di confische. Intorno alla mezzanotte i giudici, dopo una lunga camera di consiglio iniziata lunedì 24, hanno terminato di leggere la poderosa sentenza: circa un’ora per elencare le 91 condanne per oltre 600 anni di carcere e le 10 assoluzioni. Associazione per delinquere di stampo mafioso, danneggiamento a seguito di incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falso, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata i reati contestati a vario titolo.

Il processo scaturisce dai risultati delle indagini svolte nel territorio dei Nebrodi dal Gico della guardia di finanza di Messina e dai carabinieri del Ros e del Comando Tutela agroalimentare, che da un lato hanno ricostruito il nuovo assetto del clan dei Batanesi, operante nella zona di Tortorici, dall’altro si sono concentrate sulla costola del clan dei Bontempo Scavo. Si trattò di una delle più vaste operazioni antimafia eseguite in Sicilia e la più poderose sul versante dei fondi europei dell’agricoltura in mano alle mafie mai eseguita in Italia e all’estero.

Un meccanismo interrotto dal «protocollo Antoci», poi recepito nel nuovo Codice antimafia e votato in Parlamento il 27 settembre 2015. L’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, oggi presidente onorario della Fondazione Caponnetto, ha rischiato la vita in un attentato mafioso nel 2016.

L’inchiesta ha fatto luce sugli interessi dei gruppi mafiosi sui contributi comunitari concessi dall’Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura portando alla luce il business delle truffe sui fondi destinati all’agricoltura. In particolare, gli investigatori hanno accertato, che, a partire dal 2013, sarebbero stati percepiti irregolarmente erogazioni pubbliche per oltre 10 milioni di euro. Al termine dell’udienza preliminare, nel dicembre 2020, in 101 furono rinviati a giudizio mentre altri hanno definito la loro posizione con il rito abbreviato, altri ancora hanno patteggiato la pena.

Il processo, davanti al Tribunale di Patti, presieduto da Ugo Scavuzzo e composto dai giudici Andrea La Spada e Eleonora Vona si è aperto il 2 marzo 2021 nell’aula bunker del carcere di Gazzi a Messina. A luglio 2022 i pubblici ministeri Vito Di Giorgio, Antonio Carchietti, Fabrizio Monaco e Alessandro Lo Gerfo, al termine della requisitoria, hanno chiesto condanne per un totale di oltre mille anni di carcere. Lo scorso 24 ottobre i giudici, ritornati a Patti, sede naturale del tribunale dopo alcune udienze in trasferta nell’aula bunker a Messina, sono entrati in camera di consiglio.

La Mafia voleva punire anche l’ex ministro Baccini per conto di una nobildonna romana. Arrestati Guttadauro e suo figlio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Febbraio 2022

Eseguita dai Carabinieri del ROS misura cautelare a carico di Giuseppe Guttadauro e di suo figlio Mario Carlo Guttadauro per associazione di tipo mafioso. Ad entrambi viene contestata l’appartenenza alla famiglia di Cosa Nostra di Palermo - Roccella (inserita nel mandamento di Brancaccio - Ciaculli) e l’intervento sulle più significative dinamiche del mandamento mafioso di Villabate - Bagheria.

I Carabinieri del ROS, con il supporto dei colleghi del Comando Provinciale di Palermo e dello Squadrone Cacciatori Sicilia, hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Palermo dott.ssa Claudia Rosini nei confronti di Giuseppe Guttadauro 73 anni inteso “il dottore”, per la sua precedente attività aiuto primario alla Chirurgia del Civico di Palermo negli anni Ottanta, con un piede nella politica e l’altro nella mafia, e del figlio Mario Carlo Guttadauro, entrambi indagati per i delitti di associazione di tipo mafioso. Il padre nonostante la precedente detenzione per dieci anni al 41 bis, è stato posto gli arresti domiciliari, mentre il figlio Giuseppe grazie ai “trojan” inseriti dai Carabinieri del Ros nei cellulari dei due, hanno anche ricostruito le minacce di padre e figlio per la soluzione di un contenzioso da 16 milioni di euro,  è stato tradotto in carcere. Ad entrambi viene contestata l’appartenenza alla famiglia di Cosa Nostra di Palermo – Roccella (inserita nel mandamento di Brancaccio – Ciaculli) e l’intervento sulle più significative dinamiche del mandamento mafioso di Villabate – Bagheria. 

Nel medesimo contesto risultano indagati, ma non destinatari di misure cautelari, altri soggetti palermitani di cui tre ritenuti essere affiliati alla “famiglia” mafiosa di Palermo – Roccella e due, in concorso con Mario Carlo Guttadauro, di lesioni aggravate. Le indagini coordinate dalla D.D.A. della  Procura della Repubblica di Palermo, hanno documentato le attività poste in essere da Giuseppe Guttadauro, già tratto in arresto lo scorso 22/05/2002 nell’operazione “GHIACCIO” e fratello di Filippo Guttadauro, quest’ultimo cognato del latitante Matteo Messina Denaro. 

Dalle investigazioni della D.D.A. palermitana è emerso che Giuseppe Guttadauro, trasferitosi a Roma dopo la scarcerazione avvenuta il 2 marzo 2012, avrebbe mantenuto i contatti con l’organizzazione mafiosa di riferimento anche attraverso suo figlio Mario Carlo il quale ne avrebbe mediato le interlocuzioni con gli altri indagati attivi a Palermo. Nell’alveo delle dinamiche associative, nel corso della indagine è stato tra le altre cose documentato l’intervento di Giuseppe Guttadauro che ha incaricato dell’esecuzione suo figlio Mario Carlo per risolvere i contrasti che erano sorti a Palermo in ordine all’esecuzione di lavori che dovevano essere realizzati presso una importante struttura industriale sita nella zona di Brancaccio. 

Le intercettazioni hanno inoltre rivelato le aspre critiche mosse dal “dottore” alle nuove generazioni di mafiosi, innescate dalla notizia della collaborazione con la giustizia di Francesco Colletti e la sua preoccupazione per le dichiarazioni di Filippo Bisconti, nonché l’esigenza, rappresentata apertamente al figlio, di “evolversi” pur rimanendo ancorati ai principi di cosa nostra.

Il quadro indiziario ha evidenziato come Giuseppe Guttadauro fosse pure intervenuto per regolare l’attività di traffico di stupefacenti condotta da un pregiudicato bagherese ed i rapporti di quest’ultimo con i vertici pro-tempore della famiglia mafiosa di Bagheria. Inoltre, avrebbe progettato un traffico di stupefacenti con l’estero, finanziato dai sodali palermitani, avvalendosi di un soggetto albanese per reperire hashish e prevedendo, contestualmente, un canale per l’approvvigionamento di cocaina dal Sud America. 

In tale attività avrebbe avuto un ruolo anche un assistente di volo, in documentati rapporti con Giuseppe Guttadauro, che avrebbe dovuto trasportare 300 mila euro in Brasile nel momento in cui il carico di droga dal Sud America fosse arrivato in Olanda. Altro particolare emerso dalle investigazioni è stata la “considerazione” goduta in determinati ambienti della Capitale dal Guttadauro al quale sarebbe stato richiesto di intervenire a sostegno di una facoltosa nobildonna romana, Beatrice Sciarra moglie del chirurgo Giuseppe Mennini,  già docente dell’Università “La Sapienza” di Roma – dietro la promessa di un lauto compenso per la soluzione di un contenzioso  dell’ammontare di 16 milioni di euro che una donna romana aveva contro una filiale romana dell’Unicredit.

Giuseppe Guttadauro puntava ad ottenere una ricompensa del 5 per cento sulla prima tranche da 8 milioni dalla Sciarra. Nei numerosi continui colloqui finalizzati a sbloccare quei fondi Guttadauro  coinvolgeva il commercialista romano Giovanni Armacolas e l’assistente di volo dell’Alitalia Adriano Burgio, il quale secondo le accuse della procura palermitana condivise dalla Gip di Palermo Claudia Rosini “fungeva da mediatore con i dirigenti bancari“. 

I Guttadauro erano pronti ad eliminare ogni ostacolo anche quando nella contesa finanziaria saltava fuori il nome dell’ex deputato e senatore Udc Mario Baccini ministro della Funzione pubblica fra il 2004 e il 2006 nel governo Berlusconi, poi fondatore del “Comitato nazionale per il microcredito“, istituto chiuso durante la permanenza di Mario Monti a Palazzo Chigi e successivamente riaperto.  Guttadauro in quanto vecchia conoscenza dell’antimafia non era persona che si faceva tanti scrupoli: “Se poi a Baccini gli si devono rompere le corna per davvero, gliele rompiamo“. Giuseppe Guttadauro, ignaro delle intercettazioni, era consapevole di non potersi esporre personalmente: “Non ci posso andare io a rompergli le corna. Giusto? A me mi conoscono, ci deve andare uno che nemmeno conoscono perché se mi fanno una fotografia, mi conosce mezzo mondo…”. 

Giuseppe Guttadauro contava su una rete di complici dalle molteplici conoscenze come il suo amico assistente di volo, Adriano Burgio, gli aveva garantito di aver ricevuto la telefonata “di quello della Camera dei deputati… è importantissimo“. Così la “cricca” romana sperava poter esercitare pressioni su Unicredit, per agevolare la signora Sciarra.  Burgio sembrava essere molto legato a Guttadauro: “Poi ti faccio pure le delega a tuo figlio per prendere i soldi” mentre parlavano di alcuni conti correnti in Albania. Guttadauro voleva trasferire all’estero alcuni patrimoni , ma precisava “Non mi devi fare niente per ora ti ho chiesto solo se abbiamo la possibilità“. Burgio era il nuovo contatto di Guttadauro con la politica: “Questo Armacolas è un professionista – diceva  il “boss”, mentre sorseggiava un caffè al bar, e intanto il suo telefonino continuava a fare da microspia – “digli all’amico tuo se se lo mette nella lista e vediamo di farlo eleggere…. E abbiamo un altro là“. Burgio esponeva qualche problema perché le liste erano state già presentate, e si lamentava pure di difficoltà per l’ottenimento di finanziamenti regionali. Guttadauro gli rispose: “Se fossimo stati a Palermo ti direi: che ti serve? E te li farei portare a casa“.

La questione Sciarra stava molto a cuore al boss palermitano “romanizzato”: “La signora si sente minacciata dall’ Unicredit” aggiungeva ancora Guttadauro all’amico assistente di volo. E spiegava il vero motivo del suo interessamento: “Non mi interessa la pubblicità… film… non mi interessa niente… io dopo 23 anni di carcere di cui gli ultimi 10 al 41 bis, a me non interessa fare la prima donna… ma per qualche soldo”. E spiegava le sue ragioni di stare molto attento: “Io ho il parente del mio parente il più importante latitante che c’è… il secondo nel mondo… (il superlatitante Matteo Messina Denaro n.d.r.)  più importante che c’è in Italia… ma tu perché pensi che mi stanno appresso? Per me?“.  

Il “dottore” Guttadauro fungeva da mediatore della Sciarra con l’Unicredit, ignaro di essere intercettato dai Carabinieri del Ros grazie al trojan inoculato nel suo telefonino. “Gli andiamo a dire a tre personaggi che devono finirla e poi facciamo discorsi? – diceva Giuseppe Guttadauro al commercialista Armacolas – Abbiamo altre cose più importanti per le mani, è giusto?”. Il boss mafioso sollecitava il commercialista a fissare un incontro con un avvocato dell’ufficio legale di Unicredit: “Quando avrai l’incontro me lo fai sapere, e io l’ho farò sapere a chi è che poi…”.  

Guttadauro non avrebbe esitato a prospettare, in caso di esito infruttuoso del proprio intervento, di passare alle vie di fatto, incaricando qualcuno di malmenare i soggetti che riteneva stessero ostacolando la soluzione della vicenda. Sono state, infine, ricostruite le motivazioni di un pestaggio, che altri due indagati – su ordine di Mario Carlo Guttadauro– avrebbero portato a termine il 25 ottobre 2016 nei confronti di un giovane palermitano, reo di aver accusato il giovane Guttadauro di condotte disdicevoli. 

I movimenti del “dottore” sono sempre stati seguiti e controllati dai Carabinieri del Ros con la stessa costante attenzione dedicata al fratello, Filippo Guttadauro, anche quale cognato dell’imprendibile super latitante. Un monitoraggio che ha confermato come il “boss” mafioso coltivava, come è emerso nell’ultima inchiesta, nuovi loschi traffici a Roma, senza mollare i rapporti con la roccaforte operativa del clan operante nel quartiere Brancaccio di Palermo.  

Riceviamo una lettera di rettifica dalla signora Sciarra. La replica del Corriere del Giorno. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2022

Abbiamo pubblicato questa rettifica esclusivamente per ottemperare alle norme di Legge, in quanto alla signora Sciarra deve essere sfuggito qualcosa....

Riceviamo dall’ Avv. Augusto Pizzoferrato quale legale di fiducia della Sig.ra Beatrice Sciarra la seguente lettera di rettifica che pubblichiamo integralmente ai sensi dell’art.8 Legge 47/1948 in relazione al nostro articolo del 14 febbraio con il titolo “La Mafia voleva punire anche l’ex ministro Baccini per conto di una nobildonna romana. Arrestati Guttadauro e suo figlio” :

“ Non corrisponde al vero la circostanza che la Sig.ra Beatrice Sciarra abbia mai avuto contatti diretti con il Sig. Giuseppe Guttadauro né tantomeno mai la stessa ha chiesto a quest’ultimo di fungere da mediatore per risolvere una grossa contesa finanziaria con Unicredit. La Sig.ra Beatrice Sciarra conosce il Sig. Guttadauro solo perché quest’ultimo svolgeva la stessa attività del suo ex marito, Prof. Giuseppe Mennini (medico chirurgo) e per tale motivo gli eventuali  incontri sono sempre stati assolutamente casuali ed  occasionali. Si precisa, altresì, che la Sig.ra Beatrice Sciarra non è stata raggiunta da alcun avviso di garanzia dagli Uffici della Procura di Palermo e, per tale motivo, risulta totalmente estranea a qualunque ipotesi delittuosa ascrivibile al Sig. Guttadauro “

Abbiamo pubblicato questa rettifica esclusivamente per ottemperare alle norme di Legge, in quanto alla signora Sciarra deve essere sfuggito qualcosa:

i contatti e/o rapporti fra la signora Sciarra ed il noto mafioso Giuseppe Guttadauro emergono dall’ordinanza emessa dal G.I.P. del Tribunale di Palermo dott.ssa Claudia Rosini sulla base di indagini del ROS dei Carabinieri. Sarà quindi all’ Autorità Giudiziaria che la signora Sciarra dovrà chiarirli, e non certamente a noi.

trattandosi di un’ordinanza “cautelare” e non essendo state chiuse le indagini, trovandosi coinvolta a ragione o per caso in una vicenda di mafia, è normale che al momento non abbia ricevuto alcuna comunicazione dall’ Autorità Giudiziaria o notizia dell’eventuale avvenuta sua iscrizione nel registro degli indagati. Che peraltro ai sensi dell’art. 335 comma 3-bis del Codice di Procedura Penale indica che “Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabile“. Quindi c’è solo da attendere. Redazione CdG 1947

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 13 febbraio 2022.

Al grido di «rompere le corna a Mario Baccini» il boss Giuseppe Guttadauro marciava su Roma, almeno secondo i pm. Era il 2018 e il «dottore», com' è noto il boss, sognava percentuali generose come remunerazione per la sua mediazione in una curiosa contesa: quella fra l'aristocratica Beatrice Sciarra e l'istituto bancario Unicredit. Sedici milioni di euro che il padrino, con il proprio muscolare intervento, avrebbe dovuto sbloccare in favore della nobildonna. 

Anche a costo di punire l'ex ministro della Funzione pubblica Baccini, reo di aver tentato di pilotare la vertenza Unicredit contro la Sciarra attraverso il magistrato del Consiglio di Stato Eugenio Mele. Nessun dubbio, scrivono i magistrati, che Guttadauro «fosse divenuto il referente in certi ambienti della "Roma bene" per la risoluzione, con metodo mafioso, di loro private controversie». 

La storia, annota la gip Rosina Carini, «restituisce uno spaccato davvero sconsolante ed allarmante circa il pervicace potere mafioso riconosciuto a soggetti quali il predetto indagato...». Morale, quel grido («rompiamo le corna a Mario Baccini») risuona nelle orecchie dell'ex ministro oscuro e inquietante, ma andando indietro con la memoria non affiora nulla. «Oggi mi ha chiamato un amico: "Mario c'è una roba che ti riguarda sui siti". Ho letto e mi sono domandato come mai non avessi saputo nulla dalle forze dell'ordine. Forse ritenevano non vi fossero rischi concreti nei miei confronti. Voglio sperarlo» spiega al telefono l'ex ministro del centrodestra. 

La frase, letta per intero, suona così: «Io sono insoddisfatto... inc... con quello che mi fai e ti vengo a dire: finiscila perché se no "ti vengo a rompere le corna e non se ne parla più"». Baccini continua a correre con la memoria indietro negli anni, nella speranza di ricostruire qualche frammento utile, ma invano: «Quando ero ministro - dice - mi è capitato di parlare con il dottor Giuseppe Mennini, marito della Sciarra, molto attento alle iniziative istituzionali. Ma nulla so di sua moglie e della questione Unicredit».

Ma davvero lei sarebbe intervenuto su un consigliere del Consiglio di Stato affinché la banca avesse la meglio? «Da ministro della Funzione pubblica vedevo migliaia di consiglieri ma mai nessuno dal nome Mele - replica -. Inoltre tentare di influenzare le decisioni di un magistrato non è nel mio Dna per così dire. Dubito fortemente di una simile ricostruzione. La dico tutta: se davvero mi fossi opposto ai voleri di un boss ne sarei orgoglioso, ma non mi risulta di averlo mai fatto... É probabile che la vicenda sia solo frutto di millanterie. Certo, le minacce sembrano autentiche e dovrò spiegarlo alla mia famiglia». 

E «donna Beatrice»? Le parole della gip e le intercettazioni la descrivono come volitiva, determinata, pericolosa. Possibile? Beatrice Sciarra, 65 anni, sposata con il chirurgo Mennini, sarebbe decisa a infliggere la punizione all'ex ministro: «Era stata la stessa Sciarra - esplicita in una conversazione Guttadauro - a sollecitargli in qualità (lui) di capomafia, un intervento punitivo di carattere violento sul proprio oppositore, l'ex onorevole Baccini». 

Felice Cavallaro per corriere.it il 13 febbraio 2022.

Del «dottore» della mafia collegato per indiretta parentela con Matteo Messina Denaro si parla dal 2001, da quando grazie a una soffiata eccellente trovò e distrusse le microspie collocate dall’antimafia nel salotto di casa sua, a Palermo. Ma scattano di nuovo gli arresti, dopo vent’anni di carcere a pene alternate, per Giuseppe Guttadauro, 73 anni, aiuto primario alla Chirurgia del Civico di Palermo negli anni Ottanta, un piede nella politica e l’altro nella mafia. 

Arresti domiciliari per il boss rimasto dieci anni al 41 bis. Da qualche tempo trasferitosi a Roma dove era appena rientrato da un viaggio in Marocco. Va peggio al figlio maggiore, Mario Carlo, finito in carcere per la stessa inchiesta dei carabinieri del Ros che, grazie ai trojan inseriti nei cellulari, hanno anche ricostruito le minacce di padre e figlio per la soluzione di un contenzioso da 16 milioni di euro. 

Le intercettazioni

Un affare a sostegno di una nobildonna romana, Beatrice Sciarra, contro una filiale dell’Unicredit. Pronti ad eliminare ogni ostacolo anche se nella contesa finanziaria saltava fuori il nome dell’ex ministro Mario Baccini. Con Guttadauro senior determinato: «Se poi a Baccini gli si devono rompere le corna per davvero, gliele rompiamo». Questa vecchia conoscenza dell’antimafia è stata sempre seguita con la stessa costante attenzione dedicata al fratello, Filippo Guttadauro, a sua volta, cognato dell’imprendibile super latitante.

Un monitoraggio che confermerebbe come il boss non avrebbe mollato i rapporti con la roccaforte operativa del quartiere Brancaccio a Palermo. Coltivando, secondo l’ultima inchiesta, nuovi traffici loschi a Roma. Con «il dottore» coinvolto perfino in una partita di droga, trasferendo 300 mila euro in Brasile per fare trasportare un carico dal Sud America in Olanda. Spicca in queste storie la figura del figlio, irruente, al centro anche di un (presunto) pestaggio «commissionato» nel 2016 contro un ragazzo che si sarebbe permesso di avanzare dubbi sulle sue «condotte contrarie alle regole morali di Cosa nostra». 

La soffiata di Cuffaro

Il tempo sembra essersi fermato davanti ai protagonisti di queste pagine di mafia che cominciano le loro sciagurate carriere negli anni Settanta e ancora dominano la scena. Appunto, come Guttaduaro “il dottore” arrestato un’altra volta lo scorso maggio insieme con il fratello Filippo. Entrambi entrati ed usciti di scena da quell’intrigo che ruota attorno al re Mida della Sanità siciliana Michele Aiello e all’ex presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro, accusato di essere stato il perno della soffiata culminata nella distruzione delle microspie in casa Guttadauro. 

I favori di Cosa nostra

Quelle ed altre intercettazioni permisero allora di cogliere i distinguo interni alle «famiglie». Con tutti i dubbi legati ad alcune stragi forse compiute dalla mafia in sintonia con altre “entità” o forse per inconfessabili interessi incrociati. Si sfogava Guttadauro con un medico suo amico, Salvatore Aragona: «Ma chi c... se ne fotteva di ammazzare Dalla Chiesa... Andiamo, parliamo chiaro... E perché glielo dovevamo fare questo favore...». Inquietante riflessione che dal 1982 rimbalza al 1992, subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, quando questa eminenza grigia sembra prendere le distanze dalla sanguinaria violenza di Riina e Provenzano: «Non l’ho capito questo spingere determinate esasperazioni. Perché farci mettere nel tritacarne...». 

Le legnate di Baccini

Apparentemente sembrava volere sempre appianare e mediare. Proprio a Roma «il dottore» sperava di assecondare la richiesta di aiuto arrivata dalla signora Sciara, moglie di Giuseppe Mennini, chirurgo e già docente dell’Università «La Sapienza». Puntava a una ricompensa del 5 per cento sulla prima tranche da 8 milioni, Nei vorticosi colloqui finalizzati a sbloccare quei fondi Guttadauro ha finito per coinvolgere il commercialista Giovanni Armacolas e l’assistente di volo dell’Alitalia Adriano Burgio, che per la procura e la gip di Palermo Claudia Rosini «fungeva da mediatore con i dirigenti bancari». Pronto il boss a far pesare minacce pesanti. 

Pronto alla violenza e «a dare legnate» parlando dell’ex deputato e senatore Udc Mario Baccini, ministro della Funzione pubblica fra il 2004 e il 2006 nel governo Berlusconi, poi fondatore del «Comitato nazionale per il microcredito», istituto chiuso durante la permanenza di Mario Monti a Palazzo Chigi e poi riattivato. Ma Guttadauro, ignaro delle intercettazioni, sapeva di non potersi esporre troppo: «Non ci posso andare io a rompergli le corna. Giusto? A me mi conoscono, ci deve andare uno che nemmeno conoscono perché se mi fanno una fotografia, mi conosce mezzo mondo...». 

Lezione di mafia

Di qui forse la scelta di scatenare il figlio, anche a costo di contraddire qualche vecchia «lezione di mafia» un tempo impartita auspicando le regole di una mafia camaleonte, pronta ad insabbiarsi. Lo stesso modello offerto in passato con una vera e propria «lezione» all’altro figlio, Francesco, tempo fa pure lui arrestato: «Ti devi evolvere, ma rimanere con quella testa». Gli stessi consigli suggeriti a un altro rampollo di famiglia, Fabio Scimò, deciso a fare «carriera»: «Non puoi scendere a livello dei picciutteddi. Devi metterti a un livello diverso». Parola del «dottore».

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 14 febbraio 2022.

«Sono quattro banditelli da tre lire». U dutturi aveva pochi dubbi. Le nuove leve della mafia sono poca cosa rispetto alla vecchia guardia. Questo ciò che pensa Giuseppe Guttadauro, 73 anni. Il dottore, il suo soprannome. Di fatto è un medico, è stato primario dell'ospedale Civico di Palermo. Lui, esponente di spicco di Cosa nostra, vedeva i giovani del grande crimine, deboli. Fragili. Ieri per il boss e il figlio, sono scattate di nuovo le manette. Entrambi sono ai domiciliari con l'accusa di associazione mafiosa. È la terza volta che viene arrestato. Era già accaduto nel 1984 e poi nel 1994.

L'ACCUSA Anche questa volta la procura gli contesta l'appartenenza alla famiglia mafiosa, quella di Palermo-Roccella (inserita nel mandamento di Brancaccio-Ciaculli). Il dottore aveva i gradi di grande ufficiale del crimine e per questo aveva voce in capitolo sulle più significative dinamiche del mandamento. In questo scenario accusava i giovani boss di scarsa tenuta «questo capo di tutto eh... neanche un giorno di carcere si è fatto e si è pentito», ma il suo cuore e soprattutto i suoi affari continuavano a essere legati a doppio filo a Cosa nostra. Nonostante gli anni di carcere scontati e la certezza di essere ancora oggetto delle attenzioni degli inquirenti, Guttadauro, storico padrino del mandamento di Brancaccio, non ha mai interrotto i suoi legami con le cosche.

La galera l'aveva lasciata nel 2012, dopo tre condanne definitive si era trasferito a Roma, proprio per tentare di non destare l'attenzione degli inquirenti, ma, attraverso il figlio Carlo, continuava a decidere le sorti delle «famiglie» mafiose palermitane e trafficava in droga. L'inchiesta che ha svelato gli affari dell'anziano capomafia, coordinata dalla Dda di Palermo, nasce dalle indagini per la ricerca del boss Matteo Messina Denaro: il fratello di Guttadauro, Filippo, è cognato del padrino ricercato. Del «dottore» il gip di Palermo sottolinea la avversione naturale al rispetto delle regole dell'ordinamento giuridico. «Ti devi evolvere, hai capito? Il problema è rimanere con quella testa, ma l'evoluzione...», diceva al figlio, suo trait d'union con i clan, invitandolo a rispettare le regole di Cosa nostra pur stando al passo con i tempi.

CONTROVERSIE Da Roma il dottore, che aveva una florida attività di commercio ittico in Marocco - è stato arrestato proprio mentre rientrava dal nord Africa - dirimeva le controversie tra i clan sull'esecuzione di lavori edili commissionati dall'Eni a Brancaccio, progettava la costruzione di un grosso distributore di carburante, gestiva, insieme al clan di Bagheria e Roccella un traffico di stupefacenti, occupandosi dell'approvvigionamento della cocaina dal Sudamerica e dell'hashish dall'Albania. Il giudice, che lo ha messo ai domiciliari, sottolinea il ruolo ancora decisionale di Guttadauro che «forte della sua caratura mafiosa da soggetto che aveva ricoperto posizione di vertice in seno alla consorteria, ancora poteva dirimere i contrasti insorti sul territorio e risolvere, con autorità para statale le vertenze criminali».

A Roma il dottore aveva stretto relazioni importanti con esponenti dei salotti buoni. L'inchiesta ha svelato che aveva cercato di risolvere un contenzioso tra una facoltosa romana, Beatrice Sciarra, moglie di un chirurgo docente alla Sapienza, e Unicredit. A incaricare il boss di risolvere il problema sarebbe stata la Sciarra che vantava un credito di 16 milioni di euro con l'istituto di credito. In cambio del suo intervento il capomafia aveva pattuito un compenso del 5% della somma che la donna avrebbe incassato. 

Guttadauro, emerge dalle intercettazioni, aveva fatto capire che sarebbe passato, in caso di esito infruttuoso della sua mediazione, all'azione violenta, incaricando qualcuno di «dare legnate» al soggetto che impediva la transazione, l'ex ministro Mario Baccini. Baccini, a dire di un altro intermediario, assieme all'ex consigliere di Stato Eugenio Mole, avrebbe potuto interferire nella questione pregiudicandone l'esito. Guttadauro venne coinvolto nell'indagine, denominata talpe alla Dda, che costò una condanna per favoreggiamento alla mafia a 7 anni all'ex governatore siciliano Totò Cuffaro. 

Massimo Sanvito per Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022.

Il dottore comandava ancora. Ufficialmente commerciante di pesce in Marocco e impegnato nel volontariato a Roma, nei fatti mafioso mai sopito, nonostante le tre condanne, soggiorno nella Capitale, contatti buoni coi salotti romani, da lì gestiva i traffici illegali tra i clan palermitani per i lavori edili commissionati dall'Eni a Brancaccio, progettava la costruzione di un nuovo grande distributore di carburante e smazzava i carichi di cocaina dal Sudamerica e quelli di hashish dall'Albania insieme ai clan di Bagheria e Roccella. 

Per i giovani di Cosa Nostra non aveva parole carine - «sono quattro banditelli da tre lire» - mentre al figlio Mario Carlo dava lezioni: «Ti devi evolvere, hai capito? Il problema è rimanere con questa testa, ma l'evoluzione...». Giuseppe Guttaduro, ex primario dell'ospedale civico di Palermo, storico padrino del mandamento Brancaccio-Ciaculli, è finito in manette (ai domiciliari). Ancora. Insieme al pargolo (in galera): l'accusa, manco a dirlo, è associazione di stampo mafioso. I Carabinieri del Ros lo hanno preso mentre stava rientrando a Roma dal Nordafrica. Dal 2012, quando fu scarcerato, non avevano mai spesso di tenerlo d'occhio.

L'INCHIESTA Decisiva è stata l'inchiesta, coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Palermo e dal procuratore aggiunto Paolo Guido, nata dalle indagini per le ricerche del superlatitante Matteo Messina Denaro, cognato di Filippo Guttadauro, il fratello del dottore. In un'intercettazione, il più giovane della famiglia, Mario Carlo, in risposta a un amico che gli chiedeva se pensava di essere controllato, diceva: «Ma certo, ho il parente del mio parente che è il più importante latitante che c'è. Il secondo del mondo, il più importante che c'è in Italia».

Anche i telefoni di Giuseppe erano sotto monitoraggio dei Carabinieri. Lo ascoltavano mentre parlava di carichi di droga che passavano per Rotterdam. «Questi salgono 100 chili al mese. Allo scarico funziona così. Ci sono i doganieri, che prendono il 25 per cento». Ma il narcotraffico era solo una parte della sua quotidianità criminale. Dall'inchiesta che lo ha coinvolto è emerso anche l'interessamento da parte del dottore nel cercare di risolvere un contenzioso tra Beatrice Sciarra, nobildonna romana e moglie di un chirurgo docente alla Sapienza, e Unicredit. 

Lei vantava un credito di ben 16 milioni di euro con la banca e Guttadauro avrebbe mediato per trovare una soluzione in cambio del 5% della somma recuperata. Prima con le buone e poi con le cattive se non fosse andata come diceva lui, incaricando qualcuno di «dare legnate» a chi ostacolava la transazione.

Ovvero l'ex ministro Mario Baccini. Il gip di Palermo, dell'ex primario dell'ospedale civco, ha sottolineato «la perdurante appartenenza al sodalizio di tipo mafioso, in particolare della famiglia di Roccella». E ancora: «Forte della sua caratura mafiosa da soggetto che aveva ricoperto posizione di vertice in seno alla consorteria, ancora poteva dirimere i contrasti insorti sul territorio e risolvere, con autorità para statuale le vertenze criminali». 

Già, perché Guttadauro era già stato arrestato nell'84, nel '94 e nel 2002 nell'operazione "Ghiaccio" che coinvolse anche l'ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, a sua volta condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia. L'inchiesta, coordinata dai pm della dda dell'epoca, Maurizio de Lucia e Michele Prestipino, svelò, proprio partendo dagli accertamenti sul medico, una rete di informatori che davano notizie riservate su indagini in corso anche all'imprenditore mafioso Michele Aiello.

RIVELAZIONI Il nome del presidente della Regione emerse da un'intercettazione effettuata a casa del boss di Brancaccio. Era il 15 giugno 2001 e una cimice nascosta registrò: «Ragiuni avia Totò Cuffaro».

Ad avvisare Guttadauro che all'interno del suo appartamento ci fossero microfoni era stato Domenico Miceli, anch' egli medico, delfino del governatore, che proprio da lui aveva ricevuto l'informazione. Il dottore era stato scarcerato nel 2012 per poi trasferirsi subito a Roma. Non voleva dare troppi sospetti. Eppure il suo legame con la mafia è sempre rimasto solido, un patto di sangue con Cosa Nostra e le famiglie di Brancaccio. Disprezzava le nuove generazioni di mafiosi e odiava i pentiti. 

«Questo capo di tutto eh... neanche un giorno di carcere si è fatto e si è pentito», diceva. E dispensava consigli ai più giovani. Un maestro criminale che dispensava consigli ai suoi allievi: «Non puoi scendere a livello dei picciutteddi, non va bene. Devi metterti a un livello diverso».

L'operazione e le accuse. Cosa Nostra, arrestati “il dottore” Giuseppe Guttadauro e il figlio: “Dal jet set romano alla droga dal Sudamerica”. Vito Califano su Il Riformista il 13 Febbraio 2022. 

Arrestati “il dottore” Giuseppe Guttadauro e il figlio Mario Carlo. L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal gip del Tribunale di Palermo ed eseguita dai carabinieri del Ros a Palermo. L’accusa è di associazione di tipo mafioso: padre e figlio sono accusati di appartenere alla famiglia di Cosa Nostra di Palermo-Roccella inserita nel mandamento di Brancaccio-Ciaculli. Sarebbero intervenuti anche nelle più significative dinamiche del mandamento mafioso di Villabate-Bagheria. Giuseppe Guttadauro è ai domiciliari, il figlio in carcere.

Le indagini sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Giuseppe Guttadauro era medico all’Ospedale Civico di Palermo, fratello di Filippo, cognato del superlatitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Era stato arrestato l’ultima volta nel maggio del 2002 e scarcerato nel 2012. Secondo gli investigatori avrebbe mantenuto contatti con l’organizzazione mafiosa di riferimento tramite il figlio Mario Carlo. Guttadauro padre fu coinvolto nella vicenda giudiziaria sulle talpe alla Dda in cui fu indagato anche l’ex Presidente della Regione Siciliana Toto Cuffaro, che in questi giorni presenta nell’isola il proprio movimento politico.

Secondo le indagini Mario Carlo Guttadauro sarebbe intervenuto per conto del padre per risolvere i contrasti sorti a Palermo e per una questione per precisa: dei lavori che dovevano essere realizzati in una struttura industriale nella zona di Brancaccio. “Il dottore”, com’era soprannominato Giuseppe Guttadauro, sarebbe stato infastidito dai comportamenti delle nuove generazioni di mafiosi, desunte dalla collaborazione di Francesco Colletti (uomo d’onore poi pentito), e preoccupato dalle dichiarazioni di un altro collaboratore, Filippo Bisconti. Le informazioni sono state apprese dalle intercettazioni.

Oltre a curare gli affari di Cosa Nostra con i vertici pro-tempore della famiglia mafiosa di Bagheria, curando il traffico di droga di un bagherese, si sarebbe occupato anche della pianificazione dell’arrivo dell’hashish dall’Albania e di cocaina dal Sud America. Un assistente di volo avrebbe dovuto trasportare 300 mila euro in Brasile nel momento in cui il carico di droga dal Sud America fosse arrivato in Olanda.

L’Agi scrive che l’influenza di Guttadauro si sarebbe estesa fino a Roma, dove si era trasferito dopo la scarcerazione: gli sarebbe stato chiesto, dietro lauto compenso, di intervenire per risolvere un contenzioso da 16 milioni di euro che una facoltosa donna romana aveva con un istituto bancario; se la mediazione fosse fallita sarebbe scattato il pestaggio dei soggetti che ostacolavano la soluzione. La vicenda avrebbe provato le frequentazioni dell’arrestato nel jet set della Capitale.

A Palermo due indagati avrebbero picchiato a sangue, secondo le indagini sul mandato del figlio, un giovane che aveva accusato Mario Carlo Guttadauro. Giuseppe avrebbe parlato al figlio della necessità di “evolversi” pur conservando i “principi” di Cosa Nostra. Nell’ambito della stessa indagine sono indagati, ma non destinatari di provvedimenti cautelari, altri soggetti palermitani, tre dei quali considerati affiliati alla famiglia di Palermo-Roccella, e due in concorso con Mario Carlo Guttadauro, di lesioni aggravate.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Finisce l'era dei pizzini, cellulari criptati dalla Calabria per i boss siciliani. Sequestrati tre telefonini, caccia ai codici per decifrarli. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 21 gennaio 2022. 

La nuova frontiera delle comunicazioni criminali. Fbi ed Europol sono già riusciti a bucare i sofisticati software, ma sul mercato sono arrivati nuovi modelli.  

Boss e trafficanti di droga palermitani provano ad arginare il Grande fratello delle intercettazioni con telefonini criptati di ultima generazione, che assicurano comunicazioni “ blindate”. Negli ultimi mesi, ne sono stati sequestrati tre in città. E, adesso, un’indagine della direzione distrettuale antimafia sta cercando di ricostruire da dove arrivino. Una pista porta in Calabria: i boss dell’ndrangheta già da anni utilizzano gli ultimi ritrovati della tecnologia per le loro comunicazioni intercontinentali riguardanti i traffici di droga.

Palermo, «Dessert» il cavallo purosangue che ha fatto arrestare 22 mafiosi. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2022.

L’animale venne ucciso per vendetta in una stalla: dall’indagine sulla sua morte è emerso uno scontro tra clan per la gestione di una grossa partita di droga. Decisive le intercettazioni.

Non hanno fatto trovare la testa sanguinante di un cavallo sul talamo di un padrino. Ma, scimmiottando la trama del film di Francis Ford Coppola, un puledro l’hanno azzoppato davvero a colpi di revolver. In una stalla. Sotto gli occhi di un purosangue terrorizzato, poi ucciso a sua volta sempre per vendetta. Perché gli stalloni diventano in questa storia di mafia ambientata a Carini, a metà strada fra Palermo e il suo aeroporto, le vittime sacrificali di una lotta spietata fra due clan. Una mini-guerra senza picciotti caduti sul campo perché a pagare stavolta sono i meno implicati di tutti. Innocenti animali investiti dall’odio di controfigure che non hanno niente a che vedere con i Marlon Brando o gli Al Pacino descritti da Mario Puzo.

Il «napoletano» e lo «sporco»

Tutto nasce da una partita di un chilo e duecento grammi di droga contesi fra Andrea Giambanco e Giuseppe Mannino, «il napoletano» e «lo sporco», come vengono identificati nelle intercettazioni i protagonisti di una storiaccia approdata ai 17 arresti (22 inclusi i domiciliari) di ieri mattina e partita dalla notte del 17 luglio, dal raid in una stalla della vicina Torretta dove questi boss pronti ad ostacolarsi a vicenda custodivano i loro destrieri. È quello di Giambanco ad essere ferito per primo. La mafia di campagna davanti a presunti sgarri arriva al taglio degli ulivi. Adesso lo sgarro porta a sparare allo stinco di una bestia bloccata e indifesa nel suo box. Quella notte al proprietario, «il napoletano», la notizia arriva in fretta. Volano telefonate per i veterinari che soccorrono l’animale ferito guardandosi bene dall’avvertire i carabinieri. Poi, all’alba, echeggia un altro colpo di pistola. Stavolta per la contro-vendetta. Uccidendo con uno squarcio alla gola Dessert, il purosangue dello «sporco», quel Mannino citato in eloquenti intercettazioni da Giambanco rimproverando un suo uomo, Giuseppe Anile: «Ma tu come hai fatto ad immischiarti con lo spuorco, fammi capire?». E quello, pronto a giustificarsi attaccando: «“Cornuto e sbirro ‘sto spuorco».

L’eredità di Bono, il boss

Forse sospettavano soffiate di cui potevano fare a meno i carabinieri del colonnello Angelo Pitocco, entrati in allarme dopo i primi indizi raccolti a Carini. Decisi a fare chiarezza. Anche con intercettazioni telefoniche capaci di ricostruire una folta rete di spacciatori divisi fra le famiglie di Giambanco e Mannino. Con i due capi decisi a contendersi, poi anche con un gruppo guidato da Maurizio Di Stefano, l’eredità lasciata a Carini da Alessandro Bono, un «signore della droga» condannato a vent’anni di carcere giusto un anno fa.

La chat e il cinese

Non si sa quanto tempo resteranno in cella, ma l’ordinanza firmata dal gip Walter Turturici offre uno spaccato inquietante. Non solo per il sequestro di cinque chili di eroina. Anche per il sistema «aziendale» scoperto, visto che nelle chat dei clan erano compresi 500 nomi di fruitori costantemente monitorati. Richiamati se per qualche giorno non effettuavano acquisti. Come un call center. Subito contattati per verificare eventuali problemi o la scelta di avere cambiato fornitore. «Ciao ragazzi, sugnu u ‘zu Andrea, questo è il mio numero...», oppure «Ciao ho cambiato moto...». Ecco alcuni messaggi di Bonanno effettuati utilizzando un’utenza intestata a tale Xu Jianping, un cinese nato nel 1980, ufficialmente residente a Curti, nel Casertano. Forse ignaro di un traffico con 15 mila contatti al mese finalizzati ad altrettante «forniture». Un business che ha per vittime i fruitori e quel povero Dessert, il cavallo pulito dello «sporco».

·        La Stidda.

Da lasicilia.it il 19 gennaio 2022.  

Un assessore del Comune di Palagonia, Antonino Ardizzone, con delega alle Attività ricreative, Sport, Turismo e Spettacolo, è stato arrestato dai carabinieri per concorso nell’omicidio di Francesco Calcagno, assassinato nel paese della Piana di Catania il 23 agosto del 2017.  Per la Dda, il delitto «sarebbe stato commesso per agevolare un gruppo mafioso legato alla "Stidda" e avrebbe collegamenti con l’uccisione, il 5 agosto del 2016, del consigliere comunale Marco Leonardi». 

L’arresto è stato eseguito da carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Catania e della compagnia di Palagonia, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip su richiesta della Procura etnea. 

Le indagini dei militari dell’Arma sono state coordinate dalla Dda della Procura distrettuale di Catania. Per l’uccisione di Calcagno, assassinato con cinque colpi di pistola in un fondo agricolo, i carabinieri il 7 settembre del 2017 hanno arrestato il presunto autore materiale del delitto, Luigi Cassaro, 54 anni. Per la sua identificazione fu autorizzata la diffusione di un video in cui si vedeva l’uomo armato di pistola inseguire la vittima e poi fuggire. 

Calcagno, nell’ottobre del 2016 uccise a colpi di pistola in un bar, Marco Leonardi, un consigliere comunale eletto in una lista civica, anche lui armato. Dopo si costituì ai carabinieri confessando l’omicidio, sostenendo di avere agito per legittima difesa e parlando di un credito che vantava dalla vittima. Anche in quel caso la dinamica del delitto fu ricostruita grazie a un video.  

Secondo l’accusa, l'assessore Ardizzone «avrebbe fatto da tramite tra il mandante ed alcuni esponenti di rilievo della cosca mafiosa della "Stidda" per il reperimento del killer, per vendicare la morte di Marco Leonardi», ucciso da Calcagno.

Ad Ardizzone, arrestato dai carabinieri in esecuzione di un’ordinanza del Gip di Catania, la Procura distrettuale etnea contesta il reato di concorso in omicidio aggravato anche per agevolare l’attività criminosa di un gruppo mafioso attivo a Canicattì (Agrigento) e Palagonia ritenuto un’articolazione territoriale della «Stidda». 

Le indagini hanno permesso di inquadrare l’omicidio di Calcagno, assassinato nel suo podere di campagna il 23 agosto del 2017, come "ritorsione" per l’omicidio del consigliere comunale Marco Leonardi, ucciso il 5 ottobre del 2016 in un bar di Palagonia dopo una lite, pare per motivi economici, da Calcagno che sostenne la tesi della legittima difesa. Il delitto, contesta la Procura di Catania, sarebbe stato anche «uno strumento per affermare la presenza anche sul territorio di Palagonia di un gruppo mafioso vicino alla "Stidda", tradizionalmente operante nell’agrigentino e di cui l’indagato farebbe anche parte».

Secondo l’accusa «Ardizzone su richiesta del mandante (da individuarsi tra i soggetti vicini a Marco Leonardo), si sarebbe attivamente adoperato, con l’aiuto di esponenti di rilievo del citato sodalizio mafioso - dallo stesso conosciuti come tali - per la ricerca e il reperimento del killer che avrebbe dovuto eseguire materialmente l’omicidio del Calcagno». 

Le indagini proseguono per individuare altri responsabili. Per l’omicidio risulta essere stato condannato con sentenza definitiva a 30 anni di reclusione Luigi Cassaro, arrestato il 7 settembre del 2017 con l’accusa di essere l’esecutore materiale. Ad "incastrarlo" un video in cui si vedeva l’uomo armato di pistola inseguire la vittima e poi fuggire.  

Preso in Spagna Gioacchino Gammino. Riconosciuto su Google Maps, latitante catturato dopo 20 anni in fuga: “Come avete fatto?” Vito Califano su Il Riformista il 5 Gennaio 2022. “Come avete fatto? Non telefonavo alla mia famiglia da dieci anni”, ha lamentato il latitante al momento dell’arresto. Ecco come hanno fatto: due uomini che parlano in strada, sul marciapiede, davanti a un negozio di frutta e verdura. L’immagine dritta dritta da Google Maps riprendeva proprio lui: Gioacchino Gammino, boss agrigentino della “Stidda”, gruppo attivo soprattutto tra Agrigento, Caltanissetta e Ragusa. Era condannato all’ergastolo per omicidio. Ricercato dal vent’anni, dal 2002, è stato catturato in Spagna. La storia è stata raccontata da Repubblica.

L’operazione della Dia è stata coordinata dal Procuratore di Palermo (che sta per insediarsi a Roma) Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dal sostituto Gianluca De Leo. L’immagine di Google Maps arrivava da Galapagar, paese di circa 25mila abitanti, nella comunità autonoma di Madrid, capitale della Spagna. Alle spalle dei due, nell’immagine, che discutono il negozio: l’attività “El huerto de Manu”. Che però risulta chiusa da qualche tempo.

Tramite il numero di telefono gli agenti sono risaliti a un locale vicino, La cocina de Manu, anche questo chiuso nel 2014 ma che sulla sua pagina Facebook annoverava una foto del latitante, oggi 61enne, ma ancora riconoscibile per una cicatrice sulla parte sinistra del mento. Lo chef, a quanto pare. Gammino era fuggito dal carcere di Rebibbia a Roma durante le riprese di un film, con l’attrice Vittoria Belvedere, nel 2002.

“Come avete fatto a trovarmi? Non telefonavo alla mia famiglia da dieci anni”, ha detto incredulo l’uomo il 17 dicembre scorso quando è stato arrestato. È considerato tra i componenti del commando che il 29 agosto 1989, a Campobello di Licata, in piena faida tra Cosa Nostra e Stidda, assassinò per errore un passante scambiando con un mafioso. Giovanni Falcone, che indagò su di lui, lo considerava uno dei canali di collegamento con i clan che gestivano lo spaccio in Lombardia. Gammino in passato era fuggito in Spagna, nel 1998. Fermato a Barcellona, qualche mese dopo, era evaso poco più di tre anni dopo da Rebibbia.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        La ‘Ndrangheta.

«Gli ‘ndranghetisti non ragionano più in termini di territorio ma di potere economico e politico». ANTONIO ANASTASI il 13 Dicembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.

L’analisi di Antonio Nicaso sull’evoluzione degli ‘ndranghetisti che non puntano più sul territorio bensì sul potere economico e politico

Lo “sguardo presbite” della ‘ndrangheta e quello miope dei legislatori. Un anno fa, con “Complici e colpevoli”, si sono concentrati sul Nord Italia. Nel loro nuovo libro, l’analisi del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dello storico delle mafie Antonio Nicaso, si spinge “Fuori dai confini”.

Sotto la lente sempre la ‘ndrangheta, l’unica organizzazione criminale ad essere presente in tutti i continenti, e la sua espansione in quelle che una volta venivano chiamate le “aree non tradizionali” per distinguerle dai territori della genesi storica delle mafie. La tesi di fondo di “Fuori dai confini. La ‘ndrangheta nel mondo”, 143 pagine che si leggono tutte d’un fiato, pubblicate da Mondadori, è che nessun Paese è immune da quello che non può più essere equiparabile a una patologia contagiosa, come non sono immuni i sistemi politici e istituzionali.

Le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico e sociale in Germania, per esempio, sono possibili perché là le intercettazioni sono quasi sconosciute ed è più facile riciclare soldi sporchi che in Italia, dove gli accertamenti patrimoniali delle forze dell’ordine sono più stringenti. Una mafia, quella calabrese, sempre più deterritorializzata e dallo «sguardo presbite», ma se questo fa parte da tempo del dominio conoscitivo di magistrati e studiosi del calibro degli autori del libro, non lo è per il legislatore.

Né quello italiano né quello europeo né quello del resto del mondo. Chi non vuole capire che le mafie che non sparano sono quelle più sul pezzo, perché si si aggiornano, si ramificano e sono figlie del loro tempo, un tempo fatto di interconnessioni e social media, e per questo non sono meno pericolose di quelle sanguinarie che tengono sotto scacco interi territori del Meridione d’Italia, non ha colto che c’è un fenomeno che chiama in causa proprio giurisdizioni opache e non in grado di contrastare, attraverso adeguati strumenti normativi, l’occultamento di ingenti flussi finanziari e dei loro titolari effettivi.

Non a caso il libro si conclude con l’immagine, descritta da David Foster Wallace, del pesce anziano che va nella direzione opposta di due pesci giovani e chiede com’è l’acqua, mentre quelli giovani si fermano e rispondono: «Che cavolo è l’acqua?». Una metafora per rappresentare l’assuefazione dei mercati ai capitali mafiosi, ormai componente strutturale del capitalismo globale. Anche se Nicaso e Gratteri sembrano proprio non credere all’inconsapevolezza dei mercati, perché i soldi delle mafie sono parte integrante dell’economia globale. Ne abbiamo parlato con il professor Nicaso.

La strategia del basso profilo viene ripercorsa meravigliosamente nel libro. La tesi è quella di una ‘ndrangheta affaristica, che si muove sotto traccia e manda le giovani leve a studiare nelle migliori università italiane e del mondo perché possano servire al meglio l’organizzazione criminale. Professore, in che consiste lo “sguardo presbite” della ‘ndrangheta?

«Lo sguardo presbite è quello con cui la ‘ndrangheta acquisisce tutte le competenze necessarie per affrontare le nuove sfide. Mandare i figli alle università è più una metafora del futuro, di una possibile svolta, delle capacità di adattamento. Pensiamo al cyber space e ai profitti che genera. Prima o poi ci sarà una forma ibrida di criminalità organizzata che porterà gli ‘ndranghetisti a ragionare non più in termini di territorio ma di acquisizione di potere economico e politico grazie alla possibilità di entrare nei meandri del dark web. Penso ad una mafia capace di guardare lontano e di tenere conto delle nuove opportunità, per esempio le droghe sintetiche e il reinvestimento dei proventi in giurisdizioni opache. Lo stanno già facendo, gli ‘ndranghetisti, con applicazioni che si fanno costruire da tecnici informatici, con la criptofonia. La Dia dice che la ‘ndrangheta è la mafia che più di ogni altra si è adeguata alla rivoluzione digitale. Ecco perché bisogna attrezzarsi nell’azione di contrasto, non si fa più i conti con un’organizzazione che si muove in un territorio ristretto».

Se la ‘ndrangheta è presbite, il libro chiama in causa legislatori quantomeno miopi di fronte a una ‘ndrangheta che centellina la violenza, quindi desta meno allarme sociale, ma riesce a occultare i propri capitali nelle piazze finanziarie off-shore e a infiltrarsi nel tessuto socio-economico di Paesi sforniti di norme antiriciclaggio stringenti come quelle italiane…

«Se le mafie si sono globalizzate è perché l’azione di contrasto non ha fatto altrettanto. Il problema di fondo è questo. L’Italia ha gli strumenti per combattere il fenomeno, anche se andrebbero migliorati, ma molti altri Paesi non hanno gli strumenti né la capacità analitica per comprendere la pericolosità del fenomeno. Se la ‘ndrangheta spara di meno, ed è sempre meno violenta, diventa difficile convincere un legislatore a combattere un fenomeno che non si percepisce o non si vuole percepire. Questo è un grande problema in Europa, dove si confisca meno dell’uno per cento della ricchezza criminale delle mafie. Eppure se facciamo una mappatura della ‘ndrangheta, la troviamo in una quarantina di Paesi. Nonostante l’iniziativa dell’Interpol, non c’è grande volontà politica perché il progetto è finanziato solo dall’Italia, anche se molti Paesi hanno aderito».

Il modello italiano nell’attacco globale alla ‘ndrangheta continuerà ad essere tale dopo la stretta sulle intercettazioni e sul contante?

«La ‘ndrangheta quando fa riciclaggio non tiene conto di piccole modifiche normative, se si alza la soglia del contante questo può aiutare qualche piccolo trafficante, le grandi manovre si fanno nei Paesi che ancora tengono in piedi società di comodo o non hanno registri dei proprietari degli investimenti. L’Italia sta diventando sempre più periferica negli investimenti della ‘ndrangheta, in Calabria restano le briciole che rischiano di diventare briciole nel resto d’Italia perché le mafie hanno capito che è più vantaggioso investire all’estero, dove si trovano sempre meno ostacoli. All’estero la presenza dei broker della ‘ndrangheta è sempre più massiccia».

Il libro si apre con un capitolo sull’Ucraina. Dopo la guerra, le cosche avranno più armi? La ‘ndrangheta sta già sfruttando la crisi?

«Questo non è possibile ancora stabilirlo, ma alla luce di quanto le cosche hanno fatto in passato c’è il rischio che le armi possano finire nelle mani dei trafficanti e di chi le andrà eventualmente ad acquistare e utilizzare. C’è un allarme per evitare che possa ripetersi ciò che accadde alla fine della guerra nell’ex Jugoslavia, quando gli ‘ndranghetisti acquistarono plastico e kalashnikov tramite mediatori della Sacra corona unita in Montenegro. Il rischio è concreto perché durante la guerra russo-ucraina armi potenti sono finite in mano a persone che fino ad un anno fa facevano tutt’altro, magari erano professionisti o giovani disoccupati».

C’è anche un capitolo sulla Triple Frontera, luogo paradisiaco ma anche zona franca per le attività criminali, dove la ‘ndrangheta è sbarcata da tempo perché non si accontenta di essere l’interlocutore privilegiato dei narcos colombiani…

«La ‘ndrangheta ha rapporti con tutti, soprattutto con il Primeiro Comando da Capital, organizzazione che sta acquisendo sempre maggiore potere in America Latina, e da organizzazione carceraria si sta espandendo dappertutto. Nella Triple Frontera si saldano alleanze, si trovano investitori e riciclatori di denaro, si trovano armi, è una zona franca per tutti coloro che hanno necessità di acquistare cocaina o precursori chimici per droghe sintetiche, è uno di quei posti dove chi ha potere e denaro non può non esserci, perché la si creano fortune economiche».

Uno degli affari principali delle holding dell’illecito è quello del gaming. Il paradiso fiscale Malta è sempre più spesso la sede delle piattaforme del gioco d’azzardo online controllato dalla ‘ndrangheta…

«Questa è una delle prospettive del mondo digitale, ed è emersa con grande evidenza. Le bische di una volta sono divenute private room nei siti online, videopoker in cui si gioca virtualmente attraverso hacker. Insieme alle scommesse clandestine è una di quelle cose che la ‘ndrangheta ha abbracciato subito, senza remore, utilizzando piattaforme per il gioco d’azzardo. Sono prospettive che fanno fare soldi da portare poi alla luce per cui bisogna muoversi anche off line. Le mafie che immaginiamo sono quelle che hanno un piede off line e l’altro on line, coniugano spazio reale e virtuale e Malta offre l’opportunità di rastrellare soldi. Ma se è possibile giocare o scommettere dal mondo virtuale, a portare in superficie i soldi spesso sono professionisti che garantiscono questo servizio o banche che nascono e muoiono nel giro di una settimana».

Nel capitolo su ‘ndrangheta e realtà virtuale si analizza, tra l’altro, il fenomeno dei neomelodici e dei trapper che simpatizzano con disvalori legati al mondo criminale totalizzando migliaia di visualizzazioni. Si ricorda anche che il procuratore Gratteri, subito dopo la maxi operazione di Cosenza con 200 arresti, è stato minacciato di morte durante una diretta su Tik Tok. I social vengono però utilizzati dalle mafie anche per esteriorizzare potenza attraverso lo sfoggio delle loro ricchezze. Cosa si cela dietro questa nuova autonarrazione della ‘ndrangheta?

«Le nuove generazioni non sono quelle che avevano paura di portarsi dietro il telefonino pensando di avere un carabiniere in tasca, ma utilizzano i social media, smanettano sulle tastiere dei pc, hanno un profilo Facebook e minacciano su Tik Tok. Cose impensabili in passato, ma oggi sono realtà concreta. I mime sostituiranno i pizzini, gli emoji sostituiranno le lettere minatorie. In un mondo in evoluzione anche gli ‘ndranghetisti dovranno inventarsi una nuova narrazione, ma la strategia coagulante resterà sempre quella di creare consenso, senso d’identità e appartenenza».

Il dark web, con la consegna delle droghe sintetiche a domicilio, fenomeno accentuatosi dopo il lockdown, è la nuova frontiera? La ‘ndrangheta globale ha fiutato anche questo affare?

«Il dark web garantisce introiti straordinari, c’è attenzione delle grandi mafie che durante la pandemia hanno sfruttato le nuove tecnologie per vendere prodotti e servizi illegali. C’è da dire che le forze dell’ordine si stanno attrezzando e le polizie postali di tutto il mondo stanno rafforzando i loro ranghi perché è cambiato il protocollo investigativo e non si possono più fare indagini senza social media, ormai si seguono le foto postate su Fb anziché fare servizi di pedinamento. Con l’arrivo del metaverso i mafiosi potranno essere rappresentati da avatar nelle riunioni e organizzare spedizioni di droga dal proprio divano. Ma se il broker è rimasto sul divano e ha partecipato a una riunione virtuale un avatar, come si farà a stanarli, quando gli ‘ndranghetisti dialogheranno tramite piattaforme che consentono di interagire in sicurezza? Ecco perché bisogna avere lo sguardo presbite. Ma sul piano politico si sta tornando indietro perché si stanno mettendo in discussione misure che sembravano acquisite, consolidate ed efficaci nella lotta contro la criminalità mafiosa».

La geografia della 'ndrangheta, viaggio tra le cosche attive in Calabria. Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2022.

La geografia della ‘ndrangheta, viaggio attraverso le cosche attive nel territorio della Calabria provincia per provincia

Pubblichiamo stralci della relazione della Dia al Parlamento (secondo semestre 2021) dalla quale si evince chiaramente la geografia delle cosche aggiornata dagli analisti dell’antimafia. È solo il caso di appuntare che la relazione è aggiornata alla fine del 2021, per cui, per esempio, non risultano le recentissime ricostruzioni degli inquirenti sui clan operanti a Cosenza e hinterland, secondo il “sistema” confederato a cui si fa riferimento nella maxi inchiesta “Reset” risalente a qualche settimana fa.

Indice

‘NDRANGHETA, LE COSCHE IN PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA

‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CATANZARO E NEL CAPOLUOGO

‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI VIBO VALENTIA

‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CROTONE

‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI COSENZA

 

‘NDRANGHETA, LE COSCHE IN PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA

Mandamento CENTRO

Le pronunce giudiziarie e le analisi di settore degli ultimi anni confermano una ripartizione delle aree di influenza della criminalità organizzata reggina secondo le macro-aree del “mandamento centro” che ricomprende la città di Reggio Calabria e le zone ad essa limitrofe, del “mandamento tirrenico” che si estende sull’omonima zona tirrenica la c.d. “Piana” e del “mandamento ionico” che insiste sulla fascia jonica la c.d. “Montagna”.

Nella città di Reggio Calabria si conferma una certa stabilità degli assetti criminali verosimilmente in linea con la strategia di silente salvaguardia dei superiori interessi economici delle cosche. (…) Nel mandamento centro risultano egemoni le cosche LIBRI, TEGANO, CONDELLO e DE STEFANO come peraltro testimoniato da importanti e recenti pronunciamenti giudiziari.

Continuando con la mappatura geo-criminale del mandamento centro oltre ai menzionati DE STEFANO, CONDELLO, LIBRI e TEGANO si registra l’operatività della ‘ndrina SERRAINO nei quartieri reggini di San Sperato e nelle frazioni di Cataforio, Mosorrofa e Sala di Mosorrofa e nel comune di Cardeto. (…)

Nei rioni Modena, Ciccarello e San Giorgio Extra risultano attivi i ROSMINI legati ai SERRAINO e i BORGHETTO-ZINDATO-CARIDI federati alla cosca LIBRI. (…)

A sud della città risultano attivi a Sambatello-Gallico gli ARANITI mentre nel quartiere Geb-bione è operativa la cosca LABATE-ti mangiu. (…)

Nel comune di Scilla l’attivismo dei NASONE-GAIETTI è stato in parte ridotto da un’azione investigativa conclusa dai Carabinieri il 15 luglio 2021. (…)

Per concludere a S. Lorenzo, Bagaladi e Condofuri si conferma la presenza della cosca PAVIGLIANITI legata alle famiglie FLACHI, TROVATO, SERGI e PAPALIA. (…)

Mandamento TIRRENICO

Le cosche del mandamento tirrenico continuano ad esprimere una spiccata vocazione imprenditoriale. In linea di massima l’ingerenza delle cosche si espliciterebbe attraverso la gestione per interposta persona degli appalti secondo logiche prestabilite di spartizione.

Nella Piana di Gioia Tauro si continua a registrare l’operatività dei gruppi PIROMALLI e MOLÈ nei cui confronti è proseguita l’azione di contrasto anche di natura ablativa da parte delle autorità inquirenti verso i patrimoni illecitamente accumulati. Particolarmente incisiva è stata l’azione di contrasto sul territorio della Piana di Gioia Tauro a carico dei gruppi PIROMALLI e MOLÈ risultati destinatari di numerosi provvedimenti giudiziari. (…)

Nell’area di Gioia Tauro oltre ai citati PIROMALLI risulta attivo anche il gruppo DE MAIO-BRANDIMARTE.

LA SITUAZIONE A ROSARNO E SAN FERDINANDO

Nel comprensorio di Rosarno e San Ferdinando si registra l’operatività delle cosche PESCE e BELLOCCO particolarmente capaci nell’infiltrare l’economia locale ma anche impegnati in diversi traffici illeciti specie in ambito portuale, nelle estorsioni, nell’usura e nella gestione dei giochi e delle scommesse. I gruppi sono stati interessati nel semestre in esame da varie decisioni giudiziarie e azioni investigative che ne hanno affievolito la capacità operativa. (…)

Si ricorda che nel mese di gennaio 2021 i Carabinieri a conclusione dell’operazione “Faust” avevano dato esecuzione ad una misura restrittiva nei confronti di 49 persone ritenute re-sponsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, traffico di stupefacenti, detenzione illegale di armi, tentato omicidio, usura e procurata inosservanza di pena. L’attività investigativa avviata dal 2016 aveva consentito di acclarare la radicata operatività della cosca PISANO detta anche dei “diavoli di Rosarno” collegata ai PESCE e mediante una rete collaudata di cointeressenze criminose anche con altre cosche del territorio della provincia di Reggio Calabria quali quelle di Polistena (RC) e di Anoia (RC).

(…) Anche le famiglie CACCIOLA e GRASSO risultano radicate nella Piana di Gioia Tauro e sono riconducibili alla società di Rosarno. (…) Nell’area di Rizziconi permane l’operatività della famiglia CREA con proiezioni anche nel centro e nord Italia. (…)

A Sinopoli, Sant’Eufemia e Cosoleto si registra l’influenza degli ALVARO. A Cittanova permane l’operatività delle famiglie FACCHINERI e ALBANESE – RASO-GULLACE colpite nel periodo in esame da numerosi provvedimenti ablativi della DIA. Mentre a Taurianova si registra l’egemonia del gruppo AVIGNONE-ZAGARI-VIOLA-FAZZALARI e del sodalizio SPOSATO-TALLARIDA. Nel comune di Laureana di Borrello infine risulterebbero attivi i sodalizi LAMARI e CHIN-DAMO-FERRENTINO. (…)

Mandamento IONICO

Le cosche del mandamento ionico confermano una forte propensione per il traffico internazionale di stupefacenti, riuscendo a movimentare grandi quantitativi di droga grazie a consolidati rapporti di affidabilità con i fornitori stranieri. Per quanto attiene alla mappatura geo-criminale delle consorterie si richiama in primo luogo il locale di Platì in seno al quale si conferma l’operatività delle cosche federate BARBARO-TRIMBOLI-MARANDO che annoverano proiezioni operative nel nord Italia. Nel locale di San Luca risultano egemoni le cosche PELLE-VOTTARI-ROMEO e NIRTA-STRANGIO.

Proprio San Luca è da sempre considerato la “mamma” di tutti i locali di ‘ndrangheta. Qui è infatti presente il Santuario della Madonna di Polsi noto per i summit nel cui corso si orientano gli affari, si definiscono le alleanze, si dirimono le controversie e vengono dettate le strategie criminali della ‘ndrangheta.

Si ricorda inoltre che esponenti della famiglia sanlucota GIORGI detti “Boviciani” sono risultati coinvolti tra gli altri nell’operazione “Platinum – DIA” del maggio 2021, in quanto ritenuti re-sponsabili di narcotraffico (…)

Con riguardo al locale di Africo risulta egemone la cosca MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI fortemente proiettata anche oltre i confini regionali. Nel corso della stesura della presente relazione è stata perfezionata la procedura di estradizione di un noto esponente della cosca MORABITO, i cui dettagli saranno approfonditi nella prossima relazione (…)

Per quanto riguarda il locale di Siderno è attiva la cosca COMMISSO caratterizzata da una spiccata vocazione a proiettare all’estero i propri interessi criminali soprattutto in Canada. Tale consorteria risulta in contrapposizione ai COSTA-CURCIARELLO insistenti nel medesimo territorio. (…)

Le cosche CATALDO e CORDÌ dopo quarant’anni di faida tra le più cruente della storia della ‘ndrangheta sembrerebbero aver trovato un equilibrio con la spartizione del comprensorio di Locri cui si sarebbero adeguati anche i sodalizi AVERSA-ARMOCIDA, URSINO e FLOCCARI satelliti delle due principali cosche. (…)

LE COSCHE DI ‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CATANZARO E NEL CAPOLUOGO DELLA CALABRIA

Nel semestre in parola nel Distretto di Catanzaro lo scenario criminale e l’operatività della criminalità organizzata ha confermato la pericolosità delle cosche incentrata sulla sempre maggiore capacità di penetrazione nei contesti economici, politico-amministrativi e sociali.

Si osserva tuttavia una staffetta generazionale causata dal venir meno di capi e affiliati di rilievo decimati dai numerosi arresti e dalle inchieste giudiziarie.

Nel territorio di Catanzaro non si sono registrati mutamenti significativi circa la mappatura criminale dove rimane salda la presenza dei clan “storici” come i GAGLIANESI, nonché quella dei GRANDE ARACRI di Cutro e dei cd. ZINGARI (famiglie COSTANZO-DI BONA, ABBRUZZESE-BEVILACQUA, PASSALACQUA, BERLINGERI) attivi nelle attività usuraie con la finalità di rilevare attività economiche in sofferenza per poi “affidarle” a prestanome.

È doveroso tener presente come la criminalità organizzata in questo ultimo periodo potrebbe annoverare tra i suoi interessi principali quello verso i fondi del PNNR. Anche il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha lanciato l’allarme sul pericolo concreto che i fondi del PNRR e le imprese siano nel mirino dell’‘ndrangheta. (…)

IL RUOLO DEI GRANDE ARACRI

La cosca dei GRANDE ARACRI continua ad esprimere la sua presenza nel territorio mentre nel capoluogo risulta attiva quella dei GAGLIANESI e degli ZINGARI soprattutto nei quartieri meridionali della città. (…) Permane l’operatività delle ‘ndrine nel settore degli stupefacenti in linea con il trend che vede la criminalità organizzata calabrese come principale importatore e distributore del mercato degli stupefacenti. (…)

Nell’area del territorio di Lamezia Terme ed in particolare in Sambiase, Sant’Eufemia, Curinga e Nocera Terinese è attiva la cosca IANNAZZO-DA PONTE-CANIZZARO. La TORCASIO-CERRA-GUALTIERI opera invece a Nicastro soprattutto nel centro storico e in località Capizzaglie. Nel restante territorio di Nicastro sono attivi i GIAMPÀ. (…)

Nella zona di Soverato operano oltre alla sopracitata cosca dei GALLACE di Guardavalle i SIA-PROCOPIO-TRIPODI. Infine nell’area delle cd. Preserre, ovvero nei comuni di Chiaravalle e Torre di Ruggiero sono attive le cosche IOZZO-CHIEFARI.

‘NDRANGHETA IN CALABRIA, LE COSCHE NELLA PROVINCIA DI VIBO VALENTIA

Nella provincia di Vibo Valentia continua l’egemonia della cosca dei MANCUSO di Limbadi qualificato interlocutore con i clan della provincia di Reggio Calabria e in particolare con quelli stanziati da tempo nella Piana di Gioia Tauro.

La provincia vibonese negli ultimi tempi è stata oggetto di diverse operazioni e inchieste giu-diziarie quali “Rinascita-Scott” e “Imponimento” ampiamente descritte nei semestri precedenti. (…)

A Vibo Valentia si registra la presenza dei LO BIANCO-BARBA, dei CAMILLÒ-PARDEA e dei PUGLIESE, mentre sul litorale del capoluogo dei MANTINO-TRIPODI che vantano proiezioni anche fuori regione. Nell’hinterland della città è persistente il locale di Piscopio.

Nelle zone tra Maierato, Stefanaconi e Sant’Onofrio risultano rispettivamente attive le famiglie PETROLO, PATANIA e BONAVOTA. Nell’area di Serra San Bruno sono presenti i VALLELUNGA-Viperari, mentre nel comune di Soriano Calabro gli EMANUELE in contrasto con i LOIELO.

Nella zona di Zungri e Briatico rimane attiva l’operatività degli ACCORINTI-FIAMMINGO-BARBIERI-BONAVENA, a Tropea sono presenti i LA ROSA, mentre nei comuni di Piz¬zo Calabro, Francavilla Angitola, Filogaso e Maierato sarebbero attive le famiglie FIUMARA, MANCO e CRACOLICI.

‘NDRANGHETA NELLA PROVINCIA DI CROTONE

Nel territorio della provincia crotonese si continua a registrare la presenza egemone dei GRANDE ARACRI di Cutro, ormai da anni punto di riferimento delle altre consorterie criminali della provincia con significative proiezioni nel nord Italia.

Nel capoluogo risulterebbero operative le famiglie VRENNA-CORIGLIANO-BONAVENTURA e i BARILARI-FOSCHINI. La famiglia TORNICCHIO-MANETTA rimarrebbe egemone in località Cantorato, mentre i MEGNA e i RUSSELLI sarebbero attivi nella frazione di Papanice e a sud del capoluogo, nella zona di Isola di Capo Rizzuto sono attivi gli ARENA-NICOSCIA-MANFREDI-CAPICCHIANO. (…)

La famiglia MANFREDA rimarrebbe egemone nell’area di Petilia Policastro ove si registra l’operatività di epigoni dei COMBERIATI-GAROFALO che appaiono fortemente indeboliti dalle inchieste degli ultimi anni con una presenza sempre meno attiva.

A Mesoraca risulta attivo il gruppo FERRAZZO mentre a Cirò risultano operativi i FARAO-MARINCOLA i quali confermerebbero la loro pericolosità anche nel nord Italia. A Strongoli sarebbero presenti i GIGLIO, mentre a Belvedere di Spinello, Rocca di Neto, Santa Severina e in altri comuni della Valle del Neto risultano attivi gli IONA-MARRAZZO-OLIVERIO e a Roccabernarda i BAGNATO.

‘NDRANGHETA IN CALABRIA, LE COSCHE NELLA PROVINCIA DI COSENZA

La provincia di Cosenza continua a registrare la presenza e l’operatività delle cosche LANZINO-PATITUCCI, PERNA-CICERO, nonché quella degli ABBRUZZESE e RANGO-ZINGARI rappresentata da eredi della cosca BRUNI e degli ZINGARI con a capo elementi della famiglia RANGO.

Gli interessi criminali nell’area sono sempre rivolti sia alle tradizionali attività illecite quali le estorsioni, l’usura e i traffici di droga, sia agli appalti. (…)

Nella zona tirrenica della provincia risulterebbero tuttora attivi i clan dei VALENTE-STUMMO a Scalea e nell’area di Paola dei MARTELLO-SCOFANO-DITTO e SERPA tra loro contrapposti e dei RANGO-ZINGARI di Cosenza.

Ad Amantea invece sarebbero operative le famiglie BESALDO, GENTILE e AFRICANO, mentre i MUTO risulterebbero attivi soprattutto nel traffico di sostanze stupefacenti a Cetraro.

Sul versante jonico cosentino dalla Sibaritide fino a Scanzano Jonico (MT) sono tuttora egemoni a Cassano allo Ionio gli ABBRUZZESE e i FORASTEFANO-PORTORARO-FAILLACE a Rossano i GALLUZZI-ACRI-MORFÒ, nonché altri gruppi locali dediti prevalentemente al traffico di sostanze stupefacenti, alle estorsioni e ai correlati atti intimidatori specie nelle zone a vocazione turistica.

Estratto dall'articolo di Luca De Vito e Massimo Pisa per “la Repubblica” il 7 settembre 2022.

Pillole di codice criminale: «Bisogna guardare anche chi c'è dietro nella vita, non solo con chi stai parlando adesso: se noi andiamo dal figlio di Franco Coco, dobbiamo guardare chi c'è dietro, il rispetto». Solo chi porta un certo cognome, come il figlio di don Pepè, può andare a discutere a muso duro di certi affari. 

Nel nome dei padri. I Flachi e i Coco Trovato. Che negli anni Ottanta e Novanta imposero la loro legge alla Comasina e a Bruzzano, quartieri a nord di Milano […]. 

Già arrestato e condannato insieme al capostipite una decina di anni fa, rampante boss del movimento terra e del pizzo alle discoteche, Davidino Flachi aveva diversificato gli affari: hashish e cocaina, kalashnikov e truffe alle assicurazioni. Col peso del suo nome ("il Gigante", lo motteggiavano gli affiliati per la sua statura) a fare da garanzia nella grammatica criminale milanese. […]

Ora il suo clan è stato azzerato da un'inchiesta della Guardia di Finanza di Milano e quella di Pavia, coordinate dalla Dda del capoluogo lombardo che ha portato a tredici fermi e a una serie di sequestri. 

Sigilli anche per una carrozzeria di Cormano, nell'hinterland, base dei traffici. È nelle vicende legate a questa officina che salta fuori il nome di Franco Terlizzi, ex partecipante dell'Isola dei Famosi , un passato da pugile e coinvolto, come pr e buttafuori della storica discoteca Hollywood, nella vecchia inchiesta che aveva portato in carcere don Pepè e Davidino.

Per i pm Gianluca Prisco e Francesco De Tommasi della Dda milanese, e Andrea Zanoncelli della Procura di Pavia, Terlizzi era di fatto un prestanome che serviva a gestire l'officina il cui core business erano gli incidenti simulati: «Tu non fai un cazzo e prendi il grano ma ti rendi conto, Franco? », gli diceva Flachi intercettato. 

E poi ancora: «Se tu sei in piedi è grazie a me ma lo vuoi capire... qua se non ci sono io la baracca qua chiude». Terlizzi, secondo le indagini, era anche il tramite con le forze dell'ordine: un ex carabiniere a cui Flachi e Terlizzi si rivolgevano per presentare le denunce di danneggiamento alla caserma di Milano Affori e un poliziotto in servizio alla Dia, che indirizzava l'ex pr al commissariato Centro.

E che, secondo i pm, gli passava informazioni sulle indagini, motivo per cui i magistrati hanno deciso di procedere d'urgenza con il fermo. Difeso dall'avvocato Antonino Crea, Terlizzi si è dichiarato estraneo ai fatti e pronto a spiegare. 

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 7 settembre 2022.

Tra i clienti della carrozzeria c'era anche l'ex moglie del calciatore Massimo Oddo. Per lei, il «pugile» Franco Terlizzi chiede attraverso l'ex carabiniere Cosimo Caputo (in congedo da dieci anni e oggi indagato) un appuntamento «di cortesia» in caserma per una denuncia: «Gli hanno rigato tutta la macchina. Puoi venire tu? Mi fai un piacere enorme. Ce l'ho in carrozzeria». 

Ma l'ex boxeur dei pesi massimi leggeri diventato noto all'Isola dei famosi (edizione 2018), aveva contatti con mezza Milano. Quella dello spettacolo e della notte: 66 mila seguaci su Instagram, pr ed ex security della discoteca Hollywood di corso Como, grande tifoso milanista, un presente come personal trainer dei Vip, scatti con i più diversi volti noti di tv e sport, da Raffaella Fico e Massimiliano Allegri a Paolo Ruffini e Filippo Inzaghi, fino a Fedez, con cui ha una foto del dicembre 2020. È finito in manette all'alba di ieri nel blitz della Direzione distrettuale antimafia di Milano contro i nuovi assetti del clan Flachi della 'ndrangheta.

Tredici i fermi eseguiti dalle fiamme gialle di Milano e Pavia e firmati dai pm Gianluca Prisco e Andrea Zanoncelli. Terlizzi, 60 anni, è accusato di aver organizzato una serie di truffe alle assicurazioni e di intestazione fittizia di beni per conto della famiglia mafiosa. Tra i clienti della carrozzeria «Nuova Milano» di Cormano che si rivolgevano a Terlizzi e soci per «fare la cresta» sulle assicurazioni denunciando sinistri mai avvenuti, c'era anche una persona, ora indagata, imparentata alla lontana con la famiglia Maldini. 

E gli investigatori della guardia di Finanza hanno annotato 337 contatti nel periodo d'indagine con Piercesare Maldini, fratello del manager e storico capitano rossonero Paolo. «Non posso negare di conoscere Davide Flachi, ma con lui ho solo avuto rapporti professionali e commerciali.

Non ho mai avuto a che fare con le ipotetiche truffe e i traffici di droga contestati», le parole di Terlizzi all'avvocato difensore.

Eppure già nel 2012 il suo nome era emerso nell'inchiesta Redux-Caposaldo che aveva portato alla condanna del boss Pepé Flachi, il re della Comasina, e di suo figlio Davide. 

Il capofamiglia, uno dei nomi più importanti della 'ndrangheta in Lombardia, è morto a 70 anni, ergastolano, a gennaio di quest' anno. Al funerale gli abbracci e le lacrime, avevano solo certificato quello che già era chiaro: il figlio Davide Filippo Vincenzo, 43 anni, ne avrebbe preso la piena eredità. «Lui è piccolino però picchia di brutto, e poi essendo "figlio di", la gente aveva paura. Prima lo rispettavano per il padre, ora per lui stesso».

Tanto che nelle intercettazioni dei suoi tirapiedi, «Davidino», così chiamato da sempre per la statura non proprio imponente, era diventato con un tocco di ruffianeria «il gigante»: «È messo bene, ha delle belle amicizie... è uno che si fa valere. Già ai tempi lo avevano arrestato perché era con suo padre (Pepé, ndr), gli hanno dato l'associazione perché prendevano le tangenti in tutta Milano». 

Davide Flachi è il braccio violento della famiglia: «È già tanto che entri ancora in Comasina ad abitare - l'intimidazione a un addetto alle consegne di droga - ti piglio la testa e te la faccio volare pezzo di me... metti le mani in tasca e pensi di farmi il lavoro a me. Il lavoro lo faccio io a te e a tutta la tua settima generazione».

Nell'inchiesta non viene contestato il reato di associazione mafiosa ma ruota intorno al traffico di coca, hashish e marijuana. «Cugino, mi raccomando fai una vita tranquilla, stai lontano dai paesani», così Flachi jr istruiva il suo fedelissimo Santo Crea. 

Grazie a cellulari criptati la banda comprava e vendeva droga e armi con tanto di foto promozionali: «Senti hanno armi, un mitra, un fucile a pompa e una 22. Vogliono 3.500 euro, con tutti i colpi». Il provvedimento di fermo è scattato per il rischio di fuga e inquinamento delle indagini: Terlizzi aveva contatti anche con un ispettore di polizia in servizio alla Dia. Anche a lui si rivolgeva per avere vie «privilegiate» per le denunce fasulle di incidenti mai avvenuti.

Rocco Morabito estradato dal Brasile: il boss della ‘ndrangheta rientrato in Italia dopo 30 anni. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 6 Luglio 2022.

Il 55enne atterrato nella notte a Ciampino. La sua cattura da parte dei carabinieri dopo decenni di latitanza. Dalla villa in Calabria agli affari a Milano, storia di uno dei massimi ricercati in Italia e fra i principali broker internazionali della cocaina. 

Già massimo ricercato d’Italia, secondo soltanto a Matteo Messina Denaro, il 55enne Rocco Morabito, appena sbarcato nella notte all’aeroporto di Ciampino dopo il sì brasiliano all’estradizione, è stato (e forse rimarrà) avanguardia pura della ‘ndrangheta. Nella definizione, coniata da un alto ufficiale dei carabinieri che gli diede la caccia infine scoprendo i tre ipertecnologici bunker nella villa di Africo, uno dei piccoli paesini calabresi culle delle cosche, si sintetizzano le coordinate criminali di Morabito. Il quale, sparito da trent’anni, non voleva la galera italiana come non la gradisce la medesima ‘ndrangheta.

L’evasione

Lui, fra i primissimi a insistere sull’apertura internazionale delle cosche e divenuto il re dei broker della cocaina, avrebbe preferito una prigione come quella di Montevideo, dove infatti, nel giugno 2019, approfittando di favori interni nonché di una struttura debole nei sistemi di sicurezza, evase in agio. Senza contare che nei penitenziari sudamericani sono frequenti le ribellioni che innescano fughe di massa e, in generale, la fragilità di certe nazioni, a rischio di derive autoritarie o colpi di Stato, rimescola ogni aspetto della società civile, insomma comprese anche le prigioni e chi le comanda, aprendo improvvisi scenari inaspettati purché uno sia pronto con la testa, le gambe e il portafoglio. Quanto alle cosche, Rocco Morabito, del quale si elogiano le capacità di scacchista d’anticipare le mosse con sorprendente astuzia, e del quale inoltre si ripete la certezza d’essere un unto del Signore, un intoccabile, uno che anche qualora cadesse mai affonderebbe, è personaggio scomodo. Qui, in Italia. Conserva ramificati segreti su infinite trame, e fa niente se queste si siano ambientate per lo più tra Argentina, lo stesso Uruguay che lo vide recluso, e da ultimo il Brasile teatro dell’arresto definitivo, che reca il marchio del Ros dei carabinieri. 

La «partita»

Era il maggio dello scorso anno. Forte di pesanti conoscenze nell’intero continente, Morabito era convinto forse non tanto di allontanarsi di nuovo dalle celle, quanto piuttosto di imbrogliare le carte ed evitare il rimpatrio. E difatti, nella complicata partita che regola le estradizioni, dove basta la riga scritta male di un fax o un cavillo burocratico a invalidare il provvedimento, l’iniziale partenza del boss era stata rimandata. In agenda, gli investigatori italiani sarebbero dovuti andare in Brasile sette giorni fa; l’hanno fatto soltanto domenica, ma è un ritardo ben accetto in quanto la magistratura e la diplomazia sono venute a capo del caso. 

Il fuoristrada

Seppur in ritardo rispetto a quanto previsto, l’atterraggio del Falcon con a bordo Morabito è stato modulato per le 2.45; ora lo aspettano il canonico iter e soprattutto il carcere duro. Soprannominato nel poco sofisticato alfabeto della ‘ndrangheta ‘u tamunga in quanto proprietario di una Munga, un fuoristrada di fabbricazione tedesca, fin da giovane Morabito ha cercato, anche esteticamente, di distanziarsi dai classici schemi degli uomini di ‘ndrangheta, uno smarcamento avvenuto grazie anche alle frequenti permanenze a Milano. Del resto il feudo calabrese gli stava stretto, lui guardava al mondo, e non è un caso che, in quegli anni di Africo e di perquisizioni dei carabinieri, vivesse nella villa con una donna portoghese, di grande eleganza, affabile e sofisticata, la quale accoglieva gli investigatori in vestaglia manifestando una naturale calma al contrario di famigliari di ricercati che strepitano, ostacolano le operazioni, minacciano azioni legali. Dopodiché c’era, in quei bunker iper-tecnologici, non unicamente l’aspirazione di un potente boss a servirsi del meglio sul mercato per la propria «protezione», ma anche l’esempio pratico della necessità di svecchiarsi, di guardare al futuro, di uscire da una logica provinciale che contemplava schemi prefissati in quanto eredità di padri, nonni, zii, suoceri. 

I successori

Se è giusto, con questa estradizione, parlare di «fine» per Rocco Morabito, s’aprono innegabilmente infiniti interessi sul tesoro assemblato nella longeva latitanza, sulle persone in debito col boss, su quelle che conservano informazioni sugli affari e le valigie piene di banconote, su eventuali politici a libro paga, e anche sul futuro dell’assenza di Morabito. Nonostante gli anni recenti siano stati caratterizzati dalla scomparsa dell’anonimato con gli arresti e le detenzioni, comunque il boss era là, in Sudamerica. Aveva un posto, aveva un ruolo. Ma dai concorrenti e dai rampanti era anche considerato – la storia del crimine gira come tutte le altre storie – uno dell’antichità, uno che aveva vissuto la sua epoca. E siccome è la droga che detta il ritmo, ovvero il denaro, sarà già bagarre per riempire il vuoto lasciato da u’ tamunga. Che dunque, la Cupola albanese in stretti rapporti con i narcos sudamericani, dopo aver scalato posizioni passando da ruoli da galoppini a quello di prima inter pares, festeggerà il ritorno in Italia di Morabito, potrebbe non essere soltanto una leggenda o uno di quei racconti gonfiati dal patriottismo e della megalomania balcanica.

A UN ANNO DAL SUO ARRESTO. Estradato in Italia dal Brasile il boss ‘ndranghetista Rocco Morabito. Il Domani il 06 luglio 2022

Era tra i latitanti più pericolosi in circolazione. Arrestato in Brasile il 25 maggio del 2021 ora dovrà scontare in Italia 30 anni di reclusione

È atterrato questa mattina all’aeroporto di Ciampino a Roma Rocco Morabito, il boss della ‘ndrangheta considerato uno dei narcotrafficanti più importanti a livello internazionale.

Il 56enne era stato arrestato in Brasile poco più di un anno fa, nel 25 maggio del 2021, grazie a un’operazione congiunta tra i carabinieri del Ros, Dea e Fbi dopo l’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla procura generale di Reggio Calabria. Il boss fu individuato a João Pessoa insieme a un altro latitante di ‘ndrangheta, Vincenzo Pasquino.

Morabito è stato latitante per 23 anni dal 1994 al 2017 prima di essere arrestato a Punta del Este in Uruguay da dove, però, riesce a scappare due anni più tardi grazie ai suoi contatti anche con il mondo della politica. Era considerato tra i dieci criminali più ricercati al mondo e il secondo in Italia dopo Matteo Messina Denaro.

LE ACCUSE

In Italia Morabito, detto “U Tamunga”, è stato condannato a 30 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di stupefacenti dopo l’operazione Fortaleza. È considerato uno dei boss delle ‘ndrine più pericolose della Locride e negli anni Novanta i suoi carichi di droga, provenienti dal Sudamerica, inondarono tutta Milano.

Il boss della ‘ndrangheta aveva relazioni con le più pericolose organizzazioni criminali del Sudamerica, dai brasiliani del Primeiro Comando da Capital (Pcc) ai cartelli colombiani.

Estradato Rocco Morabito, boss mafioso del narcotraffico. Valentina Dardari il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Morabito è un boss della 'ndrangheta ed è considerato uno dei uno dei più importanti trafficanti internazionali di droga. Il 56enne è atterrato all'aeroporto di Roma Fiumicino alle prime ore dell'alba.

Il boss 56enne della 'ndrangheta Rocco Morabito, considerato uno dei più importanti trafficanti di droga in tutto il mondo, è atterrato all'aeroporto di Roma Ciampino questa mattina. Morabito è stato estradato dal Brasile, dove era stato arrestato dalla polizia federale brasiliana il 25 maggio del 2021, durante una operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, supportati dal Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia - progetto I-Can e dalle agenzie statunitensi Dea e Fbi. Il boss deve adesso scontare una pena definitiva di 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti.

Pericoloso a livello internazionale

La Procura della Repubblica di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri, ha coordinato le indagini che hanno portato all'arresto e all'estradizione di Morabito, che era stato posto in arresto in seguito a un provvedimento restrittivo della Procura Generale di Reggio Calabria diretta dal Gerardo Dominijanni. Il boss è considerato uno dei massimi broker del narcotraffico internazionale, e per questo motivo era stato inserito nella lista dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del programma speciale di ricerca del Ministero dell'Interno. Rocco Morabito, imparentato con il noto esponente di vertice della 'ndrangheta Giuseppe Tiradritto Morabito, è stato al centro di una complessa indagine.

La svolta nelle indagini

Nel settembre del 2017 era stato arrestato in Uruguay dal Ros dopo 23 anni di latitanza, ma il 24 giugno 2019 era poi riuscito a evadere da un carcere di Montevideo, proprio mentre era in attesa di estradizione verso l'Italia. Dal momento della sua evasione si erano perse le tracce. Nel maggio del 2021 è arrivata la svolta nelle indagini, condotte a livello internazionale, grazie anche al monitoraggio delle tracce telematiche, che hanno reso possibile la localizzazione del latitante a João Pessoa, dove è poi stato rintracciato mentre si trovava in compagnia di un altro ricercato della 'ndrangheta, Vincenzo Pasquino. Quest’ultimo era ricercato dal Comando Provinciale Carabinieri di Torino che stava conducendo delle indagini parallele coordinate dalla locale Procura Distrettuale, diretta da Anna Maria Loreto.

L’unione investigativa tra i reparti dell'Arma dei Carabinieri e la Polizia Federale brasiliana ha confermato ancora una volta come una intensa collaborazione investigativa tra le forze di polizia possa portare a grandi risultati, andando a colpire anche importanti esponenti del narcotraffico internazionale. Inizialmente le procedure di estradizione sembravano essersi arenate a causa di un procedimento penale che era stato aperto dalla Magistratura di San Paolo nei confronti del boss, ma fortunatamente sono poi andate a buon fine grazie al lavoro unito tra l'Ambasciata d'Italia in Brasile, il Progetto I-Can e le Autorità brasiliane. Il Progetto I-Can è promosso e finanziato dall'Italia attraverso Interpol, e ha costituito una rete di 13 Paesi in tutto il mondo con l’obiettivo di contrastare la minaccia a livello globale data dalla 'ndrangheta.

Rocco Morabito estradato dal Brasile: era latitante da 23 anni. Il Dubbio il 6 luglio 2022.  

Era stato arrestato il 25 maggio 2021 dalla polizia federale brasiliana, nel corso di un’operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria

Rocco Morabito, 56 anni, boss della ‘ndrangheta e ritenuto uno dei più importanti trafficanti di droga al mondo, è atterrato all’aeroporto di Roma – Ciampino nella mattinata del 6 luglio 2022. Morabito è stato estradato dal Brasile, dove era stato arrestato il 25 maggio 2021 dalla polizia federale brasiliana, nel corso di un’operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, supportati dal Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia – progetto I-Can e dalle agenzie statunitensi Dea e Fbi. Deve scontare una pena definitiva di 30 anni di reclusione.

Le indagini che hanno portato all’arresto e all’estradizione di Rocco Morabito, sono state coordinate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri. Morabito, arrestato in forza di un provvedimento restrittivo della Procura Generale di Reggio Calabria diretta dal Gerardo Dominijanni, deve scontare una pena definitiva a 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti. L’arrestato, considerato uno dei massimi broker del narcotraffico internazionale, era inserito nella lista dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del “programma speciale di ricerca” del Ministero dell’Interno.

Morabito, legato da vincoli di parentela con il noto esponente di vertice della ’ndrangheta Giuseppe Tiradritto Morabito, è stato al centro di una complessa indagine: arrestato in Uruguay nel settembre 2017 dal Ros dopo 23 anni di latitanza, il 24 giugno 2019 era riuscito ad evadere da un penitenziario di Montevideo, quando era in attesa di estradizione verso l’Italia. Da quel momento se ne erano perse le tracce.

La svolta nelle indagini dei Carabinieri si è avuta nel maggio 2021 quando le indagini a livello internazionale, sviluppate anche attraverso il monitoraggio delle scie telematiche, hanno permesso di localizzare il latitante a João Pessoa, dove è stato rintracciato in compagnia di un altro ricercato di ’ndrangheta, Vincenzo Pasquino. Questo, era sua volta ricercato dal Comando Provinciale Carabinieri di Torino che stava conducendo parallele indagini coordinate dalla locale Procura Distrettuale, diretta da Anna Maria Loreto.

La sinergia investigativa tra i reparti dell’Arma dei Carabinieri e la Polizia Federale brasiliana, in costante raccordo operativo con il Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia – progetto I-Can e con il supporto delle agenzie statunitensi Dea e Fbi, ha ulteriormente confermato come la fattiva e intensa collaborazione investigativa tra forze di polizia possa portare a colpire i più importanti esponenti del narcotraffico che operano in una dimensione transnazionale.

La rapidità delle procedure di estradizione, che sembravano essersi arenate a causa di un procedimento penale aperto dalla magistratura di San Paolo nei confronti di Morabito, è stata resa possibile grazie all’intensa attività di raccordo tra l’Ambasciata d’Italia in Brasile, il Progetto I-Can e le Autorità brasiliane. Il Progetto I-Can, promosso e finanziato dall’Italia attraverso Interpol, ha costituito una rete di 13 Paesi in tutto il mondo per il contrasto alla minaccia globale costituita dalla ’ndrangheta.

Dovrà scontare 30 anni di reclusione. Rocco Morabito estradato dal Brasile: il super boss della ‘ndrangheta rientrato in Italia dopo 30 anni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Luglio 2022. 

È stato uno dei massimi ricercati d’Italia, secondo soltanto a Matteo Messina Denaro. Rocco Morabito, 55 anni, è stato estradato in Italia dal Brasile dove era stato arrestato il 25 maggio 2021. Nella notte il suo arrivo all’aeroporto di Ciampino. Deve scontare una pena definitiva a 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti.

Morabito fu arrestato dalla polizia federale brasiliana, nel corso di un’operazione congiunta con i Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, supportati dal Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia – progetto I-Can (Interpol Cooperation Against ‘ndrangheta) e dalle agenzie statunitensi Dea e Fbi. Le indagini sono state coordinate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri.

Le procedure di estradizione, che sembravano essersi arenate a causa di un procedimento penale aperto dalla Magistratura di San Paolo nei confronti di Morabito, è stata resa possibile grazie all’intensa attività di raccordo tra l’Ambasciata d’Italia in Brasile, il Progetto I-Can e le Autorità brasiliane. Il Progetto I-Can, promosso e finanziato dall’Italia attraverso Interpol, ha costituito una rete di 13 Paesi in tutto il mondo per il contrasto alla minaccia globale costituita dalla ‘ndrangheta.

Morabito, arrestato in forza di un provvedimento restrittivo della Procura Generale di Reggio Calabria diretta da Gerardo Dominijanni, deve scontare una pena definitiva a 30 anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti. L’interessato, considerato uno dei massimi broker del narcotraffico internazionale, era inserito nella lista dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del “programma speciale di ricerca” del Ministero dell’Interno. Legato da vincoli di parentela con il noto esponente di vertice della ‘ndrangheta Giuseppe Tiradritto Morabito, è stato al centro di una complessa vicenda investigativa: arrestato in Uruguay nel settembre 2017 dal Ros dopo 23 anni di latitanza, il 24 giugno 2019 era riuscito ad evadere da un penitenziario di Montevideo, quando era in attesa di estradizione verso l’Italia. Da quel momento se ne erano perse le tracce. In Italia è stato ripetutamente condannato per oltre 100 anni di carcere in totale per traffico internazionale di droga.

Prima dell’arresto il boss della ‘Ndrangheta era considerato il latitante italiano più pericoloso dopo Matteo Messina Denaro, il capo della mafia siciliana. Ha 55 anni, 25 dei quali vissuti da fuggitivo. Era stato già arrestato nel 2017 in Uruguay, dove però era riuscito a evadere dal carcere Central di Montevideo dov’era detenuto nel 2019. L’arresto in Brasile proprio un anno fa in un’operazione dei carabinieri del Ros. I carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale lo avevano rintracciato a Joao Pessoa, zona est del Brasile, insieme a un altro narcotrafficante, Vincenzo Pasquino, torinese, anche lui latitante. Rocco Morabito era considerato il numero uno tra i broker che gestiscono il traffico di cocaina con i cartelli del Sudamerica. Alla sua cattura avevano collaborato anche Fbi e Dea.

Morabito è originario di Africo, in provincia di Reggio Calabria, soprannominato “Il Tamunga” per via del grosso fuoristrada Dkw Munga, considerato pressoché indistruttibile, con cui scorrazzava per la Locride. Ha studiato all’Università di Messina e nel 1988, quando aveva 22 anni, era stato arrestato per minacce rivolte a uno dei suoi professori universitari. Nell’89 suo fratello Leo Morabito è stato ucciso in un agguato mafioso e l’anno successivo anche Rocco è stato ferito in un altro agguato. A Milano, a 25 anni, aveva iniziato a costruire il suo impero fondato sul traffico della coca. Nel capoluogo lombardo si divideva fra traffici e la bella vita nei locali.

Prima di diventare latitante, assieme ad altri affiliati, Rocco Morabito era stato visto a Baia Domizia di Sessa Aurunca, all’interno dell’abitazione di Alberto Beneduce, boss e narcotrafficante camorrista conosciuto con il soprannome di “A’ cocaina” e trovato qualche settimana dopo carbonizzato nel bagagliaio di un’auto. In Sudamerica era fuggito con la falsa identità di Francisco Antonio Capeletto Souza, imprenditore brasiliano d’origine. Aveva messo su una redditizia attività di import-export e una coltivazione intensiva di soia. Quando era stato arrestato in Uruguay, viveva in una villa con piscina, una Mercedes, 13 cellulari, 12 carte di credito e un passaporto brasiliano. Anche in quel caso l’estradizione era stata autorizzata. A poche settimane dal trasferimento in Italia evase dalla terrazza del carcere. Secondo quanto scoperto dall’operazione Magma in quella fuga era stato aiutato da esponenti della ‘ndrina Bellocco residenti tra Buenos Aires e Montevideo.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 giugno 2022.

Maxi operazione contro la ‘Ndrangheta in Australia: la polizia è riuscita a identificare più di 5.000 membri dell’organizzazione criminale che vivono e fanno affari oltre oceano. La Polizia Federale Australiana sta indagando su 51 clan della criminalità organizzata italiana, di cui 14 della ‘Ndrangheta, grazie a un'app-spia che gli agenti sono riusciti installare sui telefoni dei malavitosi. 

Il maggior numero di clan è concentrato nel Nuovo Galles del Sud. I clan operano a livello nazionale e lavorano a stretto contatto con numerosi gruppi criminali organizzati, tra cui bande mediorientali, triadi asiatiche, bande di motociclisti australiani e cartelli sudamericani. La polizia australiana sta lavorando con le forze dell’ordine colombiane, statunitensi e italiane nel tentativo di interrompere la rete globale della criminalità organizzata italiana.

«La nostra visione dei clan continua a crescere, i nuovi poteri ai sensi del Surveillance Legislation Amendment Act del 2021, le nostre capacità di leader mondiali e le nostre reti internazionali stanno iniziando a rimuovere il mantello di segretezza che ha consentito ai membri della ‘Ndrangheta di operare in Australia impunemente per troppi anni» ha detto il vicecommissario Nigel Ryan. 

Con l’aiuto delle autorità italiane, la polizia australiana è riuscita a ricostruire i rapporti familiari dei clan. «La ‘ndrangheta non è solo un problema australiano, è un problema globale. È responsabile del 70% del traffico di cocaina mondiale. In Australia, è anche responsabili del traffico di cannabis e metanfetamine» ha aggiunto Ryan.

«Durante l'operazione Ironside, le forze dell'ordine hanno accusato un certo numero di membri della 'Ndrangheta, alcuni dei quali stavano prendendo ordini dai capi in Calabria. La 'ndrangheta sta inondando l'Australia di droghe illecite e sta tirando le fila delle bande di motociclisti fuorilegge australiani, che sono dietro alcune delle violenze più significative nelle nostre comunità». 

«Sono diventati così potenti in Australia che quasi possiedono alcune di queste bande, che spostano droga per i loro finanziatori della 'ndrangheta, o compiono atti di violenza per conto della 'ndrangheta». 

Mercoledì ricorre il primo anniversario dell'operazione Ironside, la più grande repressione della criminalità organizzata australiana, che ha portato a centinaia di arresti tramite AN0M, un'app spia sviluppata dall’Fbi che la malavita è stata indotta con l'inganno a installare.

Più di 300 telefoni AN0M sono stati scoperti in Italia durante i raid dello scorso anno, molti dei quali forniti da australiani. I dati ottenuti da AN0M hanno fornito alla polizia una visione senza precedenti dei clan mafiosi e di come operano. 

Degli oltre 1000 arresti in tutto il mondo, 383 sono avvenuti in Australia e variavano da presunti boss della mafia, motociclisti anziani, lavoratori aeroportuali e altri addetti ai lavori. 

Sono stati accusati di 2340 reati in Australia, mentre  sono state sequestrate più di 6,3 tonnellate di droghe illecite, 147 armi da fuoco e 55 milioni di dollari in contanti. 

Degli arresti, 42 delinquenti accusati nell'ambito dell'operazione Ironside si sono già dichiarati colpevoli o sono stati condannati. 

Dei quattro arresti delle ultime settimane, tre sarebbero legati alla 'ndrangheta e sarebbero stati accusati di essere coinvolti in un complotto per importare 1,2 tonnellate di cocaina dall'Ecuador.

La polizia australiana ha recentemente ospitato le forze dell'ordine di Italia, Colombia e Stati Uniti per lavorare insieme per identificare i membri della 'Ndrangheta e agire contro di loro. Anche altri gruppi criminali internazionali sono stati messi all'erta. 

«Se sei un membro di un cartello che opera fuori dal Messico, un membro di una triade che opera fuori dall'Asia o un membro di una banda di motociclisti fuorilegge in Australia, e hai un impatto sugli australiani a causa della tua attività illegale, allora sarai preso di mira dall'AFP», ha avvertito Ryan. 

«Milioni di dollari al giorno vengono riciclati in Australia per conto di organizzazioni illegali di droga. Il riciclaggio di denaro rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza nazionale australiana poiché sovverte, sfrutta e distorce i mercati legittimi e l'attività economica».

Il vicecommissario ha ammesso che smantellare la 'Ndrangheta in Australia sarà un compito lungo e impegnativo a causa di anni di vita nascosta. «Sono stati in grado di rimanere sotto il radar vivendo vite modeste, in case modeste. Mescolano i loro soldi illegittimi con i soldi delle loro legittime attività di costruzione, agricoltura o ristorazione e tutto ciò rende più difficile non solo identificare la criminalità, ma anche dimostrare l’illecito», ha affermato Ryan. 

«È diventato molto evidente, attraverso ciò che abbiamo visto sulla piattaforma Anom attraverso l'operazione Ironside, che gli italiani sono stati in grado di volare sotto il radar per molti, molti anni.  Gli italiani si sono stabiliti dai primi anni '20 in Australia e il modo in cui hanno operato negli anni è effettivamente cambiato e hanno potuto, in molti modi, legittimare i loro affari e i loro guadagni illeciti. Quindi questo è davvero un avvertimento alla criminalità organizzata italiana che è nel nostro radar». 

Così la ‘Ndrangheta ha aperto la sua prima locale a Roma. Una cellula indipendente benedetta dai piani alti in Calabria e colonia del clan Alvaro. Di cui riproduce riti arcaici e stile nelle minacce: «Gli butto tanto di quell’acido in faccia alla moglie, che quando la guarda deve dire “per colpa mia”. A lui lo metto sulla sedia a rotelle». Francesca Fagnani su L'Espresso il 30 maggio 2022.  

Qualcosa sta cambiando (e non in meglio) se le mafie tradizionali approdano a Roma non solo per inquinarne l’economia con i loro immensi capitali sporchi, accumulati altrove, ma anche per restare e radicarsi. La cronaca ci ha abituato a considerare la città una gigantesca lavatrice messa a disposizione di clan e faccendieri, attraverso un’infinità di attività commerciali, difficili da controllare se intestate a prestanome incensurati.

Da ilreggino.it il 21 maggio 2022.

Beppe Sculli, ex calciatore di Lazio e Genoa, e nipote del boss Giuseppe Morabito “u Tiradrittu”, Carlo Zacco, “trafficante” siciliano il cui padre, “Nino il bello”, negli anni Ottanta fu proconsole milanese di Cosa nostra, Girolamo Piromalli, detto Mommino, il cui nonno omonimo è a capo di una delle più potenti cosche della Calabria, sarebbero, secondo quanto riporta Il fatto quotidiano, i nuovi re della mala di Milano. 

Questo nuovo scenario – che, secondo quanto raccontato dal giornalista Davide Milosa, vede summit mafiosi organizzati ai tavoli di ristoranti di lusso della città meneghina, boss in trasferta che alloggiano nel prestigioso hotel Palazzo Parigi e concessionarie di supercar gestite in modo occulto dalla cosca dei Commisso di Siderno – sarebbe emerso dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Domenico Ficarra, classe ’84, detto “Corona” coinvolto nell’inchiesta “Cavalli di razza”, coordinata dalla Dda di Milano e accusato, oltre che di estorsione, anche di essere tra i capi di un’organizzazione mafiosa tra Milano e Como. 

«La famiglia Ficarra – spiega il nuovo pentito in uno dei sei verbali depositati dalla Procura al processo con rito abbreviato iniziato ieri è stata sempre al servizio di Molè (…). Fino all’omicidio di Rocco Molè (2008) eravamo a sua disposizione per tutto. Io rimasi sconvolto, ero molto legato a Rocco, dopo l’omicidio sono salito a Milano (…). Abbiamo colto l’occasione per iniziare a insediarci in Lombardia», mirando Cesare Pravisano, ex politico e funzionario di banca, e avvicinandosi ai Piromalli. «Pravisano – spiega Ficarra – era diventato il nostro bancomat».

Domenico Ficarra, racconta che lo zio Massimiliano Ficarra, anche lui coinvolto nell’inchiesta e finito in carcere per un giro di frodi fiscali, è il commercialista della cosca. «Era a disposizione di Rocco Molè e riciclava i loro soldi (…) organizzava truffe milionarie e Molè incassava gli interessi (…). Dopo la morte di Molè si era avvicinato ai Piromalli (…). Seguiva l’autolavaggio di Girolamo Piromalli detto Mommino», boss in ascesa all’interno della cosca con interessi a Milano, indagato per mafia in Calabria. 

Secondo il pentito, il «trafficante di droga» è invece Antonio Carlino, che con il commercialista Ficarra si è preso l’esclusivo ristorante “Unico” all’ultimo piano del World Join Center, primo grattacielo della nuova Milano verticale.

«Carlino – spiega Ficarra – mi disse di appartenere alla ‘ndrangheta e in mia presenza tirò fuori un sacco con dentro mezzo milione in contanti. Sul tavolo aveva 6 chili di cocaina» che «furono portati a Milano (…). Un chilo è stato dato a Giuseppe Sculli in via San Marco a Milano (…) presso un’abitazione di Sculli data in affitto a Daniele Ficarra (zio del pentito, ndr). Mio zio mi ha riferito di cessioni di cocaina a Carlo Zacco il quale venne anche da me per chiedermi dove trovare mio zio per avere droga (…). Carlino aveva grosse disponibilità economiche (…) e necessità di riciclare denaro (…). Quando veniva a Milano alloggiava all’hotel Palazzo Parigi».

'Ndrangheta in Emilia, Giovanardi e l'impresa dei clan: il processo non s'ha da fare. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 19 maggio 2022

Negli audio integrali depositati al processo emerge l’impegno a favore dell’imprenditore poi condannato per mafia.

L’ex senatore è imputato a Modena per aver fatto pressioni su carabinieri e prefettura con lo scopo di salvare una ditta inquinata dalla ‘ndrangheta.

«Ho agito da senatore», si difende Giovanardi. Ora tocca alla Corte costituzionale valutare il caso.

GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini. 

Lecco, le mani della ‘ndrangheta sugli affari. «Ci descrivono come mostri, ma siamo mafiosi brava gente». Barbara Gerosa e Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.

La mafia calabrese ha infiltrato il tessuto imprenditoriale lombardo acquisendo consenso sociale e sostegno. La provincia di Lecco ha il record per le interdittive antimafia emesse negli ultimi due anni. 

«La gente ci descrive come fossimo dei mostri...Parlano come se fossimo delle persone senza scrupoli, come se fossimo cattivissimi, come se ammazziamo la gente così, a caso... No, non è vero. È che sappiamo farlo quando serve... io so essere cattivo quando serve... se non serve faccio la persona normale» . Vincenzo Marchio, 39 anni, condannato in primo grado a 12 anni, non era neanche nato quando nel lontano 1967 il boss Franco Coco Trovato sbarcò nella Brianza lecchese da Marcedusa in provincia di Catanzaro iniziando da manovale nell’edilizia, passando poi nel ‘74 per le rapine, fino a diventare nel giro di una manciata di anni il padrino assoluto del Nord della Lombardia. Da 30 anni è in cella con una condanna al carcere a vita.

Le interdittive antimafia

Eppure il suo nome è quanto di più noto e al tempo stesso impronunciabile. Perché in cinquant’anni la ’ndrangheta di Lecco ha messo radici così profonde da diventare uno degli esempi più fulgidi di come la mafia calabrese, ritenuta rozza e bovara, abbia saputo penetrare il tessuto imprenditoriale lombardo acquisendo consenso sociale e sostegno tra la popolazione del Nord. E non è un caso allora che proprio la provincia di Lecco abbia il record per le interdittive antimafia emesse negli ultimi due anni. Si tratta di provvedimenti che colpiscono le aziende riconducibili alle famiglie mafiose o che in qualche modo ne subiscano il condizionamento. Sono 26 i provvedimenti firmati dagli ex prefetti Michele Formiglio e Castrese De Rosa (uno poi revocato) ai quali va aggiunto quello siglato a inizio maggio dal neo prefetto Sergio Pomponio rivolto alla «Nuova carrozzeria lecchese» di via Tagliamento. Tra i soci Roberto Mandaglio, 44 anni, arrestato a novembre nell’operazione «Cavalli di razza». Un record negativo che restituisce l’immagine di una mafia che è sempre più attenta alle imprese e sempre meno violenta sul territorio.

Le alleanze tra i clan

Una precisa strategia, come spiega con la sua viva voce Marchio intercettato nell’inchiesta «Cardine-Metalmoney» eseguita nel febbraio di un anno fa. Gli ’ndranghetisti vogliono apparire buoni, benefattori. Ma anche questa non è una novità visto che già negli anni Ottanta «l’Unione commercianti deliberò di attribuire al ristorante Wall street» del boss Coco Trovato «e al suo titolare Eustina Musolino, una medaglia d’oro, mentre fu l’Ordine ospedaliero militare di Betlemme a riconoscere a Franco Coco Trovato il cavalierato dell’Ordine (su richiesta dell’Unione commercianti)». Brava gente, i mafiosi di Lecco. Anche se ammazzavano e sparavano, cercando di farlo però rigorosamente a Milano grazie all’alleanza con i potenti De Stefano di Reggio Calabria (la figlia sposò l’erede di don Paolino De Stefano) e il clan della Comasina guidato da Pepé Flachi. A Lecco, invece, i boss ricevevano onori e premi.

Il boss Cosimo Vallelonga

Succede anche cinquant’anni dopo quando sono tutti alla corte di Cosimo Vallelonga, boss condannato per mafia, che nel «suo» mobilificio Arredomania di La Valletta Brianza, attività colpita proprio da interdittiva, era tornato a comandare e ad incontrare imprenditori, vittime e padrini. La vicenda è al centro dell’inchiesta Cardine-Metalmoney. Ma più che le 522 pagine dell’ordinanza firmata dal gip milanese Alessandra Clemente, a raccontare il clima che si vive ancora a Lecco è la lista delle parti civili, le vittime al processo. Una soltanto: Wikimafia, la libera enciclopedia sulle mafie. «Come è possibile che nonostante due condanne definitive per mafia, Vallelonga sia riuscito in così poco tempo a tornare a gestire i suoi affari in tutta tranquillità senza scatenare la riprovazione sociale che in contesti normali dovrebbe sorgere nella popolazione?», si chiede provocatoriamente il direttore Pierpaolo Farina. La risposta è nella storia, nel metodo con cui la ’ndrangheta ha saputo radicarsi su questo territorio.

«Tacita e remissiva acquiescienza»

«I tratti caratteristici della consorteria malavitosa da anni radicata nel territorio lecchese risultano essere idonei a formare, all’interno della società civile, quel senso di tacita e remissiva consapevolezza o acquiescenza al fenomeno criminale e ai suoi referenti», aveva ammonito il prefetto De Rosa. Parole che nel consiglio comunale che ha discusso la nascita della Commissione speciale antimafia — che si è riunita per la prima volta lunedì — sono state accolte con una presa di distanza da parte di diversi consiglieri: «Le parole dell’ex prefetto sono suonate eccessive e non corrispondenti alla realtà. Nessuno disconosce la presenza storica e attuale della mafia nel territorio, ma non accettiamo rilevi generici e immeritati di essere una comunità disattenta e poco critica con un sistema malavitoso».

'Ndrangheta capitale, nelle carte dell'inchiesta i contatti con Alemanno e Pirozzi: "Gli apriremo le porte dei mercati per farlo votare". Andrea Ossino su La Repubblica il 25 maggio 2022.  

Un pentito parla dell'amicizia con l'ex primo cittadino di Roma Alemanno mentre il clan è pronto a sostenere l'ex sindaco di Amatrice, Pirozzi, candidato alla presidenza della Regione Lazio. Nelle intercettazioni i boss si vantano dei nuovi affari: "Abbiamo tutte le mense della Rai, dei comandi dei carabinieri e di ministeri".

Un esponente di una blasonata famiglia di 'ndrangheta con "agganci fortissimi" in politica. Un pentito che parla dei rapporti tra l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e il pregiudicato Antonino Penna. E poi il socio del boss Vincenzo Alvaro che si prodiga per portare i voti al candidato Sergio Pirozzi in occasione delle elezioni regionali del Lazio del 2018.

LE MANI SULLA CAPITALE. ‘Ndrangheta a Roma, il boss con 3 milioni di euro e il ruolo della massoneria.

GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 10 maggio 2022

Bin Laden”, “Scarpacotta”, “Beccausu”, “Melo u Jack”. Non fatevi ingannare dai soprannomi ridicoli dei protagonisti della mafia calabrese che si è presa Roma.

Di simpatico in questa organizzazione criminale chiamata ‘ndrangheta non c’è nulla. La ‘ndrangheta capitale è silente, i loro capi parlano poco, si muovono molto e rapidamente concludono affari con la borghesia romana. Nella capitale frequentano medici, imprenditori, commercialisti.

E hanno uomini che oltre a prestare i loro servigi rappresentano il contatto con la massoneria in Calabria e nel Lazio. Ecco le intercettazione e i documenti sulla cosca romana.

GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini. 

'Ndrine a Roma, l'ultima cena del boss tra ìnduja e libri mastri: "La famiglia è sacra". Floriana Bulfon su La Repubblica l'11 Maggio 2022.

Vincenzo Alvaro festeggiato dai figli. Per gli inquirenti è a capo della ’ndrina romana assieme a Antonio Carzo. Il racconto della festa di Pasqua al ristorante Binario 96. A capotavola siede Alvaro, l’uomo che ha gestito il Café de Paris finora uscito indenne da tutte le inchieste: “Sulla Ferrari non salgo, io sono terra terra”.

Floriana Bulfon per “la Repubblica” l'11 maggio 2022.

L'ultima cena l'hanno celebrata come da tradizione il Giovedì Santo. Si sono ritrovati tutti per festeggiare e rinsaldare i legami. 

A capotavola siede Vincenzo Alvaro, l'uomo che ha gestito il Café de Paris ed è riuscito a passare indenne attraverso le inchieste più clamorose dell'antimafia. Alla sua destra, lungo la tavolata che si snoda per una sala intera del Binario 96 tra caciocavalli e prosciutti appesi, i familiari più stretti: i maschi accanto al patriarca, le femmine in fondo tra passeggini e bambini. 

Sono proprio loro gli unici a tenere un tono di voce comprensibile a chi è a distanza lasciando trapelare un accento milanese, segno dei rapporti con i compaesani che si sono fatti rispettare in Lombardia. Si possono distinguere anche i ragazzi che giocano a denari e quelli che preferiscono i bastoni: i primi con il look borghese - maglioncino blu, camicia e scarpe buone - gli altri con la felpa con il cappuccio. 

Potrebbe sembrare una serata conviviale, tra bis di primi e torte con la panna: semplici clienti come tanti altri in un ristorante anonimo del quartiere Tuscolano frequentato da gruppi di amici e giovani coppie. 

Alvaro del resto non possiede nulla, quel ristorante da duecento coperti è ufficialmente di Sebastiano Cordiano (arrestato ieri per mafia: secondo gli investigatori ha messo anche a disposizione un ristorante poco più in là, All'Angoletto , per organizzare riunioni di famiglie di 'ndrangheta come i Farao-Marincola di Cirò), eppure tra uno spaghetto mantecato nel grana e un pacchero all'amatriciana, quel nonno calvo, un po' sovrappeso e dall'aria dimessa, si alza, gira tra i tavoli. Si capisce che è il capo, tanto che è pronto a dispensare consigli: quando gli chiedi se la pizza venga fatta secondo la tradizione napoletana o bassa come vuole quella romana risponde: «Noi la facciamo in tutti e due i modi, come la vuole il cliente».

Capacità di adattamento e di mimetizzazione. In realtà la cameriera - una giovane con accento dell'Est Europa - servirà un ibrido, né bassa né alta, ma con tanto di supplì alla 'nduja. Mescolanza di tradizione e spirito imprenditoriale, proprio come l'inedita diarchia affidata ad Alvaro e ad Antonio Carzo per fondare la prima filiale della 'ndrangheta a Roma. 

Il modello imprenditoriale segue quello del Café de Paris , usando prestanome cui intestare bar e pizzerie, ma questa volta la colonizzazione è fuori dalla Dolce Vita e dai radar del centro storico. 

Zone che danno meno nell'occhio ma densamente abitate come quella che si snoda dalla basilica di San Giovanni verso est. Nulla è lasciato al caso, tanto che gli altri 'ndranghetisti, secondo quanto emerge dall'inchiesta, si rivolgono a lui per gli investimenti nella capitale. Alvaro ha visione, sa dove conviene portare i soldi e sa che per far funzionare un posto serve il controllo. Non sfoggia auto di lusso né vestiti firmati: «A me piace essere umile, terra terra» spiega al suo socio quando non accetta di salire su una Ferrari. 

Lavora dalla mattina alla sera: alza la serranda, si occupa della cassa, dei fornitori. Si muove nella capitale come se giocasse una partita di Monopoli, accumulando sempre nuove proprietà. E così lo puoi trovare al bancone di Zio Melo, un laboratorio di cornetti, pan brioche e torte per comunioni e compleanni: una volta era una sede del Cerbiatto, celebre per lo spot "il cornetto appena fatto" trasmesso dalle prime radio romane.

«I nostri valori sono l'onestà, la trasparenza e la sostenibilità sia ambientale sia aziendale» si legge nel promo dell'attività.

Con un avvertimento: «Voi conoscete il nostro metodo: si basa sull'osservazione dei dettagli». Al centro c'è la famiglia: «È sacra. È il valore aggiunto di ognuno di noi» scrive sua figlia Palmira sui social specificando «cit. Papà» con tanto di cuoricino. Oggi lei, giurista d'impresa festeggiata alla laurea con una corona d'alloro munita di peperoncini, è finita arrestata per intestazione fittizia con l'aggravante mafiosa. 

Stessa accusa per la sorella maggiore Carmela (non arrestata) che quando si è sposata in una villa a Cerveteri nel giugno 2017 per i 500 invitati ha previsto un tableau senza nomi buono per mantenere l'anonimato. Ai domiciliari anche la moglie Grazia Palamara mentre i cognati Antonio e Giovanni Palamara e i nipoti Bruno Palamara e Teodoro Gabriele Barresi sono finiti in cella con l'accusa di associazione di stampo mafioso. Alvaro 'ndranghetista a sua insaputa, per parafrasare il libro di uno dei suoi avvocati, Fabrizio Gallo, è uscito indenne da tutti i processi.

Gli era rimasta solo l'imputazione di intestazione fittizia ma cadendo l'aggravante mafiosa è andata prescritta. Da allora non ha fatto altro che allargare il suo impero. E persino lo scorso giovedì Santo, quando la Cassazione conferma invece alcune confische di un'indagine passata, non si mostra preoccupato. Forse perché molte di quelle attività sono già state svuotate, facendosi beffa dello Stato. 

E così a fine serata, mentre gli altri prendono ancora amari calabri e ammazzacaffè, l'uomo a capo del primo "locale" di 'ndrangheta dentro una metropoli si mette in disparte. Carta e penna è intento a far di conto: sono gli incassi "del pijamose Roma", quelli di una città che si è piegata in silenzio al potere della 'ndrangheta, accettandone i quattrini e chinando il capo davanti al rischio delle minacce. Ieri è arrivato il brusco risveglio.

Duro colpo alla prima 'ndrina tutta romana: 77 arresti. Gestivano bar e pescherie, gli affari nella Capitale. Augusto Parboni su Il Tempo l'11 maggio 2022

«Sei arrivato a Roma, al centro della Capitale, hai aperto un bel locale, sei come il Papa». Non usano mezzi termini alcuni degli indagati della maxi inchiesta della Dda che ha portato all’arresto di 77 persone affiliate alla ’ndrangheta, accusate, a seconda delle posizioni processuali, di associazione mafiosa, detenzione di armi, spaccio, estorsione aggravata, fittizia intestazione di beni, riciclaggio, peculato e truffa ai danni dello Stato, per fotografare le loro «conquiste». La città eterna, infatti, secondo gli inquirenti, era diventata da anni la piazza per «ripulire», tramite attività commerciali, tutti i proventi illeciti della criminalità calabrese, ed era diventata addirittura una «lavatrice» sempre pronta a riciclare montagne di soldi grazie a decine di affiliati. Con «l’autorizzazione» dei boss calabresi.

Lo schema, secondo gli inquirenti romani e calabresi, si ripeteva, sempre uguale, con una serie vorticosa di investimenti in bar, pescherie, piccoli supermercati, soprattutto situati in zone periferiche dell’area nord della Capitale. I legami con la «casa madre», quella calabrese, venivano tenuti con grande riserbo: le riunioni tra i boss di Roma e i vertici della ’ndrina calabrese non dovevano dare nell’occhio e per questo si sarebbero svolti anche in occasione di matrimoni o funerali. Gli indagati agivano, in base alle indagini dei pm, in autonomia, ma si affidavano spesso alla «mala romana» per intimidire o riscuotere crediti. 

L’ipotesi è che «sul territorio della Capitale si sia riprodotta una struttura criminale non consistente semplicemente nel fatto che una serie di soggetti calabresi abbiano iniziato a commettere reati nella città», ma, secondo chi indaga, «i soggetti in questione sono risultati operare secondo tradizioni di ’ndrangheta: linguaggi, riti, doti, tipologia di reati tipici della criminalità della terra d’origine e trapiantati a Roma dove la ’ndrangheta si è trasferita con la propria capacità di intimidazione». L’organizzazione, in base alle indagani andate avanti per anni, si sarebbe fondata su una ’ndrina «locale», che operava a Roma dal 2015 dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria. È quanto emerge dall’indagine della Dda della Capitale e Dia, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò che ha portato a 43 arresti a Roma. Al vertice dell’organizzazione criminale ci sarebbero Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ’ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Le indagini hanno evidenziato come fino all’estate del 2015 non ci fosse una «locale» attiva nella Capitale. Nell’estate di 7 anni fa Carzo avrebbe poi ricevuto dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria l’autorizzazione per costituire un struttura «locale» che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di ’ndrangheta. Il gruppo operava su diversi quartieri di Roma, soprattutto nelle zone di Roma nord, tra i quali Primavalle, con una gestione degli investimenti nel settore della ristorazione (locali, bar, ristoranti e supermercati) e nell’attività di riciclaggio di ingenti somme di denaro.

Il boss Vincenzo Alvaro, scrivono gli inquirenti in migliaia di pagine di ordinanza di custodia cautelare, sarebbe stato di fatto il manager designato per operare su Roma e sui cui aveva competenze criminali di primo piano. A lui sarebbero spettati «compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere, degli obiettivi da perseguire e delle vittime da colpire, impartisce direttive alle quali gli altri associati danno attuazione». L’operazione è stata messa a segno nella Capitale dalla direzione investigativa antimafia e dalla direzione distrettuale antimafia, coordinate dalla procura: ha portato a 43 arresti a Roma, mentre altre 34 persone sono state arrestate nel corso di un’indagine della procura di Reggio Calabria. Tra di loro c’è il sindaco di Cosoleto, Antonino Gioffré.

Un «elemento di riflessione riguarda le minacce di Carzo contro il giornalista Klaus Davi - scrive il gip Sturzo - reo di aver attirato l’attenzione sulla ’ndrangheta a Roma avendo progettato di voler affiggere alle fermate della metropolitana i nomi dei boss calabresi e tra questi proprio Carzo e Alvaro, mettendo in pericolo la loro copertura». Grande apprezzamento del prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, «per l’imponente operazione che ha consentito di sgominare una locale di ’ndrina operante sul territorio della Capitale». Il prefetto «ringrazia gli uomini della Dia e delle forze dell’ordine ed i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Roma che, in coordinamento con i colleghi di Reggio Calabria, hanno segnato un altro importante punto nella lotta alla criminalità organizzata, ribadendo il forte impegno delle Istituzioni nel contrasto alle consorterie malavitose». 

"Una carovana pronta a fare una guerra", così la 'ndrangheta aveva messo le mani su Roma. Intercettazioni choc. Augusto Parboni su Il Tempo l'11 maggio 2022

«Una carovana pronta a fare una guerra». «Ma se noi siamo qua a Roma...sì che siamo assai pure qua...non è che...volta e gira, siamo qualche 100 di noi, altri in questa zona...nel Lazio». Sono solo alcune delle intercettazioni degli arrestati contenute nell’ordinanza nei confronti di uno dei boss, Vincenzo Alvaro, ascoltato dagli investigatori durante anni di accertamenti e che farebbero riferimento alla presunta rete criminale sul territorio da parte degli indagati.

Alvaro «concorre nella commissione di alcuni delitti, soprattutto in materia di intestazioni fittizie di attività commerciali, settore nel quale è un autentico punto di riferimento non solo per tutti gli altri sodali, ma anche per soggetti appartenenti ad altre cosche e che intendono investire sul territorio della Capitale» scrive il gip. «Dietro di me c’è una nave», diceva inoltre un altro degli indagati, spalleggiandosi delle intime amicizie e frequentazioni con Domenico Alvaro (già condannato definitivo per 416 bis), impedendo alle vittime così di denunciare alle forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni». «Non è che io devo comandare qua a Roma...a Roma io lo so, questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli sono...questi dentro Roma, tutto l’Eur che sta tutto con noi...mano mozza...li conosciamo tutti...a Torvajanica...al Circeo...sono amico di tutti e mi rispetto con tutti», riporta il gip nelle carte. Non solo. «Siamo di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso fino al settembre 2020 - si legge nell’ordinanza - e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società».

«Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto». Così parlavano di sè inoltre gli arrestati nell’ambito dell’operazione che ha portato alla scoperta, a Roma, del gruppo di ’ndranghetisti che, secondo chi indaga, rappresentava una diretta «propaggine» della ’ndrina calabrese cui faceva riferimento e dalla quale era stato autorizzato ad operare nella città eterna. L’ok al «lavoro» a Roma era arrivato direttamente dalla «casa madre» di Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria. Nelle migliaia di carte si fa riferimento anche alle armi che l’organizzazione avrebbe avuto a disposizione. Nell’inchiesta spunta anche il nome di Silvio Berlusconi, pronunciato nelle intercettazioni da alcuni indagati. Il 17 dicembre 2017, infatti, due indagati stavano guardando la televisione quando, a un certo punto, compariva Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, «il quale stava presentando il nuovo simbolo del partito, l’albero della libertà. Vedendo tali immagini, immediatamente Giuseppe P. faceva un collegamento con l’albero della scienza che - per come emerge dalle dichiarazioni di diversi collaboratori, alcune delle quali richiamate anche in sentenze ormai definitive - costituisce un simbolo della ‘ndrangheta si legge nel provvedimento restrittivo del gip - e nel fare tale collegamento Giuseppe P. pronunciava alcune affermazioni autoaccusatorie, sostanzialmente definendosi appartenente alla ‘ndrangheta. Infatti, innanzitutto diceva» all’interlocutore «che se lui o uno dei suoi avessero fatto un’intervista come quella di Berlusconi, avendo accanto quell’albero, avrebbero preso dieci anni di galera». 

Nelle carte dell’inchiesta emerge anche che alcuni del clan calabrese venivano definiti i «russi». E alcuni di loro sono stati intercettati mentre minacciavano alcuni affiliati. «Io ti taglio un orecchio, lo dissi davanti a tua moglie...ti taglio le gambe». non solo: «[…]Non giocare con me che io sono l'uomo più lavoratore, più onesto che esiste su questa terra...mi rompo il culo...ma non appartieni alla mia famiglia...non la deve toccare nessuno...se sbagliano io vengo e gli taglio la testa, pure a mio figlio...lo metto per terra...il sangue lo faccio cadere per terra...ma che tu vai a rompere i coglioni alla famiglia...non è corretto...e non è corretto questo».

Infine l’indagato Giovanni P., quando nel 2010 morì suo suocero, «ci disse - si legge nell’ordinanza - che quest’ultimo aveva consentito il raggiungimento della pax mafiosa dopo sette anni di guerra di mafia e per tale ragione avrebbe meritato il Nobel per la pace come Bill Clinton».

Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 29 aprile 2022.

Legami sempre più stretti tra le famiglie calabresi e la malavita romana. Con gli affari che si allargano dallo spaccio di droga al riciclaggio di denaro sporco. 

È quanto emerso durante l'audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali in commissione antimafia. Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi ha avviato la commissione illustrando la mappatura degli insediamenti mafiosi nella Capitale.

Si tratta di gruppi che «costituiscono proiezioni a Roma delle organizzazioni mafiose tradizionali, vale a dire Ndrangheta, Camorra e in misura minore, Cosa Nostra. 

Soggetti che - ha spiegato Piantedosi - mantengono legami storici con consorterie mafiose d'origine costituenti, inoltre, una testa di ponte per ogni genere di interesse». 

Così hanno confermato le ultime inchieste giudiziarie coordinate dalla direzione distrettuale antimafia romana, e degli omologhi uffici giudiziari calabresi che hanno confermato l'operatività di affiliati alle ndrine.

Un lungo elenco quello stilato dal prefetto Piantedosi che comprende le famiglie originarie del Reggino, del vibonese, Castelnuovo di Porto, Rignano Flaminio, Riano e Capena. 

Secondo l'analisi: «Gli elementi confermano che le diverse organizzazioni mafiose continuano a considerare Roma come terminal privilegiato dello sviluppo delle proprie reti criminali, ritenendo la complessità e l'estensione del complesso capitolino come una importante risorsa da sfruttare per l'ampliamento dei propri interessi illeciti» ha sottolineato il prefetto. In conclusione «la mafia a Roma, è una presenza soggettivamente plurima e oggettivamente diversificata. 

Non c'è un solo soggetto in posizione di forza e di preminenza rispetto agli altri. Ma sullo stesso territorio interagiscono e coesistono diverse entità criminali che si rispettano reciprocamente».

Durante la commissione sono state illustrate anche le operazioni delle forze dell'ordine.

«Dal 2021 ad oggi - ha sottolineato il prefetto Piantedosi - sono state revocate le licenze per motivi di ordine e sicurezza pubblica a 21 attività commerciali, per lo più bar» spesso acquisiti da elementi malavitosi «e divenuti basi logistiche per attività criminali, in larga parte legate allo spaccio della droga. 

Altri dieci esercizi sono monitorati dalle forze dell'ordine per lo stesso motivo». Infine, durante la commissione è stata analizzato l'illecito utilizzo del patrimonio abitativo pubblico.

«Costituisce un altro dei filoni di attività frequentemente praticato dalle organizzazioni mafiose in questo contesto metropolitano» ha precisato il prefetto. Nello specifico, quello dell'occupazione abusiva di alloggi Ater «Insieme ad altre forme di assistenza, come il supporto legale ai detenuti, il sostegno economico alle loro famiglie, rientra tra le misure del cosiddetto welfare criminale.

Un sistema per conquistare consenso presso le fasce deboli della popolazione e rendere tangibile l'esercizio di una sorta di controllo sociale. Ma anche per assicurarsi la disponibilità in loco di manovalanza pronta ad assolvere alle incombenze all'attività di spaccio, oppure ad essere impiegati in attività illecite» ha concluso il prefetto. 

Alessia Marani per il Messaggero l'11 maggio 2022.

«Il Lazio è zona nostra». Della «famiglia nostra», per indicare i «cento» tra ndranghetisti e gruppi criminali romani che avevano creato un unico sodalizio e fatto loro la Capitale, «siamo come i papi». E ancora: «Siamo pronti a fare una guerra». Sembrano finiti i tempi in cui la ndrangheta a Roma non poteva operare in esclusiva perché città come la Capitale o Milano dovevano essere lasciate «zone libere» per non attirare sospetti e indagini, «senza pretendere di avere il controllo militare esclusivo del territorio come nelle regioni di origine». 

Lo aveva spiegato un pentito riferendo parole dei calabresi di Anzio.

Adesso, invece, chi non voleva piegarsi alla ndrangheta doveva fare i conti con gli spezzapollici dei capi clan Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo. Intimidazioni e minacce rivolte direttamente agli imprenditori e ai commercianti finiti nel racket criminale gestito dalle ‘ndrine che partiva dalla Capitale e arrivava fino al litorale. Quarantatré persone sono finite nella maxi operazione della Dia e della Procura di Roma con l'accusa di associazione mafiosa, narcotraffico, commercio di armi, riciclaggio e intestazione fittizia dei beni. 

GLI EQUILIBRI Era Vincenzo Alvaro, il boss calabrese romano di adozione, l'anello di congiunzione tra la ndrangheta e la criminalità romana. I nomi sono quelli che ricorrono nella mala così come nelle inchieste giudiziarie: Fasciani, Casamonica e Gallace. 

Legami anche con i sodali di Diabolik, come si evince dalle carte. È proprio Alvaro l'uomo che avrebbe dovuto garantire una vera e propria «pax» criminale tra le varie consorterie. «A lui - scrivono gli investigatori - spettavano i ruoli di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere, degli obiettivi da perseguire e delle vittime da colpire». A bussare alle porte dei gestori delle attività commerciali erano i Fasciani e i Casamonica, la lunga mano «armata» della ndrangheta su Roma: «la propaggine di sotto», come la definisce Carzo in una intercettazione, basandosi sul modello Ostia.

Ossia come i Fasciani avevano gli Spada in qualità di subordinati, così i clan calabresi avevano i Casamonica e i Fasciani. A sedersi al tavolo delle trattative e a gestire il recupero crediti per chi aveva contratto debiti con l'organizzazione era il fratello di don Carmine, Terenzio: l'unico in libertà. Nella rete era poi finita una serie di negozi intestati a prestanome e che servivano come lavatrice per riciclare il denaro sporco: pescherie, ristoranti ma anche imprese legate al ritiro delle pelli e degli olii esausti. E dopo aver pagato la retta: «Sbrigati ad andartene perché se no neanche ritorni a casa. Cerca su internet i Fasciani». 

L'area che va dai Castelli all'Eur era il raggio d'azione dei Casamonica. A fare gli affari era il capo Mano monca, al secolo Giuseppe Casamonica. A Lavinio, invece, era il boss Carzo ad avere: «tutti quegli amici», quelli da andare a trovare per rinfrancare alleanze, ma con discrezione, senza destare i sospetti delle forze dell'ordine.

I LEGAMI Vincenzo Alvaro era chiamato addirittura zio da Gianluca Almaviva, il sodale di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik. I legami con Piscitelli e i capi delle cosche calabrese sono l'ulteriore prova che per entrare nel giro dello spaccio, la ndrangheta a Roma voleva accedere dalla porta principale. Girava con chili di droga Almaviva - finito già nell'operazione Grande Raccordo Criminale - e con 13mila euro in contanti. 

«Il padre di zio - diceva Almaviva - è colui che al tempo delle faide del dopoguerra ha riunito tutte le famiglie e ha creato la pace». La pax criminale che tutti hanno cercato fino alla fine. Minacce, poi, anche per il giornalista Klaus Davi che aveva proposto al Campidoglio di affiggere nelle stazioni della metro alcuni volantini dove erano riportate le foto e i nomi dei boss calabresi trapiantati nella Capitale.

Valeria Di Corrado Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'11 maggio 2022.

Non bastava aver messo le mani su ben 24 società da Torpignattara al Tuscolano, aver iniziato a stringere accordi pure con i Moccia per spartirsi i locali da rifornire, la locale di ndrangheta capeggiata da Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, finiti in carcere insieme ad altre 75 persone tra la Capitale e la Calabria a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda e della Dia, puntava a consolidare il proprio potere e ad espandersi ancora, conquistando catene di supermercati e bar di lusso intorno al Vaticano. Avendo chiaro come a Roma bisognava però muoversi con cautela considerata l'esistenza di una Procura composta da tutti «quelli che combattevano dentro i paesi nostri... 

Cosoleto... Sinopoli... tutta la famiglia nostra...», dirà proprio Carzo ad un suo interlocutore facendo riferimento agli ex procuratori Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Renato Cortese (un tempo dirigente della Squadra Mobile) e per questo definiti «maledetti».

LE AMBIZIONI Ma oltre agli affari c'era pure l'ambizione di entrare nella massoneria o almeno era questo il desiderio di Domenico Carzo, figlio di Antonio che di fronte a due medici - ritenuti dei validi condotti per entrare in una loggia - negherà che suo padre, suo zio e suo nonno siano o siano stati elementi di spicco della criminalità. Ma al netto di quelle che potevano essere le pulsioni e le intraprendenze dei singoli, sempre Carzo tenderà più volte a ribadire come nonostante gli screzi, avuti o probabili, la loro è una «famiglia». 

E la famiglia non si tradisce, la si protegge e le si dà da mangiare. Il pasto prediletto restavano i locali da acquisire tramite prestanome e teste di legno al fine di riciclare soldi sporchi provenienti da più fronti. Ed è così che tra gli obiettivi rientra la catena di supermercati Elite. Il cognato di Vincenzo Alvaro, Giovanni Palamara, parlando con Giuseppe Penna veniva informato da quest' ultimo della ristrutturazione di uno dei supermercati della catena e che grazie a questo sarebbe stato possibile inserirsi per ottenere una fornitura.

Palamara si mostra subito interessato: «Digli per la pasta Pino abbiamo la pasta fresca... all'uovo... la facciamo sotto vuoto anche per i supermercati... io gliela porto ai supermercati» e il Penna che, a distanza di qualche ora, manda un messaggio: «Gianni cercamo di farti prendere Elite ho saputo che porta prodotti di prima scelta a 56 punti vendita su Roma tu e chi per te venite a parla prossimamente». 

Poi c'è l'avanzata verso altri bar, stavolta mica al Quadraro o a Torpignattara, ma in pieno centro a due passi dalla Basilica di San Pietro. Un'operazione ghiotta per chi come Vincenzo Alvaro era riuscito a fuggire dall'operazione sul caffè de Paris. Sempre il Penna, che trattava affari per importanti locali di Roma, propone alla locale di rilevare delle attività sequestrare ad un compaesano di Vibo Valentia. Nello specifico si tratta di un bar tabaccheria in via del Mascherino, di altri due bar e di un ristorante sempre nella zona del Vaticano e di un'osteria a Trastevere. 

«Per avere 3 bar al centro storico... scusate, io non sono uno scemo, al centro storico di Roma, i bar più prestigiosi del mondo... avoglia a dire che tieni per le mani bar California e Cafè de Paris... - dice Penna - a questi che ha questo gli fanno una pip... ci siamo salvati tutti i parenti e tutti gli amici...». 

Forte degli anni passati in carcere, Carzo commissiona al figlio Domenico e ad un altro affiliato il pestaggio di un uomo che doveva rientrare di ben 250 mila euro. «Penso che dopo sta passata...di cazzotti ... poi a cuccia... poi glielo dici... gli devi dire la prossima volta ti va peggio con l'a...ha detto mio padre che vuole tirarti l'acido in faccia per bruciarti». Parlando con il malcapitato debitore gli dirà: «se ti piglio ti scanno come un capretto...». Anche per gli affiliati che sbagliano non c'è pietà: chi vìola le regole del clan deve rispondere al Tribunale della ndrangheta in una sorta di processo con relative sanzioni. Intanto oggi un giudice vero, quello che ha ordinato gli arresti, interrogherò Alvaro e Carzo.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'11 maggio 2022.  

Figlie innamorate dei propri padri. Anche se questi sono al vertice di una locale di ndrangheta che divorando bar, pasticcerie, tabaccherie si è insinuata nella Capitale. Non si vede il crimine laddove nel crimine si nasce e si cresce. «Negli occhi, sul viso, nell'aria c'è una parte di te... e ho capito che se mi rifletto guardandomi il viso non mi riconoscono, ma poi un sorriso mi taglia la faccia e mi dico: sono identica a te», scrive Palmira Alvaro su Instagram a commento di una foto che la ritrae con suo padre Vincenzo. Quel boss che insieme ad Antonio Carzo ha trapiantato il germe della ndrangheta a Roma istituendo una autonoma locale benedetta dalla casa madre calabrese. Lei non ha neanche trent' anni ma non rinnega la sua famiglia. Esegue tutto ciò che il boss-padre gli dirà di fare, come si conviene a quelle figlie educate al rispetto e alla devozione a-tutti-i-costi. Dedicherà la sua tesi di laurea al «papà, per quello che sono e per molto altro ancora». 

Ed è così, crescendo nel mito del padre, che Palmira finirà in carcere a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda di Roma e della Dia che ha portato a 77 arresti (43 nella Capitale e 34 in Calabria). 

LA CONNIVENZA La figlia del boss non è soltanto questo ma anche una giovane donna che cura e prende parte agli affari di famiglia. Nell'ordinanza firmata dal gip Gaspare Sturzo si ricostruisce il ruolo di questa ragazza che dal 2011 al 2018 effettua transazioni su carte Postepay a lei riconducibili, o al padre, per 116.168,50 euro. 

Ma Palmira Alvaro è pressoché una nulla tenente: risulta aver percepito redditi di lavoro dipendente solo nel 2015 e per 1.841,97 da un cinese, M. Z., titolare di una tabaccheria in via S. Maria del Buon Consiglio, di proprietà di una società sottoposta a confisca poiché riconducibile a Vincenzo Alvaro. Quei soldi, che la ragazza farà girare, in realtà provengono da due società la Novecento srl e la Tortuga srl, a capo di alcuni bar per i quali la giovane lavorerà, che - come scriverà il gip - «si sono viste sistematicamente sottrarre ingenti importi dai ricavi generati dall'esercizio delle attività commerciali».

In sostanza la figlia del boss su mandato dello stesso prelevava dalle società dei soldi per i «propositi criminali dell'Alvaro di realizzare - è scritto ancora nelle carte - manovre fraudolente per favorirne gli interessi economici». Vincenzo Alvaro comandava e la figlia eseguiva senza domande: «Ehi papà dimmi» dice Palmira quando il padre la chiama al telefono (è il settembre 2017) «se mi fai una ricarica di mille euro nella Postepay». «Ci sono mille euro in contanti lì?» prosegue il boss.

La figlia controlla ma in uno dei locali delle due società ci sono «sei!... Seicento pà!». Palmira Alvaro «concorreva a svuotare i conti correnti» della società Novecento srl «previa comunicazione al padre - è scritto nell'ordinanza - dell'importo massimo disponibile per eseguire la transazione e compiendo poi la ricarica sulla carta Postepay indicata attraverso il terminale Sisal installato presso il bar Pedone. Non solo, riscuoteva direttamente le somme trasferite sulle carte a lei intestate e le trasferiva in contanti ai correi, impedendo in questo modo una diretta tracciabilità della movimentazione finanziaria».

Compartecipe anche la madre della ragazza e moglie del boss che ha continuato a gestire il bar Pedone anche dopo l'esecuzione del sequestro penale. Gli inquirenti arriveranno dunque a cristallizzare «Una fedele esecuzione - si legge ancora nell'ordinanza - senza alcun tipo di dubbio o di obiezione sollevata». Come si confà alle figlie devote.

La 'ndrangheta a Roma voleva bar, osterie e supermercati Elite. Augusto Parboni su Il Tempo il 12 maggio 2022.

Alla ’ndrangheta romana non bastava gestire pasticcerie, pescherie, pub e ristoranti. Il suo obiettivo era infatti quello di allargarsi a tal punto da voler gestire anche una catena di supermercati. In base alle indagini condotte dalla procura di Roma, i 43 arrestati due giorni fa, accusati di far parte di un’associazione mafiosa calabrese, avrebbero tentato di mettere le mani sulla catena di supermercati «Elite». Nelle migliaia di pagine di ordinanza che tra Roma e Reggio Calabria ha portato a 77 misure cautelari, tra carcere e domiciliari, spuntano intercettazioni che fanno proprio riferimento all’intenzione di chiudere l’affare sui supermercati. «Nelle vicinanze della sua abitazione stavano ristrutturando un supermercato della catena "Elite” e i lavori di ristrutturazione dell’immobile li stava eseguendo un suo amico, tale “Roberto”, grazie al quale sarebbe stato possibile inserirsi per ottenere una fornitura e, in prospettiva, espandersi sugli altri numerosi supermercati della medesima catena presenti nella provincia di Roma...“ma siccome ne stanno facendo uno grosso (costruendo)...un amico gli sta facendo tutti i lavori...e stavo vedendo per il pane...si compra il pane...sto parlando qua con questo amico nostro...e lui ci stiamo facendo tutta la roba...ho detto...casomai già lo conoscete perché...mi sta dicendo"...(e riferendosi a terza persona in ambientale si sente chiedere il numero e la persona risponde 58) 58 centri supermercati su Roma....Ah...(sempre in ambientale si riferisce a terza persona dicendo che va via e che si vedranno dopo)...aspe...il supermercato Elite...ne stanno aprendo uno grosso qua...noo...c'è un amico nostro...che ci sta facendo tutta la roba...benotelle...cose...questa roba per terra...no?...ed è venuto a prendersi la mia motopala”».

Uno degli indagati, in base a quanto riportato dagl gip nel provvedimento restrittivo, si mostrava subito interessato alla proposta e spiegava che «avrebbero potuto fornire non solo pane, ma anche generi alimentari di altra natura (“digli per la pasta Pino...abbiamo la pasta fresca all’uovo...la facciamo sotto vuoto anche per i supermercati...io gliela porto ai supermercati”). Proseguendo, si apprendeva che lo stesso indagato, grazie all’intermediazione di “Roberto”, si sarebbe adoperato per avere un contatto preliminare con il direttore del supermercato». Insomma, il clan calabrese che ha avuto l’ok per poter operare in «autonomia» nella Capitale, per mesi ha cercato di ottenere il monopolio della catena di supermercati nella città eterna. Ma la presunta attività criminale degli arrestati avrebbe tentato anche di «appropriarsi» di attività commerciali a due passi dal Vaticano: bar, tabacchi e osterie, alcune delle quali a Borgo Pio. Nelle carte dell’inchiesta, gli inquirenti riportano anche alcuni spaccati della mentalità dell’organizzazione criminale sotto l’aspetto familiare. Spiegano, cioè, quali, secondo gli arrestati, devono essere i comportamenti da seguire e quelli che invece devono essere perseguiti, giustificando, in alcuni casi, anche delitti di parenti. «Solo con l’omicidio della madre la famiglia aveva potuto recuperare l’onore che era stato compromesso in quanto la stessa era stata accusata che da vedova aveva avuto altre molteplici relazioni sentimentali, trascurando i suoi doveri di fedeltà verso il defunto e di prendersi cura dei figli».

Per il presunto boss della ’ndrangheta a Roma, Antonio Carzo, era rischioso stare nella Capitale, «dove erano stati trasferiti una serie di magistrati e di ufficiali di pg che avevano lavorato in Calabria e avevano combattuto a Sinopoli e Cosoleto contro la cosca Alvaro ("tutta la famiglia nostra")». È quanto si legge nell’ordinanza con cui il gip di Roma Gaspare Sturzo ha disposto 43 arresti nell’ambito dell’indagine della Dda della Capitale e della Dia, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò e dai pm Giovanni Musarò e Francesco Minisci, nei confronti della prima ’ndrina calabrese attiva a Roma. A parlare in un dialogo intercettato è proprio Carzo: «...comunque c’è una Procura...qua a Roma...era tutta...la squadra che era sotto la Calabria. Pignatone, Cortese, Prestipino». «Sono tutti qua», interviene l’interlocutore. E il boss conclude: «E questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri...Cosoleto...Sinopoli...tutta la famiglia nostra...maledetti».

E ancora: «Si deve evidenziare che già in una conversazione captata il 9 settembre 2017 Carzo, traendo spunto da un’iniziativa di Klaus Davi e poi commentando l’ergastolo comminato a Carlo Cosco a Milano e l’esito del processo "Aemilia" a Bologna - scrive il gip - aveva sottolineato la necessità di stare "quieti quieti", ritenendo evidente che in quel momento storico la magistratura e le forze dell’ordine avessero preso di mira la ’ndrangheta ("ormai bisogna capire...c’è stato un periodo che hanno bersagliato i siciliani...Cosa Nostra....e noi...sotto traccia facevamo...ora è da capire che ci hanno preso in tiro a noi calabresi e ora invece dobbiamo stare più quieti"), precisando che, comunque, "eh le cose si fanno..."».

Valeria Di Corrado Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 12 maggio 2022.

Non bastava aver messo le mani su ben 24 società da Torpignattara al Tuscolano, aver iniziato a stringere accordi pure con i Moccia per spartirsi i locali da rifornire, la locale di ndrangheta capeggiata da Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, finiti in carcere insieme ad altre 75 persone tra la Capitale e la Calabria a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda e della Dia, puntava a consolidare il proprio potere e ad espandersi ancora, conquistando catene di supermercati e bar di lusso intorno al Vaticano. Avendo chiaro come a Roma bisognava però muoversi con cautela considerata l'esistenza di una Procura composta da tutti «quelli che combattevano dentro i paesi nostri... 

Cosoleto... Sinopoli... tutta la famiglia nostra...», dirà proprio Carzo ad un suo interlocutore facendo riferimento agli ex procuratori Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Renato Cortese (un tempo dirigente della Squadra Mobile) e per questo definiti «maledetti».

LE AMBIZIONI Ma oltre agli affari c'era pure l'ambizione di entrare nella massoneria o almeno era questo il desiderio di Domenico Carzo, figlio di Antonio che di fronte a due medici - ritenuti dei validi condotti per entrare in una loggia - negherà che suo padre, suo zio e suo nonno siano o siano stati elementi di spicco della criminalità. Ma al netto di quelle che potevano essere le pulsioni e le intraprendenze dei singoli, sempre Carzo tenderà più volte a ribadire come nonostante gli screzi, avuti o probabili, la loro è una «famiglia». 

E la famiglia non si tradisce, la si protegge e le si dà da mangiare. Il pasto prediletto restavano i locali da acquisire tramite prestanome e teste di legno al fine di riciclare soldi sporchi provenienti da più fronti. Ed è così che tra gli obiettivi rientra la catena di supermercati Elite. Il cognato di Vincenzo Alvaro, Giovanni Palamara, parlando con Giuseppe Penna veniva informato da quest' ultimo della ristrutturazione di uno dei supermercati della catena e che grazie a questo sarebbe stato possibile inserirsi per ottenere una fornitura.

Palamara si mostra subito interessato: «Digli per la pasta Pino abbiamo la pasta fresca... all'uovo... la facciamo sotto vuoto anche per i supermercati... io gliela porto ai supermercati» e il Penna che, a distanza di qualche ora, manda un messaggio: «Gianni cercamo di farti prendere Elite ho saputo che porta prodotti di prima scelta a 56 punti vendita su Roma tu e chi per te venite a parla prossimamente». 

Poi c'è l'avanzata verso altri bar, stavolta mica al Quadraro o a Torpignattara, ma in pieno centro a due passi dalla Basilica di San Pietro. Un'operazione ghiotta per chi come Vincenzo Alvaro era riuscito a fuggire dall'operazione sul caffè de Paris. Sempre il Penna, che trattava affari per importanti locali di Roma, propone alla locale di rilevare delle attività sequestrare ad un compaesano di Vibo Valentia. Nello specifico si tratta di un bar tabaccheria in via del Mascherino, di altri due bar e di un ristorante sempre nella zona del Vaticano e di un'osteria a Trastevere. 

«Per avere 3 bar al centro storico... scusate, io non sono uno scemo, al centro storico di Roma, i bar più prestigiosi del mondo... avoglia a dire che tieni per le mani bar California e Cafè de Paris... - dice Penna - a questi che ha questo gli fanno una pip... ci siamo salvati tutti i parenti e tutti gli amici...». 

Forte degli anni passati in carcere, Carzo commissiona al figlio Domenico e ad un altro affiliato il pestaggio di un uomo che doveva rientrare di ben 250 mila euro. «Penso che dopo sta passata...di cazzotti ... poi a cuccia... poi glielo dici... gli devi dire la prossima volta ti va peggio con l'a...ha detto mio padre che vuole tirarti l'acido in faccia per bruciarti». Parlando con il malcapitato debitore gli dirà: «se ti piglio ti scanno come un capretto...». Anche per gli affiliati che sbagliano non c'è pietà: chi vìola le regole del clan deve rispondere al Tribunale della ndrangheta in una sorta di processo con relative sanzioni. Intanto oggi un giudice vero, quello che ha ordinato gli arresti, interrogherò Alvaro e Carzo.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 12 maggio 2022.  

Figlie innamorate dei propri padri. Anche se questi sono al vertice di una locale di ndrangheta che divorando bar, pasticcerie, tabaccherie si è insinuata nella Capitale. Non si vede il crimine laddove nel crimine si nasce e si cresce. «Negli occhi, sul viso, nell'aria c'è una parte di te... e ho capito che se mi rifletto guardandomi il viso non mi riconoscono, ma poi un sorriso mi taglia la faccia e mi dico: sono identica a te», scrive Palmira Alvaro su Instagram a commento di una foto che la ritrae con suo padre Vincenzo. Quel boss che insieme ad Antonio Carzo ha trapiantato il germe della ndrangheta a Roma istituendo una autonoma locale benedetta dalla casa madre calabrese. Lei non ha neanche trent' anni ma non rinnega la sua famiglia. Esegue tutto ciò che il boss-padre gli dirà di fare, come si conviene a quelle figlie educate al rispetto e alla devozione a-tutti-i-costi. Dedicherà la sua tesi di laurea al «papà, per quello che sono e per molto altro ancora».

Ed è così, crescendo nel mito del padre, che Palmira finirà in carcere a seguito dell'ultima maxi-operazione Propaggine della Dda di Roma e della Dia che ha portato a 77 arresti (43 nella Capitale e 34 in Calabria). 

LA CONNIVENZA La figlia del boss non è soltanto questo ma anche una giovane donna che cura e prende parte agli affari di famiglia. Nell'ordinanza firmata dal gip Gaspare Sturzo si ricostruisce il ruolo di questa ragazza che dal 2011 al 2018 effettua transazioni su carte Postepay a lei riconducibili, o al padre, per 116.168,50 euro. 

Ma Palmira Alvaro è pressoché una nulla tenente: risulta aver percepito redditi di lavoro dipendente solo nel 2015 e per 1.841,97 da un cinese, M. Z., titolare di una tabaccheria in via S. Maria del Buon Consiglio, di proprietà di una società sottoposta a confisca poiché riconducibile a Vincenzo Alvaro. Quei soldi, che la ragazza farà girare, in realtà provengono da due società la Novecento srl e la Tortuga srl, a capo di alcuni bar per i quali la giovane lavorerà, che - come scriverà il gip - «si sono viste sistematicamente sottrarre ingenti importi dai ricavi generati dall'esercizio delle attività commerciali».

In sostanza la figlia del boss su mandato dello stesso prelevava dalle società dei soldi per i «propositi criminali dell'Alvaro di realizzare - è scritto ancora nelle carte - manovre fraudolente per favorirne gli interessi economici». Vincenzo Alvaro comandava e la figlia eseguiva senza domande: «Ehi papà dimmi» dice Palmira quando il padre la chiama al telefono (è il settembre 2017) «se mi fai una ricarica di mille euro nella Postepay». «Ci sono mille euro in contanti lì?» prosegue il boss.

La figlia controlla ma in uno dei locali delle due società ci sono «sei!... Seicento pà!». Palmira Alvaro «concorreva a svuotare i conti correnti» della società Novecento srl «previa comunicazione al padre - è scritto nell'ordinanza - dell'importo massimo disponibile per eseguire la transazione e compiendo poi la ricarica sulla carta Postepay indicata attraverso il terminale Sisal installato presso il bar Pedone. Non solo, riscuoteva direttamente le somme trasferite sulle carte a lei intestate e le trasferiva in contanti ai correi, impedendo in questo modo una diretta tracciabilità della movimentazione finanziaria».

Compartecipe anche la madre della ragazza e moglie del boss che ha continuato a gestire il bar Pedone anche dopo l'esecuzione del sequestro penale. Gli inquirenti arriveranno dunque a cristallizzare «Una fedele esecuzione - si legge ancora nell'ordinanza - senza alcun tipo di dubbio o di obiezione sollevata». Come si confà alle figlie devote.

 L'inchiesta già finita in polvere nel 2009. Dopo il flop “mafia” la procura di Roma ci riprova: ecco ‘ndrangheta capitale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Maggio 2022. 

Se a Roma non esiste Mafia Capitale, ci sarà almeno ‘Ndrangheta Capitale. Ci aveva già provato a dimostrarlo nel 2009 la Procura di Pignatone e Prestipino ed era andata male, dieci anni dopo, compreso il dissequestro del mitico Café de Paris. Ci riprovano oggi, inquirenti e forze dell’ordine, in coordinamento con la procura di Reggio Calabria con il sequestro di 24 società e 72 arresti, 43 nel Lazio e 35 in Calabria. Il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino ha guidato le indagini, mentre il suo ex capo e mentore Giuseppe Pignatone sostiene l’operazione con un editoriale su Repubblica dal titolo “Il contagio della ‘ndrangheta”.

Può essere che quest’operazione, apparentemente così brillante perché ha portato agli arresti di personaggi come Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro e alla scoperta dell’esistenza a Roma di una vera ‘ndrina calabrese, avrà il meritato successo, coronato da sentenze dei tre gradi di giudizio. Così si potrà cancellare l’onta delle decisioni di segno opposto del passato. Quella che ha negato l’esistenza della mafia a Roma e l’altra identica sulla presenza della ‘ndrangheta. Ma è proprio necessario dover comunicare al mondo che la capitale d’Italia, se proprio non è il centro nevralgico della mafia che fu di Riina e Provenzano, quanto meno è ‘Ndrangheta Capitale?

Certo, se esistesse già il fascicolo delle performance dei magistrati, qualche macchiolina il nome di Vincenzo Alvaro, considerato il capo della ‘ndrina romana, dovrebbe averla lasciata. Nei fascicoli dei pm e magari, se fosse possibile, anche nelle carriere di qualche giornalista. Non occorre essere di Roma e conoscere via Veneto per ricordare la storia gloriosa di quel Café de Paris frequentato negli anni cinquanta e sessanta da Frank Sinatra, Federico Fellini e Marcello Mastroianni. Quel luogo magico oggi non esiste più soprattutto a causa di un’indagine sballata della Procura di Roma. Era il 22 luglio del 2009 quando guardia di finanza e carabinieri del Ros posero sotto sequestro preventivo il bar, insieme ad altri centri commerciali, ristoranti e società varie, e misero le manette a una serie di persone, presunte affilate alla ‘ndrangheta. Nel mirino soprattutto l’imprenditore calabrese Vincenzo Alvaro, ritenuto il proprietario occulto del locale di via Veneto e il capo dell’infiltrazione mafiosa nell’economia della città.

Anche allora, proprio come oggi, apparvero titoloni allarmistici per la scoperta delle “mani”, o dei “tentacoli” della organizzazione mafiosa sulla capitale d’Italia. È impressionante come la storia giudiziaria di questo Paese, quella più strillata e valorizzata dai media, si ripeta come in una perversa catena di Sant’Antonio: retata-condanne in primo grado-assoluzioni in appello con conferma di cassazione. E il reato associativo di stampo mafioso, quello su cui tutto si era retto, sbriciolato. Anche quella volta è andata così. Intanto il numero degli imputati era stato già sfrondato in primo grado, con quattordici condanne su ventiquattro imputati. Ma la sentenza -siamo nel 2014- aveva consentito di far apprezzare ai giornali i “quarant’anni alla cosca degli Alvaro”, secondo la pessima abitudine di certi cronisti giudiziari di sommare gli anni di condanna. In realtà la pena inflitta a Vincenzo Alvaro, la più pesante, era stata di sette anni di carcere. Non proprio un peso da capomafia. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che aveva coordinato le indagini, aveva espresso soddisfazione per averci visto giusto, con i sequestri preventivi di tante imprese commerciali tra cui il Café de Paris, a «conferma significativa della presenza di questi spaccati criminali nelle pieghe dell’economia della città».

I tempi della giustizia sono lunghi, si sa, ma il sistema economico non aspetta, e un locale sequestrato nel frattempo muore. E così è stato. Anche se, tra il 2018 e il 2020, una serie di sentenze ha ribaltato l’inchiesta del 2009: dalla cassazione che ha stabilito l’inesistenza del “sistema Alvaro”, fino alla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha riconsegnato ai proprietari 102 beni sequestrati, tra cui il Café de Paris ad Alvaro, e infine la terza sezione d’appello di Roma, che fa cadere l’aggravante mafiosa e assolve tutti gli imputati. Un mucchio di polvere. Questa è la storia che nessun giornale racconta (un plauso a Mattia Feltri, l’unico ad averne fatto accenno). Naturalmente non è detto che l’abbaglio del 2009 e poi del 2014 debba ripetersi nel 2022 e negli anni successivi. Ma ci sarà qualche inquirente, o qualche giudice a rammaricarsi se nel frattempo quelle che erano fiorenti attività commerciali sono morte e qualche imprenditore è finito sul lastrico? Ci pensino gli entusiasti del blitz di oggi. Dal prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, al sindaco Roberto Gualtieri e al Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La mafia calabrese alla conquista del mondo. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 12 aprile 2022.

Dai sequestri di persona ai grandi traffici internazionali di stupefacenti, la cocaina acquistata direttamente dai narcos sudamenticani e distribuita in tutta Europa, affari sporchi e affari puliti, corrieri e infiltrati dentro gli apparati dello stato. Una forza eversiva dove l'arcaico si mescola con il futuro, leggende e giuramenti, colletti bianchi e fiumi di soldi che inondano e inquinano l'economia legale. Con il quartiere  generale che è sempre là, fra l'Aspromonte e la Sila.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

È una strage quella che svela all'Europa la potenza della ‘Ndrangheta. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2007, sei ragazzi sono stati uccisi davanti al ristorante “Da Bruno” a Duisburg, nel cuore della Germania.

Sono tutti calabresi, uno di loro ha in tasca un “santino” bruciato, il segno del battesimo nel crimine che conta. Il massacro ha come movente la vendetta dei clan Nirta-Strangio contro i clan Pelle-Vottari. Una faida antica. Ma la mattanza non è avvenuta a San Luca, è avvenuta in Westfalia. A migliaia di chilometri dall'Aspromonte.

Così si scopre, all'improvviso, che oltre alla Cosa Nostra siciliana e alla Camorra napoletana c’è anche la ‘Ndrangheta calabrese. Nonostante la mafia di Reggio o della costa ionica o di quella tirrenica avesse già conquistato pezzi d'Italia, nonostante due guerre che avevano lasciato a terra centinaia di cadaveri, nonostante magistrati e carabinieri uccisi laggiù nel silenzio più cupo.

E, proprio grazie all'indifferenza e alle complicità, anno dopo anno la ‘Ndrangheta si è presa territori e comprato amici. A Milano, a Torino, in Emilia Romagna, a Roma. E in Olanda, in Lussemburgo, in Belgio, in Canada e anche in Australia.

Dai sequestri di persona ai grandi traffici internazionali di stupefacenti, la cocaina acquistata direttamente dai narcos sudamenticani e distribuita in tutta Europa, affari sporchi e affari puliti, corrieri e infiltrati dentro gli apparati dello stato.

Una forza eversiva dove l'arcaico si mescola con il futuro, leggende e giuramenti, colletti bianchi e fiumi di soldi che inondano e inquinano l'economia legale. Con il quartiere  generale che è sempre là, fra l'Aspromonte e la Sila.

Da oggi e per circa quindici giorni sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XV° legislatura - presidente Francesco Forgione - che per prima ha dedicato un'inchiesta interamente sulla 'Ndrangheta. Sulle sue origini, sulla sua struttura, sul suo esercito, sui suoi legami con la politica e con le logge segrete. E poi sulle sue sterminate ricchezze.

ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.

LA MAFIA CALABRESE. La strage di Duisburg, così si scopre la potenza della ‘Ndrangheta. 

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA DELLA XV LEGISLATURA su Il Domani il 12 aprile 2022.

Con la strage di Ferragosto a Duisburg la Germania e l’Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l’enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Sono passate da poco le due della notte fra il 14 e il 15 agosto 2007 a Duisburg, nel Nord Reno Westfalia. Sebastiano Strangio, trentanove anni, cuoco, calabrese originario di San Luca, chiude il suo ristorante e, con due camerieri e tre amici, si accinge a tornare a casa. I sei sono appena entrati nelle macchine, parcheggiate a qualche decina di metri dal ristorante, quando vengono raggiunti e stroncati dal fuoco incrociato di due pistole calibro nove.

Nel giro di pochi secondi vengono esplosi ben 54 colpi da esecutori spietati e lucidi. Lo testimoniano, fra l’altro le rosate strette sulle fiancate delle macchine, il fatto che, ad azione in corso, i due esecutori abbiano addirittura cambiato i caricatori delle pistole, e il colpo di grazia inflitto con calma e determinazione a tutte le vittime. Gli assassini scompaiono dopo aver completato il lavoro con i colpi di grazia.

Nelle due macchine rimangono i cadaveri di Sebastiano Strangio, Francesco Giorgi (minorenne), Tommaso Venturi (che proprio quella sera aveva festeggiato i diciotto anni), Francesco e Marco Pergola (20 e 22 anni, fratelli, figli di un ex poliziotto del commissariato di Siderno) e Marco Marmo, principale obiettivo dell’inaudita azione di fuoco perché sospettato di essere stato il custode delle armi utilizzate per uccidere, a San Luca il precedente Natale, Maria Strangio, moglie di Giovanni Nirta.

Le vittime fanno in vario modo riferimento al clan Pelle-Vottari, in lotta da oltre quindici anni con il clan Nirta-Strangio (non induca in errore il nome del cuoco che, pur chiamandosi Strangio, fa riferimento al clan Pelle Vottari).

Con la strage di Ferragosto a Duisburg la Germania e l’Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l’enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico. Molte cose colpiscono gli stupefatti investigatori tedeschi e l’immaginario collettivo: la determinazione e la professionalità degli assassini, il numero e l’età dei morti, il fatto che la strage sia stata compiuta nel cuore dell’Europa civilizzata a migliaia di chilometri di distanza da San Luca e un santino bruciato - indicatore inequivoco di una recente affiliazione rituale - trovato in tasca a uno dei giovani assassinati.

Parte sotterraneo da San Luca ed erompe a Duisburg un connubio esplosivo fra vendette ancestrali e affari milionari, un misto di faide tribali e di spietata modernità mafiosa, producendo uno shock improvviso e micidiale per l’opinione pubblica e per le autorità tedesche. In realtà, però, i segni premonitori c’erano già tutti da tempo e la strage di Ferragosto è un indicatore tragico e quasi metaforico della sottovalutazione da parte delle autorità tedesche della ‘ndrangheta e del suo grado di penetrazione e radicamento in quel paese, oltre che in Europa e nel resto del mondo.

La presenza ‘ndranghetista in Germania risalente già agli anni settanta e ottanta (quando a più riprese viene rilevata la presenza delle famiglie Farao di Cirò in provincia di Crotone, dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, delle famiglie di Reggio Calabria, delle storiche famiglie mafiose originarie di Africo, di San Luca, di Bova Marina e di Oppido Mamertina) era ben nota alle autorità tedesche anche solo per le richieste di assistenza giudiziaria e investigativa della magistratura e delle forze di polizia italiane. Già nel 2001 l’indagine dei Carabinieri convenzionalmente denominata Luca’s aveva poi segnalato, anche alle autorità tedesche, il ristorante “Da Bruno” davanti al quale si è verificata la strage, e in generale, il cospicuo fenomeno del riciclaggio di denaro sporco nel settore della ristorazione, in quel paese.

La segnalazione non aveva prodotto concreti risultati investigativi, e la percezione che si ricava da questo scarso riscontro (a parte le carenze della legislazione tedesca in materia di repressione del riciclaggio e, più in generale, di aggressione dei patrimoni illeciti) è che l’atteggiamento delle autorità tedesche fosse di rimozione del problema, considerato, in modo più o meno inconsapevole, affare altrui. Affare degli italiani. Affare nostro.

La strage di Duisburg, come una metafora, spiega meglio di ogni discorso, meglio di ogni analisi, meglio di ogni riflessione, che il modello di crimine globale, rappresentato dalla ‘ndrangheta, non è (solo) affare nostro. Il 15 agosto ha rotto un tabù, ma chi fosse stato attento ai segnali, agli indizi, alle crepe, avrebbe potuto dire anche prima che era solo questione di tempo. Se nel sottosuolo della civilizzazione europea circolano certi fluidi ribollenti e miasmatici, prima o poi questi fluidi salteranno fuori, non appena si produca una crepa nella superficie.

La strage di Duisburg è stata come un geiser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. La crepa nella superficie in questo caso viene da lontano. Da un altrove inquietante e nascosto, lontano nello spazio e lontano nel tempo.

TUTTO NASCE A SAN LUCA

Questo altrove è San Luca, località strategica nella storia e nell’attualità della ‘ndrangheta, luogo cruciale per il controllo dei traffici di droga che producono enormi profitti e sede altresì di una lunga e sanguinosa faida che vede lo scontro fra due gruppi familiari dell’aristocrazia mafiosa calabrese. I Nirta-Strangio (principi del narcotraffico con basi in Olanda, Germania e oltreoceano) da un lato e Vottari-Pelle-Romeo (il cui capobastone, 'Ntoni Pelle negli anni passati era stato designato, al santuario della Madonna di Polsi, capo crimine, cioè reggente e garante di tutta la ‘ndrangheta secondo il modello organizzativo federale elaborato dopo la guerra-pace del ‘91), dall’altro.

La faida nasce per un motivo banale, per una bravata di giovinastri finita in tragedia. È una sera di carnevale del 1991, un gruppo di ragazzi vicini alla famiglia Strangio prende a bersagliare con uova marce il circolo ricreativo di Domenico Pelle, facendosi beffe delle proteste e delle imprecazioni del titolare. L’offesa non rimane impuntita e la sera di San Valentino due giovani della famiglia Strangio vengono uccisi, altri due feriti. Da quel momento gli anni novanta vengono segnati da un’impressionante sequenza di attentati e uccisioni che colpiscono ora l’una, ora l’altra parte in conflitto.

La faida culmina nell’omicidio del Natale 2006 quando un gruppo di killer armati di pistole e fucili uccide Maria Strangio moglie di Giovanni Nirta. Seguono altri omicidi, latitanze volontarie (il comportamento, tipico di quella zona, di uomini che, pur non avendo pendenze giudiziarie, si danno a latitanze di fatto, si nascondono per sfuggire alla vendetta altrui o per preparare più agevolmente la propria), scosse sempre più intense e pericolose che preludono alla mattanza di Ferragosto.

Come si diceva, vari elementi di questo inaudito episodio colpiscono l’immaginario collettivo e l’intelligenza degli investigatori. Non sfugge, a questi ultimi: – Il ritrovamento, accanto alla sala del ristorante “Da Bruno”, di un locale chiaramente destinato alle pratiche di affiliazione, con tutte le necessarie dotazioni iconografiche. – Il ritrovamento, nel portafogli di una delle vittime, Tommaso Venturi, di un santino di San Michele parzialmente bruciato; chiaro indizio di un’affiliazione celebrata poco prima.

Non sarà inutile al proposito ricordare che qualche ora prima, il 14 agosto, il giovane Venturi aveva festeggiato il diciottesimo compleanno potendosi da ciò desumere che l’ingresso formale nella consorteria mafiosa era stato fatto coincidere (secondo una tradizionale attenzione ai dettagli simbolici) con il passaggio alla maggiore età. – La circostanza che la strage avveniva (come altri episodi topici della faida di San Luca), sempre in prospettiva simbolica e rituale, in un giorno di festa. – Il fatto che gli attentatori parlino il tedesco, come risulta pacificamente da una delle testimonianze raccolte nell’immediatezza del fatto e che dunque appartengano all’immigrazione criminale di seconda generazione o comunque evoluta, poliglotta e dunque più pericolosa.

Le indagini, finalmente coordinate, delle autorità italiane e tedesche, consentono ben presto di verificare l’ipotesi investigativa formulata subito dopo il fatto. Responsabili della strage sono infatti appartenenti alla cosca Nirta–Strangio, e personaggio chiave dell’eccidio è una figura paradigmatica della ‘ndrangheta del terzo millennio, in perfetto equilibrio fra tradizione e modernità: Giovanni Strangio.

Si tratta di un imprenditore della ristorazione in Germania (titolare di due ristoranti a Kaarst), è poliglotta, si muove con estrema disinvoltura sull’asse italo tedesco e fino al dicembre 2006 (quando, in occasione dei funerali di Maria Strangio, viene arrestato dalla Polizia per detenzione di una pistola) era sostanzialmente incensurato. Che un soggetto con queste caratteristiche (e, lo si ripete, con un curriculum criminale pressoché inesistente), chiaramente dedito al segmento affaristico dell’attività criminale sia diventato uno dei ricercati più importanti d’Italia e d’Europa per la partecipazione ad un’azione di sterminio eclatante e senza precedenti, dà un’idea efficace della posta in gioco per le cosche di San Luca.

Non vi è dubbio che gli appartenenti alla cosca Nirta Strangio fossero consapevoli che il trasferimento della faida dalla Calabria in Germania avrebbe avuto l’effetto di accendere i riflettori sulla ‘ndrangheta generando un’accelerazione investigativa da parte italiana e una presa di coscienza della gravità del fenomeno da parte tedesca. È quanto emerge anche dal contenuto degli incontri tenuti in Germania, da una delegazione della Commissione parlamentare, nella missione preparatoria di questa relazione.

Chi aveva progettato quella strage con modalità così paurosamente spettacolari ne era ben consapevole, sapeva di dover pagare un prezzo e ha deciso di pagarlo pur di affermare la propria supremazia e il proprio progetto di potere criminale. È così che una sanguinosa faida d’Aspromonte (peraltro inserita nella lista delle dieci priorità criminali, stilata nel 2007 dal capo della D.D.A. di Reggio Calabria, Salvatore Boemi) porta all’attenzione dell’Europa e del mondo una mafia con caratteristiche singolari e apparentemente contraddittorie. Un modello criminale caratterizzato da impreviste e sorprendenti analogie con altri fenomeni della postmodernità. Un paradossale paradigma per gli studiosi moderni del concetto di efficacia.

L’ORIGINE DELLA PAROLA ‘NDRANGHETA

Riflettere brevemente sul significato della parola ‘ndrangheta non è un mero esercizio accademico e offre invece interessanti spunti di riflessione e analisi storica. L’ipotesi etimologica più convincente fa riferimento al vocabolo greco andragatia il cui significato allude alle virtù virili, al coraggio, alla rettitudine.

L’andragatia è la qualità dell’uomo coraggioso, retto e meritevole di rispetto e la ‘ndrangheta storicamente ha sempre cercato il consenso presentandosi come portatrice di questi valori popolari e in particolare di un sentimento di giustizia e ordine sociale che i poteri legali non erano in grado di assicurare, in ciò manipolando strumentalmente la sfiducia delle popolazioni nei confronti dello Stato e delle Istituzioni. Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ‘‘ndrangheta, è che essa non è un’organizzazione di povera gente ma una struttura (composta da soggetti che si autodefiniscono portatori di virtù altamente positive) molto più complessa e dinamica, che, pur se in modo autoreferenziale, si considera un’elite e che tende all’occupazione delle gerarchie superiori della scala sociale. Il principale punto di forza della ‘ndrangheta è nella valorizzazione criminale dei legami familiari.

La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone; essa è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ‘ndrina. È in ciò, come vedremo, la più importante ragione del successo della ‘ndrangheta, della sua straordinaria vitalità attuale, della sua superiorità rispetto ad altre forme di aggregazione criminale. Storicamente ogni ‘ndrina familiare era autonoma e sovrana nel proprio territorio (di regola corrispondente al comune di residenza del capobastone), a meno che non ci fossero altre famiglie ‘ndranghetiste.

In tal caso si operava una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c’erano più ‘ndrine la coabitazione era regolata dal ‘locale’, una sorta di struttura comunale all’interno della quale trovavano compensazione le esigenze, anche contrastanti, delle diverse famiglie. È bene precisare che non c’è mai stata una struttura di vertice della ‘ndrangheta calabrese paragonabile a quella della Commissione di Cosa Nostra e fu solo nel 1991 che, per superare un conflitto che aveva generato diverse centinaia di omicidi, fu costituita una struttura unitaria di coordinamento.

Le donne hanno avuto e hanno attualmente un ruolo importante in questa realtà criminale, non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella diretta gestione degli affari illeciti durante la latitanza o la detenzione del marito, hanno, nel tempo, ricoperto ruoli oggettivamente sempre più rilevanti. La ‘ndrangheta, tra l’altro, a differenza delle altre organizzazioni mafiose, prevede un formale (ancorché subordinato) inquadramento gerarchico per le donne, le quali possono giungere fino al grado denominato “sorella d’umiltà”.

Per lungo tempo la ‘ndrangheta è stata sottovalutata, quando non addirittura ignorata dagli studiosi dei fenomeni criminali organizzati. Per lungo tempo è stata letta come una folkloristica, ancorché sanguinaria, filiazione della mafia siciliana. Per lungo tempo è stata considerata un fenomeno criminale pericoloso ma primitivo e tale visione fu favorita, fra l’altro, da un’errata lettura dell’esperienza dei sequestri di persona.

A uno sguardo superficiale tale pratica criminale richiamava quelle dei briganti dell’Ottocento o del banditismo sardo mentre una lettura più attenta avrebbe in seguito mostrato come i sequestri di persona costituirono una fonte strategica di accumulazione primaria, rafforzando al tempo stesso il controllo del territorio calabrese e il radicamento della ‘ndrangheta nelle località del centro e del nord Italia.

Il trasferimento degli ostaggi nelle zone dell’Aspromonte, la lunga permanenza nelle mani dei carcerieri, la collaborazione delle popolazioni, la sostanziale incapacità dello Stato di interrompere le prigionie, conferirono prestigio alla ‘ndrangheta, le diedero un alone di potenza e conferirono a quei territori – nell’immaginario collettivo - quasi una dimensione di extraterritorialità. L’accumulazione primaria di cospicui capitali che in seguito sarebbero serviti a finanziare i più proficui traffici della cocaina si univa a un piano, negli anni sempre più esplicito e consapevole, di potere e di controllo del territorio e del consenso.

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA DELLA XV LEGISLATURA

Da mafia rurale al monopolio del traffico di cocaina in Europa. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 13 aprile 2022

Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina, quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina (mediando fra le due rotte, quella africana e quella colombiana), quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri.

In tutte queste realtà operano attivamente delle ‘ndrine che, a partire dagli anni sessanta del Novecento e ancor prima – gli anni trenta per quanto riguarda il Canada e l’Australia – si erano spostate dalla Calabria per spargersi letteralmente in tutto il mondo.

Gli ‘ndranghetisti arrivarono in questi nuovi territori dapprima al seguito degli emigrati, ma poi, e sempre più spesso, in seguito ad un’ esplicita scelta di politica mafiosa di vera e propria colonizzazione criminale. La ‘ndrangheta affronta le sfide della globalizzazione con una modernissima utilizzazione di antichi schemi, con una combinazione di strutture familiari arcaiche e di un’organizzazione reticolare, modulare o per usare l’espressione di un grande studioso della modernità e della post modernità, Zygmunt Bauman – liquida.

Su questa definizione e sulla sua utilità per comprendere la natura e la terribile efficacia del fenomeno, si tornerà più avanti. Come si sottolinea in una recente relazione della Direzione Nazionale Antimafia, la chiave di volta organizzativa rimane «la struttura di base del locale (vero e proprio presidio territoriale, idoneo ad assicurare il controllo del territorio, da intendersi nella sua accezione più ampia, comprensiva di economia, società civile, organi amministrativi territoriali; mentre la cosca assume caratteri operativi dinamici, flessibili in relazione alle esigenze poste da attività criminali che si articolano su territori più ampi di quelli di riferimento originario), ma proprio in relazione al narcotraffico e ad altri traffici internazionali in genere, la ‘ndrangheta ha assunto un assetto organizzativo da rete criminale».

La struttura di base di tipo familiare ha rappresentato un decisivo fattore di riduzione del danno prodotto dai collaboratori di giustizia e ha permesso una penetrazione e un radicamento formidabili al di fuori della Calabria. Tra gli anni ottanta e novanta la tempesta dei collaboratori di giustizia travolse Cosa Nostra, la camorra, la Sacra Corona Unita e le altre mafie pugliesi. 

Solo la ‘ndrangheta attraversò questa bufera quasi indenne o comunque limitando fortemente i danni: i pentiti furono pochi, e pochissimi quelli con posizioni di vertice nei sodalizi criminali. La ragione di ciò è proprio nello schema familiare della ‘ndrina: se la cosca è costituita in primo luogo dai membri della famiglia, la scelta di collaborazione con la giustizia (in generale non facile) può diventare straordinariamente lacerante e pressoché insopportabile.

Lo ‘ndranghetista che decida di collaborare è infatti tenuto in primo luogo ad accusare i propri familiari, il padre, il fratello, il figlio, trovandosi a dover infrangere un tabù ancora più potente di quello costituito dall’obbligo di fedeltà mafiosa sancito nelle cerimonie di affiliazione e innalzamento. Si tratta di uno straordinario fattore di protezione, di un anticorpo interno e strutturale del modello ‘ndranghetistico, di un potente fattore di vitalità.

Sul lungo periodo il modello organizzativo della ‘ndrangheta si è dunque rivelato più agile, più flessibile, più efficace di quello gerarchico, monolitico e rigido di Cosa Nostra, rispetto al quale l’aggressione del vertice del sodalizio ha costituito finora un’efficace strategia di indebolimento e di disarticolazione. Strategia inattuabile contro la ‘ndrangheta per l’inesistenza, anche dopo la pace del 1991 (quella che seguì alla sanguinosa guerra fra i De Stefano e gli Imerti-Condello che in poco più di cinque anni lasciò per le strade della Calabria molte centinaia di morti) e la conseguente introduzione di una struttura centrale di coordinamento e composizione dei conflitti.

I mafiosi calabresi sono considerati dai cartelli colombiani come i più affidabili per la loro capacità di gestione degli affari criminali, per la loro disponibilità di basi d’appoggio in tutta Italia, in tutta Europa e in tutto il mondo (oltre alla Calabria, ovviamente, il centro e il nord Italia, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, la Gran Bretagna, il Portogallo, la Spagna, la Svizzera, l’Argentina, il Brasile, il Cile, la Colombia, il Marocco, la Turchia, il Canada, gli Usa, il Venezuela, l’Australia) e, come si diceva, per la loro ridotta permeabilità al pericoloso fenomeno dei collaboratori di giustizia.

Oggi dunque la ‘ndrangheta ha una sostanziale esclusiva per l’importazione in Europa di cocaina colombiana ed è alla ‘ndrangheta che le altre mafie italiane, Cosa Nostra inclusa, devono rivolgersi per gli approvvigionamenti di questo stupefacente.

LA FORZA COLONIZZATRICE

Questo riferimento all’espansione nazionale e internazionale della ‘ndrangheta ci introduce all’analisi più approfondita del secondo, congiunto fattore di successo di questa forma del crimine organizzato.

Tale fattore di successo – direttamente collegato e anzi interconnesso a quello della struttura familiare – consiste nell’attitudine colonizzatrice, ed anzi nella vera e propria scelta strategica della ‘ndrangheta di impiantarsi e di radicarsi nelle regioni del centro e del nord Italia, a partire dalla metà degli anni cinquanta del Novecento. Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono nelle regioni del centro e del nord non per scelta ma perché inviati al confino di Polizia.

In quegli anni si riteneva che per contrastare il potere criminale nelle regioni del sud fosse necessario recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine. Lo strumento era quello del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni – dai 3 ai 5 – fuori dal suo comune di nascita o di residenza.

In tal modo i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, furono inviati nelle regioni del centro e del nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie o strade di grande comunicazione. Ma l’idea di recidere i legami con il territorio (adatta a un’epoca pre-moderna) non poteva funzionare in un periodo storico in cui rapidissimo era già lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni.

Ferrovie, autostrade, aerei e lo sviluppo della telefonia consentirono sostanzialmente di annullare l’effetto dei provvedimenti di soggiorno obbligato e ciò anche in relazione a una nota paradossale della relativa disciplina. Se infatti il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno.

Il contesto mafioso si riproduceva dunque nelle località di soggiorno obbligato dove si verificavano riunioni operative e financo cerimonie di affiliazione. Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia.

Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante.

L’esempio più clamoroso è quello di Bardonecchia dove il condizionamento del mercato del lavoro e lo stesso consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Altri comuni dell’hinterland milanese come Corsico e Buccinasco, ancora oggi, sono pesantemente condizionati dalla ‘ndrangheta.

In estrema sintesi e conclusivamente sul punto si può dire che la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi; quella principale in Calabria, l’altra nei comuni del centro-nord Italia oppure nei principali paesi stranieri che sono cruciali per i traffici internazionali di stupefacenti.

Un’organizzazione mafiosa che trova il modo di affrontare le sfide e i cambiamenti imposti dalla modernità globale, nel modo più sorprendente e inatteso: rimanere uguale a se stessa. In Calabria come nel resto del mondo.

I TRAFFICI DI DROGA

Non sarà inutile ricordare in proposito che nel 1988 l’allora dirigente della squadra mobile di Cosenza (poi divenuto dirigente del Sismi e ucciso a Bagdad il 4 marzo 2005 durante una missione) Nicola Calipari recuperò in un appartamento a Sidney un incartamento con rituali di affiliazione, formule di giuramento e codici. Un incartamento simile per molti aspetti a quello sequestrato dai Carabinieri nelle campagne di San Luca già negli anni trenta del secolo scorso.

Il rispetto della tradizione criminale come premessa per la proiezione nazionale e internazionale dei traffici illeciti. Negli ultimi anni numerosissime indagini hanno messo in luce queste caratteristiche della ‘ndrangheta e hanno mostrato come essa sia oramai l’organizzazione più ramificata e radicata territorialmente nelle regioni del centro-nord e in molti paesi stranieri di tutti i continenti.

Basterà citare una sola di queste indagini, a mero titolo esemplificativo, per avere un’idea delle dinamiche criminali, delle proiezioni nazionali ed internazionali, delle enormi proporzioni economiche del fenomeno. Nel 2004 l’operazione convenzionalmente denominata Decollo concludeva una complessa indagine transnazionale durata alcuni anni che aveva interessato diverse regioni italiane: Lombardia, Calabria, Emilia-Romagna, Campania, Lazio, Liguria, Piemonte e Toscana; e poi paesi stranieri come Colombia, Australia, Olanda, Spagna e Francia. Le famiglie Mancuso di Limbadi e Pesce di Rosarno furono accusate di aver immesso sul mercato «ingentissimi quantitativi di cocaina tra il Sud America (Colombia e Venezuela), l’Europa (Italia, Francia, Spagna, Olanda e Germania), l’Africa (Togo) e l’Australia, riciclandone quindi i proventi con le più diversificate tecniche di trasferimento e di dissimulazione»

La droga era nascosta all’interno di containers che trasportavano carichi di marmo, plastica, cuoio, scatole di tonno, materiale tutto oggetto di import-export tra Sud America ed Europa. Una partita di droga di 434 kg di cocaina era arrivata al porto di Gioia Tauro nel marzo del 2000, un’altra di 250 kg sempre di cocaina proveniente da Cartagena in Colombia era arrivata a Gioia Tauro nel gennaio del 2004.

Tra le due date, d’inizio e di conclusioni delle indagini, una miriade di altri episodi. Una parte del riciclaggio dei proventi avveniva in Australia attraverso “un sofisticato meccanismo di intermediazione che vedeva l’impiego di specialisti in grado di assicurare i passaggi bancari necessari a perfezionare i trasferimenti del denaro”. Il contagio delle ‘ndrine da Limbadi e Rosarno all’Australia. Da San Luca a Duisburg. Molecole criminali che schizzano, si diffondono e si riproducono nel mondo. Una mafia liquida, che si infiltra dappertutto, riproducendo, in luoghi lontanissimi da quelli in cui è nata, il medesimo antico, elementare ed efficace modello organizzativo.

Alla maniera delle grandi catene di fast food, offre in tutto il mondo, in posti fra loro diversissimi, l’identico, riconoscibile, affidabile marchio e lo stesso prodotto criminale. Alla maniera di Al Qaida con un’analoga struttura tentacolare priva di una direzione strategica ma caratterizzata da una sorta di intelligenza organica, di una vitalità che è quella delle neoplasie, e munita di una ragione sociale di enorme, temibile affidabilità. Il segreto per la ‘ndrangheta è questo. Tutto nella tensione fra un qui remoto e rurale e arcaico e un altrove globalizzato, postmoderno e tecnologico.

Tutto nella dialettica fra la dimensione familiare del nucleo di base, e la diffusione mondiale della rete operativa. La capacità di far coesistere con inattesa efficacia una dimensione tribale con un’attitudine moderna e globalizzata è stata fino ad oggi la ragione della corsa al rialzo delle azioni della ‘ndrangheta nella borsa mondiale delle associazioni criminali.

Proprio questa tensione, questo fattore di successo potrebbe rivelarsi però, in prospettiva, un fattore di disgregazione. Le ‘ndrine infatti sono, individualmente considerate, troppo piccole per reggere gli enormi traffici che hanno messo in moto.

Sono in continua competizione fra loro e, paradossalmente, la loro diffusione planetaria si accompagna a un’intensificata ossessione per il controllo (militare, politico, amministrativo, affaristico) dei circoscritti territori di rispettiva competenza. Una febbre di crescita, una situazione instabile ed entropica che comincia a produrre gravi scricchiolii e potrebbe generare una crisi di sistema. Sul punto è necessaria qualche precisazione. La ‘ndrangheta si è mossa sempre cercando di evitare la sovraesposizione, la luce dei riflettori, l’attenzione dei media.

Le ‘ndrine si sono combattute in modo sanguinoso, hanno ucciso migliaia di persone, hanno intimidito con minacce e attentati centinaia di amministratori locali, ma non hanno mai realizzato azioni capaci di attirare in modo durevole l’attenzione nazionale e men che meno quella internazionale.

La ‘ndrangheta ha in sostanza adottato una strategia opposta a quella dei corleonesi e la Calabria non ha mai conosciuto una stagione di stragi o di morti eccellenti. Fanno eccezione gli omicidi di Ludovico Ligato nel 1989 e di Antonino Scopelliti nel 1991, ma si tratta appunto di eccezioni, caratterizzate da specifiche peculiarità e che non alterano i termini di un modello di condotta mantenuto sostanzialmente integro nei decenni.

In quest’ultimo biennio però, sono accaduti fatti che mettono in crisi quel modello e la febbre di crescita cui si faceva cenno ha generato azioni clamorose che non trovano riscontro nella lunga storia precedente. Una di queste azioni è la strage di Duisburg.

L’altra è l’omicidio di Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, colpito dai sicari mentre usciva dal seggio dove aveva votato per le primarie dell’Unione. La prima volta che la ‘ndrangheta mira così in alto nella gerarchia politico-amministrativa. In entrambi i casi la ‘ndrangheta accetta il rischio che queste azioni comportano. Per entrambi i casi, forse, l’accettazione di questo rischio potrebbe essere stata un calcolo sbagliato

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA

LA ‘NDRANGHETA. Le origini della mafia calabrese, un tempo sconosciuta e impunita. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 14 aprile 2022.

La scoperta del termine ‘ndrangheta è molto più recente e per trovarne le prime tracce dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso. La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa meno conosciuta e meno indagata. Uno dei suoi punti di forza risiede esattamente in questa scarsa conoscenza e debole attività investigativa

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

1869. Quell’anno gli elettori della città di Reggio Calabria furono chiamati a votare per due volte. Le elezioni amministrative erano state annullate e si dovettero rifare. L’attiva presenza in campagna elettorale e durante le votazioni di elementi mafiosi aveva alterato il risultato della competizione. In quelle giornate si erano registrati anche fatti di sangue. Tra le altre persone colpite, anche un medico, sfregiato al volto in pieno giorno.

Il fatto, per quei tempi era enorme e aveva suscitato scalpore e scandalo nell’opinione pubblica. Il prefetto di Reggio Calabria, che si era recato personalmente dalla vittima per verificare le circostanze dell’accaduto, era convinto, come scrisse in una relazione, che “lo sfregio” fosse stato fatto “per grane elettorali”. I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che giravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero “obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità”.

Siamo nel lontanissimo 1869, potremmo essere ai nostri giorni. Uno dei lati meno conosciuti della ‘ndrangheta è proprio il suo rapporto con la politica che, com’è accaduto per Cosa nostra e la camorra, è molto antico anche se è stato meno visibile e a lungo ritenuto inesistente o sottovalutato nella sua dimensione ed importanza.

Essa si è inserita nelle litigiosissime lotte per il potere che in Calabria per un lunghissimo periodo storico – dalla metà dell’Ottocento in poi – si sono caratterizzate come uno scontro furibondo tra famiglie contrapposte che si contendevano i voti usando tutti i mezzi, non esclusi i metodi violenti e mafiosi. Ad inizio decennio, nel 1861, il prefetto di Reggio Calabria aveva notato un’attività di camorristi. Chiamava così i delinquenti dell’epoca non avendo altro nome per definirli.

La scoperta del termine ‘ndrangheta è molto più recente e per trovarne le prime tracce dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso. La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa meno conosciuta e meno indagata.

Uno dei suoi punti di forza risiede esattamente in questa scarsa conoscenza e debole attività investigativa che le ha consentito di agire indisturbata senza subire le attenzioni riservate storicamente da parte degli inquirenti alla mafia siciliana. Per anni e anni essa è stata considerata un’organizzazione criminale secondaria, una mafia minore, una mafia di serie B.

Non a caso tutte le proposte fatte a partire dagli anni sessanta da parlamentari calabresi, da sindaci, da varie organizzazioni di estendere la competenza della commissione parlamentare antimafia anche in Calabria oltre che in Sicilia sono sempre cadute nel nulla.

Si arrivò ad estendere la competenza superando il vincolo territoriale che la relegava alla Sicilia molto tardi, nella X Legislatura con la Commissione antimafia presieduta dal senatore Gerardo Chiaromonte.

Molti ritenevano che il fenomeno mafioso calabrese fosse espressione degli ultimi decenni e fosse nato durante il boom economico degli anni ’60 che aveva portato grandi cambiamenti anche in Calabria determinando un’accelerazione anche dei processi criminali e mafiosi. Era un grosso abbaglio.

Quello che allora apparve a molti come un fenomeno nuovo e originale era in realtà la manifestazione più recente e più evidente di un fenomeno molto antico. La ‘ndrangheta, insomma, non era nata negli anni sessanta del secolo scorso, come molti scrissero e dissero.

NATA NELL’OTTOCENTO

La sua nascita avviene sotto forma di società segreta e non è dubbio che il modello di società segreta più vicino, più simile, più aderente alla realtà, ai valori, alle esigenze della delinquenza organizzata, fosse rappresentato dalla massoneria e dalle società segrete che fiorirono nella prima metà dell’Ottocento, importate in Calabria dai francesi di Gioacchino Murat, con programmi anticlericali, giacobini e pre-risorgimentali.

Tale caratteristica è molto importante per la comprensione del fenomeno e della sua evoluzione sino ai nostri giorni. Essa aveva sicuramente una duplice funzione: la prima, difensiva, per assicurare invisibilità rispetto al potere ufficiale, alla repressione poliziesca e giudiziaria; la seconda, offensiva, per meglio realizzare l’inserimento nei circuiti del potere, nella società e nello stato.

Una siffatta caratteristica, mutuata dalla massoneria del tempo, conservò intatta la sua forza coesiva e il suo vincolo omertoso, rendendola unica, pur nelle sue continue trasformazioni, nel panorama delle organizzazioni criminali.

La ‘ndrangheta - “picciotteria” è il termine usato fino all’inizio del nuovo secolo - è già presente in molti comuni della Calabria post-unitaria, ma lo Stato di allora non ne coglie l’importanza e la pericolosità. Molti, però, non si accorsero della sua attività solo perché non ne era conosciuto il nome, mentre le azioni che segnavano il suo progredire venivano attribuite a formazioni criminali di varia denominazione che non venivano ricomprese in un’associazione riconoscibile con un nome, un’identità, un’organizzazione comune.

Erano in pochi a vedere come invece quei fatti potevano essere attribuiti a un fenomeno che stava prendendo sempre più piede e andava radicandosi. Si estendeva anche grazie ad un sapiente uso dei codici e dei rituali, di modalità simboliche e immaginifiche che avevano il potere di affascinare i giovani, di attrarli nell’orbita ‘ndranghetista, di educarli alla legge dell’omertà e alla convinzione che ci fossero altre leggi più importanti di quelle dello Stato e che tutto ciò fosse appannaggio di una società speciale, composta da “veri” uomini: gli uomini d’onore.

Sorgono così le ‘ndrine a carattere familiare e si diffondono nelle città e nei villaggi più sperduti. Ogni ‘ndrina comanda in forma monopolistica nel suo territorio ed è autonoma dalle altre ‘ndrine operanti nei territori vicini. Il modello organizzativo della ‘ndrangheta si fonda sul “locale”, presente sul territorio laddove esiste un aggregato di almeno 40 uomini d’onore, con un’ organizzazione gerarchica che affida il ruolo di “capo società” a chi possiede il grado di “sgarrista”, regolando la vita interna su rigide e vincolanti regole: assoluta fedeltà e assoluta omertà.

Il mondo esterno, separato da quello della ‘ndrina, era composto da soggetti definiti “contrasti”, categoria inferiore destinataria di disprezzo e dagli uomini dello Stato, gratificati dal giudizio “d’infamità”.

Nella ‘ndrangheta sono sempre esistiti accordi tra famiglie di diversi comuni ed è anche capitato che “capobastone” influenti e prestigiosi estendessero la loro influenza nei territori vicini a quello dov’era insediata la propria famiglia, ma non si è mai arrivati ad un centro di comando unico. Per trovare qualcosa di simile dobbiamo arrivare agli accordi successivi alla guerra di mafia tra il 1985 e il 1991.

IL MODELLO ORGANIZZATIVO ‘NDRANGHETISTA

Il modello organizzativo è profondamente differente dalle altre organizzazioni mafiose: si basa sulla forza dei vincoli familiari e sull’affidabilità garantita da questi legami, un formidabile cemento che unisce e vincola gli ‘ndranghetisti uno all’altro e ne impedisce defezioni e delazioni.

Lo si vede quando esplose il fenomeno dei collaboratori di giustizia. La ‘ndrangheta ha avuto sicuramente un numero meno rilevante di collaboratori e fra essi nessuno era un capo famiglia.

Né ci sono mai stati collaboratori dello spessore criminale di quelli siciliani o campani. La struttura familiare e i suoi codici morali hanno impedito a molti ‘ndranghetisti di parlare. Tra l’altro, il fatto che le ‘ndrine fossero autonome l’una dalle altre ha fatto sì che le poche collaborazioni colpissero la famiglia di appartenenza lasciando intatte le altre, anche le più vicine al loro territorio.

Su questo aspetto è utile un approfondimento. Le collaborazioni di un certo spessore degli anni ’90 sono rimaste in linea di massima casi isolati. Tuttavia le ultime audizioni effettuate in Commissione colgono i segni di una possibile inversione di tendenza. Secondo Mario Spagnuolo, procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, «negli ultimi 4 anni, si è riscontrato un aumento esponenziale (qualitativamente appagante) di collaboratori di giustizia e questo non solo nelle zone in cui tradizionalmente si collabora (il cosentino) ma anche nel crotonese, qualche buon collaboratore di giustizia nel vibonese, ma, soprattutto, sono aumentati i testimoni di giustizia».

E questa rappresenta una novità che incide favorevolmente sul rapporto tra lo Stato e colui che mette la propria vita nelle mani della giustizia. Appare inoltre significativo quanto affermato dal direttore della Direzione Anticrimine Centrale della Polizia di Stato, Franco Gratteri: «per quanto riguarda i collaboratori, posso dire che esponenti organici a famiglie del crotonese, persone importanti che hanno commesso azioni illecite, violente e di una certa gravità, hanno scelto o stanno scegliendo di collaborare. Si tratta di un fatto importante, ma da prendere per quello che è e non saprei dove possa portare in futuro».

Dalle parole del direttore emerge però tutta la complessità del rapporto tra i collaboratori della ‘ndrangheta e la giustizia e la difficoltà nel trasformare il fenomeno della collaborazione in un dato acquisito e costante dell’azione di contrasto.

I dati ci indicano comunque che dal 1994 al 2007, i collaboratori di giustizia in Calabria, pongono la ‘ndrangheta al terzo posto per collaborazioni dopo la camorra e Cosa nostra. Su un totale complessivo di 794 collaboratori di giustizia solo 100 provengono dalla ‘ndrangheta (il 12,6 per cento), mentre 243 dalla mafia siciliana, 251 dalla camorra, 85 dalla Scu, 115 da altre organizzazioni. In controtendenza invece, risulta essere il dato relativo ai testimoni di giustizia. In particolare, su un totale di 71 testimoni, quelli che hanno reso dichiarazioni su fatti di ‘ndrangheta sono 19 (circa il 27 per cento); su fatti di camorra 26, sulla mafia siciliana 12 (e qui emerge altro dato significativo), 2 sulla Sacra Corona Unita e infine 12 su altre organizzazioni.

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA

LA MAFIA CALABRESE. ‘Ndranghetisti e massoni, il giuramento su Garibaldi, Mazzini e La Marmora. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 15 aprile 2022.

La “Santa”, la struttura di ‘ndrangheta creata nella metà degli anni ’70 del secolo scorso. Ad essa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Gli anni ’70 rappresentano un vero e proprio spartiacque che segnerà il corso e la storia della ‘ndrangheta, ponendo le basi della sua evoluzione sino a giungere alla potenza economica e militare che oggi ne contraddistingue il ruolo sui territori e nello scenario criminale internazionale.

In quegli anni si salda anche il tanto analizzato e indagato rapporto con la massoneria, storicamente radicata nella società calabrese.

Scrivono a questo proposito i magistrati della Dda di Reggio Calabria: «Si tratta dell'ingresso dei vertici della 'ndrangheta nella massoneria, che non può avvenire se non dopo un mutamento radicale nella ‘cultura’ e nella politica’ della ‘ndrangheta, mutamento che passa da un atteggiamento di contrapposizione, o almeno di totale distacco, rispetto alla società civile, ad un atteggiamento di integrazione, alla ricerca di una nuova legittimazione, funzionale ai disegni egemonici non limitati all'interno delle organizzazioni criminali, ma estesi alla politica, all'economia, alle istituzioni.

L'ingresso nelle logge massoniche esistenti o in quelle costituite allo scopo doveva dunque costituire il tramite per quel collegamento con quei ceti sociali che tradizionalmente aderivano alla massoneria, vale a dire professionisti (medici, avvocati, notai), imprenditori, uomini politici, rappresentanti delle istituzioni, tra cui magistrati e dirigenti delle forze dell'ordine. Attraverso tale collegamento la 'ndrangheta riusciva a trovare non soltanto nuove occasioni per i propri investimenti economici, ma sbocchi politici impensati e soprattutto quella copertura, realizzata in vario modo e a vari livelli (depistaggi, vuoti di indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti di processi, etc.), cui è conseguita per molti anni quella sostanziale impunità, che ha caratterizzato tale organizzazione criminale, rendendola quasi "invisibile" alle istituzioni, tanto che solo da un paio di anni essa è balzata all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale e degli organi investigativi più qualificati.

Naturalmente l'inserimento nella massoneria, che per quanto inquinata, restava pur sempre un'organizzazione molto riservata ed esclusiva, doveva essere limitato ad esponenti di vertice della 'ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei "locali", in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società.

Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, che restavano in vigore solo per i gradi meno elevati e per gli ingenui, ma non vincolavano certo personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi.

Persino l'attività di confidente, un tempo simbolo dell'infamia, era adesso tollerata e praticata, se serviva a stabilire utili relazioni con rappresentanti dello Stato o se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori. E più oltre: «Esigenze razionalizzatrici dunque che in qualche modo anticipavano e preparavano quei nuovi assetti della 'ndrangheta che hanno formato oggetto della presente indagine, ma che rispondevano anche alla necessità di ‘segretazione’ dei livelli più elevati del potere mafioso, al fine di sottrarli alla curiosità degli apparati investigativi ed alle confidenze dei livelli bassi dell'organizzazione».

UN LUNGO FILO ROSSO

Un lungo filo rosso unisce dunque ‘ndrangheta e massoneria, anche se, stando alle pacifiche conclusioni alle quali sono pervenute indagini giudiziarie e storiche, la reciproca compenetrazione delle due società segrete si consolidò a partire dalla seconda metà degli anni ’70, in singolare e non certo casuale consonanza con quanto avveniva dentro Cosa Nostra, come ebbe a riferire il collaboratore di giustizia Leonardo Messina davanti alla Commissione parlamentare antimafia: «Molti degli uomini d'onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra».

Rimane dunque aperto il tema di come rendere efficace il livello giudiziario e penale quando emerge una dimensione occulta del potere e la sua doppiezza. Le conclusioni sin qui riferite trovano riscontro in alcuni dei documenti “interni” della ‘ndrangheta.

In essi si fa riferimento alle formule di iniziazione alla “Santa”, la struttura di ‘ndrangheta creata nella metà degli anni ’70 del secolo scorso. Ad essa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione.

Due sono gli elementi che appaiono decisivi. Il primo è costituito dall’impegno assunto dai santisti di “rinnegare la società di sgarro”. Dunque le vecchie regole, ancora valide per tutti i “comuni” mafiosi, non valgono più per la nuova èlite della ‘ndrangheta.

I santisti possono entrare in contatto con politici, amministratori, imprenditori, notai, persino magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, se questo può essere utile per l’aggiustamento dei processi, per lo sviamento delle indagini, per stabilire rapporti sotterranei di confidenza e di reciproco scambio di favori.

L’infamità non rappresenta più uno sbarramento invalicabile, può essere aggirata e superata in vista dei vantaggi che la rete dei contatti non più preclusi può assicurare. Il secondo importante elemento è costituito dalla “terna” dei personaggi di riferimento prescelti per l’organizzazione della “Santa”.

Non più gli Arcangeli della società di sgarro – Osso, Mastrosso e Carcagnosso, giunti dalla Spagna in Italia dopo 29 anni vissuti nelle grotte di Favignana- ma personaggi storici, ben noti nella tradizione culturale e politica italiana: Garibaldi, Lamarmora, Mazzini. I primi due, generali dell’esercito italiano, un tempo, in quanto portatori di divisa al servizio dello Stato, sarebbero stati considerati “infami” per definizione, per eccellenza.

Come va spiegato allora un richiamo così solenne ed esplicito a tali personaggi? Qual è il messaggio che attraverso tale indicazione si vuole mandare al popolo della ‘ndrangheta? La risposta è chiara se si osserva come Garibaldi, Lamarmora, Mazzini erano tutti e tre appartenenti a logge massoniche, per di più in posizioni di vertice (Garibaldi fu Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 24 maggio all’8 ottobre del 1864).

L’INGRESSO NELLA SOCIETÀ CIVILE

La ‘ndrangheta, insomma, da corpo separato, si trasforma in componente della società civile, in potente lobby economica, imprenditoriale, politica, elettorale. Da allora diventa l’interlocutore imprescindibile, il convitato di pietra, di ogni affare, investimento, programma di opere pubbliche avviato sia a livello regionale che centrale, ma anche di ogni consultazione elettorale, amministrativa e politica.

Per arrivare a questo risultato, tuttavia, i santisti non potevano entrare in contatto “diretto” con gli esponenti delle istituzioni e del potere economico, almeno all’epoca. Oggi, probabilmente, tutto questo è possibile senza mediazioni, ma in quella fase storica era necessario passare attraverso camere di compensazione, che consentissero a quei contatti la necessaria dose di riservatezza, affidabilità, sicurezza. Furono le logge massoniche ad offrire una tale possibilità. Non tutte certo. Alcune di quelle già esistenti diedero la propria disponibilità, altre furono create per l’occasione, ma sicuramente il sistema massonico-mafioso costituì il formidabile strumento di integrazione delle mafie nel sistema di potere dominante e di captazione nella borghesia degli affari.

Da allora in avanti, il fenomeno ‘ndrangheta appare sempre più con i caratteri di componente strutturale della società meridionale, e non solo, di “istituzione tra le istituzioni”, di attore diretto e principale delle politiche di sviluppo, di investimento, realizzate in quelle aree da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali.

Per questo è verosimile che il ruolo della massoneria, accertato e necessario in altre fasi, sia in gran parte superato, almeno nelle forme finora conosciute.

È però necessario abbandonare alcune categorie di lettura fortemente radicate nella cultura dell’antimafia, categorie che appaiono oggi superate e addirittura di ostacolo ad una lettura idonea a fornire strumenti di analisi e soprattutto di contrasto in grado di avere una qualche possibile efficacia. La prima categoria è quella dell’emergenza.

Se la ‘ndrangheta vive ed opera dall’Unità d’Italia e se essa, con il passare di oltre un secolo e mezzo, ha conservato intatte fisionomia e presenza, accrescendo la sua forza economica e il potere di condizionamento politico, allora di emergenziale nella sua presenza vi è davvero poco.

È piuttosto un fenomeno dinamico, funzionale all’attuale assetto economico-sociale e quindi non contrastabile solo con i consueti interventi repressivi di carattere giudiziario. La definizione della mafia come “antistato”, poi, è di quelle che appaiono suggestive ed accattivanti ma legate all’immagine di una criminalità simile al fenomeno terroristico, intenzionata cioè ad abbattere lo Stato di diritto per sostituirsi ad esso.

Di fronte ad un fenomeno storico di tale portata, non solo non vi è mai stata una seria, duratura, coerente, volontà politica di condurre un’azione di contrasto decisa e irremovibile ma, al contrario, si è registrata, da sempre, una linea ambigua e contraddittoria.

Alle debolezze istituzionali ed ai ritardi culturali si è aggiunto un vero e proprio sistema di collusioni e mediazioni sociali ed economiche, fino a determinare un livello di organicità degli interessi mafiosi alle dinamiche della società determinando il relativo degrado della politica e delle istituzioni. Si è reso così sempre più labile, in intere aree della Calabria il confine tra lo Stato e gli interessi della ‘ndrangheta.

Con questa forza la ‘ndrangheta ha sempre cercato, quando ne ha avuto l’opportunità, di valicare l’area del proprio insediamento.

Il suo essere “locale” – non a caso auto-definizione della sua struttura organizzata centrale - non è mai stato considerato una gabbia o una limitazione al proprio agire mafioso, ha invece rappresentato una pedana di lancio verso altri territori –geografici, economici e sociali- nei quali stabilire relazioni in cui sviluppare nuove attività criminali.

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA

LA ‘NDRANGHETA. Tra passato e futuro, un crimine invisibile che governa la Calabria. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 16 aprile 2022

«La ‘ndrangheta è invisibile come l’altra faccia della luna», così il procuratore dello stato della Florida a Tampa, Julie Tingwall, descrive negli anni ’80 le cosche calabresi operanti in America. Una definizione assai appropriata 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Nel fiume di parole che hanno inondato la Germania e l’Italia immediatamente dopo la strage di Duisburg colpisce in particolare il fatto che la scoperta della ‘ndrangheta sia legata ad una descrizione della stessa come un’organizzazione chiusa, arretrata, avvolta in una faida sanguinaria e feroce.

Tutto ciò sembra stridere con l’epoca in cui viviamo, caratterizzata da processi di globalizzazione di tutte le attività produttive e umane e da una straordinaria capacità di trasmettere informazioni su scala planetaria.

La grande contraddizione, dunque, sarebbe tra una società oramai globalizzata in tutti i suoi aspetti ed una ‘ndrangheta arretrata ed arcaica. In effetti questa mafia agisce e pensa contemporaneamente localmente e globalmente, controlla il territorio, segue e interviene nell’evoluzione dei mercati internazionali.

Per questo oggi è la più robusta e radicata organizzazione, diffusa nell’intera Calabria e ramificata in tutte le regioni del centro-nord, in Europa e in altri paesi stranieri cruciali per le rotte del narcotraffico. Con questo dinamismo ha articolato e diversificato le sue attività.

Abbandonati i sequestri di persona e continuando a controllare l’intero ciclo dell’edilizia, ha investito nella sanità, nel turismo, nel traffico dei rifiuti, nella grande distribuzione commerciale, assumendo anche un ruolo chiave nel controllo dei grandi flussi di denaro pubblico. Ha conquistato ruolo imprenditoriale e soggettività politica.

Una nuova dimensione modellata sulle pieghe della società calabrese, dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino allo Stretto. Niente di vecchio e di arcaico, quindi.

Ma un soggetto criminale moderno con una borghesia mafiosa, lontana apparentemente da tradizionali logiche militari, come dalla gestione delle più imbarazzanti attività criminali (traffico di droga, armi, esseri umani; tutti settori affidati ormai a gruppi collaterali), inserita progressivamente nei salotti buoni, della società; in questo modo si fanno gli affari, si costituiscono le società miste, si appaltano i servizi pubblici, si scelgono i consulenti di chi governa, per determinare le grandi scelte del territorio.

L’inserimento negli organismi elettivi sarebbe già di per sé pericoloso e inquinante, ma esso è a sua volta foriero di ulteriori infiltrazioni: la pratica delle assunzioni clientelari, degli affidamenti di lavori, di forniture e servizi a imprese collegate, consente di allargare sempre di più l’area dell’inquinamento mafioso, sino a stravolgere il mercato del lavoro al pari di quello degli appalti.

La ‘ndrangheta diventa così oltre che soggetto imprenditoriale anche soggetto sociale, contribuendo a dare risposte drogate ai bisogni insoddisfatti dai limiti e dall’assenza di politiche pubbliche.

LE FAMIGLIE E IL TERRITORIO

«La ’ndrangheta è invisibile come l’altra faccia della luna», così il procuratore dello stato della Florida a Tampa, Julie Tingwall, descrive negli anni ’80 le cosche calabresi operanti in America. Una definizione assai appropriata se si considera che l’abilità di mimetizzarsi, di muoversi nell’ombra, nel sottobosco dell’illegalità e nelle pieghe della legalità, costituisce una delle caratteristiche più evidenti della ’ndrangheta, sia in Calabria che nelle sue proiezioni nazionali ed internazionali.

Fino a tre decenni fa, nonostante gestisse efficacemente il traffico di droga e delle armi sul territorio nazionale, non aveva assunto pienamente una dimensione strutturalmente transnazionale. Negli ultimi due decenni le cose sono cambiate e la ‘ndrangheta, partendo dalla Calabria ha affermato la sua presenza negli Stati Uniti, nell’America del Sud e nel Canada, in Europa e in Australia, creando una rete operativa efficiente come poche per compartimentazione e segretezza e riproducendo ovunque le strutture organizzative presenti storicamente nella regione di origine.

Sono decine le cosche e centinaia gli affiliati insediati all’estero. La ‘ndrangheta in questa affermazione sul piano internazionale, si è posta nei confronti delle organizzazioni criminali degli altri paesi in termini di assoluta affidabilità, soprattutto nel campo del narcotraffico, come agli occhi dei cartelli colombiani ai quali è stata capace di offrire maggiori garanzie rispetto alle altre mafie.

In particolare è apparsa più affidabile di Cosa nostra e della camorra, colpite dalla repressione e incrinate nella loro credibilità dal fenomeno dei collaboratori di giustizia. Benché le rigide regole di compartimentazione territoriale operanti all’interno delle rispettive aree di influenza nelle cinque province calabresi portino le singole cosche ad operare in maniera sostanzialmente autonoma, è netta la loro tendenza a strutturarsi in holding criminali per la gestione dei traffici internazionali di droga o per l’infiltrazione negli appalti pubblici riguardanti territori che ricadono sotto l’influenza di più gruppi mafiosi.

Il livello di pervasività è elevatissimo con punte estreme nella provincia di Reggio Calabria dove esso assume una capillarità tale da condizionare ogni aspetto della vita sociale ed economica. Le cosche operanti nell’intera provincia evidenziano differenti caratteristiche e modalità di espressione a seconda della zona di radicamento.

Le cosche dell’area tirrenica, così come buona parte di quelle presenti nel capoluogo, praticano l’occupazione del territorio come principale fattore di accumulazione economica realizzando sia il sistematico condizionamento di tutti i settori produttivi sia lo sfruttamento delle risorse destinate alla realizzazione di importanti opere pubbliche.

Le cosche dell’area ionica, attive su un territorio che offre minori opportunità economiche, caratterizzato da una morfologia impervia ed aspra (dalla costa fino alle vette dell’Aspromonte) e per questo difficilmente permeabile a un’efficace controllo da parte delle forze di polizia, si sono dedicate per anni ai sequestri di persona.

I profitti di questa attività hanno poi costituito la base per l’ingresso in grande stile nel traffico internazionale degli stupefacenti.

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA

LA ‘NDRANGHETA. Il porto di Gioia Tauro, regno di traffici gestiti da una “supercosca”. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 17 aprile 2022

Capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali, coste stuprate dall’abusivismo e dalla cementificazione selvaggia, campagne moderne e ordinatamente coltivate ed ettari di fondi abbandonati, rare isole produttive modernamente attrezzate e reperti di archeologia industriale, usurati dal tempo, testimoni di uno sviluppo promesso e mai arrivato.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Percorrendo la Calabria dal Pollino allo Stretto, zigzagando tra le interruzioni dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria e “gustando” i tempi lunghi imposti da lavori in corso infiniti, si può toccare con mano l’effetto del processo distorto di modernizzazione che negli ultimi trent’anni ha trasformato il paesaggio sociale e produttivo della regione.

Capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali, coste stuprate dall’abusivismo e dalla cementificazione selvaggia, campagne moderne e ordinatamente coltivate ed ettari di fondi abbandonati, rare isole produttive modernamente attrezzate e reperti di archeologia industriale, usurati dal tempo, testimoni di uno sviluppo promesso e mai arrivato.

Nonostante l’impegno politico e finanziario profuso nei decenni - dalla Cassa per il Mezzogiorno a tutta la politica degli interventi straordinari - uno sviluppo armonico della realtà calabrese continua a rimanere una chimera, un obiettivo il cui conseguimento spesso si allontana di pari passo con l’avanzare di programmi e progetti di investimento, inesorabilmente frenati anche dalla presa che la ‘ndrangheta mantiene sull’intera economia della regione.

A fronte della fragilità e permeabilità dell’apparato politico amministrativo e della lentezza con cui procedono gli interventi volti ad una sua razionalizzazione e ad un miglioramento della sua efficienza, la ‘ndrangheta ha manifestato, al contrario, una rapida capacità di adeguarsi alle trasformazioni intervenute nel contesto economico e sociale.

Forte del suo atavico radicamento territoriale, mantenuto costante nel tempo, ed irrobustita da disponibilità finanziarie sempre maggiori, ha acquisito una sempre maggiore capacità di condizionamento ed inquinamento degli organi ed apparati amministrativi e politici calabresi.

Esempi emblematici rimangono i casi del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, grandi, strategiche ed eternamente incompiute infrastrutture, su cui le cosche hanno esteso nel tempo i loro tentacoli sovrastando in alcune fasi il tentativo di contrasto, che pure negli anni ha ottenuto significativi risultati.

In entrambi i casi risulta essersi perpetuato il perverso paradigma in base al quale le infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti e subappalti per la realizzazione delle grandi infrastrutture con quanto ne consegue in termini di dispersione delle risorse e di qualità delle realizzazioni sono state favorite nel corso dei decenni dagli accordi stretti, e spesso raggiunti in via preventiva, tra le grandi imprese nazionali e i capi delle più importanti famiglie mafiose dei territori interessati dai lavori.

Tali patti non si sarebbero potuti stringere in assenza di un sistema di connivenze con gli apparati politico amministrativi. Le indagini svolte e i diversi processi celebrati nell’ultimo decennio hanno messo a nudo un diffuso atteggiamento di pressoché totale assenza di collaborazione da parte degli imprenditori con le forze dell’ordine e la magistratura, oltreché una piena sudditanza alle varie pratiche estorsive: dal pagamento del pizzo, all’imposizione delle forniture e della manodopera, all’accettazione dell’estromissione da gare di appalto e lavori in favore di imprese riconducibili alle famiglie mafiose.

Su tale costume non ha inciso negli ultimi tempi neanche la posizione assunta da Confindustria Sicilia, che ha finalmente approvato un codice deontologico che prevede l’espulsione delle imprese che non denunciano la loro condizione di assoggettamento a Cosa nostra, né la presa di posizione dei vertici nazionali dell’organizzazione, che hanno invitato i loro iscritti a recidere i rapporti con le organizzazioni mafiose.

È significativa la circostanza, certamente non casuale, che proprio Confindustria di Reggio Calabria sia stata commissariata. Ma indagini e processi, come sottolineato dalla Direzione Nazionale Antimafia, hanno evidenziato anche il persistere di un grave problema di infiltrazioni e collusioni tra famiglie mafiose e pubbliche amministrazioni locali.

Così spiega il meccanismo un’ordinanza del gip di Catanzaro del 13/9/2006, emessa nei confronti di appartenenti al clan Mancuso: «La struttura in esame, inoltre, secondo quanto emerso dalle indagini, è riuscita ad infiltrarsi anche nel settore della pubblica amministrazione, pilota l’assegnazione di gare ed appalti pubblici e quindi beneficia, in modo diretto o indiretto, delle notevoli risorse finanziarie a tal fine stanziate. Dalle indagini è emerso dunque uno spaccato desolante delle attività economiche pubbliche o private svolte nel contesto territoriale sopraindicato: tutte le più significative ed importanti realtà produttive e commerciali appaiono dominate dal potere mafioso che annienta la libertà d’iniziativa economica privata, inquina la gestione della cosa pubblica, in una parola impedisce il reale sviluppo del territorio le cui risorse naturali, lungi dall’essere patrimonio della collettività, in realtà diventano strumento di arricchimento e consolidamento dei componenti del gruppo per cui si procede» ed ancora «I Mancuso erano soliti infiltrarsi ad ogni livello sia economico che politico operando unitamente alle famiglie Piromalli e Pesce sulla zona della Piana di Gioia Tauro. In particolare i Mancuso controllavano tutto il vibonese....».

PORTO FRANCO

La Commissione Antimafia della XV Legislatura per la sua prima missione in Calabria ha scelto simbolicamente di cominciare il suo lavoro d’inchiesta nel porto di Gioia Tauro. Si sono svolte lì le prime audizioni. Gioia Tauro ed il suo porto rappresentano la metafora di un processo di modernizzazione senza sviluppo che ha segnato il corso della storia della Calabria da decenni.

È alla fine degli anni ’60, infatti, nel vivo di una straordinaria stagione politica e culturale che animò il dibattito meridionalista che ebbe proprio in Calabria importanti protagonisti, che si afferma la prima grande idea di programmazione degli interventi pubblici. Da allora tanto tempo è passato ma forse quella, al di là delle diverse opinioni, rimane l’ultima grande idea organica di sviluppo della Calabria.

Da quel momento sono cambiate le politiche di intervento verso il Sud al fine di accorciare il divario dal resto del Paese. Rimane però un dato: la Calabria si colloca agli ultimi posti in tutti gli indicatori di sviluppo, economici e sociali. Una storia di illusioni e disincanto che ha animato scontri politici e lotte sociali, dibattiti parlamentari e interessi materiali, grandi inchieste giornalistiche ed azioni giudiziarie.

Una storia complessa con tanti protagonisti e un convitato di pietra: la ‘ndrangheta. II porto, progettato negli anni ‘60 come porto industriale al servizio del mai realizzato V° Centro Siderurgico, venne inaugurato solo nel 1992 e la sua definitiva destinazione fu quella di terminal-hub per containers, sulla base di un progetto dell’imprenditore Angelo Ravano, legale rappresentante della multinazionale Contship Italia, che mirava a farne il principale scalo di transhipment di containers del Mediterraneo.

Il progetto fu condiviso dal Governo dell’epoca, che siglò con il Ravano un apposito “Protocollo di Intesa”. Ed in effetti l'attività avviata dalla Contship e dalla sua filiazione Medcenter Containers Terminal (MCT) si è sviluppata a ritmo elevato, fino a far assumere allo scalo, nel 1995, il ruolo leader nel settore del transhipment nell’area mediterranea.

Le indagini condotte tra il 1996 ed il 1998 dalla Squadra Mobile e dalla Dia di Reggio Calabria, confluite nel processo denominato “Porto”, e conclusosi con la condanna di numerosi imputati, dimostrano come l’interesse e la volontà della ‘ndrangheta di mettere le mani sulla straordinaria occasione di arricchimento costituita dal Porto si fossero manifestate ancor prima che il concessionario iniziasse la sua attività.

Contestualmente, già nella fase ideativa del progetto, si era manifestata la subalternità alla ’ndrangheta della Contship Italia e del suo leader e fondatore Angelo Ravano, con l’obiettivo di realizzare senza ostacoli ed interferenze il suo progetto imprenditoriale.

Ravano mostrava così di considerare l’organizzazione mafiosa non un nemico della libera iniziativa economica, da contrastare e denunciare, ma un interlocutore affidabile e necessario a tutela e garanzia della realizzazione del proprio progetto imprenditoriale.

Il processo, conclusosi nel 2000, ha dimostrato che la realizzazione del più importante investimento di politica-industriale mai pensato per il Sud, era stato preceduto da un preventivo accordo tra la multinazionale diretta dall’imprenditore Angelo Ravano e le cosche Piromalli – Molè di Gioia Tauro e Bellocco – Pesce di Rosarno, allora come oggi dominanti nella Piana di Gioia Tauro, unite in un unico cartello e unitariamente rappresentate nelle trattative dal boss Piromalli.

La circostanza, peraltro, non può suscitare meraviglia, poiché da numerose indagini è emerso come le cosche del reggino, a differenza di quelle radicate in altre realtà territoriali, dopo la fine della guerra fratricida, agli inizi degli anni novanta, avevano dato vita ad una sorta di rete federale ai cui vertici sedevano i capi delle maggiori famiglie, con l’obiettivo di gestire e ripartire tra loro gli affari e dirimere eventuali controversie.

L’accordo prevedeva il pagamento di una sorta di “tassa” fissa di un dollaro e mezzo su ogni container trattato in cambio della “sicurezza” complessiva dell’area portuale. La cifra potrebbe apparire irrisoria ma va rapportata al numero complessivo di containers trattati annualmente, quasi 3 milioni oggi e circa 60mila all’epoca, per capire quanto essa rappresenti un’enorme fonte di liquidità.

Per gestire l’affare miliardario dell’estorsione alla Contship, secondo i giudici del Tribunale di Palmi, le cosche della Piana, sia le più importanti che le minori, si erano federate in una sorta di “supercosca”. Il progetto non riguardava solo il pagamento della “tassa sulla sicurezza”, crescente proporzionalmente allo sviluppo delle attività delle società portuale, ma anche quello di ottenere il controllo delle attività legate al porto, dell’assunzione della manodopera e i rapporti con i rappresentanti dei sindacati e delle istituzioni locali.

La ‘ndrangheta, quindi, coglieva l’occasione che le consentiva di uscire dalla sua condizione di arretratezza per divenire protagonista dinamico della “modernizzazione” della Calabria. Il progetto, nonostante l’azione della magistratura, è stato in parte realizzato: esso ha portato, infatti, al sostanziale dissolvimento di qualunque legittima concorrenza da parte di imprese non mafiose o non soggette alla mafia, estromesse dai lavori, dalle forniture, dai servizi e dalle assunzioni di manodopera ed ha introdotto elementi di scarsa trasparenza nei comportamenti di enti ed istituzioni locali.

Tra questi enti spicca il Consorzio per lo Sviluppo dell’Area Industriale che, nei primi anni, era l’unico organo competente in materia di approvazione di progetti, assegnazione di aree, spesa dei finanziamenti etc.

Negli anni a seguire a ciò si sono aggiunti sia la confusione di poteri e competenze tra il Consorzio e la costituita Autorità portuale sia i conseguenti conflitti tra i due Enti aggravati dall’assenza di controlli e di coordinamento da parte della regione e degli altri enti locali.

Dagli elementi raccolti da questa Commissione i problemi evidenziati sono ancora oggi irrisolti. Perdura il controllo diretto o indiretto da parte della ‘ndrangheta su buona parte delle attività economiche riconducibili all’area interessata e la capacità delle cosche di utilizzare le strutture portuali per traffici illeciti, e anche leciti, di varia natura.

Permangono ugualmente scelte e comportamenti di poca trasparenza degli enti titolari di competenze sull’area portuale e sull’adiacente area di sviluppo industriale.

Tale situazione, se non vi si pone rimedio, è inevitabilmente destinata ad aggravarsi in relazione agli ingenti investimenti che nei prossimi anni interesseranno l’intera area di Gioia Tauro e lo sviluppo dello Scalo: - costruzione dell’impianto per la rigassificazione del gas naturale liquefatto, cui si accompagnerebbe la cosiddetta “piastra del freddo”, con l’insediamento di aziende manifatturiere e logistiche legate all’utilizzo del freddo, sottoprodotto dell’impianto principale; - piattaforma logistica intermodale, destinata a sfruttare le grandi aree disponibili per l’allestimento di molteplici servizi collegati allo scalo merci, che verrebbe collegato a differenziate reti di trasporto; - hub automobilistico, destinato ad accogliere i veicoli esportati in Europa dalle industrie dell’Estremo Oriente, con relativo adeguamento di tutte le strutture oggi esistenti.

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA

LA MAFIA CALABRESE. Le grandi famiglie della Piana divise fra cocaina e rifiuti tossici. COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA su Il Domani il 18 aprile 2022

Le attività di intelligence ed investigative hanno dimostrato che gran parte delle attività economiche che ruotano attorno e all’interno dell’area portuale sono controllate o influenzate dalle cosche della Piana, che utilizzano la struttura anche come scalo per i loro traffici illeciti.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Le cosche Piromalli – Molè, Bellocco- Pesce e le altre ad esse collegate hanno già dimostrato di non trascurare alcun settore economico nelle zone da esse dominate, con una grande capacità di adeguarsi sia dal punto di vista strettamente criminale che da quello finanziario ed imprenditoriale alle nuove opportunità offerte loro sul territorio.

Le attività di intelligence ed investigative hanno dimostrato che gran parte delle attività economiche che ruotano attorno e all’interno dell’area portuale sono controllate o influenzate dalle cosche della Piana, che utilizzano la struttura anche come scalo per i loro traffici illeciti. Peraltro, come rilevato dalla stessa Dda la fase di pace che caratterizza l’attuale momento storico e l’assenza di manifestazioni eclatanti di violenza verso le imprese può avere una sola spiegazione: le cosche hanno deciso di gestire nel silenzio i grandi affari che si prospettano nella Piana e di continuare a sfruttare nel modo migliore il controllo che esse esercitano sul porto.

Sempre la Dda di Reggio Calabria, con un’indagine condotta assieme ai Ros dei Carabinieri, ha svelato l’esistenza di un gruppo criminale con funzionari infedeli dell’Agenzia delle Dogane, responsabile di controlli doganali irregolari. Il circuito delle verifiche doganali e dei servizi di intelligence e di controllo dei containers sbarcati – circa 3.000.000 nel 2006 – ha un’importanza strategica per il contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Del resto è l’intera gamma delle attività interne e dell’indotto a subire il condizionamento mafioso: dalla gestione dello scalo alle assegnazioni dei terreni dell’area industriale, dalla gestione della distribuzione e spedizione delle merci al controllo dello sdoganamento e dello stoccaggio dei containers.

TANTE ATTIVITÀ ILLECITE

Ma il porto offre alle cosche anche un’importante opportunità per diversificare le proprie attività illecite:

Traffico illecito di rifiuti: l’indagine “Export” del luglio 2007, condotta dalla Procura della Repubblica di Palmi, ha consentito il sequestro, nell’area portuale, di 135 containers carichi di rifiuti di diversa specie e qualità diretti in Cina, India, Russia ed in alcune nazioni del Nord Africa. Si tratta di un’indagine particolarmente complessa che coinvolge anche le Procure di Bari, Salerno, S. Maria Capua Vetere, Monza e Cassino e riguarda 743.150 Kg. di rifiuti da materie plastiche, 154.870 Kg. di contatori elettrici, 1.569.970 Kg. di rottami metallici, 10.800 Kg. di parti di autovetture e pneumatici, 695.840 Kg. di carta straccia. Rilevantissimo è il numero delle persone indagate con il coinvolgimento di 23 aziende italiane operanti nel campo dello smaltimento dei rifiuti.

Contrabbando di tabacchi: questa attività sta attraversando, nuovamente, una fase di espansione, e, contemporaneamente, una fase di trasformazione dei modelli tradizionali. La crescita delle vendite illegali di tabacchi coincide con il generale aumento dei consumi mondiali – specie delle zone più povere – frutto dell’intensa opera di marketing delle multinazionali. I grandi produttori di sigarette, infatti, vogliono recuperare, a livello mondiale, le perdite determinate dalla notevole contrazione della domanda, verificatasi negli ultimi anni nei paesi occidentali, e soprattutto negli Usa, in conseguenza dei successi delle campagne antifumo e dei sempre più diffusi impedimenti legali al consumo.

Il 7 giugno 2006, nove tonnellate di tabacco di contrabbando di marca ''Bon'', per un valore di un milione e mezzo di euro, sono state sequestrate dalla guardia di finanza al termine di un’operazione condotta nel porto di Gioia Tauro. Il carico è stato scoperto all’interno di un container proveniente da Jebel Ali (Emirati Arabi) con la motonave ''Msk Detroit''. Il contenitore carico di sigarette, ma che avrebbe dovuto trasportare giocattoli, era destinato in Croazia.

Il 2 agosto 2006 sono state sequestrate oltre sei tonnellate di sigarette. Erano nascoste all'interno di un container sempre proveniente da Jebel Ali (Emirati Arabi) e con successiva destinazione Salonicco (Grecia). Il container doveva contenere ''pannelli di cartongesso'' e invece sono state trovate oltre 30 mila stecche di sigarette di marca ''Passport'' per un valore di oltre un milione di euro”.

Traffico di sostanze stupefacenti: Il porto, come evidenziato dall’operazione “Decollo bis”, rappresenta un nodo strategico per tutte le rotte mediterranee della droga. Questa operazione portava all’emissione da parte del Gip di Catanzaro di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 112 soggetti, tra i quali alcuni esponenti della cosca Pesce di Rosarno.

Nell’ambito della stessa operazione, nel porto di Salerno venivano sequestrati 541 kg. di cocaina, importata attraverso la ditta Marmi Imeffe di Vibo Valentia con destinazione il porto di Gioia Tauro. L‘operazione è una delle tante che provano come il porto nella fase della massima espansione delle sue attività fosse già utilizzato dalle ‘ndrine come porta d’accesso di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti.

Anche dalle audizioni degli organi a ciò istituzionalmente demandati, è emerso che, nonostante indubbi progressi in tema di prevenzione e repressione (rafforzamento dell’apparato di contrasto, creazione del Commissariato Straordinario per la sicurezza del porto; Patto Calabria Sicura, stipulato tra Ministero degli Interni, Regione Calabria, Provincia di Catanzaro, Provincia di Reggio Calabria; Programma Calabria) l’area portuale di Gioia Tauro continui a mantenere intatta la sua problematicità.

È stato evidenziato, infatti, che il bacino portuale, che oggi movimenta più di 7500 containers al giorno su tratte internazionali ed intercontinentali, e che presenta enormi potenzialità di espansione, necessita del potenziamento dei sistemi di controllo sulle attività che in esso si svolgono.

Nello specifico, il Prefetto di Reggio Calabria ha posto la necessità di una verifica dell’entità – in termini di uomini e mezzi - e dell’efficacia sia della presenza di Capitaneria di Porto che della Guardia di Finanza, in modo da rendere effettivi e capillari i controlli sui movimenti di merci in un’area di così vasta portata, visto che le cosche esercitano un «pacifico e disciplinato controllo del territorio grazie al flusso economico determinato dal sistema porto anche nell’indotto», con conseguente «rarefazione di manifestazioni violente nella zona».

Anzi, «l’assenza di attentati o danneggiamenti di alcun tipo nell’area del Porto è il chiaro segnale di un controllo che non ha bisogno di prove di forza per continuare ad aumentare e consolidare il proprio potere».

Tuttavia il contesto descritto potrebbe essere messo in crisi dall’eclatante e simbolico omicidio del boss Rocco Molè, capo dell’ala militare della cosca Piromalli-Molè, avvenuto nei pressi della sua abitazione, a Gioia Tauro, il 1° febbraio 2008.

LE DIFFICOLTÀ DELLO STATO NEL CONTRASTARE LA MAFIA

La conclusione cui giunge il Prefetto è indicativa delle difficoltà anche degli organi dello Stato nello sviluppo dell’azione di contrasto: in un contesto così pervaso dalla presenza mafiosa, inabissata o dissimulata all’interno del sistema delle imprese e delle attività legali, sul piano della prevenzione generale, l’attività di forze di polizia e magistratura pur di elevatissima professionalità, è insufficiente e occorre attivare una rete di infiltrazione non convenzionale idonea a raccogliere informazioni utili su cui fondare l’opera dei primi.

Conferma che arriva anche dal Presidente dell’Autorità Portuale che ha segnalato due casi inquietanti.

Nel primo caso, nell’ambito di un procedimento finalizzato al rilascio di una concessione demaniale pluriennale richiesta dalla società Meridional trasporti, l’Autorità portuale, dopo avere accertato che la società risultava in possesso di certificazione antimafia, acquisiva un’informazione prefettizia che, al contrario, segnalava il pericolo di infiltrazione mafiosa a carico della stessa, mettendo così a nudo un problema più generale che deve far riflettere sull’efficacia reale della stessa certificazione antimafia.

Nel secondo caso, nel corso di lavori già affidati in subappalto all’impresa Tassone – contratto di nolo a caldo – l’Autorità portuale acquisiva informazioni prefettizie che segnalavano il pericolo di infiltrazioni mafiose a carico del subappaltatore. La conseguente ingiunzione all’appaltatore principale di revocare il contratto di sub appalto, restava, tuttavia, priva di effetto poiché la ditta non veniva allontanata dal cantiere.

La persistente criticità della situazione dell’area portuale è stata evidenziata anche dalla Dac (Direzione Centrale Anticrimine) nella relazione del gennaio 2008 consegnata alla Commissione, che ha evidenziato il riproporsi di segnali allarmanti della persistente presa delle cosche sulle intere attività economiche della piana.

Un’inchiesta conclusa nel 2001 portava, infatti, all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di dieci soggetti tra i quali Carmelo Bellocco e Antonio Piromalli, indagati per associazione mafiosa ed estorsione, ritenuti responsabili di controllare e condizionare con tali mezzi la regolarità delle attività incentrate sul porto di Gioia Tauro.

È particolarmente allarmante che nell’area portuale siano ancora presenti imprese accertatamente mafiose già individuate nel corso dell’indagine “Porto” le quali, ricorrendo al semplice espediente del cambiamento di denominazione o ragione sociale, hanno tranquillamente continuato per anni, e continuano tuttora, ad operare.

In questo contesto è comunque positivo che sia stato rinforzato il dispositivo di contrasto con la creazione di un pool investigativo composto da operatori della Sezione Criminalità Organizzata della Squadra Mobile di Reggio e del Commissariato ps di Gioia Tauro con il compito esclusivo di investigare e fronteggiare le infiltrazioni mafiose nel porto.

La Commissione, pertanto, sulla base dei comuni allarmi lanciati dai soggetti istituzionali ascoltati nelle audizioni, sottolinea il perdurare delle infiltrazioni mafiose nel tessuto economico ed imprenditoriale nell’area portuale e ne evidenzia il peso sociale ed economico, con una capacità delle principali cosche della Piana di intessere relazioni ambigue e pericolose sia con i soggetti economici che con quelli istituzionali.

In relazione a tale quadro, particolare preoccupazione suscita il preannunciato arrivo di ingenti finanziamenti europei, nazionali e regionali. Lo stesso Dpef del 2007 ha inserito Gioia Tauro tra le aree destinatarie di investimenti particolareggiati.

In questo quadro la Commissione auspica che si determini il massimo sostegno alle forze di polizia ed alla magistratura sviluppando in modo sempre più efficace l’azione di contrasto anche con un migliore coordinamento interforze di tutti i corpi di polizia. Utile potrebbe essere l’impegno degli apparati di intelligence, al fine di acquisire e fornire a polizia e magistratura informazioni altrimenti difficilmente disponibili.

Attività da sviluppare comunque in modo trasparente e sotto il controllo delle istituzioni parlamentari. È altrettanto necessario superare la confusione di poteri e competenze tra Enti ed istituzioni territoriali e regionali causa anch’essa della scarsa trasparenza dei processi decisionali e punto di fragilità in cui, come già è avvenuto, più facilmente si annida il pericolo di infiltrazioni mafiose. Infine, diventa sempre più urgente l’istituzione di una banca dati centralizzata delle certificazioni e delle informative antimafia e la stipula di protocolli che definiscano procedure certe e automatiche per lo scambio di informazioni tra la Dna, la Dia e il ministero degli Interni.

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA XV LEGISLATURA

LA ‘NDRNGHETA. L’Autostrada del Sole e gli affari delle ‘ndrine svincolo dopo svincolo. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA Il Domani il 19 aprile 2022.

Altrettanto emblematico è il caso dell’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria, l’autostrada mulattiera, eterna incompiuta, simbolo materiale della permanenza nel Paese di una storica questione meridionale e della precarietà della condizione della Calabria.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Altrettanto emblematico è il caso dell’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria, l’autostrada mulattiera, eterna incompiuta, simbolo materiale della permanenza nel Paese di una storica questione meridionale e della precarietà della condizione della Calabria, eternamente malata, perennemente in “cura” ma costantemente incapace di guarire dai suoi mali strutturali.

L’autostrada, realizzata in meno di dieci anni, tra la metà degli anni sessanta e la metà degli anni settanta doveva unire il Mezzogiorno d’Italia al resto del Paese ed all’Europa, e rappresentare una sorta di via d’uscita dal sottosviluppo e dall’arretratezza.

Per questa sua funzione strategica, considerate le condizioni sociali delle aree interessate, la legge 729 aveva previsto anche l’esenzione dal pedaggio. La sua costruzione, sebbene portata a termine in tempi accettabili in relazione alla sua lunghezza – oltre 440 chilometri - fu segnata, fin dalle prime fasi, dalla presenza delle organizzazioni mafiose e dal loro intervento, che ne hanno accompagnato la storia infinita fino ai nostri giorni.

Come ebbe a sottolineare l’allora Questore di Reggio Calabria Santillo, già in quei primi anni ‘70, le imprese settentrionali vincitrici degli appalti si rivolgevano agli esponenti mafiosi prima ancora di aprire i cantieri: contraevano così una sorta di precontratto per garantirsi la sicurezza e affidare loro le guardianìe, per selezionare l’assunzione di personale e assegnare le forniture di calcestruzzo e le attività di movimento terra.

Negli anni l’autostrada, che era stata progettata con caratteristiche tecniche rispecchianti la classificazione delle strade dell’epoca, ha manifestato in modo sempre più evidente gravi limiti, inadeguata a sopportare i crescenti volumi di traffico e l’esplosione del trasporto su gomma.

Questi limiti, assieme all’aggiornamento della normativa sulle caratteristiche geometriche delle strade, sulle strutture in cemento armato, sulle aree sismiche, sulla stabilità dei pendii e sui parametri di sicurezza, hanno reso necessaria la sua riqualificazione.

Così, dal 1997, sono perennemente in corso lavori di ammodernamento ed ampliamento della struttura, sostenuti da finanziamenti pubblici nazionali ed europei interminabili, con continui incrementi delle previsioni di spesa e relativi aggiornamenti dei bandi di gara.

LE INCHIESTE DELLA MAGISTRATURA

Un affare senza fine di cui non poteva non occuparsi oltre alla ‘ndrangheta anche la magistratura. La prima inchiesta, denominata “Tamburo” e coordinata dalla Dda. di Catanzaro, nel 2002 portava all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 40 indagati, tra i quali imprenditori, capimafia, semplici picciotti e funzionari dell’Anas.

Con la stessa ordinanza venivano sequestrate diverse imprese attive nei lavori di movimento terra, nella fornitura di materiali edili e stradali e nel nolo a caldo di macchine. La seconda, più recente, denominata “Arca” e coordinata dalla Dda di Reggio Calabria ha portato all’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 15 indagati.

In questo caso, oltre al sequestro di diverse imprese impegnate nei subappalti, tra gli arrestati, assieme ai capimafia e ai titolari di imprese, compare anche un sindacalista della Fillea – Cgil. Da entrambe le inchieste emerge un vero e proprio sistema fondato sulla connivenza delle imprese e sulle collusioni e le inefficienze della pubblica amministrazione che, immutabile nel tempo, caratterizza in Calabria, ogni intervento pubblico finalizzato alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali.

È opportuno precisare che si tratta di procedimenti in corso e che sui fatti che ne costituiscono oggetto non è stata ancora emessa sentenza definitiva ma, lungi dall’assumere i provvedimenti giudiziari come fonte di verità definitivamente sancita, la Commissione può e deve tuttavia utilizzarne i dati di maggiore interesse che rappresentano anche i più recenti elementi di conoscenza.

In ogni caso si tratta di elementi vagliati dall’autorità giudiziaria e, al di là dell’iter processuale, di fatti oggettivamente certi. Le due indagini hanno preso in considerazione i lavori di ammodernamento dell’autostrada riguardanti due distinte aree territoriali: l’inchiesta della Dda di Catanzaro ha analizzato i lavori ricadenti nel tratto Castrovillari – Rogliano in provincia di Cosenza, la seconda, della Dda di Reggio Calabria, i lavori ricadenti nel tratto Mileto – Gioia Tauro. Nell’uno e nell’altro, il meccanismo di controllo e sfruttamento realizzato dalle diverse organizzazioni mafiose è lo stesso.

Questa omogeneità di comportamenti è stata spiegata dal collaboratore Antonino Di Dieco, un commercialista che negli anni aveva assunto un ruolo di primo piano nelle cosche del cosentino ed era poi divenuto il rappresentante della famiglia Pesce nella provincia di Cosenza, il quale ha riferito come tutte le principali famiglie, i cui territori erano attraversati dall’arteria autostradale, avevano raggiunto tra loro un accordo per lo sfruttamento di quella che costituiva una vera miniera d’oro.

L’accordo prevedeva una sorta di predefinizione delle procedure applicabili ed una ripartizione su base territoriale delle zone di competenza con i relativi “pagamenti” secondo il seguente schema riferito dallo stesso Di Dieco:

le famiglie della sibaritide, con quelle di Cirò, per il tratto che andava da Mormanno a Tarsia;

le famiglie di Cosenza, per il tratto che andava da Tarsia sino a Falerna;

le famiglie di Lamezia (Iannazzo), per il tratto che andava da Falerna a Pizzo;

la famiglia Mancuso per il tratto che andava da Pizzo all’uscita Serre;

la famiglia Pesce per il tratto compreso tra la giurisdizione di Serre e Rosarno;

la famiglia Piromalli per il tratto rientrante nella giurisdizione di Gioia Tauro;

le famiglie Alvaro - Tripodi, Laurendi, Bertuca per il restante tratto che da Palmi scende verso Reggio Calabria.

LA SPARTIZIONE DEL TERRITORIO

Ricostruendo geograficamente le tratte si può quindi affermare che i lavori vanno avanti sotto uno stretto controllo mafioso. Ovviamente questo non è estraneo all’enorme ritardo accumulato dalle imprese per la realizzazione dell’opera moltiplicando i suoi costi. Si è così evidenziato una sorta di “pedaggio” istituzionalizzato, da casello a casello.

Questo è quanto avviene alla fine degli anni ’90. Vent’anni prima, invece, all’epoca della costruzione dell’arteria, il meccanismo denunciato dal Questore Santillo era il seguente: - la ‘ndrangheta imponeva senza grandi difficoltà alle grandi imprese affidatarie degli appalti – dagli atti processuali citati sono risultate coinvolte imprese quali la Asfalti Syntex SpA; la Astaldi Spa; l’Ati Vidoni – Schiavo; la Condotte SpA; la Impregilo SpA; la Baldassini & Tognozzi Spa - le funzioni di capo area o direttore dei lavori a soggetti graditi alle cosche, i quali si curavano di mediare le richieste mafiose e portarne l’esito a buon fine.

Ecco di cosa si trattava:

- pagamento di una percentuale del 3 per cento sull’importo complessivo dei lavori;

- assunzione di lavoratori in cambio del controllo sui loro comportamenti.

A riguardo risulta assai significativo che l’ordinanza di custodia cautelare abbia raggiunto tale Noè Vazzana, indagato per avere fatto parte dell’associazione mafiosa nella sua qualità di sindacalista, favorendo l’assunzione di lavoratori del luogo (legando così gli stessi all’associazione da un punto di vista clientelare in un’area ad altissimo indice di disoccupazione) e garantendo che sui cantieri di lavoro non vi fossero lotte o problemi sindacali; affidamento dei subappalti a proprie imprese o imprese da esse controllate, provvedendo all’emarginazione di quelle non disposte a rientrare nel quadro predefinito dalle cosche; -imposizione di forniture di materiali di qualità inferiore a quella prevista dai contratti a fronte di prezzi invariati.

Questo meccanismo, che si è ripetuto del tutto identico a distanza di anni, funzionava alla perfezione in primo luogo per la sostanziale adesione delle imprese appaltanti che, dopo avere trattato e dopo avere accolto le richieste estorsive, si davano da fare per farvi fronte ricorrendo al sistema delle sovrafatturazioni o consentendo l’apertura dei cantieri in subappalto prima ancora che questi fossero autorizzati dalla stazione appaltante principale.

Ma, ciò era possibile anche per la sostanziale assenza di controlli quando non per la connivenza, da parte degli organi ad essi preposti: in particolare il Responsabile Unico del procedimento ed il Direttore dei lavori, entrambi espressione della Stazione appaltante, in questo caso l’Anas, Ente Pubblico Economico (art. 1 dello Statuto D.P.R. 242 del 21/4/1995), che sarebbe stato obbligato al rigoroso rispetto della normativa in materia di lavori pubblici.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

LA ‘NDRANGHETA. Una holding criminale che controlla appalti pubblici e imprese private. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 20 aprile 2022

Non si possono comprendere la forza della ‘ndrangheta, la sua diffusione, il suo radicamento nella regione e l’espansione delle sue attività al nord ed all’estero, se non se ne coglie in profondità la natura di grande holding economico-criminale. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Ovviamente il problema delle infiltrazioni mafiose non è limitato all’autostrada A3, che pure ne rappresenta il caso emblematico, ma riguarda l’intero settore dei lavori pubblici in Calabria e nella fascia tirrenica del reggino in particolare, in cui le famiglie Piromalli – Molè e Bellocco – Pesce possono vantare una lunga tradizione.

Infatti, come riferito dalla D.A.C. nella relazione citata, già nell’anno 2002 a conclusione di un’inchiesta della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, era stata emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 43 indagati appartenenti alle cosche predette, per reati analoghi a quelli relativi ai lavori autostradali commessi in occasione di appalti pubblici per lavori interessanti l’intero versante tirrenico della provincia di Reggio.

Nel luglio 2007, a conclusione di un’altra inchiesta della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, è stata eseguita ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 16 indagati, appartenenti alla cosca Crea, storica alleata dei Piromalli di Gioia Tauro e degli Alvaro di Sinopoli, responsabili, tra l’altro, di avere ottenuto il controllo di appalti pubblici nel comune di Rizziconi (RC) attraverso la diretta assegnazione di lavori ad imprese riconducibili alla locale famiglia.

Che il problema sia diffuso e radicato e che nessuna parte del territorio calabrese ne sia esente è testimoniato, inoltre, da due inchieste condotte dalla Procura Distrettuale di Catanzaro e dalla Procura della Repubblica di Paola, che hanno portato al sequestro del porto di Amantea ed al sequestro del porto di Cetraro, strutture entrambe controllate dalla ‘ndrangheta e non solo per gli interessi sugli appalti riguardanti il loro ammodernamento ma anche per le opportunità che i porti, anche quelli a vocazione diportistica, offrono ormai per lo sviluppo dei traffici illeciti.

Dalla situazione descritta emerge che le cosche, facendosi esse stesse imprenditrici, o controllando in modo diffuso e capillare il settore degli appalti e dei lavori pubblici e privati, condizionano il mercato del lavoro, segnato in Calabria da una debolezza strutturale e di conseguenza esercitano un condizionamento sociale diffuso capace di incidere sui diversi livelli istituzionali e sulla pubblica amministrazione.

LA FORZA DELLA ‘NDRANGHETA

Non si possono comprendere la forza della ‘ndrangheta, la sua diffusione, il suo radicamento nella regione e l’espansione delle sue attività al nord ed all’estero, se non se ne coglie in profondità la natura di grande holding economico-criminale. La storia degli ultimi decenni ha mutato e segnato il corso di questa evoluzione da mafia arcaica a mafia imprenditrice a centrale finanziaria della globalizzazione. Mantenendo sempre, come un tratto costante, il controllo maniacale, quasi ossessivo, del territorio e delle strutture sociali ed economiche ad esso riferite. Anni di trasformazioni e di interventi per lo sviluppo segnati da grandi flussi finanziari dello Stato e dell’Unione Europea destinati alla Calabria hanno accompagnato questo salto di qualità, la cui evoluzione si era già sperimentata, dopo i primi anni ’70, col controllo degli appalti per l’autostrada Salerno-Reggio Calabria e l’insediamento industriale nell’area di Gioia Tauro. Per questo vanno colti i nessi tra le dinamiche del processo di modernizzazione della Calabria e le ragioni del suo mancato sviluppo economico, produttivo, sociale e civile, e in questo doppio processo va individuato il ruolo che la ‘ndrangheta ha avuto nel drenare risorse immense aggredendo, attraverso la permeabilità della macchina amministrativa e della politica, la cosa pubblica ed il bene collettivo. Il Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno presentato nel 2007, nella parte che riguarda la Calabria, presenta il quadro di una regione con un p.i.l. pro-capite di 13.762 euro, pari al 54,6% del p.i.l. pro-capite del Centro-Nord Italia, un tasso di disoccupazione di circa il 13%, un’economia sommersa, in crescita, pari al 27% e lavoratori irregolari, ancora in crescita, per oltre 176.000 unità. Dallo stesso Rapporto risulta che le imprese che pagano il “pizzo” nella regione sono 150.000, la metà del totale delle imprese esistenti nella regione, con una punta del 70% a Reggio Calabria. Qualora corrispondessero alla realtà queste percentuali, basate su stime della Confesercenti, preoccuperebbero meno dei dati relativi ad altre regioni del Sud (secondo i dati, infatti, un terzo delle imprese soggette ad estorsione in Italia ha sede in Sicilia, dove il 70% e talvolta l’80% delle imprese è vittima di estorsioni, mentre a Napoli, nel Barese e nel Foggiano la quota di imprese soggette a estorsione rispetto al totale è pari al 50%). Ma è davvero così? In realtà, la situazione è di gran lunga peggiore e ciò è confermato anche dall’analisi effettuata dai responsabili degli Uffici di Procura della Repubblica sulla base delle risultanze giudiziarie. Basta il dato dell’usura, che secondo il Rapporto Svimez fa segnare in Calabria la percentuale più alta di commercianti vittime del fenomeno in rapporto ai soggetti attivi: il 30% con 10.500 commercianti coinvolti in regione. Ma anche in questo caso, il quadro sembra notevolmente più preoccupante se si esaminano i dati emersi dalle indagini giudiziarie.

Nell’ambito del distretto di Catanzaro “è praticamente inesistente l’impresa resistente alla criminalità organizzata”. Non esiste, se non in rarissimi casi, la denuncia spontanea all’Autorità Giudiziaria da parte delle imprese vittime della criminalità organizzata semplicemente perché in alcuni distretti del territorio - come quello del vibonese- non esiste la categoria delle “imprese vittime”. Quando non sono direttamente colluse, infatti, le imprese sono acquiescenti alle mire e agli interessi della criminalità organizzata e ciò avviene in tutti gli ambiti economici: imprese agricole (specie nella sibaritide, nell’alto Ionio e nel crotonese), imprese turistiche (nel Vibonese e lungo la costa crotonese), imprese commerciali (nel lametino), grande distribuzione, ma soprattutto nell’edilizia, con un’egemonia mafiosa sull’intero ciclo del cemento. Nel settore turistico, il meccanismo viene svelato grazie ad uno dei rari casi di collaborazione. Il rappresentante di Parmatour SpA in Calabria, con una denuncia all’autorità giudiziaria, rendeva note le sistematiche estorsioni in danno di alcuni villaggi-vacanze in Calabria, di proprietà della società.

I villaggi turistici erano: il Triton Club di Sellia Marina, nonché il Sabbie Bianche e il Baia Paraelios di Parghelia (Vibo Valentia). Gli estorsori venivano indicati come incaricati o appartenenti, per il primo villaggio, alla famiglia Arena di Isola Capo Rizzuto e per gli altri due alla cosca dei Mancuso. Nello specifico, l’operatore economico spiegava che gli Arena ritiravano annualmente la somma di 40.000 euro, oltre ad imporre varie assunzioni di parenti ed amici, mentre i Mancuso, preposti al controllo del “corretto” svolgimento delle attività, avrebbero lucrato un contributo del 10% sugli introiti. Per inciso, in data 28.11.2007, il GIP di Catanzaro ha disposto il giudizio nei confronti dei tre incaricati dei villaggi turistici oggetto delle estorsioni per favoreggiamento, aggravato dalla mafiosità, per avere negato, nel corso delle indagini preliminari, di avere mai ricevuto pressioni estorsive.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

Pizzo e usura, tanti silenzi e Confindustria Reggio commissariata. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 21 aprile 2022

Purtroppo, in questo contesto non si è mai espressa una reale volontà delle imprese di affrancarsi dalla forza pervasiva della mafia. Tanto è vero che, per quanto riguarda il pizzo “pagano tutti, commercianti, artigiani e imprese”. Il numero delle denunce è relativo, quasi inesistente e l’associazionismo è ancora debole; le associazioni antiracket sono, infatti, meno di dieci.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

L’incidenza della criminalità organizzata, già notevole di per sé, diviene devastante in una regione caratterizzata da un tessuto produttivo estremamente debole e da sempre dipendente dalla politica degli incentivi statali e dalla gestione dei flussi di finanziamento pubblico.

Purtroppo, in questo contesto non si è mai espressa una reale volontà delle imprese di affrancarsi dalla forza pervasiva della mafia. Tanto è vero che, per quanto riguarda il pizzo “pagano tutti, commercianti, artigiani e imprese”.

Il numero delle denunce è relativo, quasi inesistente e l’associazionismo è ancora debole; le associazioni antiracket sono, infatti, meno di dieci, a differenza di quanto accade in altre regioni martoriate dalla presenza della criminalità mafiosa.

Non è un caso che Confindustria di Reggio Calabria sia stata commissariata dai vertici nazionali rendendo ancora più macroscopica la differenza con la nuova direzione della Confindustria siciliana e con le iniziative da essa adottate.

Né si può tacere la vicenda che interessa un imprenditore di Crotone il quale, rinviato a giudizio per concorso esterno e associazione mafiosa, ha chiesto al giudice il rito abbreviato ma, nel silenzio dei vertici regionali e nazionali dell’associazione, continua a mantenere la carica di presidente degli industriali di Crotone e di vicepresidente degli industriali della Calabria.

Nel reggino l’usura è diventata ormai una forma di riciclaggio indiretto delle risorse incamerate dalle organizzazioni mafiose attraverso il traffico di sostanze stupefacenti. Ma non bisogna sottovalutare anche la “funzione sociale” che purtroppo l’usura rappresenta su territori controllati dalle cosche ed investiti da forti processi di crisi economica, con le conseguenti difficoltà delle piccole e medie imprese di restare sul mercato.

Il sistema di rapporti che lega la ‘ndrangheta alle imprese appare così stretto e generalizzato da non risparmiare neanche le imprese nazionali che in Calabria riescono ad aggiudicarsi gli appalti per le grandi opere pubbliche, solo in quanto entrano o, peggio, contrattano di entrare nel “sistema di sicurezza” affidato alle famiglie mafiose che controllano il territorio e garantiscono l’impresa da incidenti e danneggiamenti in cambio del 4-5 per cento degli introiti.

Un vero e proprio “costo d’impresa” aggiuntivo. Secondo le dichiarazioni di uno dei pochi collaboratori di giustizia vi sono stati casi in cui gli accordi tra cosche e imprese non si limitavano a fissare l’importo dovuto dall’impresa per essere garantita - nel caso specifico il 5 per cento - ma si occupavano anche di come la stessa potesse recuperare quella “spesa indeducibile”.

Spesso, tale ‘recupero’ avveniva con l’assegnazione di un piccolo appalto per la realizzazione di un’opera di minor valore. Casi come questo sono emblematici ma purtroppo non isolati e dimostrano quanto i costi della criminalità, alla fine del ciclo, si ribaltino sempre sulla collettività.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

LA MAFIA CALABRESE. Così le amministrazioni pubbliche si piegano alla ‘Ndrangheta. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 22 aprile 2022

Le mani delle cosche sulle attività di carattere pubblico rappresentano così un dato costante che spesso assume le forme di una gestione parallela dell’amministrazione della res pubblica, attraverso l’elezione diretta di sindaci ed amministratori locali o il controllo degli apparati amministrativi, dai Comuni alle A.S.L., dalle Asi alle società miste per la gestione dei servizi.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Alle tradizionali forme di arricchimento e di accumulazione dei profitti la ‘ndrangheta coniuga da sempre il proprio primato nella gestione dei grandi flussi di denaro pubblico. Le modalità di accaparramento sono varie (appalti pubblici, contributi, frodi comunitarie, truffe in danni di enti etc.) ma hanno come dato comune il condizionamento degli amministratori locali e l’inquinamento della pubblica amministrazione.

Le mani delle cosche sulle attività di carattere pubblico rappresentano così un dato costante che spesso assume le forme di una gestione parallela dell’amministrazione della res pubblica, attraverso l’elezione diretta di sindaci ed amministratori locali o il controllo degli apparati amministrativi, dai Comuni alle Asl, dalle Asi alle società miste per la gestione dei servizi.

Fondamentale, per la natura stessa della ‘ndrangheta, è il controllo delle istituzioni al livello più immediato del rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Ancora il dott. Scuderi, nella relazione inviata alla Commissione, illustra la costituzione di società “miste” caratterizzate dalla partecipazione dell’amministrazione pubblica e di imprese private a diretta copertura mafiosa, creando una vera e propria compenetrazione delle istituzioni locali con il potere criminale egemone sul territorio. È il caso di molti Comuni.

Un esempio emblematico è rappresentato dal Comune di San Gregorio d’Ippona. Nell’operazione “Rima” sono stati arrestati tre consiglieri comunali di opposizione, tra i quali l’ex sindaco. L’inchiesta ha evidenziato la capacità della cosca “Fiarè”, satellite dei Mancuso, di penetrare nella pubblica amministrazione.

LA VICENDA DI SEMINARA

Ancora più inquietante è la vicenda del Comune di Seminara, situato tra la piana di Gioia Tauro e le falde dell’Aspromonte. Alla vigilia delle elezioni amministrative del 27 maggio 2007 si tiene un incontro tra Rocco Gioffrè, capo della ‘ndrina di Seminara e Antonio Pasquale Marafioti, Sindaco uscente del paese e dubbioso sulla sua ricandidatura: “tu ti devi candidare – dice Gioffrè – perché qui decido io e la tua elezione è sicura. Possiamo contare su mille e cinquanta voti e sono più che sufficienti per vincere”.

La previsione si rivela esatta con una precisione da fare invidia alle migliori società di sondaggi: la lista del sindaco Marafioti, una lista civica di centro-destra, vince con mille e cinquantotto voti. I due non sanno che la conversazione è intercettata dai carabinieri e questo dialogo insieme a tanti altri elementi investigativi, il 17 novembre del 2007 porterà in carcere i due interlocutori e il vice sindaco, Mariano Battaglia, l’ex sindaco al tempo del primo scioglimento del comune nel 1991, Carmelo Buggè e l’assessore Adriano Gioffrè, nipote del boss.

L’inchiesta coordinata dalla D.D.A. di Reggio Calabria ha svelato il controllo completo da parte della cosca Gioffrè sul comune: dalle attività economiche gestite a livello locale alle concessioni comunali, dagli appalti ai progetti di finanziamento con fondi regionali ed europei. Come se non bastasse il “sistema” si estende oltre i confini del comune. Il sindaco Marafioti è anche il Presidente del Pit 19 della Calabria (Consorzio di 10 comuni tutti più grandi di Seminara, amministrati dai più diversi schieramenti politici, dal centro-destra al centro-sinistra) e dispone di fondi per 20 milioni di euro.

Il vice sindaco Battaglia, invece, è il Presidente del Consorzio intercomunale “Impegno giovani” che avrebbe il compito della diffusione della cultura della legalità nelle scuole, con un fondo di 850 mila euro tratti dal Pon – Sicurezza del Ministero dell’Interno.

I clan, secondo i magistrati, non possono perdere occasioni così ghiotte per ingrossare le proprie tasche: alle elezioni del 2007 avvicinano uno ad uno gli elettori, pagano il viaggio degli emigrati per il voto, scelgono il Segretario della I° Sezione elettorale che ha il compito del riepilogo delle preferenze.

E che dire del Comune di Filandari dove il controllo del territorio arriva “al punto da imporre le tasse sui mezzi di trasporto che ne attraversano le strade”. Sono solo alcuni esempi di una situazione molto più diffusa, di quanto si possa immaginare e di quanto gli stessi media non raccontino.

IL CASO PIROMALLI

Ma in Calabria si arriva anche al paradosso. Il rampollo della famiglia mafiosa più importante della Piana, (sentenza del Tribunale civile di Palmi, del 4 luglio 2007) Gioacchino Piromalli, di 38 anni, è condannato al risarcimento di 10 milioni di euro a favore delle amministrazioni comunali di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando di Rosarno.

È una sentenza storica frutto della costituzione di parte civile di queste amministrazioni al momento di avvio del processo “Porto”.

Dopo la condanna Piromalli, che è avvocato, dichiara di essere nulla tenente e di poter procedere al risarcimento solo attraverso prestazioni professionali.

Il tribunale di sorveglianza, come se nulla fosse e come se non conoscesse la reale identità del soggetto, gira la richiesta alle amministrazioni comunali interessate che concordano di accettare il risarcimento come proposto dal Piromalli, rimettendo comunque ogni decisione al tribunale.

La vicenda è ora al vaglio della Procura di Reggio Calabria che ha inquisito i tre sindaci e il vice sindaco di Gioia Tauro per associazione mafiosa “per aver compiuto un atto non di loro competenza per un tipo di risarcimento non previsto dalla legge”.

Al di là delle responsabilità penali resta da chiedere come sia stato possibile che tutti i soggetti, Tribunale di sorveglianza e amministrazioni comunali, abbiano considerato tutto ciò normale, rendendosi protagonisti di una vicenda che ha piegato le istituzioni all’arroganza della ‘ndrangheta.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

LA ‘NDRANGHETA. Comuni sciolti per mafia, quando è lo Stato che cerca di “infiltrarsi”. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 23 aprile 2022

A conferma della gravissima situazione esistente in alcune realtà il Procuratore Nazionale antimafia Piero Grasso, nell’audizione del 7 febbraio 2007, ha affermato: «in certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi», sottolineando così la sottrazione di intere aree del territorio calabrese al governo e al controllo delle istituzioni repubblicane.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

In questo contesto diffuso di degrado politico e della pubblica amministrazione purtroppo non sono molti i consigli comunali calabresi sciolti per infiltrazione mafiosa e sarebbe utile analizzarne approfonditamente le ragioni. Eppure la storia dello scioglimento dei comuni, in un certo senso, comincia proprio nella Piana di Gioia Tauro.

È il 3 maggio 1991, i telegiornali danno notizia di quella che verrà ricordata come la “strage di Taurianova”. Nella cittadina vengono uccise 4 persone. Ad una di esse viene decapitata la testa e lanciata in aria diventa oggetto di un macabro tiro al bersaglio. Il fatto conquista le prime pagine di tutti i giornali italiani e stranieri.

Il governo dell’epoca, nell’ottica dell’emergenza che ha storicamente contraddistinto la storia altalenante della legislazione antimafia, emana il decreto (convertito in legge nel luglio del 1991) con il quale si prevede la possibilità di procedere allo scioglimento dei consigli comunali o provinciali sospettati di essere infiltrati o inquinati dalle cosche mafiose.

Da allora (fino al 2007, ndr) in Italia sono stati sciolti 172 consigli comunali, dei quali 38 in Calabria: 23 in provincia di Reggio, 7 in provincia di Catanzaro, 5 in provincia di Vibo Valentia, 3 in provincia di Crotone. A distanza di alcuni anni, per 3 comuni – Melito Porto Salvo (Rc), Lamezia Terme (Cz) e Roccaforte del Greco (Rc) - si è reso necessario ricorrere ad un secondo scioglimento.

Questo dimostra come la legislazione vigente non è completamente efficace a recidere i legami tra le organizzazioni mafiose ed esponenti del mondo politico e come lo scioglimento non abbia sempre rappresentato e non rappresenti tuttora un’occasione di bonifica della macchina amministrativa che spesso, anche a consigli comunali sciolti, continua a garantire le stesse logiche di governo del territorio, gli stessi interessi e gli stessi contatti con i boss.

IL CASO LAMEZIA TERME

Alcuni comuni, tra il 2004 e il 2005, hanno fatto ricorso al Tar o al Consiglio di Stato per impugnare il provvedimento di scioglimento e per 5 di essi il ricorso è stato accolto. Si tratta dei comuni di Santo Andrea Apostolo sullo Ionio, Botricello, Cosoleto, Monasterace, Africo e Strongoli.

Osservando le dimensioni dei comuni sciolti, Lamezia Terme, con i suoi 70 mila abitanti, è l’unico di dimensioni elevate e dopo due scioglimenti (30 settembre 1991 e 5 novembre 2002) ha intrapreso la strada di una difficile ricostruzione del tessuto democratico.

Seguono altri 2 comuni con una popolazione inferiore ai 20 mila abitanti, Melito Porto Salvo (30 settembre 1991 e 28 febbraio 1996) e Roccaforte del Greco (10 febbraio 1996 e 27 ottobre 2003), tutti in provincia di Reggio Calabria. Gli altri scioglimenti hanno riguardato comuni non superiori a 5 mila abitanti quando non di piccolissime dimensioni come Marcedusa, Calanna e Camini, inferiori ai mille abitanti.

A conferma della gravissima situazione esistente in alcune realtà il Procuratore Nazionale antimafia Piero Grasso, nell’audizione del 7 febbraio 2007, ha affermato: «In certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi», sottolineando così la sottrazione di intere aree del territorio calabrese al governo e al controllo delle istituzioni repubblicane.

Quanto ciò incida non solo sul sistema dei diritti e sul bene comune ma anche sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini ha «segni evidenti e tipici del governo del territorio da parte di amministratori organici alla mafia o collusi e dunque caratteristiche comuni alle amministrazioni sotto il controllo mafioso sono costituiti inoltre dall’assenza di piani regolatori, dell’assoluta inefficienza dei servizi di polizia municipali, da gravi disservizi nella raccolta e nello smaltimento dei rifiuti, dal dilagante e distruttivo abusivismo edilizio, da gravi carenze nella manutenzione di infrastrutture primarie (strade, scuole, asili), da assunzioni clientelari di personale, da anomalie nell’affidamento di appalti e servizi pubblici, ma, soprattutto, dalle drammatiche condizioni di dissesto finanziario».

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

LA MAFIA CALABRESE. La ricchezza delle mafie e quei beni confiscati destinati all’abbandono. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 24 aprile 2022

È interessante comprendere quanto, nonostante gli sforzi ed i risultati ottenuti dalla magistratura e dalle forze di polizia, di fronte alla potenza economica accertata della ‘ndrangheta sia risibile il livello dell’aggressione ai suoi patrimoni.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

La forte incidenza della vera e propria patologia calabrese nella gestione ed erogazione dei fondi comunitari, legata anche al livello di penetrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni pubbliche, a vario titolo coinvolte nei procedimenti amministrativi di erogazione dei fondi, è ricavabile anche dall’analisi dei casi di frodi complessivamente svolta a livello annuale dall’Olaf.

L’incidenza finanziaria totale delle irregolarità, compresi i sospetti di frode, stimata per l’intera Unione Europea, era stata, nel 2006, di 1.155,32 milioni di euro, con 12.092 irregolarità comunicate da tutti gli stati membri. Il dato inquietante è che nella sola Calabria, con una popolazione pari a circa lo 0,4 per cento di quella europea, si consuma l’1,58 per cento del totale delle frodi ai danni del bilancio comunitario e le indebite percezioni in Calabria ammonterebbero a circa il 6,54 per cento del totale comunitario.

A fronte del quadro appena descritto risulta evidente che il rafforzamento economico e finanziario della ‘ndrangheta è passato anche attraverso una paziente ed incessante opera di appropriazione indebita di pubblici finanziamenti destinati al sistema delle imprese.

Questo costante travaso non è stato e non è sufficientemente contrastato dalle pubbliche amministrazione regionali e locali, anche quando esse non risultano contigue o non favoriscono direttamente le indebite appropriazioni.

Così come, assolutamente insufficiente appare la legislazione in materia di controlli sui procedimenti di aggiudicazione, lasciati esclusivamente al potere di auto-organizzazione delle stesse amministrazioni erogatrici dei finanziamenti, creando un meccanismo di commistione e di autotutela reciproca tra controllori e controllati.

Il potenziale economico della mafia calabrese, la capacità pervasiva dei suoi capitali ed il suo dinamismo sui mercati internazionali ripropongono la centralità dell’aggressione alle ricchezze ed ai capitali mafiosi per incrinare la forza delle cosche sul territorio e la loro capacità di conquistare consenso sociale.

Nel corso della XIII legislatura la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia approvò una relazione sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Calabria in cui veniva posto l’accento sul divario crescente tra ricchezze criminali e numero e valore dei beni individuati, a loro volta di gran lunga maggiori rispetto a quelli posti sotto sequestro ed a quelli poi fatti oggetto di confisca.

L’inchiesta condotta da questa Commissione ha consentito, in più occasioni, di riscontrare il permanere delle difficoltà in cui versa l’azione di contrasto patrimoniale; difficoltà accentuate dalla scelta operata dalle cosche di separare nettamente i canali della conduzione materiale del traffico di sostanze stupefacenti dai canali finanziari (attraverso cui vengono effettuati i pagamenti relativi al traffico di stupefacenti e gli investimenti dei profitti illeciti) e rese plasticamente visibili dall’enorme divario tra beni sequestrati e beni confiscati. È interessante comprendere quanto, nonostante gli sforzi ed i risultati ottenuti dalla magistratura e dalle forze di polizia, di fronte alla potenza economica accertata della ‘ndrangheta sia risibile il livello dell’aggressione ai suoi patrimoni.

I BENI CONFISCATI

Secondo i dati forniti dall’Agenzia del Demanio ed aggiornati al dicembre 2006, sul territorio della Calabria insistono 1.093 beni immobili confiscati dal 1982 al 2006, pari al 15 per cento degli immobili confiscati in totale sul territorio nazionale. Più in dettaglio, sul totale di 1.093 beni immobili confiscati, la consistenza per tipologie è la seguente: abitazioni 562, pari al 51,4 per cento del totale; terreni 363, pari al 33,2 per cento del totale; locali 122, pari all’11,1 per cento del totale; capannoni 18, pari all’1,6per cento del totale; altri beni immobili 28, pari al 2,6per cento del totale.

Per quanto concerne il rapporto tra il territorio calabrese e l’attività di confisca, i beni immobili confiscati nella regione sono 886, pari al 12 per cento del totale nazionale confiscato. All’esito di recenti indagini giudiziarie è stato accertato che, sul totale di 1.093 beni immobili confiscati esistenti nel territorio calabrese, oltre 800 sono i beni immobili confiscati nella sola provincia di Reggio Calabria; di essi, poco più di 300 risultano consegnati dall’Agenzia del demanio alle competenti amministrazioni comunali.

Dall’indagine è emerso che gli immobili confiscati e consegnati a 25 comuni della provincia di Reggio Calabria, compreso il comune capoluogo, hanno avuto la seguente sorte: - sono stati assegnati ad enti e/o associazioni con notevole ritardo; - alcuni di essi non sono stati mai assegnati ad alcun ente; - altri ancora risultano in uso e/o nella disponibilità dei soggetti nei cui confronti lo Stato aveva proceduto alla confisca.

In relazione ai fatti appena riportati in sintesi, sono state accertate responsabilità di rilievo penale a carico di amministratori e funzionari di 25 comuni della provincia di Reggio Calabria, compreso il comune capoluogo.

Peraltro, in alcuni casi sono state accertati diretti legami di parentela tra amministratori e funzionari dei Comuni in questione e soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta. Le condotte accertate nel corso delle indagini sono sintomatiche, da un lato, delle difficoltà a rendere efficace un’azione che miri alla sottrazione alle cosche della disponibilità di beni di provenienza illecita; dall’altro lato offrono la possibilità di comprendere quanta resistenza oppongano le organizzazioni colpite da provvedimenti di sequestro o confisca dei beni.

Un esempio dell’arrogante potere esercitato dalle cosche sul territorio anche con riferimento all’azione che lo Stato riesce a portare avanti in questo campo, può essere tratto dal comune di Gioia Tauro, ove sono state riscontrate situazioni in cui soggetti appartenenti a cosche molto forti come quelle facenti capo alle famiglie Piromalli e Molè hanno ancora nella propria disponibilità i beni ad essi confiscati; a ciò si aggiunga l’opposizione e la reazione delle cosche all’assegnazione dei beni confiscati a finalità sociali, come previsto dalla legge 109/1996: a tal proposito, non si può dimenticare, per restare agli avvenimenti degli ultimi tempi, la distruzione dei macchinari e danneggiamenti ai capannoni della cooperativa agricola Valle del Marro - Libera Terra nell’estate del 2007. […].

Simile la situazione per le aziende confiscate alla ‘ndrangheta. Dai dati forniti dall’Agenzia del Demanio emerge che nel periodo 1982/2006 in Calabria sono state confiscate 59 aziende, pari al 7per cento del totale delle aziende confiscate su scala nazionale. Più in dettaglio, la tipologia di beni aziendali confiscati risulta la seguente: imprese individuali 35, pari a circa il 60 per cento del totale; società in nome collettivo 5, pari all’8,5 per cento del totale; soc. in accom. semplice 9, pari a circa il 15per cento del totale; soc. a responsab. limitata 9, pari a circa il 15per cento del totale; società per azioni 1, pari a circa l’1,5per cento del totale.

Rispetto al dato nazionale si rileva una differenza: la maggior parte delle aziende confiscate, circa il 60per cento, è costituita da imprese individuali, alle quali si aggiunge circa il 24per cento di società di persone (s.a.s. e s.n.c.). La media nazionale, invece, evidenzia che il 51per cento delle aziende confiscate è rappresentato da società di capitali.

Le aziende confiscate operavano nei seguenti settori: costruzioni (16), commercio (18), alberghi e ristoranti (2), agricoltura (14), trasporti e magazzinaggio (3), manifatturiero (2), estrazione di minerali (1), pesca (1), altre attività (2).

Questi dati molto parziali indicano la tendenza della ‘ndrangheta ad investire nei settori del commercio, delle costruzioni e dell’agricoltura.

Anche per la Calabria, infine, si confermano i gravi limiti, fino al danno per la credibilità del contrasto ai patrimoni ed alle ricchezze mafiose, dell’azione dell’Agenzia del Demanio nella gestione dei beni. Si ripropone, quindi, l’esigenza di un suo superamento parallelo all’adeguamento dell’intera legislazione sulla materia

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

LA MAFIA CALABRESE. Cocaina, la ‘Ndrangheta ha conquistato Milano e la Lombardia. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 25 aprile 2022

Milano e la Lombardia rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ‘ndrangheta in tutto il nord Italia. Di questi insediamenti è utile fornire alcuni brevi spaccati, tutti legati a doppio filo con i territori d’origine com’è caratteristica della ‘ndrangheta e come indicato dalla ricostruzione della mappa delle famiglie in altra parte di questa relazione.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

Milano e la Lombardia rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ‘ndrangheta in tutto il nord, dalle coste adriatiche della Romagna ai litorali del Lazio e della Liguria, dal cuore verde dell’Umbria alle valli del Piemonte e della Valle d’Aosta.

Di questi insediamenti è utile fornire alcuni brevi spaccati, tutti legati ferreamente a doppio filo con i territori d’origine com’è caratteristica della ‘ndrangheta e come indicato dalla ricostruzione della mappa delle famiglie in altra parte di questa relazione.

Il 13 gennaio 1994 nel corso dell’XI Legislatura la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia approvava la relazione sugli insediamenti e le infiltrazioni di organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali, le principali regioni del Nord e del Centro Italia.

La relazione si collocava contestualmente in quella stagione straordinaria di lotta alla mafia che, soprattutto in Lombardia, aveva visto la disarticolazione di intere organizzazioni a seguito di operazioni di polizia coordinate dalle Procure Distrettuali che avevano portato all’arresto, e quasi sempre alla condanna, di migliaia di appartenenti a gruppi criminali soprattutto affiliati alla ‘ndrangheta.

La relazione già evidenzia come in Lombardia la ‘ndrangheta era l’organizzazione più potente, cita i risultati di operazioni quali Wall Street e Nord-Sud che allora erano in pieno svolgimento e che, insieme alle successive, in particolare l’operazione Count Down dell’ottobre 1994 e l’operazione Fiori della Notte di San Vito, del novembre 1996, riguardante il clan Mazzaferro,sono sfociate nei grandi dibattimenti sino ai primi anni del 2000 che si sono conclusi con centinaia di condanne.

LE INCHIESTE DEGLI ANNI NOVANTA

Si può affermare che con tali operazioni è stata quasi eliminata la componente militare di imponenti organizzazioni, dai soldati fino ai generali, e sono stati “riconquistati” dalle forze dello Stato territori che erano fortemente condizionati da cosche come quelle di Coco Trovato nel lecchese, i Morabito-Palamara-Bruzzaniti e i Papalia-Barbaro-Trimboli.

Da allora nessun’altra indagine approfondita di impulso parlamentare si è occupata degli insediamenti mafiosi in Lombardia nonostante il nord del paese e Milano siano stati investiti da grandi processi di trasformazione economici e sociali, di deindustrializzazione di intere aree e periferie urbane e, in questi cambiamenti, le mafie abbiano riguadagnato silenziosamente ma progressivamente terreno.

Le ‘ndrine sono state in grado di recuperare il terreno perduto grazie ad una strategia operativa che ha evitato manifestazioni eclatanti di violenza, tali da attirare l’attenzione e divenire controproducenti, attuando piuttosto un’infiltrazione ambientale anonima e mimetica tale da destare minor allarme sociale e da far assumere alle cosche e ai loro capi le forme rassicuranti di gestori e imprenditori di attività economiche e finanziarie del tutto lecite.

In tal modo si è realizzato un controllo ambientale che, in sentenze già passate in giudicato, è stato definito “selettivo” e cioè strettamente funzionale nel suo “stile” al raggiungimento degli scopi del programma criminoso in un’area geografica giustamente ritenuta diversa per cultura, mentalità e abitudini rispetto a quella di origine.

Non per questo un controllo meno pericoloso in quanto più idoneo, proprio per la sua invisibilità, a rimanere occulto e ad essere meno oggetto di risposte tempestive da parte delle forze dell’ordine e della società civile.

La strategia di “inabissamento” di queste cosche invisibili che sono riuscite a riprodursi nonostante i colpi loro inferti dalle grandi indagini degli anni ’90 è stata favorita da un insieme di condizioni.

In sintesi i fattori che negli ultimi anni hanno giocato a vantaggio delle cosche operanti in Lombardia possono essere i seguenti: - la capacità delle cosche, e soprattutto quelle calabresi per la loro strutturazione familistica di tipo orizzontale, di rigenerarsi tramite l’entrata in gioco di figli e familiari di capi-cosca arrestati e condannati all’ergastolo o a pene elevatissime a seguito dei processi degli anni ’90.

In pratica ogni cosca, da quella di Coco Trovato a quella di Antonio Papalia a quella dei Sergi, ha visto il formarsi, sotto la guida dei capi detenuti, di una nuova generazione; - le scarse risorse specializzate messe in campo dallo Stato in Lombardia e in genere nel Nord-Italia per combattere la mafia. Basti pensare ad un distretto come quello di Milano che comprende anche città con forte presenza mafiosa come Como, Lecco, Varese e Busto Arsizio, con le forze in campo costituite da poco più di 200 uomini: 40 uomini del Ros carabinieri, 50 uomini del Gico, 55 dello Sco della Polizia di stato cui si aggiungono 68 uomini della Dia che ha competenza peraltro su tutta la Lombardia; - l’insufficienza di uomini, più volte denunziato dai rappresentanti della Dda è pari all’insufficienza di mezzi, causa spesso del rallentamento di alcune indagini; - altro elemento che ha influito soprattutto nell’opinione pubblica è rappresentato dall’esplosione, negli ultimi anni, del tema della percezione della sicurezza che, soprattutto in un’area come Milano e il suo hinterland ha spostato l’attenzione sulla microcriminalità in genere collegata alla presenza di stranieri e di altri soggetti operanti sul terreno della devianza sociale.

E ciò, nonostante l’incessante lavoro e i risultati importanti ottenuti dalla Dda. In questo contesto di “disattenzione” le cosche hanno scelto come sempre le attività criminose più remunerative con minori rischi e hanno evitato, per quanto possibile ma con successo, le faide interne e i regolamenti di conti che avevano preceduto soprattutto con sequele impressionanti di omicidi le indagini degli anni ’90 e che avevano avuto l’effetto di suscitare un immediato e controproducente allarme sociale.

Del resto in una metropoli come Milano in cui, secondo le statistiche, circa 120.000 milanesi fanno uso stabile o saltuario di cocaina, c’è “posto per tutti” ed è stato possibile, per i vari gruppi attuare una divisione del mercato e del lavoro in grado di soddisfare tutti senza concorrenze sanguinose, dall’acquisto delle grosse partite sino alla rivendita nelle varie zone.

Le numerose operazioni condotte dalle forze dell'ordine e dalla magistratura hanno consentito di delineare un quadro della criminalità organizzata, prevalentemente di matrice calabrese, presente sul territorio lombardo.

Le cosche ivi operanti, sviluppatesi con i tratti tipici della malavita associata negli anni '70, presentano una struttura costante, caratterizzata da un nucleo di persone legate strettamente tra loro da vincoli di parentela, spesso formalmente affiliate alla 'ndrangheta, a cui si affianca una base numericamente più ampia con funzioni esecutive, che assicura un apporto continuo nella realizzazione degli obiettivi criminali.

Malgrado il contatto con realtà diverse, i componenti di questi gruppi hanno mantenuto le peculiarità comportamentali e gli atteggiamenti culturali della criminalità organizzata calabrese.

IL RADICAMENTO DELLE COSCHE

La Lombardia è da sempre retroterra strategico dei più importanti sodalizi criminali calabresi e gli eventi registrati offrono ulteriori riscontri per quanto concerne la massiccia presenza nella regione di soggetti legati alla ‘ndrangheta, con interessi, come si vedrà, principalmente nel settore del traffico di stupefacenti, nella gestione dei locali notturni e nell’infiltrazione all’interno dell’imprenditoria edilizia.

Anche per la ‘ndrangheta, sul territorio lombardo, prevale una strategia di un basso profilo di esposizione, pur non mancando atti violenti, quali l’agguato in viale Tibaldi di Milano, dell’aprile 2007, ove un pregiudicato calabrese è stato ferito con colpi di arma da fuoco per motivi forse correlabili alle attività illegali del caporalato, che sembra costituire un mercato in espansione per la ‘ndrangheta.

Non sono neppure mancati episodi estorsivi, che hanno coinvolto pregiudicati di origine calabrese, con interessi nel campo dell’edilizia a Caronno Pertusella (Va). Tuttavia l’aspetto militare, pur se cautelativamente messo in sonno, non è certo stato abbandonato dalla strategia dei gruppi calabresi e si ha almeno un esempio di tale potenzialità dal sequestro di un imponente arsenale a disposizione della ‘ndrangheta calabrese rinvenuto in un garage di Seregno nell’ambito dell’operazione “Sunrise” nel giugno 2006.

L’arsenale era a disposizione di Salvatore Mancuso e del suo gruppo appartenente al clan di Limbadi (Vv) da tempo sbarcato in Brianza.

Un vero e proprio deposito di armi micidiali: kalashnikov, mitragliatori Uzi, Skorpion, munizioni e cannocchiali di precisione, bombe a mano. Le attività criminali accertate sono state le truffe, il traffico di droga e l’associazione a delinquere finalizzata all’usura. Il prosieguo dell’indagine consentiva l’ulteriore arresto complessivamente di 32 persone, originarie del Vibonese, indiziate di traffico di droga, usura e truffe.

Le attività usurarie venivano praticate attraverso un membro dell’organizzazione, titolare di imprese edili ed altre società, che erogava a imprenditori in difficoltà prestiti con interessi fino al 730 per cento. Le truffe avvenivano, con meccanismi complessi di mancati pagamenti, ai danni di società di lavoro interinale, conseguendo illeciti introiti per oltre 800 mila euro.

Le indagini hanno messo in luce anche un elevatissimo gettito, proveniente dalle attività estorsive e valutato in circa 3 milioni di euro.

Da quanto detto consegue che l’attività assolutamente prevalente, quella che si potrebbe dire di “accumulazione primaria”, rimane l’introduzione e la vendita di partite di sostanze stupefacenti, in assoluta prevalenza cocaina, canalizzate in Italia tramite i contatti anche stabili e “residenziali” delle cosche con i fornitori operanti nell’area della Colombia e del Venezuela.

In questo campo l’attività di contrasto è stata in grado in questi ultimi anni di assestare alla “nuova generazione” delle cosche alcuni colpi importanti che tuttavia, data l’enorme estensione del mercato e l’enormità dei guadagni e dei ricarichi, sono passibili di essere riassorbiti dai gruppi come una sorta di rischio d’impresa in termini di perdita temporanea di uomini e di guadagni.

Tra le operazioni condotte con successo si può citare la “Caracas Express” eseguita dalla squadra mobile di Milano che ha portato all’emissione di 47 ordini di custodia nei confronti di appartenenti al clan di Rocco Molluso e Davide Draghi di Oppido Mamertina appartenente all’area dei Barbaro-Papalia ed operante in particolare nella fascia Sud-est di Milano.

IL NARCOTRAFFICO

La potenzialità di mercato di tale gruppo, che dà il senso dell’entità complessiva dello spaccio di cocaina a Milano, era evidenziata dall’acquisto e dalla rivendita ogni mese di 20 chili di cocaina purissima proveniente dal Sud America.

Sui rapporti tra la ‘ndrangheta e i cartelli colombiani produttori di cocaina, sono importanti i riscontri dell’Operazione “Stupor Mundi”, conclusasi nel mese di maggio 2007 a Reggio Calabria con l’emissione di 40 arresti. La dimensione del traffico era desumibile dalla dimostrata capacità degli arrestati di acquistare partite, fino a tremila chili, di stupefacente allo stato puro, direttamente dalla Colombia.

La cocaina sequestrata nel corso dell’operazione aveva un valore sul mercato di circa 60 milioni di euro. Venivano accuratamente ricostruite le rotte dei traffici di cocaina che, partendo dal Sud America, ed in particolare dalla Colombia, giungevano, attraverso l’Olanda, soprattutto in Piemonte ed in Lombardia.

Estremamente significativa dell’incidenza del monte di affari prodotti dai traffici di cocaina è il riciclaggio in attività imprenditoriali e la capacità di gruppi con i propri capi condannati all’ergastolo di rimpadronirsi in pochi anni del territorio. Lo ha dimostrato l’indagine “Soprano” che ha visto nel dicembre del 2006 l’arresto, ad opera della Polizia di stato e della Guardia di Finanza, di 37 persone appartenenti alla famiglia Coco Trovato.

Tale famiglia nonostante la condanna all’ergastolo dei capi Franco Coco Trovato e Mario Coco Trovato è riuscita infatti a rioccupare il territorio di influenza, e cioè quello di Lecco, grazie alla discesa in campo e alla reggenza di figli, nipoti e consanguinei indicati nell’ordinanza di custodia cautelare. [...] Uno spaccato particolare è rappresentato da Quarto Oggiaro, il quartiere popolare da sempre tra i più degradati della periferia nord-ovest di Milano.

Una vera e propria zona franca per l’illegalità, con settecento delle quattromila case popolari gestite dalla Aler, l’ente comunale milanese che amministra il patrimonio edilizio pubblico, occupate abusivamente e con l’accesso controllato direttamente dagli uomini della ‘ndrangheta.

In questo territorio, suscitando grande clamore sui media locali, nell’estate del 2007 è ricomparso in forze il gruppo Carvelli di Petilia Policastro (Kr), anch’esso colpito dalle indagini degli anni ’90 ma ugualmente riuscito a riprodursi. Alcuni interventi di polizia hanno fatto emergere un vero e proprio controllo militare dello spaccio tra i casermoni del quartiere con file di acquirenti che si presentavano praticamente alla luce del sole nei vari punti dove operavano gli spacciatori stabilmente presidiati da chi era addetto alla guardia e al rifornimento.

Risale allo stesso mese di agosto 2007, e cioè poco dopo il fallito tentativo di “bonifica” di Quarto Oggiaro, l’omicidio proprio di Francesco Carvelli figlio dell’ergastolano Angelo Carvelli e nipote del sorvegliato speciale Mario Carvelli, considerato l’attuale padrone del quartiere.

Il regolamento di conti, uno dei non numerosi verificatisi negli ultimi anni, risponde con ogni probabilità ad una logica di assestamento dei rapporti tra i vari gruppi operanti nell’area.

L’enorme liquidità in eccesso prodotta dai traffici di cocaina e in misura minore ma significativa dalle estorsioni viene canalizzata, secondo i dati che provengono dalle principali strutture investigative e fra di esse la Dia, in alcuni settori produttivi ed economici attraverso imprese apparentemente legali.

Si tratta del settore dell’edilizia nel quale va compreso sia a Milano sia nell’hinterland quello degli scavi e del movimento terra, delle costruzioni vere e proprie, sino all’intermediazione realizzata da agenzie immobiliari collegate, del settore ristoranti e bar, del settore delle agenzie che forniscono addetti ai servizi di sicurezza, soprattutto per locali pubblici e discoteche; del settore dei servizi di logistica, cioè il facchinaggio e la movimentazione di merci, con la gestione di società cooperative, come quelle controllate dalle cosche presso l’Ortomercato di Milano.

Storicamente, però, per le cosche calabresi l’edilizia rappresenta il settore primario che consente, fra l’altro, di utilizzare anche mano d’opera a bassa specializzazione e di sviluppare e controllare fenomeni quali il caporalato delle braccia.

Questa attività criminale sfrutta da anni manodopera clandestina giunta sulle coste crotonesi e catanzaresi con le carrette del mare e fatta fuoriuscire dai Cpt di Crotone e Rosarno. Anche nell’edilizia non mancano le estorsioni in danno di concorrenti o di imprese riottose.

Lo testimoniano incendi in cantieri o danneggiamenti di attrezzature che vengono segnalati soprattutto nell’hinterland. Tuttavia persino le minacce estorsive non sono necessarie quando, come nella maggioranza dei casi, si verte in realtà in una situazione di completo monopolio ed in ampie zone della Brianza o del triangolo Buccinasco-Corsico-Trezzano non è nemmeno pensabile che qualcuno con proprie offerte o iniziative “porti via il lavoro” alle cosche calabresi che hanno le loro imprese diffuse sull’intero territorio. Con i quali poi vengono pagate le reciproche prestazioni, hanno la possibilità di nascondere l’origine di somme provenienti dai traffici illeciti e di ottenere in modo abbastanza semplice flussi di denaro pulito.

In questo senso appare pienamente condivisibile il giudizio finale formulato dal responsabile della Dda presso la Procura di Milano secondo cui in settori come quello dell’edilizia non è nemmeno necessaria l’intimidazione diretta poiché è sufficiente l’intimidazione “percepita”, cioè quella non esercitata con minacce aperte ma con la semplice “parola giusta al momento giusto”.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

LA MAFIA CALABRESE. L’Ortomercato, il movimento terra e il riciclaggio di denaro sporco. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 26 aprile 2022.

Già nel 1993 un’indagine della Dda di Milano aveva messo in luce un commercio di cocaina e di eroina tra Italia, Sud-America e Thailandia per 300 chilogrammi di sostanze al mese che viaggiavano appoggiandosi alla Sical Frut una società che operava presso l’Ortomercato di Milano e rispondeva allo stesso clan dei Morabito

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

L’intervento dell’Autorità giudiziaria ha anche portato alla luce l’infiltrazione diffusa e organica in un settore strategico dell’economia lombarda, e quello relativo all’insediamento o meglio reinsediamento della cosca Morabito-Bruzzaniti-Palamara all’interno dell’Ortomercato di Via Lombroso.

L’Ortomercato di Milano è il più grande d’Italia. Ogni notte vi fanno capo centinaia di camion che distribuiscono i prodotti in tutta la regione. Dei tremila lavoratori impiegati quasi la metà sono irregolari. Il giro di affari è di 3 milioni di euro al giorno con 150 tra imprese e cooperative interessate.

Già nel 1993 un’indagine della Dda di Milano aveva messo in luce un commercio di cocaina e di eroina tra Italia, Sud-America e Thailandia per trecento chilogrammi di sostanze al mese che viaggiavano appoggiandosi alla Sical Frut una società che operava presso l’Ortomercato di Milano e rispondeva allo stesso clan dei Morabito.

L’ordinanza di custodia cautelare emessa in data 26.4.2007 nei confronti di Salvatore Morabito, Antonino Palamara, Pasquale Modaffari e altre 21 persone ha messo in luce che la cosca Morabito-Bruzzaniti grazie all’arruolamento dell’imprenditore Antonio Paolo titolare del consorzio di cooperative Nuovo Co.Se.Li. era riuscita ad utilizzare le strutture dell’Ortomercato e i suoi uffici come punto di riferimento per gli incontri, e logistico per la gestione di grosse partite di sostanze stupefacenti.

Tra di esse i 250 chilogrammi di cocaina provenienti dal Sud America, giunta in Senegal a bordo di un camper e sequestrati in Spagna dopo aver viaggiato sotto la copertura di un’attività di rallye.

La cosa che più inquieta è che Morabito, appena terminato nel 2004 il periodo di soggiorno obbligato ad Africo, grazie all’arruolamento dell’operatore economico Antonio Paolo, aveva goduto per i suoi spostamenti all’interno dell’area commerciale addirittura di un pass rilasciato dalla So.Ge.Mi. e cioè la società che gestisce per conto del Comune di Milano l’intera area dell’Ortomercato.

Al punto che il Morabito entrava nell’Ortomercato con la Ferrari di sua proprietà. Tale mancanza di controlli appare peraltro diretta conseguenza del fatto che da tempo l’area, nonostante la gestione comunale, era divenuta “zona franca”, controllata da un caporalato aggressivo, padrone del lavoro nero e all’interno della quale il Presidio di Polizia risultava chiuso da anni, mentre i Vigili Urbani evitavano quasi sempre di intervenire. 

La capacità di influenza di Morabito era giunta al punto che il suo “controllato”, Antonio Paolo, aveva acquistato le quote della società Spam srl che, per ragioni di certificazione antimafia Morabito e i suoi associati non avevano più potuto gestire formalmente, e tale società aveva chiesto e ottenuto dalla So.Ge.Mi., e quindi in pratica dal Comune, la concessione ad aprire nello stabile di Via Lombroso, ove peraltro ha sede la stessa So.Ge.Mi il night club “For the King”, inaugurato il 19.4.2007 alla presenza di noti boss della ‘ndrangheta come, tra gli altri, Antonino Palamara. Il sequestro preventivo delle quote sociali della Spam è stato adottato dal GIP di Milano e confermato dal Tribunale del Riesame il 5.6.2007.

I provvedimenti dell’autorità giudiziaria di Milano con i quali sono state sequestrate le quote sociali della Spam srl evidenziano un’altra ragione di interesse. Antonio Paolo, dopo aver rilevato la società nella quale Morabito era rimasto il socio occulto e il vero dominus, aveva ottenuto dalla Banca Unicredit ed esattamente dalla filiale della centrale via San Marco di Milano un anomalo finanziamento di 400mila euro che doveva servire a pagare le spese della ristrutturazione del night For the King, peraltro a posteriori, visto che la ristrutturazione era già avvenuta.

Ciò mette a nudo un sistema col quale non solo qualche Cassa Rurale di provincia ma anche istituti maggiori assicurano finanziamenti a noti esponenti mafiosi senza effettuare i controlli necessari e senza chiedersi chi siano i soggetti così indebitamente favoriti.

Un’altra conseguenza significativa dell’indagine relativa alle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ortomercato è stato il sequestro propedeutico alla confisca di numerose quote societarie e beni immobili per un valore complessivo di quasi quattro milioni di euro effettuato nei confronti di due fiduciari del gruppo Morabito-Bruzzaniti e cioè Francesco Zappalà, un dentista che non aveva mai esercitato la sua professione medica, ma che disponeva a Milano di una villa lussuosa e del suo braccio destro Antonio Marchi.

L’evidente sproporzione tra i redditi dichiarati e gli investimenti societari e immobiliari effettuati certamente come prestanome della cosca di riferimento, ha consentito infatti il sequestro di quote sociali di varie società utilizzate per l’acquisto di immobili, di appartamenti e bar a Milano, uno dei quali in zona abbastanza centrale, di una villa con box a Cusago nell’hinterland milanese, di terreni nel torinese, di appartamenti a Massa Carrara e a Finale Ligure nonché di terreni a Bova Marina, nel reggino, zona di provenienza di quasi tutti i componenti del gruppo.

L’INCHIESTA DIRTY MONEY

Lo scenario dell’indagine chiamata Dirty Money, resa possibile da una stretta collaborazione tra le autorità elvetiche e quelle italiane, vede, secondo la ricostruzione dell’accusa, la presenza della cosca Ferrazzo di Mesoraca (KR) ramificatasi in Lombardia tra Varese e Ponte Tresa e in Svizzera a Zurigo. Proprio qui vengono allestite due grosse “lavatrici”, e cioè due società finanziarie, la Wsf ag e la Pp finanz ag che dovevano occuparsi di raccogliere i capitali di investitori svizzeri e internazionali per intervenire sul mercato Forex ed operare transazioni su divise.

In realtà tali finanziarie erano divenute il luogo ove depositare e far transitare ingenti somme provenienti dalle attività illecite della cosca. A partire dall’inizio degli anni 2000, era iniziata la programmata spoliazione delle società stesse, con il dirottamento dei capitali, sia quelli di provenienza illecita sia quelli affidati dagli investitori a conti offshore e società nella disponibilità degli amministratori, tutti legati direttamente o indirettamente alla ’ndrangheta.

Prima che il caso esplodesse e che nel 2003 fosse dichiarato il fallimento di entrambe le società operanti in Svizzera, con la distrazione di decine di milioni di franchi, l’obiettivo dell’operazione era il reimpiego dei capitali puliti in investimenti immobiliari di prestigio in Sardegna e in Spagna, sempre controllati dalla cosca regista del progetto.

Tali investimenti, che avrebbero così consentito di far rientrare in Italia e di ripulire somme notevoli in attività formalmente lecite, sono stati interrotti solo dalle indagini.

L’indagine Dirty Money, caratterizzata da complessi accertamenti finanziari, costituisce un passo importante perché forse per la prima volta in Lombardia non ci si è trovati di fronte al caso tipico di riciclaggio reso possibile dall’intervento di un funzionario di banca compiacente o al riciclaggio consueto in esercizi di ristorazione.

È un fenomeno ben diverso e, per così dire, “strutturale”, costituito dalla scelta del gruppo criminale di allestire in proprio una grossa macchina societaria, funzionale ai suoi scopi e utilizzata non solo per inghiottire i depositi degli investitori, ma per ripulire ingenti masse di denaro provenienti dalle attività illecite condotte in Italia.

Le indagini attualmente più significative evidenziano preoccupanti segnali della persistente presenza di organizzazioni di tipo mafioso, che, soprattutto nell’area metropolitana di Milano e nelle province confinanti, si caratterizzano più per una capillare occupazione di interi settori della vita economica e politico-istituzionale, che per la tradizionale e brutale gestione militare del territorio in connessione con le attività tipiche delle associazioni mafiose: dal traffico di stupefacenti all’usura, allo sfruttamento della prostituzione e alle estorsioni in danno dei pubblici esercizi, ecc..

In sostanza, nelle zone a più alta densità criminale, Rozzano, Corsico, Buccinasco, Cesano Boscone, per citarne alcuni, le tradizionali famiglie malavitose di origine meridionale, sempre più saldamente radicate al territorio, hanno iniziato a gestire e a sfruttare le zone di influenza, stringendo, dal punto di vista istituzionale, alleanze con spregiudicati gruppi politico-affaristici e, dal punto di vista economico, inserendosi nel campo imprenditoriale con illimitate disponibilità economiche.

Altra indagine di rilievo nasce dagli accertamenti espletati dal Ros Carabinieri, in aggiunta a quelli già svolti dalla Dia in relazione ad un esposto anonimo, che segnalava inquietanti rapporti tra personaggi di un Comune dell’hinterland milanese e gruppi malavitosi organizzati di stampo mafioso localizzati nel medesimo comune e in quelli limitrofi.

Le più recenti acquisizioni investigative hanno anche confermato l’esistenza in un altro Comune dell’hinterland milanese di un gruppo politico-affaristico ed un continuo riferimento ai “calabresi”, anche in relazione alle recenti elezioni amministrative. Nell’ambito di un altro procedimento penale è emerso il coinvolgimento di elementi appartenenti alla Cosca di Isola Capo Rizzuto nell’acquisizione illecita degli appalti dell’alta velocità ferroviaria e del potenziamento dell’autostrada Milano-Torino in diverse tratte lombarde.

Avvalendosi delle potenzialità fornite dalla prima piazza economico finanziaria a livello nazionale, la ‘ndrangheta attua il riciclaggio e/o il reimpiego dei proventi derivanti dalla gestione, anche a livello internazionale, di attività illecite (traffico di sostanze stupefacenti, armi ed esplosivi, immigrazione clandestina, turbativa degli incanti, ecc.), inserendosi insidiosamente nel tessuto economico legale, grazie all'esercizio di imprese all’apparenza lecite (esercizi commerciali, ristoranti, imprese edili, di movimento terra, ecc).

La prevalenza criminale calabrese, peraltro, non è mai sfociata in assoluta egemonia, sicché altre organizzazioni italiane (Cosa nostra, Camorra e Sacra Corona Unita) e straniere (albanesi, cinesi, nord africane, ecc.) con essa convivono e si rafforzano, generando l’attuale situazione di massima eterogeneità. 

LE ATTIVITÀ DELLA ‘NDRANGHETA IN LOMBARDIA

In definitiva, quanto alle caratteristiche peculiari delle organizzazioni criminali monitorate, è stato possibile individuare due distinte realtà territoriali, le quali hanno, però, mostrato un’incidenza criminale omogenea: Milano e il suo hinterland, quale centro nevralgico della gestione di attività illecite aventi connessioni con vaste zone del territorio nazionale; area brianzola (Province di Milano, Como e Varese), dove il denaro proveniente dalle attività illecite viene reinvestito in considerazione della “felice” posizione geografica che la vede a ridosso del confine con la Svizzera e della ricchezza del tessuto economico che la caratterizza.

Nel corso degli ultimi anni, una ulteriore conferma della forte presenza della ‘ndrangheta si è rilevata nell’area dell’hinterland sud–ovest del capoluogo lombardo (in particolare nei comuni di Corsico, Cesano Boscone, Rozzano, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio ed Assago) con particolare riferimento alle ‘ndrine provenienti dalla Locride, nonché dalla piana di Gioia Tauro.

Le principali ‘ndrine sono: “Morabito-Bruzzaniti-Palamara”, “Morabito-Mollica”, “Mancuso”, “Mammoliti”, “Mazzaferro”, “Piromalli”, “Iamonte”, “Libri”, “Condello”, “Ierinò”, “De Stefano”, “Ursini-Macrì”, “Papalia-Barbaro”, “Trovato”, “Paviglianiti”, “Latella”, “Imerti-Condello Fontana”, “Pesce”, “Bellocco”, “Arena-Colacchio”, “Versace”, “Fazzari” e “Sergi”.

Geograficamente il territorio lombardo può essere così suddiviso:

A Milano e hinterland opera attivamente la Cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti, che, tra l’altro, “utilizza” varie società aperte presso l’ortomercato, per fare arrivare nella metropoli ingenti “carichi di neve”, la cui domanda si è capillarmente diffusa tra i vari ceti sociali.

A Monza le “famiglie” Mancuso, Iamonte, Arena e Mazzaferro; • A Bergamo, Brescia e Pavia le “famiglie” Bellocco e Facchineri;

A Varese, Tradate e Venegono le “famiglie” Morabito e Falzea;

A Busto Arsizio e Gallarate la “famiglia” Sergi.

Le categorie economiche maggiormente a rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata si possono indicare così:

- costruzioni edili attraverso piccole aziende a non elevato contenuto tecnologico, che si avvalgono della compiacenza di assessori ed amministratori locali amici e si infiltrano negli appalti pubblici;

- autorimesse e commercio di automobili;

- bar, panetterie, locali di ristorazione;

- sale videogiochi, sale scommesse e finanziarie;

- stoccaggio e smaltimento rifiuti;

- discoteche, sale bingo, locali da ballo, night clubs e simili (che implicano possibilità di conseguire ingenti incassi e di fare “girare” droga);

- società di trasporti;

- distributori stradali di carburante;

- servizi di facchinaggio e pulizia;

- servizi alberghieri;

- centri commerciali;

- società di servizi, in specifico, quelle di pulizia e facchinaggio.

I canali attraverso i quali viene “lavato” il denaro appaiono i più ingegnosi e diversificati. Recenti inchieste, ad esempio, raccontano che le cosche sono sempre più interessate ai cosiddetti Money transfert, gli sportelli da cui gli stranieri inviano denaro all’estero.

Sul territorio nazionale restano gli euro puliti dei lavoratori extracomunitari, fuori dai confini si volatilizzano i soldi sporchi. Altro canale utilizzato è quello dei supermercati e dei loro scontrini.

I registratori di cassa, emettono ricevute a raffica, anche con qualche cifra in più; così gli ‘ndranghetisti stanno aprendo catene di negozi e centri commerciali in società con cinesi. Altro settore su cui scommette la criminalità calabrese è quello dei giochi: nell’anno 2006, in Lombardia, i locali specializzati hanno fatturato 4,6 miliardi di euro, laddove le sale scommesse (54 in Lombardia, 41 in Milano e provincia) hanno registrato 1,5 miliardi di euro di puntate, il 55 per cento in più rispetto all’anno precedente.

Le cosche calabresi hanno fatto un definitivo salto di qualità, non limitandosi più a dare vita a delle s.r.l., ma anche a S.p.A., acquisendo, come nelle società quotate in borsa, i trucchi della scatole cinesi. La ‘ndrangheta è diventata, peraltro, una autentica banca parallela, “aiutando” imprenditori in difficoltà, offrendo fideiussioni bancarie e prestiti.

Negli istituti di credito i protetti dalle cosche ottengono “affidamenti mafiosi” per attività perennemente in perdita o mutui per immobili già di proprietà dell’organizzazione perché i direttori della filiale bene sanno che le garanzie sono altrove.

In cambio lo sportello “’ndranghetista” riceve capitali puliti o deleghe per conti correnti ed assegni da utilizzare nei circuiti ufficiali. Gli adepti, per i loro traffici, utilizzano internet con abilità singolare, ma, al contempo, doppi fondi e spalloni, criptano le loro comunicazioni con sistemi come Voip e Skype e poi parlano al telefono con l’antichissimo linguaggio dei pastori.

La ‘ndrangheta ha costruito una rete fatta di broker e commercialisti, avvocati e dirigenti di banca: una mafia “invisibile” più profusa alle transazioni online che ai picchetti armati ed alle estorsioni (in Lombardia, l’unica faida in corso insanguina la provincia di Varese, zona calda per la presenza dell’aeroporto di Malpensa) e le armi che continuano a pervenire dall’est europeo e dalla Svizzera vengono riposte negli arsenali.

In quanto “globale e locale” da semplice organizzazione si è tramutata in sistema.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

Dai villaggi dell’Aspromonte al narcotraffico su scala globale. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA su Il Domani il 27 aprile 2022

La ’ndrangheta calabrese, e in particolare le cosche del quadrilatero Africo – San Luca – Platì - Ciminà nella provincia di Reggio Calabria e il gruppo Mancuso di Limbadi nella provincia di Vibo Valentia, hanno acquisito un ruolo di grande rilievo nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti e, in modo particolare, della cocaina proveniente dal Sud America.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.

È un dato pacificamente condiviso nelle investigazioni giudiziarie degli ultimi 10 anni quello per cui la ‘ndrangheta calabrese, e in particolare le cosche del quadrilatero Africo – San Luca – Platì - Ciminà nella provincia di Reggio Calabria e il gruppo Mancuso di Limbadi nella provincia di Vibo Valentia, avrebbero acquisito un ruolo di grande rilievo nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti e, in modo particolare, della cocaina proveniente dal Sud America.

Le strutture morfologiche di questo traffico e le modalità operative attraverso cui esso si incanala risultano invece meno evidenti all’analisi investigativa. La piena consapevolezza delle modalità con cui i gruppi calabresi si incaricano dell’approvvigionamento dello stupefacente, dello stoccaggio delle partite e del loro smercio sul mercato nazionale ed europeo ha ingenerato la convinzione che i clan siano pienamente operanti nel settore attraverso un consistente impegno di uomini delle ‘ndrine in tutti gli snodi dell’attività di transhipment della cocaina.

Una ricognizione più accurata delle indagini e un esatto profilo criminale dei soggetti identificati e tratti in arresto nel corso di diversi procedimenti penali, soprattutto quelli instaurati presso le Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria e Catanzaro, induce ad una diversa, e di certo non meno allarmante, conclusione.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 i capi delle ‘ndrine calabresi che avevano a disposizione remoti canali di contatto con i produttori e gli intermediari sudamericani hanno preso direttamente in mano il nuovo business compiendo un salto di qualità, per passare dal ruolo di tradizionale smercio di ingenti partite di droga (cocaina ed eroina in primo luogo) sui mercati del Centro e del Nord Italia, a quello del diretto approvvigionamento (anche per svariate tonnellate, come ha evidenziato l’operazione “Cartagine” dell’Arma dei Carabinieri in Piemonte) presso i produttori colombiani e boliviani.

SVILUPPO CRIMINALE

Questa opzione ha segnato un passaggio epocale verso la “terziarizzazione” della ‘ndrangheta calabrese, che da utente finale o comunque operativamente marginale del narcotraffico, si è dislocata sulle rotte della cocaina assumendo impegni diretti con i cartelli dei produttori e diventando essa stessa in taluni casi (come ha dimostrato l’operazione “Decollo” dell’Arma dei Carabinieri con la Dda di Catanzaro) coproduttrice della pasta da coca nei laboratori siti presso le piantagioni del Sud America.

Questo salto di qualità è stato reso possibile dalla concomitanza di diversi fattori strategici. In primo luogo, agli inizi degli anni ’90, la scelta di Cosa nostra di condurre operazioni stragiste di intimidazione delle istituzioni repubblicane, ne ha notoriamente determinato l’isolamento, provocando una capillare attività di repressione da parte dello Stato che ne sta, ancora oggi, destrutturando le capacità operative e criminali.

A questo va aggiunto il diffondersi tra le file di Cosa nostra del fenomeno dei collaboratori di giustizia che ne ha incrinato la credibilità sia agli occhi delle altre organizzazioni criminali italiane che a quelli dei grandi cartelli del narcotraffico internazionale.

L’assenza di un “soggetto forte” del prestigio e del rilievo di Cosa nostra e il concomitante endemico collasso degli assetti camorristici in Campania, fatta eccezione dei clan Casalesi, ha fatto sì che le ‘ndrine calabresi operassero in posizione di sostanziale monopolio nell’approvvigionamento della cocaina.

E questo proprio negli anni in cui la cocaina conquistava spazi crescenti nel mercato dei consumatori italiani ed europei. L’intuizione dei gruppi attestati nella provincia di Reggio Calabria è stata quella di trarre ulteriore profitto da questa posizione di acquirenti privilegiati per contrattare con i narcos l’acquisto della droga direttamente nei luoghi di produzione, e quindi ad un prezzo relativamente modesto (tra i 1.200 e i 1.500 dollari al chilo), assumendosi il rischio del trasporto della merce direttamente dal Sud America.

Ciò da un lato ha offerto la possibilità di moltiplicare i profitti e dall’altro ha spinto le cosche calabresi a sperimentare una nuova logistica, capace di dischiudere ai gruppi di ’ndrangheta prospettive assolutamente innovative e inesplorate verso la modernizzazione dei traffici illegali.

Il secondo fattore strategico che ha di certo agevolato il disegno egemonico dei clan, è sicuramente rappresentato dalla loro capillare diffusione praticamente in tutti i continenti: dal Sud America all’Australia, dalla Germania alla Spagna, dalla Francia alla Svizzera al Canada. Da anni le ‘ndrine calabresi possono contare su gruppi di affiliati, spesso su veri e propri “locali”, capaci di fornire il supporto organizzativo che questa evoluzione su scala internazionale imponeva.

Analizzando la biografia criminale di alcuni dei principali artefici di questa nuova architettura mafiosa è possibile cogliere alcune costanti: comuni frequentazioni, co-detenzioni, parentele rivelatesi decisive per strutturare la logistica della droga in paesi altrimenti estranei.

I processi di globalizzazione, la caduta del muro di Berlino, l’allargamento dell’Unione europea, la nuova area di Schengen, sono stati colti dalle famiglie calabresi, per dare impulso a questa costruzione di rotte non solo del narcotraffico ma anche dei capitali illeciti.

ALLEANZE STRATEGICHE

Agevolando - a dispetto di ogni intenzione - proprio i gruppi di ’ndrangheta che più di altri potevano vantare alleanze e presenze nel nuovo scenario politico-economico. Ancora oggi destano sorpresa alcune intercettazioni telefoniche di circa 10 anni or sono nel corso delle quali uomini delle cosche di San Luca compongono numeri di telefono boliviani e peruviani e colloquiano in dialetto calabrese con i propri complici che risiedono da anni in quel continente.

Così come inquietano le immagini riprese dalla Polizia di Stato italiana e dalla Polizia canadese nelle quali si intravede un boss latitante della caratura di Antonio Commisso passeggiare tranquillamente tra una decina di compaesani e altri mafiosi tra le strade di Toronto. D’altronde, da Antonio Giampaolo catturato in Venezuela nel 2001 a Luigi Facchineri, catturato a Cannes nel 2002, a Santo Maesano catturato a Madrid nel 2003, per giungere sino all’operazione che ha determinato la cattura di sei latitanti tra il Belgio e l’Olanda nel 2006 è ormai evidente come le strutture della ’ndrangheta coinvolte anche nel narcotraffico si siano costantemente avvalse di una capillare rete transnazionale e internazionale per rafforzare la propria posizione di egemonia sulle altre organizzazioni criminali.

Un terzo fattore forse determinante che ha stabilmente contribuito ad accrescere l’operatività criminale delle ‘ndrine è sicuramente rappresentato dalla spendibilità nello scenario delle transazioni illegali nazionali e internazionali di una sorta di “logo”, un marchio di “qualità” e affidabilità indiscusso presso i partner e le altre organizzazioni allocate nella filiera del narcotraffico.

Le famiglie calabresi infatti sono tra i pochissimi soggetti criminali in grado di approvvigionarsi costantemente di cocaina presso i fornitori sudamericani, assicurando comunque il pagamento delle partite di stupefacente.

I risultati del procedimento penale denominato “Igres” della Dda di Reggio Calabria sono al riguardo particolarmente significativi nella parte in cui evidenziano il modo in cui gli uomini della ’ndrangheta calabrese, a differenza di elementi pur di primo piano di Cosa nostra palermitana, fossero abilitati al prelievo della cocaina a condizione di assoluto favore in Colombia e nella piena fiducia dei fornitori.

Gli stretti collegamenti con soggetti operanti nei Paesi produttori hanno agevolato la crescita della ‘ndrangheta sino a renderla punto di riferimento anche per le altre organizzazioni endogene. Indubbiamente l’attività di contrasto svolta dallo Stato in questi anni ha determinato assestamenti e svolte operative particolarmente significative da parte della ‘ndrangheta calabrese, che attualmente gestisce il narcotraffico della cocaina con modalità solo parzialmente coincidenti con quelle in uso nel decennio scorso.

I procedimenti penali celebrati in Calabria, in Piemonte e in Lombardia per tutti gli anni ’90 a carico di boss e gregari delle famiglie ‘ndranghetiste hanno determinato l’irrogazione di pesanti condanne, spesso molto più consistenti di quelle derivanti dalla celebrazione di processi per il delitto di associazione mafiosa. […] Ciò ha comportato un progressivo affievolimento del diretto impegno degli uomini di primo piano delle “locali” calabresi nel traffico internazionale di droga.

La cura del territorio, l’assistenza ai latitanti e ai detenuti, le estorsioni, gli appalti, il riciclaggio, i rapporti di infiltrazione nella politica e nelle istituzioni sono tutti settori illegali che – come si è dimostrato in altra parte della relazione – la ‘ndrangheta calabrese e reggina in particolare non poteva e non intendeva dismettere.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XV LEGISLATURA

La profezia di Nicola Gratteri sulla 'ndrangheta nel litorale di Roma, cosa aveva detto da Floris. Gianfranco Ferroni su Il Tempo il 18 febbraio 2022.

Qualcuno si è stupito della maxi operazione svolta a Roma e dintorni contro la 'ndrangheta, eppure una «profezia» c'è stata, proprio sul tema del blitz. Chi guarda con attenzione la trasmissione di Giovanni Floris su La7 ha potuto ascoltare, dalla voce del procuratore della repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, la sintesi del «modus operandi» dell'organizzazione calabrese: il magistrato parlava proprio della strategia di infiltrazione negli enti locali, in particolare quelli piccoli. E Floris lo ha intervistato a Roma, due giorni prima del blitz. Un vaticinio?

A. Mar. C. Moz. per "il Messaggero" il 21 Febbraio 2022.  

L'esuberanza del figlio e del nipote dei boss che si credono tali solo in ragione dei vincoli parentali - quando invece dentro la ndrangheta i ruoli vengono riconosciuti solo dopo l'impegno sul campo - ha rischiato di far scoppiare una guerra tra la locale di Anzio e Nettuno e il clan Di Silvio-Spada. 

È il settembre del 2019 quando il figlio di Giacomo Madaffari, uno degli uomini ai vertici dell'organizzazione riconosciuta dalla casa madre di Santa Cristina d'Aspromonte, e un affiliato del gruppo con il ruolo di sgarro (Cosimo Tedesco) fanno irruzione nel quartiere Europa, base dei Di Silvio/Spada, minacciando i figli di questi con una pistola e rubando loro 30 grammi di cocaina a pegno di un presunto credito. 

«Lo prendo a martellate in testa davanti a te domani, li metto i pinneji do marteju nto cerveju domani» dice Tedesco a Daniele Paduano nel raccontare l'imboscata che, chiaramente, non passa inosservata tanto che dal clan Di Silvio-Spada parte un'ambasciata diretta proprio a Madaffari per cercare di risolvere la questione senza che ci siano strascichi. E baffo o baffetto (al secolo Giacomo Madaffari) quando viene a conoscenza dell'accaduto non reagisce bene. 

Si infuria perché quei ragazzi avrebbero potuto creare seri problemi, incrinando un equilibrio nato anni prima e che voleva radicati ad Anzio tanto il gruppo di ndrangheta quanto quello degli Spada-Di Silvio. A conoscere il fatto anche Bruno Gallace: «M' hanno detto che Spartaco è venuto qua!.. Perché dice che uno gli ha rotto i c.......» racconta al suo fidato collaboratore Vincenzo Italiano che ribatte: «Una guardia?» e Gallace risponde: «No! Uno dei Tedesco dice che...mo vedemo se se piegano questi...». 

Italiano informa poi Gallace che ad Anzio c'è «na zingara.. na parente loro che c'ha bisogno de... dice che Mario Tedesco è annato al quartiere Europa ha puntato na pistola a uno e gli ha levato...». Ma quello che si adira di più è proprio Madaffari in quanto nella questione sono coinvolti direttamente il figlio, il nipote ed un suo sottoposto, il Tedesco appunto. 

Con la moglie Baffo si sfogherà per trovare un modo per porre un freno senza che davvero scoppi una guerra tra clan per motivi poi che nulla hanno a che vedere con gli affari, a partire dal traffico di stupefacenti. Madaffari ha ricevuto un'ambasciata per «vedere quello che devo fare, perché non vogliono avere problemi, non voglio avere discussioni che li minacciano che li sparano», dice Baffo alla consorte che replica: «Vai lì... vedi se li pizzichi lì e chiamali chiamali a tutti e due insieme allora a questo punto... non voglio fanno queste cose veramente...eh». 

Madaffari è preoccupato: «Questi... prima o poi gli buttano qualche botta nella testa a tutti e due» e la moglie: «Sì, sì, si ecco... devono smetterla subito! Perché a questi avvisano prima...». «Devo prenderli ed affogarli a tutti e due» dice Baffo. La discussione va avanti. La moglie del boss: «Non si devono avvicinare più lì, perché ti hanno avvisato a te, perché la prossima volta fanno fanno... prima ci avvisano gli dici e poi sapere quello che fanno».  

«Di loro sono ragazzini - spiega Madaffari - ma dietro di loro non ci sono ragazzini, dietro di loro ci sono altre persone, di altre maniere». La coppia prova a mettersi in contatto con il figlio e con il nipote ma entrambi non si trovano e non rispondono. Madaffari perde la pazienza: «Ma questo - sempre alla moglie - non doveva rientrare a casa? Chiamalo al telefono, digli che lo voglio a casa per le otto stasera!». 

Alla fine, è il 10 ottobre del 2019, Madaffari riceve un'ulteriore telefonata da un tale Francesco che si qualifica come il ragazzo del quartiere Europa. La conversazione - si legge nelle carte dell'ordinanza - verteva sulla vicenda e alla fine Baffo promette che si sarebbe recato personalmente al quartiere Europa nel tentativo dunque di mettere fine alla questione. 

Questione che in realtà si dimostrerà doppia in quanto Mario Tedesco non solo si sarebbe recato al quartiere Europa con il figlio e il nipote di Madaffari ma avrebbe compiuto un'altra analoga rapina con identiche modalità sempre ai danni di un membro del clan Di Silvio residente però a Latina. Il coinvolgimento del figlio di Baffo e del nipote, però, sarebbe da ricondurre al solo episodio del quartiere Europa, tra le case popolari di Anzio. 

Valentina Errante per "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.

«Abbiamo sbancato tutti». Così esultavano gli uomini dell'ndrangheta all'indomani delle elezioni amministrative ad Anzio. «Qua il botto l'ha fatto Candido, proprio alla grande proprio». Candido è Candido De Angelis, che il giorno prima di questa conversazione intercettata dai carabinieri l'11 giugno 2018 era diventato sindaco del Comune in provincia di Roma, con una lista civica sostenuta dal centrodestra. Così le cosche si sarebbero infiltrate nelle amministrazioni del litorale, con l'obiettivo di mettere le mani sul ricco business dello smaltimento dei rifiuti. 

Sono 65 le misure cautelari eseguite ieri (39 in carcere e 26 ai domiciliari) su richiesta dei procuratori aggiunti della Dda di Roma Michele Prestipino e Ilaria Calò. Si ipotizzano l'associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, l'estorsione aggravata, la detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. I carabinieri del Nucleo investigativo di Roma, ieri, si sono presentati anche negli uffici comunali di Anzio e Nettuno per perquisirli e recuperare gli atti sugli appalti concessi alle cosche. «L'appalto ce lo famo tra noi», dicevano. Ora per le due amministrazioni partirà il lungo iter dello scioglimento per mafia.

LE NDRINE Le carte dell'operazione di ieri raccontano come due distinti gruppi criminali, distaccamenti delle ndrine di Santa Cristina d'Aspromonte in provincia di Reggio Calabria e di Guardavalle, in provincia di Catanzaro da anni si fossero infiltrate nelle amministrazioni e così mentre gestivano il narcotraffico utilizzando consolidati canali con il Sud America, investivano in aziende per lo smaltimento dei rifiuti e non solo. E si assicuravano gli appalti garantendo voti e con la forza dell'intimidazione. Dalla loro parte anche uomini delle forze dell'ordine, pronti a cedere informazioni riservate. 

LE INTERCETTAZIONI «Ieri abbiamo vinto le elezioni», dice uno degli indagati intercettato. «Il sostegno si è concentrato nella località denominata Falasche, corrispondenti alle sezioni 15-16-17 del comune di Anzio», si legge nell'ordinanza. Gli investigatori captano le conversazioni all'indomani dell'elezione di De Angelis, che non risulta nell'elenco degli indagati. «Candido è il sindaco, ha vinto e basta!». E ancora «Ieri abbiamo vinto le elezioni».

E poi aggiunge: «Ha vinto Candido, al primo turno... e io sto con lui, pure al mandato scorso, dopo fatti vedere. Stavolta non c'è trippa per gatti, tutti fuori a zappare la terra». Ma gli uomini dei clan si preoccupano anche dell'immagine dei loro presunti referenti e di essere troppo presenti: «Non posso mettermi in tutte le elezioni, poi dicono che è colluso con la mafia». Subito dopo le amministrative era Giuseppe Ranucci, eletto consigliere comunale e poi diventato assessore ai Lavori pubblici, a chiamare uno degli uomini del clan dando la sua massima disponibilità: «Per qualsiasi cosa fatti sentire». 

Ma quando è l'ora di battere cassa il boss si infuria perché non ha avuto riscontri immediati: «A Pi' la ditta non è intestata a me è intestata a mio nipote e pure se è intestata a me io faccio la gara d'appalto prendo l'appalto e il lavoro lo faccio io e basta non ci stanno problemi capito?» E poi aggiunge: «Mo' se è cosi chiamo a Candido e farlo venire qua perché se io mi sento preso per il culo diventa un macello, diventa un casino diventa proprio un casino sta cosa m' ha stranito». Nessun dubbio sull'esito dei procedimenti: «Ora chiamo l'assessore - dice uno degli arrestati - e gli dico ora mi prendo il patrimonio e le scuole e quello a occhi chiusi li dà a me»

NETTUNO Anche a Nettuno le cosche avrebbero cercato di orientare le elezioni del 2019. Per il gip «emerge la contiguità» di alcuni dei principali indagati «con vari esponenti politici» di Nettuno. In occasione delle amministrative uno degli affiliati si era «attivato per convogliare i voti» su uno dei consiglieri eletti nella lista del sindaco Alessandro Coppola, anche lui non indagato. In una conversazione Giacomo Madaffari, capo di una delle due organizzazioni mafiose, si preoccupava per Coppola: «Ci arrestano e cacciano pure Coppola». In un'altra conversazione uno degli arrestati ricorda di aver minacciato un uomo che aveva vinto una gara di un appalto per la manutenzione delle scuole. «E com' è che stai a fare le scuole ad Anzio? - si legge - È il primo intervento che fai? Ecco, dico, basta! Devi venire te da Aprilia a fare il malandrino ad Anzio» e lui mi ha risposto: «perché ad Anzio che c'è la mafia?». 

LO SCIOGLIMENTO Nei prossimi giorni il prefetto Matteo Piantedosi convocherà un comitato per l'Ordine e la sicurezza al quale prenderanno parte anche i magistrati della Dda di Roma. Poi dovrebbe essere nominata una commissione ispettiva. Il primo passaggio per procedere allo scioglimento delle due amministrazioni e nominare i commissari.

Alessia Marani per "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.  

Attentati incendiari, proiettili nelle buste indirizzate ai consiglieri, teste mozzate di animali come inquietanti messaggi di morte: da questi episodi i carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci sono partiti per passare al setaccio i legami tra la ndrina di Anzio e Nettuno e le amministrazioni locali. Adesso per i due Comuni del litorale a Sud di Roma si paventa l'ipotesi dello scioglimento. 

Un dejà vu per Nettuno che aveva già vissuto il commissariamento nel 2005. Gli atti delle indagini verranno vagliati in queste ore personalmente dal prefetto Matteo Piantedosi il quale se - come sembra emergere dalle informative raccolte dagli inquirenti coordinati dalla Dda - riterrà concrete le ipotesi di infiltrazioni mafiose nei gangli della macchina amministrativa provvederà all'insediamento di due distinte commissioni di indagine, una per ciascun ente, con il compito di approfondire lo status quo. 

Secondo quanto stabilito dall'articolo 143 sul Testo unico degli enti locali, ci saranno tre mesi di tempo, più altri tre se si riterrà necessario un supplemento di inchiesta, per poi decretare lo scioglimento. Per Candido De Angelis (non indagato), sindaco di Anzio per oltre tredici anni, significherebbe la debacle dopo una carriera politica costellata di successi. Successi che, stando alle indagini dei carabinieri e della Direzione distrettuale antimafia presso la Procura di Roma, sarebbero stati ottenuti anche grazie all'apporto di membri dello Stato maggiore della ndrina di Santa Caterina d'Aspromonte e di Guardavalle, ovvero autentici pezzi da novanta della malavita organizzata calabrese impiantati a due passi dalla Capitale, con pari dignità e poteri.

Giuseppe Riggio e Antonio Riggio, due affiliati, intercettati dai militari l'11 giugno 2018, in piena campagna elettorale ad Anzio, parlano tra di loro. Giuseppe sta seguendo l'andamento dei voti nel seggio di Lavinio, Antonio è in Calabria. Un posto vale l'altro per loro, litorale laziale o Aspromonte, non c'è differenza. Commentano la imminente elezione di De Angelis. Antonio contatta Giuseppe: «Pare che è arrivato un messaggio che ce l'ha fatta!». E Giuseppe risponde: «Sbancau proprio», ossia «ha sbancato». Antonio replica: «Mo sono in arrivo qua al bar, che stamattina si decide anche qui». Antonio: «Dove?». Giuseppe: «A Guardavalle».

 Ieri mattina i carabinieri sono entrati nei due Comuni per effettuare le prime perquisizioni. In una stanza dell'Ufficio demanio di Anzio hanno sistemato le montagne di documenti sequestrati, quindi hanno posto i sigilli al locale. Tra le carte acquisite dai militari ci sono soprattutto le determine per l'affidamento di concessioni e appalti che riguardano i servizi comunali: rifiuti, mense, lavori pubblici, trasporti. 

Non ultimo le licenze commerciali e le concessioni balneari. Il sindaco De Angelis si dice certo di avere «sempre esercitato liberamente il mandato elettorale», confidando «nell'operato della magistratura». Il teorema degli inquirenti è chiaro. La succursale romana della Ndrangheta funziona secondo lo stesso schema: voti in cambio di appalti tra fiumi di cocaina dal Sudamerica, i cui proventi vanno riciclati in attività pulite. Succede così che la Camassambiente spa, con sede legale a Bari, nel 2016 si aggiudica l'appalto per i rifiuti ad Anzio, valore 38 milioni di euro. A fornire la lista delle persone da assumere ci pensavano direttamente i calabresi. Il responsabile comunale del procedimento nel commentare la presenza di diversi pregiudicati all'interno della società, parlando con un funzionario comunale ammette: «Li hanno messi loro... che li abbiamo messi noi? (...) Le liste ce le davano loro del personale da assumere... hai capito?». Tra i dipendenti figurava anche Salvatore Madaffari, figlio del capo della ndrina Giacomo, ma al lavoro, manco a dirlo, non andava mai. L'ambiente è tra i principali settori a cui puntano gli ndranghetisti. 

IL BUSINESS A PONZA La ndrina si muoveva anche per allargarsi al vicino territorio di Latina. L'8 gennaio 2019, i carabinieri ascoltano una conversazione tra Davide Perronace e un uomo non meglio identificato. Quest' ultimo gli propone un affare che avrebbe in mente sfruttando la conoscenza di Angelo Ferullo (non indagato) già a capo del Latina calcio e di un altro gancio. Dice: «Questo ha una società che costruisce convertitori per bruciare rifiuti speciali, a impatto zero.. sta cosa se la dobbiamo fare la possiamo fare in Ghana, perché c'ho un aggancio forte al ministero dello sviluppo», salvo poi ripiegare su Ponza: «Siccome il Ghana è un paese sottosviluppato .. questa cosa però la possiamo fare anche a Ponza che non può trattare l'immondizia sul posto perché è un'isola...».

A. Mar. per "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.

«Io ci do una mano a Pino il lombetto perché Zi' Pino per qualsiasi cosa lo chiami è sempre disponibile». Davide Perronace, uno dei capi della ndrina di Anzio, intercettato dai carabinieri di via In Selci, si dice convinto del sostegno elettorale dato a Giuseppe Ranucci (non indagato), ex assessore all'Ambiente di Anzio. 

Pino il lombetto era considerato affidabile dai sodali, sebbene i più sul litorale lo conoscano per il suo temperamento sopra le righe, tanto che l'anno scorso dovette lasciare lo scranno in Comune dopo avere minacciato i vigili urbani accusati di accanirsi nei controlli anti-Covid nella sua palestra. Nel 2014 prese anche a pugni un imprenditore.

IL SUMMIT Il legame tra la famiglia Ranucci (il figlio è consigliere a Nettuno, anche lui non indagato) e i Perronace risulta confermato da una conversazione del 7 giugno del 2018 dalla quale, scrive il gip, «si desumeva che Gabriele Perronace aveva effettuato lavori edili gratuiti presso l'abitazione di Luca Ranucci». Non solo. È lo stesso Lombetto a confidare in alcune conversazioni con l'amico Marco Maranesi (non indagato) e tale Moreno, di essere stato appoggiato dai clan: «Detta tra me e te pure Davide Perronace, la famiglia Erri mi hanno dato una mano». 

 Il settore Ambiente era nel mirino del clan che cercava di riciclare i proventi del narcotraffico nel business dei rifiuti. Emergono altresì i collegamenti tra la ndrina e Gualtiero Di Carlo, detto Walter, successore di Ranucci, come annota il gip. Mentre i carabinieri li immortalano entrambi riprendendoli in un summit il 18 febbraio 2020 presso la società G&g Ecospurgo dei Perronace con Davide Perronace, Vincenzo e Rocco Daniele Gallace.

Dopo essere stato eletto, però, Perronace passa all'incasso e pretende di aggiudicarsi gli appalti. Avendo percepito una certa resistenza di Ranucci, al telefono con il figlio Gabriele che di fatto tiene i contatti con gli assessori e il sindaco Candido De Angelis (non indagato), è furioso: «Io faccio la gara d'appalto, prendo l'appalto e il lavoro lo faccio io e basta, capito? ... Mo se è così chiamo a Candido e farlo venire qua perché se io mi sento preso per il culo diventa un macello diventa un casino, sta cosa m' ha stranito proprio». 

Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 19 febbraio 2022.

Gli appalti, ad Anzio, dovevano andare solo alla ndrangheta. Nessuno doveva ostacolare le ambizioni di Davide Perronace, affiliato del grande crimine finito in carcere accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. La politica locale, in parte, ne era succube. Alcuni consiglieri comunali erano sotto scacco. La regola da rispettare era quella mafiosa. Il metodo, per imporla, la minaccia. La conversazione tra Perronace e un suo parente, registrata dalle cimici piazzate dai carabinieri di via In Selci, il 19 agosto del 2018, ne è un esempio. Perronace racconta allo zio Vincenzo Gallace le pesanti intimidazioni che aveva rivolto a un consigliere comunale, Antonio Geracitano.

Quest' ultimo, secondo la sua tesi, non l'aveva aiutato ad ottenere un appalto per alcuni lavori per le fognature del comune di Anzio. Questo è ciò che riferisce a Gallace in merito all'incontro con l'esponente politico: «Stai buono che ti meno immediatamente .. a te già non ti doveva venire l'idea di fare questa cosa, perché poi lo sai che viene qualcuno e ti dice oh che stai a fare? .. se fai un altro intervento e se hai il camion mo che sta facendo l'intervento alla scuola, lo chiami e gli dici che se ne devono andare». 

APPALTI Perronace era sicuro, ormai, di aver messo le mani su diversi appalti e, rivolgendosi sempre a Gallace, gli spiega che «compare, da oggi mi prendo il patrimonio, le scuole ... e quello a occhi chiusi me li dà a me!». Le minacce, tuttavia, non erano rivolte solo ai politici che esitavano ad accontentare le richieste della ndrangheta. Perronace faceva capire anche ai titolari di altre aziende che ad Anzio non potevano lavorare.

Ecco il resoconto, intercettato dagli investigatori, che l'uomo offre sempre allo zio. «E com' è che stai a fare le scuole ad Anzio? È il primo intervento che fai? Ecco, dico, basta! Non li fai più, perché ad Anzio ci stanno otto autospurghi .. devi venire te da Aprilia dico a fare il malandrino ad Anzio? Mi ha detto: perché ad Anzio che c'è la mafia? No ad Anzio non c'è la mafia, ad Anzio c'è la gente che va a lavorare dico e su un comune come Anzio non devo lavorare io devono lavorare gli autospurghi di Anzio».

Perronace, però, non avrebbe aggredito solo un rivale in affari che si era permesso di sconfinare nel suo comune. Questo increscioso episodio, dal suo punto di vista, l'avrebbe spinto a rappresentare le sue rimostranze anche al mondo politico della piccola città a sud ovest di Roma. Insomma a quei consiglieri comunali che avrebbero permesso ad un'azienda di Aprilia di vincere un bando. «Si è recato direttamente in comune - si legge nell'ordinanza del gip Livio Sabatini - per intimare alla consigliera Laura Nolfi ed al marito di non compiere ulteriormente simili atti di aggiudicazione».

INTIMIDAZIONI Il nome di Perronace era uno di quelli che incuteva timore in città e non solo tra i concorrenti in affari o gli esponenti politici. Anche la macchina amministrativa era, in qualche modo, sottomessa agli interessi dell'uomo. Così scrive il gip Sabatini: «Nel corso del dialogo con Gallace, Perronace affermava inoltre di avere esplicitamente minacciato Maurizio Perica, impiegato presso il secondo ufficio tecnico lavori pubblici del comune di Anzio».

Il dipendente pubblico era colpevole di aver affidato un lavoro non al boss ma ad un altro membro della sua famiglia: «C'ho detto Mauri' quello è mio zio...però a me non mi devi prendere per il culo! Quindi dato che mi hai preso per il culo mo ti dico una cosa: se mio zio Agazio infila il canale dentro ad un pozzetto ... ti faccio ricordare dico il giorno che mi hai conosciuto a me! Faccio il modo che non ti fai più la barba!»

Dagotraduzione dal Guardian il 19 febbraio 2022.

Gli ascolti delle notizie sono in forte calo, la fiducia del pubblico nei giornalisti è ai minimi storici e uno dei nomi più famosi nel settore dei media è in una crisi post-pandemia di serie A in vista di un'importante elezione di medio termine. 

Ma il denaro continua ad arrivare, circa un miliardo di dollari all'anno di profitto per la sua società madre, WarnerMedia di AT&T, mentre le decisioni sui contenuti basate sui dati spingono la rete verso ossessioni da tabloid e un tono radicato nell'esagerazione e nell'allarme. 

La CNN, la società fondata nel 1980 da Ted Turner sulla scorta dei ricavi di una delle più grandi cineteche di film classici del mondo, si è trovata a un bivio che all'interno assomiglia almeno a una crisi.

Due settimane fa il presidente della CNN Jeff Zucker è stato licenziato bruscamente per non aver rivelato una relazione romantica con una collega anziana. Pochi credono alla narrativa, dal momento che la relazione era nota da anni e almeno un conduttore della CNN, Don Lemon, ha versato lacrime in onda alla partenza di Zucker. 

La partenza di Zucker sembrava più probabilmente correlata a un altro licenziamento scandaloso, quello del conduttore Chris Cuomo, che ha citato in giudizio la rete per un 60 milioni di dollari dopo essere stato licenziato per aver svolto un ruolo fuori misura e non dichiarato nel plasmare la difesa di suo fratello, l'ex governatore di New York Andrew Cuomo, contro le accuse di molestie sessuali.

Gli scandali fanno eco a episodi precedenti in cui i dirigenti delle principali organizzazioni televisive americane sono stati accusati di operare una cultura dell'impunità per altri dirigenti senior, quasi sempre maschi. Sembra illustrare un problema più ampio ai vertici di queste aziende: organizzazioni estremamente potenti i cui dirigenti sembrano aver presupposto che le normali regole non si applicassero a loro.

Prendi il grande rivale della CNN, Fox News. Nel 2016, il capo di Fox News Roger Ailes è stato licenziato dopo uno scandalo di molestie sessuali. Una causa intentata dagli azionisti, che nominava l'eredità di Ailes e l'azionista di controllo della 21st Century Fox, Rupert Murdoch, ha affermato che Ailes aveva «molestato sessualmente dipendenti e collaboratori impunemente per almeno un decennio» e che Murdoch e altri avevano consentito a Bill O'Reilly ancora di Fox News di molestare diverse dipendenti di sesso femminile. 

La società ha pagato 55 milioni di dollari per risolvere le denunce di molestie sessuali e in seguito ha perso le migliori conduttori femminili tra cui Megyn Kelly, Greta Van Susteren e Gretchen Carlson.

Lo scandalo Fox News è stato seguito due anni dopo da uno scandalo di molestie sessuali che ha coinvolto il CEO della CBS Leslie Moonves che includeva accuse di un tentativo di insabbiamento da parte dei dirigenti della CBS. A Moonves è stato successivamente negato un pacchetto di fine rapporto di 120 milioni di dollari. Ciò è seguito al licenziamento di Charlie Rose, co-conduttore del programma mattutino della CBS, nel novembre 2017 dopo che diverse donne lo hanno accusato di molestie e cattiva condotta.

Ma i problemi della CNN, mentre mancano accuse comparabili contro Zucker, la cui relazione era consensuale, suggeriscono che altri problemi sono in gioco in un nuovo settore in uno stato di turbolenza quasi costante. 

Il pubblico della CNN nella prima settimana di gennaio è sceso complessivamente del 90% e in particolare nella fascia demografica critica ambita dagli inserzionisti rispetto all'anno precedente, mentre la rete sta attirando critiche per le posizioni editoriali. 

Secondo Ariana Pekary, editore pubblico per la CNN presso la Columbia Journalism Review e giornalista di MSNBC che ora si concentra sui difetti sistemici dei notiziari commerciali, una narrazione di una cultura tossica e dominata dagli uomini non descrive completamente i problemi a portata di mano nel settore radiotelevisivo degli Stati Uniti.

Invece alcuni dei problemi riguardano ciò che è sullo schermo, non chi c'è dietro. 

«Zucker era iperconcentrato sulle valutazioni e sugli incentivi finanziari e questo ha portato i cambiamenti nelle notizie verso l'opinione perché l'opinione guida le valutazioni», ha affermato Pekary. «La CNN si occupa più di cercare di creare una narrazione che pensano che il pubblico seguirà, quindi costruiscono la copertura attorno a determinati personaggi che sono nei notiziari ogni giorno o riappariranno». 

Zucker era stato portato alla CNN nel 2012, due anni dopo aver lasciato la NBC, dove aveva guidato gli ascolti della divisione intrattenimento con programmi come The Apprentice di Donald Trump, che ha contribuito a ristabilire la sua immagine pubblica e, secondo alcuni, ha reso possibile la sua presidenza.

Nonostante il background di Zucker in reality TV e notiziari del mattino, l'allora società madre della CNN, Time Warner, assunse Zucker per migliorare le valutazioni e iniettare "più passione" nella programmazione. 

Secondo il Washington Post, Zucker è riuscito a rendere redditizia la rete, espandendo la programmazione oltre le notizie. Tra le nuove offerte c’era Parts Unknown di Anthony Bourdain, insieme a una nuova divisione di documentari progettata per creare una programmazione per gli spettatori del fine settimana. 

Pekary ha lasciato MSNBC nel 2020, scrivendo sul suo sito web che provenendo dalla radio pubblica, «dove nessuna decisione a cui ho mai assistito era basata su come un argomento o un ospite avrebbe "valutato" a cosa, al telegiornale "Ho visto tali scelte - è praticamente cotto nel processo editoriale – e quelle decisioni influenzano i contenuti delle notizie ogni giorno”».

La pressione di prendere decisioni editoriali basate su sondaggi e dati sull'audience, spiega Pekary, inizia negli incontri di notizie mattutine, dove Zucker era notoriamente una forza sempre presente alla CNN. «Ecco perché la copertura di ora in ora si attiene alle stesse storie e narrazioni. Prendono decisioni su ciò che secondo loro il pubblico valuterà migliore, in base a ciò che ha fatto bene e ai social media». 

Pekary ha recentemente notato che, in assenza di Donald Trump per guidare gli ascolti, la CNN si è spinta in modo aggressivo nel «regno del materiale simile ai tabloid». C'era Gabby Petito, la donna di Long Island uccisa dal suo ragazzo nel Wyoming, e il coinvolgimento di Alec Baldwin nella morte della direttrice della fotografia Halyna Hutchins.

Il problema non è esclusivo delle notizie via cavo, ma solo esagerato. La devozione alle valutazioni, ragiona Pekary, ha deformato il controllo editoriale e la credibilità delle notizie via cavo e del settore delle notizie in generale. 

Secondo i dati dell'annuale barometro della fiducia di Edelman, il 56% degli americani concorda con l'affermazione che «giornalisti cercano di proposito di fuorviare le persone dicendo cose che sanno essere false o grossolane esagerazioni». 

Una percentuale ancora maggiore – il 58% – ha affermato di ritenere che «la maggior parte delle testate giornalistiche è più preoccupata di sostenere un'ideologia o una posizione politica che di informare il pubblico».

Per la CNN, la saga di Cuomo è iniziata con Chris Cuomo che intervistava spesso suo fratello in onda - un chiaro conflitto di interessi - prima di trasformarsi in un confronto per molestie sessuali. Dopo che Jeffrey Toobin, un analista legale di lunga data della CNN, si è esposto durante una chiamata Zoom con i colleghi del New Yorker, è stato rimesso in onda. 

La devozione ai dati ha creato opportunità di concorrenza da altre fonti, a volte controverse. Due settimane fa, il podcaster Joe Rogan si è ritrovato in una faida pubblica con Neil Young e altri per la disinformazione di Covid.

Pekary afferma che le notizie via cavo potrebbero riscattarsi se si concentrassero maggiormente sulla raccolta di notizie e meno sulla vendita di opinioni, che è più economico da produrre al di fuori degli enormi stipendi per i talenti in onda. Meno importa chi comanda. Ma con la CNN che realizza 1 miliardo di dollari di profitto per la sua società madre, l'incentivo al cambiamento è limitato. 

«Non importa chi è al comando, non vedo che il formato cambia tanto quanto credo dovrebbe», ha detto. «Trascorrono moltissimo tempo, soprattutto in prima serata, a rielaborare l'indignazione del giorno, mentre potrebbero produrre una programmazione di notizie molto migliore con un formato diverso che in realtà informa un pubblico più ampio, ma stanno cercando il minimo comune denominatore».

MALAGIUSTIZIA. Sentenze comprate in Calabria: Manna interdetto da avvocato, ma resta sindaco. NELLO TROCCHIA su Il Domani l'11 gennaio 2022.

Verdetti comprati, 'ndranghetisti accusati di omicidio assolti, un avvocato sindaco che resta al suo posto. È la sintesi del caso delle sentenze pilotate che oltre a minare ulteriormente la credibilità del potere giudiziario racconta anche di una battaglia tra pubblici ministeri e giudici che ora arriva fino in Cassazione.

La procura di Salerno, guidata dal procuratore Giuseppe Borrelli, sta facendo luce su una mefitica pratica di corruzione che coinvolge magistrati e avvocati calabresi.

Marcello Manna è sindaco di Rende, in provincia di Cosenza, presidente dell'Anci calabrese, l'associazione che riunisce i comuni, ma è anche avvocato. È indagato per corruzione, avrebbe corrotto Marco Petrini, quando quest'ultimo era presidente della Corte di assise d'appello di Catanzaro. 

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

La storia del giovane boss della ‘ndrangheta che traffica cocaina con il diploma antimafia. Il ventiseienne Rocco Molè voleva vendicare lo zio ucciso e riportare la famiglia in alto nelle gerarchie criminali. Per il narcotraffico verso nord ha ingaggiato chimici colombiani e sommozzatori della marina militare peruviana. E mentre frequentava la comunità Abele di don Ciotti, organizzava il racket in Lombardia. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 10 gennaio 2022.  

La ’ndrangheta è una moneta con una faccia di modernità affaristica e il rovescio di tragedia greca. Rocco Molè ha ventisei anni ed è già in carcere. Con il suo cognome non ci sarebbe da stupirsi. Il padre Girolamo detto Mommo sta scontando una lunga condanna. Lo zio omonimo è stato ucciso il primo febbraio 2008 a Gioia Tauro in contrada Ciambra, non lontano dal quartiere rom che ha dato il titolo a un film di Jonas Carpignano.

L’INCHIESTA DELL’ANTIMAFIA DI CATANZARO. Amaro del capo, tutti i contatti tra i soci Caffo e il clan di ‘ndrangheta dei Mancuso. Giovanni Tizian e Nello Trocchia su editorialedomani.it l'11 dicembre 2021. «L'amaro del capo ... è Capo Vaticano… non capo», il padrino della ‘ndrangheta ride mentre spiega al suo interlocutore russo che il liquore non si chiama così per onorare un boss di mafia ma uno dei luoghi più incantevoli della Calabria, Capo Vaticano. Il 20 marzo 2020 le cimici dei carabinieri registrano senza sosta ogni parola detta a un pranzo d’affari. Il pranzo in cui il padrino parla dell’Amaro non è l’unico indizio che ha convinto i magistrati della procura antimafia di Catanzaro a iscrivere nel registro degli indagati due dei proprietari della“Distilleria fratelli Caffo 1915”, Giuseppe Caffo e Sebastiano Caffo. «Non abbiamo ricevuto comunicazioni o notifiche, non abbiamo niente da nascondere», dice Pippo Caffo, il presidente del gruppo. 

Inchiesta su Amaro del capo e il clan di ‘ndrangheta, parlano i fondatori «Siamo puliti». Giovanni Tizian e Nello Trocchia su editorialedomani.it l'11 dicembre 2021. Limbadi, nel cuore della Calabria, provincia di Vibo Valentia, è la roccaforte della più potente cosca di ‘ndrangheta, quella dei Mancuso. Il capo, Luigi Mancuso, lo chiamano il supremo, oppure, confidenzialmente, lo zio. A Limbadi c’è anche la famosa distilleria della famiglia Caffo che produce l’Amaro del Capo. Domani ha rivelato che i vertici sono indagati per concorso esterno in associazione mafiosa. «Non faccio il politologo, non faccio l’inquisitore, io conosco le persone. Se queste persone sono ‘trattate’ dagli organi dello stato, io non ho niente da rimproverargli né da rimproverarmi», dice Giuseppe Caffo quando gli chiediamo cosa pensa dei Mancuso. «Abbiamo rating legalità altissimo, siamo un’impresa pulita e fieri di lavorare nella nostra terra», dice Nuccio Caffo, amministratore delegato e figlio di Pippo.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Sicario dei boss e uomo dei servizi: si riaprono le indagini su Antonino Gioè, l’infiltrato nella strage di Capaci. L’uomo chiave dell’eccidio che ha portato alla morte del giudice Giovanni Falcone segnalato per “operazioni di intelligence”. La procura ora riapre il caso sulla sua morte. E si avviano nuove indagini anche sulla fine di un colonnello dell’ex Sismi. Enrico Bellavia su L'Espresso l'11 aprile 2022.

A suo modo un talento precoce. Un uomo d’azione la cui abilità non era passata inosservata. «Persona certamente idonea a essere adoperata per compiti di intelligence militare»: così annotavano i carabinieri di Altofonte sul fascicolo di Antonino Gioè, classe 1948, al tempo in cui, nel 1969, il futuro stragista chiave dell’eccidio di Capaci si preparava alla leva obbligatoria.

Che fosse un uomo d’azione, confermando la sinistra postilla del suo anonimo talent scout in divisa, lo dimostrò 24 anni dopo, scivolando a pancia sotto su uno skateboard per imbottire di esplosivo il cunicolo dell’autostrada saltata in aria il 23 maggio del 1992 e uccidere il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i tre agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Che Gioè fosse con un piede nella mafia e l’altro nei servizi cosiddetti deviati, è da sempre molto più di un sospetto, avvalorato da altrettanti indizi. Era l’uomo che Paolo Bellini, l’ambiguo terrorista nero della strage alla stazione di Bologna, contattò da potenziale infiltrato nella mafia. Ed era soprattutto l’uomo a cui Franco Di Carlo, il boss di Altofonte, in esilio forzato in un penitenziario inglese, affidò il compito di assecondare le richieste che certi suoi amici dei servizi erano andati a rappresentargli nel 1989, l’anno del fallito attentato ai danni di Falcone sulla scogliera dell’Addaura. «Volevano neutralizzare il giudice», spiegò Di Carlo da collaboratore di giustizia.

Più avanti, quegli stessi amici, e siamo a ridosso del 1992, erano tornati alla carica, cercando un contatto diretto dentro Cosa nostra. Questa volta il giudice faceva ancora più paura perché dall’ufficio degli affari penali del ministero di Grazia e giustizia, dopo aver assestato il colpo del maxiprocesso, si preparava a fare piazza pulita di anni di incrostate connivenze tra pezzi dello Stato e la mafia. E ancora una volta Gioè era il tramite giusto.

Il sicario con affidavit da 007, del quale aveva anche parlato in commissione antimafia il procuratore Gianfranco Donadio, di sicuro partecipò alla strage mafiosa di Capaci, telefonando per tre volte a tre ore dallo scoppio della bomba a un’utenza del Minnesota con un apparecchio inizializzato utilizzando dei numeri assegnati da una centrale telefonica di Roma Nord, base di una struttura riservata per i collegamenti speciali dei servizi.

Poi, da Bellini, Gioè ricevette il suggerimento per spostare al Nord, ai monumenti e alle chiese, la strategia delle bombe. Prima c’era stata la strage di via D’Amelio per uccidere Paolo Borsellino, 19 luglio 1992, ma stranamente Gioè e il gruppo di Altofonte, Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, non fu impiegato. Gioè si limitò a consegnare dei telecomandi. Lì c’era forse qualche altro «infiltrato nella mafia» su cui la moglie di Di Matteo suggerì al marito di tacere quando il figlio Giuseppe, tenuto in ostaggio per oltre 700 giorni e poi sciolto nell’acido, era nelle mani dei suoi ex compari. E Di Matteo non ha mai voluto approfondire la questione.

Ma torniamo a Gioè. All’indomani del secondo ciclo di attentati a Firenze, Roma, e Milano nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, quando era già in carcere da più di 4 mesi, finì vittima di uno strano suicidio in cella su cui adesso torna a indagare la procura di Roma, su input della Direzione nazionale antimafia.

Il dubbio è che lo abbiano fatto fuori per tappargli la bocca. E la nuova inchiesta promette di riaprire a ritroso molti capitoli inesplorati della enigmatica biografia di questo uomo d’onore con ottime entrature negli apparati di sicurezza.

A partire proprio da quel sinistro accreditamento che giovanissimo lo portò a prestare servizio da paracadutista con tanto di brevetto di lancio in quella stessa caserma, la Vannucci di Livorno, dove si addestrano i reparti specializzati dei carabinieri del Reggimento Tuscania. Tant’è che l’inchiesta promette di esplorare i contorni di un altro suicidio, quello di Mario Ferraro, il colonnello dei servizi, uomo del generale Giuseppe Santovito e per suo tramite contatto privilegiato di Franco Di Carlo con il mondo dell’intelligence, trovato impiccato al porta asciugamani del bagno nel suo appartamento all’Eur, il 16 luglio del 1995. Un’altra morte rimasta avvolta da mistero: la posizione del corpo, la ripulitura dell’appartamento da parte di non meglio precisati emissari, le relazioni pasticciate dei primi agenti.

Ma chi era davvero Nino Gioè? Un uomo della mafia o un uomo di una certa parte dello Stato? O di tutte e due insieme? E con chi aveva iniziato a parlare nel penitenziario romano di Rebibbia, unico tra gli stragisti a scontare solo un giorno di carcere duro al 41 bis? 

Dal processo d’appello sulla ’ndrangheta stragista, in corso a Reggio Calabria, è venuto fuori, lo ha riportato Repubblica, che Gioè si apprestava a collaborare. Molti indizi convergono. Tuttavia non ci sono tracce di verbali, né di colloqui investigativi. Chi erano dunque gli interlocutori? Chi poteva permettersi il lusso di entrare a Rebibbia, parlargli e non lasciare tracce. Gioè, formalmente detenuto pericolosissimo perché stragista, godeva di un certo trattamento di favore.

Santino Di Matteo che ha condiviso lo stesso carcere con lui prima di essere trasferito all’Asinara, ha raccontato di essersi molto stupito quando, vedendolo da una finestra nel cortile interno di Rebibbia, gli raccontò che aveva colloqui giornalieri con il fratello e riceveva buon cibo dell’amministrazione. «Rimasi colpito perché a noi non era concesso neanche il pane», si insospettì Di Matteo. Le carceri, in quel momento storico, si erano trasformate in incubatori di potenziali nuovi collaboratori. Ma all’opera, per stimolare le voci di dentro dall’universo mafioso, c’erano molte figure impegnate a indirizzare le rivelazioni, ben prima che approdassero a verbali ufficiali redatti davanti ai magistrati.

Qualunque fosse stata davvero la scelta di Gioè lo deve aver tormentato. Gino La Barbera, suo amico e allievo, pure lui a Rebibbia, notò che si era lasciato andare: barba lunga e capelli arruffati. Da Radio Carcere seppe che Gioè giustificava l’aspetto trasandato con la necessità di dissimulare le proprie sembianze in vista di eventuali confronti e riconoscimenti. Ma la cosa non convinse l’amico. La storia del presunto suicidio di Gioè che tanto inquietava il magistrato Loris d’Ambrosio, consigliere giuridico del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, a colloquio, intercettato, con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, ha da sempre il sapore di una messinscena.

Gioè si sarebbe tolto la vita annodando i lacci delle scarpe, che in teoria non avrebbe dovuto avere, al terzo anello della grata della cella che occupava da solo, lasciandosi poi cadere da un’altezza minima. Il cappio lasciò però un segno al collo come se fosse stato tirato dal basso, il corpo presentava dei segni compatibili con uno strangolamento alle spalle e alcune costole erano fratturate. «Nel tentativo di rianimarlo», testimoniarono gli agenti penitenziari. Anche se le costole rotte erano molto più giù del cuore. Ma fu lo stato dei luoghi a sconcertare. Sotto alla finestra c’era un tavolino, attaccato al muro e con la cena al suo posto. Tutto in ordine, come se la scena fosse stata ricomposta, non ha potuto mancare di notare il funzionario della Dia Michelangelo Di Stefano davanti al pm Giuseppe Lombardo al processo di Reggio Calabria.

Sul tavolo della cella, una lettera di commiato di sei pagine con una grafia che cambia in corso di scrittura in cui Gioè si definiva «un mostro» che «ora sta ritrovando la serenità». Non un riferimento esplicito al suicidio e invece una sorta di liberatoria per alcune delle persone che involontariamente aveva fatto arrestare, tra cui il boss della ‘ndrangheta Domenico Papalia. Dopo Capaci, con La Barbera, Gioè si era rintanato, sebbene non fosse ufficialmente ricercato, nel covo di via Ughetti, a Palermo e lì, ignaro di essere intercettato dalla Dia, aveva parlato a ruota libera. La Barbera aveva fatto riferimento «all’attentatuni», aprendo uno squarcio sulla composizione del gruppo che avrebbe portato alla verità giudiziaria sulla strage di Capaci.

Strano posto via Ughetti, frequentato anche da una coppia di agenti del Sisde amanti clandestini. L’improvvida chiacchierata di Gioè con La Barbera fu il secondo dei gravi infortuni della sua carriera di mafioso iniziata nel 1976. Il primo gli era costato il carcere quando di anni ne aveva 31. Aveva dimenticato una pistola in una trattoria di Palermo. E quando era andata a riprenderla aveva trovato i poliziotti del capo della Mobile, Boris Giuliano. In quel 1979, attraverso una bolletta che aveva in tasca, gli agenti erano risaliti al covo ancora caldo del boss corleonese Leoluca Bagarella in via Pecori Giraldi e avevano messo le mani su una partita di eroina e su una valigia di soldi provenienti dall’America. Giuliano fu ucciso quello stesso anno. Gioè che aveva inguaiato i suoi, rimediò una condanna a 11 anni e 10 mesi. Gliene abbuonarono un bel po’ e nell’86 riassaporò la libertà. Dopo un periodo da soggiornante obbligato a Moncalvo, vicino ad Asti, nel 1990, andò ufficialmente a lavorare da benzinaio nell’impianto della sorella ad Altofonte. E, incredibilmente, frequentava ancora lo stesso covo di via Giraldi. A marzo del 1992 aveva già cambiato lavoro. Era operaio presso la ditta edile di Altofonte che aveva la manutenzione dei cunicoli dell’autostrada di Capaci. Un furgone bianco di quella ditta fu notato anche alla vigilia dell’attentato da due testimoni. Uno era un poliziotto ma poi senza ragione apparente cambiò versione. Gioè ebbe ancora il tempo, tra Capaci e via D’Amelio, di eliminare il boss di Alcamo, Vincenzo Milazzo. Lo avevano attirato in trappola per interrogarlo. Volevano chiedergli della parentela della sua compagna con un agente dei servizi. Ma mentre era in corso l’interrogatorio, Gioè affrettò i tempi e freddò Milazzo. L’indomani toccò anche alla compagna che era incinta. E anche quelle furono tappate.

Il suicidio di Nino Gioè, le stragi e il ritorno del teorema trattativa con la “ndrangheta stragista”. In una drammatica lettera prima di morire scriveva: «Ero diventato un mostro e lo sono... spero che (le mie parole) possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati, coinvolti in vicende giudiziarie». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 gennaio 2022. Giunge notizia, rivelata da Repubblica, che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria ha messo agli atti del processo d’appello ‘ndrangheta stragista, il fatto che il boss Nino Gioè avrebbe voluto collaborare con la giustizia. Ufficialmente si sarebbe suicidato in carcere di Rebibbia la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993. Ora, con questi nuovi atti, si farebbe largo l’ipotesi che in realtà sarebbe stato ucciso, simulandone il suicidio. Subito prende piedi di nuovo l’ipotesi dei servizi segreti deviati, addirittura – nell’articolo de La Repubblica – spunta il nome del “protocollo farfalla”. Ma cosa c’entra con il 1993, quando è assodato che parliamo di una operazione di intelligence fallimentare effettuata tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004? Un miscuglio di suggestioni che prestano il fianco alla tesi della “ ’ndrangheta stragista”, molto simile al teorema trattativa Stato-mafia, ma integrata con la componente calabrese.

I motivi del perché Gioè è morto

Che sia possibile un suicidio simulato, non è una ipotesi peregrina. Non è un caso che i collaboratori con la giustizia, in carcere vanno protetti e messi in sezioni isolate dai mafiosi. A maggior ragione uno come Antonio Gioè. Infatti era situato in una cella singola, seppur nello stesso braccio dove era recluso Totò Riina. Gioè era coinvolto nella strage di Capaci e catturato dalla Dia nel marzo del 1993. Il 29 luglio dello stesso anno fu trovato suicida nella cella del carcere di Rebibbia, impiccato alle sbarre coi lacci delle sue scarpe. Emersero subito delle perplessità e i sospetti manifestati, e non solo dagli investigatori, sulla spontaneità del suicidio di Gioè, e l’ipotesi tra le altre formulate che il suicidio fosse stato determinato in Gioè dal timore di poter rivelare i nomi dei partecipanti alle stragi e da maltrattamenti subiti durante la detenzione da esponenti delle forze dell’ordine, per estorcergli rivelazioni utili alle indagini, nel contesto di una gestione arbitraria dei detenuti, avallata da taluni settori investigativi.

Come si evince dalle risultanze processuali, Gioè, prima della cattura, era stato intercettato mentre parlava di progetti di uccisione degli agenti del carcere di Pianosa e di un attentato al Palazzo di giustizia di Palermo. Attraverso di lui, gli investigatori avevano individuato il commando della strage di Capaci. In un interrogatorio del 10 settembre ’96, fatto congiuntamente dai Pm delle Procura di Palermo, Caltanissetta e Firenze, il pentito Giovanni Brusca è stato sentito pure sul suicidio di Gioè, e nel rispondere ne dipingeva una personalità autodistruttiva, accennando al fatto che spesso Gioè faceva discorsi su delle sue letture riguardanti casi di suicidio con metodi particolari di avvelenamento, per non essere costretti a parlare. Quindi Brusca non aveva avuto dubbi che Gioè si fosse effettivamente suicidato in carcere. Il dubbio, quindi, rimane.

Gioè aveva infranto le regole di Cosa Nostra

Ma non finisce qui. Gioè, prima di morire, ha lasciato una drammatica lettera. «Stasera sto trovando la pace e la serenità che avevo perso circa 17 anni fa. Ero diventato un mostro e lo sono stato – scriveva – fino a quando ho preso la penna per scrivere queste due righe, che spero possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati, che solo per mia mostruosità si ritroveranno coinvolti in vicende giudiziarie».

Il boss avrebbe infranto nel modo peggior le regole di Cosa nostra, parlando dei segreti della mafia tramite il suo telefonino intercettato, senza però rendersi conto di essere controllato dagli investigatori. Da qui le “minacce” a lui e ai suoi familiari, le “pressioni” di cui deve essere stato oggetto forse anche in carcere che lo avrebbero spinto al suicidio.

Gioè, infatti nella lettera, parlava delle «moltissime fandonie» dette «per millanteria» e registrate dalle forze dell’ordine, tentando di scagionare dalle sue accuse alcuni boss. Nella lettera, Gioè aggiunse anche questo: «…dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato all’editore una tessera dello stesso creditore, il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato: mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il signor Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo». Ed è qui uno dei nodi dove si inserisce una delle tesi che entrò nel processo trattativa Stato-mafia. È la meno conosciuta, ma dove hanno costruito l’ennesimo castello di carta: la trattativa Gioè – Paolo Bellini sulle opere d’arte.

Paolo Bellini avrebbe deviato verso il teorema trattativa

Quest’ultimo è un personaggio ambiguo, dove è difficile distinguerlo tra la millanteria e la credibilità. Nato nel 1953, aveva un passato di estremista nei gruppi emiliani di Avanguardia Nazionale, oltre che una serie di reati alle spalle, che lo avevano portato per anni in latitanza in Sudamerica (dal 1976) ed in prigione in Italia. In carcere – sotto il falso nome di Roberto da Silva – Bellini era entrato in confidenza con Gioè, cosa che gli aveva consentito di operare informalmente come contatto tra le forze dell’ordine e la mafia a partire dal 1993.

Suggestioni a parte, le risultanze processuali indicano che l’ex ros Mario Mori svalutò l’importanza di Bellini, considerandolo non in grado di potere fronteggiare da infiltrato quei mafiosi, i quali avrebbero potuto sospettare di lui e ucciderlo subito. In effetti, come ampiamente spiegato da Brusca, e anche da Gioacchino La Barbera, loro stessi e Gioè per primo (pensiamo a quel passaggio della lettera), sospettarono dal primo istante che Bellini fosse un infiltrato, che volesse farli catturare o che avesse comunque doppie mire.

Anche gli ufficiali della Dia di Roma, cui pure lo stesso Bellini era andato a rivolgersi, chiedendo per la sua missione in Sicilia trecento milioni di lire in cambio, non la reputarono di interesse. In realtà, emerge l’ipotesi che le dichiarazioni rese da Bellini, soprattutto quelle successive al dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Firenze, sui suoi dialoghi con Gioè sulla trattativa con persone potenti di Roma, non rivestirebbero di alcuna credibilità. Perché? Le dichiarazioni dello stesso Bellini al Pm ed alla Corte d’Assise di Firenze, paleserebbero che l’idea di colpire i monumenti (stragi mafiose del 1993) fu abilmente suggerita proprio da Bellini a Gioè. Nella sentenza della corte d’assise di Firenze, emerge che anche Brusca, in tutto sul punto riscontato, ne fu diretto testimone. La verità, come sempre, è quella più semplice. Anche se mal si incastra con taluni infiniti teoremi giudiziari.

La sigla “falange armata” usata dai mafiosi per depistare

Inventata in ambienti carcerari, tanto che inizialmente appariva con il nome “Falange armata penitenziaria”, è stato sempre Brusca – durante l’interrogatorio del 96 – a rilevare che con quella sigla erano stati rivendicati gli attentati di Firenze e Milano, per depistare – diceva – deviando i sospetti sulla matrice delle bombe. Spiegava al riguardo che in precedenza anche durante discorsi fatti di tra lui e Gioè, si parlava di depistaggio, ragion per cui era portato a ritenere che al momento delle stragi del ’93 Bagarella avesse utilizzato la sigla Falange Armata. Gli sembrava di ricordare di avere sentito Bagarella pronunciare quella sigla allorché facendo una battuta di spirito, dopo una delle stragi aveva detto che erano stati i terroristi, pronunciando proprio l’espressione Falange Armata.

Ricordiamo che la sigla viene usata dalla mafia, in terra siciliana, fin dal 1992: parte dall’omicidio di Salvo Lima, attraversa quello del maresciallo Guazzelli (due omicidi che, come si evince dal verbale di Teresi del 1992, erano legati a mafia appalti), passa da Capaci a via D’Amelio, fino ad arrivare alla strage dei Geogofili e alle bombe a Roma e Milano. Da dove l’hanno presa in prestito? Apparve nei notiziari italiani nel 1990, con la sigla “falange armata penitenziaria” che ha rivendicato l’omicidio dell’educatore del carcere di Opera, in provincia di Milano, Umberto Mormile. Da lì, la fantomatica sigla viene usata da chiunque, perfino ragazzini hacker, per rivendicare qualsiasi omicidio. Anche dalla mafia.

·        La Mafia Lucana.

Antonio Giangrande: Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è , pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti. Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

·        La Sacra Corona Unita.

Sangue, bossoli e mare, scrive Tiziana Magrì su “Narco Mafie” il 22 set 2015. La mafia tarantina e la sua storia si articolano su un territorio complesso, strettamente legato al mare e a tutto quello che dal mare può venire. Ripercorriamone la storia recente allo scopo di ritrarre un territorio dove, al novero dei traffici illeciti, si è aggiunto il business portato dai migranti e dall’accoglienza a loro destinata sul suolo italiano. Il 3 luglio scorso, il governo, ha deciso per l’ennesima volta il futuro della città di Taranto, firmando l’ottavo decreto salva-Ilva. Un decreto che, se da un lato dovrebbe garantire 15 mila posti di lavoro, dall’altro salva ancora una volta un colosso aziendale che negli anni, dentro e fuori dalla fabbrica, è stato causa di malattie e morti. Ancora un volta, quindi, scoppia la bolla di sapone di quello che, ciclicamente, media e opinionisti chiamano “caso Taranto”; che d’altronde, suona ormai quasi “città criminale”. La morte di Taranto non è solo una questione del presente: la città sullo Jonio ha alle spalle un passato difficile (abbastanza recente), quello che va dalla fine degli anni Ottanta agli anni Novanta. È il tempo delle pistole fumanti, il periodo di piombo della criminalità tarantina. Una guerra cruenta che ha lasciato sull’asfalto, tra boss, affiliati e vittime innocenti 169 persone. Erano gli anni dei fratelli Modeo (fratellastri, in verità, stesso padre ma madri diverse): Antonio, il Messicano; e poi Riccardo, Giancarlo e Claudio. Sono stati loro a regnare sulla città. Soprattutto Antonio Modeo, in prima fila in Lotta Continua durante gli anni Settanta, ideatore prima e creatore poi della mala tarantina. Una mafia moderna, che vuole uscire dal provincialismo per diventare borghese. Modeo, faccia da duro, si presentava come un uomo ambizioso e intelligente. Soprannominato il Messicano per quella sua somiglianza con Charles Bronson, attore protagonista del film Il Giustiziere della Notte. Correva l’anno 1986 e il clan governava incontrastato sul tarantino. Al Messicano, affiliato alla Nuova camorra pugliese da Raffaele Cutolo in persona e Aldo Vuto, non manca la vena imprenditoriale: con la ditta Italferro Sud monopolizza il mercato della rottamazione e quello della mitilicoltura grazie alla Cooperativa Praia a Mare, estendendo la propria influenza anche fuori dai confini della Puglia. Antonio Modeo, con i suoi fratelli, viene arrestato e processato dal Tribunale di Bari. Ma tra loro i rapporti non sono facili. Sono in guerra per contendersi il monopolio del mercato della droga. Una frattura insanabile, che determina presto cambiamenti di alleanze e strategie tra i due clan neonati: da un lato Antonio, sostenuto dai boss Salvatore De Vitis, Matteo La Gioia, Orlando D’Oronzo, Cataldo Ricciardi e Gregorio Cicale; dall’altro i fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio, appoggiati dal boss dell’alto barese Salvatore Annacondia. È da qui che prende avvio la lunga e sanguinosa faida che trasformerà Taranto. Il 21 agosto 1989, su consenso di Cutolo, viene ammazzato Paolo De Vitis, vecchio capo della mala tarantina. Il giorno dopo, sei colpi di pistola colpiscono a morte Cosima Ceci, madre dei Modeo, nella sua casa al quartiere Tamburi. In questa trama, nell’incapacità di spezzare il filo, si delinea, chiaro, il legame grazie al quale politica e mafia si intrecciano. La Commissione Antimafia porta l’attenzione su Taranto e le sue vicende. Amministratori come Alfonso Sansone, Giancarlo Cito e l’assessore A. F., politico di scuola democristiana, finiscono sotto osservazione. Il malaffare politico è trasversale. Nel 1995, Giancarlo Cito viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e indagato per concorso in omicidio (poi assolto) per l’uccisione del boss Matteo La Gioia (rivale del clan Modeo). Cito, futuro sindaco di Taranto e parlamentare, venne condannato nel 1997 in concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi rapporti con la Sacra Corona Unita. Sarà Salvatore Annacondia, boss della malavita della zona nord del barese (e le cui rivelazioni hanno raccontato molto della mafia pugliese), affiliato al clan dei fratelli Modeo, a rivelare la complicità fra Cito e i Modeo. Il 16 agosto 1990, a Bisceglie, mentre rincasava da una giornata in spiaggia, viene freddato Antonio Modeo, all’epoca latitante. Il quadro della violenta malavita tarantina dell’era Modeo conoscerà l’inizio della sua fine proprio con la morte del Messicano, voluta da Annacondia, con la complicità, non certo di secondo piano, degli stessi Gianfranco e Riccardo Modeo. Da questo momento comandano loro, e dal carcere dirigono la guerra contro il nuovo boss Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis (subentrato al padre Salvatore). La città è in mano ai killer. Tutta l’Italia ha gli occhi puntati su Taranto. Inizia così la caccia ai nuovi mandanti ed esecutori. Inizierà la grande stagione dei blitz e del maxi-processo Ellesponto. I fratelli Modeo (Riccardo, Gianfranco e Claudio), Vincenzo Stranieri, braccio destro di Rogoli, Salvatore Annancondia, e altri esponenti criminali vengono condannati al 41bis, al carcere duro, capo d’accusa: associazione di stampo mafioso. Durante la trattativa Stato-mafia anche i fratelli Modeo parlano. Dal declino dei Modeo emergono cellule indipendenti. Da allora, in molti sono stati scarcerati o ammessi a misure alternative e per la maggior parte rientrati nel vecchio ruolo di gestori di attività illecite. Rispetto agli anni Novanta è la logica criminale a essere cambiata: non più contrasto, ma collaborazione. Identica è invece la vocazione autonoma della criminalità tarantina. Oggi come allora non ha instaurato veri e propri sodalizi con altri soggetti criminali. Non c’è la recrudescenza degli anni Ottanta e Novanta. Piuttosto un esercizio costante di potere sul territorio: l’estorsione, l’usura e il contrabbando sono fenomeni diffusi e più o meno equamente ripartiti tra i diversi clan. La nuova dimensione della mafia tarantina sono gli investimenti nell’economia legale di denaro illecitamente accumulato. Bar, supermercati e, su tutto, sale da gioco e centri scommesse. L’aspirazione è di entrare nei luoghi decisionali. Nell’ultima maxi-operazione degli agenti della squadra mobile di Taranto, condotta in collaborazione con la Dda di Lecce e denominata Alias, sono emersi chiari i rapporti tra mafia e politica. Il clan che tira le fila è quello capeggiato da Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis, entrambi già condannati nel processo Ellesponto per il reato di cui all’art. 416 bis, ed entrambi in libertà dopo oltre vent’anni. I due avevano costruito un’associazione dedita a rapine, estorsioni e traffico di stupefacenti ed erano pronti a scatenare una nuova guerra, anche per vendicarsi di chi negli anni della reclusione gli ha voltato le spalle. Tra i 52 arresti scattati con l’operazione Alias, si fa notare quello di Fabrizio Pomes, ex-gestore del Centro sportivo Magna Grecia ed ex segretario provinciale del Nuovo Psi. Pomes, secondo gli inquirenti, era un fiancheggiatore dell’organizzazione dei boss D’Oronzo-De Vitis per conto dei quali creava cooperative per la gestione della struttura sportiva di proprietà comunale. Nel prosieguo dell’inchiesta, Alias 2, è emerso il nome della neo consigliera provinciale Giuseppina Castellaneta, moglie del fratello di Nicola De Vitis e accusato di estorsione ai danni di Gino Pucci, ex presidente dell’Amiu, l’azienda municipalizzata di gestione dei rifiuti. I clan del vecchio ordine con al seguito nuove leve vogliono, ora come ora, giocare pulito e mettere le mani sull’imprenditoria locale che resiste alla crisi. L’ingerenza della criminalità nel comparto dei lavori pubblici si presenta sotto molteplici aspetti. Un esempio illuminante: i mezzi per la movimentazione terra, che vengono presi a nolo da un’azienda esecutrice dei lavori, sarebbero messi a disposizione da imprese direttamente riconducibili ai clan. In provincia (vero epicentro del potere mafioso è la zona Manduria/Sava), dove i capi indiscussi del litorale jonico fanno ancora riferimento a Vincenzo Stranieri, sottoposto al carcere duro, capo assoluto dello spaccio di stupefacenti su quasi tutto il territorio tarantino. Il tristemente noto pluri-omicidio del 17 marzo dello scorso anno, in cui furono uccisi Domenico Orlando, pregiudicato in semilibertà, la sua compagna Carla Fornari e il suo figlioletto di tre anni, Domenico Petruzzelli, ha dato prova di come la contesa del mercato della droga sia in fase di riassestamento con l’uscita dalla galera dei vecchi leader e la smania dei nuovi intraprendenti boss. Sono proprio le nuove leve ad andare alla ricerca di nuovi accordi e alleanze. I D’Oronzo/De Vitis, ad esempio, sono in relazione con i Mollica di Africo, con cui stanno stringendo accordi per l’approvvigionamento di sostanze stupefacenti dai canali del Sud America, Africa e Sud-est asiatico.

«La Puglia è nostra», l'intercettazione di Walter Modeo nell'inchiesta per droga e mafia. La Voce di Manduria domenica 23 gennaio 2022. «La Puglia è nostra». Così, in un’intercettazione captata dalla Guardia di Finanza di Brindisi che indagava su delega della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, il manduriano Walter Modeo, esaltava il suo presunto potere criminale mentre preparava le armi per un attentato di fuoco contro gli appartenenti al clan rivale di Giovanni Donatiello, 60 anni di Mesagne da poco libero dopo 30 di carcere per reati di mafia. Era il 27 maggio del 2019. La cimice della procura antimafia registra i rumori dello scarrellamento dei fucili mentre Modeo parla con un trafficante di Oria che gli aveva chiesto protezione contro le richieste estorsive dei mesagnesi. «Te ne puoi andare – dice il manduriano -, quelli non sanno neanche con chi si sono messi contro, mille e cinquecento dipendenti abbiamo tra albanesi, russi e ucraini, quelli non sanno neanche con chi cazzo si mettono contro, il clan mio è operativo, noi comandiamo qua, la Puglia è nostra, punto». È uno dei passaggi più forti delle numerose intercettazioni ambientali e telefoniche riportate nelle 489 pagine dell’ordinanza della giudice Cinzia Vergine che firma 23 misure di custodia cautelare nei confronti di altrettante persone di diversa provenienza e nazionalità. Tra questi anche 5 manduriani, tre dei quali coinvolti anche nella recente inchiesta «Cupola» dell’antimafia leccese: oltre a Modeo, Nazareno Malorgio e Elio Palmisano, tutti arrestati ieri per reati di droga, i primi due con l’aggravante dell’associazione mafiosa. L’inchiesta coinvolge in tutto 45 gli indagati che devono rispondere a vario titolo di traffico internazionale di stupefacenti, estorsione aggravata da metodo mafioso, detenzione e porto in luogo pubblico di armi comuni ed armi da guerra, danneggiamento, violazione agli obblighi imposti dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale ed autoriciclaggio. Le indagini hanno riguardato un’organizzazione criminale transnazionale con base in Albania in grado di importare nelle provincie di Brindisi e Taranto grosse partite di eroina e cocaina in arrivo dalla Turchia e dall’Olanda, poi smistate sulle diverse piazze di spaccio della regione pugliese ed in provincia di Reggio Calabria. 

La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato … Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, queste avrebbe forse potuto esistere?….All’epoca tenevo ancora il relativo registro, in cui figurava che per  l’immondizia entravano 100 milioni al mese, mentre poi mi sono reso conto che in realtà il profitto era di almeno 600-700 milioni al mese….Sono inoltre al corrente del fatto che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scarica nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti aerei tramite elicotteri: da qualche verbale dovrebbe risultare che ho mostrato quei luoghi…..Vi erano fusti che contenevano tuolene, ovvero rifiuti provenienti da fabbriche della zona di Arezzo: si trattava di residui di pitture.…I rifiuti venivano anche da Massa Carrara, da Genova, da La Spezia, da Milano….Vi sono molte sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di lavorazione di tutte le specie, tra cui quelli provenienti da concerie….. è diventato un affare autorizzato, che faceva entrare soldi nelle casse del clan. Tuttavia, quel traffico veniva già attuato in precedenza e gli abitanti del paese rischiano di morire tutti di cancro entro venti anni; non credo, infatti, che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via avranno forse venti anni di vita!….Qui si parla di milioni, non di migliaia. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato, vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord, tra i quali vi era anche un mio camion. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno…..Fino al 1992 noi arrivavamo nella zona del Molise (Isernia e le zone vicine), a Latina … Non so cosa è accaduto dopo. Se vogliono, possono arrivare anche a Milano ….In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta. Noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C’è la prova … Io, ad esempio, avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a fare eleggere il sindaco. Prima il sindaco era socialista e noi eravamo democristiani. Dopo la guerra con i Bardellino… Ci avrebbe fatto piacere anche se fosse rimasto socialista, perché era la stessa cosa. Per esempio, a Frignano avevamo i comunisti. A noi importava non il colore ma solo i soldi, perché c’era un’uscita di 2 miliardi e mezzo al mese. Posso raccontare un aneddoto, anche perché è già stato verbalizzato ed i protagonisti sono agli arresti, tranquilli. A Villa Literno, che era di mia competenza, ho fatto io stesso l’amministrazione comunale. Abbiamo candidato determinate persone al di fuori di ogni sospetto, persone con parvenze pulite ed abbiamo fatto eleggere dieci consiglieri, mentre prima ne prendevano tre o quattro. Un seggio lo hanno preso i repubblicani, otto i socialisti ed uno i comunisti (un certo Fabozzo). La sera li abbiamo riuniti e ne mancava uno. Io li ho riuniti e ho detto loro: “tu fai il sindaco, tu fai l’assessore e via di questo passo. Mi hanno detto: “ma manca un consigliere per avere la maggioranza”. All’epoca c’era Zorro, il quale era capo zona e dipendeva da me; ho detto: andate a prendere Enrico Fabozzo e lo facciamo diventare democristiano. Infatti, lo facemmo assessore al personale. La sera era comunista e la mattina dopo diventò democristiano. E così che si facevano le amministrazioni. Il patto era che gli affari fino a 100 milioni li gestiva il comune, oltre i 100 milioni, con i consorzi, ci portavano l’elenco dei lavori e noi li assegnavamo. Ai comuni dicevamo che sui grandi lavori avrebbero trattato direttamente con noi al 2,50 per cento. C’era una tariffa: 5 per cento sulle opere di costruzione e 10 per cento sulle opere stradali. Perché le strade si debbono rifare ogni anno? Perché non venivano fatte bene, perché se il capitolato stabiliva che vi dovessero essere sei centimetri di asfalto, in realtà ne venivano messi tre, perché il cemento utilizzato non era quello previsto, e così via. Il sistema generale era così. Speriamo che cambi….Il mercato dei rifiuti in Italia è uno solo e veniva tutto gestito da poche persone. Poi i clan si sono intromessi e hanno detto (come hanno fatto per le strade): noi vi facciamo passare i camion, non ve li distruggiamo, ma ci dovete dare tanto. Poiché era più conveniente dare ai clan che lavorare di nascosto … Ma per poter fare ciò serviva gente che entrasse in queste associazioni culturali, quindi gente intelligente, che studiava…..” Carmine Schiavone - audizione dell’ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo di rifiuti.

Carmine Schiavone, l’esperto di finanza del clan dei Casalesi, l’uomo che muoveva i miliardi degli affari illeciti dell’associazione camorristica si apre alle telecamere di Sky Tg24 e alla maniera sua avverte che ancora tanta gente è destinata a morire a causa dei rifiuti tossici che giacciono nel sottosuolo del basso Lazio e Campania, finanche nella loro stessa terra, Casal di Principe. Esce dal processo Spartacus dove come pentito ha svelato i movimenti economici dell’intero clan ma avverte pure che le mafie sopravviveranno e che nessuno sarà in grado di sconfiggerle (e sembra non sia una minaccia quanto una promessa). L’intervista dura 9 minuti e è agghiacciante per due motivi: per il messaggio che manda alle istituzioni, ovvero che non sono migliori della camorra e perché avverte che una bomba a orologeria di veleni e scorie nucleari è destinata a esplodere a breve nel basso Lazio a Latina dove nelle cave sono interrati fusti con rifiuti nucleari. Il che già ha scatenato le reazioni di tutti quei movimenti che da tempo lottano nella Terra dei Fuochi per essere ascoltati proprio da quelle istituzioni che Schiavone non esita a definire corresponsabili con la camorra. E ne spiega il perché: Ci sono forti interessi a livello economico a livello elettorale e noi spostavamo 70 mila 80 mila voti da un partito all’altro e questo faceva la differenza nelle elezioni. Ma si stanno a rendere conto che ci stanno 5 milioni di persone a morire? Abbiamo scelto basso Lazio e Campania perché facevano parte dei Casale. Era terra nostra. Caso ha voluto che proprio il giorno prima su Avvenire don Maurizio Patriciello il prete di Caivano che si batte contro l’omertà e la strage nella Terra dei fuochi scrivesse: Vedere morire i figli è qualcosa di orrendo, insopportabile. Soprattutto se si poteva evitare. Il popolo semplice non riesce a capire il motivo di tanti ritardi e omissioni, di questo lasciar mano libera a chi viola la legge, a chi uccide. E comincia a serpeggiare il pensiero che, in realtà, non si voglia proprio intervenire. Che sia in atto una strategia per non arrivare a soluzioni. Che si voglia nascondere qualcosa o qualcuno. Che questa situazione «faccia comodo» a tanti. Non ha tutti i torti, la povera gente. Si sente presa in giro. I verbi coniugati da chi comanda sono sempre al futuro: faremo, diremo, provvederemo. Calato il sipario dell’occasione pubblica, resta solo un silenzio angosciante. E la gente muore, di cancro. E la Campania ancora non ha un registro tumori. E il nuovo ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ancora non viene a vedere con i suoi occhi che cosa sta accadendo in questa regione bella e disgraziata. E si fanno illazioni… Qui si agonizza e si lotta tra fuochi e fumi assassini, e chi ci governa e ci rappresenta ancora pronuncia parole come fumo leggero. Queste morti sono sempre più dolorose e insopportabili. Si muore per motivi vergognosi ed evitabili. Per silenzi omertosi. Per denaro e per potere. Ma chi se non lo Stato, nel quale continuiamo caparbiamente a credere e a sperare, deve prendere di petto la situazione?

Come risponderanno, se risponderanno, politica e istituzioni?

«Esprimo grande soddisfazione per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti’»: così Laura Boldrini, sulla decisione dell’Ufficio di Presidenza. «Si tratta della prima volta che la Presidenza della Camera - senza che questo sia richiesto dalla magistratura - decide di rendere pubblico un documento formato da Commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto».  «Lo dovevamo in primo luogo - ha proseguito la presidente della Camera - ai cittadini delle zone della Campania devastate da una catastrofe ambientale cosciente e premeditata, come ho avuto modo di dire anche recentemente a Pollica, per la commemorazione dell’assassinio del sindaco Angelo Vassallo: cittadini che oggi hanno tutto il diritto di conoscere quali crimini siano stati commessi ai loro danni per poter esigere la riparazione possibile. Troppo spesso, nella storia del nostro Paese, il segreto è stato infatti invocato non a tutela non dei diritti di tutti ma a copertura degli interessi di alcuni. La fiducia nelle istituzioni - ha sottolineato Laura Boldrini - si rinsalda anche facendo luce su zone d’ombra immotivate e perciò inaccettabili all’opinione pubblica».

Ecomafia, la profezia del boss Schiavone: "Gli abitanti del Casertano moriranno di cancro". Le parole del pentito del clan dei Casalesi nel 1997: "C'erano camion con sostanze tossiche". Poi l'accusa alla cosca: "Aveva affari milionari", scrive “Libero Quotidiano”. "Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro". Furono queste le parole che il pentito del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, profetizzò nel corso dell'audizione dell'ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta su mafia e rifiuti tossici. Verbali che solo oggi, dopo la rimozione del segreto, sono diventati pubblici: "un segnale di trasparenza e attenzione da parte dell'ufficio di presidenza della Camera nei confronti delle popolazioni della Campania, colpite dal dramma dei rifiuti tossici", come ha sottolineato Valeria Valente, Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati.  La profezia - "Quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti del paese rischiano tutti di morire di cancro entro vent'anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita", ribadiva Schiavone sedici anni fa, per poi spiegare: "C'erano camion che arrivavano dalla Germania, camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scaricati nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti tramite elicotteri. Lì ci sono i bufali e non cresce più l'erba. C'erano rifiuti anche da Genova, Massa Carrara, La Spezia e Milano. Erano sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di ogni tipo di lavorazione". Il pentito del clan dei Casalesi raccontava anche degli affari milionari della cosca: "Con i soldi del traffico di rifiuti - diceva - si pagavano i mensili agli affiliati, le spese per i latitanti, gli avvocati, circa due miliardi e mezzo di lire al mese, comprese le spese extra. Per l'immondizia entravano nelle casse del clan dei Casalesi circa 600-700 milioni di lire al mese". Le ecomafie - Carmine Schiavone, durante l'audizione del '97, ricostruiva la genesi dell'ecomafia del Casertano: "A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti". Poi, ecco spuntare Cerci e Chianese: "Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti". "In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C'è la prova. Io ad esempio avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a far eleggere il sindaco. Prima era socialista e noi eravamo democristiani. A Frignano avevamo i comunisti. A noi non importava il colore ma solo i soldi, perché c'erano uscite di due miliardi e mezzo al mese".

Il traffico illegale delle scorie pericolose, i fusti tossici interrati nelle cave, le coperture politiche e massoniche, la maledizione del cancro, scrivono Antonio Castaldo e Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. L’anno è il 1997, il collaboratore Carmine Schiavone aveva già raccontato tutto. È l’audizione davanti alla commissione parlamentare sulle Ecomafie del pentito che con le sue confessioni ha fatto crollare il clan dei Casalesi. L’operazione Spartacus risale a due anni prima. Di rifiuti interrati e di rischi per la salute non si parlava ancora. E non se ne parlò neanche negli anni successivi, perché le dichiarazioni del cugino di Francesco «Sandokan» Schiavone sono rimaste secretate per oltre 16 anni. La Camera ha deciso di renderle pubbliche giovedì 31 ottobre 2013. «Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro», affermò Schiavone, con un tono profetico che purtroppo è stato confermato dai fatti. Le ricerche del Cnr e del Pascale, fatte proprie dal ministero della Salute, descrivono un’impennata della mortalità per tumori nelle province di Napoli e Caserta. Riferendosi al traffico illegale di rifiuti nocivi, Schiavone spiegò che divenne un business «autorizzato» per il clan dei Casalesi nel 1990. «Tuttavia - riferì il pentito - quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti rischiano tutti di morire di cancro entro 20 anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita». Nel corso della sua audizione, Schiavone cita i nomi dei referenti del clan per gli affari nello smaltimento illegale dei rifiuti. Cita Cipriano Chianese, a capo della Resit, e il suo socio Gaetano Cerci. Ovvero gli stessi imprenditori che continueranno a fare affari con lo Stato negli anni successivi, quando l’emergenza rifiuti diventerà incontrollabile. E che ora sono sotto processo. «Chianese - aggiunse Schiavone - aveva introdotto Cerci in circoli culturali ad Arezzo, a Milano, dove aveva fatto le sue amicizie. Attraverso questi circoli culturali entrò automaticamente in un gruppo di persone che gestiva rifiuti tossici. Lavorava a Milano, Arezzo, Pistoia, Massa Carrara, Santa Croce sull’Arno, La Spezia. Cerci si trovava molto bene con un signore che si chiama Licio Gelli». A proposito dei profitti enormi ottenuti smaltendo i rifiuti tossici, oltre 600 milioni di lire al mese, Schiavone aggiunge particolari sulle coperture ai più alti livelli garantite all’organizzazione criminale: «Il nostro era un clan di Stato... La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato... Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, questo avrebbe forse potuto esistere?». Schiavone ricostruì anche la genesi delle ecomafie casertane: «A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti». Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti: «In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. (...) socialisti, democristiani, ma anche comunisti se serviva». Rifiuti tossici sono stati interrati lungo tutto il litorale Domitio e sversati anche nel lago di Lucrino, specchio d’acqua nell’area flegrea. Schiavone raccontò che erano coinvolte diverse organizzazioni criminali - come mafia, `ndrangheta e Sacra Corona Unita - tanto da fare ipotizzare che in diverse zone di Sicilia, Calabria e Puglia, le cosche abbiano agito come il clan dei Casalesi. Il collaboratore di giustizia si soffermò sulle modalità di smaltimento. «Avevamo creato un sistema di tipo militare, con ragazzi incensurati muniti di regolare porto d’armi che giravano in macchina. Avevamo divise e palette dei carabinieri, della finanza e della polizia. Ognuno aveva un suo reparto prestabilito». Schiavone citò una serie di località nell’hinterland di Napoli: «Pure a Villaricca abbiamo fatto scaricare 520 fusti tossici in una cava che fu scavata nel terreno tramite Mimmuccio Ferrara. Durante lo scarico un autista rimase cieco». Ma anche luoghi molto frequentati, a due passi dai centri abitati: « A Casal di Principe, dietro il campo sportivo e nei pressi della superstrada (recentemente è stato fatto un sopralluogo e non è stato trovato nulla)». I camion delle ecomafie imperversavano poi lungo il litorale domizio: «Nel 1992 c’erano 10mila ettari di terreni che costeggiavano tutta la Domitiana, tutti per l’Eurocav e tutto scavato a 30, 40 e 50 metri. Le draghe estraevano sabbia e le buche venivano sistematicamente riempite. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato in un anno». Sotto terra sono finite anche scorie nucleari: «Sono al corrente che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari che sono stati scaricati nelle discariche. Alcuni dovrebbero trovarsi in un terreno sul quale oggi vi sono i bufali e su cui non cresce più erba». Come avveniva l’interramento? «Di notte i camion scaricavano rifiuti e con le pale meccaniche vi si gettava sopra un po’ di terreno. Tutto questo per una profondità di circa 20-30 metri nella zona di Parete o di Casapesenna, in cui la falda acquifera è più bassa vi sono punti che si trovano a 30 metri».

I verbali del pentito Schiavone. "In Puglia le discariche della camorra". Le rivelazioni dell'uomo dei casalesi all'Antimafia: "Per tutti gli anni Ottanta la camorra ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La camorra per tutti gli anni '80 ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia. Lo ha raccontato nel 1997 il pentito Carmine Schiavone alla commissione parlamentare antimafia in un verbale che soltanto giovedì è stato dissecretato. Ma lo hanno confermato anche le indagini più recenti in tema di mafia e di rifiuti, come ha spiegato in audizione di alcuni mesi fa l'ex procuratore di Bari, Antonio Laudati. "Parlavamo spesso di Puglia - spiega il pentito - c'erano discariche nelle quali si scaricavano sostanze che venivano da fuori, in base ai discorsi che facevamo negli anni fino al 1990-1991". Schiavone parla di "Salento, ma sentivo parlare anche delle province di Bari e Foggia". Pochi i riferimenti precisi anche perché, dice, "il nostro era un discorso "accademico" interno che facevamo, dicendo: mica siamo solo noi, lo fanno tutti quanti". Il traffico riguardava "sostanze tossiche, fanghi industriali, rifiuti di lavorazione, rifiuti radioattivi ". Tutto materiale che veniva nascosto metri e metri sotto terra, dove ancora oggi è probabilmente conservato. È bene ricordare che in alcune zone del Salento si registrano percentuali di malattie oncologiche assai superiori alla media. Quei dati sono stati oggetto nei giorni scorsi di una riunione all'Istituto superiore di Sanità nella quale l'Arpa Puglia e il ministero hanno previsto un percorso comune: l'anomalia nei numeri c'è, ed è importante. Bisogna trovare ora le cause. I rifiuti interrati potrebbero essere uno dei problemi. Tornando alle dichiarazioni di Schiavone, il pentito ha parlato anche del "supporto" logistico dei clan locali: "In effetti - ha messo a verbale . in Puglia, la Sacra corona unita non è mai stata nessuno. Era sorta inizialmente insieme al gruppo della Nuova camorra organizzata di Cutolo, e poi fu staccata. C'erano gruppi che operavano con noi e con i siciliani. Nel Brindisino operava un certo Bicicletta, un certo D'Onofrio che stava con Pietro Vernengo, il suo capozona. Con me operavano un certo Tonino 'o Zingaro e Lucio Di Donna, che era di Lecce". Le parole di Sandokan sono però state integrare e in parte superate dal quadro tracciato nei mesi scorsi dal procuratore Laudati sempre in commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. È stato il magistrato a parlare del legame tra i casalesi e il foggiano. "Se io devo smaltire un frigorifero e lo butto a Savignano Irpino  -  ha detto - rischio l'arresto nella flagranza, se mi sposto di un chilometro e mezzo, se mi va male prendo una contravvenzione. Dove butta il frigorifero la criminalità organizzata? ". Le indagini stanno verificando anche in questo caso "sinergie" criminalità locale e Casalesi. Ma c'è altro. Alcune aziende, "anche a partecipazione pubblica - ha detto Laudati - hanno avuto forme di condizionamento dalla criminalità organizzata sul modello di quello che è successo in Campania".

«Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro». E di quel filone d’inchiesta «non ho memoria che uscisse qualcosa riferibile alla Puglia». Il prefetto Nicola Cavaliere, uomo di Stato d’altissimo lignaggio, con una pluridecennale carriera che l’ha portato in posizioni apicali in Polizia e nel servizio segreto per la sicurezza interna (Aisi), nonché cittadino onorario di Mesagne, nel Brindisino, dove ha vissuto molto a lungo, puntualizza a Marisa Ingrosso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” alcune dichiarazioni di Carmine Schiavone che lo chiamano in causa e che riguardano la Puglia, come territorio in cui sarebbero stati sepolti rifiuti illecitamente. L’ex camorrista e collaboratore di giustizia, infatti, fu ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Era il 7 ottobre del 1997 e soltanto ora quei verbali sono stati desecretati e pubblicati sul web. In essi Schiavone spiega che esisteva una «cupola» che si occupava di smaltire illecitamente nel Sud Italia i rifiuti speciali e tossici provenienti soprattutto delle grandi aziende del Nord ed europee, Germania in testa. Della «cupola» dei veleni facevano parte insospettabili, i «colletti bianchi». Gente che aveva agganci con alcuni «circoli culturali» e - secondo il pentito - con esponenti della Massoneria dell’epoca, come lo stesso «venerabile », Licio Gelli. Secondo quanto dice Schiavone, per alcuni anni la criminalità organizzata era stata tagliata fuori dal business. Ma poi la «cupola» decise di coinvolgere anche i clan, ottenendone aiuto logistico e coperture, in cambio di alcuni miliardi di lire. Schiavone dice d’essere entrato nell’affaire alla fine degli anni Ottanta: «La vicenda è iniziata nel 1988; all’epoca mi trovavo ad Otranto», afferma in audizione al presidente della Commissione Massimo Scalia. Secondo l’ex boss, «fusti e casse » sono stati tombati in «scavi abusivi». Afferma: «Ricordo di aver accompagnato i rappresentanti della Criminalpol, dello Sco (con Nicola Cavaliere) nei luoghi di quelle che non erano cave ma scavi che poi sono stati chiusi». Scavi profondi «circa 20-24 metri» che arrivavano alla falda sotterranea dell’acqua «sui quali - dice Schiavone - esiste un’ampia documentazione che credo sia in possesso dello Sco, della Criminalpol (all’epoca c’era Cavaliere)». Epperò, sentito in proposito dalla «Gazzetta», il prefetto chiarisce molto bene questi passaggi. «Schiavone - dice Nicola Cavaliere - non l’ho mai conosciuto, né mai mi sono interessato direttamente dell’inchiesta». «Si tenga conto che - asserisce il superpoliziotto - nel periodo 1990-1994 ero a capo della Mobile Roma (lì contribuì allo smantellamento della Banda della Magliana) e che nel periodo 1994-1997 ero alla Criminalpol di Roma». «Quindi, io non mi sono mai interessato. Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro».....

C’E’ MAFIOSO E MAFIOSO. LA LETTERA DI ANNA STRANIERI PER IL PADRE VINCENZO.

"La figlia del boss scrive alla ministra Cancellieri". Sulla “LA VOCE di Manduria” giornale online è stata pubblicata la lettera che di seguito riportiamo. La lettera è stata spedita al Ministero della Giustizia. E' di Anna Stranieri che si rivolge al Ministro Cancellieri chiedendo pari opportunità per suo padre, detenuto da 30 anni, più dei due terzi, 22 anni, in regime di 41 bis. In parole semplici: in segregazione. Il caso è stato ampiamente trattato quando nel seguito si parla della provincia di Taranto e delle sue problematiche taciute. "Pregiatissima ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Mi chiamo Anna Stranieri e sono la figlia di Vincenzo Stranieri, detenuto ininterrottamente da 30 anni, 22 dei quali in regime di carcere duro del 41 bis. Lei ha detto al Pese che il Suo intervento per scarcerare la signora Giulia Ligresti l’avrebbe fatto per chiunque anche per i delinquenti e i mafiosi. Ebbene, mio padre è stato condannato perché ritenuto un mafioso ma non ha mai ucciso nessuno. Io sono cresciuta senza averlo mai potuto toccare e accarezzare e ho potuto vederlo solo una volta al mese, quando mi è stato possibile farlo, avendolo inseguito in tutte le carceri d’Italia dove è stato. Ora è gravemente malato, è stato tre volte rinchiuso in manicomio, soffre di manie di persecuzione, è delirante e a volte non riconosce nemmeno noi parenti. Non le chiedo di fare per lui ciò che ha fatto per la signora Ligresti, ma almeno le faccia togliere il 41 bis per dare la possibilità a noi familiari di visitarlo quando ci pare e di curarlo come merita ogni ammalato. Mantenga fede a quello che ha detto a noi italiani per giustificare il suo interessamento per la signora Ligresti, sua amica. Mi faccia dimenticare con un suo interessamento per mio padre che è stata lei a mettere la firma sugli ultimi due decreti di conferma del 41 bis per mio padre malato che ha dimenticato cosa sia la libertà."

Anna Stranieri, Manduria.

Giunta Tommasino, si cambia, scrive martedì 15 marzo 2011 "La Voce di Manduria". Salvo sorprese, oggi il sindaco Paolo Tommasino dovrebbe ridisegnare l’assetto della propria giunta. Come anticipato dal nostro giornale una decina di giorni fa, a conquistare la nomina di nuovo assessore saranno Antonio Curri per la La Lista Girardi, Franca Becci per la Lista Pionati Alleanza di Centro e Gianleo Greco per il gruppo degli ex indipendenti del Gai, Giorgio Duggento, Leonardo Moccia e Nicola Muscogiuri (quest’ultimo ha aderito al Fli di Fini).I licenziati saranno Piero Dabramo che dovrà lasciare il posto all’amico di partito, Curri e Francesco Ferretti De Virgilis in favore della sorella del coordinatore della lista, Franca Becci. Come la prenderanno costoro non è dato sapere. Delle voci insistenti circolate sin dai primi giorni dell’annunciato rimpasto, li davano come dimissionari volontari. Un «invito» a cui i due licenziati avrebbero risposto con un garbato rifiuto: «Se vuole cacciarci deve assumersi lui le responsabilità», fa sapere uno di loro. Intanto i problemi per il sindaco non finiscono qui perché oltre alle deleghe assessorili deve anche designare quella di vicesindaco. Secondo gli accordi, la carica appartenuta a Gregorio Capogrosso (di cui più nessuno parla) dovrebbe andare a Franca Becci. Ma l’ex sindaco e assessore, Curri, pare abbia già espresso desiderio di tenere a quel posto.

Fiducia ed imparzialità. Già, non ci sono prove, eppure si considera Sabrina e Cosima colpevoli del delitto di Sarah Scazzi. Invece per definire il comune di Manduria come mafioso ci sarebbero le prove, ma non per il Ministro Cancellieri, per la quale il Comune di Manduria (paese limitrofo ad Avetrana) non sarà sciolto per infiltrazioni mafiose così come si temeva e come avevano chiesto sia i tre commissari ministeriali che per sei mesi hanno tenuto sotto accertamento la macchina amministrativa, sia il prefetto di Taranto, Claudio Sammartino. Lo ha definitivamente stabilito il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, nel decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. «Dalla documentazione esaminata – si legge nel provvedimento del ministro – non emerge la concomitanza di elementi concreti, univoci e rilevanti tali da pregiudicare il funzionamento dei servizi ed i legittimi interessi della collettività, amministrata da un commissario straordinario sin dal 19 aprile 2012». L’atto ministeriale ripercorre l’iter dell’accertamento antimafia innescato dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce e dal decreto del prefetto di Taranto con il quale, il 29 marzo del 2011 istituiva la commissione d’indagine composta da due prefetti e dal maggiore della Guardia di Finanza, Giuseppe Dell’Anna. I tre commissari finirono il loro lavoro, durato sei mesi, proponendo lo scioglimento del Consiglio che, di fatto, si era autosciolto per il venir meno della maggioranza di centrodestra. Sulla scorta di quest’analisi, Il 4 novembre 2012, anche il prefetto di Taranto inviava al ministro una sua relazione nella quale, scrive la Cancellieri, «venivano valutati gli elementi di cui all’articolo 134, comma 1 del decreto legislativo 18 agosto 2000, numero 267». Considerato tutto questo, il ministro ha comunque deciso che «non sussistono i presupposti per lo scioglimento o l’adozione di altri provvedimenti», stabilendo così la conclusione del procedimento.

E su come si combatte la mafia da queste parti ne dà notizia Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. L’udienza preliminare a carico dei 31 indagati dell’operazione Giano da parte dell’antimafia di Lecce che ha dato origine al sospetto di infiltrazione mafiosa nel comune di Manduria, si è chiusa con un colpo di scena. Il gup Carlo Cazzella ha stralciato la posizione dell’ingegnere comunale Antonio Pescatore dichiarandosi incompetente sul caso specifico e rinviando tutto alla Procura di Taranto. Secondo il giudice salentino, il reato contestato al dirigente comunale (avrebbe favorito una società controllata da elementi della sacra corona unita nella gestione dei parcheggi a pagamento) non è di competenza della direzione distrettuale antimafia ma della procura ordinaria. Resta a Lecce invece il giudizio a carico di tutti gli altri indagati tra cui imprenditori, esponenti della malavita locale e l’ex boss della Scu, Vincenzo Stranieri che ha partecipato all’udienza grazie ad un collegamento in videoconferenza da un carcere del centro Italia dove è recluso in regime di isolamento del 41 bis. La decisione del gup Cazzella di derubricare il reato di mafia all’ingegnere Pescatore (che a questo punto risponderebbe al massimo del solo abuso d’ufficio), pone buone speranze per il futuro amministrativo del comune finito sotto i riflettori del ministero i quali, come si sa, hanno proposto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Pescatore, infatti, è l’unico indagato che avrebbe potuto tessere il filo rosso capace di collegare la criminalità organizzata con le attività politica e amministrativa dell’ente. A meno che le indagini dei magistrati antimafia non abbiano nel frattempo individuato responsabilità dirette dei politici che al momento non risulterebbero indagati. Durante l’inchiesta ci sono stati momenti di tensione tra il giudice e Vincenzo Stranieri che si è lamentato per le parole pronunciate sul suo conto quando il magistrato pensava di non essere ancora collegato con il sistema. Le piaccia o no, lei mi deve ascoltare perché è un mio diritto, ha detto più o meno Stranieri che è apparso molto provato e abbattuto dal punto di vista fisico. L’operazione Giano ha portato il blitz scattato il 14 febbraio del 2011 che portò in carcere 16 persone e 2 agli arresti domiciliari, per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, concernenti armi ed esplosivi, attentati dinamitardi, tentato omicidio, rapina, estorsioni, traffico di sostanze stupefacenti e spari in luogo pubblico. Tredici invece gli indagati a piede libero tra cui l’ingegnere Pescatore difeso dall’avvocato Raffaele Fistetti. Ma anche Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno” spiega bene l’ambiente. Niente revisione del processo. Francesco Cavallari è l’unico colpevole. La Corte d’Appello di Lecce ha rigettato l’istanza di revisione della sentenza con la quale il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato nel 1995 il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi con l’accusa di associazione mafiosa nei confronti dell’ex «re» della sanità privata pugliese imputato nell’ambito dell’operazione «Speranza». Tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui l’istanza di revisione del processo sulla base di quello che ai suoi difensori appare un paradosso: non può esistere un sodalizio mafioso con se stesso. Di diverso avviso il sostituto procuratore generale Antonio Maruccia che, al termine di una discussione durata due ore, ha chiesto fosse dichiarata l’inammissibilità dell’istanza. Ci sono volute altre cinque ore di camera di consiglio perché i giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Giacomo Conte, relatore Nicola Lariccia) entrati nel merito, rigettassero l’istanza. «Tra quindici giorni leggeremo le motivazioni - dice l’avvocato Mario Malcangi che non si dà per vinto - ma certamente faremo ricorso per Cassazione. Sedici giudici (Tribunale di Bari, Corte d’Appello di Bari, Corte di Cassazione sia nel merito, sia sotto il profilo cautelare) hanno in un certo senso “perso” contro un solo giudice, quello che ha ratificato il patteggiamento». Se l’istanza fosse stata accolta, la condanna sarebbe stata immediatamente revocata, con tutte le conseguenze non solo sul piano penale, ma anche su quello civile. A partire dalla restituzione dei beni che furono confiscati a Cavallari.

 “Dentro una vita” è il racconto di 18 anni “carcere duro”. Privazioni, violenze, abusi, torture psicologiche e fisiche inflitte in base alle regole del «41 bis» (la legge che regolamenta il regime carcerario riservato a chi è accusato di reati di criminalità organizzata), raccontate dal “numero due” della Sacra corona unita pugliese, Vincenzo Stranieri. La storia di un bullo di paese che diviene un boss: furti, rapine, sequestri di persona, attentati, rituali di affiliazione. Poi, nel 1984, l’arresto. Vincenzo Stranieri, detto «Stellina», non sta scontando ergastoli né condanne per omicidio. Nonostante tutto nessuno è in grado di dire quando tornerà libero. Dopo 25 anni di prigionia l’ex boss, quarantanovenne, è stanco. Non è un pentito, ma è certamente un uomo che sa di aver sbagliato: «Se mi si vuole dare una possibilità d’inserimento, dimostrerò che sono cambiato». Ma in Italia le cose vanno diversamente. “Al di là della costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciassette anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affetti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di Diritto” (dalla prefazione al volume di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino). L’autore è Nazareno Dinoi, Giornalista, scrive di cronaca giudiziaria e nera per il ‘Corriere del Mezzogiorno’ della Puglia. Ha scoperto, portandola alla ribalta nazionale, un’oscura storia di violenze e abusi sui giovani detenuti del carcere minorile di Lecce da parte delle guardie carcerarie. Per quei fatti il Tribunale di Lecce non è riuscito a raggiungere una sentenza prosciogliendo tutti per prescrizione dei reati. Vive a Manduria (Taranto) e collabora con diverse testate, anche nazionali. Ha scritto ‘Anime senza nome’ (1999) e ‘Kompagno di sogni’ (2003). LE PRIME PAGINE DEL LIBRO….

Prologo

Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Vincenzo Stranieri non aveva ancora quindici anni. Un’impressionante sequenza di arresti e di scarcerazioni ha poi segnato la sua vita da uomo libero sino all’età di ventiquattro anni quando, il 7 giugno del 1984, le sicure si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Oggi Vincenzo Stranieri di anni ne ha 49 e il suo conto con la giustizia è ancora aperto. Il boss manduriano che per la magistratura e i collaboratori di giustizia è stato il numero due della Sacra corona unita di Pino Rogoli, l’ex piastrellista di Mesagne divenuto capo della potente «quarta mafia» italiana, è ancora considerato uno dei 430 criminali più pericolosi e irriducibili d’Italia.

Per questo è sottoposto al regime di carcere duro conosciuto come 41 bis. I reati per i quali è stato giudicato colpevole sono sequestro di persona, traffico di droga, detenzione di armi, estorsioni e associazione mafiosa. Minacce, danneggiamenti e violenza, invece, sono tutti reati che ha maturato durante la sua lunga vita di recluso indocile. Per ben sei volte ha distrutto la cella dove si trovava rinchiuso. Non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, ma nonostante tutto nessuno è ancora in grado di dire quando tornerà libero.

Il principio

A quindici anni Stranieri viveva già con una donna più grande di lui di cinque anni che mise incinta prestissimo. A diciotto anni aveva moglie, due figli (avuti quando era ancora minorenne) e un’attività criminale che rendeva abbastanza da permettergli un’esistenza più che agiata. Quanto gli costerà tutto quel successo, quel lusso, però, lo capirà in seguito ma senza pentimenti. Il super detenuto, infatti, pur dissociandosi, in seguito, dal crimine, si è quasi sempre dichiarato innocente. A sedici anni il primo figlio, Antonio, a diciassette un’altra bambina, Anna. A quell’epoca aveva messo da parte quattro condanne per un totale di sedici mesi da scontare, mentre un decimo della sua vita lo aveva passato in galera per furti e violenza aggravata. E dire che quando aveva ventidue anni, tra sconti di pena, detenzione già fatta, condoni e amnistie, il suo debito con la giustizia era sceso ad appena venticinque giorni di cella. Poco più di tre settimane dietro le sbarre e sarebbe stato un uomo libero. Ma quella vita portata all’eccesso non ammetteva soste. Così, una sera d’estate del 1984, fu arrestato per il rapimento della manduriana Anna Maria Fusco, figlia dell’imprenditore del vino, Antonio Fusco (protagonista, quest’ultimo, due anni dopo, dello scandalo del Primitivo avvelenato al metanolo).

Dentro una vita

Sulla soglia del mezzo secolo di vita, tre quarti dei quali passati in gabbia, spinto dal desiderio della figlia Anna che vuole raccontare al mondo la storia di un padre che non l’ha vista crescere, sposarsi, diventare mamma, il detenuto speciale ha deciso di raccontarsi. E lo fa nell’unica maniera possibile per uno nelle sue condizioni: impugnando la penna (fosse un uomo libero avrebbe acceso il computer) e tracciando linee d’inchiostro sulle pagine ingiallite di una grossa computisteria che conservava da tempo.

Racconto – I

Oggi, 28 aprile 2008, è lunedì e mi trovo rinchiuso nel carcere di Opera a Milano. Tante volte mi sono chiesto a cosa potesse servirmi questo quadernone che porto in giro da otto anni. Ora, improvvisamente, mi è chiaro: ne farò un libro, con l’aiuto del Buon Dio e della sua Gloria. Lo leggerà qualcuno? A volte i buoni consigli vengono ascoltati, altre volte no. Io dico che chi mi ascolterà diventerà bravo e andrà in Paradiso. Lo spunto per questo libro nasce dalla proposta di un mio nuovo amico, un giornalista del mio paese che personalmente non conosco. L’idea, però, è partita da una persona a me molto cara, mia figlia Anna, a cui voglio un bene dell’anima come ne voglio a mio figlio Antonio, a mia moglie Paola, ai miei nipoti, a mia nuora e mio genero. Anche per loro ho accettato di offrire questo contributo, spero utile. Nel raccontare la mia vita ometterò alcuni particolari, a volte anche i nomi. Cercherò di descrivere ciò che ho vissuto in questi quasi cinquant’anni di “non vita” in cui è accaduto di tutto. Cose belle poche. E tante cose brutte.

Quando, agli inizi del 2008, si fa convincere dalla figlia Anna a raccontare quella che lui stesso definisce la sua «non vita», Stranieri si trova rinchiuso nella sezione di massima sicurezza del carcere Opera di Milano. In quella città c’era stato più volte, da uomo libero e poi da latitante. Ed è da lì che inizia la sua memoria.

Racconto – II

Porcaccia miseria, sono passati 24 anni dall’ultimo arresto. Ad Opera a Milano, dove mi trovo adesso, c’ero già stato esattamente 24 anni fa e qualche mese. Sarà un caso? Proprio 24 anni fa mi trovavo in questa città, da latitante, ma libero. Mi cercavano per alcune rapine commesse nei comuni della provincia di Taranto. Mi presero qui a Milano e dopo pochi giorni mi trasferirono a Taranto per affrontare il processo che finì con il confronto con le mie stesse vittime che mi scagionarono. Fui rimesso in libertà a maggio del 1984 e il 7 giugno di quello stesso anno mi riarrestarono per il sequestro Fusco. Da allora non ho più lasciato questi luoghi infami. Le carceri le puoi dipingere come vuoi, puoi anche ricoprirle d’oro, ma restano pur sempre luoghi di sofferenza. Chi dice o crede il contrario si sbaglia enormemente, parola mia. Forse qualcuno mi dirà che il carcere deve per forza essere un luogo di sofferenza. Ha ragione, ma solo perché non è lui che soffre, ma soffrono altri. Vale bene la parola di Gesù che dice: «Ipocrita chi carica il peso sugli altri quando su di lui non sposterà nemmeno una piuma».

Conosciuto dagli inquirenti come «Stellina», per via della sagoma a cinque punte tatuata sulla fronte, Stranieri è stato ospite di tutte le principali carceri italiane dove ancora si trova sottoposto al regime riservato ai mafiosi più pericolosi e ai terroristi. Più della metà della sua vita l’ha trascorsa ininterrottamente rinchiuso. Non una detenzione semplice: da diciassette anni vive separato dal mondo da un vetro che gli impedisce qualsiasi contatto con l’esterno, anche di accarezzare i suoi parenti che lo vanno a trovare non più di una volta al mese. Durante i colloqui la sua voce è filtrata da un interfono per cui nessuno dei familiari, oggi, sarebbe in grado di riconoscerla dal vivo. I suoi figli, nel frattempo, sono diventati adulti e genitori. Il 23 maggio del 1992, diciassette anni dopo quel primo arresto nel minorile di Lecce, la sua permanenza carceraria fu irrimediabilmente e drammaticamente influenzata dall’attentato di Capaci, a Palermo, in cui il sicario di Totò Riina, Giovanni Brusca, azionò il telecomando che fece esplodere cinque quintali di tritolo uccidendo il capo della Superprocura nazionale antimafia, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. La risposta dello Stato a quel terribile crimine, fu l’istituzione della «carcerazione di sicurezza» che prevedeva la cancellazione dei diritti per tutti i detenuti con condanne per reati di natura mafiosa. Stranieri, nel frattempo in carcere per il sequestro Fusco, era stato coinvolto nel primo maxi processo contro la Nuova camorra pugliese di Raffaele Cutolo e poi in quello sulla Sacra corona unita di Rogoli. In questi processi, istruiti prima dalla Procura di Bari e poi da quelle di Lecce e Brindisi, fu ritenuto colpevole di aver fatto parte di un’associazione organizzata e pertanto soggetto all’isolamento. Così, nell’estate del 1993, dopo nove anni di detenzione normale, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, firmò personalmente la lista dei primi 236 dannati da internare. In quell’elenco, oltre al manduriano Stranieri, c’erano Bernardo Brusca, Vito Buscemi, Salvatore Buccarella, Giuseppe Calò, Raffaele Cutolo, Nicola Di Salvo, Giacomo Gambino, Michele Greco, tutta la famiglia dei Madonia, Sebastiano Mesina, Franco Parisi, Antonio Perrone, Giuseppe Piromalli, Giuseppe Rogoli, Biagio Sciuto e tanti altri. I padrini, i capi bastoni e i gregari della mafiosità italiana, insomma, furono isolati in celle singole nel carcere dell’Asinara e sottoposti a regole rigidissime contenute nel nuovo ordinamento carcerario del 41 bis.

Racconto – III

Sono passati 24 anni e la mia vita è piena di ricordi. La memoria è l’unica macchina del tempo che viaggia alla velocità del pensiero. Con la mente puoi andare velocissimo, in un secondo puoi tornare a quando eri bambino, travalicare le frontiere dello spazio e del tempo. Grande cosa è la mente umana. Purché la si sappia controllare. Se la lasci troppo libera, quella, è come un leone che ti sbrana. A volte è meglio non pensare troppo. Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza ma ci ha dotati di un valore che è il libero arbitrio.

È un valore troppo grande che deve essere usato a piccole dosi sennò sono dolori e sofferenze, come quelle che ho passato e sto passando io e tutte le persone che mi amano. Certo, ognuno può fare della sua vita quello che vuole. Da ragazzi si è onnipotenti. Uno crede di essere furbo, più furbo dei suoi genitori, dei nonni, di tutti quelli che lo hanno cresciuto. Loro ti dicono di stare attento, di non commettere errori e tu, a quell’età, sei infastidito di tante raccomandazioni.

Inizia proprio lì la storia di tutto: in questo negare i consigli è racchiuso l’inizio della perdizione. Non ascolta oggi, non ascolta domani e sei fritto, per sempre. C’è poi chi nasce con una stella storta, come quella che mi son fatto tatuare sulla fronte. Succede così che quella stella te la porti per tutta la vita e sta a te decidere se deve continuare in quel modo o se è meglio mettere un freno a quella vita troppo di fretta. La mia è andata avanti così, per niente bene. Proprio per niente. Giorni fa ero sdraiato sul letto, guardavo di fronte il cancello chiuso, le sbarre alla finestra, cemento tutto intorno. Per quanto? Per 20 ore al giorno e per tanti anni. Bello, vero? Bello un cavolo! Non c’è niente di bello in un carcere, lo ripeto, tutto è sofferenza e non credete alle scemenze che vi raccontano sulla vita carceraria perché qui tutto è dolore. L’unico vantaggio di questa sofferenza è che ti fa crescere e puoi incontrare Dio. A me è successo. È nel dolore che ritrovi il Signore e ti avvicini a lui che è stato processato e condannato ingiustamente, portato a morire da innocente sulla croce dal potere di allora.

Venti ore al giorno a guardare il soffitto

Il detenuto in 41 bis non ha diritti. Può avere un solo colloquio al mese, con familiari o conviventi di grado diretto, della durata non superiore ad un’ora. In alternativa all’incontro visivo può avere una telefonata ogni trenta giorni. In questo caso, però, il parente deve recarsi nella sede dove è detenuto il congiunto e da lì telefonargli attraverso la rete interna. Ogni colloquio deve essere ascoltato e registrato. L’internato può godere di due ore d’aria al giorno più altre due di socialità (mensa, chiesa, palestra, biblioteca, cinema-tv). Per le restanti venti ore rimane da solo chiuso in cella. Nel 2009 un ulteriore inasprimento delle misure detentive speciali ha ridotto a due ore il tempo da trascorrere fuori dalla cella. Altre restrizioni nell’ora di aria che in gergo viene definita “passeggio”, vietano raggruppamenti superiori a quattro detenuti per volta. Essi non devono avere la stessa provenienza geografica. Il Ddl 733 convertito in legge il 22 luglio del 2009 (Pacchetto sulla sicurezza), ha inasprito ulteriormente le norme del 41 bis prevedendo l’internamento di tutti i detenuti con tale regime in un unico penitenziario situato su un’isola. La famiglia può inviargli due pacchi al mese, del peso non superiore ai dieci chili, più altre due spedizioni straordinarie all’anno (Natale, Pasqua), contenenti abiti, biancheria, indumenti intimi, calzature e cibo. Sono vietate persino le bevande gassate come l’aranciata. Tutto viene controllato dall’addetto alla censura: indumento per indumento, pezzo per pezzo, pagina per pagina. Anche i libri devono essere attentamente visionati e superare il controllo. Il colloquio si svolge attraverso un vetro e, di solito, con l’ausilio di un citofono. Tutta la corrispondenza in arrivo e in partenza è sottoposta a visione. Il fornellino scaldavivande è consentito solo durante il giorno. Il detenuto può ricevere somme limitate di denaro (attualmente sino a 500 euro mensili); è vietata l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive; è impossibile la nomina e la partecipazione a rappresentanze dei detenuti come anche lo svolgimento di attività artigianali per proprio conto o per conto terzi. Gli ospiti delle sezioni del 41 bis non possono frequentare corsi scolastici, possono studiare solo per conto proprio e l’unico intermediario con i professori è un educatore. A queste limitazioni del decreto ministeriale, vanno aggiunte quelle imposte a discrezione del singolo direttore del carcere. Per i figli minori di 12 anni, inoltre, è consentito un solo colloquio visivo al mese senza vetro divisorio e per la durata non superiore ai 10 minuti. In Italia sono diffusi i casi di figli di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psichiatrici. Quando fu istituito l’isolamento carcerario per i mafiosi, i due figli di Vincenzo Stranieri, Antonio e Anna, avevano già superato i dodici anni di età per cui ora non ricordano, se non vagamente, contatti diretti, pelle a pelle, con il padre. Il primogenito, caratterialmente più debole rispetto alla sorella, ha sviluppato e sta pagando questo distacco sino all’estremo limite della follia con continui ricoveri in reparti psichiatrici. Torniamo al 41 bis: naturalmente per chi vi è sottoposto la vita diventa un inferno. I segni di un inevitabile stress emotivo emergono dalle lettere che Vincenzo Stranieri invia costantemente alla famiglia. In una di queste, datata 13 marzo 2008, scrive alla figlia Anna.

“Ciao tesoro di papà, come stai? Spero bene di te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly e tutti di casa. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua del Signore che vi auguro di trascorrere serenamente e felicemente tutti in famiglia con la più viva speranza che la prossima la passiamo insieme, se il Buon Dio vuole. Ne sono passate 24 di Pasque, è forse pure l’ora di tornare a casa. (…) Papà, state appresso agli avvocati. Per i pacchi usate la posta celere. Dice che ci mette un giorno ad arrivare e vediamo… la prima volta mandate roba che non va a male salumi, formaggi, pane, capicollo, lo potete mettere pure sotto vuoto in cellofan o nelle buste tagliato a pezzi come facevate a Spoleto. - Parlando della prossima seduta in Tribunale del riesame che dovrà decidere la proroga del carcere duro, puntualmente riconfermata, scrive: “Speriamo vada bene. Dopo 16 anni forse è pure l’ora che cambi qualcosa in meglio perché di peggio abbiamo già visto di tutto. (…) Vi mando un bacione forte a te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly, Antonio e Giusy e tutti di casa. Vi voglio un mondo di bene. Tuo papà Vincenzo”.

(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza Opera a Milano)

Il bisogno d’interrompere quel tremendo isolamento compare in maniera ancora più evidente in una delle tante corrispondenze con il sottoscritto.

“Caro Nazareno, vedi se c’è qualcuno disposto ad offrirmi un lavoro per corrispondenza, un giornale, magari, o qualcos’altro e se vieni a trovarmi con qualche parlamentare vorrei discutere proprio di questo. Qua stiamo venti ore al giorno in cella a poltrire. Moltiplicato per 25 anni sono un’enormità, diciassette di 41 bis, per cosa poi? A loro dire per recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere pure la ragione: venti ore a guardare il soffitto, a cosa e a chi servono?”. (Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza dell’Aquila, 16 marzo 2009)

Fin qui il racconto che parla di chi, dai benpensanti è indicato come un mafioso, detestabile e detestato. E la gente cosiddetta “perbene” cosa fa?

Il prezzo per la propria libertà è alto. Le ritorsioni non finiscono qui. Sono stato prontamente imputato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) ho riportato le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti: Magistratura che, in conflitto d’interessi, non si astiene dall’accusare e dal giudicare in processi, in cui si palesa la loro responsabilità inerente ad errori giudiziari; Forze dell’ordine che denunciano i reati e solo il 10% di questi si converte in procedimento penale.

Potenza ha reiteratamente archiviato ogni denuncia presentata contro gli abusi e le omissioni della Procura di Taranto, compresa quella inerente una richiesta di archiviazione in cui essa stessa era denunciata e nonostante le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito e nonostante gli articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia a Potenza è stata presentata da un Pubblico Ministero di Taranto, che ha chiesto l’archiviazione per un procedimento, in cui si era denunciato il fatto che presso il comune di Manduria non si rilasciavano legittime ricevute all’ufficio protocollo e che il comandante dei vigili urbani era vincitore del concorso da lui indetto, regolato e con funzioni di comandante pro tempore e di dirigente dell’ufficio del personale.

Stranieri libero dopo 37 anni di carcere: era il numero 2 della Sacra Corona Unita. Nazareno DINOI su Il Quotidiano di Puglia e la Voce di Manduria Venerdì 7 Gennaio 2022.  

Dopo 37 anni e mezzo di carcere, tutti trascorsi con il regime di isolamento del 41 bis, il manduriano Vincenzo Stranieri, ex numero due della Sacra corona unita, ha fatto ritorno nella sua Manduria da uomo libero con il solo obbligo di firma.

Ha trascorso le festività nella sua casa paterna dove vive la figlia Anna che quando suo padre fu arrestato l'ultima volta aveva appena cinque anni e da allora non ha mai smesso di aspettarlo. Ora è lei che lo assiste e lo cura dalle ferite interiori e fisiche (è stato operato di tumore alla gola), prodotte da quasi 38 anni di restrizione ininterrotta ed altri sei precedenti iniziati quando era ancora minorenne.

Da boss a nonno di quattro nipotini 

Entrato l'ultima volta in carcere quando aveva 24 anni, il temutissimo boss della malavita tarantina ha ora 61 anni e fa il nonno di quattro nipoti in una Manduria che non riconosce più.

«C'è molta confusione, troppe macchine, tante cose che non conosco», confida lui indicando il televisore a schermo piatto e lo smartphone sul tavolo della figlia. «Quello proprio non riesco ad usarlo», ammette l'ex boss. Una vera diavoleria per lui che quando ha perso la libertà i pochi telefoni nelle case erano con la numerazione a ruota e i bar che offrivano il servizio avevano l'apparecchio a gettoni e le funzioni a distanza con wifi o bluetooth erano trucchi da fantascienza. 

La stella tatuata sulla fronte e quel soprannome che lo segnò 

Arrestato per la prima volta l'11 febbraio del 1975, Stranieri, alias «stellina» per la stella a cinque punte tatuata sulla fronte, non aveva ancora quindici anni. In tanti anni di isolamento, il boss di Manduria che è stato il numero due della Sacra corona unita fondata quando era in carcere insieme al mesagnese Pino Rogoli, non è stato mai un ergastolano, non ha avuto condanne per omicidi neanche come mandante. Si è macchiato di numerosissimi reati contro il patrimonio, traffico di sigarette, armi e droga.

Il reato più pesante per il quale è stato condannato definitivamente, costatogli l'isolamento per 37 anni, è stato quello del sequestro della manduriana Annamaria Fusco, figlia dell'imprenditore del vino, Antonio Fusco, rimasta per sei mesi nelle mani di una banda di sequestratori del Gargano prima di essere rilasciata dopo inenarrabili sofferenze e il pagamento di un ricco riscatto.

Il carcere duro applicato ai detenuti più pericolosi 

Per le sentenze, Stellina fu il basista e organizzatore di quel rapimento compiuto con l'aiuto di altri malavitosi del posto che hanno pagato pene inferiori ed altri rimasti sconosciuti sui quali il boss non ha mai ammesso l'esistenza negando a sua volta e sino alla sentenza definitiva ogni suo coinvolgimento.

Detenuto per quella condanna, dopo la strage di mafia di Capaci del 1992 in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, lo Stato reagì istituendo il regime di carcere duro (41 bis). Il nome di Vincenzo Stranieri fu inserito nell'elenco dei primi 236 detenuti più pericolosi d'Italia a cui fu applicato quel regime di massimo isolamento dal quale il manduriano si è liberato qualche settimana fa. Oggi, assistito dalla figlia e coccolato dai nipoti, Stellina non ama parlare del suo passato.

Vincenzo Stranieri, una vita al 41 bis. L'ex boss della Sacra Corona Unita, molto malato, è il detenuto da più tempo nel carcere duro.  Gaetano De Monte l'11 Aprile 2017 su osservatoriodiritti.it.  

Vincenzo Stranieri, l’ex boss della Sacra Corona Unita, è il detenuto italiano che ha passato più tempo al 41 bis, il regime di carcere duro inizialmente previsto solo per i mafiosi. Ora l’uomo è gravemente ammalato e la figlia Anna chiede che sia curato.

Stranieri oggi ha 56 anni e si trova in cella, senza interruzioni, dal 1984. E da 25 anni è detenuto in regime di massima sicurezza. È un uomo gravemente ammalato e invalido, raccontano le cartelle cliniche. L’ultima relazione sanitaria di qualche settimana fa lo descrive come «un paziente con una diagnosi infausta a medio termine». Il tribunale di sorveglianza dell’Aquila doveva valutare, lo scorso 4 aprile, se concedere o meno la sospensione della misura di sicurezza detentiva. Ma il giudizio è slittato, come spiega uno dei legali dell’uomo, l’avvocato Fabiana Cubitoso: «Ho ricevuto una richiesta di aiuto da Stranieri nel luglio scorso e mi sono subito mobilitata per lui. Il suo stato di salute è molto grave, come riconosciuto dallo stesso procuratore capo, che aveva espresso per due volte parere favorevole alla sospensione della misura detentiva».

Il tribunale di sorveglianza, a cui spetta l’ultima parola, ha sospeso il giudizio «per il conferimento di incarico peritale ad un medico residente nella città aquilana». I magistrati, cioè, dovranno accertare se lo stato di salute di Stranieri – che non ha mai ricevuto condanne per omicidi o altri fatti di sangue, ma è considerato un importante esponente dell’organizzazione mafiosa pugliese – sia compatibile con il regime detentivo del 41 bis. Il responso dei giudici di sorveglianza dovrebbe arrivare non prima di qualche settimana.

UN’ATTESA DI OLTRE 30 ANNI

L’attesa dura da parecchio tempo, come racconta la figlia di Stranieri. «Mio padre ormai è un internato», dice Anna. «Il 13 maggio 2016, dopo 31 anni, aveva terminato di scontare la sua pena, ma invece di farlo uscire dal carcere gli è stata applicata una misura di sicurezza detentiva che lo costringe a stare chiuso altri due anni in una casa agricola». E così nella primavera scorsa l’ex boss era uscito dal carcere di Terni per rientrare in quello dell’Aquila.

La misura personale detentiva di cui parla Anna Stranieri è tra quelle previste dall’articolo 216 del codice penale, «l’esecuzione in colonia agricola o casa di lavoro», e prevede, appunto, il lavoro come strumento di reinserimento sociale del detenuto. In Italia però non ci sono strutture di questo tipo. O meglio, ne esiste soltanto una a Saliceta, in provincia di Modena. Per questo gli internati sottoposti a questa misura ritornano in carceri normali. Ed è questo il caso anche di Vincenzo Stranieri.

La figlia considera l’internamento del padre una ingiusta detenzione. «Come può lavorare una persona che si alimenta soltanto con un sondino gastrico?», si chiede Anna. «È evidente che c’è un accanimento nei suoi confronti. Mio padre è isolato dal mondo da quando aveva 24 anni. Ora ne ha quasi sessanta. Ha subito diversi ricoveri in ospedali psichiatrici e molti trattamenti sanitari obbligatori».

LA MALATTIA

Qualche settimana fa l’uomo è stato ricoverato d’urgenza nella casa di cura sanitaria del carcere di un’altra città, ma sarà comunque il tribunale dell’Aquila a decidere se sospendere la misura di sicurezza detentiva, come chiedono la famiglia e i legami dell’uomo, e a stabilire se potrà essere curato in una struttura sanitaria più adeguata.

«Il calvario di mio padre cominciò sette anni fa nel penitenziario dell’Aquila», ricorda Anna. Era il 17 aprile del 2010. Quel giorno Stranieri fu trasferito dal penitenziario abruzzese all’ospedale giudiziario di Livorno perché era profondamente debilitato e incapace di nutrirsi. «Lo trovai che aveva perso 40 chili e non mi riconobbe nemmeno», dice ancora la donna. «Mi rivolsi ai parlamentari del gruppo radicale che depositarono interrogazioni e denunce, ma tutto rimase lettera morta».

Ciò che la figlia di Vincenzo Stranieri chiede per il padre «non è l’impunità, né la scarcerazione, ma che sia curato». I legali dell’uomo, inoltre, presentarono un esposto anni fa «perché il detenuto vive uno stato di malessere causato da diverse vessazioni, minacce e torture attuate nei suoi confronti dal personale della polizia penitenziaria». Un allarme che la figlia dell’ex boss continua a ripetere ancora oggi: «Mio padre sta morendo al 41 bis sottoposto a tortura».

Parole simili sono state usate di recente anche dal garante nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. Presentando a marzo al Parlamento il lavoro svolto dall’Autorità di Garanzia, infatti, Palma ha detto: «Dobbiamo poter chiamare tortura ciò che ne ha tutte le caratteristiche». Un monito con cui ha indirizzato alle istituzioni diverse raccomandazioni in materia di privazione della libertà, tra le quali la «necessità di abolire le cosiddette aree riservate, ovvero i reparti interni ancora più chiusi rispetto alle sezioni ex 41-bis», così come si legge nella relazione presentata dal garante.

25 ANNI DI EMERGENZA

Il 41 bis era stato introdotto inizialmente come una misura di ordine pubblico emergenziale, approvato nell’estate del 1992 in seguito alla strage di Capaci, in cui morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. «Il sospetto è che con il tempo sia una misura servita, estendendone il suo ambito di applicazione anche ad altri tipi di reati e fattispecie, ad esercitare un’arma di pressione e ricatto verso i detenuti», dice Alessio Scandurra, componente del comitato direttivo nazionale di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. «La nostra posizione sul 41 bis non può che essere fortemente critica, perché sicuramente il quadro normativo del nostro ordinamento penitenziario è in larga parte condivisibile in via teorica, ma non se  possono condividere le linee applicative».

Secondo Scandurra, «i caratteri della sospensione dei diritti, dell’emergenza della pena e della straordinarietà dell’intervento, tutte prerogative del 41 bis, si trovano in palese contraddizione con lo spirito del nostro ordinamento». Tanto che «è stato largamente provato che i detenuti che per lunghi anni vivono in certe condizioni presentino poi gravissimi problemi sanitari e relazionali».

Proprio in questo senso, dunque, il caso di Vincenzo Stranieri sta facendo scuola. Se ne parla anche nell’ultimo rapporto sul sistema detentivo speciale redatto dalla commissione parlamentare straordinaria per la Tutela e la promozione dei diritti umani. L’indagine conoscitiva sulle condizioni detentive in Italia contiene alcune raccomandazioni «sulla necessità di facilitare lo svolgimento dei colloqui favorendo le visite senza il vetro divisorio, prevedendo la possibilità di dedicare alle visite con i minori di 12 anni un intervallo di tempo al di fuori dei 60 minuti totali riservati al colloquio con i familiari».

C’è una componente preventiva di intimidazione molto importante che è presente in una misura di questo tipo, sostiene il rappresentante di Antigone, «e sicuramente non può essere tollerata, perché se è vero che i diritti umani sono universali, sono anche diritti di chi ha torto, di chi sta ancora, oppure di chi è stato, dalla parte sbagliata».

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INTERROGAZIONE A RISPOSTA ORALE 3/00826 presentata da ZAMPARUTTI ELISABETTA (PARTITO DEMOCRATICO) in data 04/01/2010.

Atto Camera Interrogazione a risposta orale 3-00826 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI lunedì 4 gennaio 2010, seduta n.262 ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO.

- Al Ministro della giustizia.

- Per sapere - premesso che: l'ex boss della Sacra Corona Unita Vincenzo Stranieri, oggi 49enne, aveva 24 anni quando fu arrestato nel 1984 e, da allora, non è più uscito dal carcere dove sta espiando - secondo il provvedimento di cumulo pene emesso l'11 aprile del 2007 dalla procura generale della Repubblica di Taranto - la pena complessiva di anni 29, mesi 4 e giorni 3 di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione ed altro (non sta scontando ergastoli, quindi, nè ha condanne per omicidio); già affiliato alla camorra di Raffaele Cutolo e passato alla Sacra Corona Unita di Pino Rogoli quando era già in carcere, Stranieri ha ancora un sospeso con la giustizia che riguarda il processo nato dall'inchiesta cosiddetta «Corvo» dove è imputato a piede libero per un contrabbando di tabacchi lavorati esteri (niente a che fare con l'associazione mafiosa), contrabbando al quale secondo l'accusa avrebbe partecipato da dentro il carcere ristretto in regime di 41-bis; Vincenzo Stranieri, attualmente detenuto nel supercarcere di L'Aquila, è sottoposto ai regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario ininterrottamente da 17 anni, cioè dal momento della sua istituzione avvenuta nell'agosto del 1992; il 3 dicembre 2009, con decreto del Ministro della giustizia, a Stranieri è stata notificata l'ennesima proroga del regime di carcere duro, motivata con una formula che negli anni si è ripetuta sempre la stessa: «non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell'organizzazione criminale di appartenenza»; oltre alle note informative e alle segnalazioni degli organi investigativi e giudiziari che di decreto in decreto si ripetono nell'ultimo provvedimento applicativo del 41-bis compare una «novità» segnalata dalla direzione distrettuale antimafia (DDA) di Lecce che secondo il Ministro Guardasigilli sarebbe indicativa tra le altre della capacità di Vincenzo Stranieri di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata; nella suddetta nota, la DDA di Lecce si esprime testualmente come segue: «Da segnalare infine il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatagli a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008 (nonostante l'interessamento di "persone sempre più influenti" che il giornalista avrebbe interessato per incontrare Stranieri, evidentemente con scarso successo!). Secondo tale schema, Stranieri avrebbe dovuto, tra l'altro, indicare "con quale degli imputati dei primi processi a Lecce e Brindisi mantenesse rapporti epistolari", se "avesse letto il libro di Antonio Perrone" (esponente fin dal primo momento della S.C.U. della zona a Nord di Lecce, avente influenza nella città di Trepuzzi, condannato all'ergastolo per omicidio, oltre che per il delitto di cui all'articolo 416-bis c.p., e autore di un libro sulla vita della S.C.U. e sulle modalità della sua partecipazione ad essa), se abbia letto "quello di Salvatore Mantovano" ed il giornalista aggiunge se abbia saputo che l'autore è stato ucciso (ma sbaglia il cognome perchè la persona in questione si chiama Padovano, detto Nino Bomba, esponente "storico" e di primo piano della criminalità mafiosa salentina, affiliato alla Sacra Corona Unita e "responsabile" del territorio di Gallipoli, autore di un libro sulla condizione carceraria, ucciso il 6 settembre 2008 su mandato del fratello Rosario per conflitti all'interno della famiglia "naturale" e di quella "mafiosa" di appartenenza di entrambi). E infine il giornalista chiede a Stranieri "quali personaggi pubblici o politici o cosiddetti vip (ammesso che Manduria ne abbia mai avuti) ricordi dopo tanti anni di assenza da Manduria". Si ritiene, pertanto, che nei confronti Stranieri Vincenzo debba essere mantenuto il regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario di cui all'articolo 41-bis...»; un giornalista in questa vicenda esiste effettivamente e agli interroganti risulta essere Nazareno Dinoi, corrispondente da Lecce e Taranto del Corriere del Mezzogiorno (inserto pugliese del Corriere della Sera) e coautore con Vincenzo Stranieri del libro di prossima pubblicazione «Dentro una vita», con prefazione del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D'Elia, nel quale l'ex boss di Manduria racconta la sua storia da delinquente e, poi, di detenuto da 17 anni al carcere duro; agli interroganti risulta altresì che Nazareno Dinoi, nella primavera del 2008, in previsione della scrittura del libro, avrebbe avanzato al Ministero della giustizia formale richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, ricevutane risposta negativa, avrebbe deciso di procedere per via epistolare, sempre qualificandosi ed esplicitando le finalità del carteggio -: se il giornalista di cui si riferisce nella nota della DDA di Lecce corrisponda al nome di Nazareno Dinoi e se corrisponda al vero che il giornalista abbia avanzato al Ministero della giustizia richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, in seguito, deciso di intrattenere con lui un rapporto epistolare finalizzato alla scrittura di un libro sulla storia dell'ex boss di Manduria; in tal caso, se non intenda accuratamente verificare che i «dati» e i «fatti» indicativi dell'attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata segnalati dalla DDA di Lecce siano tali da giustificare la permanenza ancora, dopo 17 anni, del detenuto in regime di carcere duro. (3-00826)

·        La Mafia Foggiana.

Un nuovo testimone di giustizia inizia a parlare: trema la mafia foggiana. È già sotto protezione e vive con la famiglia in una località protetta. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Settembre 2022

Fermato il 22 luglio scorso con l'accusa di aver contribuito al tentato omicidio di un costruttore di cui era dipendente, il 46enne Domenico Solazzo ha detto di esser stato costretto a farlo e ha riferito particolari su un altro tentato omicidio. Ora, dunque, è diventato un testimone di giustizia e vive con la sua famiglia in una località segreta.

L’uomo era accusato, in concorso con altri sei foggiani, tra cui il boss Emiliano Francavilla, del tentato omicidio aggravato dalla mafiosità dell’imprenditore Antonio Fratianni, agguato sventato dalla squadra mobile la sera del 26 giugno. A lui si contestava di aver piazzato un gps sull'auto del costruttore per tracciarne i movimenti. Subito dopo il fermo riferì agli agenti e al pm della Dda di Bari di essere stato minacciato di morte da Emiliano Francavilla e Michele Ragno (un altro dei fermati) per installare il dispositivo sul veicolo. Aggiunse che Fratianni doveva essere ucciso per non aver restituito al clan Sinesi-Francavilla 600mila euro ricevuti due anni prima per costruire un palazzo in città; e riferì anche che lo stesso Fratianni era l’autore materiale del tentato omicidio di Antonello Francavilla (fratello maggiore di Emiliano e come lui al vertice della batteria mafiosa) e del figlio 15enne, compiuto il 2 marzo scorso a Nettuno in una abitazione dove la vittima era agli arresti domiciliari per estorsione.

Solazzo ha spiegato che Ragno gli confessò particolari in merito al tentato omicidio: «Fratianni - ha detto - andò a casa di Antonello Francavilla a volto scoperto, gli chiese di fargli il caffè e quando quest’ultimo si girò gli sparò». Sulla scorta di quelle rivelazioni, che hanno portato al fermo dello stesso Fratianni il 2 agosto, la Dda dispose l'immediata liberazione di Solazzo che non finì quindi in carcere. Il pm Bruna Manganelli ha poi chiesto le archiviazioni delle accuse a carico di Solazzo per non aver commesso il fatto essendo emersa la sue estraneità, e ha anche chiesto e ottenuto dal gip di Bari Antonella Carfagna l’incidente probatorio per interrogare il testimone alla presenza dei sei indagati e dei loro difensori. L’incidente probatorio si svolgerà nelle prossime settimane a Bari. 

 UCCISI NEL 2017. Mafia, a cinque anni dall'omicidio San Marco in Lamis ricorda i fratelli Luciani. Vittime innocenti, uccisi perché testimoni oculari di un duplice omicidio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Agosto 2022

«Cinque anni fa la morte di due fratelli, Luigi e Aurelio Luciani, vittime innocenti di mafia, che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Così come abbiamo il dovere di non dimenticare il dolore che da quel giorno provano i loro familiari. Luigi e Aurelio erano nel posto sbagliato nel momento sbagliato o meglio, loro erano al loro posto, al posto giusto, al lavoro, di mattina sui campi. Erano gli altri a non essere al loro posto, ad essere nel posto sbagliato e ad aver portato nel posto sbagliato noi e la nostra provincia». Così l’assessora al Welfare e consigliera del M5S Puglia, Rosa Barone, in occasione del quinto anniversario della strage di San Marco in Lamis (Foggia), il 9 agosto del 2017, quando vennero uccisi il boss di Manfredonia, Mario Luciano Romito, e il cognato Matteo De Palma. I fratelli Luciani assistettero per caso al duplice omicidio e furono uccisi perché testimoni scomodi.

«Dalla morte dei fratelli Luciani - prosegue Barone - lo Stato non ha più potuto girare la testa, far finta di niente, ha dovuto prendere una posizione. Da quel 9 agosto del 2017 la storia di questa terra è cambiata: la guerra alla mafia ha cambiato passo e il territorio ha iniziato ad avere quell'attenzione che chiedeva da tempo». «Sicuramente - conclude - tanto ancora c'è da fare, ma la presenza dello Stato si sente. Oggi ricordiamo la morte dei fratelli Luciani, ma ogni giorno lavoriamo perché non vengano dimenticati. È il minimo che dobbiamo a loro e ai loro cari».

Foggia, il neo pentito spiega il fenomeno delle estorsioni: «Si sa che si deve pagare». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Maggio 2022.  

Alcuni commercianti non opporrebbero resistenza, ad altri «bisogna farglielo capire».

«Chi apre un’attività a Foggia, chi è proprio di Foggia, che è nato in quella città, sa che deve pagare». Patrizio Villani, il neo pentito della mafia foggiana, squarcia il velo sul fenomeno delle estorsioni in città. Lo ha fatto rispondendo ai magistrati nel corso della sua deposizione, dopo essersi pentito il 10 maggio.

Il pm della Dda di Bari, Perrone  Capano, gli ha anche chiesto se a Foggia per fare le estorsioni siano necessarie intimidatori o basti semplicemente recarsi presso l’attività commerciale. «Ci stanno posti - ha detto Villani - dove non devi fare niente, devi solo chiedere e ci sta l’attività che te li da; e ci stanno posti dove non vogliono pagare e devi fare le lettere, i proiettili; oppure quando chiudono vai con un motore vestito e ti fai vedere con la pistola in mano e gliela batti vicino al vetro».

Le dichiarazioni di Villani sono racchiuse in un verbale di 130 pagine messo a disposizione della difesa nel corso del processo abbreviato denominato «Decima Bis» in corso nell’aula bunker di Bitonto e che conta una quindicina di imputati tra cui lo stesso Villani. Secondo Villani le vittime di estorsioni direbbero: «Li devo dare allo Stato? Li do a loro - si legge nel verbale - «Chi invece no, quello la devi lavorare un pò, li devi andare a minacciare, gli devi rendere la vita impossibile, glielo devi far capire».

Poi, sul fatto che gli attentati dinamitardi contro le attività commerciali si concentrino in particolar modo ad inizio d’anno - 11 quelli avvenute nelle prime settimane del 2022 - ha spiegato che «è solo ironia della sorte che è l’inizio dell’anno; non c'è una scelta - spiega - è una casualità».

Attentato al boss della mala foggiana Antonello Francavilla. Colpito gravemente anche il figlio 15enne. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2022.

Antonello Francavilla, finito al centro di numerosissime operazioni mentre è ancora pendente in Cassazione la condanna per estorsione contro un imprenditore agricolo foggiano ha scelto Nettuno per scontare i domiciliari, ritenendolo un posto sicuro anche in ragione di vecchie consolidate amicizie che potrebbero aver garantito all'uomo la tranquillità di una protezione.

Antonello Francavilla, classe 1977, boss della Società di Foggia. Un pezzo da novanta nella mala pugliese da anni insieme al suocero, Roberto Sinesi, a capo di una delle più potenti batterie di zona con propagazioni anche nel Gargano, che opera nel traffico internazionale e spaccio di droga ed estorsioni trasferitosi a Nettuno sul litorale a sud di Roma, dove vive da marzo 2021 da pregiudicato agli arresti domiciliari con tanto di braccialetto elettronico alla caviglia dopo la condanna a 6 anni nel processo per estorsioni “Rodolfo”, dopo aver passato otto anni come detenuto. Era stato arrestato in un blitz antidroga nel novembre del 2013, accusato di associazione mafiosa e concorso nell’importazione di 300 quintali di hashish dal Marocco in Puglia.

Francavilla viveva un piccolo appartamento ricavato da villetta anonima in via Greccio a Nettuno, è stato oggetto di un tentativo di omicidio in cui è rimasto ferito il figlio Mario di soli 15anni, ricoverato in gravissime condizioni al Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Il “boss” è stato soccorso e trasportato all’’ospedale “Riuniti” di Anzio-Nettuno dove i chirurghi lo hanno operato, per ferite al torace, all’altezza dello sterno, all’addome, all’intestino, causando un’emorragia al pancreas, all’avambraccio destro, a uno zigomo e all’ulna. 

Francavilla, finito al centro di numerosissime operazioni mentre è ancora pendente in Cassazione la condanna per estorsione contro un imprenditore agricolo foggiano ha scelto Nettuno per scontare i domiciliari, ritenendolo un posto sicuro anche in ragione di vecchie consolidate amicizie che potrebbero aver garantito all’uomo la tranquillità di una protezione. L’appartamento preso in affitto nella villetta sembrerebbe essere di proprietà di un uomo del posto, ma a collegarlo alla piccola cittadina del litorale potrebbero esserci anche altri interessi. Da una prima verifica, il suo nome non viene accostato ai clan di ‘ndrangheta recentemente smantellati dal Nucleo investigativo dei Carabinieri di via In Selci e quindi prende piede l’ipotesi di collegamenti per affari sul traffico di droga da Foggia al litorale laziale.

A metà giornata Francavilla ha sentito suonare il campanello di casa ed avvicinatosi alla porta ha chiesto “chi è ?“. Sentendo rispondere “Polizia” da pregiudicato agli arresti domiciliari sa benissimo che potrebbe trattarsi di un controllo e quindi ha aperto la porta trovandosi di fronte due uomini, con i volti coperti dalle mascherine, che gli hanno sparano a bruciapelo senza riuscire ad ucciderlo. Il figlio Mario quindicenne, sentendo gli spari ha provato a nascondersi in bagno ma i due “killer” hanno sparano anche contro di lui ferendolo al torace ed alla testa, dileguandosi dopo l’omicidio fallito. Contro il “boss” Francavilla sono stati esplosi tre colpi da una calibro 38, due dei quali hanno colpito il figlio, Mario Francavilla che è stato soccorso e trasportato in eliambulanza al Policlinico Gemelli venendo sottoposto a un primo intervento chirurgico. 

La prima ad aver dato l’allarme è stata un’amica del Francavilla il quale aveva scelto Nettuno come luogo dove stare ai domiciliari probabilmente perchè conosce il piccolo Comune romano da anni ma anche perché qualsiasi richiesta per scontare la pena a Foggia, considerato il “peso” mafioso dell’uomo, sarebbe stata respinta per motivi di sicurezza. La donna che ha chiamato i soccorsi conosce Francavilla da anni e ieri mattina è stata avvisata da sua figlia, allarmata dalla moglie del Francavilla che dopo l’agguato ha trovato la forza di telefonare alla moglie per chiedere soccorso.

“Chiama qualcuno hanno provato ad ammazzarci” avrebbe detto al telefono il “boss” prima di perdere conoscenza. Di fronte alla villetta è accorsa l’amica di famiglia che ha dato l’allarme alle 12.32 di eiri quando il 112 ha ricevuto la chiamata di soccorso dirottata al 118. “L’ho visto ricoperto di sangue – ha riferito la donna – e si preoccupava solo del figlio salvate mio figlio, hanno sparato anche a lui”. Ma su chi possa essere stato il sicario a sparare a bruciapelo non ha fornito alcuna informazione mentre veniva trasportato in ospedale. Solo poche e confuse parole sono state riferite dal Francavilla agli investigatori che hanno sequestrato alcune immagini di impianti di videosorveglianza, intorno alla villetta.

I “sicari” sono arrivati alla residenza di Antonello Francavilla grazie ad una “soffiata” in quanto oltre al figlio che si era recato a Nettuno per trovare il padre in occasione della festa di carnevale, a Nettuno. L’altro figlio più grande era andato a trovarlo altre volte in passato, “non crediamo che il sicario o i sicari abbiano dovuto seguire lui per arrivare al padre, sapevano dove trovarlo e hanno agito pur sapendo che in casa c’era un ragazzino… sono mer…“, dicono gli amici e i familiari del Francavilla arrivati da Foggia al Gemelli. A indagare sul duplice tentato omicidio è la Squadra Mobile di Roma, dopo che ieri sono arrivati sul posto gli agenti della Sezione Omicidi ed i colleghi della Criminalità organizzata, insieme agli agenti del commissariato di Anzio. 

Nettuno ed Anzio rappresentano ormai un territorio pesantemente infiltrato in virtù della presenza della ‘ndrangheta, rappresentata dalle famiglie Gallace, Perronace e Madaffari, nel quale nascondersi facilmente, potendo godere della protezione di esponenti della malavita organizzata. Un territorio come rivela una recente indagine della Dda di Roma che ha smantellato un’organizzazione legata alla ‘ndrangheta specializzata nel traffico internazionale di cocaina con l’emissione di 65 ordinanze di custodia cautelare. Operazione di qualche giorni fa. Così come non è un caso che ad Anzio e Nettuno nei primi anni 2000 il sistema informatico di ricerca “precedenti” e “rintraccio” la sera dopo le otto non funzionava e quindi latitanti e fuggitivi anche fermati ai controlli non venivano segnalati. E così i clan mafiosi sono cresciuti negli anni. 

E’ ipotizzabile che Francavilla sappia benissimo chi è il mandante e le ragioni dell’agguato ma da boss navigato qual è, a capo di una delle più forti e potenti “batterie” di zona, abbia deciso di non parlare. Non è da escludere quindi che nelle prossime ore possano esserci delle ritorsioni nel Foggiano, motivo per cui le forze dell’ordine sono già allertate, in quanto il clan Francavilla-Sinesi, è da anni è in a guerra con un’altra “batteria” del gruppo Moretti-Pellegrino-Lanza che opera e delinque sempre con la droga, il traffico di stupefacenti e le estorsioni nello stesso territorio.

Antonello Francavilla è da tempo ritenuto il capo indiscusso della “Società Foggiana”, gli inquirenti lo ritengono un uomo molto pericoloso e determinato. La sua organizzazione, il suo clan ha delle caratteristiche paramilitari di stampo mafioso. È presente in Italia e in alcune amministrazioni pubbliche, riuscito ad infiltrarsi nel comune di Foggia durante le consiliature del sindaco Franco Landella, che ha portato lo scioglimento per mafia del consiglio comunale.

Adesso sarà compito del Procuratore Aggiunto della DDA di Roma Ilaria Calò scoprire come mai Antonello Francavilla abbia scelto proprio Nettuno per scontare i domiciliari. Redazione CdG 1947

La società foggiana: la mafia che spara anche ai bambini. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 04 marzo 2022

La società foggiana, la mafia spietata che controlla Foggia e provincia, porta la faida nel Lazio a Nettuno dove si è consumato un tentato duplice omicidio.

Lo fa mostrando il suo tratto distintivo: la violenza. «La lupara bianca a Foggia e sul Gargano è stata molto usata nelle faide. Da noi nel foggiano si sotterravano nelle campagne, sul Gargano le persone sono state buttate nelle grotte di profondità. Una cosa che si è sempre detta è che alcuni sono stati dati in pasto ai maiali, ma prima bruciavano i capelli perché gli animali non li mangiavano», dice l’ex killer pentito.

La società foggiana, negli ultimi anni, ha colpito anche giovanissimi e bambini, raggiunti dai proiettili durante gli agguati contro i rivali. 

La società foggiana, la mafia spietata che controlla Foggia e provincia, porta la faida nel Lazio a Nettuno dove si è consumato un tentato duplice omicidio. Lo fa mostrando il suo tratto distintivo: la violenza. Non ha alcuna pietà e colpisce bambini e giovanissimi estranei a logiche criminali.

«Quando è iniziata la faida, noi della batteria Sinesi eravamo i più cattivi. Ci dividemmo perché volevano imporci il pizzo sui proventi delle rapine, da lì nasce lo scontro», racconta un ex killer, oggi collaboratore di giustizia che ci aiuta a tratteggiare profili e affari delle famiglie in conflitto.

I sicari sparano senza alcuno scrupolo come è accaduto nell’agguato che ha portato al ferimento del boss Antonello Francavilla e del figlio, un ragazzo di 16 anni. Il criminale, si tratta di un solo soggetto, ha suonato al citofono fingendosi poliziotto, ha prima sparato al padre e poi ha raggiunto il giovane che si era inutilmente rifugiato in bagno. Ora è in fin di vita, ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma mentre il padre dopo l’iniziale miglioramento versa in condizioni critiche. L’agguato potrebbe essere nato nell’ambiente carcerario e il sicario potrebbe essere non foggiano, ma arrivato a Nettuno per ‘fare un favore’ a un clan alleato. 

Foto concessa dal quotidiano L'Immediato

Il boss libero

Antonello Francavilla, genero del boss Roberto Sinesi, stava scontando i domiciliari per una condanna non definitiva per estorsione nella città laziale.

Tra gli altri uomini della mala in libertà ci sono i figli del boss Federico Trisciuoglio, ma anche Fabio Tizzano, legato ai Moretti che si trova anche lui ai domiciliari. Le batterie che si fanno la guerra sono tre: i Sinesi-Francavilla, i Moretti-Pellegrino-Lanza e i Trisciuoglio. Sinesi e Moretti un tempo erano alleati. Poi le strade si sono divise per una richiesta estorsiva sulle rapine effettuate e sgarbi reciproci. Erano gli anni Ottanta quando eroina ed estorsioni hanno riempito le casse della società foggiana che nonostante agguati e uccisioni mantiene una cassa comune. 

«I capi non si arrenderanno mai, qualcuno ha mandato fuori a dire che bisogna fare casino, le colpe non devono cadere solo sui vertici. Infatti gli omicidi, le bombe non si sono fermate», racconta l’ex killer oggi pentito. 

Poi piano piano si sono infiltrati nell’economia con imprenditori sotto scacco e altri che hanno preferito diventare organici grazie anche al rapporto con la pubblica amministrazione e la politica. 

«Abbiamo messo le mani su tutto, la gestione delle case popolari, sugli ospedali, sulle onoranze funebri, noi avevamo il controllo su ogni cosa. Io avevo una ditta ed ero riuscito a entrare nel sistema degli appalti pubblici, ma spesso noi non eseguivamo i lavori, prendevamo solo soldi. I costi raddoppiavano e noi guadagnavamo. Ci siamo presi tutto, abbiamo cominciato a imporre il pizzo a tappeto e chi non pagava moriva. Ci servivano i soldi per pagare gli avvocati che arrivano da Milano», dice l’ex killer oggi pentito. 

Negli ultimi tre anni sono stati sciolti per condizionamento malativoso. Monte Sant’Angelo, Mattinata (comuni non distanti dal litorale dove comanda l’altra mafia, quella dei montanari), ma anche Manfredonia, Cerignola e proprio Foggia, ancora “governata” da una commissione straordinaria. 

Come le altre organizzazioni criminali anche la società foggiana spara a ragazzi e a bambini, ma è l’ultima a riempire le cronache con giovani vite a rischio a causa di una faida interminabile. Nel 2016 Roberto Sinesi era in auto con la figlia e con il nipotino, figlio di Antonello Francavilla. Due sicari si sono avvicinati e hanno iniziato a sparare, hanno colpito il boss e il bambino di quattro anni. Entrambi sono stati feriti gravemente, ma si sono salvati. All’attentato hanno risposto i Sinesi con l’agguato ai figli del boss Trisciuglio e poi l’uccisione di Roberto Tizzano dell’altra batteria rivale. 

Proiettili contro i bambini

Ma nelle sparatorie sono stati spesso coinvolti i bambini. Solo nel luglio scorso sono stati feriti in due agguati altri due bimbi di 12 e sei anni. Mentre l’Italia festeggiava la vittoria agli Europei di calcio, i proiettili della mala locale, a San Severo, hanno raggiunto un pregiudicato uccidendolo e ferendo il nipote di sei anni. Non potrà più camminare, dicono i medici. A San Severo ci sono altre famiglie criminali legate alle batterie foggiane.

In cinque anni tre bambini e un ragazzino sono stati colpiti dai proiettili della mala foggiana. Non ci sono solo quelli raggiunti dai colpi d’arma da fuoco, ma anche quelli che sono scomparsi perché presumibilmente vittima di lupara bianca, morti ammazzati i cui corpi non si trovano più. Nel 2009 è scomparso a Monte Sant’Angelo Alessandro Ciavarella, aveva 16 anni. Non è mai stato trovato. Stessa sorte è toccata a Francesco Armiento, neanche trentenne, che nel 2016 è scomparso da Mattinata. La madre Luisa Lapomarda cerca ancora verità e giustizia.

«La lupara bianca a Foggia e sul Gargano è stata molto usata. Da noi nel foggiano si sotterravano nelle campagne, sul Gargano le persone sono state buttate nelle grotte di profondità. Una cosa che si è sempre detta è che alcuni sono stati dati in pasto ai maiali, ma prima bruciavano i capelli perché gli animali non li mangiavano», dice l’ex killer pentito.

In una manifestazione antimafia, svoltasi a Foggia nel 2020, i bambini che sfilavano portavano in mano uno striscione che recitava così: «Siamo tutti contro la mafia, la mafia a Foggia è pericolosa e non si può più vivere così, ne va del nostro futuro». Ma nessuno li ha ascoltati.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

La mafia a Foggia bombarda i negozi così in città torna la paura. Un negozio di parrucchiere a San Severo distrutto da una bomba. Foto tratta dal sito di informazione l'Immediato che racconta quotidianamente le mafie foggiane. NELLO TROCCHIA su Il Domani l'11 gennaio 2022.

«Sono attacchi terroristici in piena regola». Le parole sono di Piernicola Silvis, per 4 anni questore di Foggia, la città che ha iniziato il 2022 con bombe, negozi che saltano in aria e spari.

«Io mi aspetto che ci sia qui la presenza della ministra Lamorgese nei prossimi giorni, diversamente saremo noi ad andare a Roma a rivendicare l’attenzione che siamo certi di meritare», dice Francesco Miglio, sindaco di San Severo. Il comune, a Foggia, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Negli ultimi tre anni sono stati sciolti per condizionamento malativoso Monte Sant'Angelo, Mattinata, sul litorale dove comanda l'altra mafia quella dei montanari, ma anche Manfredonia e Cerignola. 

Bombe a Foggia, in città la malavita gestiva anche la videosorveglianza. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 16 Gennaio 2022.

Contro la stagione delle bombe lo stato ha risposto con perquisizioni a tappeto, centinaia di inquirenti hanno eseguito controlli alla ricerca di armi e ordigni.

«Fatti i cazzi tuoi, voi giornalisti siete pieni di merda», dice Alessandro Carniola, di mestiere imprenditore, considerato dagli inquirenti frequentatore di pregiudicati, omertoso, inserito «nel circuito che alimenta le casse della mafia foggiana». 

Tra gli ordigni, otto, che hanno colpito San Severo e Foggia, due hanno centrato un locale di Carniola e il furgone di una ditta che distribuisce il caffè in tutta la città, marchio da lui creato. 

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Nove bombe in nove giorni. La mafia foggiana attacca lo Stato. Giuliano Foschini su La Repubblica il 17 gennaio 2022.

Dopo gl arresti e i commissariamenti dei Comuni più importanti, i clan hanno alzato lo scontro. Colpiti negozi e mandati segnali interni. Ma salgono le denunce per estorsione. Oggi il vertice con il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese.

"Il mare è nostro!" gridava agli uomini del clan qualche mese fa un boss di queste parti, Pietro La Torre. Ed è loro anche il fuoco di queste notti, nove bombe in nove giorni, nove boati che hanno spaccato vetrine e fatto tremare vetri, distrutto progetti e spaventato futuri. Il punto è che da qualche tempo a questa parte la terra, e l'aria, non sono più cosa soltanto della mafia foggiana, la quarta mafia, quella senza un nome ma con forza e potere sterminati, "la più urgente emergenza criminale del Paese" l'ha definita qualche settimana fa, davanti alla gente di questa terra, il ministro della Giustizia, Marta Cartabia.

Che sta accadendo in Puglia, o meglio, in provincia di Foggia? Succede che da qualche tempo è arrivato finalmente lo Stato. Che ha arrestato mafiosi e fiancheggiatori, commissariato comuni (compreso quello di Foggia) e aziende. E ora, come risposta, la mafia gli ha dichiarato guerra.

I numeri: in nove giorni, in questo 2022, la criminalità organizzata ha piazzato nove bombe diverse tra Foggia e la provincia. Hanno distrutto negozi e parrucchieri, hanno punito commercianti onesti e regolato conti interni con il chiaro obiettivo di lanciare messaggi. Perché tutti capiscano che nulla è cambiato. Che chi comandava, comanda. "La mafia sta provando a reagire ai colpi che la squadra Stato ha inflitto ai clan in questi mesi: ai successi della polizia giudiziaria, a quelli dell'antimafia sociale che ora finalmente c'è" ragiona il procuratore distrettuale antimafia, Roberto Rossi.

Mafia del pesce a Foggia, Cafiero De Raho: "Svela debolezza dei clan". Rossi: "Li batteremo"

Fino a qualche anno fa, le statistiche raccontavano che l'80 per cento dei commercianti e degli imprenditori locali pagavano il pizzo. Oggi i numeri dicono che ci sono segnali da cui ripartire: le denunce per estorsione, ha documentato Tano Grasso, nell'ultimo anno sono aumentate dell'11 per cento a fronte di un calo della delittuosità del 9. E se non bastano i numeri a spiegare, ci sono le parole. Le mafie foggiane non conoscevano pentiti. Perché, come ha spiegato il sostituto procuratore antimafia Giuseppe Gatti che vive da un decennio sotto scorta perché i foggiani volevano ucciderlo, rubando proprio le parole a un mafioso, "qui il pentito non esce perché è tutta una famiglia: una famiglia significa il sangue. E più fiducia del sangue non ce ne sta". Ora invece anche il sangue ha cominciato a tradire. Qualche pentito è apparso. Repubblica ha potuto leggere le dichiarazioni di uno di loro, Orazio Coda, uomo del clan Raduano: "Dopo che si è creato l'antiracket - ha detto - nessuno ha mai toccato questi imprenditori perché si sapeva che era galera sicuro. Perché i commercianti erano tutelati dallo Stato".

Bisognava dunque colpire gli altri, subito. Perché non seguissero l'esempio. "Ma è ora che bisogna reagire, e non lasciarci soli" grida il sindaco di San Severo, Francesco Miglio. Perché se è vero che questa dei clan è una reazione allo Stato, ora lo Stato non può fermarsi. San Severo in questi giorni si è svegliata quattro volte con le bombe che hanno distrutto saracinesche e vetrine. Ma il cuore della città si è accartocciato quest'estate: mentre tutta l'Italia era per strada per festeggiare la vittoria dell'Italia al campionato europeo di calcio, la mafia uccideva Mario Anastasio, pregiudicato. Accanto a lui c'era suo nipote, Dodo, 6 anni. Ha preso una pallottola e, forse, non camminerà mai più. E siccome il sangue chiama sangue, dopo Anastasio nell'estate di San Severo è morto Luigi Bonaventura: secondo gli inquirenti è stata una risposta all'omicidio di luglio. 

"Non lasciateci soli", ripete Miglio, accanto a chi dice "basta" alla mafia. C'è, però, anche chi dice soltanto "basta": a Foggia qualcuno comincia a storcere il naso per il commissariamento del Comune, nelle amministrazioni dove si è da poco votato si cominciano a rivedere amici di mafiosi. "Questo è il momento più delicato: non bisogna abbassare la guardia", ha spiegato, non a caso, il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, che oggi sarà a Foggia al fianco del ministro degli Interni, Luciana Lamorgese. Chiederanno alla gente di avere coraggio, ma c'è chi chiede loro di non fermarsi.

Ieri il Procuratore Rossi - che lavora al fianco del capo dell'ufficio di Foggia, Ludovico Vaccaro - ha scritto al Csm chiedendo i sette magistrati e il personale che manca in organico. L'antimafia - Libera, le associazioni degli imprenditori, le scuole - stanno facendo sforzi straordinari. Ma è un fatto che il presidente regionale di Confindustria, Sergio Fontana, che tanto si è speso per l'antiracket di questa terra, sia stato oggetto qualche settimana fa di un'intimidazione, e ora la Procura sta proprio valutando se ci sia un filo con Foggia. "Noi non ci arrendiamo" ha detto Massimo, uno dei commercianti che ha visto saracinesca e negozio saltare in aria. "Ma, per favore, non lo fate nemmeno voi".

Il 2021 della mafia in Italia tra processi, indagini e politica. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 31 dicembre 2021.

La sentenza sul processo Stato-Mafia, quella sul clan romano Casamonica, lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Foggia.

Ci sono fatti di mafia che hanno segnato il 2021 di cui si è parlato, altri, invece, sono stati pressoché ignorati. La maggioranza ricade in questa seconda categoria.

Difficile sintetizzare un anno di mafia in un solo articolo. Per quanto possa sembrare incredibile ogni giorno del 2021 c’è stato un arresto, un’indagine o un segnale che rivelano quanto sia ancora tentacolare il potere della criminalità organizzata.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Onorata società foggiana. La preoccupante ascesa della Quarta mafia. Pietro Mecarozzi su l'Inkiesta il 21 gennaio 2022.

Estorsioni, usura, riciclaggio e droga. Sono i pilastri dell’organizzazione criminale che agisce in Puglia, sempre più potente e violenta. Si è divisa in quattro articolazioni principali e fa affari con le cosche tradizionali ed estere, sfidando a viso aperto lo Stato. 

Una galassia di famiglie malavitose, ora riunite in storiche alleanze, ora contrapposte in faide sanguinose. Un’organizzazione basata su violenza e affari. La mafia foggiana, conosciuta anche come Quarta mafia, è questo e molto altro.

È sopratutto l’associazione mafiosa che in questi ultimi anni, nell’ombra, è riuscita maggiormente a crescere e allargare i propri confini, diramandosi – secondo quanto riporta la Dia nella sua ultima relazione – in quattro articolazioni principali: la società foggiana, la mafia garganica, la malavita cerignolana e la mafia sanseverese.

La prima si muove prevalentemente nella città di Foggia. Il Gargano invece è la terra dei “Montanari”, passati dall’abigeato al traffico di droga (fatta arrivare dall’Albania o coltivata in loco). La malavita cerignolana è specializzata nei furti di auto e, soprattutto, nelle rapine ai furgoni portavalori. Un vero e proprio marchio di fabbrica per i clan di Cerignola, che non disdegnano colpi in trasferta, anche all’estero. La criminalità sanseverese svolge invece un ruolo determinante nel traffico degli stupefacenti grazie ai rapporti con altri gruppi della provincia e con camorra, ’ndrangheta e criminalità albanese.

«È senza dubbio un fenomeno criminale da non sottovalutare, di vaste proporzioni all’interno del quale si è fatto troppo silenzio e per tanto tempo», spiega Vincenzo Musacchio, criminologo e ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services.

La Quarta mafia fonde violenza e corruzione in un’unica strategia criminale: «Per gli operatori economici ci sono le bombe. Per le amministrazioni locali c’è la corruzione. I mafiosi locali controllano il voto eleggono i loro rappresentanti e poi ottengono favori. In questa situazione ormai endemica la dimensione di degrado del foggiano è a livelli emergenziali».

Le cronache locali raccontano di guerre spietate a colpi di morti ammazzati, ma anche di lunghe tregue, funzionali alla pianificazione degli spazi di influenza per quelli che sono gli affari delle famiglie: racket delle estorsioni, usura, riciclaggio, gioco d’azzardo e droga.

Nei primi undici giorni di gennaio nella provincia di Foggia sono esplose otto bombe. Tre a San Severo, una a Vieste, quattro a Foggia. Sono stati colpiti un parrucchiere, una concessionaria di auto, un negozio di giochi, una profumeria, un fioraio, una ditta di distribuzione di caffè, un ristorante e l’abitazione del parente di un presunto esponente della criminalità organizzata. Mentre mercoledì notte un attentato incendiario è stato compiuto contro l’automobile di Generoso Rignanese, assessore al Bilancio del Comune di Monte Sant’Angelo.

Che si tratti di mafia lo hanno stabilito sentenze della magistratura. Le 25 condanne alla mafia foggiana, eseguite su richiesta del pubblico ministero Gianrico Carofiglio, confermano l’esistenza di un’associazione a delinquere ben strutturata.

«Undici bombe in dieci giorni sono un attacco diretto allo Stato. Il messaggio lanciato è chiarissimo: qui comandiamo noi, nulla è cambiato e nulla cambierà. In realtà la mafia è costretta a reagire con forza e crudeltà per rispondere agli arresti di questi ultimi mesi. Si sta costituendo la prima associazione anti-racket, si comincia a vedere l’antimafia sociale e questo le mafie foggiane non possono permetterlo», continua Musacchio.

La società foggiana controlla con la violenza un territorio molto vasto: la provincia di Foggia è la terza per grandezza dopo Sassari e Bolzano, è più vasta dell’intera regione Liguria. E detiene alcuni record negativi: è la provincia al primo posto in Italia, secondo i report annuali, in quanto a numero di estorsioni denunciate (28,1 ogni 100mila abitanti) ed è seconda in classifica, dietro Caltanissetta, per numero di omicidi volontari (2,3 ogni 100mila abitanti). È seconda, dietro Crotone, per tentati omicidi (3,9 ogni 100mila abitanti) ed è al terzo posto dopo Reggio Calabria e Vibo Valentia per denunce per associazione mafiosa (1,5 ogni 100mila abitanti).

Il comune di Foggia, nell’agosto scorso, è stato sciolto per associazione mafiosa. In precedenza era successo solo a un altro capoluogo di provincia, Reggio Calabria, nel 2012. Il sindaco della Lega, Franco Landella, è indagato per corruzione e concussione. Altre amministrazioni comunali della provincia erano state sciolte in precedenza: Cerignola, Monte Sant’Angelo, Mattinata e Manfredonia.

Ad oggi, a Foggia e nel tavoliere i clan egemoni (chiamate “batterie”) sono i Moretti-Pellegrino-Lanza, i Sinesi-Francavilla e il clan Trisciuoglio-Tolonese. «Nel Gargano abbiamo le famiglie Li Bergolis, Alfieri e Primosa di Monte Sant’Angelo. Le famiglie dei Tarantino e dei Ciavarella di San Nicandro Garganico. A San Severo abbiamo una estensione foggiana del clan Moretti-Pellegrino-Lanza e il clan La Piccirella-Testa», svela Luigi Bonaventura, ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura, collaboratore di giustizia di ben 14 procure italiane e straniere. A Cerignola operano il clan Piarulli-Ferraro e il clan Tommaso-D’Angelo. A Lucera i clan predominanti sono Ritucci-Cenicola, Papa-Ricci, Bayan-Di Corso, Tedesco e Barbetti.

Pur conservando distinte segmentazioni, hanno radici comuni e, soprattutto, si muovono in sintonia cercando di non calpestarsi i piedi e spartendosi in accordo i relativi territori di pertinenza. «Questi gruppi si espandono infiltrandosi anche i territori ancora sani quali il Molise, l’Abruzzo, le Marche. Hanno anche contatti molto stretti con le mafie albanesi e nigeriane». Ma non solo: «Hanno rapporti molto forti con la ’Ndrangheta. Per dare un’idea: la zona del Salento per anni è stata chiamata da molte cosche “Le due Calabrie” per la presenza imponente di mandamenti ’ndraghetisti, tra cui la ’ndrina Alvaro e la Bellocco», rivela Bonaventura.

Ma come nasce questa organizzazione criminale? E come è strutturata? «Questa mafia si basa sulla violenza. È una loro caratteristica, che va controtendenza con il modus operandi delle mafie tradizionali, che preferiscono sempre più la corruzione e l’infiltrazione nella politica», spiega Antonio Laronga, procuratore aggiunto di Foggia.

La Quarta mafia nasce alla fine degli anni’70. Sono gli anni in cui Cosa Nostra, appena conclusa la prima guerra di mafia, prova a ridefinire i propri assetti e fonda le prime commissioni interprovinciali, finalizzate a garantire la pace interna. In Calabria la ’ndrangheta comincia a crescere, a evolversi, ad abbandonare l’ambiente rurale e ad allargare i propri orizzonti. E, soprattutto, è negli anni ’70 che Raffaele Cutolo dà vita alla Nuova Camorra Organizzata.

Proprio quest’ultimo sarà fondamentale per la nascita della Società. In un hotel di Foggia nel 1979, Raffaele Cutolo si incontra con le principali bande di malviventi della regione. Ha un unico obiettivo: colonizzare la Puglia per esportare il suo progetto di Nuova Camorra Organizzata, estendendo così il suo dominio. Nasce così la criminalità organizzata pugliese.

«Quando ancora il codice interno delle cosche vietava di avere affiliati non calabresi, la mia famiglia è stata tra le prime a stabilire un collegamento con Taranto e creare una “succursale” criminale», continua Bonaventura. Con quali scopi? «La Puglia è un punto strategico per Camorra e ’Ndrangheta, che trovando campo aperto hanno fiutato l’occasione di fare ricchi affari, da prima con il traffico di stupefacenti poi con quello di armi», aggiunge il collaboratore di giustizia.

La loro principale fonte di guadagno resta infatti il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti. «Le coste pugliesi sono un punto di approdo privilegiato per lo sbarco in Italia di decine di tonnellate di stupefacenti destinati al mercato nazionale ma anche a quello europeo e internazionale», dice Musacchio.

Negli ultimi cinquant’anni, però, la storia criminale della Puglia è contrassegnata dalla violenza delle “faide”. La più famosa è ambientata a Sannicandro Garganico, dove a partire dal 1981, si contano decine di morti tra le famiglie Tarantino e Ciavarella. La scena si è poi spostata a Monte Sant’Angelo, terra dei Libergolis, protagonisti di una altrettanta spietata guerra con i Romito di Manfredonia, che nell’agosto del 2017 culminerà nella strage di San Marco in Lamis, nella quale perderanno la vita anche i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, due agricoltori venutisi a trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato.

«L’uso sistematico della violenza e familismo: sono questi i pilastri della Quarta mafia. Hanno la ferocia di “Cosa Nostra”, la consanguineità della ’ndrangheta, l’organizzazione in gruppi autonomi e il fiuto per gli affari della Camorra. A questo si aggiunge un’omertà della popolazione difficile da scalfire», dice Laronga. Le mafie foggiane, inoltre, non conoscono pentiti. anche se negli ultimi anni qualcuno ce n’è stato, ma si tratta di «pesci piccoli, non c’è una fuoriuscita che potrebbe rovesciare il regime criminale instaurato», commenta Laronga.

Nel frattempo, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ha definito la situazione criminale del foggiano una «emergenza nazionale», mentre il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese afferma che «dobbiamo far sentire la presenza forte dello Stato». Ma la realtà è un’altra. «Per molto tempo, a livello istituzionale, c’è stata una sottovalutazione di questo fenomeno. Complice anche la riforma della geografia giudiziaria del 2012-2013, che ha provocato nel territorio foggiano la chiusura di un tribunale e una procura della Repubblica e ben sei sezioni distaccate giudiziarie. Una defezione che ha lasciato campo aperto a questa mafia», conclude Laronga.

·        Il Polpo: Salvatore Annacondia.

Bari, i Capriati hanno un nuovo capo.È Filippo, nipote del boss Tonino. L’impianto accusatorio regge sino in Cassazione. Isabella Maselli  su la Gazzetta del Mezzogiorno il 9 Settembre 2022

Filippo Capriati, 51 anni, è il capo indiscusso del «nuovo» omonimo clan mafioso di Bari Vecchia, costituito sul «brand» della storica organizzazione criminale capeggiata da Tonino Capriati, suo zio. Il ruolo di Filippo Capriati come organizzatore del clan è scritto nero su bianco in una sentenza ormai definitiva sul controllo mafioso del porto di Bari, che nell’aprile 2018 portò all’arresto di 17 persone, compreso Filippo. «Il dato incontrovertibile - diceva la Corte di Appello di Bari - è che Filippo sia riuscito a continuare ad esercitare, attraverso i propri affiliati (talvolta congiunti), un controllo sui movimenti dei mezzi, merci e persone, all’interno dell’area portuale, fatto di indubbio rilievo per gli interessi del clan, attesa la evidente importante strategica del sito controllato. Tale importanza era stata colta già da parecchi anni, e dallo stesso Filippo in qualità di membro, però, della famiglia e dello storico clan dello zio».

Diventato poi «promotore del nuovo sodalizio» dopo la scarcerazione nel 2014 a seguito di una lunga detenzione, «aveva posto le basi per il controllo sui movimenti all’interno dell’area portuale, tramite persone a lui fedeli». Il porto, hanno ricostruito le indagini della squadra mobile coordinate dal pm della Dda di Bari Fabio Buquicchio, «costituiva una base logistica del clan, un’area in cui i suoi adepti potevano muoversi, incontrarsi, occultare beni (anche illeciti), apprendere informazioni in merito a merci in arrivo, e così via». Nel processo è stato riconosciuto il risarcimento danni alla Cooperativa Ariete (che gestiva i servizi nel porto e di cui alcuni imputati erano dipendenti) e alla Autorità portuale.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del difensore del boss, l’avvocato Gaetano Sassanelli, ha però annullato con rinvio la condanna a 20 anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga. Si tratta del reato che, tra quelli contestati (compreso quello di capo dell’associazione mafiosa) prevede le pene più elevate e Filippo Capriati è l’unico a non aver rinunciato ai motivi di appello arrivando fino in Cassazione per ottenere il riconoscimento della sua non colpevolezza almeno sulla gestione del traffico di droga. E i giudici - anche se ancora non si conoscono le motivazioni - gli hanno dato ragione, disponendo che questa parte del processo torni davanti ai giudici di Bari per un appello bis.

Anche per altri cinque imputati la Suprema Corte ha annullato con rinvio le sentenze di condanna, mentre con il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità degli ulteriori undici ricorsi, quelle condanne diventano definitive. Tra questi c’è il fratello di Filippo, 49 anni, anche lui ai vertici del clan (condannato con sentenza passata in giudicato a 10 anni e 8 mesi di reclusione).

Era tra i killer di Michele Fazio, ucciso per errore a 16 anni: a Bari vecchia fuochi d'artificio per la scarcerazione. Chiara Spagnolo su la Repubblica il 31 agosto 2022.  

Il 39enne Lello Capriati ha scontato la pena di 19 anni ed è tornato in libertà festeggiato in una delle piazze vicine al luogo dell'agguato. Dei quattro arrestati per l'omicidio è quello che ha riportato la condanna più pesante ed è stato detenuto in diversi penitenziari

Gli auguri di una "presta libertà" in pochi giorni hanno trovato piena realizzazione: il 39enne Lello Capriati ha lasciato il carcere dopo 19 anni ed è stato accolto con un tripudio di fuochi d'artificio in una delle piazze principali di Bari vecchia, a poca distanza dal commissariato di Polizia.

E anche dall'abitazione di Lella e Pinuccio Fazio, i genitori di Michele, ucciso per sbaglio a 16 anni, il 12 luglio 2001, da un commando di cui faceva parte anche Capriati. Per quell'omicidio Raffaele, detto Lello, è stato condannato e ha pagato fino all'ultimo giorno il suo debito con la giustizia.

Senza mai trascurare il legame con la famiglia e con la gente del borgo antico, che sui social gli ha riservato valanghe d'affetto dopo che si è diffusa la notizia della ritrovata libertà.

Del resto è proprio grazie ai social che amici, parenti ed ex sodali hanno potuto continuare ad avere sue notizie per tutti questi anni, grazie ai video postati dalla moglie e dai figli ma anche da sorella e nipoti.

Lello è il nipote dello storico boss Tonino Capriati e fratello di Filippo e di Domenico, quest'ultimo assassinato a Japigia il 21 novembre 2018 e per la cui morte sono sotto processo Maurizio Larizzi e Domenico Monti. Nella loro vita le lotte fra i clan sono state una costante.

E proprio da una di queste faide sono nati i guai di Lello e la sua lunga detenzione. Michele Fazio fu ucciso per errore, in risposta all'assassinio di Francesco Capriati da parte degli Strisciuglio. Proprio su di loro doveva abbattersi la vendetta, ma il commando sbagliò: cercavano Marino Catacchio o Vito De Felice e colpirono il sedicenne Michele.

A quattro anni dal delitto furono arrestati Raffaele Capriati, Francesco Annoscia e Michele Portoghese, all'epoca minorenne, mentre Leonardo Ungredda fu ucciso prima dell'arresto.

I tre killer sono stati condannati e tutti hanno finito di scontare la pena. Capriati, che all'epoca aveva 19 anni, ha riportato la condanna più pesante ed è stato detenuto in diversi penitenziari, nei quali si è fatto molti amici che hanno salutato con gioia la sua ritrovata libertà.

Ad attenderlo all'aeroporto c'erano la moglie e i figli. Una volta arrivati a Bari vecchia, poi, un susseguirsi di parenti e amici, con i fuochi d'artificio sparati nel bel mezzo di piazza San Pietro in una sera di pochi giorni fa, mentre Bari era ancora gremita di turisti.

Agli auguri di buon ritorno a casa si sono aggiunti quelli di riprendere presto in mano la sua vita e anche le considerazioni di altre mogli di detenuti eccellenti, che si augurano di poter riabbracciare presto i loro cari.

Il ritorno di Raffaele Capriati, naturalmente, non è passato inosservato a forze dell'ordine e Direzione distrettuale antimafia, così come agli uomini di altri clan baresi. Nei lunghi anni della sua detenzione molte cose sono cambiate e arresti e omicidi hanno trasformato equilibri e fatto tessere nuove alleanze.

Una volta tornato a casa, Lello avrà tutta una vita da ricostruire. Per ora nei video si mostra felice accanto ai familiari, forte anche del rispetto che la moglie ha conquistato nei lunghi anni d'attesa e che - dopo il conto alla rovescia fatto nelle settimane precedenti alla liberazione e le lacrime versate all'aeroporto di Palese - sui social ha lanciato anche un avvertimento a chi proverà ad avvicinarsi al marito: "Ti spenno come fuss 'na gallina", ovviamente tutto cantato.

La Politica, ieri e oggi. La criminalità organizzata allunga i propri tentacoli anche a Bitonto. Negli anni '70 si assistette alla crescita del potere delle mafie e alla loro diffusione in tutta Italia. Con inevitabili conseguenze anche politiche. Michele Cotugno il 10 Gennaio 2021 su dabitonto.com. 

Come già accennato nella puntata precedente di questa rubrica, negli anni ’70 si assistette non solo ad un generico aumento del numero dei reati, ma anche ad un’evoluzione della malavita organizzata. Sotto diversi aspetti. Le organizzazioni di stampo mafioso, infatti, si diffondono sempre più, anche in regioni molto lontane da quelle di origine, nel Nord Italia, grazie all’immigrazione e alle nuove povertà create dalla crisi economica dell’inizio di quel decennio, che aveva fornito nuove braccia ad una malavita in espansione. Che approfittò anche per buttarsi in nuovi business, come quello della droga, il cui uso aumentò a dismisura tra i giovani, favorito da alcune frange della contestazione sessantottina che, delle sostanze stupefacenti, fecero uso sin dagli anni ’60.

Una mafia che già in passato aveva mostrato di sapersi adattare ai mutamenti della società e dell’economia. Come successe negli anni ‘50, con la riforma agraria, lo smembramento della grande proprietà terriera e, contemporaneamente, la riduzione del peso economico dell’agricoltura a favore di altri settori economici, l’industrializzazione, l’aumento demografico nelle città, con il conseguente allargamento degli agglomerati urbani. La mafia si trasformò, diventando, da fenomeno prettamente legato all’agricoltura, una realtà presente anche nelle città, in settori economici in espansione, come quello dell’edilizia (fu in questo contesto che, in molte grandi città si consumarono grandi speculazioni edilizie che, in seguito, avrebbero anche contribuito a creare quartieri poveri, destinati a lavoratori, privi di servizi e, specialmente dopo la crisi economica, luoghi di miseria e degrado).

Sfruttando, inoltre, i flussi migratori e i flussi economici, le varie organizzazioni mafiose italiane si espansero anche in altre regioni. Si espansero al nord, favorendo il trasferimento dalle proprie zone di origine di alcuni loro membri e legandosi con il contesto criminale locale. Ad esempio, le indagini su alcuni casi di rapimenti, nella Lombardia degli anni ’70, sottolinearono un grado di penetrazione mafiosa nella regione tale da destare seria preoccupazione.

Sempre all’inizio degli anni ’70, i giornali denunciarono spesso la presenza della mafia, evidenziando, ad esempio, le intimidazioni ai danni di lavoratori meridionali del settore edilizio, o in quello delle operazioni di manutenzione e di pulizia. Lavoratori costretti a sottostare alle richieste, ai ricatti e ai metodi violenti di intermediari abusivi di manodopera (il fenomeno del caporalato, per spiegarci meglio), per poter lavorare.

La malavita operò, si arricchì e si infiltrò nelle regioni settentrionali, quindi, tramite sequestri di persona, l’intermediazione ricattatoria nell’assunzione della manodopera nelle aziende, gestione di locali notturni e mercati ortofrutticoli, traffico di droga. Quest’ultima attività illecita, trovò mercato fiorente e redditizio nelle grandi città settentrionali.

Ma la diffusione della malavita organizzata in nuove regioni non riguardò solamente il Settentrione. Ad essere oggetto della ramificazione delle associazioni mafiose, furono anche regioni meridionali che, fino a quel momento, non avevano una grande presenza di organizzazioni criminali strutturate come la camorra campana, la ‘ndrangheta calabrese o Cosa Nostra siciliana. Regioni come la Puglia, prima, e la Basilicata dopo. Non che, ovviamente non avessero una propria criminalità. Ma questa era per lo più formata da gruppi dediti a delinquenza comune.

Il “grande passo”, in Puglia, lo si ebbe tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, con l’arrivo della nuova camorra organizzata del boss campano Raffaele Cutolo, che volle estendere i propri traffici nella nostra regione per sfruttare la sua posizione geografica ideale, per la vicinanza all’Albania, per attività come il traffico di droga o il contrabbando di sigarette.

«Nata negli anni ’80  come filiazione della camorra, la criminalità organizzata pugliese ha, infatti, ereditato alcuni caratteri “arcaici” delle mafie – come i rituali e i codici di affiliazione – ma in un’ottica d’innovazione e autonomia, favorita anche dall’affermarsi dell’epoca delle politiche neoliberiste, dall’espansione dei mercati (e del corrispettivo allargarsi delle “zone grigie” tra il legale e l’illegale e, più in generale, dall’ideologia del profitto, che avrebbe mutato non solo i volti delle città,, ma i costumi dei cittadini» scrive don Luigi Ciotti alla prefazione del libro “Criminali di Puglia” di Nisio Palmieri.

E per estendersi, La camorra offrì la sua protezione ai gruppi criminali nostrani, fino a quando, a seguito delle vicende giudiziarie che portarono all’arresto di Cutolo, i clan pugliesi furono più liberi dal controllo della camorra. E così, dalle ceneri dell’impero di Cutolo, sorsero nuove organizzazioni di stampo mafioso come la Sacra Corona Unita, la mafia barese, quella garganica.

Organizzazioni nuove, che iniziarono a spartirsi le attività illecite sul territorio. Iniziarono ad uccidere. Iniziarono a scontrarsi tra loro in lunghe e sanguinose faide (che, piccola nota simpatica, in un discorso che simpatico non le è affatto, trovarono anche spazio nella comicità di Toti e Tata che, parodiando la storica serie Rai “La piovra”, portarono su Telenorba “Il Polpo”, storia di un’improbabile quanto divertente lotta tra clan della mala).

Le nuove organizzazioni mafiose pugliesi assorbirono le mentalità di tutte le organizzazioni mafiose delle altre regioni, come sottolineò il pentito Salvatore Annacondia in un’audizione tenutasi il 30 luglio 1993 e pubblicata nel volume “Salvatore Annacondia: storia della mafia del nord barese”: «La malavita pugliese è abbastanza pericolosa ed è molto più avanzata delle altre perché ha assorbito tutte le mentalità, sia della mafia siciliana, sia della ‘ndrangheta calabrese, sia, infine, della camorra campana. La Puglia era un campo aperto a tutti».

Proprio il capoluogo divenne uno dei più grandi mercati della droga, come spiegheremo nella prossima puntata, in cui ci soffermeremo sul fenomeno della diffusione del consumo di droga, sulle sue cause, sui suoi effetti e, soprattutto, sui suoi risvolti politici.

A queste dinamiche, purtroppo, non sfuggì neanche a Bitonto. Del resto, che le grandi organizzazioni mafiose avessero allungato i propri tentacoli anche sul nostro territorio lo si può dedurre anche dal tentativo, fortunatamente non andato in porto, di Totò Riina, di acquistare dei terreni e stabilirsi proprio qui in città. Il “Da Bitonto” raccontò questa storia già quattro anni fa, quando, partendo da alcuni fatti accaduti a Valenzano, nell’agosto 2016, sottolineò il rapporto che i mafiosi corleonesi ebbero con Bari e con Bitonto: «Tutto inizia nel 1969, quando Riina, Liggio e altri affiliati mafiosi sono sottoposti, dinanzi alla Corte d'Assise del capoluogo, a un processo con l'accusa di omicidi plurimi, macellazione clandestina e associazione mafiosa. I giudici, però – minacciati qualche giorno prima della sentenza da una lettera fatta recapitare proprio dal boss corleonese – assolvono gli imputati per insufficienza di prove. Riina e Liggio, restano in Puglia e si spostano di qualche chilometro, a Bitonto, dove, almeno inizialmente, alloggiano all'(ei fu) Hotel Nuovo. Nella città dell'olio, Totò u Curtu vorrebbe anche rimanerci, e chiede addirittura la residenza, sostenendo di aver trovato, nel frattempo, un lavoro come commesso dal suo legale di fiducia. Non è tutto, perché sempre in quei giorni, Riina era intenzionato anche ad acquistare un terreno agricolo, non lontano dalla Poligonale. Il 17 giugno 1969, però, i due boss ricevono due fogli di via obbligatori, emessi dal questore di Bari Girolamo Lacquaniti. I due mafiosi, considerati "socialmente pericolosi", ricevono il divieto di soggiornare a Bitonto e in Puglia per 3 anni. Il Capo dei Capi, allora, torna a Corleone, sua città natale».

Ma, al di là della mera cronaca, quel che qui ci interessa più sottolineare è che con il rafforzarsi delle mafie da un lato e la sempre crescente crisi del sistema politico dall’altro, aumentarono anche i casi di corruzione, dal momento che, in un sistema debole, fatto da partiti che sempre più perdevano centralità e potere di controllo, vedevano la propria membership ridursi in termini numerici e di rilevanza, diventavano liquidi e si affidavano a grandi attrattori di consensi locali, diventava più facile far valere, per le organizzazioni criminali, il proprio peso, far sentire la propria voce. E, dunque, dalla debolezza del sistema partitico che aumenterà il fenomeno della corruzione e non dalla sua forza, come sostenne una narrazione antipartitica che si impose successivamente, contribuendo enormemente alla crisi politica dei primi anni ‘90. E che il sistema partitico avesse iniziato a sgretolarsi lo si vedrà già verso la fine degli anni ’70, come spiegheremo più avanti.

Salvatore Annacondia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Salvatore Annacondia (Trani, 31 ottobre 1957) è un mafioso e collaboratore di giustizia italiano.

Vita criminale

Titolare di un noto ristorante di Trani, Salvatore Annacondia è stato a capo della più sanguinosa organizzazione criminale del nord barese che ha seminato paura e morte negli anni '80 e inizi del '90. Dal crollo della prima Repubblica, "Manamozz" (così era chiamato dato che aveva perso l'uso di una mano nella pesca a strascico) cominciò a collaborare con la giustizia ed a svelare i segreti della malavita barese e nazionale.

Negli anni '80-'90 è stato uno dei più importanti boss della malavita del nord barese, e ha operato principalmente nei comuni della Provincia di Barletta-Andria-Trani, tra cui Trani, Bisceglie e Barletta.

Non aderì alla Sacra corona unita di Giuseppe Rogoli, ma entrò nel gruppo mafioso di Cosa Nostra siciliana guidato da Nitto Santapaola, formando un presunto ramo mafioso in Puglia.

Secondo le investigazioni, Annacondia è stato uno degli esecutori dell'omicidio di Antonio Modeo, boss della Sacra corona unita, che sarebbe stato organizzato anche dai fratelli dello stesso Modeo. È stato processato a Bari nel 1990.

Nell'ottobre 1992 iniziò a collaborare con la giustizia perché intristito dal fatto che da quando suo figlio capì che era un criminale e avrebbe potuto morire come suo zio iniziò a deperirsi tale da dover andare in diverse cliniche per curarsi. È considerato uno dei primi collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della mafia pugliese: interrogato dal sostituto procuratore della DNA Alberto Maritati, ha reso dichiarazioni sugli attentati a Roma, Firenze e Milano del 1993, sull'incendio del Teatro Petruzzelli di Bari[10], sulle infiltrazioni della 'Ndrangheta in Lombardia e rivelò di aver corrotto il giudice Corrado Carnevale per avere una sentenza favorevole. Ha svelato inoltre l'organigramma dei clan pugliesi e le sue dichiarazioni sono sfociate nel maxi-processo denominato "Dolmen" con 115 imputati per traffico e spaccio di droga, traffico d'armi, omicidi ed estorsioni, che si concluse nel 2006 dopo otto anni di udienze con 31 condanne all'ergastolo.

A giugno 2018 durante il processo 'ndrangheta stragista in cui si sta accertando un presunto coinvolgimento della mafia calabrese nelle stragi di Cosa Nostra negli anni '90 depone affermando che: "La 'Ndrangheta calabrese è la mamma di tutti, abbracciava tutti i gruppi in Italia: Camorra, Cosa nostra e pugliesi. Non c'era gruppo che non avesse contatti con la Calabria". Parla poi della situazione criminale ai tempi a Milano: "A Milano tutti facevano capo alla famiglia De Stefano di Reggio Calabria facente capo a Tegano, non c’era foglia che si muoveva senza il consenso dei Tegano".

‘Mano Mozza’, genesi e sviluppo del clan Annacondia. Daniela Spera il 25 Maggio 2021 su iltaccoditalia.info.

A partire dalla metà degli anni ’80 ‘mano mozza’, capo di una sanguinosa organizzazione mafiosa, ha seminato terrore fino ai primi anni ’90. La Puglia era un territorio strategico per le cosche calabresi, siciliane e campane. A nord di Bari, c’era terreno fertile per fondare una nuova organizzazione di stampo mafioso. Due giovani giornaliste ci raccontano la mafia pugliese in quegli anni, nel libro ‘Mano Mozza’. A pochi giorni dall’anniversario della strage di Capaci, continuare a parlarne è un dovere.

Qualche giorno fa, il Comando provinciale della Guardia di Finanza di Taranto ha eseguito una misura di custodia cautelare del gip di Lecce per 13 indagati. L’accusa è illecito smaltimento di rifiuti e associazione per delinquere. L’operazione è nata da un sequestro nel torinese. L’indagine, detta All Black, ha riguardato 44 persone e una società della Campania di trattamento dei rifiuti. Vi sono confluite due inchieste, una del Noe di Torino e Lecce e una del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto. L’immondizia era destinata a essere bruciata o tombata nelle campagne. La scelta del Sud Italia, secondo gli inquirenti, è stata dettata dai legami che i capi di questa associazione per delinquere hanno con camorra e ‘ndrangheta.

Una doverosa premessa che ci fa ben comprendere quanto la mafia sia, ancora oggi, ben radicata nei territori. E quanto il Sud Italia sia territorio strategico. La mafia è ovunque. Nessun settore ne è esente. È una piaga che riguarda tutti noi, non solo i magistrati. Ma per contrastare questo mondo sotterraneo occorre conoscerlo. E qualcuno deve raccontarlo. È questo l’obiettivo delle autrici del libro, appena pubblicato, ‘Mano Mozza’, edito da Radici Future.

‘Mano Mozza’ è un titolo forte, d’impatto. È il soprannome di un boss di una cupola mafiosa, Salvatore Annacondia, ma racchiude un mondo che ruota intorno alla criminalità mafiosa pugliese. Racconta la genesi e lo sviluppo di una mafia in un territorio, la Puglia, strategico sia per le cosche calabresi sia per le mafie siciliane e campane.

Il libro è frutto di una collaborazione tutta al femminile. Due giornaliste ripercorrono le fitte trame di una parte della criminalità pugliese, raccontando le verità processuali e dando voce a chi, ancora oggi, combatte la mafia. Da Trani a Barletta, da Molfetta ad Andria.

Valentina Maria Drago è laureata in giurisprudenza, presso l’Università degli Studi di Trento. Ha conseguito un master in Comunicazione presso l’Università Milano –Bicocca e l’abilitazione come giornalista pubblicista. Oggi è una professionista della comunicazione. Lavora in un’agenzia PR e media relation.

Emma Barbaro è una giornalista freelance, autrice di numerose inchieste sul caporalato, agromafie e tratta degli esseri umani. Dal 2016 è caporedattrice del periodico indipendente ‘Terre di Frontiera’ e ha collaborato con La Repubblica di Bari. E’ nata e vive ad Avellino, in Campania. A lei abbiamo chiesto di parlarci di questo libro dal titolo evocativo.

Emma Barbaro

Da dove nasce l’ispirazione per questo libro e perché avete voluto raccontare una parte del mondo della mafia pugliese?

“Mano Mozza” nasce innanzitutto dall’esigenza di colmare un vuoto narrativo. Ho sempre pensato che una storia non esiste se nessuno la racconta. E che, a maggior ragione, non esistano “storie di provincia”. Io e Valentina Drago ci siamo accorte che alla narrazione sulle criminalità pugliesi mancava ancora un tassello fondamentale. E, con l’aiuto dei magistrati e delle istituzioni che quelle mafie le hanno combattute e continuano a combatterle a viso scoperto, abbiamo deciso di provare a colmare quel vuoto. Perché non puoi pensare di sconfiggere un virus purulento che ammala un Paese intero, non solo la Puglia, se prima non lo conosci. Non ci sono rimedi né vaccini se non sai contro chi o cosa combattere. Ecco, la speranza, nel nostro piccolo, e di aver contribuito a farlo.

Spesso anche le questioni ambientali sono al centro di affari malavitosi. In particolare, il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti. In passato hai curato inchieste legate all’eolico. Come si inserisce questo tema nel contesto della mafia?

Anni e anni di inchieste giornalistiche e di processi ci confermano che le questioni ambientali rappresentano un business irrinunciabile per le mafie. Che sull’ambiente, spesso, giocano una partita al ribasso: i traffici di rifiuti o, piuttosto, la corsa all’accaparramento delle nuove e vecchie forme di approvvigionamento energetico servono, nella loro ottica, a reinvestire capitali derivanti da altri tipi di traffici illeciti. E questo è un fatto storico ormai accertato.

Come si muove oggi la mafia?

I mafiosi di oggi raramente cercano lo scontro diretto e, soprattutto, raramente si mostrano per ciò che sono in realtà. La loro indubbia capacità è quella di mimetizzarsi adattandosi all’ambiente, inquinando le regole del mercato e la capacità di scelta, anche politica, del singolo. Per dirla con Nicola Gratteri, la loro sopravvivenza è regolata dalla legge darwiniana dell’evoluzione: per esistere e resistere, devono rendersi invisibili. I business ambientali, dato il contesto, spesso rappresentano una delle leve della loro invisibilità. Una delle più pericolose aggiungerei.

In quanto tempo e con quali mezzi documentali avete ricostruito i fatti?

Per ricostruire eventi, personalità e storie ci abbiamo impiegato oltre un anno e mezzo. Non era semplice. Innanzitutto dovevamo reperire e poi studiare tutti i faldoni dei processi a partire dalla metà degli anni Ottanta fino ai giorni nostri. Parliamo dunque sia di sentenze passate in giudicato, sia di processi ancora aperti. Poi, una volta acquisito tutto il materiale utile, abbiamo intervistato di volta in volta i magistrati e le istituzioni direttamente coinvolti. E anche questo ovviamente ci ha richiesto del tempo.

Chi vi ha dato il maggiore supporto?

In questo lavoro di ricostruzione minuziosa abbiamo ricevuto il supporto di due sostituti procuratori della DDA di Bari, dell’ex coordinatore della DDA di Bari Pasquale Drago, del Generale di Brigata Gerardo Iorio, che attualmente è il Comandante del Gruppo Carabinieri per la Tutela del Lavoro di Roma, del Dottor Francesco Mandoi, procuratore aggiunto della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e del Dottor Leonardo Rinella, che tra il 1989 e il 1993 fu Procuratore della Repubblica presso la Pretura Circondariale di Trani e, successivamente, venne applicato alla DDA di Bari. Insomma, è stato un lavoro lungo, duro e decisamente meticoloso che speriamo possa dare i suoi frutti. Specie in termini di consapevolezza.

Hai mai pensato che questo potesse essere un libro ‘scomodo’ per qualcuno?

Quando si sceglie di scrivere un libro sulle mafie e, soprattutto, su quanto le mafie abbiano inciso e continuino ad incidere su un territorio si parte dall’implicita accettazione del rischio. Che è la stessa accettazione del rischio che qualunque giornalista d’inchiesta sposa nel momento in cui affronta un tema scomodo.

Insomma bisogna parlarne, senza paura…

Se le criminalità si nutrono del silenzio e scelgono di mimetizzarsi nella cosiddetta società civile, ebbene è chiaro che nel momento stesso in cui le si costringe a venire allo scoperto si diviene indesiderabili. Ma non per questo ci si lascia intimidire.

Quale segno vorresti lasciare nei lettori?

Personalmente non ho la presunzione di lasciare il segno in qualcuno. Vorrei lasciar loro in eredità una storia, la nostra storia. Credo questa sia la vocazione più intima di un giornalista che, per come interpreto io questo mestiere, non scrive mai per sé ma sempre per qualcun altro.

Cosa rappresenta per te ‘Mano Mozza’?

Spero che sia una leva della consapevolezza diffusa. E spero possa essere un’arma per conoscere e combattere le mafie.

I segreti mai svelati del pentito Anacondia. A Trani l'ex abitazione. Viene intitolata oggi a Paolo Borsellino l’abitazione tranese dell’ex boss Salvatore Annacondia (in una foto segnaletica dell'epoca). Alla fine degli anni Novanta la «Gazzetta» lo incontrò in una località segreta. Ecco il racconto. GAETANO CAMPIONE e CARMELA FORMICOLA su lagazzettadelmezzogiorno.it il 13 Dicembre 2013 

Viveva sotto falso nome ad Ancona quando lo incontrammo. Volevamo raccogliere i suoi segreti e farne un libro, «La verità del superpentito», o qualcosa del genere. Salvatore Annacondia. Tra gli anni Ottanta e i Novanta il suo nome faceva tremare, sì, anche dopo il suo pentimento, deciso nel 1991, dopo aver guardato negli occhi sua moglie Giusy durante un colloquio nel carcere di Foggia, che gli diceva: «Tuo figlio sta morendo per colpa tua...». Salvatore Annacondia, il boss di Trani. Ma parlare di Trani, come raggio d'azione della sua egemonia (e della sua ferocia) sarebbe senz’altro riduttivo. 

Aveva stretto accordi con mafiosi e imprenditori con giudici e politici. Aveva affari molto grossi in ballo, trafficava in droga, puniva i nemici, aveva capitali investiti in mezzo mondo. Spietato. Intelligente. Occhi di ghiaccio. In una stanza di un albergo tranquillo, dove stabilimmo di incontrarci, davanti a un registratore acceso, si nascondeva il braccio destro con una giacca a quadri, il braccio della mano mancante. Strano vederlo così, un freddo assassino, quasi vergognarsi di quella menomazione fisica. 

Ce lo raccontò subito, come aveva perso la mano. «A 16 anni lavoravo in una marmeria, ed ero anche bravo, ero un lavoratore. Un sabato la mano destra per poco non mi finisce sotto una sega. Mi spaventai da morire. La mattina dopo i miei amici mi dicono vieni andiamo a pesca. Che non era un semplice andiamo a pesca, perché andare a pesca significava pescare di frodo, con l'esplosivo... ma era anche un po' un gioco, una sfida di ragazzi. Insomma era una domenica bella di sole, inizio giugno. Ci buttiamo in acqua e... E dopo... Insomma, mi saltò la mano, con l'esplosivo. In un attimo. Terribile. È allora che sono cambiato, lo so». 

La sua vita ce la raccontò per alcuni giorni, inquietante e violenta, grandiosa come certe saghe di mafia. Poche domande, le nostre, un fiume di parole, le sue. In quella stanza d'albergo, dopo alcune ore, si sciolse una certa freddezza tra noi: lui, il criminale sanguinario, noi i giornalisti sciacalli. «Mi piacete - ci disse a un certo punto - andiamo a pranzo». Pranzo sul mare, ristorantino placido. Menu di pesce, ovviamente. 

Brandendo con la mano sinistra un grosso scampo e staccandogli la testa con un morso, cominciarono le sue memorie di assassino. Sono 72 gli omicidi che si è attribuito, in alcuni casi esecutore, molte più volte mandante. Le sue gesta di boia le ha sempre raccontate con una specie di gusto. Come quando uccise una donna tedesca, la compagna di un commerciante di droga. Erano lì, a casa sua, non avevano ancora pagato la «roba» e, quel che è peggio, non volevano pagarla. «Mi venne una rabbia...» Così spara prima contro di lui poi contro di lei. Era la prima volta che uccideva una donna. «Lei era alta, bella donna, aveva più o meno il tuo fisico, un po' più alta... quando raccogliemmo il cadavere sembrava all'improvviso dimezzata. Sembrava un fuscello, la morte le aveva tolto il peso, il volume». 

Sempre a tavola ci raccontò dell'omicidio di un uomo il cui cognome era Gallo. Gli spara a bruciapelo e quello rotola per le scale, nella sua abitazione, a Trani (quella che oggi diventa a tutti gli effetti un simbolo dell’antimafia). «Stavamo finendo di pulire il sangue che arrivano i carabinieri per il solito controllino... Il maresciallo disse: che è successo? E io “Abbiamo ucciso una gallina"». 

Salvatore Annacondia in quegli anni diventa famoso anche perché i suoi nemici o chi non pagava la droga o chi gli pestava i piedi in qualche modo, veniva ucciso «impilato» nei copertoni degli autotreni ai quali i suoi scagnozzi davano fuoco nelle cave abbandonate alla periferia di Trani. Le vittime venivano «impilate » ancora parzialmente in vita, magari dopo un pestaggio, e poi arse vive. Così fece uccidere anche una donna che andava a dire in giro che Giusy, ai tempi di Milano - dove Salvatore, che all’epoca saccheggiava i treni merci - la conobbe - «faceva la vita».

Giusy è una donna bellissima, almeno lo era quando l'abbiamo conosciuta, oltre 10 anni fa, ad Ancona. Magra e sinuosa, nonostante le quattro gravidanze, silenziosa, discreta, con gli occhi verdi in fondo ai quali avresti potuto cogliere un vaghissimo spavento. 

Spavento per il mondo che si era lasciata alle spalle? O per quello che era nascosto nel futuro? Nelle fotografie del loro matrimonio - lei in un barocchissimo vestito bianco, lui in smoking - che Salvatore ci mostrò nella sua casa anconetana a pochi passi dal mare, lo sguardo di Giusy era ben più fiero. A casa passammo un intero pomeriggio, con i bambini che giocavano in giardino e lui che parlava di cose indefinite, non ultima la nostalgia per la Cattedrale di Trani. «L'ultima volta l'ho vista dall'elicottero, perché sono sceso in Puglia per una testimonianza. L'ho chiesto al pilota: puoi scendere un po’ di quota? Vorrei vedere la Cattedrale».

Puglia, arresto per usura: revocata identità di protezione al pentito Annacondia. Redazione di Borderline24 il 30 Settembre, 2021 

Torna a presentarsi al mondo con il suo nome Salvatore Annacondia, ex boss del nord Barese che negli anni ’90 aveva scelto di collaborare con la giustizia e che, da allora, per circa un ventennio ha vissuto sotto un’altra identità.

Quest’ultima, infatti, sarebbe stata revocata a seguito di un arresto con l’accusa di usura e l’apertura di un fascicolo e di un processo che è tutt’ora in corso. La notizia è stata rivelata, nel corso di un’intervista rilasciata a Telenorba, dallo stesso pentito.

Salvatore Annacondia è stato condannato a 30 anni di reclusione per le sue condotte criminali risalenti ad un periodo precedente agli anni ’90. Successivamente, scegliendo di collaborare con la giustizia, ha permesso l’arresto e le condanne di decine di boss e di affiliati ai clan pugliesi.

Tolta l’identità segreta al pentito Annacondia, fu lui a svelare il nome della mafia foggiana. Su Rizzi disse: “È il Papa della città”. Francesco Pesante  il 30 Settembre 2021 su immediato.net

Negli anni ’90 collaboratore di giustizia, è tornato a chiamarsi con il suo nome. La sua identità di protezione gli è stata infatti revocata. Importanti le sue rivelazioni in alcuni maxi processi.

L’ex boss del nord barese, Salvatore Annacondia detto “Manomozza”, divenuto negli anni ’90 collaboratore di giustizia e che per oltre una ventina di anni ha vissuto con una identità che gli è stata data in virtù della sua collaborazione, è tornato a chiamarsi con il suo nome. La sua identità di protezione gli è stata infatti revocata dopo un arresto per usura e il conseguente processo che è in corso. A rivelarlo – come riporta Ansa – è lo stesso pentito in una intervista ad Antonio Procacci nella trasmissione ‘Il Graffio’ che andrà in onda domani sera su Telenorba. Annacondia, condannato a centinaia di anni di reclusione (poi convertiti in 30 anni) nei maggiori processi alla criminalità organizzata pugliese, ha consentito con le sue rivelazioni l’arresto e le condanne di decine di affiliati e boss di clan pugliesi.

Il nome di Annacondia è legato a doppio filo con la storia della “Società Foggiana”. L’uomo, tranese, è tra i pentiti “forestieri” più noti nella storia della mafia locale. L’ex boss, soprannominato “Manomozza” per aver perso una mano quando era ragazzo a causa di un ordigno, fu a lungo detenuto nel carcere di Foggia. Negli anni ’90, proprio mentre si trovava nel penitenziario dauno, Annacondia decise di collaborare confessando decine di omicidi tra commessi e ordinati. Fu sentito persino nel processo sulla trattativa Stato-Mafia a Palermo.

“Manomozza” rivelò di essere tra gli autori materiali della triplice lupara bianca di San Giovanni Rotondo nel 1991, quando ebbe l’incarico di sequestrare un garganico coinvolto in una guerra di mafia tra Lombardia e Campania. Annacondia avrebbe dovuto sequestrarlo e consegnarlo alla ‘ndrangheta ma il piano fallì. Tre persono furono uccise e bruciate in una discarica di Trani. Il criminale tranese prese parte anche al processo “Panunzio” degli anni ’90, terminato con il riconoscimento giudiziario della mafia foggiana, e fu lui a spiegare che l’organizzazione malavitosa si chiamava “Società”. Giosuè Rizzi, storico boss foggiano, ucciso in via Napoli nel 2012, venne soprannominato “il Papa di Foggia” proprio da Annacondia. (In foto, da sinistra, Giosuè Rizzi e Salvatore Annacondia; sullo sfondo, il corpo di Rizzi)

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“In carcere avevo pistole, champagne e cocaina”. Le rivelazioni di Annacondia: “Capace di mangiare un cuore crudo”. Di Redazione su immediato.net il 3 Ottobre 2021 

Il capomafia tranese negli anni ’80 e ’90 ha perso l’identità segreta e in un’intervista esclusiva a Telenorba si scaglia contro lo Stato: “Uffici deviati”. E sul caso De Benedictis: “Non mi meraviglia”.

“Sono capace di mangiare un cuore crudo e sparare da 40 metri colpendo il bersaglio. Lo Stato non sfidasse tanto le persone, pensasse a garantire la sicurezza. Tu non puoi istigare a farmi ritornare a quello che ero”. Sono le parole, molto forti, pronunciate dall’ex boss pentito Salvatore Annacondia, 64enne tranese detto “Manomozza”. Il capomafia incontrastato negli anni ’80 e ’90 è stato intervistato da Antonio Procacci a “Il Graffio”, trasmissione di Telenorba. Per oltre una ventina di anni, Annacondia ha vissuto con un’identità segreta ma ora è tornato a chiamarsi con il suo nome. La sua identità di protezione gli è stata infatti revocata dopo un arresto per usura e il conseguente processo che è in corso. Condannato a centinaia di anni di reclusione (poi convertiti in 30 anni) nei maggiori processi alla criminalità organizzata pugliese, “Manomozza” ha consentito con le sue rivelazioni l’arresto e le condanne di decine di affiliati e boss di clan pugliesi. Compresi i capi delle batterie di Foggia e provincia.

A Telenorba, l’ex pentito dichiara: “Oggi la mia paura non è la criminalità organizzata, ognuno risponde delle proprie azioni. Ma io ho paura dello Stato e delle forze dell’ordine al suo servizio. Parlo di uffici deviati dello Stato”.

Poi un commento sulla corruzione nel mondo giudiziario pugliese, travolto in questi mesi dal caso dell’ex gip De Benedictis, arrestato con l’accusa di aver agevolato la scarcerazione di presunti mafiosi. “Il caso De Benedictis? Non mi meraviglia niente”, dice Annacondia. L’ex pentito ha svelato di avere anche lui, in passato, manipolato alcune decisioni giudiziarie come un ordine di scarcerazione a suo favore ad inizio degli anni ’90 quando era in carcere a Foggia. Una scarcerazione impedita in extremis grazie all’intervento dell’integerrimo Pasquale Drago, già coordinatore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari.

“In carcere c’è la mamma della corruzione – le parole di Annacondia -. Oggi trovano i telefoni in cella? Io in carcere possedevo pistole, champagne e cocaina. E mangiavamo aragoste. Avevamo tutto. Era un albergo a 5 stelle. Si è più sicuri in carcere che da pentito”. 

I collegamenti con Foggia

Il nome di Annacondia è legato a doppio filo con la storia della “Società Foggiana”. L’uomo, tranese, è tra i pentiti “forestieri” più noti nella storia della mafia locale. L’ex boss, soprannominato “Manomozza” per aver perso una mano quando era ragazzo a causa di un ordigno, fu a lungo detenuto nel carcere di Foggia. Negli anni ’90, proprio mentre si trovava nel penitenziario dauno, Annacondia decise di collaborare confessando decine di omicidi tra commessi e ordinati. Fu sentito persino nel processo sulla trattativa Stato-Mafia a Palermo.

Giosuè Rizzi e Annacondia; sullo sfondo, l’omicidio del “Papa”

“Manomozza” rivelò di essere tra gli autori materiali della triplice lupara bianca di San Giovanni Rotondo nel 1991, quando ebbe l’incarico di sequestrare un garganico coinvolto in una guerra di mafia tra Lombardia e Campania. Annacondia avrebbe dovuto sequestrarlo e consegnarlo alla ‘ndrangheta ma il piano fallì. Tre persono furono uccise e bruciate in una discarica di Trani. Il criminale tranese prese parte anche al processo “Panunzio” degli anni ’90, terminato con il riconoscimento giudiziario della mafia foggiana, e fu lui a spiegare che l’organizzazione malavitosa si chiamava “Società”. Giosuè Rizzi, storico boss foggiano, ucciso in via Napoli nel 2012, venne soprannominato “il Papa di Foggia” proprio da Annacondia.

Annacondia in tv: «Lo Stato mi ha tradito ed oggi sono un fantasma. Ho avuto Trani nelle mie mani, ma non ci tornerei». Di Nico Aurora il 2 Ottobre 2021 su ilgiornaleditrani.net. 

«Ho avuto Trani nelle mie mani, ma non so se ci tornerò. Di certo, lo Stato mi deve prima restituire una identità, perché oggi sono un fantasma». Così Salvatore Annacondia, intervistato da Antonio Procacci nell’ambito della rubrica «Il graffio», di Telenorba, la trasmissione di Enzo Magistà che ha focalizzato l’attenzione sull’ex boss del nord barese divenuto collaboratore di giustizia, e per 30 anni sottoposto a protezione nell’ambito del patto stipulato con lo Stato in cambio delle sue dichiarazioni.

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Per tutto questo tempo ha vissuto nelle Marche con un altro nome e cognome e rifacendosi una vita grazie anche al fondo specificatamente destinato ai collaboratori di giustizia. Il suo ristorante in quel di Civitanova Marche è stato molto frequentato anche da personaggi di spicco del jet set e è sembrato voltare veramente pagina rispetto al suo passato.

Ciononostante, come in più di un’occasione il sito Cronache maceratesi ha posto in risalto, Annacondia è stato indagato in alcuni procedimenti penali avviati dalla Procura della Repubblica di quel luogo ed oggi e sotto processo per uno di quelli.

Tanto è bastato per fare decadere le tutele della protezione e farlo ritornare a tutti gli effetti Salvatore Annacondia, sebbene senza i documenti: «Sono un fantasma per colpa dello Stato», ha dichiarato al microfono e con la sola tutela dell’oscuramento del volto. Pochi, però, i peli sulla lingua soprattutto per richiamare la sua forte personalità criminale.

Eppure, da ragazzo, poco c’era mancato che Salvatore Annacondia sfondasse nel mondo del cinema: «Avevo 13 anni, lavoravo in un locale di Milano e incontrai casualmente Federico Fellini: mi voleva a Roma ma non ci andai perché il destino ha voluto che facessi altro».

Di quell’altro Annacondia non mostra pentimento, tanto da affermare che ancora oggi, se volesse, sarebbe in grado di sparare a 40 metri di distanza e centrare l’obiettivo.

Ciò che oggi ha determinato il suo nuovo ingresso in scena è quello che lui definisce un “tranello” dello Stato: «Ho aiutato in tutte le maniere la magistratura nelle sue indagini e cosa ho avuto in cambio? Ritrovarmi adesso ad essere un fantasma perché ci sono settori della pubblica amministrazione che non funzionano».

Annacondia dice di vivere alla giornata e non sapere scrutare il suo futuro, ma sul passato è lucido e spietato: «Ho commesso più crimini del diavolo, ma non ho mai fatto né usura, né estorsioni perché non mi è mai piaciuto succhiare il sangue delle persone. Certo, ho avuto in mano la vita delle persone ma ho anche fatto del bene a tanti e aiutato chi di dovere nel fare indagini che, diversamente non si sarebbero fatte: meritavo rispetto e lo Stato non deve sfidarmi a ritornare quello che ero».

Annacondia non nasconde di avere paura di ritorsioni, «perché una persona deve vivere nella paura se vuole vivere», ma forse è proprio per questo che dichiara di non volere tornare a Trani, anche se la tentazione sarebbe forte.

Su Trani, però, dipinge con incredibili lucidità, orgoglio e compiacenza, un passato in cui lui era «la» città in tutti i sensi: «Ho corrotto forze dell’ordine e magistrati, in carcere ho fatto entrare di tutto fra armi, droga, champagne e bische. Il carcere con me era un albergo a cinque stelle, anche se con le sbarre. E a chi dice che con me Trani era una città avvolta nel terrore rispondo che, invece, fui proprio io a trasformarla: feci trasferire i malfamati alla 167, aprii il mio ristorante e feci illuminare tutto il porto, subito dopo con l’Amet facemmo la stessa cosa nel centro storico. Con me a Trani c’era la tranquillità. Certo, ci furono anche gli omicidi, ma lontano dalla gente, perché fra la gente si stava sereni».

I delinquenti di oggi agiscono con il metodo mafioso evocando il suo nome, e Annacondia cosa risponde loro? «Scordatevi di me e trovatevi un lavoro onesto. Io ero quasi in ufficio di collocamento e ho aiutato tante persone, oggi aiutate voi stessi lavorando in tutta onestà.

Quanto al proposito di fare saltare la cattedrale, Annacondia chiude davvero col botto: «Avrei voluto lasciare un segno di me in quel modo, ma poi amavo così tanto la mia città che non solo ci rinunciai, ma l’ultima cosa che feci fa farla illuminare».

Fra gli ospiti della trasmissione il dottor Pasquale Drago, il magistrato che nel 1991 fece arrestare Annacondia prima che si imbarcasse per Cipro: «Quello che ha dichiarato davanti alle telecamere conferma la sua rilevante personalità, purtroppo criminale. Certamente, oggi qualcuno coverà vendetta nei suoi confronti e non posso non essere preoccupato per la fine del programma di protezione, perché questo potrebbe mettere in pericolo l’ordine pubblico».

L’avvocato penalista Michele Laforgia è parso Invece poco tenero nei confronti dell’ex boss: «Un grande seduttore, le cui dichiarazioni spesso sono state veritiere ma in altre occasioni del tutto infondate come nel caso dell’incendio del teatro Petruzzelli. Certamente non possiamo sentirci persino in debito con chi ha commesso almeno 50 omicidio e concorso in altri 200».

Il difensore di Annacondia, Gabriele Cofanelli, ha parlato invece di «scelta drastica e tecnicamente sbagliata dello Stato. Il processo in cui il mio assistito è imputato è ancora in corso e la privazione dell’identità è alquanto incomprensibile, soprattutto perché oggi Salvatore Annacondia svolge un lavoro onesto e vive una vita dignitosa».

Il sindaco Amedeo Bottaro, chiamato in causa dallo stesso Annacondia, risponde così: «Non sono stato certo io a ripulire la città dopo di lui, ma una magistratura cui dovremmo essere sempre grati. Spiace che ancora oggi questa persona parli utilizzando termini mafiosi, facendo comprendere di essere ancora in grado di scatenare l’inferno. Però prendo per buono quello che dichiara alla fine, quando si rivolge ai giovani invitandoli a non seguire il suo esempio: fa bene e speriamo che la stessa cosa valga anche per lui, rispetto al suo passato».

Salvatore Annacondia, lo Stato revoca al più importante boss pugliese la nuova identità dopo trenta anni. Stasera intervista tv". Noinotizie.it l'1 Ottobre 2021. 

Matteo Messina Denaro in macchina, nel dicembre 2009, nella campagna dell’agrigentino. Lato passeggero. Pochi fotogrammi, da telecamere piazzate nei pressi di casa del boss Pietro Campo. Esclusiva tg2. In tema di mafia e criminalità organizzata, ecco in arrivo un’altra esclusiva. È di telenorba.

Di seguito il comunicato:

Salvatore Annacondia, a capo della più sanguinosa organizzazione criminale pugliese degli anni Ottanta e Novanta, è tornato. Trent’anni dopo il suo arresto e la lunga collaborazione con la giustizia, il boss del nord barese ha di nuovo il suo vecchio nome. A rivelarlo è lui stesso in un’intervista esclusiva rilasciata ad Antonio Procacci e che andrà in onda venerdì 1 ottobre, alle 21.20, al Graffio, il programma condotto dal direttore Enzo Magistà e in onda alle 21.20 su Telenorba e TgNorba24.

Lo Stato ha revocato l’identità con cui “manomozza” si era rifatto una vita, gettandosi alle spalle un curriculum che l’ha portato ai vertici della criminalità organizzata in Italia: 70 omicidi per sua mano, oltre 200 uomini e donne uccisi per sua volontà, narcotrafficante internazionale, vicino ai massimi esponenti della ‘ndrangheta. Clamorosa anche la sua collaborazione con lo Stato: migliaia di persone arrestate e condannate grazie alle sue dichiarazioni, testimone nei più importanti maxi processi italiani.

Nella prima puntata stagionale del Graffio, a cui interverranno il magistrato Pasquale Drago, già coordinatore della Ddi di Bari, il sindaco di Trani Amedeo Bottaro e l’avvocato penalista Michele Laforgia, sarà trasmessa la prima parte di un’intervista esclusiva ad Annacondia, che parla per la prima volta in tv. Si parlerà delle ultime vicende, quello che lui definisce il tradimento dello Stato ai danni dei pentiti, della sua famiglia, del rapporto con Trani, anche con una incredibile rivelazione. E poi ancora le mafie pugliesi, la corruzione di giudici e delle forze dell’ordine, gli omicidi, gli agguati clamorosi falliti, un autentico fiume in piena. 

Salvatore Annacondia, il boss pugliese avrebbe dovuto ammazzare Totò Riina ma sbagliò macchina. INTERVISTATO DA "IL GRAFFIO" HA ANCHE RICOSTRUITO LO STERMINIO NELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DI TARANTO. Noinotizie.it il 9 Ottobre 2021.  

Di seguito un comunicato diffuso da Telenorba:

“Totò Riina doveva morire, per mano mia, nel 1989. Fallimmo per uno sbaglio di macchina”. Lo ha raccontato Salvatore Annacondia, a capo della più sanguinosa organizzazione criminale pugliese degli anni Ottanta e Novanta, nell’intervista esclusiva rilasciata ad Antonio Procacci e andata in onda ieri sera al Graffio, il programma di approfondimento di Telenorba condotto dal direttore Enzo Magistà.

Manomozza, così era chiamato il boss di Trani, ha raccontato che a chiedergli di uccidere il capo di Cosa Nostra fu un pezzo grosso della ‘ndrangheta. Gli disse giorno e ora in cui Riina sarebbe transitato su una strada nei pressi di Como. “Ci appostammo, doveva passare di là alle 15.30”, ricorda Annacondia. “Mimmo Tegano mi disse che sarebbe passata una Twin Spark rossa e che cinque minuti dopo sarebbe passato Riina a bordo di un Mercedes 5.000. Quando passò la Twin Spark ci preparammo, ci mettemmo in mezzo alla strada. Vedemmo il Mercedes, ma all’ultimo momento ci accorgemmo che era un 200 E, a bordo c’era due anziani. Con la coda dell’occhio vidi il 5000 che girò e andò via. Il tempo di metterci in macchina e li perdemmo. Non avessi fallito i giudici Falcone e Borsellino e tanta altra gente sarebbe ancora in vita”.

Nella trasmissione di ieri è andata in onda la seconda parte dell’intervista (la prima andò in onda venerdì 1 ottobre). Annacondia ha parlato anche dell’omicidio di un ragazzo di Trani, tale Giovanni, l’unico che porta sulla coscienza degli oltre 200 omicidi di cui è stato incolpato. “Non meritava di morire, mi sono fidato di uno dei miei uomini, per la prima volta non ho ragionato”, ha detto, quasi commosso, Annacondia. “Vorrei che la famiglia mi perdonasse”. Nessun pentimento, invece, per tutti gli altri delitti. “Mai ucciso gente che non c’entrava”, ha sottolineato.

Manomozza ha parlato anche dei suoi rapporti con gli altri clan pugliesi: “Tonino Capriati nell’86 aveva delle quote con noi nel contrabbando di sigarette, Gianfranco e Claudio Modeo mi chiesero di sistemare la guerra a Taranto nell’88 e gliel’ho sistemata, tutti i vertici che contavano furono tutti ammazzati”.

Annacondia: «Stavo per uccidere Riina, avrei salvato Falcone e Borsellino». Bari, l’ex boss pentito parla in una intervista tv dell’attentato fallito. Romolo Rossi su Il Corriere del Mezzogiorno il 12 ottobre 2021.

Totò Riina il boss dei corleonesi, capo della mafia stragista degli anni ‘90, sarebbe dovuto morire per mano di un altro boss, Salvatore Annacondia numero uno della più potente organizzazione criminale pugliese degli anni ‘80 e ‘90, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. È stato lui stesso a raccontarlo nel corso di una intervista esclusiva rilasciata all’emittente pugliese Telenorba, nel programma Il Graffio. Annacondia, detto Manomozza, ha rivelato la circostanza inedita che sarebbe stato un capo ndrangheta a chiedergli di uccidere Salvatore Riina. L’attentato a Riina sarebbe stato quindi pianificato anche in base alle indicazioni della ‘Ndrangheta. Annacondia e soci sapevano il giorno in cui Riina sarebbe passato in auto su una strada nei pressi di Como. Il commando si appostò in attesa di una Mercedes 5000 con a bordo Riina, preceduta da una Twink Spasrk rossa. «Ci appostammo pronti a entrare in azione — spiega Annacondia — ma all’ultimo momento ci accorgemmo che la Mercedes non era quella giusta e a bordo c’erano due anziani, mentre l’auto di Riina», evidentemente messa sull’avviso dai movimenti sospetti, «girò e andò via. Se non avessimo fallito — continua Annacondia — i giudici Falcone e Borsellino e tante altre persone oggi sarebbero ancora vive». 

Trani – L’accusa di Annacondia: “per lo Stato sono un fantasma”. "Volevo far saltare la Cattedrale". Antonella Loprieno su batmagazine.it il 2 ottobre 2021. 

Annacondia, lo Stato sotto accusa.

E’ in sintesi il contenuto delle dichiarazioni di Salvatore Annacondia durante l’intervista rilasciata al giornalista Antonio Procacci durante la trasmissione “Il Graffio” di Telenorba condotta dal direttore Enzo Magistà.

Spazio a “manomozza”, Salvatore Annacondia , ex boss della malavita del nord barese per aver commesso almeno 50 omicidi e concorso in altri 200.

Nato e vissuto a Trani, è diventato poi collaboratore di giustizia. Per 30 anni ha vissuto sotto protezione dello Stato in cambio di nomi e fatti.

Stato che, a sentirlo, gli avrebbe tolto l’identità facendolo diventare un fantasma.

Attualmente abita nelle Marche dove ha vissuto con un altro nome e cognome. Gestisce un ristorante a Civitanova Marche. Anche qui le cronache si sono occupate di lui in quanto indagato ed ancora sotto processo per procedimenti penali della Procura della Repubblica marchigiana.

Procedimenti che hanno fatto decadere il regime di protezione facendolo tornare ad essere Salvatore Annacondia, ma senza identità perche non ha i documenti.

Pertanto, dice, resto un fantasma per colpa dello Stato. A Trani, non so se ci ritornerò, eppure ho avuto la città nelle mie mani”, ma poi aggiunge che “la tentazione è forte”.

Certo avrebbe potuto avere la città nelle sue mani diversamente, facendola conoscere nel mondo, ma “il destino, continua ancora, ha voluto che facessi altro.

Avevo 13 anni, lavoravo in un locale di Milano e incontrai casualmente Federico Fellini: mi voleva a Roma ma non ci andai, anche Maiorca quando venne a Trani mi avrebbe voluto alla sua scuola di Genova perche sott’acqua si accorse che avevo fiato da vendere”.

Non si pente di quanto ha fatto: “ho commesso più crimini del diavolo, ma non ho mai fatto né usura, né estorsioni perché non mi è mai piaciuto succhiare il sangue delle persone. Ho aiutato chi di dovere nel fare indagini che diversamente non si sarebbero fatte. Meritavo rispetto e invece cosa ho avuto in cambio? Ritrovarmi adesso ad essere un fantasma.

Non nasconde le sue malefatte a Trani: “ho corrotto forze dell’ordine e magistrati, in carcere ho fatto entrare di tutto fra armi, droga, champagne e bische. Il carcere con me era un albergo a cinque stelle, anche se con le sbarre.

Si vanta perfino di aver trasformato la città: ”feci trasferire i malfamati alla 167, aprii il mio ristorante e feci illuminare tutto il porto, subito dopo con l’Amet facemmo la stessa cosa nel centro storico. Con me a Trani c’era la tranquillità. Certo, ci furono anche gli omicidi, ma lontano dalla gente.

Conclude con una frase inquietante riferendosi al suo intento di far saltare la Cattedrale: “avrei voluto lasciare un segno di me in quel modo, ma poi amavo così tanto la mia città che non solo ci rinunciai, ma l’ultima cosa che feci è farla illuminare”.

Un plauso all’operato della magistratura è giunto dal sindaco di Trani, Amedeo Bottaro. Delle parole di Annacondia tiene per buone il monito lanciato ai giovani quando li ha invitati a non seguire il suo esempio. Bottaro si augura, infine, che la stessa cosa valga anche per lui, rispetto al suo passato. 

Camera dei Deputati- Senato della Repubblica

XI Legislatura

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLA MAFIA E SULLE ASSOCIAZIONI CRIMINALI SIMILARI

Seduta di venerdì 30 luglio 1993

Presidenza del Presidente Luciano Violante

Audizione del Collaboratore di Giustizia Salvatore Annacondia

La seduta comincia alle 10,20. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente) .

Audizione del collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia.

PRESIDENTE. Signor Annacondia, lei è davanti alla Commissione parlamentare antimafia che intende porle alcune domande sull'organizzazione criminale di cui lei ha fatto parte. Una prima serie di domande le sarà posta da me, mentre una seconda tornata direttamente dai commissari. Innanzitutto le chiediamo di dire come si chiama, quando è nato, che

scuole ha frequentato e che lavoro ha svolto; mi riferisco al lavoro lecito, se ne ha svolto uno.

SALVATORE ANNACONDIA. Mi chiamo Annacondia Salvatore, sono nato a Trani il 31 ottobre 1957. Titolo di studio è la terza media.

PRESIDENTE. Ha svolto qualche attività lavorativa?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, commerciante.

PRESIDENTE. In che cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Di abbigliamento, di accessori vari, sanitari, ceramiche.

Le parti sostituite dalla parola OMISSIS sono state segretate con delibera della Commissione del 3 agosto 1993.

PRESIDENTE. Quando è entrato a far parte della criminalità organizzata pugliese?

SALVATORE ANNACONDIA. Sono entrato a far parte della vita tra il 1974 e il 1975.

PRESIDENTE. Quando ha detto che è nato?

SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1957.

PRESIDENTE. Quindi, a 17-18 anni?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. In Puglia oppure in altri posti?

SALVATORE ANNACONDIA. Emigrai dalla Puglia a Milano.

PRESIDENTE. Andò dalla Puglia a Milano?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Nel 1976 ero già a Milano.

PRESIDENTE. E come entrò? Aveva già contatti con la criminalità quando andò a Milano?

SALVATORE ANNACONDIA. I contatti con la criminalità erano amici locali che si erano già trasferiti anni prima a Milano.

PRESIDENTE. Quindi, lei prese contatto con questi suoi amici a Milano?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare come avvenne poi la sua lenta salita nel mondo criminale?

SALVATORE ANNACONDIA. I primi anni di vita nel mondo, nell'ambiente, si svolsero intorno al 1976 quando andai a Milano e conoscevo degli amici miei di Trani, che da molti anni erano già emigrati a Milano. I primi anni della mia vita si sono svolti su a Milano quando andavamo a rubare sui treni davanti ai semafori, nelle ferrovie.

PRESIDENTE. Può spiegare cosa vuol dire che rubavate sui treni?

 SALVATORE ANNACONDIA. Aspettavamo davanti ai semafori. Quando passavano i treni merci e si fermavano al semaforo rosso noi tagliavamo il blindo, aprivamo e scaricavamo la merce che stava. Questo fatto durò per un annetto, alcuni anni; e la testa iniziava a capire di più, perché vivendo al nord non è come vivere al sud, si imparano tante cose.

Questo per dirle che la vita che si può svolgere su al nord, a Milano, non si poteva svolgere al sud. Si inizia a conoscere il fior della vita, conoscendo locali notturni; iniziando a frequentare altri ambienti si insegnano tante cose. Perché quello che noi non avevamo al sud l'abbiamo capito su al nord, abbiamo intrapreso la loro mentalità, diciamo dell'ambiente vero della malavita. Questo abbiamo portato al sud poi.

PRESIDENTE. Quindi, a Milano lei è entrato in contatto con una mentalità criminale più organizzata, più dinamica. Questo vuol dire?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché i piccoli ladruncoli che eravamo al paese, vivendo su al nord, abbiamo potuto capire cos'era stare sul marciapiede.

PRESIDENTE. Cosa intende per "stare sul marciapiede"?

SALVATORE ANNACONDIA. Stare sul marciapiede sarebbe la strada.

PRESIDENTE. A Milano è entrato in contatto con qualche criminale o con qualche organizzazione criminale particolarmente importante?

SALVATORE ANNACONDIA. In quegli anni iniziammo a conoscere qualcuno, poi me ne tornai giù al paese dove, nel 1978, fui arrestato per la prima volta. Uscii dal carcere con gli obblighi della sorveglianza. La mia vita è iniziata nel 1981, 1980-1981, quando ci inserimmo proprio in un altro ambiente, facemmo il primo salto di qualità. Si fondò a Trani una cooperativa per ex detenuti ed iniziammo, tramite un'altra persona - di cui non posso fare il nome perché coperto da segreto istruttorio per le indagini in corso - ad avere prime esperienze, come appalti...

PRESIDENTE. Andiamo con ordine. Lei stava a Milano ed io prima le ho chiesto se era entrato in contatto con qualche organizzazione criminale o con qualche criminale importante.

SALVATORE ANNACONDIA. Guardi, signor presidente, all'epoca - come le ho detto - eravamo giovani, conoscevamo tanta gente ma noi avevamo la testa a modo nostro. Cercavamo di opzionare proprio le loro idee e di questo noi abbiamo portato tutto giù.

PRESIDENTE. Ho capito, però può rispondere con precisione alla domanda? Lei ha conosciuto a Milano una organizzazione criminale particolare o dei criminali importanti particolari?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Chi sono?

SALVATORE ANNACONDIA. Questi li ho conosciuti negli anni successivi.

PRESIDENTE. Ho capito, dopo.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché in quegli anni si conoscevano tante persone, ma eravamo dei giovanotti. Potevamo solo servire.

PRESIDENTE. Adesso ho capito. Poi lei è tornato giù.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Giù è stato arrestato. Per che cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. La prima volta fui arrestato per furto.

PRESIDENTE. Poi uscì e si inserì in questa cooperativa di ex detenuti.

SALVATORE ANNACONDIA. La costituimmo proprio questa cooperativa per ex detenuti.

PRESIDENTE. Che attività lavorativa svolgeva questa cooperativa?

SALVATORE ANNACONDIA. Si occupava di parcheggi, pulizie in pretura, una serie di tipi di appalti. Nel 1981 ci fu un' escalation particolare ed iniziammo a prendere il controllo del territorio.

PRESIDENTE. Quando parla di "territorio", a quale zona si riferisce?

SALVATORE ANNACONDIA. Iniziammo con Trani. Poi, pian piano, cominciammo ad avere altre conoscenze, altre persone...

PRESIDENTE. Perché parla del 1981? Cosa segna questa data?

SALVATORE ANNACONDIA. Il 1981 è l'anno in cui per la prima volta facemmo un tentato omicidio. La situazione è andata avanti per tutto il 1981 ed il 1982 ed il nostro capo non dico che fu decimato, ma si allontanò per paura delle nostre menti: oramai, lo avevamo superato.

PRESIDENTE. All'epoca, chi era il vostro capo?

SALVATORE ANNACONDIA. Chiamiamolo capo... Era un tale Nicola Delisanti, un grosso cervellone nell'imprenditoria. Poi è accaduto che nel 1983 fui arrestato per omicidio, tentato omicidio e porto abusivo di armi. Questo ha segnato la mia scalata ai vertici.

PRESIDENTE. Ciò perché si trattò di un delitto importante?

SALVATORE ANNACONDIA. Era un delitto importante, molto importante, perché questo ragazzo aveva una fama...

PRESIDENTE. Si riferisce alla persona che fu uccisa?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Aveva una fama di grande picchiatore. Dopo questo omicidio, ampliai le mie amicizie nelle carceri, all'epoca in cui si è cominciata a costituire la vera malavita in Puglia, negli anni ottanta, nel 1983...

PRESIDENTE. Quindi, la vera malavita in Puglia si costituisce nei primi anni ottanta.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare le caratteristiche della criminalità pugliese?

SALVATORE ANNACONDIA. La malavita pugliese è abbastanza pericolosa ed è molto più avanzata delle altre perché ha assorbito tutte le mentalità, sia della mafia siciliana sia della 'ndrangheta calabrese sia, infine, della camorra campana. La Puglia era un campo aperto a tutti. In tutti gli anni di frequentazione con queste persone abbiamo assorbito la loro mentalità e si è iniziata a costituire la Sacra corona unita.

PRESIDENTE. Lei ne ha fatto parte?

SALVATORE ANNACONDIA. Non ho fatto parte della Sacra corona unita perché noi eravamo in un altro territorio e non abbiamo aderito...

PRESIDENTE. In quale parte della Puglia si muoveva la Sacra corona unita?

SALVATORE ANNACONDIA. La Sacra corona è stata fondata a Lecce.

PRESIDENTE. Voi, invece, eravate a Trani.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, eravamo nel nord-barese.

PRESIDENTE. Quando lei parla di "noi", a chi si riferisce?

SALVATORE ANNACONDIA. Quando parlo di "noi", mi riferisco a me ed al mio gruppo.

PRESIDENTE. Ho capito. Quindi, voi non aderiste alla Sacra corona unita.

SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1984 non aderimmo alla Sacra corona unita perché bisognava vedere un po' le caratteristiche di questa associazione, di questa fondazione. La Sacra corona unita si costituì a livello regionale. All'epoca, nei primi anni, non era altro che una famiglia, anche se abbastanza ampia. Nel 1986 iniziarono le rotture nella Sacra corona unita, che allargò il suo territorio anche su tutto Brindisi, paese nativo di Pino Rogoli.

PRESIDENTE. Rogoli era del brindisino, di Mesagne.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, di Mesagne. Ci fu una grossa rottura. Fu trovato un documento di Pino Rogoli a Porto Azzurro nel quale egli dichiarava di aver fondato questa famiglia per contrastare i napoletani. In realtà, si iniziò per il contrasto tra queste famiglie...

PRESIDENTE. In realtà...?

SALVATORE ANNACONDIA. Si fondò la Sacra corona unita, che fu data dalla Calabria, dalla 'ndrangheta, per le idee di Pino Rogoli che voleva contrastare i napoletani; in realtà, non era per contrastare i napoletani, ma per fondare una nuova generazione. Ciò significava avere la santizzazione di questa famiglia.

PRESIDENTE. Cosa vuol dire "santizzazione"?

SALVATORE ANNACONDIA. Per dare il nome "Sacra corona unita" significa che all'epoca in Puglia non vi erano capintesta. Noi l'abbiamo ottenuta... L'hanno ottenuta attraverso la Calabria perché il padre della Sacra corona unita era Umberto Bellocco, grande 'ndranghetista, uno dei capi decimi della 'ndrangheta.

PRESIDENTE. Cosa fece questo Bellocco?

SALVATORE ANNACONDIA. Dette le regole della Sacra corona unita.

PRESIDENTE. Può spiegarci meglio questo aspetto? Se non abbiamo capito male, la santizzazione si ha quando un'organizzazione più importante ne legittima un'altra.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, quando legittima un'altra organizzazione. Ci vogliono almeno dieci persone che siano capi, che abbiano il capo decima, ossia un sestino.

PRESIDENTE. Chi è il sestino?

SALVATORE ANNACONDIA. E' il massimo del grado. Il settimo grado è il massimo. Per dare un grado del genere come capo decima, ci vogliono dieci famiglie che si debbono riunire.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Queste dieci famiglie a quell'epoca non c'erano in Puglia. Quindi, tutto è stato dato dalla Calabria. Adesso in Puglia si può formare un capo decima.

PRESIDENTE. Lei ha detto che all'epoca non vi erano in Puglia le dieci famiglie che avrebbero potuto creare questa struttura, per cui Bellocco, dalla Calabria, autorizzò...

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, lui ha dato tutte le regole alla Sacra corona unita.

PRESIDENTE. Quali sono le regole ed i gradi della Sacra corona unita?

SALVATORE ANNACONDIA. Il primo grado è il picciotto; dopo il picciotto, viene il camorrista; dopo il camorrista, lo sgarrista; dopo lo sgarrista, vengono il santista, il vangelo e poi il sestino. Dopo il sestino, viene il capo mandamentale, il settimo grado. Dal primo al secondo grado si è picciotti o camorristi. Lo sgarrista ha una piccola zona, che può innalzare sotto la sua responsabilità. Il santista è un capo zona, un capofamiglia. Di seguito viene il vangelo, come il crimine, tutte cose che rappresentano un gruppo...

PRESIDENTE. Il vangelo è un gruppo grande?

SALVATORE ANNACONDIA. E' un capo zona, è un capo famiglia, più alto del santista.

PRESIDENTE. Dopo il vangelo viene il sestino?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. E poi?

SALVATORE ANNACONDIA. Poi viene il capo mandamentale.

PRESIDENTE. Da quanto tempo esistono questi gradi?

SALVATORE ANNACONDIA. Sono centinaia d'anni che esistono queste cose.

PRESIDENTE. Si riferisce alla Calabria?

SALVATORE ANNACONDIA. Tutto questo è stato fondato molti anni fa, centinaia di anni fa.

PRESIDENTE. Questi gradi li avete acquisiti dalla Calabria, dalla 'ndrangheta?

SALVATORE ANNACONDIA. La Sacra corona unita è stata fondata dalla Calabria.

PRESIDENTE. Lei ha detto che ciò è accaduto nei primi anni ottanta. Poiché dice che risalgono a centinaia di anni fa...?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, le regole.

PRESIDENTE. Le regole calabresi?

SALVATORE ANNACONDIA. Le regole sono uguali per tutti non è che i calabresi abbiano un'altra regola. Nell'innalzamento può comunque cambiare qualche cosa.

PRESIDENTE. Le regole sono più o meno comuni a tutti, se ho ben capito.  Lei che grado ha rivestito in questa organizzazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Ho il grado di santista perché non ne ho voluti prendere altri perché, per me, prendere il massimo dei gradi non era un problema; in qualsiasi momento lo volevo...

PRESIDENTE. Perché lei aveva un certo peso?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Per quanto tempo ha rivestito il grado di santista? Finché non è stato arrestato ed ha deciso di collaborare?

SALVATORE ANNACONDIA. Il grado di santista non lo può togliere nessuno. Si può togliere fino allo sgarrista. Per togliere il grado di santista sono le ceneri sparse al vento e non si possono raccogliere queste ceneri.

PRESIDENTE. Ci spieghi bene.

SALVATORE ANNACONDIA. Le spiego. Dal primo al terzo grado, per buttare giù uno di questi gradi, basta dargli tre colpi di coltello dietro la schiena ed è stato buttato giù. Ma, iniziando a parlare del santista, fa parte degli incappucciati: quando viene innalzato il santista viene bruciata l'immagine sacra e l'immagine sacra viene messa sulla stella visibile e invisibile. Per buttare giù un santista bisogna raccogliere le ceneri che vengono sparse al vento e non si possono raccogliere. Allora, si deve solo ammazzare. Dal santista che sgarra, che si macchia di infamità, si può solo ammazzare ma non buttare a terra, perché non si possono raccogliere le ceneri.

PRESIDENTE. E' chiaro. Cos'è questa stella visibile e invisibile?

SALVATORE ANNACONDIA. La stella visibile e invisibile fa parte... Io la porto sul dito pollice, qualcuno la porta sulla fronte.

PRESIDENTE. E' un tatuaggio?

SALVATORE ANNACONDIA. Si può fare il tatuaggio o il taglio di lametta, di arma bianca. Allora si chiama la stella visibile e invisibile, perché fa parte già degli incappucciati.

PRESIDENTE. Ho capito. Lei in che anni ha preso questi gradi?

SALVATORE ANNACONDIA. I primi gradi li presi nel 1981; ho ricoperto il ruolo di santista già nel 1989, ma mi era stato richiesto di essere innalzato da grosse famiglie, ma non come santista: qualunque grado che volevo mi era concesso, perché ero una persona molto richiesta.

MARCO TARADASH. Perché ha rifiutato?

PRESIDENTE. L'onorevole Taradash chiede perché lei abbia rifiutato.

SALVATORE ANNACONDIA. Non ho rifiutato, non si può rifiutare. Purtroppo avere un grado del genere, poi bisogna dare conto al tuo padrino. Non è che io non volevo dare conto a nessuno; ho dato sempre conto a chi di dovere. Purtroppo, una volta che uno viene... Perché io non è che avevo bisogno di ottenere un grado di santista, o di vangelo, o di crimine, perché ero già un capofamiglia da me stesso.

PRESIDENTE. Crimine è sopra vangelo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché il vangelo è il quinto.

PRESIDENTE. Crimine o sestino è la stessa cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. E' la stessa cosa; c'è chi lo interpreta in quel modo, chi nell'altro.

PRESIDENTE. Lei stava rispondendo all'onorevole Taradash del perché avesse rifiutato.

SALVATORE ANNACONDIA. Non avevo rifiutato: rimandavo, più che altro.

PRESIDENTE. Perché rimandava? Per non dare conto?

SALVATORE ANNACONDIA. No. A prescindere dal non dare conto, problemi ce n'erano sempre, perché quando si deve innalzare un grado del genere, c'è che vengono informate altre famiglie, viene passata per novità, bisogna passarla per novità. C'erano sempre dei problemi, eravamo negli anni 1986-1987-1985, stavo agli arresti domiciliari; sono stati anni cruenti nella malavita del nord barese, sono stati anni di fuoco. Nel 1989 poi ho dovuto prendere questo grado qua perché c'era bisogno per forza.

PRESIDENTE. Che vuol dire per forza?

SALVATORE ANNACONDIA. In che senso, presidente? Che le strade che stavo percorrendo erano già abbastanza forti. Per il momento non posso fare il nome del mio nuovo padrino e degli altri della commissione, perché coperti da segreto.

PRESIDENTE. Li ha già fatti alla magistratura?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, già fatti.

PRESIDENTE. Per capirci, si tratta di mafia, di  camorra, di 'ndrangheta?

SALVATORE ANNACONDIA. Si tratta di mafia.

PRESIDENTE. Mafia siciliana?

SALVATORE ANNACONDIA. Mafia e 'ndrangheta. A parlare di mafia e 'ndrangheta, uno può pensare: come mai?

PRESIDENTE. Infatti.

SALVATORE ANNACONDIA. A questo non posso rispondere per il momento, signor presidente, perché ci sono indagini in corso che purtroppo...

PRESIDENTE. A noi non interessano le questioni specifiche. Se si tratta di Rizzi, non c'è segreto.

SALVATORE ANNACONDIA. Sono altri.

PRESIDENTE. A noi interessa il meccanismo. I nomi specifici interessano la magistratura.  Come mai insieme mafia e 'ndrangheta?

SALVATORE ANNACONDIA. Vi spiego. Già dal 1987-1988, anzi 1987, avevo soggiornante vicino al mio paese un grande 'ndranghetista. Dopo le nostre frequentazioni, dopo le nostre società nel traffico delle sigarette e di stupefacenti, mi chiese se ero compiacente ad essere innalzato da lui ad un grado molto superiore (avevo la seconda). Ma, all'epoca, non mi interessava; avevo un mio gruppo abbastanza forte.  Fui pregato da questa persona di essere innalzato da lui; tramite questo grande 'ndranghetista conobbi uno dei maggiori esponenti della 'ndrangheta, giù a Reggio. Questa persona dovette mettere a conoscenza di questa sua volontà, che all'epoca mi voleva innalzare. Fui promesso a Domenico Tegano, come grado importantissimo che mi veniva concesso da lui.

PRESIDENTE. Cosa vuol dire "fui promesso a Domenico Tegano"?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono le promesse, si chiamano così. Viene promesso a tizio. Nel 1989...

PRESIDENTE. Chi è questo Tegano?

SALVATORE ANNACONDIA. Domenico Tegano. E' morto d'infarto.

PRESIDENTE. Faceva parte di quell'organizzazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Lui ha ricoperto tutta la guerra per quanto riguarda Paolo De Stefano.

PRESIDENTE. Era della 'ndrangheta?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Già nel 1986 in una riunione, ad una cena che si tenne una sera fui invitato e come arrivai fui presentato a determinate persone e conobbi per la prima volta Michele Rizzi.

PRESIDENTE. La cena era in Puglia o a Milano?

SALVATORE ANNACONDIA. In Puglia, a Trani. Mi voleva conoscere. Stetti ospite loro e mi presentarono una persona, che mi fu presentato come zio Nino. In seguito con questa persona, dopo il secondo pranzo, perché la prima fu una cena e poi ci fu un pranzo, la conobbi come Nitto Santapaola, che prese una grande simpatia nei miei confronti. Ecco perché, presidente, non posso fare nomi, perché nei miei verbali in Puglia, specialmente a Bari, non ho trovato fino ad oggi un interlocutore magistrato che mi possa ascoltare. E' coperto da... Ho già verbalizzato molte cose al dottor Mandoi. PRESIDENTE. Abbiamo un volume di sue dichiarazioni: le abbiamo lette.

SALVATORE ANNACONDIA. Già dal 1986 il gran boss (chiamiamolo così perché è un grande boss) Michele Rizzi, che è un grosso personaggio a livello di Cosa nostra, mi promise che un giorno avrei fatto parte della sua famiglia. E parlando di Cosa nostra parliamo di Rizzi, dei Gambino, dei Bono, dei Sulla, di tante persone che sono collegate con lui.

PRESIDENTE. Di che famiglia faceva parte Rizzi?

SALVATORE ANNACONDIA. Rizzi faceva parte della vecchia mafia, diciamo di quella perdente, finché non è venuta fuori la mafia vincente dei corleonesi.  Sono stato sempre il pupillo di Michele Rizzi, anzi l'unico pupillo. Quindi nel 1989 c'è stato il mio innalzamento. Ecco perché quando dovevo essere innalzato, mi trovai scompaginato. Volevo rispondere alla domanda di prima, non so chi è il signore che mi ha rivolto la domanda...

PRESIDENTE. L'onorevole Taradash.

SALVATORE ANNACONDIA. ... che mi ha chiesto perché ho rifiutato. Perché avevo troppi concorrenti, troppe persone che mi volevano innalzare. Se mi facevo innalzare da Tizio, Caio si offendeva, perché poteva sembrare una cattiva azione. Perché, avrebbe potuto dire, non ha voluto essere innalzato da me? Allora rimandavo sempre perché non volevo fare un'offesa all'altro che era ugualmente amico. E' dunque perché c'erano tante persone che mi volevano. Nel 1989 successero delle cose, di cui non posso parlare perché sono coperte, e fui costretto ad essere innalzato da questo grado per essere riconosciuto non solo in Italia ma anche in altre parti del mondo, dove vige la mafia veramente, dove ci sono amicizie su cui uno può contare per qualsiasi emergenza e in qualsiasi caso: uno arriva e trova amici, compari, appoggi.

MARCO TARADASH. A quali paesi si riferisce?

SALVATORE ANNACONDIA. Parliamo del Perù, degli Stati Uniti, del Sud America.

PRESIDENTE. E in Europa?

SALVATORE ANNACONDIA. In Europa ci sono più che altro le basi di appoggio per i grossi traffici internazionali, perché dove arriva la merce in transito non ci possono essere delle organizzazioni che devono tenere il controllo del territorio, come accade in Italia e in altre nazioni. Si dice, infatti, che dove si mangia non si fa il gabinetto. E purtroppo di queste nazioni ce ne sono abbastanza.  

PRESIDENTE. Lei dice che nella divisione del lavoro dove c'è la merce che deve passare ci deve essere tranquillità.

SALVATORE ANNACONDIA. Esattamente. Le porto  l'esempio di Cipro e dell'Egitto, che sono porti franchi. A Cipro non ci sono organizzazioni, cioè non si spaccia, non si ruba, non si ammazza, per non attirare sul posto l'attenzione delle forze dell'ordine, perché avvengono grossi traffici, grossi business.

PRESIDENTE. Della Germania che cosa sa?

SALVATORE ANNACONDIA. La Germania è un canale di transito, dove la merce...

PRESIDENTE. Quando parla di merce a cosa si riferisce?

SALVATORE ANNACONDIA. A stupefacenti.

PRESIDENTE. Anche armi?

SALVATORE ANNACONDIA. Stupefacenti e armi. Parlo di merce ma poi mi spiegherò meglio.

PRESIDENTE. Sì, poi ci arriveremo.

SALVATORE ANNACONDIA. Riguardo ai grossi canali di approvvigionamento, finché non è scoppiata la guerra in Iugoslavia da lì passava l'80 per cento dell'eroina. Venuto meno quel canale, si sono dovute cambiare le rotte.

PRESIDENTE. E quindi?

SALVATORE ANNACONDIA. Una rotta molto palpitante era la rotta Grecia-Bari. Purtroppo quando avviene un blocco come quello che si è verificato in Iugoslavia tutti si dirottano sulla zona più comoda, perché ci sono i grossi trafficanti...Poi le spiegherò come si può sdoganare la merce in Italia con molta facilità. Ci sono poi i corrieri giornalieri, si chiamano "cani sciolti", piccole organizzazioni di dieci, venti o trenta persone che riescono a portare quattro o cinque chili di merce a testa. Poi ci sono i medi corrieri che fanno entrare la merce con i TIR. Lei deve pensare, signor presidente, che in Italia entrano con facilità almeno venti-trenta quintali di eroina al giorno.

PRESIDENTE. Da dove? Un po' diceva dalla Grecia via mare.

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono ottime organizzazioni - e sono poche quelle grandi - che riescono ad introdurre in Italia centinaia di tonnellate di eroina, anche in un solo colpo. Le faccio un esempio: far entrare un container senza portare copertura, cioè proprio tutta eroina, è molto facile, anche se ci vuole comunque un'organizzazione, perché partono dieci contenitori, uno carico e nove di copertura, cioè di merce. Se due container devono andare in Svizzera, lo sdoganamento è al posto, non avviene al porto di sbarco della nave. Solo che poi dalla dogana escono due TIR, uno che deve andare in Svizzera (parlo della Svizzera ma è solo per fare un esempio) e l'altro in Lombardia, a Milano; quello di Milano è stato già controllato e sdoganato, solo che quando escono dalla dogana si cambiano solo le targhe e i documenti. Allora quello che non è stato sdoganato arriva a Milano e quello che è stato sdoganato, che porta i documenti dell'altro, va in Svizzera.

PRESIDENTE. E quello non sdoganato porta la droga.

SALVATORE ANNACONDIA. Esattamente, perché quello aveva lo sdoganamento a destinazione che quindi non può avvenire al porto. Però ci vogliono anche le coperture nei porti, cioè alla dogana, alla finanza, perché non è che si può fare un carico di cento quintali di droga senza coperture.

MARCO TARADASH. Lei sa se ci sono stati casi di corruzione di autorità portuali, cioè finanza, dogana, eccetera?

PRESIDENTE. Sul problema torneremo tra un attimo. Lei ha detto che nel 1989 sono successe cose per cui è stato costretto sostanzialmente ad accettare l'innalzamento. Non vogliamo sapere nomi, ma ci spieghi quali fatti sono accaduti che l'hanno indotta ad accettare questa proposta.

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, se spiego i fatti è come se facessi i nomi. L'argomento è coperto veramente dal segreto istruttorio.

PRESIDENTE. Ma di che cosa si tratta? Di un mutamento di equilibrio tra organizzazioni, di un omicidio, la ricercavano?

SALVATORE ANNACONDIA. Non è che mi ricercavano. Nel 1989 c'è stato un agguato sbagliato ecco perché non le posso spiegare...

PRESIDENTE. E' sufficiente. Un agguato sbagliato fatto da lei o contro di lei?

SALVATORE ANNACONDIA. Contro di me.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Era sbagliato.

PRESIDENTE. Sbagliato perché non l'hanno uccisa o perché non era lei l'obiettivo?

SALVATORE ANNACONDIA. Non ero io l'obiettivo.

PRESIDENTE. Era un'altra persona?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Salvatore Annacondia era un capofamiglia però non ero riconosciuto, anche se le mie amicizie erano risapute in tutta Italia. In buona parte del mondo erano risapute le amicizie che avevo con determinati personaggi.

PRESIDENTE. Lei si è sentito a rischio a quel punto?

SALVATORE ANNACONDIA. Non mi sono sentito a rischio perché non avevo problemi, solo che con chi stavo si è preoccupato. Perché, Salvatore, metti caso succedeva questo errore chi poteva prendere il tuo posto?  Io occupavo un posto importantissimo, signor  presidente.

PRESIDENTE. Anche nei traffici?

SALVATORE ANNACONDIA. Avevo una vasta zona.

PRESIDENTE. Lo abbiamo letto dai suoi interrogatori.

SALVATORE ANNACONDIA. Una vasta zona da controllare, da mandare avanti, da tenerla sistemata.

PRESIDENTE. L'agguato aveva un'altra persona come obiettivo perché dovevano uccidere lei per fare un'offesa a questa persona o dovevano colpire l'altra persona?

SALVATORE ANNACONDIA. Dovevano colpire un'altra persona. Guarda caso mi trovavo in macchina mia perché sapevano...

PRESIDENTE. A quel punto decide di accettare la proposta.

SALVATORE ANNACONDIA. Ho dovuto decidere perché era importante.

PRESIDENTE. E' stato affiliato a Cosa nostra?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Quando?

SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1989.

PRESIDENTE. Dopo questo fatto?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Dove è stato affiliato? In quale città?

SALVATORE ANNACONDIA. La cerimonia è avvenuta a Trani. Sono stato innalzato da santista, che sarebbe il locale. Il santista è capozona e allora diventa locale.

PRESIDENTE. Capo di una zona?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Capo di paese.

PRESIDENTE. Chi l'ha affiliata?

SALVATORE ANNACONDIA. Come, signor presidente?

PRESIDENTE. Chi è stato ad affiliarla?

SALVATORE ANNACONDIA. Lo posso dire, è stato Michele Rizzi, come mio padrino.

PRESIDENTE. Come si è svolta la cerimonia?

SALVATORE ANNACONDIA. Si è svolta giù, al ristorante.

PRESIDENTE. Al suo ristorante?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Non posso parlare di questo, signor presidente, perché è coperto dal segreto istruttorio.

PRESIDENTE. Può dirci come si è svolta?

SALVATORE ANNACONDIA. Come si è svolta è facile spiegarlo. Ci siamo riuniti giù al ristorante ed è iniziata la cerimonia...

PRESIDENTE. In che cosa consisteva la cerimonia?

SALVATORE ANNACONDIA. Abbiamo dovuto fare due riconoscimenti in un solo giorno.

PRESIDENTE. Lei e un altro?

SALVATORE ANNACONDIA. No, due riconoscimenti nel senso che io avevo la seconda e dovevo prendere la terza e la quarta. Per anzianità ho preso la quarta in un solo giorno. E' stato fatto il giuramento di terza e il giuramento di quarta.

PRESIDENTE. Quindi, ha superato due gradi in un giorno? Questo vuol dire?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Come si è svolta la cerimonia?

SALVATORE ANNACONDIA. Stavamo giù al ristorante riuniti e c'erano tutte le attrezzature. Le carte hanno un loro significato. Si metta giù sul piatto d'argento ad un lato formato da pugnali.

PRESIDENTE. Con al lato?

SALVATORE ANNACONDIA. Si chiama arma bianca, il pugnale e bisogna giurare sulla punta del pugnale che costituiva il monte bianco ed un limone che viene poi bagnato con il sangue. Si chiama il monte bianco ed è un giuramento che viene fatto per la santa, c'è pure una pasticca perché si deve giurare di non tradire mai la società. C'è la baionetta, una pistola oppure una carabina perché il giorno che decidi di tradire la società ti devi solo ammazzare. Allora, se un colpo di carabina ti viene a mancare c'è la pasticca in sostituzione.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Viene fatto tutto il  giuramento.

PRESIDENTE. Quel segno che si è fatto sul pollice fa riferimento a questa cerimonia o ad un'altra?

SALVATORE ANNACONDIA. Fa riferimento al grado che vesti. Ecco perché si chiama stella visibile e invisibile.

PRESIDENTE. Se l'è fatta in quella circostanza?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, c'è chi se la può fare in croce in fronte, il vangelo lo porta sulla spalla sinistra, poi quando si fa il giuramento di Sestino si porta su tutte e due. Si porta sui lati della spalla.

PRESIDENTE. Sono dei segni riconoscibili?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, poi ci sono i segni con le mani, quando si saluta.

PRESIDENTE. Cioè?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono diversi segnali di riconoscimento senza parlare. Una persona che ha un grado ha il suo riconoscimento.

PRESIDENTE. Come sono questi riconoscimenti? Può spiegarlo alla Commissione?

SALVATORE ANNACONDIA. Basta stringere la mano a una persona. L'indice viene schiacciato contro il polso e si riconosce che è santista.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Se la persona che hai presente ha quel grado risponde a quel segnale, senza parlare. Quindi, senza parlare, due persone si possono riconoscere e presentare, perché se ci sono altre persone...

PRESIDENTE. Ogni grado ha la sua forma di saluto?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare quali sono le diverse forme di saluto per ciascun grado?

SALVATORE ANNACONDIA. Una battitura corrisponde a un santista. Il santista si può riconoscere anche facendo questo gesto (Il collaboratore Annacondia si accarezza il mento).  Il saluto è importante. Io ho il mio grado e il mio riconoscimento.

PRESIDENTE. Forse sarebbe bene verbalizzare che il gesto compiuto dal collaboratore è come se si accarezzasse la barba. Lei è stato arrestato il 1^ ottobre 1991. Qual era allora il suo tenore di vita? Quanto guadagnava? Quanti soldi aveva?

SALVATORE ANNACONDIA. Non si può quantificare il guadagno.

PRESIDENTE. Aveva dei soldi in banca o da qualche altra parte? Aveva liquidi a disposizione?

SALVATORE ANNACONDIA. Soldi ce n'erano perché giravano nelle mie attività lecite. A Trani avevo un ristorante molto famoso.

PRESIDENTE. Come si chiamava?

SALVATORE ANNACONDIA. "Ai templari"; avevo una import-export di sanitari e ceramiche: Eurotop. Stavo per inaugurare un cantiere ed un rimessaggio nautico per la costruzione di barche, una grande azienda commerciale, industriale. Non è che si potevano tenere i miliardi in banca, signor presidente.

PRESIDENTE. La sua ricchezza a quanto ammontava?

SALVATORE ANNACONDIA. Ammontava a miliardi.

PRESIDENTE. Per capire due o dieci miliardi?

SALVATORE ANNACONDIA. Non si può quantificare. Mi hanno fatto un sequestro di beni che per motivi...hanno messo due miliardi, ma il valore effettivo... 

PRESIDENTE. E' un po' di più!

SALVATORE ANNACONDIA. Di 6, 7 miliardi, qualcosa in più pure.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Tanti di quei beni che erano pure intestati ad altri.

PRESIDENTE. Come faceva per evitare di apparire titolare di tante ricchezze? Le intestava anche a persone diverse?

SALVATORE ANNACONDIA. A persone che non venivano trattate, frequentate.

PRESIDENTE. Non venivano frequentate da lei?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Ma erano di sua fiducia?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Parenti o conoscenti?

SALVATORE ANNACONDIA. Parenti, qualche conoscente pure.

PRESIDENTE. Il ristorante "Ai templari" e le aziende di ceramiche chi glieli gestiva?

SALVATORE ANNACONDIA. Nel ristorante c'era un gran bravo ragazzo, come direttore, una persona onesta, e me lo mandava avanti lui. Nell'azienda commerciale, l'Eurotop, avevo dei buoni procacciatori, dei ragionieri efficientissimi, ma la mandavo pure avanti io. Quell'esperienza... non chiamiamola esperienza, è stata più che altro un'impostazione di come doveva svolgere le proprie attività la nostra famiglia.

PRESIDENTE. Qual è stata l'impostazione: avere l'attività legale e quella illegale insieme?

SALVATORE ANNACONDIA. Le posso spiegare quello che voi chiamate riciclaggio. Tante persone parlano di riciclaggio di denaro, ma non ha senso parlare in quel modo e capire in quel modo. Una persona che possiede ad esempio un miliardo e lo vuole riciclare, ognuno pensa che apra una finanziaria, metta una testa di legno, ed investa il miliardo. Ma non fa altro, niente, perché aumenta il suo valore e non lo può dimostrare. Sotto l'esperienza del noto Michele Rizzi elaborammo una strategia da farmi rimanere a bocca aperta per come si doveva svolgere per come mi fu spiegato e per come iniziammo. Il business dell'imprenditoria lo stavamo prendendo in mano. Basti pensare, signor presidente, che per prima cosa bisogna mettere su una vera e propria finanziaria (lei dirà: questo lo so), bisogna mettere su un'immobiliare, bisogna mettere su un magazzino di import-export ed un altro magazzino per forniture edili: sanitari, ceramiche, cemento, ferro, porte, infissi, tutto, dalla A alla Z.

PRESIDENTE. Per l'edilizia.

SALVATORE ANNACONDIA. Per l'edilizia. Tutto il grande business poggia sull'edilizia. I fatti si svolgono in questo modo. Una volta aperte queste attività dobbiamo dimostrare, chi 100 milioni, chi un miliardo, che sono soldi apparentemente leciti, dimostrati e sui quali si sono pagate le tasse. Si inizia quindi ad entrare in quota nella società, però sono sempre un pregiudicato e non posso fare il passo più lungo della gamba. In questo complesso di impostazioni vengono assunti dei procacciatori di persone alle quali servono i soldi. In questo caso parliamo di costruttori. Un costruttore che costruisce cento appartamenti ne vende 80-85, gli rimangono 10, 15, 20 appartamenti che non riesce a vendere. Il suo guadagno sono gli appartamenti che non è riuscito a vendere. Egli ha già il progetto per costruire in un'altra zona, però gli servono liquidi, i soldi per iniziare il nuovo lavoro. Vi sono allora questi grossi procacciatori che devono procacciare queste persone. Li avvicinano, perché si conoscono, e sono dei zazà, i vecchi zazà che affittavano e vendevano le case.

PRESIDENTE. Che vuol dire zazà?

SALVATORE ANNACONDIA. In dialetto nostro chiamiamo zazà l'intermediario...

PRESIDENTE. Il mediatore?

SALVATORE ANNACONDIA. Il mediatore. Queste persone sono conosciutissime e hanno i costruttori che sono loro amici.

PRESIDENTE. E che hanno bisogno di questi liquidi.

SALVATORE ANNACONDIA. Allora questi dicono al costruttore: posso farti avere quello che ti serve e lo porta alla finanziaria. Tutte le finanziarie sono consociate con delle banche; chi è associato con il gruppo Interbank, chi con la Banca di Roma e via di seguito. Al costruttore servono 2 miliardi per iniziare il lavoro. La finanziaria gli dice: non c'è problema, in dieci giorni le eroghiamo il mutuo da lei chiesto. La finanziaria lecitamente chiede il finanziamento alla banca, però fa avere solo 800 milioni al costruttore. Dopo 6-7 giorni il costruttore viene invitato negli uffici della finanziaria e vede gli 800 milioni con gli occhi, perché una cosa è parlare di 800 milioni, una cosa è vederli. Si dice al costruttore: senta, non abbiamo potuto fare di meglio, le sue garanzie purtroppo...

PRESIDENTE. Non sono sufficienti.

SALVATORE ANNACONDIA. Il costruttore dice: cosa ne faccio di 800 milioni? Non ce la faccio! La finanziaria gli dice: abbiamo una nostra consociata immobiliare che può aiutarla. Viene interpellata l'immobiliare alla presenza del costruttore ed il progetto viene passato all'immobiliare.

PRESIDENTE. Il progetto di costruzione?

SALVATORE ANNACONDIA. Il progetto di costruzione. Viene fatta qualche modifica perché gli appartamenti vendibili sono quelli di 100, 110, 120 metri quadri. Il costruttore, che ha già visto gli 800 milioni e sa che ha bisogno di 2 miliardi per iniziare il suo lavoro che rappresenta la sua vita e la sua fonte (costui non è un corrotto, bensì una persona all'oscuro di tutto)...

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Gli viene quindi detto che gli si possono dare i soldi in quanto vi sono persone intenzionate a comprare gli appartamenti. Vengono stipulati dei falsi compromessi intestati a persone che sono all'oscuro di tutto o compiacenti. Gli viene quindi dato il miliardo e 200 milioni di differenza che lui chiedeva. Questi soldi sono al nero, sono sporchi, chiamiamoli sporchi.

PRESIDENTE. Che vengono da traffici illeciti: questo vuol dire?

SALVATORE ANNACONDIA. Sono soldi che noi abbiamo da investire.

PRESIDENTE. Capisco.

SALVATORE ANNACONDIA. Perché dobbiamo farli girare i soldi. Questi soldi vengono dati sui compromessi. Tutte le indagini arrivavano dopo la finanziaria e si bloccavano perché non trovavano lo sbocco finale. A questo punto l'immobiliare prega il costruttore di fare le forniture edili in tale magazzino che gli pratica anche un prezzo vantaggioso. Il magazzino è consociato all'immobiliare la quale dice: noi ti diamo il finanziamento, però il nostro magazzino ha bisogno...

PRESIDENTE. Quindi il denaro rientra?

SALVATORE ANNACONDIA. Il cerchio comincia a stringersi perché il costruttore è passato già dalla finanziaria all'immobiliare e poi al magazzino. Tutti i compromessi fatti dall'immobiliare vengono sostituiti dai veri compromessi perché l'immobiliare è stata già autorizzata in esclusiva a vendere gli appartamenti. Dato che l'immobiliare è consociata ad altre, si trova lo sbocco di vendita. Man mano che si fanno i compromessi se ne toglie uno di quelli falsi e si...

PRESIDENTE. Sostituisce.

SALVATORE ANNACONDIA. ... con uno vero. Se arriva la verifica al costruttore che sta costruendo con soldi contanti, trova solo compromessi veri e nessuno può dire che sono cose di provenienza illecita. A questo punto, la finanziaria fa il suo lavoro, l'immobiliare fa il suo lavoro, adesso tocca al magazzino di forniture edili. Tutti i soldi che sono stati dati al costruttore non fanno altro che girare nei tre obiettivi. Alla fine si va a trovare che abbiamo fatto un fatturato di miliardi durante l'anno, che paghiamo le tasse, perché il costruttore... il 50 per cento del valore dell'immobile va tutto nelle forniture che poi va a pagare il 60 per cento per contanti e il 40 per cento come immobili. Il magazzino prende gli immobili che sono stati dati per i pagamenti e li passa all'immobiliare. Adesso i soldi il costruttore li ha presi e ce li ha dati, ce li ha dati puliti, riciclati e noi li dichiariamo e paghiamo le tasse. Nell'arco di 5-6 anni, noi che abbiamo comprato, avevamo delle azioni, delle quote nelle società sia del magazzino, sia dell'immobiliare, sia della finanziaria, noi che siamo pure dipendenti, lavoriamo sotto queste ditte qua, i nostri anticipi che abbiamo comprato delle azioni già dall'inizio noi abbiamo uno stipendio di 3 milioni al mese che possiamo vivere - le nostre azioni che durante l'anno la finanziaria, l'immobiliare, il magazzino - che deve fare la dichiarazione ILOR, la dichiarazione per pagare le tasse - fa, su un introito di 1 miliardo, 100 milioni di uscite, 900 milioni sono di utili, paghiamo le tasse su 900 milioni.  Nell'arco di 5-6 anni le nostre azioni che avevamo acquistato le reinvestiamo perché noi possiamo vivere con lo stipendio che prendiamo; ad una verifica noi possiamo vivere perché se ho la macchina, come faccio a mangiare, come faccio a vivere: ho lo stipendio.

PRESIDENTE. Con 3 milioni ce la fa.

SALVATORE ANNACONDIA. Solo che quelle azioni che avevamo noi compriamo sempre azioni dentro e va a finire che nell'arco di 6-7 anni, posso dimostrarle che posseggo 5 miliardi, che posseggo 10 miliardi perché ho guadagnato, ho reinvestito i miei guadagni durante l'anno e nessuno può dimostrare e dire: tu i soldi te li sei fatti per traffici illeciti. E sono una persona che non me li può toccare nessuno.

PRESIDENTE. Questo è molto interessante. Lei ha detto che il centro di tutto è rappresentato dalle attività di costruzione. Può spiegare perché?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché non c'è altra attività economica che... c'è il giro dei soldi giornaliero perché non possiamo investire, puntare su un'acciaieria, non possiamo puntare su altre attività perché l'attività di costruttore significa che durante l'anno fa 200 appartamenti. Il business è grosso perché noi, se dobbiamo puntare su un magazzino ad esempio di forniture di gomme, durante l'anno abbiamo un fatturato di 500 milioni, mentre invece un grande magazzino di forniture equivale a rifornire 20-30 costruttori perché abbiamo i procacciatori che ci devono procacciare questi costruttori che devono andare in disgrazia. Li dobbiamo portare in disgrazia, c'è una strada per portarli in disgrazia, perché lui non deve vendere.

PRESIDENTE. Quindi è costretto a venire da voi.

SALVATORE ANNACONDIA. Deve essere costretto. Bisogna portarlo.

PRESIDENTE. E come lo si porta su questa strada?

SALVATORE ANNACONDIA. Si porta nella strada iniziando a fare danni. Si entra nel ciclo di queste attività: il caporale, chiamiamolo così, il capo cantiere viene avvicinato, deve rallentare i lavori, li deve mandare un pochettino a rotoli. Questo costruttore si deve trovare in difficoltà, viene guidato a cadere. Ed allora ecco perché non è che noi parliamo di un costruttore che ci fa 100 appartamenti l'anno, noi parliamo di 10, 20, 30 costruttori perché noi abbiamo da investire miliardi e questi miliardi io non li posso far uscire perché non so che farmene. Ho i miliardi e li ho là perché non li posso dimostrare, ma nell'arco di 6, 7, 10 anni io riesco a fare uscire tutti i soldi ed a farli entrare puliti perché ho pagato le tasse, perché nessuno può venirmi a dire che posseggo i soldi senza aver lavorato.

PRESIDENTE. Ad un certo punto non si esaurisce la possibilità di costruire? Chi li compra gli appartamenti?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, nei nostri centri non si trova casa, eppure vengono costruite centinaia e centinaia, migliaia di case.

PRESIDENTE. E come lo spiega?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché ognuno oggi si compra la casa. Poi sono edilizie convenzionate. Bisogna avere delle menti diaboliche per fare questo lavoro qui, perché non è una cosa da tutti.

PRESIDENTE. Certamente. Questo comporta anche rapporti con i comuni, con le amministrazioni comunali per licenze oppure no?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, essere una persona in vista, un capo... il capo non è che fa il capo giusto perché lui è il capo. Deve fare il capo che deve avere la testa sul collo. Io, per dirle, avevo delle mie attività lecite, che avevo ben messo i piedi a terra ed avevo fondato un ristorante che frequentava solo l' élite . Se entrava qualche pregiudicato, mi entrava con una certa classe, un certo carisma. Là non poteva entrare un pregiudicato con i tatuaggi sul braccio o con le scarpe da ginnastica o con la tuta, non esisteva: quello là faceva l'entrata da una porta e poi usciva da un'altra porta, entrava con la testa ed usciva con i piedi.

PRESIDENTE. E' chiaro il concetto.

SALVATORE ANNACONDIA. Perché il mio ristorante era frequentato dai più grossi circoli che esistevano nella vera bella vita. Iniziano le amicizie perché, per dirle, l'assessore, il sindaco, l'onorevole, il ministro e via di seguito conosce la persona nel posto, perché è regolare. E iniziano questi agganci, queste amicizie che poi derivano da un'autorizzazione ad un suolo edificabile, ad una licenza commerciale. Queste cose, i favori poi vengono ricambiati in un altro modo. Ed allora si innesca proprio...

PRESIDENTE. Ad esempio, avere un'attività di  ristorante rientrava in questo  schema che vi aveva spiegato Rizzi oppure è una cosa diversa?

SALVATORE ANNACONDIA. Il ristorante, signor presidente, era avere tutti i collegamenti e tutti gli agganci senza essere inquisito. Perché se giù al ristorante veniva un grande mafioso - non faccio nomi per la delicatezza delle indagini venivano delle persone da Milano che dovevamo parlare e sistemare, chiarire delle situazioni, organizzare, entravano nel ristorante e, se avveniva un fermo, non è che potevano dire: stavano facendo un summit, perché era un locale pubblico. Non è che bisogna parlare solo di criminalità, ma anche per gli altri tipi di interessamenti, di incontri, di persone che si dovevano incontrare era il luogo ideale per potersi incontrare.

PRESIDENTE. In che anno ha messo su questo ristorante?

SALVATORE ANNACONDIA. Ho iniziato nel 1987.

PRESIDENTE. L'ha avviato con questa logica: cioè  avere un posto...?

SALVATORE ANNACONDIA. Bisognava avere un posto dove incontrarsi.

PRESIDENTE. E già. Diceva di avere un ristorante buono, di qualità.

SALVATORE ANNACONDIA. Era uno dei migliori, uno dei primi.

PRESIDENTE. Ed effettivamente è riuscito ad avere nel ristorante quei contatti con la gente perbene che le sono serviti dopo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Di tutti i tipi.

PRESIDENTE. Cosa vuol dire "di tutti i tipi"?

SALVATORE ANNACONDIA. Iniziammo ad avere... si possono avere contatti dal balordo al dio, al Padreterno. E di questi contatti ho parlato ed ho spiegato.

PRESIDENTE. Sì, l'abbiamo letto. Il quadro che lei ci ha descritto è molto chiaro e per questo la ringraziamo. Le vorrei chiedere di quali attività illecite lei si è occupato in particolare. Stupefacenti, armi...

SALVATORE ANNACONDIA. Stupefacenti ed armi.

PRESIDENTE. L'onorevole Imposimato chiede se si sia occupato anche di esplosivi.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Si è occupato anche di appalti?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. E di estorsioni?

SALVATORE ANNACONDIA. Dipendeva da che tipo di estorsione bisognava fare.

PRESIDENTE. Potrebbe spiegarsi meglio?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, per il momento non posso spiegarle.

PRESIDENTE. Lei può spiegarci il tipo di estorsione, senza fare riferimento a nomi.

SALVATORE ANNACONDIA. Le estorsioni le facevamo nei confronti di chi non voleva o non poteva soggiacere a noi. Costoro dovevano capire che, anche se noi non facevamo quel tipo di estorsione, avrebbero comunque dovuto ricambiare in un certo modo.

PRESIDENTE. Non ho capito. Potrebbe farci un esempio, senza far nomi?

SALVATORE ANNACONDIA. Faccio un esempio. Un costruttore decideva di punto in bianco di costruire e veniva autorizzato perché la sua richiesta riguardava una zona edificabile che non creava alcun problema. Era sufficiente infatti che vi fossero le carte in regola. Ho qualche difficoltà a spiegare questo, perché si tratta di fatti coperti dal segreto...

PRESIDENTE. Lei può parlare senza fare i nomi.

SALVATORE ANNACONDIA. Vi è tutto un discorso di autorizzazioni: se non si paga, non si fa niente. Questo vorrei farle capire. La malavita, la mafia, non esistono soltanto sul marciapiede: la mafia esiste anche negli uffici.

PRESIDENTE. Sì, ne avevamo avuto l'impressione. Potrebbe continuare a parlarci delle estorsioni? Lei ha affermato che la vostra attività in questo settore dipendeva dai diversi tipi di estorsione.

SALVATORE ANNACONDIA. A Trani estorsioni non se ne dovevano fare.

PRESIDENTE. Nei confronti dei negozianti?

SALVATORE ANNACONDIA. Non se ne dovevano fare estorsioni a Trani. Però, avevo i miei capizona dei paesi limitrofi, che io controllavo, ai quali le facevo fare.

PRESIDENTE. Perché?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché, signor presidente, non è che si possono avere cento o duecento persone...

PRESIDENTE. Bisogna mantenerle!

SALVATORE ANNACONDIA. Non si possono mantenere tutte con il traffico degli stupefacenti. L'organizzazione - chiamiamola così perché di questo si tratta - ha bisogno di esercitare tutto il controllo sul territorio: se c'è da fare le estorsioni, queste si fanno; se ci sono da fare le rapine, si fanno le rapine. Se in quella ex zona c'erano da fare le estorsioni, queste si facevano. I ragazzi hanno bisogno di mangiare; non è possibile che essi possano andare avanti senza avere un loro utile, almeno per vivere.

PRESIDENTE. Ho capito. Perché a Trani, a differenza di quanto accadeva nei paesi vicini, non venivano effettuate estorsioni?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché Trani era il centro di tutte le operazioni...

PRESIDENTE. E quindi bisognava stare tranquilli...!

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, bisognava stare tranquilli.

PRESIDENTE. Non effettuavate nemmeno rapine?

SALVATORE ANNACONDIA. Qualcuna. Si faceva fare qualche rapina ad orefici da qualche amico di fuori che aveva bisogno... Ma più di questo, no.

PRESIDENTE. Di cosa aveva bisogno?

SALVATORE ANNACONDIA. Aveva bisogno di soldi, perché, per esempio, era latitante e veniva appoggiato. Se si trovava da fare qualche lavoro, glielo si faceva fare, ma si trattava comunque di lavori di poco conto, qualche rapinetta...

PRESIDENTE. Lei ha detto che le estorsioni che venivano realizzate nei paesi limitrofi servivano a procacciare un po' di soldi a quelli che lavoravano per lei...

SALVATORE ANNACONDIA. No. Io mettevo come responsabile di zona una persona che aveva venti trenta persone sotto di lui. Ovviamente, quella persona aveva bisogno di esercitare il controllo del territorio, nel senso che non è che lui potesse andare a piazzare droga in un altro paese, dove vi era un altro responsabile. Allora, il responsabile controlla il territorio e dà conto di quello che fa e di quello che deve fare: deve dar conto su tutto e per tutto...

PRESIDENTE. A lei?

SALVATORE ANNACONDIA. A me... Di conseguenza, vi sono obiettivi che si possono raggiungere con le estorsioni e, in quel caso, si fanno le estorsioni.

PRESIDENTE. Mi spiega cosa vuol dire?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono le grosse fabbriche (chiamiamole uffici) che già pagano in sé e per sé: per queste non vi è bisogno di fare estorsioni perché sono già protette da noi...

PRESIDENTE. Pagano già...

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono i piccoli imprenditori che debbono pagare.

PRESIDENTE. Che rapporto passa tra le estorsioni ed il controllo del territorio? Lei ha detto che vi è bisogno di esercitare il controllo sul territorio e che quindi si debbono effettuare le estorsioni.

SALVATORE ANNACONDIA. Il controllo del territorio è la forza numero uno dell'eroina. Non si può controllare il territorio se non si controlla il mercato dell'eroina.

PRESIDENTE. O viceversa.

SALVATORE ANNACONDIA. No. Se uno non ha il controllo dell'eroina, non ha il controllo del territorio. Se qualcuno si illude di aver raggiunto l'apice e allora, per nascondersi alle forze dell'ordine e per sottrarsi alle indagini, decide di togliersi dal mercato dell'eroina, muore, proprio perché perde il controllo del territorio, che passa ad un'altra persona. Si tratta di una situazione obbligata perché i drogati che vivono nei paesi hanno bisogno della droga e quindi ci dev'essere qualcuno che la deve rifornire. Ripeto: quando una persona si illude di aver raggiunto l'apice, in quel momento si sta già condannando da sola...

PRESIDENTE. Poiché lei ha fatto riferimento a tre aspetti diversi del problema, dovrebbe aiutarci a capire meglio. Eravamo partiti dalle estorsioni; successivamente, lei ha accennato al controllo del territorio...

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, ma...

PRESIDENTE. Aspetti, mi lasci finire. Noi abbiamo bisogno di capire. Dopo avere accennato al controllo del territorio, lei ha parlato della droga. La prima questione che ci interessa chiarire riguarda il rapporto che intercorre tra le estorsioni ed il controllo del territorio. In sostanza, le estorsioni sono un mezzo per controllare il territorio?

SALVATORE ANNACONDIA. Adesso le spiego. Una persona non nasce già capo, ma si deve costruire, ci sono varie attività che egli deve iniziare a svolgere. Non è che si alza una mattina e dice: oggi faccio il capo! L'attività nel settore delle sigarette è un passo importante: fare il contrabbandiere significa conoscere tante persone ed avere tanti referenti in tutti i posti. Parliamo della Svizzera, che è il grosso centro dello smistamento delle sigarette. Le grosse holding ...Si inizia a scaricare le sigarette e non bisogna perdere. Allora, si acquista il nome, si diventa una persona conosciuta. Si comincia a dire che tizio o caio sono in gamba a scaricare le sigarette o che hanno iniziato a comandare il mercato delle sigarette; pian piano, si deve ingrandire ed avere una squadra che scarica dapprima uno, poi due, tre, dieci scafi. Ogni scafo ha bisogno di venti-venticinque persone. Tutti questi ragazzi sono votati alla morte per lui perché li fa mangiare: sono ragazzi che stavano in mezzo alla strada e che vengono coperti da questa persona. Si inizia a costruire. Una volta ottenuto il controllo del mercato... Il traffico delle sigarette è come giocare in borsa.

PRESIDENTE. Cioè?

SALVATORE ANNACONDIA. Ogni giorno c'è il mercato delle sigarette. La zona di influenza di questo mercato è la Campania. Diciamo che in Campania dettavano legge sulle sigarette fino a parecchi anni fa, ma ora non possono più dettare legge.

PRESIDENTE. Chi detta legge oggi?

SALVATORE ANNACONDIA. Ora ci arrivo, altrimenti facciamo dei passaggi inutili.

PRESIDENTE. Mi scusi.

SALVATORE ANNACONDIA. Una volta ottenuto il controllo nel settore delle sigarette, una persona comincia ad organizzarsi, perché inizia a guadagnare già con la vendita delle sigarette trasportate dal primo motoscafo. Se uno scarica 200 casse di sigarette, ha guadagnato trenta milioni puliti, dopo aver pagato tutti i ragazzi. Poi, può prendere un altro motoscafo a noleggio. Si deve servire degli altri, non è che si deve far comandare. Una volta ottenuto tutto questo, è diventato già una persona conosciutissima. Piano piano, inizia a prendere in mano il mercato della droga. L'estorsione viene dopo, perché nel paese ci sono vari gruppi e gruppetti. Inizia a prendere il controllo della droga nel paese. Ci deve rimettere, ma non ci rimette mai perché è difficile rimetterci sulla droga. Deve rifornire, perché la guerra della droga non si fa con le pistole ma con l'economia. Quel gruppo che smercia mezzo chilo di eroina al mese, la compra a 70 milioni al chilo; io faccio la guerra a chi vende l'eroina a quel gruppo, ma non con le armi perché se lo faccio attiro l'attenzione delle forze dell'ordine: propongo la roba a 50 milioni al chilo. Questo trova 20 milioni di risparmio; significa che su un chilo di eroina se lui mette ancora 5 milioni compra mezzo chilo in più. Compra la roba da me. Avvicino un altro gruppo, avvicino un altro gruppo, pian piano comincio ad ammazzare i miei avversari (che oramai sono avversari), ma non è che bisogna fare la guerra iniziando dalle costole. Tutte le guerre che abbiamo fatto - chiamiamole guerre - duravano poco: colpivamo alla testa e poi prendevamo con noi le persone che stavano sotto questo qua. Le guerre si tirano avanti per la lunga perché si iniziano a colpire i ragazzi e poi il capo reagisce; non lo prendi più.  Allora, una volta ottenuto il controllo dell'eroina, puoi ottenere il controllo delle estorsioni.

PRESIDENTE. Spieghi quest'altro passaggio.

SALVATORE ANNACONDIA. Ormai, avendo il controllo dell'eroina, hai il controllo di tutti i pregiudicati del posto, non hai più persone che ti possano ostacolare, puoi fare tutto quello che vuoi perché ormai non hai più avversari; tutti quelli che c'erano li hai comprati, senza che loro se ne sono accorti.

PRESIDENTE. Perché li hai fatti passare dalla tua parte.

SALVATORE ANNACONDIA. Esatto, perché sono cani sciolti. Una volta che sono passati dalla tua parte, li riconosci come tuoi ragazzi. Bisogna battezzarli poi e tu sei il loro padrino. Loro oramai conoscono il vero papà, perché gli dà da mangiare, li protegge. Loro si sentono forti; vengono arrestati e dicono: appartengo a Salvatore Annacondia. Adesso la gente che sente questo nome, madonna quante parolacce mi dice! Allora si sentivano protetti e forti perché andavano nel carcere di Milano e venivano rispettati perché erano miei ragazzi. Ecco cos'è il controllo, presidente. Per prendere il controllo, bisogna far funzionare la testa, perché non si possono prendere subito le estorsioni, che sono già controllate da chi ha il controllo dell'eroina. Quando mi è venuta la proposta di lasciare l'eroina, perché potevamo guadagnare di più con la cocaina e con l'hascisc, ho detto solo due parole: compari, questo non lo posso fare perché, il giorno che lascio l'eroina, sono una persona morta, perché devo affidare ad un'altra persona questo mercato; anche se questo è un grande amico mio, anche se è un mio figlioccio, una volta che io gli passo in mano il mercato dell'eroina, questo dice: chi mi dice che Salvatore domani non mi ammazza? Di conseguenza tutte queste persone che gravitavano nella mia organizzazione passano sotto il suo controllo ed io sono una persona morta, anche se ho il controllo dell'hascisc e della cocaina, perché quello della cocaina è un mercato più classico, più riservato, più stretto.

PRESIDENTE. Non è di strada.

SALVATORE ANNACONDIA. Non è di strada. Allora dissi che questo non lo potevo fare. Mi dissero: hai ragione.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato bene i vari passaggi, dicendo che l'estorsione è l'ultima fase, quando si ha già il controllo di tutto. Però le estorsioni a Trani non si facevano. Perché?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché ci vivevo io e perché era diventato il centro di smistamento di tutto.

PRESIDENTE. Quindi, una zona più tranquilla.

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, non posso spiegare un altro passaggio dell'organizzazione, che è coperto da segreto.

PRESIDENTE. Può descrivere il passaggio in astratto, senza fare nomi, che non ci interessano.

 SALVATORE ANNACONDIA. L'ho accennato già prima: queste holding che dovevamo aprire; c'era già il magazzino di forniture edili, c'era già l'immobiliare.

PRESIDENTE. E la finanziaria?

SALVATORE ANNACONDIA. Pure.

PRESIDENTE. C'era tutto.

SALVATORE ANNACONDIA. E stava già tutto avviandosi. Dovevamo acquisire le azioni e per comprarle bisognava che queste attività facessero il lavoro di un anno, un anno e mezzo. Devono lavorare per conto loro, si devono avviare. Solo che il magazzino forniture edili era intestato a mia moglie, come socio accomandante, più azionario. Questa società poi doveva essere venduta e io avevo un altro utile da dimostrare; quando andavo a vendere l'avviamento della società, avevo quest'altro utile. Poi rimaneva mia moglie come socia minoritaria, prendeva il 30 per cento, il 20 per cento, il 15 per cento, perché le quote della società erano aumentate. C'era questo fatto, ma non posso parlare oltre, signor presidente, perché ci sono i verbali.

PRESIDENTE. Li abbiamo letti. Perché lei ha deciso di collaborare?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché ho deciso di collaborare è una bella domanda.  Signor presidente, ho visto tante cose sporche nella  vita.

PRESIDENTE. Ci siamo resi conto. Un po' le ha anche fatte.

SALVATORE ANNACONDIA. Ne ho fatte assai.  Mi trovavo nel carcere di Foggia, durante un colloquio con mia moglie, uno degli ultimi in quel carcere, mia moglie alla fine disse: Salvatore, per colpa tua sta morendo tuo figlio. Signor presidente, ho un bambino di sette anni; non si capiva perché questo bambino dimagriva. Quando seppi questa cosa dissi: che cosa è successo? Tuo figlio ha preso un deperimento organico per mancanza di affetto paterno.  Signor presidente, io dovevo uscire quanto prima, però c'era bisogno di mesi. Alla fine del colloquio - mia moglie stava andando via - chiamo uno dei miei fratelli e dico di mandarmi un certo carabiniere che io sapevo essere una persona corretta in tutto e per tutto, una persona che ha perso dieci anni di vita sua dietro a me. Meglio di lui non potevo, per mandare il messaggio, perché non potevo segnarmi a modello 13 e chiamare il magistrato, per l'importanza che avevo: era una brutta cosa.  Torno in sezione, viene a colloquio l'avvocato. Dopo aver parlato con l'avvocato gli dico: avvocato, mi voglio pentire. L'avvocato rimase e disse soltanto: può essere un'ottima idea. Perché l'avvocato sapeva già tutto del fatto di mio figlio. Parlo con l'avvocato; è l'unica persona a cui potevo rivolgermi. OMISSIS

PRESIDENTE. Ma sapeva chi era lei davvero o no?

SALVATORE ANNACONDIA. L'avvocato Gironda mi ha difeso dal 1983.

PRESIDENTE. Quindi sapeva bene.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Però non conosceva effettivamente tutte le attività che svolgevo. Pensate che nel 1987 (potrei essere impreciso nei mesi perché potrebbe trattarsi della fine del 1986 anziché dei primi mesi del 1987) venne a giocare a Bari la Juventus e l'avvocato Gironda (una settimana prima) sapendo che io sono un grosso tifoso della Juventus, mi chiese se ero d'accordo a restare a cena con loro. Io dissi subito di sì perché mi piaceva.  Mi disse di organizzare la cena in un ristorante tranquillo dove passare una bella serata. Organizzammo la cena al ristorante Grotta Palazzese a Polignano a mare. A quella cena parteciparono (all'epoca era direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno ) il senatore Iacovazzo, il commendator Mincuzzi, Giampiero Boniperti, l'avvocato Gironda e tanti altri personaggi (l'avvocato Gironda mi ha sempre presentato persone di un certo livello), uno dei più grandi notai di Bari. L'avvocato Gironda ha sempre stravisto per me, ha avuto sempre un occhio di riguardo nei miei confronti. Io ero il suo consigliere nel fargli mangiare il pesce perché lui si fidava solo del pesce che io gli portavo. Lo dovevo pulire, gli consigliavo: questo lo puoi mangiare in questo modo, questo lo puoi mangiare in un altro modo. Per lui io ero un figlio, un fratello, un grande amico. OMISSIS

ALTERO MATTEOLI. L'avvocato Gironda faceva queste cose in buona fede?

PRESIDENTE. L'avvocato Gironda sapeva ciò che lei faceva, ciò che lei era effettivamente o no?

SALVATORE ANNACONDIA. Lui cadeva in buona fede, perché io gli promettevo, gli giuravo che... Però quando io giuravo a lui lo facevo in un certo modo. Non lo giuravo, ma lui capiva che io giuravo.

PRESIDENTE. Può spiegare cosa vuol dire?

SALVATORE ANNACONDIA. In velocità. Dicevo: "Non ti giuro. Don Aurè, te lo sto giurando, non ti giuro che io faccio...". C'era un passaggio di questo tipo.

PRESIDENTE. Ho capito. L'avvocato Gironda è uno dei maggiori penalisti pugliesi, la difendeva in alcuni processi...

SALVATORE ANNACONDIA. In tutti i processi.

PRESIDENTE. Possibile che non capiva chi era lei?

SALVATORE ANNACONDIA. Io ho sempre detto che erano calunnie, tragedie sul mio conto.

PRESIDENTE. Doveva essere molto sfortunato, però.

SALVATORE ANNACONDIA. Lui era convinto che...

PRESIDENTE. Era convinto che lei fosse sfortunato? OMISSIS

PRESIDENTE. Gironda ha uno studio legale, molto ben avviato. Da Bari andava fino a Trani per parlare di queste cose? SALVATORE ANNACONDIA. L'avvocato Gironda un giorno sì e un giorno no veniva a Trani.

PRESIDENTE. Per lavoro?

SALVATORE ANNACONDIA. No, perché gli piace Trani, gli piacevo io, gli piaceva il mio ristorante, la veduta stupenda sul porto. Gli piaceva passeggiare al porto per svagarsi un po'.

PRESIDENTE. Quanto dista Trani da Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Trenta chilometri. C'è la 16- bis, una superstrada che collega tutti i paesi.

PRESIDENTE. Lei stava spiegandoci perché sta collaborando. Sua moglie le ha detto che il bambino sta male, è carente di affetto paterno. Lei a Foggia non può fare la richiesta per parlare con il magistrato, poi deve spiegare il perché...

SALVATORE ANNACONDIA. Non sapevo a chi dovevo rivolgermi.

PRESIDENTE. La richiesta per parlare con De Marinis non poteva farla a Foggia?

SALVATORE ANNACONDIA. Potevo farla a Foggia.

PRESIDENTE. Perché non l'ha fatta?

SALVATORE ANNACONDIA. Dovevo mandare pure il  messaggio e dovevo parlare con Gironda. OMISSIS

SALVATORE ANNACONDIA. Ritornando ad Ascoli Piceno viene questo procuratore ed il giorno dopo io lo mando via perché non potevo parlare.

PRESIDENTE. Non voleva parlare con lui.

SALVATORE ANNACONDIA. Il giorno dopo mi fanno visita il carabiniere che avevo mandato a chiamare ed un brigadiere; sapevo che era una persona...

PRESIDENTE. Era un ufficiale dei carabinieri o un sottufficiale?

SALVATORE ANNACONDIA. Sottoufficiali: un brigadiere ed un appuntato che erano del reparto operativo di Bari. Mi viene a trovare e mi disse: Salvatore ho parlato con i tuoi e noi già capiamo cosa vuoi, dipende da cosa vuoi collaborare, Salvatore. Lui mi fece delle mosse e mi disse: c'è questa collaborazione ed io risposi: non esiste che io possa fare un pezzo, io devo fare tutto quant'è. Allora gli dissi: qui non possiamo parlare, ci dobbiamo avvicinare in qualche altro carcere in quanto stavamo tutti quanti...

PRESIDENTE. Tutti i 41-bis ?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, c'era tutto il Gotha mafioso della Puglia...

PRESIDENTE. Ad Ascoli Piceno?

SALVATORE ANNACONDIA. Mancavano pochi personaggi, ma per il resto stavamo tutti.

PRESIDENTE. Era pure comodo, perché vi potevate parlare.

SALVATORE ANNACONDIA. Chiarimmo tante e tante cose.

PRESIDENTE. Certo.

ALTERO MATTEOLI. Lo fecero apposta.

SALVATORE ANNACONDIA. Può darsi. Mi disse: "Salvatore non ti preoccupare, in questi giorni sarai trasferito in un altro carcere dove possiamo parlare". Fatto sta, signor presidente, che mi sono trovato all'Asinara; fui il primo ed allora iniziai a capire, a pensare.

PRESIDENTE. Quindi lei fece Foggia, Ascoli Piceno e l'Asinara?

SALVATORE ANNACONDIA. Iniziai a pensare e dissi: qui non si vuole che io collabori. Sto all'Asinara ed ormai mi sta passando di testa questo fatto qua. I carabinieri che mi vennero a trovare stavamo al servizio, alle indagini con il giudice Pasquale Drago, il magistrato che stava indagando su di noi, su di me.

PRESIDENTE. Di quale tribunale è Drago?

SALVATORE ANNACONDIA. Trani. Drago fa i salti mortali per farmi avvicinare perché per lui aver speso tanti anni per beccarmi... Tutti gli omicidi lui li sapeva, li poteva descrivere tutti, però non aveva prove, aveva i riscontri, ma non le prove. Sapeva benissimo che se mi arrestava mi avrebbero presto scarcerato. Tutti gli anni del grosso traffico degli stupefacenti che c'è stato e tutti i lavori che si potevano svolgere nel mondo della criminalità erano a conoscenza di Drago, solo che non li poteva dimostrare. Drago faceva il pazzo, ma purtroppo aveva lasciato la procura, lui doveva solo istituire il mio processo e poi andare via dalla procura. Mi fece arrivare per un anticipo di una ventina di giorni prima dal 29 di settembre che avevamo l'udienza preliminare.

PRESIDENTE. Per quali reati era dentro?

SALVATORE ANNACONDIA. Fui arrestato per plurimi omicidi, per associazione a delinquere e droga, accusato da due pentite...

PRESIDENTE. Da quei due pentiti lì?

SALVATORE ANNACONDIA. Due pentite, poi la suprema corte accolse i ricorsi che noi facemmo ed annullò l'ordinanza di custodia cautelare, solo che Drago nello stesso giorno mi fece bloccare la scarcerazione e mi notificò l'altro provvedimento: associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di ingenti quantitativi di droga.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Solo che mio fratello e Regano riuscirono ad uscire, io e Strega non riuscimmo ad uscire...

PRESIDENTE. Perché arrivò...

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Allora Drago aveva già istruito quasi tutto il processo e fissa l'udienza preliminare perché io il 1^ ottobre andavo a decorrenza termini e questo mi era stato già avvisato, e poi le spiegherò come. Mi fa arrivare prima ed ho un colloquio con Drago; parlo pure con il mio avvocato ma nel frattempo mi arriva il triplice omicidio del Gargano...

PRESIDENTE. Quello della masseria?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Il 1^ settembre mi fu notificata l'ordinanza di custodia cautelare per triplice omicidio. Il dottor Drago viene, facciamo un colloquio insieme e mi dice: "Salvatore, ti faccio sapere in questi giorni perché io non dipendo più dalla procura, sono passato al tribunale, però il mio pensiero è la tua collaborazione, peccato che non ti possa ascoltare io". Signor presidente, le parlo soltanto... perché poi sono gli altri a fare... pensate a tutto quello che è successo. Pasquale Drago mi fa un verbale...

PRESIDENTE. Il dottor Drago sapeva che lei voleva collaborare?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Come lo aveva saputo?

SALVATORE ANNACONDIA. Dai carabinieri che mi erano venuti a trovare ad Ascoli Piceno i quali lavoravano alle indagini insieme a Pasquale Drago. Io avevo parlato con Pasquale Drago tramite loro.

PRESIDENTE. L'onorevole Galasso vorrebbe un quadro preciso dei suoi spostamenti e sapere quale rapporto passa tra tali spostamenti e la richiesta di collaborazione. La questione è in questi termini: lei sta a Foggia dove viene a trovarla sua moglie che le dice che suo figlio sta male. A questo punto decide di far il salto e collaborare, non ritiene di fare la richiesta al magistrato e chiede di sentire questi...

SALVATORE ANNACONDIA. E nello stesso momento parlo pure con l'avvocato.

PRESIDENTE. Parla con l'avvocato il quale le dice: mi pare una buona idea. Dopo di che ammazzano Borsellino e lei con gli altri della grossa malavita pugliese viene mandato ad Ascoli Piceno. Qui vengono a trovarla due sottufficiali dei carabinieri ai quali comunica la sua intenzione di collaborare, diciamo, a 360 gradi, dire tutto e così via. Quelli le dicono: qui non è possibile, ti facciamo trasferire in un altro carcere. Però l'altro carcere diventa l'Asinara...

SALVATORE ANNACONDIA. No, doveva essere un carcere...

PRESIDENTE. Ho detto diventa, ossia lei finisce all'Asinara.

SALVATORE ANNACONDIA. Diventa Asinara.

PRESIDENTE. A questo punto ritiene che questo vuol dire che non vogliono farla collaborare, questo in pratica è il suo sospetto.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, esattamente.

PRESIDENTE. All'Asinara le arriva ad un certo punto la citazione che l'udienza preliminare...

ALFREDO GALASSO. In questo quadro come si inserisce la richiesta a De Marinis?

SALVATORE ANNACONDIA. La richiesta a De Marinis è stata già fatta dal carcere di Ascoli Piceno.

PRESIDENTE. Lui chiede di parlare con il procuratore generale De Marinis, il quale non va e va invece il procuratore di Ascoli...

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente adesso le spiego meglio...

PRESIDENTE. Ha capito qual è il problema?

SALVATORE ANNACONDIA. Quando parlo con l'avvocato Gironda mi pare fosse il sabato precedente la mia partenza del lunedì per Ascoli Piceno.

PRESIDENTE. Cioè sabato 18?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Io parlo con l'avvocato Gironda e lo aspetto 4-5 giorni. Dato che siamo già nel mese di luglio vengo trasferito ad Ascoli Piceno con il 41- bis e con l'avvocato Gironda dovevamo vederci dopo 4-5 giorni. Io voglio anticipare questi 4-5 giorni e faccio la richiesta a modello 13, allegando anche un'istanza che voglio parlare con il procuratore De Marinis. Ecco il passaggio che c'è. Dopo che viene il procuratore (non ricordo bene se egli è venuto il giorno prima o il giorno prima sono venuti i due carabinieri, ma penso che prima venne il procuratore di Ascoli Piceno) gli dico che non c'è niente da parlare, volevo parlare con il magistrato ma che dopo parlerò con il mio avvocato. Questo fatto lo misi a verbalino. Quando sono venuti i due carabinieri sono stato trasferito all'Asinara, dopo la venuta dei carabinieri Annacondia viene preso e portato all'Asinara: sono stato il primo ad arrivare ed era il 20 agosto. Siamo stati in 12 ad arrivare ed io fui il primo. A questo punto mi sorge il dubbio, subito a caldo, che non vogliono che io collabori. Il

sostituto procuratore Pasquale Drago invece di farmi venire uno, due giorni prima del 29 settembre, riesce a farmi venire dall'Asinara una quindicina di giorni prima e mi appoggiano a Carinola, vicino Caserta.

PRESIDENTE. Quindi?

SALVATORE ANNACONDIA. Vado all'udienza preliminare e Pasquale Drago mi contatta, sempre con i due carabinieri: io vengo contattato nel furgone. Dissi io: voi siete delle persone che non mi piacete più perché come mai io ho parlato con voi e mi avete promesso che parlavamo in un altro carcere e mi avete fatto... Dissero: no, Salvatore, non sappiamo niente noi, è stata tutta una cosa organizzata, fatta dal ministero il tuo trasferimento all'Asinara. Dissero: comunque, Salvatore, non ti preoccupare perché c'è tutta la nostra buona volontà a farti collaborare e il dottor Drago vuole sapere che cosa deve fare. Io dissi: va bene, vediamoci di nuovo. Ritornai di nuovo sui miei passi.

PRESIDENTE. Nel senso che aveva deciso di non collaborare e poi decide nuovamente di collaborare?

SALVATORE ANNACONDIA. Io ridecido di collaborare. Viene a Carinola il dottor Drago e mi spiega tutti i motivi che lo hanno spinto a lasciare la procura. Non che mi spiega perché lo hanno spinto, i motivi, ma mi spiega perché ha lasciato la procura e non dipende più da lui. Se avesse saputo le mie intenzioni, lui mi disse: sarei rimasto alla procura ed avrei passato alla superprocura a Bari, alla distrettuale. Facciamo un verbalino. Mi dice: Salvatore, dobbiamo fare un verbale. Io gli dissi: non dobbiamo fare nessun verbale. Tira e molla, tira e molla, facciamo un verbale di persone che io potevo parlare. Ci lasciamo e rimaniamo d'appuntamento a due o tre giorni, mi avrebbe fatto sapere. All'epoca come reggente alla superprocura, a Roma, c'era Di Gennaro. Pasquale Drago va a Roma e incontra pure il dottor Sinisi, un ex magistrato di Trani che stava al Ministero di grazia e giustizia. Quando Pasquale Drago confida a Sinisi della mia collaborazione, Sinisi è tutto contento e dice: adesso potremo risolvere tante e tante situazioni che per noi erano buio. Pasquale Drago si rivolge a Di Gennaro e dice: io ho questa persona che può collaborare. Fu messo fuori.

PRESIDENTE. Chi?

SALVATORE ANNACONDIA. Pasquale Drago. Disse: non ci interessa.

ALTERO MATTEOLI. Lei come fa a saperlo?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché me lo ha detto Pasquale Drago.

PRESIDENTE. Il dottor Drago gli disse: io sono stato accantonato.

PAOLO CABRAS. Il procuratore Di Gennaro avrebbe detto che non gli interessava?

SALVATORE ANNACONDIA. Che non gli interessava.

PAOLO CABRAS. Glielo ha detto Drago?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Poi?

SALVATORE ANNACONDIA. Pasquale Drago ritorna dal Ministero tutto sconsolato, amareggiato perché era stato pure a Bari il giorno prima, dalla procura distrettuale. E fu messo fuori pure.

PRESIDENTE. Cioè, non lo ascoltarono né la procura distrettuale né quella nazionale.

SALVATORE ANNACONDIA. Si ritira da Roma, era intorno alle 7 di sera, tutto stanco, si ferma al carcere e mi spiega i motivi. Dice: Salvatore, tutta la mia grande volontà, adesso che potevo fare piena luce in tutto questo... Io gli dissi solo: dottore, non fa niente, facciamo finta che non abbiamo fatto niente e, se mi fa una cortesia, possiamo strappare quel verbalino che abbiamo fatto. Allora disse: Salvatore, aspetta. Io mi alzai e lo salutai e dissi: dottore, lasciami perdere. C'è stato un attimo di felicità, sia da parte sua che da parte mia, però adesso è meglio tacere perché io ho famiglia e non voglio che mi rovino. Mentre arrivo vicino alla porta, Pasquale Drago mi dice: Salvatore, mi concedi un secondo ancora? Io ho una persona, un mio collega magistrato che posso parlare. Dissi io: chi è quest'altro? E lui disse: fa parte della distrettuale di Lecce. Dato che tu puoi parlare delle cose di Taranto...

PRESIDENTE. Amodeo, questo giro qui.

SALVATORE ANNACONDIA. ...che competenza è Lecce, posso fissare un appuntamento con un mio collega magistrato. Mi dai una settimana di tempo? Dissi io: va bene, vi do una settimana di tempo. Dottore, se in una settimana non può fare niente, mi faccia una cortesia personale, mi strappa quel verbalino, così la finiamo. Disse lui: Salvatore, ti prometto che lo faccio, e lo faccio.  Dopo 3 o 4 giorni ritorna il dottor Drago. Scendo giù e conobbi il dottor Mandoi (che è lì presente), e iniziamo la mia collaborazione. Io adesso, signor presidente, fino all'ultima volta che ho incontrato l'avvocato Gironda, all'udienza preliminare...

PRESIDENTE. Dopo non l'ha più visto l'avvocato Gironda?

SALVATORE ANNACONDIA. No, come. Già ormai i miei avvocati sapevano...

PRESIDENTE. L'orientamento.

SALVATORE ANNACONDIA. ...che io stavo collaborando, dovevo collaborare e li rassicurai dicendogli che avrei parlato solo di criminalità, non avrei oltrepassato i limiti. Mi ricordo che l'ultima volta che ho visto l'avvocato Gironda, l'ultima udienza che ho fatto il 22 marzo o aprile - no, fu marzo - gli dissi: don Aurelio, stai tranquillo che di cose... Poi, signor presidente, ho voluto fare piena luce su tutto e ho dovuto parlare di tutti e per tutti, non per odio ma perché mi voglio pulire, voglio una pulizia generale dentro il mio corpo.

PRESIDENTE. Gironda non è più suo avvocato?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

PRESIDENTE. Quando ha smesso di esserlo, quando l'ha revocato?

SALVATORE ANNACONDIA. L'ho revocato il giorno dell'udienza preliminare.

PRESIDENTE. Ad agosto? 

 SALVATORE ANNACONDIA. No, a marzo.

PAOLO CABRAS. A marzo di quest'anno?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, 1993.

MARCO TARADASH. Per quale motivo?

SALVATORE ANNACONDIA. L'ho voluto revocare perché dentro di me c'era la volontà di parlare su tutto.

PRESIDENTE. C'è una cosa che non ho capito: a marzo viene sua moglie a parlarle.

SALVATORE ANNACONDIA. No.

PRESIDENTE. Ed allora quando viene sua moglie?

SALVATORE ANNACONDIA. Nel luglio 1992, prima che erano successe le leggi in vigore. Io non ho collaborato per sconti di pena, perché c'erano queste agevolazioni sui pentiti. Io, signor presidente, ho lanciato il mio messaggio a luglio.

PRESIDENTE. Capisco, era questo che mi sfuggiva.

ALTERO MATTEOLI. Se lei continuava ad avere l'avvocato Gironda come difensore, non poteva collaborare lo stesso? Se ho ben capito, visto che il passaggio è un po' contorto, lei ha raccontato di aver detto all'avvocato Gironda di avere intenzione di collaborare e che questi le avrebbe risposto: bravo Salvatore, mi sembra che tu faccia una cosa giusta. Cosa è accaduto dopo? E' questo che non riesco a capire.

SALVATORE ANNACONDIA. All'epoca io tranquillizzai Gironda dicendogli di avvisare il dottor De Marinis che non avrei mai parlato di questo.

PAOLO CABRAS. Della faccenda del verbale. Questo lo abbiamo capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Ma non avrei parlato mai di nessun magistrato finché avevo l'avvocato Gironda. Se avessi avuto l'avvocato Gironda e avessi collaborato con De Marinis, non avrei parlato di altre cose di cui ho parlato.

PRESIDENTE. La cosa che vorrebbe sapere l'intera Commissione è per quale motivo lei non poteva continuare ad avere l'avvocato Gironda e parlare anche dei magistrati.

SALVATORE ANNACONDIA. Di conseguenza, se avevo l'avvocato Gironda e parlavo di De Marinis, parlavo dell'avvocato.

PRESIDENTE. Avrebbe coinvolto l'avvocato stesso.

SALVATORE ANNACONDIA. Era di conseguenza che dovevo parlare... Come facevo ad avere l'avvocato e parlavo di lui?

PRESIDENTE. Quel verbalino famoso fatto con Drago fu stracciato o no?

SALVATORE ANNACONDIA. Quello di Drago? No, non è  stato mai stracciato. Io mi volli assicurare al dottor Drago, se non erro quando ho fatto... ma non penso che stava presente il dottor Mandoi quando ho fatto questo ragionamento al dottor Drago perché con Drago mi sono visto ancora un paio di volte. L'ultima volta che mi sono visto con lui, feci un altro verbale dove mi dichiarai colpevole sul traffico di stupefacenti, mi attribuii i reati perché lui mi doveva concedere il rito abbreviato. A Drago io dissi: dottore, lei mi deve fare una grossa cortesia. Perché lui disse che doveva depositare il verbalino quando lasciava la procura, lo doveva consegnare a De Marinis. Allora, dato che avevo già avuto i contatti con il dottor Mandoi (non lo dico perché il dottor Mandoi è presente; non voglio fare elogi a nessuno), vidi la sincerità e l'onestà del dottor Mandoi nel voler far pulizia e chiesi al dottor Drago... Mi rispose: "Salvatore, questo verbale lo posso tenere fino a dicembre, massimo gennaio, ma dopo debbo depositare tutto a Bari, al mio capo" (cioè, al procuratore). Gli dissi: "Dottor Drago, mi faccia una cortesia: veda di rimandare quanto più possibile questo fatto perché ho parlato con il dottor Mandoi e mi ha giurato che non ci saranno fughe di notizie per un po' di tempo". Io volevo collaborare in modo tranquillo e sereno. Ho sempre detto di lasciarmi in tranquillità perché solo così si può andare avanti.

PAOLO CABRAS. Chi è il suo attuale avvocato?

SALVATORE ANNACONDIA. Luigi Rella, del foro di  Lecce.

PRESIDENTE. Passiamo al altro. In quali regioni d'Italia lei ha operato?

SALVATORE ANNACONDIA. Puglia, Campania, Lombardia, un po' di Piemonte, Genova, Roma, Calabria, Sicilia. Signor presidente, la mia presenza era...

PRESIDENTE. Abbastanza diffusa!

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Questo lo abbiamo capito. Ha fatto qualche operazione al di fuori dell'Italia, in Stati stranieri?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Dove?

SALVATORE ANNACONDIA. Non posso parlare, signor presidente. Ci sono grosse indagini...

PRESIDENTE. Non può dire in quali paesi ha operato?

SALVATORE ANNACONDIA. No, presidente.

PRESIDENTE. Europei o extraeuropei?

SALVATORE ANNACONDIA. Fuori Europa.

PRESIDENTE. Lei ha avuto un qualche ruolo nella gestione degli appalti?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Vorremmo capire anzitutto che ruolo abbia avuto e poi che cosa voglia dire gestire gli appalti.

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, ho rilasciato dichiarazioni su questo argomento, che risultano a verbale, una settimana fa.

PRESIDENTE. Non ci interessa l'appalto specifico, ma la tecnica. Lei deve tenere presente che le responsabilità le accerta la magistratura. A noi interessa capire in che modo si svolgono le cose sì da potere intervenire al fine di evitare che certi fenomeni si ripetano.

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, se pure mi limitassi a parlare di un piccolo ruolo, il segreto istruttorio che copre certe indagini in corso verrebbe meno. Già c'è stata qualche piccola fuga di notizie. Io non posso oltrepassare...

PRESIDENTE. Negli interrogatori riportati in documenti depositati e pubblici...

SALVATORE ANNACONDIA. Non sono pubblici, signor presidente!

PRESIDENTE. Se così fosse, non li avremmo qui!

SALVATORE ANNACONDIA. Forse non mi sono spiegato bene, presidente.

PRESIDENTE. Io non parlo degli atti che si riferiscono alle sue dichiarazioni rilasciate la settimana scorsa.

SALVATORE ANNACONDIA. Quelli, signor presidente, non sono stati eseguiti...

PRESIDENTE. Mi permetta: ognuno deve fare il suo mestiere. Io faccio il mio. Mi sto riferendo a verbali già depositati riferiti a provvedimenti restrittivi o ad altro. All'interno di questi verbali è contenuta la descrizione di alcune vicende, in particolare di quella relativa ad alcune imprese di pulizia. Io non sto parlando delle dichiarazioni che lei ha rilasciato la settimana scorsa, delle quali nessuno di noi sa di cosa si tratti. In sostanza, lei dice di non poter parlare, però su una questione di appalti ha già parlato...

SALVATORE ANNACONDIA. Il verbale del quale sta parlando dipende dalla procura di Bari. Per quanto riguarda quest'ultima, io ho avuto occasione di verbalizzare soltanto con il dottor Magrone, con riferimento alla criminalità. Signor presidente, io interlocutori su Bari non ne ho avuti!

PRESIDENTE. Non credo si tratti di Bari.

ALTERO MATTEOLI. Infatti, riguarda Trani.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, ma Trani dipende da Bari. Pertanto, non sono stati eseguiti, è fermo, è là...

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Non posso, signor presidente.

PRESIDENTE. Adesso ho capito cosa vuol dire. In sostanza, non ci sono stati seguiti...

SALVATORE ANNACONDIA. Esatto!

PRESIDENTE. Adesso è chiaro. Lei quindi afferma che per ora non può parlare degli appalti perché vi sono indagini in corso.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Va bene. C'è mai stata una struttura unitaria della criminalità in Puglia?

 SALVATORE ANNACONDIA. No, signor presidente. Questa esiste perché vi sono accordi fra di noi. Le potrei parlare di summit volti a raggiungere accordi sulle attività svolte con riferimento alle zone di influenza reciproca. In tutto il nord barese e nel tarantino ero il perno principale di queste situazioni.

PRESIDENTE. Quindi, non c'è una struttura unica, ma ci sono intese (quelle che lei definisce summit), accordi. Ciò con riferimento a singoli affari o per gestire le cose per un po' di tempo?

SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1991 si volle creare un'organizzazione unica. Tutti i gruppi (nel Salento, nel brindisino) avevano scontri, guerre, faide. Vi era molto sangue sparso. Io sono stato amico sia di una parte che dell'altra. Ho già detto prima che non ho mai voluto far parte della Sacra corona unita perché avevo amicizie da una parte e amicizie dall'altra, con riferimento ai gruppi che si scontravano.

PRESIDENTE. Uno dei due gruppi era la Sacra corona. Quale era l'altro?

SALVATORE ANNACONDIA. Era tutta Sacra corona.

PRESIDENTE. Si trattava allora di gruppi diversi della Sacra corona?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, di gruppi che si erano spaccati. Poi si voleva creare un'unica cosa perché la Sacra corona unita è stata riconosciuta dalle sentenze. Giustamente, queste persone si sentivano amareggiate giacché rappresentanti di singoli gruppi piccoli commettevano reati, venivano arrestati e dichiaravano di far parte della Sacra corona unita. Questo fatto si doveva eliminare. Doveva essere una struttura, una famiglia unica che doveva orchestrare. All'epoca ero in libertà e fui interpellato. Riccardo mi mandò un'imbasciata...

PRESIDENTE. Chi è Riccardo?

SALVATORE ANNACONDIA. Riccardo Modeo.

PRESIDENTE. Quello di Taranto?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Mi mandò a dire se volevo aderire perché doveva aderire pure lui. Riccardo non faceva parte di alcuna organizzazione, era un fuoco di paglia. Io mi dissi disponibile ad aderire a condizione che ci fosse pace da tutti e due i fronti. Dissi che quando ci sarebbe stata la pace, sia da una parte che dall'altra, non avrei avuto difficoltà ad aderire alla Sacra, che si sarebbe poi dovuta chiamare in un altro modo...

PRESIDENTE. Come si sarebbe dovuta chiamare?

SALVATORE ANNACONDIA. Nuova Sacra corona unita. Si prendono cinque o sei mesi di tempo per decidere. Io avrei dovuto essere uno dei maggiori referenti nella Sacra per l'approvvigionamento di armi e di stupefacenti. Il mio spessore era conosciuto da tutti. Io non ho mai voluto rifornire Lecce proprio per i contrasti che c'erano. Se io ero con un gruppo e in quel momento passava l'altro gruppo, io lo salutavo anche se ero in compagnia di quel gruppo.

PRESIDENTE. Lei, insomma, poteva farlo.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché ero simpatizzante di tutti e due i gruppi, ma non avevo mai aderito, perché già potevo aderire dal 1984, quando mi trovavo nel carcere di Lecce, quando si iniziò a fondare tutto questo, quando iniziarono le perquisizioni in tutte le carceri d'Italia, quando fu trovato lo statuto, a Porto Azzurro, a Pino Rogoli. Non ho voluto mai aderire, proprio perché iniziarono gli scontri e tutto questo. All'epoca ero detenuto, poi fui trasferito da Lecce. Insomma, c'è tutta una scalata da che ho avuto gli arresti domiciliari; la mia scalata, quella vera e propria è stata dagli arresti domiciliari, quando ho iniziato a prendere il potere giorno dopo giorno, a colpi di pistola, a colpi di lupara bianca.

PRESIDENTE. Lei stava agli arresti domiciliari, ma continuava a fare quello che faceva prima, anzi peggio?

SALVATORE ANNACONDIA. Quello che facevo prima era niente a confronto di quello che ho fatto agli arresti domiciliari.

PRESIDENTE. Erano arresti per modo di dire?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Abbiamo capito.  Lei stava spiegando che nel 1991 c'è un tentativo di costruire un'organizzazione unica. Come va a finire?

SALVATORE ANNACONDIA. Iniziamo a parlare dopo l'arresto di Riccardo e Gianfranco.

PRESIDENTE. Questi sono i Modeo?

SALVATORE ANNACONDIA. Prendo tutte le redini di Taranto in mano, per mandare avanti...

PRESIDENTE. Su incarico loro?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. C'erano dei grossi buchi, perché non avevano la mentalità di una vera organizzazione. Erano tutti sciolti. Li rimetto a posto e sistemo tutti i settori come Dio comanda, spendendo tempo e giorni.

PRESIDENTE. Spero che Dio comandi altro, comunque.

SALVATORE ANNACONDIA. Esatto, speriamo. Gli sistemo tutto il gruppo e dopo qualche mese, quando Riccardo era già a Livorno e Gianfranco stava a Novara, mi arriva l'imbasciata e Riccardo mi dice: Salvatore, vedi che abbiamo parlato; se aderisci tu aderisco pure io. Dissi io: Riccardo, faglielo sapere a tutti quanti, perché sono tutti amici, che io posso aderire se c'è una pace, perché non posso aderire rifornendo il gruppo De Tommasi e poi mettermi contro; di conseguenza, accade che mi devo mettere contro per forza all'altro gruppo o, se mi metto con Mario Tornese, mi metto contro a De Tommasi. Dissi io: quando ci sarà una pace unica, aderirò senza problemi. Lei si figuri, signor presidente, che questa pace non è stata mai fatta, perché c'era troppo sangue sparso, sia da una parte che dall'altra. Nel 1992, quando ci trovavamo ad Ascoli Piceno, non c'è stata ancora questa pace; c'è stata una tregua perché ogni volta che si parla di pace c'è una tregua: non ci possono essere intenzioni di parlare con la guerra in atto e quindi ci fu la tregua. Ma questa pace non si è potuta fare.

PRESIDENTE. Praticamente non si è mai riusciti a fare una struttura unica?

SALVATORE ANNACONDIA. Non si è mai riusciti.

PRESIDENTE. Quindi, c'era la Sacra Corona, poi il suo gruppo, poi c'era Modeo. Erano questi i tre gruppi più importanti?

SALVATORE ANNACONDIA. No. Stiamo parlando di questi gruppi adesso, nel 1990-1991. Cominciò ad uscire fuori pure a Foggia, già dal 1986-1987, Rocco Moretti, altro emergente. Poi c'era il gruppo dei cerignolani, altro gruppo potente.

PRESIDENTE. Cioè quelli di Cerignola?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. E la Rosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Fu distrutta sul nascere.

PRESIDENTE. La Rosa era quella di Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Fu distrutta sul nascere.

PRESIDENTE. I referenti della grande criminalità internazionale di queste organizzazioni erano sempre gli stessi, 'ndrangheta, camorra, Cosa nostra, oppure alcuni erano del tutto autonomi?

SALVATORE ANNACONDIA. Non possono essere autonomi, signor presidente, perché se non sono riconosciuti non possono operare; possono operare ma a livello...

PRESIDENTE. Basso?

SALVATORE ANNACONDIA. No, a livello del loro paese. Bisogna essere riconosciuti per poter operare a livello nazionale ed internazionale.

PRESIDENTE. Cioè, per poter avere la droga?

SALVATORE ANNACONDIA. La droga non è che... si può avere solo se si è riconosciuti. Bastano solo le amicizie che ci sono, gli scambi di favori, e poi entra l'amicizia pura. Però, per essere riconosciuti come famiglia, bisogna che venga innalzata dal capo decima. Di capo decima in Puglia non ce n'erano, ce n'erano pochi.

PRESIDENTE. Perché non c'erano le dieci famiglie.

SALVATORE ANNACONDIA. Allora tutto l'innalzamento veniva dalla Calabria, perché la Puglia è supportata dalla Calabria, dalla 'ndrangheta.

PRESIDENTE. Sostenuta.

PAOLO CABRAS. Sia a Bari, sia a Foggia, sia a Taranto?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, la Calabria, specialmente su Lecce, è stata sempre la "mamma".

PRESIDENTE. Il vicepresidente Cabras vorrebbe sapere se per Foggia c'era sempre la presenza della Calabria o c'era anche un po' più di camorra.

SALVATORE ANNACONDIA. Per Foggia la Calabria. C'è pure un locale, di cui non posso parlare perché è coperto da segreto. C'è un locale del posto, referente di una nota famiglia di 'ndrangheta.

PAOLO CABRAS. Stiamo parlando di Foggia?

SALVATORE ANNACONDIA. Provincia di Foggia.

PRESIDENTE. E proprio a Foggia?

SALVATORE ANNACONDIA. A Foggia doveva essere riconosciuto.

PRESIDENTE. Dalla 'ndrangheta o dalla camorra?

SALVATORE ANNACONDIA. Dalla 'ndrangheta.

PRESIDENTE. Ci sono presenze della camorra?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono stralci, ci sono interessi, business, perché quando la camorra voleva entrare nel territorio foggiano... successe, lei ricorderà benissimo, signor presidente, quel maxiprocesso: fu distrutto nel nascere. Allora a Foggia tutti questi referenti, questi responsabili della zona sono stati decimati, ammazzati, si sono ritirati, sono andati via, ci sono le nuove leve dal 1986, quelle che fanno paura veramente. Non è la malavita pugliese dell'inizio degli anni ottanta, quando c'era più tranquillità, c'era il contrabbando delle sigarette, c'era la magnacceria; esistevano tutte queste cose qua: gli appalti se li sistemavano e li giostravano sempre queste persone che stavano là sedute e ci tenevano calmi. Ma, dall'inizio degli anni ottanta, dal 1982-1983 in poi, è venuta fuori questa nuova malavita, che ha assorbito tutte le esperienze sia di calabresi sia di siciliani sia di napoletani sia di lombardi. Tutte queste esperienze le hanno portate in Puglia. Adesso la Puglia... Non è che io parlo della Puglia come di una zona a rischio, perché io sono pugliese. Ho vissuto in quella...

PRESIDENTE. Direi, più oltre del rischio.

SALVATORE ANNACONDIA. E' molto alto perché, se parliamo di veri criminali, la Puglia è ricca di veri criminali decisi, votati alla morte. Il pugliese...Le spiego, signor presidente: un siciliano fa reati in Sicilia, non va fuori e la percentuale che va fuori è bassa; il calabrese fa gli omicidi in Calabria e pure fuori. Ma il pugliese fa gli omicidi sia in casa che fuori; non ha problemi.

PRESIDENTE. Un temperamento più dinamico.

SALVATORE ANNACONDIA. E' più deciso. E' una malavita che fa paura.

PRESIDENTE. A Foggia in particolare com'è la situazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Non posso parlare, signor presidente.

PRESIDENTE. Perché ci sono indagini in corso?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. C'è presenza di 'ndrangheta e camorra anche?

SALVATORE ANNACONDIA. La camorra è pochissima, perché ci sono solo introiti, di cui non posso parlare.

FRANCESCO CAFARELLI. Investimenti?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Investimenti...

PRESIDENTE. La camorra fa investimenti a Foggia. Vedremo poi se qualcuno vuole approfondire. Possiamo passare alla questione del traffico degli stupefacenti, com'è organizzato secondo lei, e poi del traffico di armi. Lei ha dato alcune spiegazioni, ma ci interesserebbe capire da dove arrivino gli stupefacenti. Innanzi tutto, distinguiamo tra eroina, cocaina ed hascisc. Lei ha trattato queste tre sostanze, vero?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Marijuana no?

SALVATORE ANNACONDIA. No, non ha valore.

PRESIDENTE. Se non ho capito male, l'eroina è la droga più importante, perché...

SALVATORE ANNACONDIA. E' la più consumata.

PRESIDENTE. Più dell'hascisc?

SALVATORE ANNACONDIA. L'hascisc come stupefacente fa grande volume, per cui ci può essere qualcuno che dice che non fa l'hascisc perché lo vende a 2 milioni2 milioni 200 mila al chilo all'ingrosso e non gli conviene. Invece voi che rappresentate le istituzioni dovete stare molto attenti all'hascisc perché è un business di centinaia di miliardi per contanti.

PRESIDENTE. Spieghi bene questo concetto.

SALVATORE ANNACONDIA. Chi ha il territorio dell'hascisc sono poche persone, tra cui una nota famiglia di cui posso parlare perché non violo il segreto istruttorio, la famiglia Di Giovane. Questa famiglia ha buona parte del "marocco" e lo gestiscono loro. Finché arriva a destinazione viene a costare 700-800 mila lire al chilo, però parliamo di grossi quantitativi, cioè di centinaia di quintali, che poi possono essere importati a 10, a 20, a 30 quintali per volta, anche se il contratto è fatto per centinaia di quintali.  Quando questo hascisc cioccolato arriva in Italia dal Marocco, viene venduto all'ingrosso (100, 200 o 300 chili) e viene già pagato per contanti anticipatamente perché è molto richiesto. Essendo pagato per contanti, uno porta mille chili di hascisc e nel giro di due giorni li vende incassando per intero; invece uno che porta mille chili di eroina, che si vende ad un prezzo più alto, non guadagna di più perché ci vuole tempo per vendere tale quantitativo ed il pagamento non è per contanti, anzi in minima parte per contanti e per il resto a consumo: uno si prende 100 chili di eroina e li paga in 30 o 60 giorni, cioè prima incassa e poi paga. Finché questa seconda persona ha venduto i mille chili di eroina la prima ha fatto magari 20 viaggi di hascisc, lo ha venduto a 2.000-2.500 (secondo le esigenze di mercato) ed ha incassato una cifra 5 volte superiore. Ecco perché quello dell'hascisc è un problema molto importante, e il controllo dell'hascisc si sta... Posso affermarlo almeno fino a che io ne ero a conoscenza, fino al 1992, perché dal 1^ di gennaio sono in extracarcerario.

PRESIDENTE. Certo. Quindi lei dice che non dobbiamo sottovalutare la questione  dell'hascisc perché dà una grande rendita, il pagamento è per contanti e vi è una grandissima domanda. Per l'eroina, invece, la domanda è minore e il pagamento è più rateizzato.

SALVATORE ANNACONDIA. E' più lento.

PRESIDENTE. Perché è più lento il pagamento dell'eroina?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché un chilo di eroina all'ingrosso costa tra i 32 e i 33 milioni al chilo, e quindi chi compra dieci chili di eroina deve pagare 320-330 milioni; poi la rivende a 47-48 milioni al chilo. Ci sono infatti passaggi di pochi punti: 7, 8, al massimo 10 punti percentuali di guadagno. Quest'eroina poi la deve spacciare il drogato, che è l'ultimo anello della catena. Ma i pagamenti dell'eroina sono fatti tutti a consumo: mi prendo 100 chili e te li pago quando ne prendo altri 100.

PRESIDENTE. E' una specie di conto corrente.

SALVATORE ANNACONDIA. Invece l'hascisc è uno stupefacente che il drogato che lo consuma, che lo vende, al chilo lo paga 5 milioni: lui compra mezzo chilo e lo paga per contanti perché in serata lo ha venduto tutto. L'hashisc viene pagato anticipatamente.

PRESIDENTE. Quindi, la grande differenza è che c'è una domanda talmente grande di hashisc che se ne riesce a fare un commercio molto più rapido. Però, poiché un chilo di hashisc è piuttosto voluminoso rispetto ad un chilo di eroina, che è un sacchetto, questo non pone più rischi?

SALVATORE ANNACONDIA. Pone più rischi al trasporto, ma ne pone meno per la detenzione, perché se una persona viene arrestata con l'hashisc non viene condannata come invece accade con l'eroina; è in pratica come il contrabbando, e si finirà per pagare solo una multa.

PRESIDENTE. L'hashisc viene dal nord Africa?

SALVATORE ANNACONDIA. Viene dal Libano, dal Marocco.

PRESIDENTE. E come arriva in Puglia?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono dei passaggi che deve fare.

PRESIDENTE. Li può spiegare?

SALVATORE ANNACONDIA. Se lo si vuole importare direttamente in Italia bisogna portarlo via mare, con panfili, motoscafi, container . Però con i container bisogna fare un altro giro perché bisogna fare i documenti che partono dal Marocco, che devono arrivare in un'altra nazione...

PRESIDENTE. Se arrivano dal Marocco che succede?

SALVATORE ANNACONDIA. Un container che arriva dal Marocco è come se avesse l'etichetta "stupefacenti".

PRESIDENTE. Allora dal Marocco bisogna andare in un altro paese. Per esempio dove?

 SALVATORE ANNACONDIA. Per esempio dal Marocco arriva in Spagna (è solo un esempio), dove devono essere fatti i nuovi documenti e arriva in Egitto, in cui c'è una zona che è porto franco. I container vengono scaricati e venduti a questo ufficio che non ha fatto altro che rivendere questo container in Italia ad una ditta di import-export . Vengono ricambiati i documenti; il prodotto che è partito di qua, mettiamo che si tratti di abbigliamento... Però ci sonodegli accordi - glielo dico perché li abbiamo fatti noi - con la CEE per quanto riguarda alcune nazioni povere: parliamo del Marocco ma possiamo parlare anche di altre nazioni produttrici di stupefacenti.

PRESIDENTE. Qual è l'accordo?

SALVATORE ANNACONDIA. L'accordo è che specialmente gli Stati Uniti finanziano questi paesi poveri (come il Banglandesh) per la produzione dei jeans , delle camicie, delle televisioni, delle radio, eccetera, e che devono fare un certo numero di pezzi, per esempio un milione di jeans . Questo milione di jeans può viaggiare perché ha la destinazione della produzione. Se parte un container di qua i prodotti non possono avere il certificato d'origine. Allora, la merce viaggia sotto la copertura. Quando la merce arriva a porto franco vengono cambiati i documenti e viene fatto il documento con la ditta autorizzata ad introdurre nel mercato europeo i jeans.

PRESIDENTE. I jeans del Bangladesh.

SALVATORE ANNACONDIA. Solo che nei jeans che arrivano dal Bangladesh arriva la droga. Quando arriva in Italia la merce non arriva più dal Marocco, neanche dal Bangladesh, bensì arriva dall'Egitto, o arriva da un altro porto che non è sospettato per traffici di stupefacenti. Questo può essere la Grecia, perché dall'Egitto arriva in Grecia. Viene venduto ad una ditta della Grecia, poi questo ufficio la trasmette ad un'altra ditta italiana. C'è il passaggio che deve fare per forza.

PRESIDENTE. Quando questo container dal Marocco arriva in Spagna non ci sono gli stessi sospetti...

SALVATORE ANNACONDIA. No, una volta che arriva in Spagna viene depositato... in Spagna esiste una grossa organizzazione di spagnoli che, per quanto riguarda il passaggio dell'hashish, fa pagare 300 mila lire al chilo come deposito. Però loro danno la garanzia che il carico non viene sequestrato. E' un'estorsione autorizzata. Se vogliono passare attraverso la Spagna devono pagare per forza. Dalla Spagna poi c'è la rotta dei Paesi Bassi, dai quali si introduce la merce in Germania e in Svizzera. Prima si poteva passare dalla Germania ma adesso è diventata una zona molto...

PRESIDENTE. Rischiosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. C'è molta attenzione?

SALVATORE ANNACONDIA. C'è molta più collaborazione tra le forze di polizia, sia italiane, sia internazionali.

PRESIDENTE. La rotta più comoda è quella ora descritta?

SALVATORE ANNACONDIA. E' quella che va dalla Spagna all'Olanda e in Germania non attraverso il valico con l'Italia ma attraverso la Svizzera.

PRESIDENTE. Lei ha detto che in Spagna esiste un'organizzazione che si occupa di smistare e di trovare i documenti, eccetera.

SALVATORE ANNACONDIA. Non si occupa di trovare i documenti. Si deve pagare per il passaggio della merce, che si deve per forza fermare in Spagna. Si deve pagare quella che possiamo chiamare dogana.

PRESIDENTE. E' un'organizzazione criminale, il cui intento è quello di evitare perquisizioni.

SALVATORE ANNACONDIA. Per dare una copertura.

PRESIDENTE. Questo sistema di far viaggiare l'hashish fino a cambiare i documenti è un sistema che dovete mettere in piedi voi oppure esiste già e voi dovete solo utilizzarlo?

 SALVATORE ANNACONDIA. No, non esiste, signor presidente. Lo dobbiamo mettere noi. Se questi appoggi ce li hanno loro la merce la vendono franco in Italia.

PRESIDENTE. Quindi si guadagna di meno?

SALVATORE ANNACONDIA. No, una volta che la mettono franco in Italia la cocaina invece di pagarla 15, 18, 20 mila dollari, viene a costare 27, 28, 30 mila dollari. Si tratta di migliaia di dollari che vengono a mancare. Io potevo ottenere la cocaina in Italia a 20.500 dollari più 2 mila dollari di trasporto, però franco in Italia.

PRESIDENTE. Come faceva?

SALVATORE ANNACONDIA. E' coperta dal segreto istruttorio.

PRESIDENTE. Il tragitto può spiegarcelo, non le persone.

SALVATORE ANNACONDIA. No, no.

PRESIDENTE. Neppure il tragitto?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

PRESIDENTE. Partiva dal Sud America?

SALVATORE ANNACONDIA. No. Ecco perché non posso.

PRESIDENTE. Non partiva dal sud America! Il tragitto non può essere spiegato?

SALVATORE ANNACONDIA. No, signor presidente.

PRESIDENTE. Era un sistema che organizzavate voi o che già esisteva? Questa è la cosa che ci interessa.

SALVATORE ANNACONDIA. Il mio sistema era diverso dagli altri, perché avevo trovato la persona giusta, uno dei più grossi che può esistere.

PRESIDENTE. Tutti si avvalevano di una persona particolare, oppure ci sono sistemi oggettivi? Un sistema di distribuzione presso il quale qualunque criminale può rivolgersi per acquistare?

SALVATORE ANNACONDIA. Qualsiasi criminale può andare e comprare, signor presidente. Lei pensi che durante il giorno

vengono arrestate decine di persone, i cosiddetti cani sciolti, piccoli trafficanti che devono essere arrestati per forza perché ci sono gli accordi con le polizie internazionali che controllano il territorio. Faccio l'esempio di Lima, in Perù. In Perù la cocaina è tutta controllata. Una casa sì e l'altra pure hanno il forno per cuocerla, la mattina passa il camion della policia , la ritira dopo averla pesata e fa il biglietto.

PRESIDENTE. La polizia?

SALVATORE ANNACONDIA. Là si chiama policia! Questi panettieri - chiamiamoli così - riescono a rubare i 100, 200 grammi e arrivano al chilo, ai due chili che poi vendono ai trafficanti saltuariamente, giornalieri. Su dieci trafficanti, ne vengono arrestati sette od otto perché c'è il grosso business che deve andare avanti.

MARCO TARADASH. Vale solo per il Perù o anche per l'Italia?

SALVATORE ANNACONDIA. In Perù, in Thailandia, in Marocco, in Turchia. In Italia non c'è bisogno di questo sistema perché è la mamma degli stupefacenti, come l'Olanda, la Spagna, la Germania. L'Italia è una nazione che ritira, non esporta. Una volta si mandava l'eroina e si aveva la cocaina con scambi della stessa famiglia. La famiglia in America aveva bisogno di eroina e non avendo problemi di cocaina ed essendoci raffinerie in Italia... Era tutto familiare. Le famiglie erano le uniche organizzazioni. Una volta che la merce sia giunta in Italia, non viene più esportata in quanto viene consumata. Non ci può essere una spiata con queste organizzazioni.

PRESIDENTE. Gli arresti che si verificherebbero nei paesi produttori...

SALVATORE ANNACONDIA. Sono le spiate della polizia.

PRESIDENTE. Nel senso che lasciano liberi alcuni per arrestarne altri?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché deve passare il carico grande. Si fa l'operazione di 20, 50, 100 chili.

ALTERO MATTEOLI. Questi fatti come sono venuti in sua conoscenza?

SALVATORE ANNACONDIA. Per averli vissuti.

PRESIDENTE. I canali del contrabbando sono utilizzati anche per altre attività criminali?

SALVATORE ANNACONDIA. Il contrabbando rappresenta una fonte per l'organizzazione. Parlando del contrabbando si dice che in una determinata regione, in quel determinato paese, ci sono 10 grandi contrabbandieri che hanno sotto di loro 200 famiglie che mangiano, che vivono. In realtà, le 200 famiglie non hanno risorse, non hanno niente; l'utile dell'organizzazione in materia di contrabbando è molto elevato. Le basi per potersi finanziare partono dal contrabbando.

PRESIDENTE. Questo aspetto del problema lei lo ha esposto molto chiaramente. Volevo sapere se i mezzi utilizzati per il contrabbando servono anche per trasportare droga ed armi.

SALVATORE ANNACONDIA. Esatto.

PRESIDENTE. Può spiegarlo meglio?

SALVATORE ANNACONDIA. Non le posso spiegare tutto. Soltanto il 20 per cento.

PRESIDENTE. Non ci interessano i nomi, ma capire i fatti.

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono mezzi molto veloci, le ex motosiluranti, che hanno una motorizzazione di 9, 12 mila cavalli, con 2, 3, 4 motori con una velocità di oltre le 60 miglia orarie. Il superdrago, una delle più veloci motovedette italiane, può viaggiare ad una velocità di 50 nodi, 50 miglia, ma con mare calmo. In presenza di un mare un poco mosso il superdrago non può navigare. Dato che queste barche hanno una portata di 40, 35, 28 metri, e sono velocissime ed attrezzatissime di tutto, quando arrivano a 50, 60, 100 miglia vi sono due motoscafi velocissimi, quelli che usiamo nel contrabbando, che caricano su i 200, i 300 i 500, i mille chili e via. Anche se c'è un inseguimento sono due i motoscafi che vanno sotto, uno fa da supporto e l'altro va a riva.

PRESIDENTE. Uno si fa inseguire e l'altro passa.

SALVATORE ANNACONDIA. Esatto. Si tratta di motoscafi velocissimi e poi non si trasporta un carico di sigarette che appesantisce, no, portano solo 500 chili, mille chili e non hanno problemi ad andare via. Tutti i mezzi che usiamo nel contrabbando li usiamo per il traffico delle armi. Ma il traffico di armi è poco perché per queste usiamo i containers.

PRESIDENTE. Per la droga sono utilizzati questi motoscafi veloci?

SALVATORE ANNACONDIA. Di questo stavo parlando. Quando dicevo mille chili, mi riferivo alla droga e non alle sigarette.

MARCO TARADASH. Hascisc od eroina?

SALVATORE ANNACONDIA. Per l'hascisc c'è un altro sistema. Se parliamo di 500 chili o di mille chili parliamo di eroina, di cocaina, perché per l'hascisc c'è l'altro sistema che abbiamo fatto e che sul nascere si distrusse. In mare furono depositati 90 bidoncini di 15 chili l'uno e 10 bidoni da 200 chili l'uno di hascisc. Accadde però che il giorno del recupero un peschereccio disgraziatamente mentre pescava... i pescatori che vanno a strascico non possono pescare solo sul fango, devono andare vicino alle rocce per prendere un po' di pesce. Una barra di cemento, ove erano legati i bidoncini, si trovò sul taglio e questa barca rasò la scogliera e riuscì a prendere 6 o 7 bidoncini. Quando tirarono su la rete trovarono questi bidoncini, si spaventarono perché non sapevano di che si trattava. Pensando trattarsi di materiale chimico chiamarono i carabinieri i quali a loro volta chiamarono gli artificieri che aprirono i bidoncini e trovarono l'hascisc. Purtroppo quel giorno c'erano tante di quelle motovedette (ed anche gli altri giorni successivi) che non fu opportuno fare questo recupero.

PRESIDENTE. Ma lei dice che forse stanno ancora lì?

SALVATORE ANNACONDIA. Stanno ancora lì, spero che adesso che lo stanno sentendo, speriamo che...

PRESIDENTE. Che qualcuno li vada a prendere, qualcuno di quelli giusti, voglio dire.

SALVATORE ANNACONDIA. Ho indicato anche la zona.

PRESIDENTE. Sì, l'ha indicata. Può spiegare come avviene il traffico d'armi?

SALVATORE ANNACONDIA. Posso spiegare quello che ho fatto io, non certo quello che hanno fatto gli altri perché non è stato ancora fatto niente, anche se è stato verbalizzato. I nostri canali di approvvigionamento delle armi...

PRESIDENTE. Prima vi è stata una precisazione dell'onorevole Imposimato: armi ed esplosivi.

SALVATORE ANNACONDIA. L'esplosivo l'avevo in Puglia.

PRESIDENTE. Parli prima dell'esplosivo e poi delle armi.

SALVATORE ANNACONDIA. Tante migliaia di tonnellate chiedevo, tante ne avevo.

PRESIDENTE. Da chi?

SALVATORE ANNACONDIA. Trani è il paese della pietra e ci sono le cave. Potevo ottenere tutto l'esplosivo che volevo, però non era quello l'esplosivo giusto che potevo ottenere. In una zona di mare durante l'ultima guerra i tedeschi scaricarono migliaia e migliaia di tonnellate di esplosivo, di armi, di munizioni. Nel 1989 una barca tirò su una rete con 4 o 5 casse di missili. Questa zona viene chiamata "le munizioni". Si pescano le "tamburrelle", le "cazzarole" di tritolo, ossia ruote da 2 chili e mezzo o da 5 chili che hanno un buco al centro. Si pescano pure delle scatole che sono anticarroarmato. E' un esplosivo a base di nitroglicerina, è bianco, molto leggero come il polistirolo ed è di molto superiore al T4. Questo esplosivo scoppia anche se cade della cenere sopra o per uno spostamento; è molto efficace e potente. Si pescano anche delle mine che vengono smontate e dalle quali si ricava la gelatina.

PRESIDENTE. A che profondità?

SALVATORE ANNACONDIA. La profondità è abbastanza.

PRESIDENTE. Nella costa pugliese?

SALVATORE ANNACONDIA. A largo di Trani. Da Molfetta fino al largo di Vieste è tutto pieno. Una volta ricordo che una barca pescò un carrello di aereo. Si pesca di tutto là.

FERDINANDO IMPOSIMATO. L'esplosivo usato qual è?

SALVATORE ANNACONDIA. No, questo che adesso viene usato... deve pensare che l'apertura dei paesi dell'est è avvenuta verso la fine del 1990: da quel momento è iniziato un approvvigionamento che lei non immagina.

PRESIDENTE. C'è una fonte che può essere il pescaggio...

SALVATORE ANNACONDIA. Questa è una cosa che avevo io, non altre persone.

PRESIDENTE. Solo lei?

SALVATORE ANNACONDIA. Io rifornivo gli altri, non c'era problema, ma questo fatto qui non è parte delle forniture di esplosivo d'Italia.

PRESIDENTE. Era quello che aveva lei.

SALVATORE ANNACONDIA. E' una cosa personale che avevo io e qualcun altro locale di Molfetta, di Bisceglie, di Barletta, di Manfredonia.

PRESIDENTE. Ha accennato poc'anzi all'onorevole Imposimato che un'altra possibile fonte sono i paesi dell'est.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare come avviene?

SALVATORE ANNACONDIA. Ho appreso tutto dell'approvvigionamento dei paesi dell'est tramite le note famiglie del nord: Paviglianiti, Franco Coco, Pepe Flacchi, Papalia. Ma questi sono tutti accordi che abbiamo avuto parlando dal luglio 1991, perché ci fu un primo approccio dei Paviglianiti per quanto riguarda le forniture di cocaina e l'approvvigionamento delle armi dall'Olanda attraverso persone che operavano su tutto il territorio nei paesi dell'est. Non ho potuto assistere perché lui stava in Puglia ed io a quell'epoca stavo a Cervinate, e lui cominciò a fare dei grossi ritiri...

PRESIDENTE. Di che cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Di armi di tutti i tipi.

PRESIDENTE. Chi?

SALVATORE ANNACONDIA. I Paviglianiti.

PRESIDENTE. Da dove venivano queste armi? Dall'est?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. E come arrivavano?

SALVATORE ANNACONDIA. Attraverso i TIR arrivavano tutti le armi che si volevano.

MARCO TARADASH. Dove vanno queste armi?

SALVATORE ANNACONDIA. La maggior parte delle armi... lei deve pensare che è stata smistata in tutta la Calabria, in Puglia. Io ero il referente loro, se a me servivano cento pezzi di armi, mi venivano date...

PRESIDENTE. Ho capito, e queste erano famiglie mafiose? I Paviglianiti erano mafiosi?

SALVATORE ANNACONDIA. Attualmente Domenico Paviglianiti è capo indiscusso...

PRESIDENTE. Di che cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Della 'ndrangheta.

PRESIDENTE. Tutte della 'ndrangheta erano le famiglie che ha citato?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, tutte della 'ndrangheta.

PRESIDENTE. L'importazione quindi viene dall'est ed attraverso i TIR.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. All'epoca si parlava anche della possibilità di avere degli elicotteri. Signor presidente, di attacchi alla mafia, alla criminalità organizzata ne sono stati fatti molti. Vi posso dire una cosa e cioè che è stata presa di sprovvista.

PRESIDENTE. La mafia?

SALVATORE ANNACONDIA. La mafia e la grande criminalità. Non si può certo parlare di mafia soltanto. La mafia, signor presidente, la mafia vecchia, quella che esisteva tanti anni fa... adesso c'è la vera organizzazione mafiosa, la grande criminalità che è più cruenta di tutte, che non risparmia niente. Fino a molti anni fa non si ammazzavano le donne ed i bambini, adesso invece si ammazzano donne e bambini. Non c'è più... Ecco perché le dico... Parlando del più e del meno, delle importazioni di queste cose, sempre nel 1991, c'era la disponibilità di avere tutto, pure il nucleare.

PRESIDENTE. Dall'estero.

SALVATORE ANNACONDIA. Tutto quello che si voleva. I kalashnikov erano diventati una cosa che si odiava, invece prima, fino al 1978-1979, una persona faceva un omicidio per avere un kalashnikov; nel 1991 costava un milione, un milione e mezzo, in Italia, che si vendeva alle persone che si sapevano, ma alla fonte un kalashnikov veniva a costare 200 dollari.

PRESIDENTE. C'erano dei collegamenti tra la 'ndrangheta che operava in Lombardia e qualcuno nei paesi dell'Est?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono le grosse organizzazioni in questi paesi, signor presidente.

PRESIDENTE. Locali o di 'ndrangheta?

SALVATORE ANNACONDIA. Sono locali, del posto, con infiltrazioni pure italiane perché la mente italiana c'è dappertutto.

PRESIDENTE. E questi curano i trasporti di armi?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Questo vale anche per gli esplosivi o solo per le armi?

SALVATORE ANNACONDIA. Armi o esplosivo è la stessissima cosa, anzi è più comodo trasportare l'esplosivo che le armi.

PRESIDENTE. Perché? Si nasconde meglio?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché si possono trasportare 200 chili di esplosivi o 500 chili e si fanno due bancali.

PRESIDENTE. Cosa sono i bancali?

SALVATORE ANNACONDIA. Le pedane.

PRESIDENTE. Deve spiegare perché non siamo molto  esperti in traffico di esplosivi.

SALVATORE ANNACONDIA. No, le pedane dove si carica la merce. Si riempiono due bancali. Ma per caricare 500 fucili mitragliatori c'è bisogno di spazio. Bisogna riempire un container. E' più comodo trasportare l'esplosivo.

PRESIDENTE. E' chiarissimo. Come sono pagate le armi?

SALVATORE ANNACONDIA. Le armi non vengono pagate con i soldi, le armi vengono pagate con l'eroina.

PRESIDENTE. Cioè le armi e le munizioni che vengono in Italia...

SALVATORE ANNACONDIA. Vengono pagate in cambio di merce.

PRESIDENTE. In eroina che va all'Est.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

MARCO TARADASH. Quanta eroina e quanto hascisc ritiene che circolino in Italia in un anno?

SALVATORE ANNACONDIA. Se deve fare in un anno, abbiamo bisogno di una calcolatrice.

PRESIDENTE. Forse anche di due.

SALVATORE ANNACONDIA. Io mi guarderei dal farle delle domande perché a me devono essere rivolte le domande, però fate un esempio: Milano quanti milioni di abitanti ha? Due milioni e mezzo. E che percentuale ha come tossicodipendenza? Un 10 per cento, un 5 per cento? Due milioni e mezzo al 5 per cento...

PRESIDENTE. Cento mila persone.

SALVATORE ANNACONDIA. Cento mila persone ad un grammo a testa al giorno sono 100 mila grammi, che equivalgono a 100 chili. Solo Milano ha bisogno di 100 chili. Adesso facciamo la proporzione in tutta Italia e vediamo di quante tonnellate al giorno di eroina ha bisogno l'Italia. Ecco l'esempio che vi ho fatto prima dei container . I piccoli spacciatori, i piccoli trafficanti che portano i 10 o i 50 chili sono tutti cani sciolti, non sono una vera e propria organizzazione; sono piccole organizzazioni turche, sudamericane che introducono questa merce.

MARCO TARADASH. Lei quanta ne trattava all'anno?

SALVATORE ANNACONDIA. Trattavo una media di 30, 25, 35 chili al mese.

PRESIDENTE. Di eroina?

SALVATORE ANNACONDIA. Trattavo 6-7 chili di cocaina e 20-25 chili di eroina. C'era un mese che potevo trattare pure 40-50 chili di stupefacenti, però c'era il mese che mi dovevo mantenere sui 20 chili per le forze dell'ordine che...

PRESIDENTE. A causa di perquisizioni. Ci sono in Italia depositi per lo stoccaggio di queste sostanze oppure arrivano in continuazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Il deposito c'è.

PRESIDENTE. C'è una cosa che mi ha sempre sorpreso e cioè che, anche quando si effettuano sequestri di 100-200 chili, la sostanza non viene mai a mancare né si alza il prezzo.

SALVATORE ANNACONDIA. E non può. Perché quelli che vengono presi non sono le grandi organizzazioni. Sono le grandi organizzazioni che lo hanno fatto arrestare già da dove è partito. Anche se viene arrestato in Italia, quello è già stato venduto alla partenza.  Viene fatto un sequestro di 100 chili di eroina con 10 mila camion che passano: vanno a beccare proprio il camion giusto perché hanno già la soffiata.

PRESIDENTE. Nel frattempo passano gli altri.

SALVATORE ANNACONDIA. E nel frattempo sono passati gli altri.

PRESIDENTE. Lei stava spiegando dei depositi. Ci sono depositi di sostanze stupefacenti?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono i grossi magazzini.

PRESIDENTE. Che lei sappia, in che aree sono collocati?

SALVATORE ANNACONDIA. Intorno alla periferia di Milano ce n'erano, più di uno.

PRESIDENTE. A Roma? Per capirci: ce n'è uno oppure ogni gruppo criminale ne ha uno suo?

SALVATORE ANNACONDIA. In Italia, signor presidente, le più grosse organizzazione che hanno il controllo dell'eroina stanno in Lombardia. Quelli che stanno in tutto il resto del territorio sono piccole organizzazioni che dipendono e non dipendono, ma i grossi approvvigionamenti sono tutti al nord.

PRESIDENTE. Quanto le rendeva il traffico mensile di quei 30 chili di stupefacenti?

SALVATORE ANNACONDIA. Per l'eroina avevo una quindicina di punti di guadagno su ogni chilo, cioè 15 milioni a chilo. Avevo certe persone per le quali avevo 12-13 milioni a chilo.

PRESIDENTE. Di guadagno?

SALVATORE ANNACONDIA. Di guadagno, perché io l'eroina non l'ho mai tagliata.

PRESIDENTE. Quindi, su 30 chili sono 500 milioni al mese di guadagno.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, ma poi ci sono le spese.

PRESIDENTE. Parlando di guadagno, pensavo al netto.

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono tutte le spese, ci sono i ragazzi.

PRESIDENTE. Può farci capire quanto alla fine era il guadagno netto, pulito?

SALVATORE ANNACONDIA. Cinque o sei punti, quattro punti.

PRESIDENTE. Quindi 5 o 6 milioni.

SALVATORE ANNACONDIA. Quattro o cinque milioni al chilo.

PRESIDENTE. Cinque punti a chilo, su 30 chili, sono 200 milioni al mese. Era sempre questo il guadagno oppure è cresciuto nel tempo?

 SALVATORE ANNACONDIA. Per il quantitativo di guadagno, signor presidente, deve anche calcolare il gruppo che va in disgrazia e che viene arrestato, le perdite: ecco perché c'è da fare il calcolo su tutto. Quando vi dico che avevo una media di 4-5 milioni al chilo perché, anche se su una vendita di 10 chili posso pure guadagnare 20 milioni a chilo, però la

proporzione sulla perdita la deve pure mettere. Non c'era poi un prezzo unico. C'era la batteria più vicina e più stretta che il prezzo glielo devi fare molto più leggero, c'è quell'altro che glielo aumenti un po' di più, in base alle persone che tu tratti, che hai, perché io avevo molti fiancheggiatori.

PRESIDENTE. Come si divide il mercato della cocaina? Lei ha detto che l'eroina è roba più di strada perché c'è tanta gente che la prende, mentre la cocaina ha un mercato più ristretto.

SALVATORE ANNACONDIA. E' una cosa più riservata. I metodi di importazione sono gli stessi, solo che, dagli anni ottanta, in Sicilia c'è una cosa di bello: sanno far funzionare il cervello.

PRESIDENTE. Anche in Puglia, pare di capire.

SALVATORE ANNACONDIA. Ecco perché noi abbiamo appreso tutto. Io però le sto parlando di prima degli anni ottanta.

PRESIDENTE. Sì, mi scusi: l'ho interrotta scioccamente.

SALVATORE ANNACONDIA. Prima degli anni ottanta tutto il mercato degli stupefacenti lo aveva in mano la Sicilia, e qualche pugliese. Dall'inizio degli anni ottanta vi fu una grossa guerra tra siciliani e calabresi. I calabresi sono stati sempre portati come uomini "di terra", avevano la cappa. Quando c'era qualcosa buttavano la cappa e allora ragionavano.

PRESIDENTE. Cos'è la cappa?

SALVATORE ANNACONDIA. La "manta" che portano i calabresi, per lavare i panni sporchi. Quando hanno iniziato ad emigrare e a vedere i vantaggi che derivavano dagli stupefacenti, volevano prendere il controllo del traffico degli stupefacenti. Ci fu una grossa guerra, signor presidente, nella quale i siciliani ebbero la peggio, per cui dovettero cedere

ed arrivare ad un accordo, le grosse famiglie, per effetto del quale il controllo della cocaina sarebbe rimasto ai siciliani mentre il controllo sull'eroina l'avrebbero esercitato i calabresi. Il siciliano è stato una persona che ha avuto sempre grossi agganci e grosse amicizie in tutte le parti del mondo, specialmente in America ed in Sudamerica. La maggior parte dell'importazione della cocaina in Italia avviene attraverso le navi, in containers. Un quantitativo minimo arriva attraverso gli aerei e quelli che si servono di questo mezzo di trasporto - lo dicevo già prima - sono tutti piccoli corrieri, che trasportano due, cinque, dieci chili. Ma non è questo il quantitativo del quale ha bisogno l'Italia; l'Italia ha bisogno di

tonnellate, per cui i piccoli trafficanti non possono accontentare il mercato. Ecco perché ci sono le grosse organizzazioni.

PRESIDENTE. C'è un accordo tra 'ndrangheta, mafia siciliana e camorra?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Come funziona questo accordo?

SALVATORE ANNACONDIA. L'accordo è nel senso che se ai siciliani serve l'eroina, c'è l'eroina; se ai calabresi serve la cocaina, c'è la cocaina. Ultimamente, dal 1990-1991, i calabresi hanno iniziato a prendere anche il controllo della cocaina.

PRESIDENTE. Ci sono accordi per gestire questi traffici, oppure ciascuno procede per conto proprio?

SALVATORE ANNACONDIA. In certe situazioni si arriva a degli accordi. Ve ne sono invece altre nelle quali non si riesce a raggiungere un accordo ed allora scoppiano le guerre. Tuttavia, oggi la guerra non conviene più a nessuno. Conviene ragionare e sistemare le cose.

PRESIDENTE. Che ruolo svolge e che posto ha la camorra in questi affari?

SALVATORE ANNACONDIA. La camorra, dalla perdita di Cutolo, si è ristretta, è diventata una cosa ristrettissima. Quello che esce fuori è poco. Controlla il suo territorio come Dio comanda...

PRESIDENTE. Quindi, controlla il suo territorio "come Dio comanda". Cosa vuol dire che quello che esce fuori è poco?

SALVATORE ANNACONDIA. Dalla caduta di Cutolo... Se lei ben ricorda, i primi pentiti sono stati i napoletani.

PRESIDENTE. Sì.

 SALVATORE ANNACONDIA. Napoli ha dato molta sfiducia a livello di malavita, anche se sono rimaste sempre persone sane, pulite, votate. Tuttavia, ha dato un po' fastidio alla grande malavita. Napoli ha avuto una guerra che è durata fino a poco tempo fa; quindi, la camorra non poteva estendersi al di fuori perché doveva controllare il territorio. Le infiltrazioni ci sono ancora, ma non come una volta. E' rimasta una regione stretta, chiusa, pur controllata nel migliore dei modi. Anzi, si può dire che è stata controllata meglio negli ultimi anni che prima.

PRESIDENTE. La camorra conclude anch'essa intese con la mafia e la 'ndrangheta per il controllo degli stupefacenti oppure ha canali diversi?

SALVATORE ANNACONDIA. Ha dei canali diversi, ma la maggior parte sono quelli... Poi vi sono accordi con le grosse famiglie, perché a Napoli ci sono delle grosse famiglie...

PRESIDENTE. Mafiose?

SALVATORE ANNACONDIA. ...a livello internazionale.

PRESIDENTE. Di mafia o di camorra?

SALVATORE ANNACONDIA. Di camorra, che poi si chiama camorra perché così è stata definita. La 'ndrangheta... Sta di fatto che è sempre mafia, è tutto mafia, la voce è unica. E' definita Sacra corona unita o quarta mafia in Puglia perché è stata, appunto, definita in questo modo e si è portata dietro il nome. Le regole comunque sono sempre quelle.

PRESIDENTE. Facciamo un passo indietro. Lei da quanto tempo ha quel segno, quella specie di crocetta sul pollice?

SALVATORE ANNACONDIA. Dal 1989.

PRESIDENTE. Lei ha dichiarato che l'avvocato Gironda era del tutto in buona fede. Tuttavia, un avvocato penalista sa cosa significhi quel segno...

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, non è che si veda. Uno dovrebbe fare mente locale, lo dovrebbe capire.

PRESIDENTE. Quindi, potrebbe essere che Gironda non lo abbia visto.

SALVATORE ANNACONDIA. Non si nota. Se uno si mette davanti, lo guarda e lo capisce, ma potrebbe anche essere una cicatrice.

PRESIDENTE. Non le ha mai chiesto nulla?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma non esiste! Non poteva...

PRESIDENTE. Ci può spiegare, per cortesia, il ruolo che ha la Spagna nel traffico di armi e di droga?

SALVATORE ANNACONDIA. Non è che la Spagna abbia un grosso canale di armi, signor presidente. La Spagna ha un grosso canale solo di hascisc e cocaina.

PRESIDENTE. Al traffico di hascisc ha già fatto riferimento. E per la cocaina?

SALVATORE ANNACONDIA. La cocaina passa attraverso la Spagna, arriva via mare, perché la Spagna non è una nazione come l'Italia e la Francia, ma è meno controllata.

PRESIDENTE. La Spagna è meno controllata?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, c'è più corruzione. Dalla Spagna, attraversa tutti i valichi dei Paesi Bassi e arriva in Olanda, dove viene depositata. Il fermo della cocaina viene fatto in Olanda.

PRESIDENTE. Non sarebbe più facile portarla direttamente dalla Spagna all'Italia?

SALVATORE ANNACONDIA. No, signor presidente.

PRESIDENTE. Perché?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché deve attraversare la Francia e poi l'Italia. L'Italia, sugli stupefacenti...

PRESIDENTE. ...è molto controllata.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Poi, questi grossi personaggi hanno tutte le basi in Olanda. Una volta scaricata la merce in Olanda, poi la distribuiscono come vogliono.

PRESIDENTE. Perché è stata scelta proprio l'Olanda?

SALVATORE ANNACONDIA. Hanno i loro appoggi in Olanda.

PRESIDENTE. Ma perché è stata scelta l'Olanda?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché deve pensare, signor Presidente, che in Olanda l'hascisc si può vendere...Come caccia agli stupefacenti non è che vi sia un gran che, nonostante le leggi siano severe. Diciamo che non c'è questo accanimento, perché si vive sugli stupefacenti. Lo stupefacente non è altro che una fonte di ricchezza per la nazione.

PRESIDENTE. Perché?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono nazioni che non è che abbiano una produttività e che hanno solo la produzione di coca, di eroina e di hascisc.

PRESIDENTE. L'Olanda, però, è una nazione ricca.

SALVATORE ANNACONDIA. Non è che l'Olanda abbia bisogno...

PRESIDENTE. Appunto!

SALVATORE ANNACONDIA. Deve pensare che i maggiori azionisti sono tutti grossi trafficanti. L'Olanda è un'oasi di tranquillità per quanto riguarda gli stupefacenti. Poi presenta la comodità che, attraverso la Spagna, ci sono i canali giusti.

PRESIDENTE. Il fatto che vi sia un grandissimo porto, rappresenta un elemento di aiuto oppure no?

SALVATORE ANNACONDIA. Il grandissimo porto aiuta nello scarico dei containers . Basta avere degli appoggi giusti in dogana per poter fare qualsiasi tipo di traffico.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione i rapporti con iModeo, ai quali ha soltanto accennato?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, posso parlare ampiamente su questo fatto perché, oramai...

PRESIDENTE. Prego.

SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1983 ho commesso l'omicidio di tale Mastrorilli, il quale era compare di Gianfranco Modeo. Mi trovai nel carcere di Trani con un tale Cesare Liuzzi, figlioccio di Riccardo...

PRESIDENTE. Modeo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Facemmo subito amicizia con questa persona. Lui stesso mi mandava i saluti di Gianfranco e Claudio Modeo, saluti che io ricambiavo. Poi fui trasferito al carcere di Lecce e stavamo insieme proprio con Gianfranco e Claudio.

PRESIDENTE. I fratelli stavano insieme in carcere?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, Gianfranco e Claudio. Dopo un breve periodo di detenzione a Lecce fui trasferito aMatera e poi uscii. Però, i miei rapporti con Cesare Liuzzi continuavano, fino a che, per tutto il periodo di detenzione agli arresti domiciliari, ho rifornito il fratello per conto suo. Cesare Liuzzi è uscito, ci siamo visti, ci siamo frequentati, ma poi c'è stato uno stop: non ci siamo più sentiti. Nel 1989 decido di comprare una barca, vado a Crotone e, al ritorno, mi fermo a Taranto, sapendo che c'è Cesare Liuzzi che è un grande amico. Vado al rione Tamburi, chiedo di lui, ma nessuno mi dice niente. Oramai Cesare era già morto, era già sparito. Dissi: fammene andare. Mi promisi che sarei ritornato. Tramite un amico riesco a sapere che attualmente il referente dei Modeo era un tale Marino Pulito, di Pulsano. Mi metto in contatto con questo Marino Pulito e mi fisso un appuntamento. I Modeo ormai sono latitanti perché il processo dei 22 anni per l'omicidio Marotta era andato in definitivo. Fisso un appuntamento con questo Marino Pulito e ci vediamo a Pulsano, perché lui non venne da Bari, anche se Riccardo lo assicurò e disse: vai tranquillo, non lo conosco ma so che è un gran bravo ragazzo. Arrivo a Pulsano, conosco questo Marino e gli chiedo pure di Cesare; non mi risponde. In quell'occasione mi chiese armi e droga. Dissi: vai piano, perché non c'è problema però ci sono tante persone davanti. Io dissi: datti una calmata; ti mandano tanti saluti Riccardo e Gianfranco che vogliono parlare con te. Fu in quell'occasione che andai in campagna, a Montescaglioso, dove stavano loro e mi chiesero aiuto, sia per quanto riguardava i rifornimenti di armi e droga, sia per l'aiuto nella guerra che era scoppiata. Mi parlarono che era già successo l'omicidio della madre. I tanti omicidi che poi sono successi...

PRESIDENTE. Lei ha narrato molto bene queste cose nei verbali. I Modeo avevano una struttura di comando criminale a Taranto: ci interessa capire meglio questo aspetto.

SALVATORE ANNACONDIA. Chi aveva questa struttura realmente, che era una persona riconosciuta in Italia, era il fratello, il messicano, il fratellastro Tonino. Loro non erano altro che dei delinquenti del rione che, per il fatto che si erano messi contro con Tonino il messicano si erano ingranditi. Le persone che avevano preso con loro, questi ragazzi che votavano per Riccardo erano tutte persone di Tonino il messicano. Quando lui si è trovato nello scontro con Tonino il messicano, si è trovato pure contro De Vitis, Gregorio Cicala, Ricciardi; si è trovato contro tutte queste persone. Però lui era circondato da gran bravi ragazzi, che lo amavano perché credevano in lui. Invece, alla fine ha dimostrato di essere una carogna, non parlo per odio, perché ha fatto ammazzare un sacco di ragazzi che gravitavano nel suo gruppo.

PRESIDENTE. Perché li ha fatti ammazzare?

SALVATORE ANNACONDIA. Per paura.

PRESIDENTE. Non ho capito, si spieghi meglio.

SALVATORE ANNACONDIA. Per paura li ha fatti ammazzare.

PRESIDENTE. Li ha fatti uccidere lui?

SALVATORE ANNACONDIA. Li ha fatti ammazzare lui da altre persone perché quello un domani gli poteva dare fastidio, quello perché domani poteva prendere il suo posto. Mi è dispiaciuto perché erano ragazzi che avevano dato la vita per lui. PRESIDENTE. Come mai Modeo si rifugia presso Montescaglioso? Abbiamo letto che lei si reca in quel paese. Come mai Montescaglioso viene scelto?

SALVATORE ANNACONDIA. Montescaglioso è vicino a Taranto.

PRESIDENTE. Ci sono tanti posti vicini a Taranto. Perché proprio Montescaglioso?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, nel materano era una zona più tranquilla rispetto a Taranto. Poi, a Taranto si doveva fare una certa guerra.

PRESIDENTE. Quindi era un posto fuori regione molto vicino. Dipende anche dalla conformazione del territorio, dai boschi, dalla presenza di masserie? Tutto ciò era tenuto in conto?

SALVATORE ANNACONDIA. Era tutto tenuto in conto, perché Riccardo Modeo ebbe gli appoggi, per quanto riguardava Montescaglioso, dagli Scarcia di Policoro, non quelli di Taranto che si chiamano Scarci. Però, sono cugini. Ebbe gli appoggi dagli Scarcia per Montescaglioso. Poi a Montescaglioso c'era anche un loro fedelissimo, Alessandro Bozza. Tutti gli appoggi, per quanto riguardava l'acquisto del terreno... Là era solo un terreno agricolo e furono poi costruite le ville e i bunker man mano che si andava avanti, con il supporto che io dovetti dare, perché mi sentivo orgoglioso di aiutarli, perché con Gianfranco e con Claudio ci eravamo trattati; con Riccardo ci davamo i saluti: lui conosceva me come nome, io conoscevo lui come nome.

PRESIDENTE. In carcere è possibile per voi avere rapporti e collegamenti, fare piani e programmi?

SALVATORE ANNACONDIA. Mi sentivo la libertà in carcere. Non so gli altri.

PRESIDENTE. Mi sembra di sì, da quanto abbiamo capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Io avevo più opportunità, o meno opportunità, però...

PRESIDENTE. Come faceva ad avere più opportunità?

SALVATORE ANNACONDIA. Avevo i soldi.

PRESIDENTE. E quindi?

SALVATORE ANNACONDIA. Pagavo il telefonino che avevo in carcere.

PRESIDENTE. Quanto costava avere un telefonino in carcere?

SALVATORE ANNACONDIA. Due milioni, due milioni e mezzo.

PRESIDENTE. Più o meno quanto fuori.

SALVATORE ANNACONDIA. No, signor presidente. A chi portava il telefonino pagavo lo stipendio io.

PRESIDENTE. Quindi, due milioni al mese.

SALVATORE ANNACONDIA. No, ogni volta che mi portava il telefonino. Mi portava il telefonino e altre cose. Per i contatti che avevo io, era come se fossi in libertà.

PRESIDENTE. Chi era che le portava questa roba, agenti di custodia?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Lei ha già fatto i nomi alla magistratura?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Questa era una pratica comune in tutti i carceri?

SALVATORE ANNACONDIA. In alcuni carceri è comune, ma bisogna vedere la persona che lo fa, la persona che lo chiede. Non è che ognuno chiede il telefonino e glielo portano.

PRESIDENTE. E lei aveva il telefonino in carcere?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. In quale carcere?

SALVATORE ANNACONDIA. In quello di Foggia.

PRESIDENTE. Faceva una telefonata e lo restituiva o lo aveva in cella per ogni necessità?

SALVATORE ANNACONDIA. Lo tenevo 2, 3 giorni massimo; poi si scaricavano le pile e lo ridavo fuori e me lo riportavano.

PRESIDENTE. Ho capito. Con le pile ricaricate?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Nessuna perquisizione in cella?

SALVATORE ANNACONDIA. Anche se avvenivano perquisizioni, non c'era problema. In un'occasione, avevo il telefonino sulla bilancetta: fecero la perquisizione e se ne andarono. Poi, avevamo degli imboschi.

PRESIDENTE. Che vuol dire imbosco?

SALVATORE ANNACONDIA. Un posto dove nasconderlo.

PRESIDENTE. Nella cella?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. E che altro portavano?

SALVATORE ANNACONDIA. Le posso dire - è stato verbalizzato e poi è stato già operato - che avevo una pistola, una 6,35.

PRESIDENTE. Quello di Foggia era un carcere un po' speciale o anche in altri carceri succedevano cose del genere? SALVATORE ANNACONDIA. Ormai il carcere di Foggia aveva una piega...

PRESIDENTE. Una brutta piega. Anche altri carceri avevano questa piega?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, io non avevo problemi.

PRESIDENTE. In nessun posto?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché di detenzione ne ho fatta poca, ma per quella che ho fatto non avevo problemi. PRESIDENTE. Gli altri?

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono persone che hanno gli stessi agganci. Adesso sfido chiunque ad essere corrotto, perché adesso le cose iniziano ad essere problematiche, perché ognuno che parla si pente veramente e tira in ballo... PRESIDENTE. Però ci interessa sapere se, prima che ci fosse questa ondata di collaborazioni, in molte carceri italiane succedeva che chi aveva soldi e aveva un nome riusciva ad avere più o meno cose di questo tipo?

SALVATORE ANNACONDIA. Non gli mancava niente.

PRESIDENTE. Dovunque andava.

SALVATORE ANNACONDIA. Non in tutte le carceri, signor presidente.

PRESIDENTE. Un carcere che nel vostro giro è considerato severo qual è?

SALVATORE ANNACONDIA. Quello di Secondigliano è considerato serio, anche se qualche pecca ce l'ha.

PRESIDENTE. E l'Asinara? E Pianosa?

SALVATORE ANNACONDIA. L'Asinara è stato aperto per il 41-bis , ad esso sono state assegnate tutte guardie scelte.  Però, signor presidente, lei deve pensare che una persona quando sta sei o sette mesi in un carcere inizia ad avere un rapporto con una certa guardia, amicizia con un certo brigadiere, simpatia con il direttore. I discorsi nascono pian piano; non è che il giorno dopo l'arrivo si può chiedere il telefono.

PRESIDENTE. Quindi, in carcere, telefoni, una pistola. Scusi, lei solo aveva il telefono e la pistola in carcere o anche qualcun altro?

SALVATORE ANNACONDIA. Il telefono ce l'aveva anche qualcun altro.

PRESIDENTE. E faceva telefonate...

SALVATORE ANNACONDIA. Cocaina, hashisc, profumi, soldi: tutto. Non potevamo tenere le carte da gioco, ma ce le portavano. Se poi durante una perquisizione le trovavano, ci portavano un altro mazzo di carte. Quello che ci serviva ce lo facevamo portare, sia io sia gli altri, perché ciascuno ha le sue guardie.

PRESIDENTE. Con questo giro di organizzazioni criminali con le quali lei ha avuto rapporti avete mai parlato di possibili attentati da fare? Ha saputo che in questi giorni ci sono stati degli attentati in Italia. Ecco, di questo tipo di attentati ha mai sentito parlare?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, non volli verbalizzare una certa cosa perché una persona può essere presa per un megalomane, ma feci un colloquio investigativo con il dottor Alberto Maritati nel quale io accennai ad attacchi e stragi ai musei. Ne parlai appunto con il dottor Maritati.

PRESIDENTE. Quando?

SALVATORE ANNACONDIA. Alcuni mesi fa.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione questa cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Ultimamente ai carceri dell'Asinara e di Rebibbia sono stati fatti gli stessi ragionamenti e gli accordi erano quelli ormai. Si doveva lanciare un piccolo segnale, ma il segnale grosso si doveva lanciare dopo il 20 luglio, se avessero rinnovato il 41-bis che scadeva il 20 luglio. Non è che non volevo verbalizzare questo fatto, ma non me la sentivo di farlo perché mi auguravo che non succedesse niente. Ne parlai poi con l'investigatore, il dottor Maritati, che mi venne ad ascoltare: tutti gli attacchi bisognava farli ai musei...

PRESIDENTE. Perché ai musei?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché il museo fa parte della città, del paese, della storia. E adesso che sono passati all'attacco di più possono esserci grosse stragi, perché questa è gente...

PRESIDENTE. Perché hanno fatto l'attacco ad un museo e non direttamente alle persone facendo le stragi?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché i prossimi attacchi, di cui si parlò, saranno diretti alla Sardegna.

PRESIDENTE. Perché alla Sardegna?

SALVATORE ANNACONDIA. Bisogna attaccare la Sardegna perché c'è l'Asinara, perché i turisti non devono andare più, perché la distruzione ai musei...

PRESIDENTE. Quindi c'è l'idea di un danno di questo genere?

SALVATORE ANNACONDIA. Su queste stragi non faccio supposizioni: a me tocca parlare, signor presidente, poi le indagini sono affidate a voi. Vi dico che va cercato nel 41-bis .

PRESIDENTE. Quindi, è la risposta della criminalità al 41-bis. Perché, dà fastidio il 41-bis ?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Perché non si può colloquiare.

PRESIDENTE. L'isolamento è il danno maggiore che può ricevere la criminalità?

SALVATORE ANNACONDIA. Tutti i grossi accordi, tutte le imbasciate...

PRESIDENTE. Non si possono più fare?

SALVATORE ANNACONDIA. Non si possono fare come si faceva una volta. Una volta c'era la possibilità del telefonino, della guardia che portava il messaggio fuori e riportava la risposta. C'era in altre carceri la possibilità di fare colloqui tra detenuti e persone in libertà. Dico solo quello che posso dire, perché il resto è coperto dal segreto istruttorio.

PRESIDENTE. Quindi si poteva fare quasi tutto.

SALVATORE ANNACONDIA. Qualunque cosa volessi fare.

PRESIDENTE. Il 41-bis praticamente isola il detenuto, gli impedisce di avere collegamenti.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, isola il detenuto. Il detenuto qualche contatto lo ha quando va in tribunale.

PRESIDENTE. Può spiegare bene tra chi avvenivano i discorsi relativi agli attentati ai musei?

SALVATORE ANNACONDIA. E' coperto, signor presidente.

PRESIDENTE. Non tra quali persone fisiche. Appartenenti aquali organizzazioni?

SALVATORE ANNACONDIA. Campania e Sicilia.

PRESIDENTE. Se invece il 41-bis fosse stato revocato non ci sarebbero stati gli attacchi ai musei. E lei dice che però, se la cosa va avanti, questi alzano il tiro.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché tutti sapevano che il 20 luglio sarebbe stato revocato.

PRESIDENTE. Ah, sapevano questo! Colleghi, proporrei di andare avanti senza fare alcuna sosta. Lei è d'accordo ad andare avanti o ha bisogno di una pausa?

SALVATORE ANNACONDIA. Non ho problemi, presidente. Le chiederei solo una piccola interruzione di cinque minuti. PRESIDENTE. D'accordo, sospendo brevemente la seduta. La seduta, sospesa alle 14, è ripresa alle 14,20. PRESIDENTE. Può spiegare quali sono e quali sono stati i rapporti con gli imprenditori locali?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, questo è coperto da segreto, non posso fare i nomi.

PRESIDENTE. Ho capito, fa parte del discorso appalti. Le zone nelle quali lei ha preso contatto con l'imprenditoria? SALVATORE ANNACONDIA. Trani...

PRESIDENTE. Quella era la sua zona. Il contatto - per capire - è solo quello che lei ci ha spiegato, cioè tramite riciclaggio, o ce ne sono altri tipi?

SALVATORE ANNACONDIA. Ce ne sono altri, ma sono coperti da...

PRESIDENTE. Ma riguardano appalti, spesa pubblica, eccetera?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Ho capito, grazie. Esiste un mercato dell'usura?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, esiste perché l'usura è un business di miliardi, signor presidente. Le faccio un esempio: ho perso alcuni miliardi, parecchi miliardi, perché per la mia collaborazione... delle fughe di notizie che ci furono... perché questi soldi che avevo dato in usura, che prendevo mensilmente...

PRESIDENTE. A che tassi li dava, più o meno?

SALVATORE ANNACONDIA. Al 15 per cento.

PRESIDENTE. Mensile?

SALVATORE ANNACONDIA. Sarebbe il 150 per cento...

PRESIDENTE. E in genere pagavano?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. E a chi non pagava che succedeva?

SALVATORE ANNACONDIA. E' difficile che non pagassero.

PRESIDENTE. Si convincevano!

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Nella sua zona esistono rapporti tra appartenenti a organizzazioni criminali, imprenditori e uomini politici?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Che livello di imprenditori e che livello di uomini politici?

SALVATORE ANNACONDIA. L'imprenditoria tranese è supportata dalle segherie di marmo, imprese di costruzioni... grandi imprese pure; a Trani vi sono imprese molto famose.

PRESIDENTE. E i politici di che livello?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente...

PRESIDENTE. Per capirci: consiglieri comunali, parlamentari?

SALVATORE ANNACONDIA. Dal minimo al massimo.

PRESIDENTE. Tutti, quindi.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Ho capito, dal parlamentare fino al consigliere comunale. Qual è la natura di questi rapporti? Affari o altro?

SALVATORE ANNACONDIA. Affari e scambi.

PRESIDENTE. Cosa intende per scambi?

SALVATORE ANNACONDIA. Intendo scambi di voti, di cortesie, cose che non posso riferire...

PRESIDENTE. No, le cose specifiche no... Lei è un uomo molto sveglio, capisce...

PAOLO CABRAS. Non i nomi, i fatti, il tipo di rapporto...

SALVATORE ANNACONDIA. Gli aggiustamenti dei processi...

PRESIDENTE. Ci arriviamo fra un attimo. Mi scusi, andiamo con ordine. Dicevamo, quindi, che c'è questo intreccio in cui gli imprenditori, i criminali e questi politici sono sullo stesso piano?

SALVATORE ANNACONDIA. Non è che i politici o gli imprenditori si possano mettere con tutti i criminali...

PRESIDENTE. No, certo, io parlo di quelli...

SALVATORE ANNACONDIA. Perché lei mi ha parlato di criminali...

PRESIDENTE. No, diciamo capi di organizzazioni.

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono degli accordi, degli scambi...

PAOLO CABRAS. Qual è l'oggetto dello scambio, del rapporto?

SALVATORE ANNACONDIA. L'oggetto dello scambio, in prima base sono le elezioni.

PRESIDENTE. Il voto?

SALVATORE ANNACONDIA. Esattamente. Poi ci sono dei contratti - chiamiamoli così - nel senso che, se c'è una zona da destinarsi, viene detto: "Acquista, per te e per noi".

PRESIDENTE. Questo lo dice il politico.

ALFREDO GALASSO. Società...

PRESIDENTE. Società di fatto.

SALVATORE ANNACONDIA. Giusto. Vengono poi destinate a zone edificabili o a zone industriali. Si compra il terreno agricolo che poi diventa...

PRESIDENTE. Quindi, attorno a queste cose, vi sono interessi sia di imprenditori, sia di politici che...

SALVATORE ANNACONDIA. Gli interessi sono di miliardi.

PRESIDENTE. Certo. Quindi, tutto ruota intorno a questa questione dei piani regolatori, delle varianti, eccetera. SALVATORE ANNACONDIA. Esatto.

PRESIDENTE. Anche licenze per supermercati, per...

SALVATORE ANNACONDIA. Anche le licenze. Posso dirle che mia moglie aveva oltre trenta licenze.

PRESIDENTE. Per che tipo di cose?

SALVATORE ANNACONDIA. Di tutto. Potevo anche importare delle armi, tabacchi, preziosi, abbigliamento... PAOLO CABRAS. Queste licenze le rilasciano enti, uffici, amministrazioni diverse. Può spiegare...

SALVATORE ANNACONDIA. C'è l'iscrizione al REC. Poi...

PRESIDENTE. Le aveva sempre attraverso questi rapporti?

SALVATORE ANNACONDIA. Esatto.

PRESIDENTE. Lei controllava un certo numero di voti lì?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Quanti, più o meno? Può quantificarli o no?

SALVATORE ANNACONDIA. Quantificare, signor presidente... fra Trani, Bisceglie, Barletta, Andria, Spinazzola, Minervino, Corato... Potevo anche giostrare sui 50-60 mila voti.

PRESIDENTE. Per cortesia, può dire alla Commissione le aree in cui lei si muoveva? Lei ha detto Trani. Poi?

SALVATORE ANNACONDIA. Trani, Bisceglie, Molfetta (ma c'era poco), Corato (buona parte), Andria, Barletta, Spinazzola, Minervino. Sono piccoli centri, però hanno il loro peso.

PRESIDENTE. Cerignola no?

SALVATORE ANNACONDIA. No, con Cerignola siamo già nel foggiano.

PRESIDENTE. Lei si è mai spostato verso Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, controllavo abbastanza Bari.

PRESIDENTE. E perché adesso in questo elenco non ha indicato Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché per il controllo dei voti su quella città avevo persone che si occupavano loro... PRESIDENTE. Per conto suo?

SALVATORE ANNACONDIA. Per conto loro, ma sempre collegate a noi.

PRESIDENTE. Quindi, per capirci: nell'ambito di un'intesa politica, tra i voti che controllava lei e quelli che controllavano persone vicino a lei...

SALVATORE ANNACONDIA. Non li controllavo soltanto, li orientavo pure.

PRESIDENTE. Sì, intendevo parlare di orientamento. Qual era il numero di voti che riuscivate ad orientare lei e le persone collegate con lei?

SALVATORE ANNACONDIA. Quanti ne servivano, signor presidente. Non c'era un limite.

PRESIDENTE. E come facevate a sapere quanti ne servivano?

SALVATORE ANNACONDIA. Attraverso i contatti che avevo.

PRESIDENTE. Per esempio, il deputato Violante viene da lei e dice: "A Bari mi servono 30 mila voti".

SALVATORE ANNACONDIA. Mi servono 10 mila voti, 5 mila voti, 20 mila voti... Si faceva di tutto per accontentare...

PRESIDENTE. E come si faceva per trovare questi voti?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, a noi che facevamo parte di una certa vita non era difficile. Basti pensare... Solo i familiari - per dirle solo questo - di amici, di "ragazzi", di conoscenti, di fiancheggiatori... si parla di migliaia. Poi, di conseguenza, persone che si danno a mangiare, a campare... perché non è che tutte sono inserite nella criminalità a titolo esecutivo: ci sono le persone che vengono usate pure per fare...

PRESIDENTE. Una singola cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Esatto. Quelle persone sono tutte collegate in una certa maniera sempre a noi. Su 50 mila abitanti, io potevo controllare il 30-40 per cento.

PRESIDENTE. Senta, c'era un sistema di controllo anche del voto oppure bastava l'orientamento?

SALVATORE ANNACONDIA. No. C'è il sistema del controllo del voto.

PRESIDENTE. Come si controlla il voto?

SALVATORE ANNACONDIA. Dai seggi dove si va a votare.

PRESIDENTE. Cioè? Come si fa? Ci spieghi.

SALVATORE ANNACONDIA. Presidente, non posso perché stiamo entrando in merito a certi discorsi ...

PRESIDENTE. No, chiedevo come si fa a controllare il voto, non per chi ha votato. Non ci interessa, per ora. Come si fa a controllare il voto? Con l'incrocio delle preferenze o no?

SALVATORE ANNACONDIA. C'è l'incrocio delle preferenze e degli accordi che si fanno nelle correnti, pure. Deve pensare, signor presidente, che io non è che non mi sputtanavo, non mi mettevo in prima persona, perché io ero un grosso personaggio. Avevo le mie persone, alle quali facevo fare proprio quest'attività, che non erano inserite nelle droga, nelle estorsioni, nel traffico...

PRESIDENTE. Insomma, erano persone pulite?

SALVATORE ANNACONDIA. Persone che avevano il loro passato, però oramai si erano inserite in un certo livello, con delle sedi.

PRESIDENTE. Lei prima ha fatto riferimento ai seggi, nel senso che doveva sapere che da quel seggio dovevano venire, per esempio, 100 voti al suo candidato ...

SALVATORE ANNACONDIA. Perché io avevo in quella zona mille persone, che giuravano di dare il voto. Queste persone sapevano che in quel seggio dovevamo trovare ... perché sapevamo pure la cabina, l'aula dove andavano a votare. Avevamo le persone destinate in tutti i posti. Quando poi fa la croce o fa il nome, si lascia pure un segnale.

PRESIDENTE. Ma quando c'è una sola preferenza, come si fa a lasciare il segnale? Finora ci hanno spiegato che in Calabria, in Sicilia, eccetera, quando c'erano più preferenze, incrociando queste ultime si stabilivano più o meno i nomi. Però nelle ultime elezioni politiche c'è stata una sola preferenza: in questi casi il controllo come può avvenire?

SALVATORE ANNACONDIA. Quando c'è una preferenza, signor presidente, si sa che si deve preferire quello là. PRESIDENTE. Le è mai capitato ...

SALVATORE ANNACONDIA. Le debbo dare subito una risposta. Perché questo nuovo tipo di votazione, per me è nuova. PRESIDENTE. Sì, non l'ha fatto, è giusto! Le è mai capitato che non sono ritornati i voti che lei pensava?

SALVATORE ANNACONDIA. Qualche caso c'è stato; qualcuno le ha prese.

PRESIDENTE. Cosa vuol dire: le ha prese?

SALVATORE ANNACONDIA. La lezione l'ha presa.

PRESIDENTE. Perché non ha tenuto fede ai patti?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Come avete fatto ad individuare chi era la persona che non aveva tenuto fede ai patti?

SALVATORE ANNACONDIA. Avevo degli ottimi collaboratori, signor presidente.

PRESIDENTE. E' un sistema di spionaggio?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché sapevano che in quell'aula dovevano andare a votare 10 persone, e ne hanno trovati 9 di voti. Nei 10 poi si viene a sapere chi non ha dato il voto.

PRESIDENTE. Ho capito. E quello era punito?

SALVATORE ANNACONDIA. Eh!

PRESIDENTE. Cioè il votante non fedele veniva punito. Quali notizie ha in ordine alle vicende dell'incendio del teatro Petruzzelli?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente io dell'incendio del Petruzzelli ho verbalizzato quello che ho saputo.

PAOLO CABRAS. Qual è la sua fonte di informazione? E' in carcere?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare che cosa ha saputo?

SALVATORE ANNACONDIA. Ho saputo dell'incendio del Petruzzelli come è andata, come me l'hanno riferita, signor presidente. Quando ci siamo incontrati nel carcere di Trani con Tonino Capriati, che si può dire che è una persona che io l'ho allevata, l'ho cresciuta, l'ho istruita, e Savino Parisi... Nel carcere di Bari era successa la morte di Antonello Lazzarotto.

PRESIDENTE. Come era morto Antonello Lazzarotto?

SALVATORE ANNACONDIA. Lazzarotto è stato ammazzato.

PRESIDENTE. Questo lo sa per certo lei, oppure glielo hanno riferito?

SALVATORE ANNACONDIA. Me l'hanno riferito ma non è che mi potevano dire una cosa per l'altra.

PRESIDENTE. Lazzarotto chi era, che importanza aveva?

SALVATORE ANNACONDIA. Non aveva una grossa importanza Lazzarotto.

PRESIDENTE. Perché era stato ucciso?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché dopo l'arresto di Capriati, avvenuto nell'aprile del '91, in un blitz che è successo aBari, uomini del suo gruppo, della sua famiglia si misero in società con il Lazzarotto. Chi guidava il gruppo di Tonino era il fratello Mario, buon ragazzo, buon elemento, e Sabino. Ma Sabino, il fratello maggiore, non aveva la testa come uno più giovane. Durante questa loro società negli stupefacenti, una sera mentre si "pippava" cocaina a casa di Lazzarotto ... La cocaina ha l'effetto che fa dire la verità e Mario Capriati si confidò dell'incendio del Petruzzelli. Quando è avvenuto il blitz , Lazzarotto dette segni evidenti che voleva collaborare, perché fu visto parlare con i funzionari e via dicendo. Fatto sta che Lazzarotto ...

PRESIDENTE. Funzionari della polizia?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Di Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. No, là fu il GICO che eseguì quell'operazione.

PRESIDENTE. Il GICO, quindi Guardia di finanza.

SALVATORE ANNACONDIA. Quando è stato tradotto in carcere Lazzarotto, è stato messo alla quarta sezione, nelle celle di isolamento. Gli altri sono andati in sezione. Al Lazzarotto gli è arrivata la cocaina, ma con un certo tipo di veleno. Questo veleno, signor presidente, non va cercato nel sangue o nello stomaco perché viene ingerito attraverso le vie respiratorie.

PRESIDENTE. Perché viene aspirato con il naso?

SALVATORE ANNACONDIA. Con il naso. Al Lazzarotto fu mandata una mezza grammata di questo stupefacente, perché Lazzarotto non era un cocainomane come ne parlano, era una persona che si metteva in compagnia e sniffava cocaina. Quando gli è arrivata questa mezza grammata di cocaina, Lazzarotto non ha fatto altro che fare una "striscia", un "pippotto" unico. Prima di fare il "pippotto" si è leccato pure la carta stagnola o si è bagnato la sigaretta pure. Ha gettato la carta e la traccia non l'ha potuta lasciare perché al Lazzarotto non gli sono arrivati 3,4 o 5 grammi di cocaina, gli è arrivato mezzo grammo, giusto per fare una sniffata unica.

PRESIDENTE. Diceva che questo veleno non resta nel sangue ...

SALVATORE ANNACONDIA. Non resta né nel sangue né nello stomaco, perché questo è un segreto di cui io ne parlai nel 1987, sia a Savinuccio Parisi, che a Tonino Capriati, perché dovevamo eseguire un omicidio nel carcere di Bari. PRESIDENTE. Come si chiama questo veleno?

SALVATORE ANNACONDIA. E' un preparato chimico ... Non è che io sia un dottore ...

PRESIDENTE. Allora, dove lo trovavate, come faceva a riconoscerlo?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, non posso dire il nome.

PRESIDENTE. Il nome non mi interessa.

SALVATORE ANNACONDIA. Amicizie con i dottori.

PRESIDENTE. Un dottore ha detto che esiste questo preparato?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. PRESIDENTE. Lì, a Trani?

SALVATORE ANNACONDIA. A Trani, in qualsiasi posto.

PRESIDENTE. Le chiedevo se il dottore è di Trani.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Dunque esiste questo preparato che può essere inalato con il naso, e che non lascia traccia.

SALVATORE ANNACONDIA. Esattamente. E' in polvere, si mischia con la cocaina.

PRESIDENTE. Non lascia tracce di alcun genere?

SALVATORE ANNACONDIA. Nei polmoni sì. Però le autopsie non vengono eseguite nei polmoni, quando si fa un'autopsia del genere. Hanno fatto autopsie sia nel sangue che nello stomaco, ma non hanno trovato tracce. Quando io mi sono incontrato a Trani, nel dicembre del 1992, stavamo insieme con Capriati e Parisi. Allora io la prima cosa che gli dissi cur lazzarone di Lazzarotto . Mi spiego in italiano?

PRESIDENTE. No, ho capito.

PAOLO CABRAS. Quel lazzarone di Lazzarotto.

SALVATORE ANNACONDIA. "Salvatore, le piaceva la cocaina, ha dovuto morire". Dice: "Va beh ce problema stavano con Lazzarotto ? nu bun uagnam ier anche se ogni tanto faceva qualche leggerezza". "Salvatore, sapeva du fatt du Petruzzelli . Quello stronzo di mio fratello si è confidato del Petruzzelli" Ce c'entra u Petruzzelli?" E mi stettero a spiegare ...

PRESIDENTE. Cosa gli spiegarono?

SALVATORE ANNACONDIA. Del Petruzzelli. Che Tonino stava aBari nel 1991, stava nel carcere di Bari...

PRESIDENTE. Chi è Tonino, scusi?

SALVATORE ANNACONDIA. Capriati. Tramite una sua testa di legno... la testa di legno sarebbe il suo cassiere, tale Vitino "l'enel", detto "l'enel", Vitino Martiradonna... dato che Vitino dava i soldi in usura per conto di Tonino, stava nel campo dei preziosi, aveva pure un'oreficeria sempre a Bari vecchia, era una testa di legno di Tonino, si conosceva con Ferdinando Pinto tramite... Fu avvicinato perché si conoscevano così, non è che si conoscessero intimamente con questo Ferdinando, si conoscevano perché Vitino frequentava il Circolo tennis di Bari, il Circolo della vela o il teatro, era una persona che viveva nell' élite . Attraverso dei politici, di cui non mi sono stati fatti i nomi, signor presidente, non è che non... non mi sono stati fatti i nomi...

PRESIDENTE. Tanto lei distingue quando non li vuole dire onon li può dire o quando...

SALVATORE ANNACONDIA. Non mi sono stati fatti i nomi. Tramite questi politici fu avvicinato Vitino "l'enel" e gli chiesero la cortesia del Petruzzelli.

PRESIDENTE. Di bruciarlo?

SALVATORE ANNACONDIA. Di bruciarlo. Perché il Pinto... Queste cose poi me le ha spiegate tutte Tonino e io le ho spiegate tutte, non mi potevo inventare una cosa del genere, presidente, perché ne andava pure della mia credibilità. I fatti erano che bisognava incendiare il Petruzzelli, fare non quell'incendio, ma un incendio che lo doveva rovinare, non distruggere, perché poi bisognava restaurarlo, il Petruzzelli. Quello che hanno pubblicato i giornali non sono cose come sono state dette e come sono state interpretate. Non bisognava distruggere il Petruzzelli, ma appiccare dei fuochi che si doveva rovinare. Il Pinto aveva già progettato un altro teatro, ma non poteva presentare il progetto del teatro Città di Federico. Cosa accadeva? Che si doveva restaurare il Petruzzelli...

PRESIDENTE. E nel frattempo...

SALVATORE ANNACONDIA. ... i lavori dovevano proseguire per anni, bisognava chiedere i finanziamenti e l'assicurazione, chiedeva il minimo dell'assicurazione, prendevano dei soldi, abbastanza, i finanziamenti del restauro del Petruzzelli, perché il Petruzzelli è una cosa mondiale, non è nazionale è internazionale il Petruzzelli, e nel frattempo bisognava mettere su il progetto del teatro Città di Federico, che veniva autorizzato senza problemi perché andava in sostituzione al Petruzzelli. Il teatro Città di Federico veniva pubblicizzato con i programmi che stavano al Petruzzelli, che passavano di conseguenza al teatro Città di Federico. A questi politici che intervenivano in tutta questa operazione veniva dato il 30 per cento. Perché Tonino Capriati sa del 30 per cento? Perché i favori che venivano fatti a Tonino erano le garanzie per quanto riguardava i processi Capriati e Parisi. Però Savino Parisi, quando gli sono arrivate le prime notizie, non voleva partecipare; ha detto di no, perché dice: "Poi va a finire che noi causiamo troppo di quel casino a Bari". "Perché dobbiamo bruciare il Petruzzelli?". Perché Savino Parisi è stato sempre un ragazzo che ha voluto stare sempre nel suo regno e non uscire fuori dai fatti suoi. Poi Savino, sotto le insistenze di Tonino, ha accettato: "Va bene, non mi interessa". E venivano sistemati i processi sia di Savino Parisi che di Capriati.

PRESIDENTE. Questa fu la contropartita.

SALVATORE ANNACONDIA. La contropartita era questa. 'Sti politici che hanno collaborato nell'incendio del Petruzzelli...

PRESIDENTE. Avevano garantito anche la sistemazione dei processi?

SALVATORE ANNACONDIA. Avevano garantito la sistemazione dei processi e avevano preso due piccioni con una fava: uno, che prendevano il 30 per cento dei finanziamenti...

PRESIDENTE. Per i lavori di ricostruzione.

SALVATORE ANNACONDIA. ... sia per i lavori di ricostruzione che i finanziamenti che dovevano essere chiesti per il teatro Città di Federico. Nello stesso momento facevano il favore a Capriati e a Parisi e alle votazioni loro c'avevano già un'entrata in più degli altri, perché oramai i contatti erano diretti.

PRESIDENTE. Ed erano importanti questi Capriati e Parisi e vari?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, insomma...

FERDINANDO IMPOSIMATO. I processi furono aggiustati?

SALVATORE ANNACONDIA. Da qualche processo per omicidio la famiglia Capriati è uscita assolta; Savino Parisi in un altro processo per droga è uscito assolto. Gli promisero...

PAOLO CABRAS. Dopo l'incendio del Petruzzelli?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, sì.

PRESIDENTE. Lo vediamo, comunque, lo possiamo verificare.

SALVATORE ANNACONDIA. Fu assolto, Savino, in un processo dove era imputato di droga. A Tonino gli fu promesso che avrebbe avuto non una condanna eccessiva, perché era imputato di associazione a delinquere di tipo mafioso finalizzata in estorsioni, rapine, in droga, in omicidi, in tentati omicidi, e prese una condanna a 13 anni, che gli sarebbe stata ancora agevolata poi in appello, che sarebbe uscito. Si doveva fare quei due o tre anni perché il processo, istituito dal dottor Magrone... non vi dico e non vi conto. Parisi si voleva pentire e questo lo posso dire ad alta voce, signor presidente, perché non c'è bisogno che debbo vedere l'articolo sul giornale per sapere se una persona si vuole pentire, io lo conosco già in faccia. E non me ne voglia Savino Parisi: se lui si pentisse, io sarei l'uomo più felice al mondo. A dicembre, quando io stavo nel carcere di Trani (ché stavamo parlando di queste cose qua) Savino era preoccupato. "Savì, che è successo, qualche problema in famiglia?". "No, Salvatò". Un giorno va a fare un processo in pretura. Tonino Capriati sta in corte d'assise a fare un'udienza preliminare per quel processo, il maxiprocesso. Al ritorno, Savino Parisi fa il viaggio insieme a Tonino, perché lui finisce il processo ma per la traduzione aspettano pure Tonino che finisce il processo e ritornano. E fece il viaggio insieme pure a un pentito che accusava nel processo di Tonino Capriati, tale Giovanni Ferrorelli, che si incontrarono nel furgone, però nelle due gabbie distinte e separate. La mattina, Savino lo vedo tutto pimpante... o il pomeriggio fu, lo vedo pimpante, allegro. Dice: "Beh, tutto a posto?". "Sì, Salvatò" - disse - "mi hanno promesso di attribuirmi le responsabilità e ci danno il rito abbreviato e la condanna sarà lieve, giusto il tempo di 2 o 3 mesi, 4 mesi, dopo l'udienza preliminare che facciamo che ci danno gli arresti domiciliari e allora la libertà provvisoria". Perché sarebbero stati condannati solo per spaccio di stupefacenti, non per traffico, solo con l'articolo 73, che prevede pure gli arresti domiciliari. "Mah" - io dissi - "Vabbè, auguri". Tanto ormai io stavo già collaborando da ottobre. E' meglio che lo sanno adesso che io da ottobre già stavo facendo i verbali.

PRESIDENTE. Ma loro non lo sapevano che lei collaborava?

SALVATORE ANNACONDIA. No, l'hanno saputo nella fine di gennaio per qualche fuga di notizie che c'è stata, qualche magistrato ha fatto un'audizione alla televisione con la mia fotografia, ed è stato un peccato.

PRESIDENTE. Chi è stato il magistrato che ha fatto l'audizione con fotografia? Tanto questo...

SALVATORE ANNACONDIA. Ma, io ne parlai col dottor Capristo e lui mi disse che non ne sapeva niente. Però...

PRESIDENTE. Era Capristo che l'ha fatto?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, in televisione io ho visto Telenorba : c'era la mia fotografia e lui parlava che io stavo collaborando con lui; ma in realtà io con la procura di Bari non stavo collaborando, stavo collaborando col dottor Mandoi. PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Fatto sta che mi raccontano tutti i fatti e io, perché sono stato sempre una persona che ho saputo filare, dottore, raccolsi tutte queste cose sia da Savino che da Tonino. Quando io sono uscito fuori in detenzione extracarceraria, quando ho iniziato a verbalizzare ho detto al dottor Mandoi che c'avevo da parlare di questo fatto; venne il dottor Maritati e feci un colloquio investigativo. Feci questo colloquio investigativo e riferii tutto quello che sapevo su Petruzzelli e su Lazzarotto, perché il Petruzzelli è collegato al Lazzarotto e il Lazzarotto è collegato al Petruzzelli, perché se Lazzarotto non era a conoscenza dell'incendio non moriva.

MARCO TARADASCH. Perché hanno ucciso Lazzarotto e raccontano a lei la storia?

PRESIDENTE. L'aveva spiegato prima.

SALVATORE ANNACONDIA. No, ha ragione. Io a Tonino Capriati ho dato cinque vite umane; ho ammazzato cinque persone per lui, lui mi deve molto. A Savino Parisi ne ho data una. L'ho rifornito di stupefacenti a Savino Parisi dal 1987; ho iniziato io a rifornirli di stupefacenti, poi, piano piano Savino si è allargato, si è preso altre persone da cui si riforniva pure, io lo sapevo, ma mi stava bene. E pensare che i miei rapporti con loro erano da capo, se ben si vuol dire, e hanno sempre dovuto dare conto di quello che facevano, anche se non al cento per cento, al 60, al 70 per cento mi davano conto di quello che facevano. E quando mi hanno raccontato del fatto del Petruzzelli, non hanno avuto difficoltà a dirmelo perché stavano parlando con Salvatore Annacondia, non stavano parlando con un primo arrivato. MARCO TARADASH. Lei era il killer di Capriati?

SALVATORE ANNACONDIA. No, non ero il killer, non sono stato mai il killer di nessuno, solo che in certe situazioni io ho dovuto dare cinque favori, di cinque ragazzi di Trani che volevano ammazzare Capriati ed io per...

PRESIDENTE. E lei li ha eliminati?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, per il bene che volevo a Tonino. Tonino era un mio socio nelle sigarette, perché lo misi in società nelle sigarette, Tonino non fu ammazzato per miracolo, perché mi trovavo io; quando ho appreso tutto da chi voleva ammazzare Tonino, il pomeriggio stesso... e poi, guarda caso, che questo qua era stato assorbito da un altro amico mio, tale Coschiera Gregorio, che questo Acquaviva Giovanni era un mezzo infame, perché all'epoca aveva fatto arrestare Pasquale Manfra, un ricettatore di oro, di preziosi; e lo fece arrestare Acquaviva Giovanni; questo Acquaviva Giovanni, dopo alcuni anni si mise insieme a Gregorio; quel giorno non lo volle ammazzare, Acquaviva, che erano a bordo di una moto, proprio perché stava in compagnia mia. Poi il pomeriggio questo qua mi ha detto: "Salvatore, ti sei salvato per miracolo, perché stavi tu"; ed io non è che mi sono dovuto sentire in dovere di dirlo, però per il bene che volevo a lui, l'ho messo a conoscenza e questo qua morì subito, sparì, non è stato mai trovato. Gli ho dato cinque vite umane.

PRESIDENTE. Allora, le raccontano come sono andati i fatti, in particolare del Petruzzelli: il Petruzzelli, bruciato ma non distrutto...

SALVATORE ANNACONDIA. Non doveva essere distrutto.

PRESIDENTE. ... una società per la ricostruzione che doveva seguire queste cose, il programma del Petruzzelli doveva passare al cartellone della Città di Federico, ci sarebbero stati finanziamenti per il Petruzzelli e per la Città di Federico.

SALVATORE ANNACONDIA. Esattamente, una volta finita questa Città di Federico, sarebbero arrivato in corso i lavori... non è che poi io ero...

PRESIDENTE. Sì, non era un esperto teatrale.

SALVATORE ANNACONDIA. No, non è che io ero in prima persona e potevo sapere tutti i dettagli, però sta di fatto, signor presidente, che io ho verbalizzato; poi dobbiamo ritornare sulla faccenda perché debbo fare per forza un percorso.

PRESIDENTE. Faccia pure.

SALVATORE ANNACONDIA. Io poi ho verbalizzato tutto al dottor Mandoi. Quando il dottor Mandoi ha mandato questi verbali a Bari, di competenza, mi volle ascoltare, esattamente due mesi fa, il dottor Capristo ed il dottor Chieco. Mi vennero ad interrogare, alla presenza pure del dottor Maritati; mi interrogarono ed io risposi alle domande e verbalizzai tutto perché non avevo problemi a raccontare i fatti che sapevo. C'è stato un altro interrogatorio ed io verbalizzai in questi interrogatori, dal primo all'ultimo, che ci fu un sequestro di un telefonino nel carcere di Bari ad opera di Tonino Capriati. Questo telefono... Tonino si trovava in cella sua e c'aveva pure 150 grammi di cocaina e 29 milioni contanti. PRESIDENTE. In cella?

SALVATORE ANNACONDIA. In cella; sia la cocaina che i soldi riuscì subito a passarli in mano ad una guardia; il telefonino fu visto dai carabinieri. Non mi ricordo se fu un carabiniere o erano agenti di custodia venuti... fatto sta che Tonino spaccò questo telefonino; lo spaccò, fu sequestrato, stop.

MARCO TARADASH. Lei sa che questo non risulta agli atti?

SALVATORE ANNACONDIA. Allora io in questi giorni, una decina di giorni fa, tutte queste notizie sui giornali... sa quando ti metti a leggere i giornali, poi fai mente locale su tutto. Allora, in questa sede, che non ho potuto verbalizzare, voglio che venga messo a verbale questo particolare qua, che il telefonino fu sequestrato esattamente in una discussione che Tonino Capriati fece in chiesa, una domenica; ebbe una forte discussione.

PRESIDENTE. Con chi?

SALVATORE ANNACONDIA. Con un'altra persona, adesso non ricordo questa persona chi era.

PRESIDENTE. Con un detenuto?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, un detenuto e fu denunciato; dopo uno, due giorni da questa discussione fu fatta questa perquisizione e fu rinvenuto il telefonino. Adesso c'avete ...

PRESIDENTE. I dati temporali.

SALVATORE ANNACONDIA. I dati temporali che potete riscontrare questo fatto qua.

PRESIDENTE. Non ho capito. Lei prima ha detto che Capriati ruppe il telefono.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Perché?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché ignorante, perché basta andare alla SIP e fare i tabulati...

PRESIDENTE. Certo, per sapere delle telefonate. Ho capito, ma il telefono fu sequestrato o no?

SALVATORE ANNACONDIA. Fu sequestrato, signor presidente.

PRESIDENTE. Come faceva a romperlo, se era sequestrato?

SALVATORE ANNACONDIA. Tonino glielo tolse di mano e lo sbattè a terra.

PRESIDENTE. Al carabiniere, ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Poi, se è stato denunciato...

PRESIDENTE. Verbalizzato.

SALVATORE ANNACONDIA. ... per quel sequestro o non è stato denunciato per mascherare le grosse corruzioni che avvengono nel carcere di Bari... perché nel carcere di Bari è una cosa spaventosa, signor presidente, è la cosa più spaventosa che esiste al mondo. Abbiamo parlato di Foggia, ma Bari fa paura. Io sono stato nel carcere di Bari nel 1992, perché andai per una visita oculistica al centro clinico, sono stato quattro giorni e ho tenuto per quattro giorni un telefono.

PRESIDENTE. Pagando?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Mandai a prendere dei soldi, nell'ultimo giorno, a questa persona che non posso svelare il nome, gli mandai a prendere i soldi perché il telefonino mi fu mandato dalla sezione, dai "ragazzi" miei che stavano in sezione.

PRESIDENTE. Lo dettero a una guardia...

SALVATORE ANNACONDIA. .. una persona, un sottufficiale, gli dettero questo telefonino da portarlo a me. Lei deve pensare: quattro giorni, tre o quattro giorni sono stato e dal primo giorno, io sono arrivato il pomeriggio, dopo un' ora che ero nel centro clinico, c'avevo già in mano il telefonino e tutto.

PRESIDENTE. Tutto cosa vuol dire?

SALVATORE ANNACONDIA. Mangiare, bere, perché nel centro clinico non ti puoi cucinare, ma mi arrivavano pesci al forno, aragoste, carni di tutti i tipi...

PRESIDENTE. E lei pagava?

SALVATORE ANNACONDIA. No, mi arrivavano dalla sezione.

PRESIDENTE. Erano sempre i suoi "ragazzi"?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, attraverso le guardie, attraverso i lavoranti.

PRESIDENTE. Lei ha detto che poi l'ultimo giorno ha mandato a prendere i soldi. Cosa vuole dire?

SALVATORE ANNACONDIA. Il penultimo giorno, perché dopo che stavo là, già dissi a questa persona, quando era libero, per andare a prendere un po' di soldi da una parte perché mi servivano un po' di contanti. Gli feci un regalo di due milioni. Gli mandai a prendere proprio i due milioni per regalarglieli, per la disponibilità che aveva questa persona. Posso parlare per quattro giorni nel carcere di Bari e...

PRESIDENTE. Lei ha fatto telefonate con questo telefono?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Lei sa qual'era il numero del telefono?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma, signor presidente...

PRESIDENTE. Proprio per la storia dei tabulati.

SALVATORE ANNACONDIA. Deve pensare che questo telefono non era mio, mi è stato mandato, non potevamo ricevere telefonate.

PRESIDENTE. Le potevate fare soltanto? Perché non potevate riceverle?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché non puoi tenerlo acceso il telefonino, perché se ce l'hai acceso, dura mezza giornata e hai scaricato le pile; poi, metta caso che si trova in sezione una persona non corrotta e squilla il telefonino... Allora io posso solo telefonare, non posso comunicare il numero del telefonino.

FERDINANDO IMPOSIMATO. Può anche accadere che vi sia un non corrotto!

PRESIDENTE. Sì, per questo lo spengono, perché può accadere!

SALVATORE ANNACONDIA. A prescindere da quello, è per non farlo scaricare; ecco perché, se non ce l'hai acceso, dura due o tre giorni. Avevamo tutti i microtac, cioè le pile più schiacciate, più piccole di spessore, per l'imboscamento. Perché la pila grossa ha un suo spessore, quella più piccola un altro.

PRESIDENTE. Dove nascondevate un telefono in cella?

SALVATORE ANNACONDIA. Si fa un buco in cella, signor presidente, sotto il termosifone, o testa letto... ci sono tanti imboschi nel carcere; una volta che stai nel carcere l'imbosco lo trovi.

PRESIDENTE. Ma chi, per esempio, non c'è stato, come fa asaperlo? Può capitare che qualcuno non vi sia stato! Non lo sanno anche gli agenti di custodia di questi buchi?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, gli agenti di custodia lo sanno tutti, quelli corrotti lo sanno, signor presidente, solo che poi si organizzano per andare a fare la perquisizione proprio nella cella in cui vi è materiale: coltelli, pesce crudo poi non vi racconto quanto ne arrivava...

PRESIDENTE. Perché, non può arrivare il pesce crudo?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato la storia del telefono: ha detto "Vi do le date e potete praticamente verificare quando questo ha litigato in carcere ed è stato denunciato". Il litigio avvenne nel carcere di Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, nel carcere di Bari. Di domenica ha fatto discussione in chiesa, ed è stato denunciato, perché c'era il prete.

PRESIDENTE. Questo è Parisi, vero?

SALVATORE ANNACONDIA. No, Capriati. Dopo uno o due giorni Tonino ha ricevuto una perquisizione. Una delle guardie, un sottufficiale che procedeva alla perquisizione, si prese i 29 milioni ed i 150 grammi di cocaina, perché Tonino la faceva spacciare là dentro. Il telefonino non lo poté passare e, quando la guardia o il carabiniere lo prese in mano, Tonino l'ha spaccato. Signor presidente, se Tonino non è stato denunciato per il telefonino, per nascondere gli imbrogli del carcere, per non far succedere scandali... Poi Tonino fu trasferito.

PRESIDENTE. Anche questa può essere una data di riferimento. Quanto tempo dopo fu trasferito?

SALVATORE ANNACONDIA. Fu trasferito subito.

PRESIDENTE. Lo stesso giorno?

SALVATORE ANNACONDIA. No, non mi ricordo.

PRESIDENTE. Qualche giorno dopo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Era presente qualcuno che possa deporre che effettivamente fu trovato il telefono?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, non le saprei dire perché non ero in quel carcere; quando è successo questo mi trovavo in un altro carcere.

PRESIDENTE. Queste sono le ragioni per le quali ha saputo da Capriati e Parisi del Petruzzelli. Pinto era al corrente di questa cosa?

SALVATORE ANNACONDIA. Era lui il perno principale, era lui il capro espiatorio, se vogliamo chiamarlo in questo modo.

PRESIDENTE. Il capro organizzatore più che espiatorio: è un'altra categoria! In un interrogatorio lei ha parlato dell'interesse di un gruppo criminoso nella gestione delle Cliniche riunite di Bari. Cos'è questa storia?

MARCO TARADASH. Il caso Pinto è abbastanza clamoroso. Lei ha ricevuto queste informazioni da Capriati: crede ciecamente alla versione di Capriati e non pensa di esser stato messo in mezzo da Capriati?

SALVATORE ANNACONDIA. Se Tonino stava da solo quando mi ha raccontato questo, potrei dare un 50 per cento, ma conoscendolo e sapendo con chi stava parlando non lo faceva. Però quando ha parlato era presente pure Savino. PRESIDENTE. Erano in due.

MARCO TARADASH. Erano amici Capriati e Parisi?

SALVATORE ANNACONDIA. Più che amici, erano pure soci.

PRESIDENTE. Comunque, lei pensa che abbiano detto la verità. Questa è la sua opinione.

SALVATORE ANNACONDIA. Questo mi hanno detto.

PRESIDENTE. Per quanto riguarda le Cliniche riunite di Bari, può spiegare alla Commissione?

SALVATORE ANNACONDIA. Vi è un po' di segreto e comunque è stato pure pubblicato.

PRESIDENTE. E' quasi tutto pubblico.

SALVATORE ANNACONDIA. Ormai è di dominio pubblico. Per quanto riguarda le Cliniche riunite, dalle amicizie e dalle infiltrazioni di Savino sono a conoscenza dal 1989. Savino mi ha sempre detto "Salvatore, quando c'è qualche problema, se qualche amico viene ferito, e via dicendo, non c'è problema a farlo curare nelle Cliniche riunite e se c'è qualche latitante che ti è di peso lo posso fare assumere come inserviente e lo facciamo stare appoggiato nelle Cliniche". Savino aveva degli interessi pure, perché quando ha iniziato con le Cliniche ha iniziato la malavita.

PRESIDENTE. Cioè?

SALVATORE ANNACONDIA. Da prepotente all'inizio, poi pian piano in qualche modo ha interessi suoi nelle Cliniche. I fatti di Savino sono ormai per me risaputi, perché ha dei buoni agganci là dentro, ha investimenti suoi con il dottor Cavallari; ci sono persone loro agganciate là dentro, sia di Savino che di Tonino.

PRESIDENTE. Del Capriati?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Per quanto posso dire delle Cliniche riunite, non è questo collegamento, è l'altro.

PRESIDENTE. Qual è l'altro?

SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1991, signor presidente, conoscevo come intimo mio amico tale Valente Natale, Tonino Valente di Bisceglie e con lui abbiamo avuto a che fare nel commercio del pesce; poi ci distaccammo per dei disguidi, perché lui era un po' megalomane, e non ci siamo più visti per tanti anni. Nel 1989 mi proposero di fare una società con loro nel riciclaggio di camion sinistrati, incidentati, che mi pareva una bella cosa, ma non potevo tenere impegnati degli uomini per questi fatti, perché si potevano fare uno, due o tre camion alla settimana o in dieci giorni. "Va benissimo, fallo tu". "No, Salvatò, perché tu puoi ottenere meglio i camion rubati, che poi dopo li facciamo taroccare". Dice "Va bè, se ti serve qualcosa me lo dici, te lo faccio, però fai finta che ci sono di mezzo io ".

PRESIDENTE. Camion incidentati vuol dire camion rubati?

SALVATORE ANNACONDIA. I camion incidentati si compravano, poi si rubava un camion nuovo, si taroccava... PRESIDENTE. Cosa vuol dire "si taroccava"?

SALVATORE ANNACONDIA. Si falsificavano i numeri del telaio mettendo i numeri dell'altro telaio (ci sono gli stampini). Nel 1990 - sì alla fine del 1990 iniziò quest'altro tipo di discorso - iniziarono a parlarmi di un business che ormai stava diventando una cosa grossa, l'assalto ai TIR, e dato che Tonino ha l'autoparco dei camion, è un autotrasportatore, disse "Che ne pensi se facciamo una società?": eravamo io, lui, Demetrio Ferrante, proprietario del Magic Park e tale Michele Cassano di Milano, un procacciatore d'affari della Essefin di Milano. Ecco perché loro volevano la mia presenza, per ottenere la merce rubata, la merce sequestrata, perché là si facevano i sequestri di persona: si sequestrava l'autista e poi si rubava il camion. Altri affari che si potevano fare erano con autisti che lui conosceva, compiacenti: si pagava il 20 per cento della fattura, l'autista si faceva sequestrare e si portava il camion a destinazione. Mi dissi d'accordo e misi in questo business come mio uomo di fiducia, perché non mi fidavo troppo di loro due, perché sono due mafroni...

PRESIDENTE. Cioè due imbroglioni?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, due imbroglioni. Misi come mio uomo di fiducia tale Salvatore Liso, detto l'avvocato, e Michele di Chiano di supporto a Liso. Questo lavoro andava bene.

ALTERO MATTEOLI. La merce l'aveva da poco.

SALVATORE ANNACONDIA. Con Demetrio Ferrante, proprietario del Magic Park, si instaurò una grande stima nei miei confronti. Quando lui vedeva me, vedeva il Padreterno. OMISSIS

PRESIDENTE. Tra Cavallari, Parisi eccetera, questi rapporti ci sono stati?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, ci sono.

PRESIDENTE. E ci sono tuttora?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Gente della malavita viene assunta da queste cliniche?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, ma non è solo gente della malavita: là ci sono mille o duemila persone che lavorano o che non lavorano.

PRESIDENTE. Cioè, sono tenute così?

SALVATORE ANNACONDIA. Devono essere stipendiate ...

PRESIDENTE. Per essere stipendiate. E gli introiti da dove vengono se nessuno lavora?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, le Cliniche riunite sono le Cliniche riunite!

PRESIDENTE. Cioè, che vuol dire, per noi che non sappiamo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sono supportate dallo Stato, dalla regione.

PAOLO CABRAS. Hanno convenzioni con gli enti pubblici, con la regione...

SALVATORE ANNACONDIA. Hanno convenzioni per i ricoveri. Le Cliniche riunite non sono uno scherzo!

PRESIDENTE. Ho capito, è una grossa struttura.

SALVATORE ANNACONDIA. Non è una, sono più di una struttura. Vi lavorano oltre quattromila lavoratori.

PRESIDENTE. In un suo interrogatorio, lei ha riferito di un attentato commissionato ai danni del procuratore della Repubblica presso la pretura di Trani. Se ne ricorda? Può spiegare alla Commissione questo attentato? Chi lo commissionò? Come mai ...

SALVATORE ANNACONDIA. Non posso fare i nomi di chi l'ha commissionato, signor presidente.

PRESIDENTE. Ma può dire come è nata questa richiesta?

SALVATORE ANNACONDIA. La richiesta che è nata è che con queste persone ci vivevo. Si può dire che...

PRESIDENTE. Nel suo ristorante?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Poi?

SALVATORE ANNACONDIA. Fu decisa la morte del procuratore Rinella, perché Rinella arrivato a Trani stava creando troppi problemi, dei grossi problemi.

PRESIDENTE. Allora il dottor De Marinis era procuratore a Trani?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

PRESIDENTE. Era già a Bari.

SALVATORE ANNACONDIA. Già a Bari. C'era arrivato ... No! Stava ancora a Trani, perché De Marinis è andato via... sempre nel 1991 è andato via. Adesso non ricordo.

PRESIDENTE. Comunque lo vedremo.

SALVATORE ANNACONDIA. Quando è stata commissionata la morte di Rinella...

PRESIDENTE. Quindi queste persone vennero nel suo ristorante?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Perché le dissero che bisognava uccidere Rinella?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché con loro io avevo dei grossi affari.

PRESIDENTE. Lei con loro? S

ALVATORE ANNACONDIA. Con questi politici. Ci avevamo troppi business ...

PRESIDENTE. Erano dei politici locali o nazionali?

SALVATORE ANNACONDIA. Locali.

PRESIDENTE. Cosa le dissero questi?

SALVATORE ANNACONDIA. Iniziarono con dei tipi di ragionamenti: "Salvatore, ci devi aiutare... un giorno diventerai intoccabile... l'amicizia nostra con te non finisce mai". Ed io che mi scocciavo sentir parlare, dissi: "Stringi sto' limone, chiarisciti". Disse: "Salvatore, hai visto il procuratore Rinella che cosa sta facendo: blocco là, blocco là, blocco là; domani può capitare che di quello che dobbiamo fare, che ci abbiamo in atto, questo qua può mettere le mani pure dentro. Ci devi fare una cortesia. Queste sono poi sciocchezze che si nascondono, come si dice, Salvatore, pensa se hai un paio di persone che puoi mandare a fare un lavoro, gli diamo 200 milioni..." Giusto per far fare il lavoro. Ma io non è che dovevo far fare il lavoro per i 200 milioni!

PRESIDENTE. Perché era anche un suo interesse?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma, poco è il mio. Perché che cosa mi poteva dar fastidio Rinella a me? La pretura era.

PRESIDENTE. Lei era da Corte d'assise?

SALVATORE ANNACONDIA. Eh! Non è che lui poteva prendere un mio processo in mano. Poteva prendere qualche contravvenzione del ristorante, qualche ...

PRESIDENTE. ... stupidaggine. E quindi?

SALVATORE ANNACONDIA. Accettai il lavoro. Dissi a Regano, che era un mio uomo...

PRESIDENTE. Di fiducia?

SALVATORE ANNACONDIA. Molto di fiducia. Più che di fiducia era un mio autista. E poi era una persona che quando io gli dicevo "A", lui rispondeva "A". Era un ragazzo serio. Dissi a Nicola di farmi sapere tutti gli itinerari, tutti gli spostamenti che faceva Rinella. Dopo una settimana di controlli, Nicola giustamente disse: "Salvatore, quelli sono, non fa una virgola".

PRESIDENTE. Gli spostamenti sempre quelli?

SALVATORE ANNACONDIA. Disse: "Quelli sono".

PRESIDENTE. Scendeva dal treno, prendeva la Tipo, andava in ufficio...

SALVATORE ANNACONDIA. La Tipo l'aspettava in stazione. Lui veniva con il treno.

PRESIDENTE. Poi andava a piedi a casa a Bari, invece?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Andava via con il treno, poi scendeva e andava a piedi...

PRESIDENTE. A casa.

SALVATORE ANNACONDIA. Decidemmo di farlo alla stazione, quando usciva, ché c'era un ponticino che passava là sotto.

PRESIDENTE. A Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. A Bari, perché non lo potevano fare a Trani. Se lo facevano a Trani era un casino. Dato che Rinella già veniva da Bari...

PRESIDENTE. Allora?

SALVATORE ANNACONDIA. Decidiamo di farlo. Era di sabato, quando dissi "basta". Lo dovevamo fare il lunedì. La domenica, viene una persona di cui non posso fare il nome e mi dice che tale persona... Questo qua era un suo ragazzo, che lavorava. "Salvatore" disse "quei due chili di eroina, che Tizio non ti ha pagato, che ha detto che li ha buttati per via della perquisizione, sono tutte chiacchiere, non è vero niente". Io andai su tutte le furie. Sapevo che questo qua la mattina si alzava tardi, mezzogiorno, l'una, le due... Dissi: "Va bene il pomeriggio ce lo facciamo!" Per via di questo qua, che la domenica vado in bestia, non lo volli fare la sera della domenica perché lui la domenica usciva con la moglie e il figlio, e io... Si decise tutto il lunedì. Il pomeriggio, signor presidente, siamo in casa dove sta Mimmo Murianni, dove ho tutte le armi che possono servire...

PRESIDENTE. Per queste necessità.

SALVATORE ANNACONDIA. Veloce, veloce... in alcuni posti un po' di armi ce le avevamo sempre. Dopo mangiato, stiamo su casa in compagnia di Mimmo, che lo passiamo a salutare...

PRESIDENTE. Ma nel frattempo Rinella, non stava prendendo il treno per tornare...

SALVATORE ANNACONDIA. No, si era "sospeso" Rinella, tanto si poteva fare il giorno dopo. Non c'erano problemi. PRESIDENTE. No c'erano problemi.

SALVATORE ANNACONDIA. Rinella era un bersaglio...

PRESIDENTE. Facile, sì!

SALVATORE ANNACONDIA. Ma questo qua mi aveva mandato su tutte le furie.

PRESIDENTE. Il problema più urgente era far fuori questo qui che aveva fregato...

SALVATORE ANNACONDIA. Non è che era urgente, solo che si era comportato malissimo. Scendiamo giù. Cosimo Murianni rimane sopra nell'appartamento, che lui stesso non sa che dobbiamo andare a fare a questo qua. Ci facciamo un giro di due o tre isolati e lo rintracciamo alle spalle di casa mia. Questo qua in macchina. Allora gli dico di andare dietro, di mantenersi ad una distanza di trenta-quaranta metri, il tempo che si allontanava dalla zona di casa mia, che l'avremmo ammazzato sulla strada. Questo fa il giro della piazzetta, passa davanti al bar dove ce la facciamo noi e va dritto su Corso Vittorio Emanuele. Io avevo un'altra casa su Corso Vittorio Emanuele, dove c'era locato Murianni. Come arriviamo là vedo tutto questo "frangé" di carabinieri; quanti carabinieri! Oh, porca miseria! Sono andati su da Mimmo. Allora abbiamo lasciato questo qua, perché dovevamo vedere che cosa stava succedendo. Abbiamo mandato a imboscare le armi ed altre cose che avevamo là vicino, perché ormai si era capito che era Mimmo. Viene arrestato Cosimo Murianni, io vengo denunciato per favoreggiamento.

PRESIDENTE. Perché stava a casa sua? OMISSIS

PRESIDENTE. Come mai Rinella si è salvato anche dopo?

SALVATORE ANNACONDIA. Presidente, quando io uscii dal carcere, perché dopo una settimana mi andai a consegnare perché ebbi tutte le garanzie...

PRESIDENTE. Sempre da magistrati ebbe le garanzie?

SALVATORE ANNACONDIA. Da altre persone.

PRESIDENTE. Da altre persone. Magistrati di Trani o di Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Non le posso dire di dove sono.

PRESIDENTE. Di una di queste due città oppure di fuori? Per capire.

SALVATORE ANNACONDIA. Fuori.

PRESIDENTE. Di fuori di queste due città, ho capito. Ma tipo Roma o tipo là attorno?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, lo troverà poi nei verbali.

PRESIDENTE. No, ma non voglio sapere la città. Voglio sapere se si tratta di magistrati romani o di magistrati pugliesi.

SALVATORE ANNACONDIA. Romani.

PRESIDENTE. Romani, va bene.

SALVATORE ANNACONDIA. Quando sono uscito son dovuto partire... Me ne andai, partii per Zurigo e da Zurigo mi andai a rilassare una decina di giorni per vedere un po', perché avevano fatto un'intervista su Rai 3 il giovedì, avevano fatto non un'intervista ma uno speciale TG...

PRESIDENTE. Sulla Puglia?

SALVATORE ANNACONDIA. ... proprio dedicato alla Puglia e su di me.

PRESIDENTE. Ah, sì, sì, mi pare di averlo visto. Quindi decide...

SALVATORE ANNACONDIA. Di stare un pochettino, una decina di giorni fuori, anche perché l'avvocato mi aveva detto... PRESIDENTE. "Stai tranquillo!".

SALVATORE ANNACONDIA. No, di allontanarmi. Perché già prima, a Natale dell'anno prima, del 1990, c'era stato un altro episodio dove io fui avvisato che c'erano delle misure di prevenzione nei miei confronti e dovevo sparire. Ho verbalizzato tutto, comunque. Quando ritorno, ci incontriamo con queste persone ed io dissi loro che per il momento si sospendeva tutto per quanto riguardava l'esecuzione di Rinella. Perché, se facevo l'omicidio, mettevo la firma; e furono d'accordo con me a...

PRESIDENTE. Questa è la ragione, va bene. Per cortesia, può ora spiegare alla Commissione, che ha particolare interesse a questi problemi, i casi (i nomi poi li farà alla magistratura) di corruzione in carcere, in magistratura, forze di polizia e così via?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, mi ripeta la domanda.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione i casi di corruzione, che poi hanno agevolato lei o hanno agevolato altri, nella magistratura, nelle forze di polizia, nelle carceri? A noi non interessa, dicevo, sapere i nomi...

SALVATORE ANNACONDIA. Io posso fare i nomi di quelli che sono stati pubblicati.

PRESIDENTE. Ecco, bravo. Degli altri può anche non farli, purché ci spieghi bene quali sono i fatti, come si svolge il processo di corruzione, attraverso quali procedure, chi interviene, che cosa si dà in cambio. C'è una questione che riguarda una sua casa, per esempio...

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, iniziamo a parlare di quella là. Nel 1992 ero nel carcere di Foggia e mi viene a trovare il mio avvocato, al quale si era rivolto un altro avvocato di Trani, e mi disse che c'era un magistrato che era interessato a questa palazzina nel centro storico di Trani, sul porto, che siamo in centro, siamo. Mi disse che era un presidente civile ma molto influente. Io dissi all'avvocato che non c'era problema.

PRESIDENTE. Ma era uno di Trani o di Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Quale?

PRESIDENTE. Questo magistrato qui.

SALVATORE ANNACONDIA. Di Bari, però abitava a Trani.

PRESIDENTE. Ah, abitava a Trani. Gli piaceva questa sua casa?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. E com'era, una casa distrutta, diroccata, questa?

SALVATORE ANNACONDIA. No, era da restaurare: borgo antico, centro storico. Allora, due piani erano i miei e un altro piano bisognava rifare il catasto perché c'erano le successioni...

PRESIDENTE. Eredi, successioni.

SALVATORE ANNACONDIA. Però due erano i miei, ce l'aveva intestati mio fratello come...

PRESIDENTE. Sì, prestanome.

SALVATORE ANNACONDIA. Dissi all'avvocato che non c'erano problemi, poteva dire al magistrato che ero ben disposto a darlo. "Salvatò, lui vuol sapere..."

PRESIDENTE. Il prezzo.

SALVATORE ANNACONDIA. Dissi: "Non ti preoccupare, digli che a Salvatore non interessa proprio quella casa".

PRESIDENTE. Faceva un regalo, insomma?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. S'incontrò il mio avvocato con il suo avvocato e con il magistrato e gli disse: "Guardate che Salvatore è disponibile a dare la casa, però non vuole soldi, perché non gli interessa. Sai, una mano lava l'altra". Il magistrato manda l'imbasciata di nuovo che si può fare, però qualcosa devono mettere dal notaio, perché non è che si può fare... Dissi: "Vabbè, fai come vuoi". Io parlai con mio fratello Franco e gli dissi di andare dal notaio insieme all'avvocato Pontrelli e di fare il cambiamento di proprietà, il rogito. Gli vendetti la casa; misero un milione, il notaio già aveva un assegno firmato in bianco, lo firmò, mi fece un milione ed io glielo feci girare di nuovo a mio fratello e gliel'ho consegnato all'avvocato Pontrelli da riconsegnarlo al magistrato, il milione. Dopo questo fatto, dopo una settimana, dieci giorni, non ricordo, mi mandò a dire: "Digli a Salvatore di non preoccuparsi che ricambio il favore che lui mi ha fatto, come arriva il processo su a Bari lo sistemo, al processo in appello".

PRESIDENTE. E fu sistemato il processo?

SALVATORE ANNACONDIA. Poi ho scelto la collaborazione, presidente.

PRESIDENTE. Ho capito, ha perso un'occasione, insomma?

SALVATORE ANNACONDIA. No, ma io dovevo uscire...

PRESIDENTE. Doveva comunque uscire?

SALVATORE ANNACONDIA. Io a ottobre del 1992 ero fuori. Proprio ho voluto cancellare tutto il mio passato, perché pure che stavo fuori, signor presidente, stavo latitante.

PRESIDENTE. Certo, non c'è dubbio. Mi spieghi; questo è un caso, altri casi?

SALVATORE ANNACONDIA. Le posso, di quello che è stato già pubblicato...

PRESIDENTE. Se ce ne sono, naturalmente.

SALVATORE ANNACONDIA. OMISSIS il processo sulla strage Bacardi. Allora mi trovavo a Foggia; con i foggiani ormai ero il loro papà; non facevano niente se non me lo dicevano. Nel corso del processo che stavano facendo si pensava che sarebbero uscite assolte almeno 2-3 persone. Fanno il processo perché loro erano contenti del presidente di Taranto, che stava facendo realmente il processo; stava interrogando tutti i testimoni, stava facendo il processo realmente e dato che in tutte queste indagini sia Rocco Moretti che Nicola Delli Muti non c'entravano niente... Signor presidente, io non posso dire che Nicola Delli Muti oMoretti hanno partecipato o sono stati mandati, non lo posso dire; posso solo dire a questa Commissione, ed io non difendo mai nessuno, signor presidente, dico le cose che so, quello che ho vissuto, quello che ho fatto, che Giosuè Rizzi è innocente come l'acqua in quel processo, solo che lui dovette dare degli alibi, si dovette creare apposta degli alibi che non gli servivano e si è trovato che questi alibi erano controproducenti. Fatto sta, torniamo ai discorsi: si fa il processo, prendono sette ergastoli.

PRESIDENTE. Per il Bacardi?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Uno di loro, il contabile del gruppo, Tonino Bernardo, già nei giorni precedenti, tramite Franco Spiritoso, altro componente del gruppo, parla con delle persone di Bari che io sapevo: erano i Fornelli di Bari, che erano collegati a Rizzi. Parlano con questi che hanno dell'amicizia con questi Fornelli e questi Fornelli si impegnano a sistemare il processo, se va male. Il processo andò male, come Tonino Bernardo già...

PRESIDENTE. Aveva saputo?

SALVATORE ANNACONDIA. ...aveva preveduto. Dopo alcuni giorni, due o tre giorni dal processo, Tonino Bernardo parla. Dice: "Vedi che stanno queste situazioni, così e così, che io c'ho queste persone che possono sistemare il processo in appello". Dato che Giosuè Rizzi stava alla seconda sezione... Stavano nella seconda sezione Giosuè Rizzi, Marino Ciccone e Francesco Favia, il carabiniere; alla terza sezione stava Cipullo; alla quarta sezione stavano Moretti e Delli Muti soltanto. Antonio Bernardo dice che queste persone possono sistemare il processo: non più di tre persone.

PRESIDENTE. E quindi uno si deve sacrificare?

SALVATORE ANNACONDIA. Si dovevano sacrificare altre persone. Si dovevano sacrificare Favia, Monteseno, Ciccone. Fatto sta che tutto il programma che c'era... Giosuè Rizzi dice: "A me non interessa, fate come volete, basta che chiarite la situazione, perché io già ce l'ho da quattro anni questo ergastolo". Gli promettono che sarà fatto. Il fatto era che questi qua avevano parlato ed avevano la garanzia del dottor Simonetti che per 150 milioni sistemava il processo d'appello, però gli arrivò l'imbasciata che durante il processo d'appello, o prima che parlava il procuratore o dopo che parlava il procuratore, Matteo Monteseno doveva uscire dalla gabbia e doveva chiedere al presidente di poter parlare. Una volta arrivato davanti al presidente doveva dire: "Signor presidente, la strage giù al Bacardi l'abbiamo fatta io, Favia, Ciccone, con queste modalità, con queste armi"; l'arma in dotazione al Favia, che era stata cambiata la canna, ad un'altra pistola di un altro carabiniere. Dovevano descrivere tutte le modalità dell'azione che avevano fatto, come erano allocati i salottini, come stavano le persone, cosa stavano bevendo, tutto; e dovevano scagionare Giosuè, Nicola Delli Muti e Moretti Rocco. Il Cipullo, era un drogato, gli mandavano eroina tutti i giorni per tenerlo calmo. Il Cipullo era collegato, non era collegato, era implicato, non era implicato, qualche cosa sapeva della strage; lo mantenevano calmo e gli mandavano sempre eroina.

PRESIDENTE. In quale carcere avveniva questo?

SALVATORE ANNACONDIA. A Foggia. Cipullo era alla quarta sezione. In questi giorni stiamo parlando, stiamo alla quarta sezione, a fianco a noi è la seconda sezione. Nella seconda sezione ci sono Favia, Ciccone Marino e Giosuè Rizzi e parliamo delle cose, sempre di come dovevano sistemare il processo, di come doveva andare, bisognava ricordarlo sempre. Io un giorno mi reco a Bari, alle misure di prevenzione; o fu alle misure di prevenzione che andai o quando mi trasferirono... no, fu alle misure di prevenzione, perché quando andai al policlinico era gennaio del 1991. Alle misure di prevenzione vado a fare un processo e facciamo il viaggio io e Francesco Favia, il carabiniere, che era stato condannato all'ergastolo. Lui fu trasferito al carcere di Trani, io andai a Bari, però lasciammo a Trani lui e nel furgone ho avuto l'ultimo colloquio con Favia e gli dissi: "Fra', mi raccomando al processo". "Salvatore non ti preoccupare". "Mi raccomando, sai cosa devi fare". "Stai tranquillo, so cosa debbo fare". Signor presidente, i soldi sono stati versati, sono a piena conoscenza. Quando queste persone mi domandarono se erano affidabili questi Fornelli, gli detti l'OK, perché sapevo dell'amicizia che aveva lui proprio, questi Fornelli qua, quando erano alla procura di Bari, il tribunale di Bari, la corte d'assise di Bari... ci avevano forti infiltrazioni loro, intimi amici di Rizzi Michele...

PRESIDENTE. Gli uffici nei quali c'era maggiore infiltrazione erano la procura e poi? Anche il tribunale?

SALVATORE ANNACONDIA. Il tribunale... più che altro la corte d'appello.

PRESIDENTE. La corte d'appello più che il tribunale. La procura invece? La procura di primo grado, non la procura generale?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma, in procura... serviva e non serviva. Qualche appoggio qualcuno ce l'aveva.

PRESIDENTE. Comunque era la corte d'appello.

SALVATORE ANNACONDIA. Là era da tenere sempre a bada.

PRESIDENTE. Cosa vuol dire "da tenere sempre a bada"?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché tutti i paesi dipendevano dalla corte d'appello di Bari: Foggia...

PRESIDENTE. Ho capito; e quindi lì voi eravate riusciti ad avere, come dire, dei momenti di corruzione, delle persone corrotte che vi aiutavano?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, io non avevo processi all'epoca; se avevo i processi, li sistemavo; avevo la possibilità di sistemarli.

PRESIDENTE. Altri li hanno sistemati?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Alla corte d'appello di Bari.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Andiamo avanti.

SALVATORE ANNACONDIA. Che poi al processo, signor presidente, Monteseno non è stato fatto parlare... queste sono cose su cui non spettano a me i giudizi. Lui prese 150 milioni.

PRESIDENTE. Lui chi?

SALVATORE ANNACONDIA. Simonetti.

PRESIDENTE. Chi glieli portò?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma, glieli mandò tramite Franco Spiritoso a questi Fornelli, Matteo e il fratello.

PRESIDENTE. E questi li dettero a lui?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. A casa o in ufficio, dove?

SALVATORE ANNACONDIA. Non lo so. Eravamo in carcere, quando si è parlato, a colloquio, di sistemare con... perché Spiritoso era diventato il cassiere...

PRESIDENTE. Poi com'è finito il processo?

SALVATORE ANNACONDIA. Il processo è finito con l'assoluzione di Rocco Moretti, l'assoluzione di Nicolino Delli Muti e...

PRESIDENTE. Il terzo?

SALVATORE ANNACONDIA. ...Cipullo.

PRESIDENTE. Il carabiniere che fece, dichiarò?

SALVATORE ANNACONDIA. Il carabiniere... Non dichiararono perché la mia collaborazione era ormai di dominio pubblico. Il processo si è svolto il mese scorso.

PRESIDENTE. Certo. Lei, in un interrogatorio ha dichiarato che le venne proposto di entrare nella massoneria, in una loggia del nord.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare questo fatto: perché le dissero di aderire, che benefici avrebbe avuto e per quali motivi in una loggia del nord e non in una di Trani, di Foggia o di Bari?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, le dispiace se non parliamo di questo fatto?

PRESIDENTE. Come vuole, comunque il verbale è depositato.

SALVATORE ANNACONDIA. Sono depositati, ma non sono stati eseguiti questi verbali, signor presidente.

PRESIDENTE. Essendo accusato di reati lei può anche non rispondere; volevo dire che sono stati depositati, per cui sono conosciuti, non solo da noi, ma anche fuori.

ALTERO MATTEOLI. Conferma quello che ha dichiarato lì?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Quindi fu una loggia massonica: le fu fatto questo invito?

SALVATORE ANNACONDIA. Fui invitato, ma a causa di alcuni problemi non c'è stato mai il tempo, perché questo succedeva nel 1991.

PRESIDENTE. A noi non serve il nome della persona; a noi non interessano i nomi delle persone, interessano ai giudici. Lei fu invitato ad entrare in una loggia massonica: in quale città?

SALVATORE ANNACONDIA. A Verona.

PRESIDENTE. Perché proprio Verona?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché quella persona faceva parte di quella loggia massonica. 

PRESIDENTE. Quali erano i motivi per i quali le sarebbe convenuto entrare?

SALVATORE ANNACONDIA. Di questa persona posso parlare perché non è italiana, è libanese.

PRESIDENTE. Sì, ne ha già parlato. Ma perché le sarebbe convenuto entrare?

SALVATORE ANNACONDIA. Non è che capissi molto di massoneria: mi fu detto che vi erano ottime prospettive facendo parte di questa massoneria...

PRESIDENTE. Che tipo di prospettive?

SALVATORE ANNACONDIA. Che non vi erano problemi a livello sia di processi che di commercio, di tutto.

PRESIDENTE. Quindi avrebbe avuto agevolazioni in tutti i modi, sia nel commercio sia nei processi. Perché gli disse di no?

SALVATORE ANNACONDIA. Non dissi di no. Signor presidente, siamo a due-tre mesi prima del mio arresto.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Ci sono state di mezzo le ferie di agosto; sono stato arrestato ad ottobre, ma dal 16 agosto ebbi una grossa perdita a causa dell'omicidio di Michele Di Chiano. Edopo Di Chiano morirono quattro persone, una dietro l'altra. Abbiamo avuto dei momenti...

PRESIDENTE. Erano suoi uomini questi?

SALVATORE ANNACONDIA. Quegli altri no. Di Chiano era un mio uomo.

PRESIDENTE. Perché fu ucciso?

SALVATORE ANNACONDIA. Fu ammazzato per delle tragedie; le mise un'altra persona mia, però lavorava per conto suo perché era un mio grande compare, una persona che io per lui...

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Mise delle tragedie sul conto di Di Chiano per un tentato omicidio che avevano fatto insieme.

PRESIDENTE. Lo addebitò all'altro?

SALVATORE ANNACONDIA. Però era per conto suo questo omicidio; poi la vittima non morì ma fu sparata in testa e perse la vista da un occhio.

PRESIDENTE. Che vuol dire tragedia, diffamazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Diffamazione, perché poi, quando andarono i responsabili di questa persona a parlare con lui, Nicola disse "E' stato Michele". "Ma come Michele, Michele sta con Salvatore, è una persona di Salvatore, come mai Michele?". "No, vai tranquillo, Salvatore l'ha cacciato un paio di mesi fa e non lo cura più. Non andare da Salvatore perché te lo dico io. Vai tranquillo". Questi ammazzarono Michele Di Chiano, poi mi accorsi subito della pista: acchiappai queste persone e queste rimasero sbalordite quando seppero che non era vero; andarono rei confessi vicino a me e dissero "Salvatore, siamo stati noi, però i fatti stanno così e così". Corda morì il 20 agosto, però guarda il gioco che stavano facendo sia Corda che la moglie... Il 19 agosto la moglie di Corda andò, viene a casa e dice "Salvatore, sotto casa nostra... stiamoci attenti...". "Rispetto a che dobbiamo stare attenti?". " Perché ieri sera quattro persone stavano dando la caccia a Nicola, stavano a bordo di una Regata targata Foggia; erano Tizio, Caio e Sempronio; qui bisogna ammazzarli, perché Nicola pensa che vogliono ammazzare pure lui e di conseguenza pure a te". Stava cercando di...

PRESIDENTE. Di orientare?

SALVATORE ANNACONDIA. No, di mettermi subito sulle piste di queste persone per quanto riguardava l'omicidio. "Chi mi dice, Salvatore, che non sono stati proprio loro ad ammazzare Michele?". Così succedeva che noi ammazzavamo subito quelle persone e si eliminavano le tracce dello sgarbo fatto da lui nei confronti di Di Chiano. Dissi "Va  bene, non ti preoccupare che ora sistemiamo subito", ma il giorno dopo morì il marito.

PRESIDENTE. Ho capito. Che rapporto c'è fra questo e la massoneria?

SALVATORE ANNACONDIA. Queste cose accaddero proprio in quel periodo di tempo.

PRESIDENTE. Ho capito. I fratelli Modeo hanno raccolto anche loro voti a Taranto per qualcuno?

SALVATORE ANNACONDIA. No, i voti, per quello che ne so io, sono stati raccolti non da loro ma da Marino Pulito, che poi aveva nel gruppo un grosso referente. Questo si chiama...

PRESIDENTE. Per quali partiti politici o candidati ha raccolto voti? O non c'era problema, chiunque venisse andava bene? SALVATORE ANNACONDIA. Non c'erano... Pochi.

PRESIDENTE. Pochi partiti o pochi candidati?

SALVATORE ANNACONDIA. Pochi partiti.

PRESIDENTE. Quali partiti erano, se vuol dirlo?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, se dico il nome del partito è meglio che io faccio i nomi.

PRESIDENTE. Ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Già abbiamo fatto abbastanza cenno aquesto. Hanno capito.

PRESIDENTE. Preferisce non fare né una cosa né l'altra?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Ritiene che possano esservi manovre per toglierle credibilità?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Perché?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, lei mi ha fatto una domanda, ma le valutazioni non spettano a me, spettano ai magistrati che mi stanno ascoltando, con i quali sto verbalizzando, e spettano pure alla Commissione; sono attendibile in tutte le regioni in cui sto verbalizzando, ma non sono attendibile a Bari.

PRESIDENTE. Ho capito. Mi pare che lei stia lavorando molto con il dottor Spataro a Milano, vero?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Che problemi ha avuto dopo la collaborazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente non ho problemi, voglio solo l'interlocutore, il magistrato e basta. Problemi non ne ho, perché non ho né simpatie né antipatie. Per me uno vale l'altro.

PRESIDENTE. Come sta suo figlio adesso?

SALVATORE ANNACONDIA. Sta bene.

PRESIDENTE. Le domande concordate sono terminate. Prima di dare la parola ai colleghi che intendono chiederle ulteriori chiarimenti, sospendiamo brevemente la seduta. La seduta, sospesa alle 15,50, è ripresa alle 16,10. PRESIDENTE. Passiamo dunque alle domande dei commissari.

ANTONIO BARGONE. Per alcuni episodi che riguardano i rapporti con gli esponenti politici, cioè quelli per lo scambio di voti e quelli, per esempio, per gli appalti di pulizia nel comune di Trani, nonché per quelli relativi alla vicenda Capriati - diciamo a quell'investimento -, lei ha detto che ci sono dichiarazioni verbalizzate, cioè che non fa i nomi perché ci sono dichiarazioni verbalizzate. Può dirci a chi e quando?

SALVATORE ANNACONDIA. Ho verbalizzato al dottor Mandoi e al dottor Maritati.

ANTONIO BARGONE. E quando?

SALVATORE ANNACONDIA. Sto collaborando per questi fatti da gennaio, quindi possono risalire a febbraio. Comunque, l'ultimo verbale in cui si parla di politica risale a dieci, quindici giorni fa... ad un sostituto procuratore presso il tribunale di Trani.

PRESIDENTE. Sono molti o pochi gli uomini politici agevolati?

SALVATORE ANNACONDIA. Abbastanza.

PRESIDENTE. Sono di più partiti o di un solo partito? Uno, due o tre?

SALVATORE ANNACONDIA. Di due partiti.

ANTONIO BARGONE. Nei verbali ho letto che lei ha parlato di una cena fatta nei primi del 1991 nel suo ristorante. Ci può dire chi vi ha partecipato?

SALVATORE ANNACONDIA. A me non mi va di dire... Però è coperto da segreto ... Sono stati fatti adesso altri verbali perché si stanno svolgendo indagini serrate per quanto riguarda questi politici ...

ANTONIO BARGONE. Ma hanno partecipato solo politici o altri?

SALVATORE ANNACONDIA. Politici, qualche imprenditore ... Ma di queste cene se ne facevano spesso e volentieri nel mio ristorante.

ANTONIO BARGONE. Spesso e volentieri?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ANTONIO BARGONE. Sempre con politici e imprenditori?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ANTONIO BARGONE. Anche con altri, con professionisti?

SALVATORE ANNACONDIA. Tutta la crema che esisteva navigava nel mio ristorante.

ANTONIO BARGONE. Ma la crema di Bari, di Trani o di ...

SALVATORE ANNACONDIA. Di Bari, di Trani, di Foggia ...

ANTONIO BARGONE. Anche di Foggia?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ANTONIO BARGONE. Che lei sappia, oltre lei ci sono altri affiliati a Cosa nostra della criminalità pugliese?

SALVATORE ANNACONDIA. Che vivono al nord, sì.

ANTONIO BARGONE. Pugliesi?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ANTONIO BARGONE. Sa chi sono?

SALVATORE ANNACONDIA. C'è Nunzio Scarabaggio; c'è Donato (adesso mi sfugge il cognome), ma si tratta di un tarantino emigrato da tanti anni a Milano. Posso dire che è un figlioccio proprio di Leoluca Bagarella.

ANTONIO BARGONE. E D'Onofrio, Peppino "bicicletta"?

SALVATORE ANNACONDIA. Peppino "bicicletta" è stato per molti anni il referente per il contrabbando delle sigarette. Lo è stato fino al 1991, perché nel 1992 gli spararono. Peppino "bicicletta" ha perso un po' di potere perché la Sacra Corona nel 1991 iniziò a dettare leggi per quanto riguardava il controllo di tutte le sigarette nel brindisino. In tutta la zona di Brindisi ci fu una grossa guerra, perché a Brindisi si vive sulle sigarette. Ma tutta la criminalità di Brindisi che vive sulle sigarette aveva grossi rapporti con i campani, con i napoletani, i quali a questi contrabbandieri li rifornivano sia di motoscafi, sia di sigarette. I brindisini pagavano il noleggio del motoscafo, cioè ogni cassa di sigarette trentamila lire... ANTONIO BARGONE. E D'Onofrio che ruolo ha avuto, che ruolo ha?

SALVATORE ANNACONDIA. D'Onofrio aveva un ruolo di... grande responsabile di Pietro Vernengo, suo figlioccio... poi la famiglia di Tinniriello...

ANTONIO BARGONE. Ma fa anche traffico di stupefacenti?

SALVATORE ANNACONDIA. Sigarette.

ANTONIO BARGONE. Stupefacenti no?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

ANTONIO BARGONE. A proposito della rotta della droga e anche per quanto riguarda il traffico delle armi, come è utilizzata la costa pugliese? Per esempio, che ruolo ha il porto di Brindisi?

SALVATORE ANNACONDIA. Il porto di Brindisi è la zona più vicina all'Albania. Le navi che portano armi in Italia parliamo di navi - vengono tutte dal Medio Oriente, specialmente da Beirut, dalla Siria... Queste navi in transito che attraversano l'Adriatico... fermarsi in acque albanesi o italiane, vicino Brindisi... è più facile scaricarle là. Ma un grosso traffico di armi a Brindisi non è che c'è. C'è stato negli ultimi tempi, fino al 1992, per quanto mi risulta. Parlo sempre della mia vita fuori da questo ambiente in cui mi trovo adesso, parlo fino al dicembre del 1992.

ANTONIO BARGONE. Lei sa di un rapporto anche con la camorra per il traffico di armi?

SALVATORE ANNACONDIA. Sono a conoscenza di parecchie cose, però sono coperte...

ANTONIO BARGONE. Anche questo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ANTONIO BARGONE. Per quanto riguarda i referenti in Cassazione, ci può dire se ci sono, se li ha già detti ai magistrati? SALVATORE ANNACONDIA. Ho già parlato ma non posso parlare adesso.

ANTONIO BARGONE. Quindi, lei ha già riferito al magistrato.

SALVATORE ANNACONDIA. Non parlo di referenti ma di persone.

PRESIDENTE. Di quale sezione penale...

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, può leggerle sui verbali che ho già fatto.

PRESIDENTE. Mi scusi, risponda a quello che vuole ma sono molte le sezioni penali e molti magistrati appartengono a ciascuna sezione (sono una ventina per ciascuna). Quindi, voglio dire...

SALVATORE ANNACONDIA. Due sezioni. Non posso dire il nome...

PRESIDENTE. Quindi, magistrati di due sezioni diverse.

ANTONIO BARGONE. Lei sa di rapporti tra Giancarlo Cito e i Modeo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ANTONIO BARGONE. Che tipo di rapporti ci sono?

SALVATORE ANNACONDIA. Questo l'ho già verbalizzato e ormai è di dominio pubblico. In campagna elettorale, nel 1989, mi trovavo a Montescaglioso e Giancarlo Cito venne in questo paese in compagnia di un'altra persona. Riccardo me lo voleva presentare da molto tempo, perché parlava sempre di me nei suoi confronti. Me lo presentò come suo compare. Quando si presenta una persona come compare, nel nostro ambiente significa una persona "innalzata", battezzata. Si può anche chiamare compare per stima, però non si presenta una persona come compare.

ANTONIO BARGONE. Quindi lei ritiene che fosse organico all'organizzazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Nelle elezioni che ci furono, Giancarlo Cito ebbe dei grossi attacchi da parte dell'altro gruppo contro Riccardo Modeo...

ANTONIO BARGONE. De Vitis?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. ...che questi qua andavano pure scrivendo sui muri contro Giancarlo Cito, che fa parte del gruppo Modeo. Giancarlo Cito lasciò 100 milioni e disse a Riccardo: "Poi glieli do a Mimmo Di Pinto" ...I 100 milioni per quanto riguardava la campagna elettorale a Taranto, per quanto riguardava lui.

ANTONIO BARGONE. Quindi ci sono stati finanziamenti da parte dell'organizzazione nei confronti di Cito. Anche per quanto riguarda la sua emittente televisiva?

SALVATORE ANNACONDIA. Mi può ripetere perché non ho sentito bene.

ANTONIO BARGONE. Lei dice che sono state versate delle somme a Cito per la sua campagna elettorale...

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ANTONIO BARGONE. Sono state versate delle somme anche per rafforzare la sua emittente televisiva? SALVATORE ANNACONDIA. No.

ANTONIO BARGONE. Dei Modeo?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

ANTONIO BARGONE. Che le risulti no?

SALVATORE ANNACONDIA. I Modeo prendevano, non davano!

ANTONIO BARGONE. Un'ultima domanda. Lei ha parlato di rapporti, di infiltrazioni della camorra nel foggiano soprattutto per quanto riguarda investimenti, cioè utilizzazione di capitali. Sa se questo tipo di rapporto faceva capo soprattutto a Casillo?

SALVATORE ANNACONDIA. Non posso rispondere, signore. E' già verbalizzato, comunque.

FRANCESCO CAFARELLI. Vorrei ritornare un attimo sulla strage Bacardi, che lei conosce bene, non fosse altro perché aveva degli uomini: tranne Giosuè Rizzi, tutti gli altri del clan le appartenevano come associazioni. Ha parlato di aggiustamento di processo, però ha parlato anche di un altro aspetto; cioè ha detto che nel caso in cui si fossero attenuti ai fatti e agli accordi, a parte Monteseno che doveva mettere in scena, durante il processo, la farsa, quelli che restavano in carcere avrebbero comunque dovuto avere degli aiuti dall'esterno...

SALVATORE ANNACONDIA. Gli sarebbero stati tolto l'ergastolo e sarebbero stati mantenuti nel carcere... sia fuori che dentro.

FRANCESCO CAFARELLI. Cioè lei parla delle famiglie?

SALVATORE ANNACONDIA. Famiglie e loro.

FRANCESCO CAFARELLI. E da chi sarebbero stati aiutati economicamente?

SALVATORE ANNACONDIA. Dal gruppo Moretti, da Moretti. Per omicidio bastava fare una decina di anni di carcere che poi si potevano ottenere la semilibertà, licenze, permessi premio.

FRANCESCO CAFARELLI. Forse non sono stato chiaro nel fare la domanda. Le famiglie di questi che restavano in carcere da chi sarebbero state mantenute?

SALVATORE ANNACONDIA. Gliel'ho detto!

FRANCESCO CAFARELLI. Da Moretti che era in carcere?

SALVATORE ANNACONDIA. Dal gruppo Moretti. Moretti non era soltanto lui, aveva pure le persone sia dentro che fuori. FRANCESCO CAFARELLI. Ci sa dire qualcosa in più sulle estorsioni a Foggia? L'ultimo fatto eclatante è quello dell'omicidio Panunzio.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

FRANCESCO CAFARELLI. Ci sa dire qualcosa in più?

SALVATORE ANNACONDIA. Io ho già verbalizzato, non posso fare nomi, perché si rovinerebbero le indagini. Poi non lo so...

FRANCESCO CAFARELLI. Passiamo ad altra zona, a quella di Trani. Lei ha parlato di rapporti tra malavita organizzata, lei e alcuni magistrati; ha parlato anche di rapporti tra voi e alcuni imprenditori, rapporti attraverso i quali reinvestivate il denaro sporco.

SALVATORE ANNACONDIA. Questo è stato un piano già tutto preparato, ed era già pronto. E' successo il mio arresto...

FRANCESCO CAFARELLI. Questo per quanto riguardava l'operazione riciclaggio. Io sto parlando di imprese, che già operano da anni a Trani, ovviamente a livello nazionale. Lei ha fatto anche un nome che non ripeto perché è coperto da segreto. Oltre quel nome, oltre quell'imprenditore, ci sono altri imprenditori nel settore dei lavori pubblici che hanno riciclato denaro o che si sono serviti comunque della vostra organizzazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Che hanno riciclato denaro, no. Che hanno preso soldi in usura, sì.

FRANCESCO CAFARELLI. Ci può fare qualche nome?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

PRESIDENTE. Come vittime dell'usura o come...

SALVATORE ANNACONDIA. No.

FRANCESCO CAFARELLI. Utilizzavano i soldi dell'usura?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Chiedevo, come vittime dell'usura oppure come partecipanti all'usura?

SALVATORE ANNACONDIA. No, come vittima dell'usura.

FRANCESCO CAFARELLI. Un altro collaboratore di giustizia che abbiamo sentito ultimamente, Galasso, ci ha parlato di una presenza consistente della camorra in Puglia e ha parlato anche della presenza a Foggia - le parlo di Foggia perché è una zona che conosco - di "intoccabili", facendo nomi e cognomi, perché associati ad Alfieri. Le risulta che nel foggiano esista una famiglia di grossi imprenditori associati ad Alfieri, che non andavano comunque toccati?

SALVATORE ANNACONDIA. Mi risulta che l'intoccabile c'è. C'è! Io non posso fare i nomi.

FRANCESCO CAFARELLI. Va bene, quello che ha detto poc'anzi ci è sufficiente. Non è questo il problema. Questo intoccabile...

PRESIDENTE. E' un politico o un imprenditore?

FRANCESCO CAFARELLI. E' un imprenditore. La Commissione è già a conoscenza del cognome, quindi potremmo anche farlo, ma proprio per il rispetto al lavoro e alla segretezza...

SALVATORE ANNACONDIA. Per rispetto ai magistrati che mi hanno interrogato.

PRESIDENTE. Scusi, cosa vuol dire essere intoccabile a Foggia?

SALVATORE ANNACONDIA. Essere intoccabili, signor presidente, significa decidere la vita e la morte delle persone.

PRESIDENTE. E questa persona decide la vita e la morte delle persone?

SALVATORE ANNACONDIA. Se vuole sì.

FRANCESCO CAFARELLI. E' un politico?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

PRESIDENTE. L'ha appena detto.

SALVATORE ANNACONDIA. L'abbiamo detto prima.

FRANCESCO CAFARELLI. E' un imprenditore.

MASSIMO BRUTTI. E' intoccabile dalla criminalità e dalle istituzioni?

SALVATORE ANNACONDIA. Dalle istituzioni e dalla criminalità.

FRANCESCO CAFARELLI. Sempre il collaboratore di giustizia Galasso parlava di rapporti tra questi e i magistrati, perché il loro ruolo...

SALVATORE ANNACONDIA. Sui magistrati di Foggia quel poco che sapevo l'ho detto, per sentito dire.

FRANCESCO CAFARELLI. Nel carcere di Foggia - sempre per sentito dire - i detenuti avevano il numero di telefono di un noto magistrato. Credo che sia a sua conoscenza, ne vuole fare il nome?

SALVATORE ANNACONDIA. Non sono a conoscenza di questo. Che ci avevano... tramite gli avvocati, sì.

FRANCESCO CAFARELLI. Per quanto riguarda la corruzione nel carcere di Foggia, della quale lei ha parlato, da quello che ricordo, essa è secondaria soltanto a quella di Bari.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

FRANCESCO CAFARELLI. Questa corruzione era determinata all'interno del carcere oppure era gestita dall'esterno? Mi spiego meglio...

SALVATORE ANNACONDIA. No, non è gestita. Questa corruzione non è gestita da nessuno. Il detenuto che ha le possibilità, ottiene quello che vuole attraverso le guardie. E' successo, nel carcere di Foggia, - ritornando a quei discorsi sul carcere di Foggia - che queste guardie che facevano questi movimenti... A fine mese erano milioni! Qualcuno che aveva da farsi la carcerazione, non poteva pretendere di ottenere sempre queste cose qua. Allora si pensò... Io dissi di sì, ma non mi interessava perché avevo la guardia che avevo stipendiato, non avevo problemi. Poi, altre guardie che mi facevano qualche favore, pure ce le avevo.

PRESIDENTE. Quanto dava a questa guardia, che stipendiava?

SALVATORE ANNACONDIA. Intorno ai due milioni, due milioni e mezzo, tre milioni. Poi andava al mio ristorante tutte le volte che voleva, lui e la sua amante. Qualche altro regalo glielo facevo...

PRESIDENTE. Ma quella somma è al mese?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì. Gli serviva un videoregistratore, non avevo problemi; gli serviva un televisore, non avevo problemi. Mi vide con un orologio che mi avevano regalato per Colombo '92, la festa dei 500 anni di Cristoforo Colombo, un bell'orologio, tutto bleu, con il quadrante in oro... Colombo '92! Una bella patacca! Chiamiamola così, grossa. Mi disse: "Salvatore, mi piace..." Io non è che mi facevo ripetere due volte le cose: glielo regalai. Poi altre guardie... Con questa guardia c'era un rapporto diverso, perché era una guardia votata per me; lui moriva per me.

PRESIDENTE. Più che votata, comprata, direi!

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, però, poi c'è l'altro senso che è... votata. E' votato!

PRESIDENTE. Sì, ho capito.

SALVATORE ANNACONDIA. Le altre guardie le trattavo per quello che erano; mi facevano il piacere, le compensavo e basta. Ma con lui c'era un altro rapporto.

FRANCESCO CAFARELLI. Per quanto riguarda la gestione degli appalti - altro argomento che lei ha toccato e risulta nei verbali - come avveniva tele gestione? Cioè, questi avevano rapporti solo con magistrati o con politici?

SALVATORE ANNACONDIA. Il rapporto degli appalti in un certo senso è tutto manovrato. Si fanno le gare di appalto e già si sa la cifra che si mette.

FRANCESCO CAFARELLI. Chiedo scusa, ma c'erano solo coperture politiche o anche di altro tipo istituzionale?

SALVATORE ANNACONDIA. Coperture politiche.

FRANCESCO CAFARELLI. E basta?

SALVATORE ANNACONDIA. Quando interessa all'amico del magistrato, poi interviene il magistrato.

FRANCESCO CAFARELLI. Questo volevamo sapere. Ci sono di questi episodi, soprattutto a Trani?

SALVATORE ANNACONDIA. Qualcuno c'è.

FRANCESCO CAFARELLI. E questi noti imprenditori - scusi se insisto, ma è un punto molto importante - hanno rapporti anche con magistrati di Roma? Lei ha fatto riferimento anche ad un magistrato di Roma.

SALVATORE ANNACONDIA. Io adesso vi spiego una cosa...

PRESIDENTE. No, magistrati di due sezioni.

FRANCESCO CAFARELLI. No, prima, a parte la Corte...

PRESIDENTE. Credo che sia la stessa cosa, però.

SALVATORE ANNACONDIA. E' sempre quello il fatto.

PRESIDENTE. E' sempre quello? Quindi i magistrati sono sempre gli stessi, quelli di Roma, sono quelli delle due sezioni della Cassazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

PRESIDENTE. Quindi è la stessa...

FRANCESCO CAFARELLI. Questi imprenditori hanno anche delle finanziarie?

SALVATORE ANNACONDIA. No, potranno avere qualche partecipazione, ma la finanziaria è tutto un altro sistema, è l'imprenditore che deve andare a finire dalla finanziaria.

FRANCESCO CAFARELLI. Va bene, grazie.

ALFREDO GALASSO. Lei conosce Romano di Acquaviva?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ALFREDO GALASSO. Chi è?

SALVATORE ANNACONDIA. Oronzo Romano era, perché possiamo già dire era, un buon elemento, che stava uscendo abbastanza bene; la sua rovina è stata quando è stato scoperto che stava per nascere la Rosa. Oronzo Romano ha fatto qualche confidenza. Voleva pentirsi, però non era attendibile in tanti e tanti modi, che delle confidenze che faceva si venne a sapere subito al processo. E Oronzo Romano fu allontanato perché non si poteva ammazzare, per il momento. Oronzo Romano non è più nessuno, perché si è sputtanato, a prescindere da tutto che la cocaina gli ha dato al cervello. ALFREDO GALASSO. Questo quando è accaduto? Cioè fino a che...

SALVATORE ANNACONDIA. Queste vocerie uscirono nel 1991.

ALFREDO GALASSO. Le risulta se questo Oronzo Romano...

SALVATORE ANNACONDIA. E' in carcere, è in carcere.

ALFREDO GALASSO. Sì, lo so. Le risulta se questo Oronzo Romano aveva qualche rapporto politico altolocato?

SALVATORE ANNACONDIA. Non è che l'ho trattato molto, quel poco che ci siamo visti in qualche bisca nostra ad Acquaviva o a Putignano.

ALFREDO GALASSO. Ci sono nuclei di criminalità organizzata a Conversano?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma, le zone del sud barese e del nord brindisino non è che le trattassi molto.

ALFREDO GALASSO. Conosce Telenorba ?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ALFREDO GALASSO. Che cosa le risulta?

SALVATORE ANNACONDIA. Telenorba? Non posso parlare perché non c'ho niente da parlare contro Telenorba.

ALFREDO GALASSO. Quando parlò con Tonino e Savino della vicenda del Petruzzelli, le dissero anche chi era stato, quali erano stati gli autori materiali di questa operazione non facile, peraltro?

SALVATORE ANNACONDIA. L'autore materiale fu Mario Capriati, con altri due o tre ragazzi che portarono nel loro gruppo.

ALFREDO GALASSO. Lei li ritiene capaci di un'operazione di questo genere? Materialmente, tecnicamente, dico.

SALVATORE ANNACONDIA. Con tutte le strade che erano aperte, perché il proprietario, cioè il gestore, era d'accordo, era tutto preparato, non c'erano problemi; là bisognava solo spargere quel liquido per bruciare e via.

ALFREDO GALASSO. Quindi la malavita comune non c'entra niente con questa operazione?

SALVATORE ANNACONDIA. No, la malavita comune no; famiglie sì.

ALFREDO GALASSO. Due domande generali ed ho finito. Mi pare di capire, vorrei sentire il suo giudizio, che voi - lei in particolare ma non soltanto, diciamo i capi di questa criminalità organizzata - avevate una sorta di mappa della magistratura e della polizia che vi consentiva di orientarvi per sapere di volta in volta quali fossero gli amici più fidati, quali quelli avvicinabili, quali quelli inavvicinabili. E' così?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ALFREDO GALASSO. E in questi anni in Puglia la complicità della magistratura, della pubblica amministrazione, della politica, dell'imprenditoria è stata condizione essenziale per lo sviluppo della criminalità organizzata? Senza questa complicità non avreste raggiunto le fortune che avete raggiunto: è questo il suo giudizio?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma, purtroppo è così, onorevole. Non è che voglio parlare male dei magistrati, perché me ne guarderei bene. Non voglio parlare né male dei magistrati né male di un pregiudicato né male di un professionista. Io parlo di quello che so, non è che devo fare una distinzione: quello m'è simpatico e parlo, quello non m'è simpatico e non parlo. Purtroppo la magistratura, fino al 1991, si è sentita sempre intoccabile e, quando trovava a fare qualche aggiustamento, qualcosa, lo faceva.

ALFREDO GALASSO. Siccome lei ha dichiarato di essere un capo, ed un capo dà anche valutazioni di carattere generale, volevo avere conferma di questo. Cioè la sua valutazione è che, senza la complicità di una parte, naturalmente, della magistratura, del mondo politico, dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione, non avreste raggiunto le fortune che avete raggiunto?

SALVATORE ANNACONDIA. Non si poteva raggiungere, perché, se non trovi il compiacente, come si fa? Purtroppo poi la valutazione che puoi dare a queste persone qua è quella che li tratti per quello che valgono.

FRANCO FAUSTI. Mi ha colpito molto una valutazione che lei ha fatto rispetto agli ultimi attentati, quando ha legato, come valutazione dell'ambiente dell'Asinara e, se non sbaglio, di Rebibbia, questo giudizio comune di una minaccia incombente per cui, se non vi fosse stata la decadenza del 41-bis il 20 luglio, sarebbero avvenuti attentati con riferimenti precisi a monumenti, a beni artistici. Lei ha affermato di averne dato notizia preoccupata in occasione di incontri con i magistrati, con il pudore di un'interpretazione tanto grave, con riferimento ad un terrorismo diffuso, che poi, purtroppo, abbiamo invece verificato; ma di questo noi non abbiamo trovato traccia nei documenti che abbiamo e che addirittura risulta, per quanto ci riguarda, a livello di notizia, non verbalizzato. Fa riferimento a un colloquio con il magistrato Alberto Maritati. Vorrei avere maggiori precisazioni rispetto a questo che è un elemento estremamente grave, perché poi le sue preoccupazioni, queste valutazioni della camorra nazionale e della mafia nazionale, soprattutto all'Asinara, purtroppo hanno trovato riscontro. Vorrei, dunque, maggiori precisazioni e vorrei sapere se ha avuto l'opportunità di esprimere queste preoccupazioni in altri colloqui con i magistrati inquirenti.

SALVATORE ANNACONDIA. Onorevole, a me non spetta fare valutazioni.

FRANCO FAUSTI. Scusi, lei ha riferito un episodio in cui erano state espresse valutazioni, siccome questa interpretazione è grave...

SALVATORE ANNACONDIA. Si è spiegato abbastanza bene, le sto rispondendo che non spetta a me fare valutazioni. Io ho sentito il dovere di riferire, la prima volta, per dire che stavamo così, parlando del più e del meno...

PRESIDENTE. In quale carcere? La prima volta in quale carcere?

SALVATORE ANNACONDIA. No, sto parlando adesso che sto fuori, che sto verbalizzando. Dissi ad un maggiore che non intendevo verbalizzare perché non mi sentivo di dire certe cose che potevano sembrare allucinogene. Il maggiore riferì queste mie parole al dottor Maritati. Quando mi è arrivata la prima notizia, è stato all'Asinara; per quel poco che stessimo all'Asinara, si parlò del più e del meno, che bisognava... e i napoletani dall'altra sezione, perché noi stavamo in una sezione dove eravamo pugliesi, calabresi e siciliani, era la prima sezione, mentre alla seconda sezione erano tutti napoletani. Il giorno del mio trasferimento dall'Asinara, che andai a Carinola per processi, dovevano arrivare dalla seconda sezione imbasciate proprio per sapere cosa si studiava, cosa si intendeva fare, perché alla nostra sezione erano successi un po' di casini con le guardie; perché le guardie se la sentivano contro i siciliani perché le stragi che erano successe... le guardie erano amareggiate coi siciliani e di conseguenza venivamo trattati, sia i calabresi che i pugliesi, allo stesso livello dei siciliani. Mi ricordo che Peppuccio Spataro rispose male a delle guardie, si voleva appiccicare a botte e fu picchiato - perché le guardie erano di più; noi passavamo uno alla volta all'aria - perché fece qualcosa di sporco nei confronti delle guardie, che sentivano il dolore delle due stragi che erano avvenute. Però i napoletani venivano trattati non come noi ma un pochettino meglio di noi ed avevano più modo di pensare, di fare, di ragionare; OMISSIS stessa fonte, seppi pure di là che quanto prima si doveva iniziare a mettere qualche bomba a qualche museo.

PRESIDENTE. Perché non si parlava di stragi contro la gente?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché già c'erano i guai di queste due stragi che erano avvenute a Palermo e allora le bombe si dovevano mettere davanti ai musei e non nelle ore che potevano causare la strage. Che poi la strage è successa, io vi posso dire solo una mia opinione (ma questa è una cosa personale) dell'ultima strage che è avvenuta a Milano, cioè che senz'altro chi ha messo la bomba e chi ha fatto la telefonata ai pompieri... c'è stato qualche 5-10 minuti di ritardo nell'azionare la bomba. I pompieri sono arrivati in anticipo. Questa però è una mia opinione. Però posso dire che a Maritati dissi proprio che entro il 20 di luglio, se non veniva abolito questo 41-bis , ci sarebbero state delle stragi e degli attacchi ai musei, perché colpendo il museo colpisce il cuore dello Stato, colpisce l'amore degli italiani, colpisce l'opinione pubblica. Questo è quello che io so per quanto riguarda queste vicende qua.

FRANCO FAUSTI. La ringrazio. Alla domanda lei ha risposto riconfermando quello che aveva detto. La domanda era però se, oltre che con il magistrato Maritati, lei ha avuto occasione di parlarne con altri magistrati durante questo iter...  SALVATORE ANNACONDIA. No, non ho avuto occasione di parlare con altri magistrati. C'è altro?

FRANCO FAUSTI. Basta così. (Commenti).

SALVATORE ANNACONDIA. ... colloquio investigativo. Quando si parla con un procuratore nazionale sono colloqui investigativi che poi vengono passati ai magistrati.

ALTERO MATTEOLI. Sulla scia della domanda rivoltale dal collega Fausti, sempre su queste bombe di cui lei aveva sentito parlare, aveva sentito che le avrebbero organizzate mafia e camorra...

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

ALTERO MATTEOLI. Ha mai avuto occasione, in tutti questi anni, di avere rapporti con qualcuno dei servizi segreti; ha mai avuto contatti di qualche genere, né quando era dentro né quando era fuori, oppure sa che la sua organizzazione possa avere avuto contatti?

SALVATORE ANNACONDIA. Che io dovessi dire che ha avuto contatti con i servizi segreti: no. OMISSIS

MASSIMO BRUTTI. Vorrei chiederle una cosa a proposito dell'associazione La Rosa: dopo la fine della carriera di Romano è stata ricostituita questa associazione oppure è definitivamente morta?

SALVATORE ANNACONDIA. No, è finita.

MASSIMO BRUTTI. Lei conosceva Marino Pulito?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

MASSIMO BRUTTI. Lo conosceva bene?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

MASSIMO BRUTTI. Pulito aveva rapporti con la 'ndrangheta?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

MASSIMO BRUTTI. E anche con i Modeo?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, dipendeva dai Modeo, era diventato un uomo fidato perché loro erano latitanti e Marino Pulito faceva loro da referente perché era conosciuto.

MASSIMO BRUTTI. Quindi li aiutava?

SALVATORE ANNACONDIA. Diciamo che era conosciuto in Calabria ed in Campania, molto.

MASSIMO BRUTTI. Le risulta che Marino Pulito avesse un rapporto o comunque avesse stabilito un collegamento con Licio Gelli?

SALVATORE ANNACONDIA. Con Marino Pulito mi rividi nel carcere di Ascoli Piceno e lui era preoccupato per il fatto di Licio Gelli. Diceva: "Salvatore, per causa mia si può rovinare questa persona". Sono stato in cella con Marino Pulito 7-8 giorni.

MASSIMO BRUTTI. E Marino Pulito diceva "Per causa mia si può rovinare", chi, Gelli?

SALVATORE ANNACONDIA. Licio Gelli. Bastava che Marino Pulito vedesse qualche articolo sui giornali a proposito di Licio Gelli... dato che non sa leggere bene glielo leggevo io.

MASSIMO BRUTTI. Ma perché pensava che Gelli si potesse rovinare per causa sua?

SALVATORE ANNACONDIA. Mi disse che era stato in un albergo a Roma con Licio Gelli, che si era incontrato con Licio Gelli.

MASSIMO BRUTTI. Quando?

SALVATORE ANNACONDIA. Nel 1991, prima del suo arresto.

MASSIMO BRUTTI. Per quale ragione l'aveva incontrato?

SALVATORE ANNACONDIA. Perché stavamo sistemando il processo ai Modeo per la revisione.

MASSIMO BRUTTI. Era in Cassazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

MASSIMO BRUTTI. E l'incontro con Gelli aveva a che vedere con il processo?

SALVATORE ANNACONDIA. L'incontro non l'ho avuto io.

MASSIMO BRUTTI. Che cosa raccontava Pulito di questo?

SALVATORE ANNACONDIA. Marino mi raccontò ma superficialmente, perché giocavamo sempre a dama; ogni tanto, quando usciva qualche notizia alla televisione, Marino Pulito si preoccupava di Licio Gelli; specialmente in quei giorni di agosto del 1992 i fatti di Licio Gelli erano quasi tutti i giorni sul giornale.

MASSIMO BRUTTI. Per quale processo Pulito era intervenuto con Gelli?

SALVATORE ANNACONDIA. Doveva intervenire per la revisione del processo, perché Marino Pulito era riuscito ad avere un colloquio con Licio Gelli.

MASSIMO BRUTTI. Per la revisione di quale processo?

SALVATORE ANNACONDIA. Del processo Modeo per l'omicidio Marotta.

MASSIMO BRUTTI. E Gelli poteva interessarsi con la Cassazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Marino Pulito aveva avuto garanzie che si poteva ottenere la revisione.

MASSIMO BRUTTI. Non ha detto in quale sezione della Cassazione, quale magistrato?

SALVATORE ANNACONDIA. No.

MASSIMO BRUTTI. Però Gelli poteva interessarsi.

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, poteva interessarsi.

MASSIMO BRUTTI. E si era interessato?

SALVATORE ANNACONDIA. Ma poi successe che c'erano le microspie... Ci fu un blitz e Marino Pulito fu arrestato e vennero a conoscenza che nel suo ufficio c'erano le microspie.

MASSIMO BRUTTI. Ho capito. E quel processo poi com'è andato a finire?

SALVATORE ANNACONDIA. Per questo sputtanamento che si è avuto non si è fatto più niente, ma mi ero interessato già io per quanto riguardava la revisione. Poi c'era pure...

MASSIMO BRUTTI. Lei si era attivamente interessato della revisione di quel processo: con chi?

SALVATORE ANNACONDIA. Non posso parlare.

MASSIMO BRUTTI. Comunque sempre per aggiustarlo in Cassazione?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

MASSIMO BRUTTI. Si può facilmente controllare, quindi se lei può dircelo ci aiuta: qual era la sezione della Cassazione su cui bisognava intervenire?

SALVATORE ANNACONDIA. Non era già stato assegnato alla sezione; bisognava che arrivasse ad essere assegnato ad una sezione della Cassazione.

MASSIMO BRUTTI. Voi a quale volevate assegnarlo?

SALVATORE ANNACONDIA. Dato che quelli sono processi di domicilio, si sanno le sezioni che li discutono: il 99 per cento andava alla I sezione.

MASSIMO BRUTTI. A voi andava bene questa soluzione?

SALVATORE ANNACONDIA. Andava bene.

MASSIMO BRUTTI. Ha conosciuto il pentito Screti?

SALVATORE ANNACONDIA. Non l'ho conosciuto, però l'ho sentito. L'ho conosciuto di vista, mi pare.

MASSIMO BRUTTI. Quindi non l'ha conosciuto direttamente.

SALVATORE ANNACONDIA. Lui mi conosce soprattutto di nome.

MASSIMO BRUTTI. E viceversa?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì.

MASSIMO BRUTTI. Sa che ruolo aveva nella Sacra corona unita?

SALVATORE ANNACONDIA. Era intrufolato in politica, nell'imprenditoria, stava molto bene con Salvatore Bucarella, con Pino Rogoli.

MASSIMO BRUTTI. Abbiamo ascoltato altri collaboratori di giustizia di altre organizzazioni criminali, di altre regioni, ciascuno dei quali ha indicato quali fossero le aree politiche o i partiti politici ai quali si portavano i voti e quali fossero quelli che, invece, erano guardati con sospetto e considerati con ostilità. Quali sono i partiti dei quali lei si interessava?

SALVATORE ANNACONDIA. Per quanto riguarda i collaboratori che avete sentito, le indagini ormai erano state già fatte. Purtroppo...

MASSIMO BRUTTI. Senza andare alle responsabilità ed ai nomi, vorremmo avere un'idea degli schieramenti politici.

SALVATORE ANNACONDIA. Sto collaborando dal 1^ gennaio: sono riuscito a collaborare con altri magistrati, ma su Bari non avevo nessun magistrato come interlocutore, come referente. Questi verbali li ho fatti con il dottor Mandoi e devo verbalizzare ancora il 50 per cento.

MASSIMO BRUTTI. Però in questo modo non vìola nessun segreto...

SALVATORE ANNACONDIA. Deve pensare che ho da verbalizzare altro. Per me non ho problemi, perché o si sa adesso o fra un mese o due...

MASSIMO BRUTTI. Vorremmo capire quali sono i partiti che adoperano un certo meccanismo di raccolta dei voti.

SALVATORE ANNACONDIA. Vi sono magistrati che stanno raccogliendo le mie deposizioni, vi sono investigatori che stanno facendo le indagini e non vorrei rovinarle perché c'è quello che pensa che sto parlando di tutto, quello che pensa "Di me non parla" e quello che dice "No, Salvatore non parla di me". Forse ho incontrato troppo presto la Commissione, oppure sono venuto in tempo ma non ho trovato prima il magistrato che potesse...

MASSIMO BRUTTI. Ci può dire quali sono le due sezioni della Cassazione alle quali appartengono i magistrati romani con i quali avevate rapporti?

SALVATORE ANNACONDIA. Onorevole...

PRESIDENTE. Una è stata citata.

MASSIMO BRUTTI. E l'altra?

SALVATORE ANNACONDIA. Lo può leggere dai verbali qui a Roma.

MASSIMO BRUTTI. Va bene, la ringrazio.

PRESIDENTE. Abbiamo terminato, ci sono soltanto due brevi precisazioni. OMISSIS Seconda questione. La persona alla quale lei si rivolse per il processo di Pulito era un magistrato, un avvocato, un cancelliere?

SALVATORE ANNACONDIA. No, forse...

PRESIDENTE. Forse ho capito male io.

SALVATORE ANNACONDIA. Fu il processo di Pulito?

PRESIDENTE. Sì. Adesso, parlando con il senatore Brutti...

MASSIMO BRUTTI. Il processo Modeo!

SALVATORE ANNACONDIA. Per il processo Modeo un avvocato di Roma.

PRESIDENTE. Un'ultima cosa: quando ci furono le due stragi di via D'Amelio e di Capaci che giudizio si dava o si è dato nel mondo criminale, nel mondo della mafia, della 'ndrangheta eccetera di queste due stragi? Si diceva: "Hanno fatto bene", "Hanno fatto male", "Ora chissà cosa ci capita!", "Finalmente ce ne siamo levati dalle scatole due, abbiamo dato una lezione".

SALVATORE ANNACONDIA. Di questi giudizi non si poté parlare. All'Asinara si iniziarono questi giudizi, ma purtroppo c'erano i grossi che dovevano esprimere il loro giudizio.

PRESIDENTE. E i grossi che giudizio dettero?

SALVATORE ANNACONDIA. Io partii.

PRESIDENTE. Quindi, non sa.

SALVATORE ANNACONDIA. Ma i giudizi erano negativi.

PRESIDENTE. I giudizi erano negativi, ma si chiedevano: "Perché hanno fatto questa grossa stupidaggine?".

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, non voglio trascendere in queste cose.

PRESIDENTE. Perché?

SALVATORE ANNACONDIA. A prescindere che non conosco di preciso i discorsi, perché non è che all'Asinara stessimo tutti quanti insieme...

PRESIDENTE. Beh, certo.

SALVATORE ANNACONDIA. Oggi prendevamo l'aria con dieci persone, domani con altre dieci persone. Ci cambiavano sempre, non è che eravamo sempre... I giudizi erano negativi perché non è che avevano fatto una cosa bella... Perché se si voleva fare quello che si è fatto, si poteva fare anni prima. Hanno fatto queste stragi e per causa loro sono state applicate tutte queste leggi speciali. Se le stragi le ha fatte una famiglia e devono pagare tutte le famiglie... Purtroppo la reazione non poteva esserci lì per lì.

PRESIDENTE. Desidero chiederle una cosa che serve per il lavoro della Commissione, perché noi, tra l'altro, dobbiamo cercare di capire quali siano le ragioni per cui si fanno determinate operazioni, tipo le stragi, anche per cercare di proporre al Parlamento di porre in atto misure idonee ad evitare nuove stragi. Ma posto che a quasi tutti gli italiani è sembrato una specie di boomerang per Cosa nostra compiere queste stragi, stante tutto quello che è avvenuto dopo, le chiedo se si tentava qualche spiegazione, dei motivi.

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, forse non hanno mai pensato al dopo, a quello che poteva succedere, perché, ormai, nonostante tutte le stragi successe in Sicilia, loro se la sono sempre cavata bene. Quindi, pensavano che non ci fossero problemi. Non hanno mai pensato alla reazione che potevano avere l'opinione pubblica e lo Stato. Quello che è successo non se lo aspettava nessuno. Ecco perché hanno deciso la morte di Falcone e Borsellino.

PRESIDENTE. Ho capito, non si aspettavano questo tipo di reazione. Però, lei dice che dopo queste stragi ne possono venire altre contro le persone. Non le sembra che questo sia in contraddizione con l'impostazione di non fare stragi pericolose perché altrimenti ...

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, quello che io ho sentito è stato pochissimo, non è stata una cosa approfondita. Io ho riferito quello che ho sentito.

PRESIDENTE. Certo. E si era anche parlato di fare attentati fuori della Sicilia? Questi attentati ai monumenti?

SALVATORE ANNACONDIA. Sì, perché non è che in Sicilia ci siano bei monumenti. I monumenti belli sono a Roma, a Firenze, a Milano.

PRESIDENTE. Credo che possiamo considerare conclusa questa audizione. Ritengo che essa sia stata molto utile, per cui la ringrazio molto.

SALVATORE ANNACONDIA. Vi ringrazio anch'io.

PRESIDENTE. Ha qualcosa da aggiungere?

SALVATORE ANNACONDIA. Signor presidente, se mi è concesso vorrei riaprire il verbale, ma di poco.

PRESIDENTE. Prego.

SALVATORE ANNACONDIA. Ho da fare un reclamo. Le parlo personalmente, ma son convinto che quello che succede a me accade a tanti collaboratori. Finché noi stavamo sotto la protezione della DIA, diciamo che non ci potevamo lamentare. Mi riferisco non a noi personalmente, ma ai nostri familiari. Per causa non voluta, ci sono state fughe di notizie per quanto riguarda la mia persona: i miei familiari furono presi, sequestrati di notte, proprio per evitare delle ritorsioni, e condotti in una località segreta senza che potessero portarsi nulla dietro. I miei fratelli non sono persone che hanno vissuto sul marciapiede, perché sono ragazzi che lavoravano in mare, facevano i pescatori. Essi sono stati privati dell'affetto della casa e del paese, tutte cose che non si possono ripagare. Io mi sento responsabile nei confronti dei miei, perché da quando sono passati sotto il Servizio centrale di protezione, stanno accadendo cose allucinanti.

PRESIDENTE. Cioè?

SALVATORE ANNACONDIA. I miei non hanno ancora i documenti, perché con i loro non possono girare, e sono costretti a vivere con lo stipendio che passa loro il Servizio centrale. I miei familiari hanno, esattamente, 16.500 lire al giorno e si trovano in una località carissima. Con 500 mila lire al mese si devono pagare luce, gas, telefono, acqua, e devono mangiare e vestirsi perché non possono andare a Trani a prendersi le cose perché in questo momento ci sono dei problemi. Pagano l'affitto delle case che occupano. Avevano un po' di risparmi, ma se li sono mangiati perché devono vivere. Parlo come Annacondia Salvatore, ma sono convinto che tutti i collaboratori hanno il mio stesso problema. Voglio, se il Parlamento è d'accordo, che sia un po' vagliata la situazione, perché ci viene risposto che a loro non gliene importa nulla. Hanno fatto anticipare i soldi ai familiari dicendo di inviare loro gli scontrini, ma questi sono stati mandati a Roma e da Roma sono tornati indietro. Diciamo che si vanno applicando sulle 100 mila lire, ma non sono 100 mila lire che devono salvare l'Italia. L'esercito dei collaboratori può offrire un grosso contributo, purché questa gente sia tenuta con la testa a posto, con la testa tranquilla. Infatti, non posso collaborare e nello stesso momento essere rimproverato dai familiari per il fatto che per causa mia li ho rovinati. Mi hanno detto questo, cioè che per colpa mia li ho rovinati. Credo sappiate che significhi sentirsi dire da un fratello che per causa mia è rovinato. Mi sento male, perché non posso rispondergli, non posso dirgli nulla.

PRESIDENTE. Mi faccia capire: se i suoi familiari avessero i documenti di riconoscimento...

SALVATORE ANNACONDIA. Ma loro vogliono lavorare, non hanno bisogno...

PRESIDENTE. Quindi, questo consentirebbe loro di lavorare..

SALVATORE ANNACONDIA. Non hanno bisogno di avere le 500 mila lire, perché loro sono ragazzi che vanno a pescare, che con la pesca vivono e stravivono, per cui non hanno bisogno di niente. Però, fino a quando non gli vengono dati questi documenti, almeno che venga riconosciuto loro un mantenimento decente. Non è che bisogna fargli fare una vita da signori, perché a questo non sono abituati, sanno mangiare pane e cipolla. Però, signor presidente, i bambini non si possono privare dei biscotti da mettere nel latte! Eppure, so che dove stanno loro, un chilo di pane costa 5 mila lire. Per un litro di latte e un chilo di pane già se ne vanno 20-30 mila lire. Se prende le sigarette se ne sono andati i soldi. Poi si devono pagare pure luce, gas, telefono; come fanno questi a vivere?

PRESIDENTE. Va bene, abbiamo capito. SALVATORE ANNACONDIA. Mi hanno detto che se ne andranno.

PRESIDENTE. La Commissione cercherà di intervenire su tale questione.

SALVATORE ANNACONDIA. La ringrazio moltissimo.

PRESIDENTE. La ringrazio, signor Annacondia. Prego di voler accompagnare il signor Annacondia fuori dall'aula. (Salvatore Annacondia viene accompagnato fuori dall'aula).

PRESIDENTE. Colleghi, propongo di segretare, per esigenze di carattere istruttorio, alcuni passaggi dell'audizione odierna, di cui do lettura. (Il presidente procede alla lettura). Pongo in votazione questa mia proposta: (Segue la votazione) . Poiché la Commissione non è in numero legale per deliberare, a norma del regolamento, rinvio la seduta di un'ora. La seduta, sospesa alle 17,10, è ripresa alle 18,10 presso l'aula di palazzo San Macuto. PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta di segretazione precedentemente formulata. (Segue la votazione) . Poiché la Commissione non è in numero legale, tolgo la seduta. La Commissione è convocata per martedì 3 agosto 1993, alle 15; la votazione sulla proposta suddetta è iscritta al primo punto all'ordine del giorno. Dispongo che le dichiarazioni rese dal collaboratore Annacondia per le quali ho formulato la proposta di segretazione siano da considerarsi segrete fino alla deliberazione definitiva della Commissione. La seduta termina alle 18,15.

Trent’anni fa la Strage della barberia, l’atto finale della faida di Taranto: storia del clan Modeo, i 160 omicidi in un biennio e i contatti con Gelli. Nel pomeriggio dell'1 ottobre 1991, tra i vicoli della città vecchia, 4 innocenti vengono uccisi in una sala da barba: è l'apice, tra vecchie ruggini e dissidi per i business criminali, della lotta interna alla famiglia Modeo che trasforma la città dell’allora Italsider nel teatro di una guerra di mafia. Il vuoto creato da arresti e omicidi eccellenti fa saltare gli equilibri interni e il “tutti contro tutti” lascia spazio al pentitismo. Fino all'epilogo con il maxi-processo Ellesponto. Francesco Casula su Il Fatto Quotidiano l'1 ottobre 2021.  

I tre killer spuntano dal vicolo accanto alla sala da barba. Due di loro indossano i passamontagna, uno invece è a volto scoperto. “Mi devono vedere in faccia”, aveva detto alla moglie annunciando la vendetta. Da vico San Gaetano svoltano su via Garibaldi: l’ingresso della barberia è a qualche passo di distanza. È pomeriggio inoltrato e nella città vecchia di Taranto e, in quel 1 ottobre 1991, c’è tanta gente per strada. I ragazzi sono nella sala giochi accanto, alcune donne chiacchierano all’ingresso di una macelleria mentre un gruppo di uomini sorseggia la birra Raffo davanti al bar Via col vento. Anche nella barberia hanno appena finito di bere una birra. Nemmeno si accorgono delle armi che si affacciano dalla porta di ingresso. Forse non hanno neppure il tempo di capire cosa accade quando una pioggia di fuoco li raggiunge. Centinaia di colpi che non danno scampo. A terra restano Giuseppe Ierone, 52enne titolare del salone, e altre tre persone. Cataldo Padula, Domenico Ferrara e Francesco Abalsamo hanno poco più di 20 anni. Tutti muoiono per sbaglio. Il vero obiettivo era un capo mafia uscito solo pochi secondi prima dell’arrivo dei sicari: qualche ora prima aveva schiaffeggiato la moglie dell’unico membro del commando in azione a volto scoperto. Così la vendetta si abbatte su quattro innocenti. Nella Taranto di quegli anni, non è una novità. Perché a cavallo tra gli Anni ottanta e novanta, nella città dell’allora Italsider, è in corso una guerra. La mafia è in subbuglio.

Assalti ‘sudamericani’, affari e politica – La Strage della barberia è l’eccidio finale di una faida che conta oltre 160 morti in soli due anni. Quella sera d’autunno, le tv nazionali raccontano al resto d’Italia l’ultima carneficina messa a segno nel capoluogo ionico, dal luglio 1989 diventato il teatro di una cruenta battaglia criminale. Una storia che sembra una serie tv: una famiglia mafiosa che si spacca, gli assalti in pieno stile sudamericano, gli affari con la fabbrica di Stato, gli intrecci con la politica fino ai contatti con Licio Gelli, il venerabile maestro della loggia P2. Ma sono soprattutto i morti a segnare di rosso il calendario di quegli anni. Tanti, troppi. Mafiosi e innocenti, come le quattro vittime della barberia. Ma non solo. Dieci mesi prima della Strage della barberia, in uno dei tanti di agguati che si susseguono al quartiere Tamburi, muore Valentina Guarino: ha 6 mesi di vita e la colpa di stare tra le braccia della madre mentre un commando spara contro l’auto guidata dal padre Cosimo, vero obiettivo dei sicari. E poi Angelo Carbotti, ucciso sulla rampa dell’ospedale dopo aver prestato soccorso alla sorella di un presunto killer. Alle decine e decine di morti che militavano nelle fila della mafia ionica, quindi, si aggiungono vittime innocenti e anche servitori dello Stato. Come Carmelo Magli, agente della Penitenziaria crivellato di colpi per impartire una lezione ai poliziotti troppo duri con gli affiliati detenuti. Tra il luglio 1989 e l’ottobre 1991, tra le strade e i vicoli di Taranto si assiste a un massacro. Le forze dell’ordine non sono pronte ad affrontare quello che sta accadendo, boss e gregari prendono possesso della città. Taranto è “l’anti-Gomorra” secondo il cronista tarantino Stefano Maria Bianchi, autore della prefazione di Scamunera, il romanzo del giornalista emiliano Lorenzo Sani che sui veri protagonisti della guerriglia tarantina ha costruito un’avvincente epopea pulp. Una parte della politica locale, invece, sembra strizzare l’occhio agli uomini dei clan. Come Giancarlo Cito, l’ex telepredicatore dal passato fascista che dalle telecamere della sua emittente televisiva Antenna Taranto 6 si lancia contro avversari politici, giudici e giornalisti. L’uomo che negli anni successivi diverrà sindaco di Taranto, e poi parlamentare della Repubblica, nella notte di Natale del 1989 viene trovato in casa dei fratelli Modeo. Si difenderà sostenendo di essere andato lì per un’intervista, ma uno dei numerosi processi che lo travolgeranno lo condannerà definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa.

La famiglia Modeo e la vacca da mungere – Il cognome Modeo, ancora oggi, a distanza di 30 anni, evoca terrore nei tarantini. Lo strapotere del clan sulla Taranto degli Anni ’80 è paragonabile a quello dei corleonesi in Sicilia o di Pablo Escobar a Medellin. “È la Taranto in cui ormai imperversa la guerra di mala – scrivono l’ex pm Nicolangelo Ghizzardi e il giornalista Arturo Guastella nel libro Taranto, tra pistole e ciminiere – da tutti sottovalutata e da molti dolosamente relegata al rango di ordinaria delinquenza spicciola, è la Taranto in cui l’economia è al collasso a causa, anche, della grave crisi del settore siderurgico e dell’indotto, con un aumento inarrestabile della disoccupazione”. In queste sacche di disperazione i clan pescano soprattutto giovani e giovanissimi per irrobustire le fila dell’organizzazione. Prostituzione, bische, contrabbando, estorsioni, appalti: dai primi Anni ottanta, il clan Modeo domina il territorio ionico. Incontrastato e unito. A capo del gruppo ci sono i fratelli Modeo: Antonio detto “il Messicano” e i suoi tre fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio. Da piccoli delinquenti di periferia si fanno largo a suon di proiettili. Raggiungono la vetta nel settembre 1988 quando cade sotto i colpi dei sicari don Ciccio Basile, l’ultimo vecchio boss in grado di mantenere gli equilibri. Da quel momento, Taranto è una grande vacca da mungere: la città e la provincia sono stritolate tra crisi e strapotere criminale. E tutti si piegano. Commercianti, imprenditori, miticoltori pagano il pizzo. Persino gli amministratori dei condomini sono “invitati” a raccogliere offerte da inquilini e proprietari per evitare “spiacevoli inconvenienti”.

La faida per l’eroina – A coordinare il settore delle estorsioni per conto del clan Modeo ci sono Salvatore De Vitis e Orlando D’Oronzo: i fratelli hanno sempre lasciato piena autonomia ai due luogotenenti che col passare del tempo hanno saputo mostrare carisma e determinazione. Sono anche gli anni dell’eroina, ma quel business che trasformava i giovani in zombie è un tema su cui i fratelli sono in contrapposizione. Antonio Modeo è un mafioso con la mentalità imprenditoriale: ha aziende che lavorano nell’indotto dell’Italsider, mantiene contatti con esponenti delle altre mafie italiane e nel business dell’eroina vede solo il rischio di un grande allarme sociale. Per Riccardo, Gianfranco e Claudio, invece, quell’affare è imperdibile. “Cu a droghe se fanne le solde”, si ripeteva tra i vicoli. Ma quel punto è solo l’ultimo di una serie di vecchi dissapori che nascono già nell’ambito familiare. I fratelli sono infatti tutti figli di Cosima Ceci, ma “il Messicano”, pur avendo lo stesso cognome, è nato in realtà da una relazione precedente della donna. I tre Modeo non lo hanno mai considerato fino in fondo sangue del loro sangue. E così, con la crescita esponenziale del loro potere, anche le piccole ferite degenerano fino a diventare un’emorragia inarrestabile che distruggerà la loro famiglia. E centinaia di altre.

Kalashnikov e autobombe – La scintilla che fa deflagrare tutto è l’intercessione dei tre fratelli in favore di un imprenditore a cui i luogotenenti dei boss, De Vitis e D’Oronzo, avevano chiesto una tangente da un miliardo. Quel granitico blocco mafioso che era il clan Modeo si spacca in due fazioni: da un lato c’è Antonio il Messicano a cui si affiancano le famiglie De Vitis e D’Oronzo e dall’altra i fratelli Modeo. Il sangue comincia a scorrere nel luglio di quel 1989. Cadono nomi di spicco del panorama criminale, ma non solo. I fratelli Modeo uccidono Paolo De Vitis, padre di Salvatore. Gli avversari rispondono nel giro di 24 ore freddando Cosima Ceci, madre di tutti i Modeo. Riccardo, Gianfranco e Claudio ritengono il fratellastro Antonio corresponsabile di quell’omicidio, nonostante il Messicano abbia sempre negato quella circostanza. Da quel momento nelle strade si diffonde il terrore. Una sera, i fratelli raggiungono la borgata di Statte: decine di uomini armati fino ai denti esplodono migliaia di colpi contro la casa del Messicano che però non era in casa. Un episodio degno delle azioni dei narcos dell’America Latina. La risposta arriva poco dopo: il giorno in cui a Taranto arriva papa Giovanni Paolo II, al quartiere Tamburi un’autobomba esplode sotto l’abitazione di Claudio Modeo. Anche in questa occasione, fortunatamente, nessuna vittima.

Due anni di “tutti contro tutti” – Per i sicari dei due gruppi contrapposti la regola era una soltanto: ammazzare a vista ogni avversario. Le strategie per la pianificazione di un assassinio erano seguite solo per gli omicidi “eccellenti”, per il resto bastava incrociare un nemico per aprire il fuoco. Agguati, esecuzioni plateali e casi di lupara bianca diventano cronaca quotidiana. I clan si consumano a vicenda con colpi di kalashnikov. È una decimazione reciproca. Nell’estate 1990 muore anche il Messicano: a ucciderlo è il boss di Trani Salvatore Annacondia che dopo l’arresto dei fratelli Modeo ha preso in mano le redini del clan. Gianfranco e Riccardo Modeo vengono infatti acciuffati nella villa bunker di Montescaglioso, nel Materano. A tradirli sono i loro cani che, durante l’irruzione dei carabinieri, abbaiano vicino alla botola che conduceva al nascondiglio sotterraneo. E sarà proprio Annacondia, diventato poi collaboratore di giustizia, a svelare che i Modeo riescono persino ad agganciare Licio Gelli tramite un loro uomo fidato: è Marino Pulito a incontrare il “venerabile maestro” in un hotel di Roma nel 1991 per chiedere sostegno alla richiesta di revisione di un processo. I pentiti svelano che Gelli avrebbe offerto garanzie per risolvere la questione, ma tutto naufraga poco dopo, con l’arresto di Pulito. Salvatore De Vitis, l’uomo più vicino ad Antonio Modeo, viene invece ucciso a Milano nel maggio di trent’anni fa, pochi giorni dopo aver lasciato il carcere ionico. Il vuoto lasciato dai boss fa saltare gli equilibri interni alle due fazioni: i piccoli gruppi imbracciano le armi per accrescere il proprio potere. L’ultimo periodo è, in sostanza, un “tutti contro tutti”.

L’epilogo della saga criminale – Ed è in questo clima che matura la Strage della barberia. L’atto che chiude la saga criminale. Gli esecutori non hanno nomi di calibro nel panorama tarantino, anzi. Due sono addirittura minorenni, alla loro prima azione di fuoco. La nascita del pentitismo, infine, offre alla magistratura e alle forze dell’ordine l’occasione di infliggere il colpo mortale ai clan ionici. Con la giustizia iniziano a collaborare nomi di peso come Annacondia, Gianfranco Modeo e tanti altri. Collabora anche Vincenzo Cesario, uno degli uomini che guidava il gruppo di Taranto vecchia e la sua famiglia affigge tra i vicoli un manifesto funebre con parole emblematiche: “Improvvisamente è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari Vincenzo Cesario, ne danno il felice annuncio i fratelli Pasquale, Cosimo e Giuseppe con le rispettive mogli e il resto della famiglia. I funerali non avranno luogo perché la salma è stata buttata”. Le dichiarazioni dei pentiti confluiscono nel maxi-processo Ellesponto e in tanti altri come “Orrilo”, “Cruise”, “Tamburi” che seppelliscono la mafia ionica sotto secoli di carcere.

Trent’anni dopo – Alcuni boss, come Claudio e Riccardo Modeo muoiono da detenuti, altri dopo la lunga carcerazione, provano a riprendere le redini dei clan per rimettere le mani sulla città: arruolano i giovani cresciuti nella leggenda di quei nomi che fanno ancora paura. Ma i tempi sono cambiati. La città è cambiata. Anche grazie alle denunce, la Direzione distrettuale Antimafia di Lecce, dal 2012 i pm Alessio Coccioli e Milto De Nozza, grazie alle indagini di carabinieri, Guardia di finanza e polizia, mettono a segno una decina di operazioni: “Alias”, “Città nostra”, “Feudo”, “Duomo”, “Pontefice”, “Undertaker”, “Sangue Blu”, “Game Over”, “Impresa”, “Neve Tarantina”, “The old”, “Mercante in fiera”, “Tabula rasa”, “Cupola”, “Mercurio”. Per i vecchi boss e i nuovi gregari si riaprono le porte del carcere. L’eterna guerra contro la malavita non è finita, ma la sanguinosa storia dei Modeo appartiene ormai ai libri di storia. 

Le bombe in Continente del 1993. La Repubblica il 7 settembre 2019. […] Già nell'estate del 1992 si comincia a fare strada in "cosa nostra" l'idea che, oltre a colpire - e dopo avere già colpito - uomini simbolo delle Istituzioni (quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), il potere "contrattuale" di "cosa nostra" si sarebbe ancor più accresciuto se fossero stati presi di mira monumenti al di fuori del territorio siciliano e, quindi, nel continente. Sotto altro profilo, peraltro, tale "idea", seppur personalmente non condivisa dal Riina nella parte in cui si escludeva la Sicilia e, soprattutto, Palermo per gli attentati [...] tanto che sarà attuata fuori dal territorio siciliano soltanto dopo che questi sarà arrestato, appare del tutto consequenziale alla finalità comunque già balenata nella mente del Riina, quella di costringere le Istituzioni a concedere i benefici cui lo stesso Riina condizionava la cessazione della contrapposizione frontale che aveva dato luogo già alle stragi del 1992. Infatti, il messaggio che si intendeva inviare sarebbe stato meglio e più direttamente percepito dal Governo della Repubblica (ineludibile interlocutore delle richieste di "cosa nostra", essendo a questo in primo luogo riconducibile la linea di rigore carcerario già attuata subito dopo la strage di via D'Amelio) se le nuove stragi fossero state compiute in danno di monumenti e ancor più se non nella periferica Sicilia nella quale confinare il "problema mafia", ma nelle principali città della Nazione, fatto che, nel contempo, per la reazione dell'opinione pubblica, inevitabilmente più diffusa anche in settori che fino ad allora avevano guardato con distacco, per la sua lontananza, al fenomeno mafioso, avrebbe con maggiore forza potuto indurre, appunto, il Governo a a cedere al ricatto e attenuare quindi l'azione di contrasto alla mafia. Un'importantissima conferma di tale nuova linea nella strategia di "cosa nostra" si ricava già nella dichiarazioni di un collaboratore di Giustizia appartenente ad altra organizzazione di tipo mafioso, Salvatore Annacondia. […] Nel corso dell'esame dell' Annacondia è stato acquisito, col consenso delle parti, il Resoconto della audizione del predetto dinanzi la Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno della mafia in data 30 luglio 1993 allorché venne sentito per acquisire informazioni sulla criminalità pugliese. Nel corso di tale audizione Annacondia spiega le ragioni e le modalità del suo "pentimento" (pag. 2475 e segg.) e, dopo avere ampiamente parlato di affari criminali della sua organizzazione, ad un certo punto (pag. 2504), il Presidente della Commissione chiede all'Annacondia se ha saputo degli attentati che vi erano stati in quei giorni in Italia e se ne avesse mai sentito parlare. Annacondia, tra l'altro, dichiara: "Signor presidente, non volli verbalizzare una certa cosa perché una persona può essere presa per un megalomane, ma feci un colloquio investigativo con il dottor Alberto Maritati nel quale io accennai ad attacchi e stragi ai musei. Ne parlai appunto con il dottor Maritati;

PRESIDENTE: Quando?;

SALVATORE ANNACONDIA: Alcuni mesi fa;

PRESIDENTE: Può spiegare alla Commissione questa cosa?;

SALVATORE ANNACONDIA: Ultimamente ai carceri dell'Asinara e di Rebibbia sono stati fatti gli stessi ragionamenti e gli accordi erano quelli oramai. Si doveva lanciare un piccolo segnale, ma il segnale grosso si doveva lanciare dopo il 20 luglio, se avessero rinnovato il 4i bis che scadeva il 20 luglio. Non è che non volevo verbalizzare questo fatto, ma non me la sentivo di farlo perché mi auguravo che non succedesse niente. Ne parlai poi con l'investigatore, il dottor Maritati, che mi venne ad ascoltare: tutti gli attacchi bisognava farli ai musei .. .. ... Perché il museo fa parte della città, del paese, della storia. E adesso che sono passati all'attacco di più possono esserci grosse stragi, perché questa è gente.. .. ... perché i prossimi attacchi, di cui si parlò, saranno diretti alla Sardegna ... .. ... Bisogna attaccare la Sardegna perché c'è l'Asinara, perché i turisti non devono andare più, perché la distruzione ai musei.. ... ...Su queste stragi non faccio supposizioni: a me tocca parlare, signor presidente, poi, le indagini sono affidate a voi. Vi dico che va cercato neI4i-bis; .......

PRESIDENTE: Può spiegare bene tra chi avvenivano i discorsi relativi agli attentati ai musei?;

SALVATORE ANNACONDIA: E' coperto, signor presidente;

PRESIDENTE: Non tra quali persone fisiche. Appartenenti a quali organizzazioni?;

SALVATORE ANNACONDIA: Campania e Sicilia;

PRESIDENTE: Se invece il 4i-bis fosse stato revocato non ci sarebbero stati gli attacchi ai musei. E lei dice che però, se la cosa va avanti, questi alzano il tiro;

SALVATORE ANNACONDIA: Si, perché tutti sapevano che il 20 luglio sarebbe stato revocato". Più avanti (pag. 2537) il Commissario Fausti ritorna sull'argomento chiedendo maggiori precisazioni e "se ha avuto l'opportunità di esprimere queste preoccupazioni in altri colloqui con i magistrati inquirenti''. Annacondia aggiunge: "No, sto parlando adesso che sto fuori, che sto verbalizzando. Dissi ad un maggiore che non intendevo verbalizzare perché non mi sentivo di dire certe cose che potevano sembrare allucinogene. Il maggiore riferì queste mie parole al dottore Maritati. Quando mi è arrivata la prima notizia, è stato all'Asinara; per quel poco che stessimo all'Asinara, si parò del più e del meno, che bisognava .. e i napoletani dall'altra sezione, perché noi stavamo in una sezione dove eravamo pugliesi, calabresi e siciliani, era la prima sezione, mentre alla seconda sezione erano tutti napoletani. OMISSIS stessa fonte, seppi pure di là che quanto prima si doveva iniziare a mettere qualche bomba a qualche museo ... ... ... Perché già c'erano i guai di queste due stragi che erano avvenute a Palermo e allora le bombe si dovevano mettere davanti ai musei e non nelle ore che potevano causare la strage ... ... ... Però posso dire che a Maritati dissi proprio che entro il 20 di luglio, se non veniva abolito questo 41-bis, ci sarebbero state delle stragi e degli attacchi ai musei, perché colpendo il museo colpisce il cuore dello Stato, colpisce l'amore degli italiani, colpisce l'opinione pubblica; ...... ....

PRESIDENTE: .. E si era anche parlato di fare attentati fuori dalla Sicilia? Questi attentati ai monumenti?;

SALVATORE ANNACONDIA: Si, perché non è che in Sicilia ci siano bei monumenti. I monumenti belli sono a Roma, a Firenze, a Milano".

Orbene, rinviando, innanzitutto, a quanto già rilevato riguardo alla attendibilità generica del predetto collaborante (v. sopra Parte Prima della sentenza, Capitolo4, paragrafo 4.1), peraltro neppure contestata dalle difese (v., ad esempio, trascrizione della discussione della difesa degli imputati Subranni e Mori all'udienza del 9 marzo 2018), va osservato che il contributo conoscitivo offerto dall' Annacondia appare di estrema importanza perché risalente ad epoca in cui non era ancora emersa all'esterno la strategia mafiosa diretta a condizionare l'azione del Governo al fine di attenuare gli effetti del rigore carcerario deciso e pianificato all'indomani della strage di Capaci e poi attuato all'indomani della strage di via D'Amelio. Annacondia ha riferito di avere avvisato coloro che si occupavano della sua sicurezza dopo la decisione di collaborare con la Giustizia e, poi, anche il Dott. Maritati dell'intendimento di "cosa nostra", in accordo con le altre organizzazioni mafiose campane, calabresi e pugliesi, di compiere attentati a monumenti proprio per ottenere la modifica del regime del 41 bis. Ora, seppure non v'è un diretto riscontro delle confidenze anticipatamente fatte dall'Annacondia ai predetti soggetti rispettivamente nel gennaio e nel maggio del 1993, v'è, però, un importantissimo e sicuro riscontro, ancorché di natura indiretta, nel fatto che il predetto abbia, comunque, con certezza esplicitato quell'intendimento di "cosa nostra" già il 30 luglio 1993 in occasione della sua audizione dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia. Invero, in proposito rileva, da un lato, il fatto che l' Annacondia nella detta occasione non ha esitato ad indicare coloro che erano stati destinatari delle sue precedenti confidenze, così esponendosi al rischio, se non avesse detto il vero, di essere smentito e che, però, nessuna smentita è sopravvenuta, tanto che la propalazione dell'Annacondia è stata persino ripresa nella relazione redatta dal CESIS il 6 agosto 1993 nella quale, tra l'altro, si legge: "Le voci raccolte nel circuito carcerario dal pentito Annacondia sull 'intendimento di effettuare attentati terroristici confermerebbero la determinazione di questi ambienti a reagire ali 'attuale situazione, ritenuta disarticolante delle strutture criminali"; e, dall'altro, che, peraltro, ancora il 30 luglio 1993 (data dell'esternazione dell'Annacondia) non v'era alcuna certezza investigativa né sugli attentatori di Roma e Milano (e prima di Firenze), né sul movente di tali attentati ai monumenti, tanto che da molti anche qualificati investigatori si tendeva ad accreditare una pista internazionale. Soltanto successivamente sarebbe emersa la riconducibilità degli attentati di Firenze, Roma e Milano a "cosa nostra" e ciò, dunque, rafforza in modo determinante l'attendibilità del racconto fatto dall'Annacondia sulla matrice mafiosa e sulla causale dei detti attentati, perché antecedente, comunque, anche a volere prendere a riferimento la data del 30 luglio 1993 anziché quelle delle precedenti informai i confidenze, alla gran mole di acquisizioni probatorie che soltanto successivamente avrebbero definitivamente accreditato quella matrice mafiosa e quella causale (v. sentenze di Firenze di cui si dirà più avanti). Se così è, allora, deve ritenersi provato (non essendo, comunque, contestato dalle difese: v. trascrizione citata dell'udienza del 9 marzo 2018) che già nel settembre 1992 (e, quindi, in epoca certamente coincidente, anche a volere accreditare i tempi indicati da Mori e De Donno, con le sollecitazioni al dialogo dei Carabinieri pervenute a Riina per il tramite di Vito Ciancimino) "cosa nostra" ebbe a programmare la nuova strategia diretta a "uscire" dal territorio siciliano ed a colpire obiettivi che, per la loro notorietà anche internazionale e per la conseguente risonanza degli attentati, sarebbero serviti a far comprendere al Governo della Repubblica che soltanto con l'accettazione delle condizioni poste dall'organizzazione mafiosa sarebbero potuti cessare la contrapposizione frontale e, quindi, le stragi. Le propalazioni dell' Annacondia confermano, poi, che la principale delle condizioni poste da "cosa nostra" concerneva il regime del 41 bis e che, quindi, il messaggio ricattatorio della detta organizzazione mafiosa era indirizzato proprio al Governo della Repubblica cui competeva tanto l'applicazione che l'eventuale modifica di quel rigoroso regime carcerario. […] Che le stragi del 1993 fossero finalizzate a rafforzare il ricatto che "cosa nostra" aveva indirizzato nei confronti del Governo della Repubblica sin dall'estate dell'anno precedente allorché Riina aveva dettato le condizioni alle quali avrebbe potuto porre termine alle stragi, emerge con assoluta chiarezza, non soltanto dal complesso degli elementi probatori già sopra esaminati, ma anche dalle sentenze che, con giudizi ormai irrevocabili, si sono pronunziate su tutti gli attentati compiuti dall'associazione mafiosa in quell'anno al di fuori del territorio siciliano. Tutte tali sentenze sono state acquisite nel corso del dibattimento e possono essere, dunque, utilizzate nei limiti già indicati nella Parte Prima, Capitolo 3, paragrafo 3.1 di questa sentenza cui si rimanda. Ci si intende qui riferire, innanzitutto, alla sentenza della Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998 che per prima ha colto il nesso sussistente tra lo stato di "sofferenza" dei mafiosi per le condizioni carcerarie determinatesi dopo le stragi del 1992, alcune "improvvide iniziative" verificatesi nella stessa estate del 1992, il ricatto di "cosa nostra" allo Stato (per ottenere la modifica del regime del 41 bis, la chiusura delle carceri nelle isole e la modifica della legge sui "pentiti") e, infine, l'attacco "in grande stile" lanciato dall'organizzazione mafiosa contro quest'ultimo nel 1993 per piegare definitivamente la controparte ed ottenere i benefici richiesti. Si legge, invero, tra l'altro, in proposito, nella richiamata sentenza (v. pago 889): "Dall'esame di questo insieme di elementi si comprende che mai, prima del mese di luglio '92, vi fu "attenzione ", da parte di esponenti mafiosi siciliani, verso il patrimonio artistico e storico nazionale; che la reazione statale alle stragi del 1992 (soprattutto a quelle di Capaci e via D'Amelio) determinò uno stato di "sofferenza" nei singoli e nei gruppi che componevano l'universo mafioso siciliano; che, lentamente, si fece strada nella mente di alcuni mafiosi l'idea di ricattare lo Stato attraverso la minaccia alle persone e ai beni culturali; che alcune improvvide iniziative "istituzionali" rafforzarono questo convincimento; che nell'aprile 1993, per la prima volta in questo Paese (e, probabilmente, per la prima volta in Europa), prese corpo la risoluzione criminosa di un attacco in grande stile allo Stato, per piegarlo, con la forza, agli interessi della consorteria criminosa di appartenenza (la "mafia "). Lo scopo di questa campagna fu, genericamente, quello di ricostituire condizioni di "vivibilità" per l'associazione. Lo scopo generale prese corpo in una pluralità di scopi specifici e, in taluni casi, soggettivi. Scopi specifici furono l'abrogazione della normativa penitenziaria contemplante l'isolamento carcerario dei mafiosi; la chiusura di alcune carceri "speciali" (Pianosa e l'Asinara); la sterilizzazione della normativa sui "collaboratori di giustizia "; l'avvilimento della cultura dell'antimafia mediante l'eliminazione di un giornalista (a torto o a ragione, non interessa) considerato esponente di quella cultura" . La Corte di Assise di Firenze, poi, non manifesta alcun dubbio nel ravvisare gli effetti perversi che l'iniziativa del ROS intrapresa attraverso Vito Ciancimino, indipendentemente dalle sue ragioni e pur attenendosi alla sola ricostruzione operata in quella sede dai testimoni Mori e De Donno (per la quale, tuttavia, la Corte non ha omesso di rilevare alcune contraddizioni, leggendosi a pago 954: "non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, "in ginocchio" nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia potuto presentare a "cosa nostra" per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-/0-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di "Show down ", giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo"), aveva determinato in "cosa nostra": secondo quella Corte "rafforzò, nei capi mafiosi dell'epoca, il convincimento che la strage fosse pagante" (v. ancora pago 954). Ed ancora più chiara, sul punto, è la medesima sentenza laddove, nel prosieguo afferma che l'iniziativa del ROS nelle persone di un suo capitano, quindi De Donno, del suo vice comandante, quindi Mori, e del suo comandante, quindi Subranni, avendo tutte le caratteristiche della "trattativa", aveva definitivamente convinto i capi mafiosi che le ulteriori stragi avrebbero portato vantaggi all'organizzazione mafiosa nel senso dell'accoglimento delle condizioni poste dai capi medesimi per la cessazione delle stragi medesime: "Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria "trattativa ", ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all'attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall'altra parte dell'iniziativa. Quello che conta, invece, è come apparve, all'esterno e oggettivamente, l'iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di "cosa nostra ". Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno detto senz'altro alcune parole non equivoche.' l'iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una "trattativa "; l'effetto che ebbe sui capi mafiosi fil quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all'organizzazione" (pag. 954 cit.). Analoghe conclusioni sul collegamento tra la richiesta dei mafiosi di eliminazione del regime del 41 bis e le stragi del 1993 e, ancor prima, quale postulato necessario, alla C.d. "trattativa" dell'estate del 1992 sono state raggiunte all'esito di un più recente processo per le medesime stragi continentali svoltosi nei confronti di altro imputato individuato successivamente. Ci si intende riferire alla sentenza pronunziata dalla Corte di Assise di Appello di Firenze il 24 febbraio 2016 con la quale Tagliavia Francesco è stato condannato, appunto, per le stragi del 1993. Tale sentenza è divenuta irrevocabile in data 20 febbraio 2017 ed è stata acquisita ali 'udienza del 23 febbraio 2017. In essa, alle pago 118 e segg., riguardo al "movente della strategia stragista", si legge: “Va qui richiamata l'approfondita motivazione, conseguente all'altrettanto approfondita istruzione dibattimentale, che la sentenza di primo grado in sintonia con precedenti pronunce, riserva all'individuazione del movente delle stragi e a quello, strettamente connesso, della cd. trattativa Stato-mafia. Su quest'ultimo argomento condivisibilmente il primo giudice si è astenuto dall'emettere valutazioni definitive, consapevole della necessità di ulteriori esplorazioni investigative necessarie e opportune dato che per la sua vischiosità, il tema mal si prestava a essere compiutamente e definitivamente accertato nell'ambito della istruzione dibattimentale, connotata dal principio del contraddittorio, da maggior rigidità procedimentale e dalla pubblicità della fase dibattimentale in corso (v. sentenza di primo grado pago 426-511). Pur tuttavia si può considerare come dato storicamente e processualmente raggiunto, che la strategia stragista, strumento del tutto inconsueto per la compagine mafiosa tradizionalmente interessata più al controllo del territorio e di attività illecite lucrose, abbia rappresentato un salto di qualità strategico con l'attingimento di obiettivi diversi ed indifferenziati rispetto alla eliminazione di specifici avversari soggettivamente individuati, rispondente dunque non solo a impulsi utilitaristici di natura vendicativa, ma al raggiungimento di obiettivi di natura terroristica. All'elaborazione di tale strategia si giunse tuttavia per gradi, intravedendosi un vero e proprio distacco dal perseguimento dell'obiettivo immeditato, solo dopo il fallito attentato a Costanzo che effettivamente si colloca in posizione intermedia. Lo scopo prefissato di tutto ciò è stato individuato, attraverso puntigliosa ricostruzione nel corso della istruttoria dibattimentale di primo grado del presente procedimento, e da quelle dei processi che l'hanno preceduta, nell'eliminazione dell'art 41 bis dell'ordinamento penitenziario, all'epoca di recente conio, che oltre a rendere realmente più penosa la permanenza dei boss in ambito carcerario, avrebbe soprattutto scardinato il sistema comunicativo fino ad allora vigente, impedendo il flusso di contatti e dunque il mantenimento della influenza malavitosa all'esterno dei boss detenuti, fino a quel momento garantita dalla permeabilità dell'istituzione carceraria nella concreta gestione. Tutto ciò era già emerso per bocca dei collaboratori che avevano reso dichiarazioni accreditate dalle pronunce irrevocabili sulle stragi, richiamate dettagliatamente a pag. 430 della motivazione della sentenza di primo grado. La finalità ricattatoria è stata poi riversata da collaboratori anche nel corso del presente processo, Di Filippo Pasquale, Ciaramitaro Giovanni, Cannella Tullio, Pietro Romeo e Giovanni Brusca. Ed infine anche da Gaspare Spatuzza. Altro dato acquisito al processo è poi l'interesse e la vicinanza manifestati dai vertici mafiosi e profusi in raccomandazioni di voto, sul partito di Forza Italia (v. dichiarazioni di Brusca Giovanni, Grigoli Salvatore e Cannella Tullio) , dopo la rinuncia alla istituzione di una nuova formazione politica di diretta emanazione mafiosa, "Sicilia Libera". Molto più complessa e non definitiva invece è la conclusione alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo. in ordine alla esatta individuazione dei termini e dello stadio raggiunto dalla cd. Trattativa, la cui esistenza comprovata dall'avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi. è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto non avrebbe difatti senso alcuno se non ne fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obiettivi verso la presunta controparte. In altri termini la pressione e le retrostanti pretese alla cui soddisfazione era legata la cessazione degli attentati terroristici dovevano essere chiaramente comprese dagli interlocutori. Si può dunque considerare provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l'attentato di via d'Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso lo natura e l'obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione. Il programma delittuoso non si arrestò a maggior ragione dopo l'arresto di Riina la cui determinazione stragista fu raccolta da Bagarella”. La stessa sentenza prosegue, poi, con altre considerazioni concernenti fatti non ancora esaminati in questa sentenza (dal mancato rinnovo dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis al successivo fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma, sino ai contatti, attraverso Vittorio Mangano, con Dell'Utri) e che, pertanto, saranno riprese soltanto successivamente. Quel che qui rileva, intanto, è che nei processi conc1usisi con le sentenze sopra citate sono stati acquisiti molteplici elementi probatori che confortano e confermano gli elementi acquisiti in questa sede, che, a loro volta, provano, oltre ogni ragionevole dubbio, gli effetti che quell'improvvida iniziativa dei Carabinieri ebbe nel tramutare la pregressa strategia mafiosa di totale ed incondizionata contrapposizione allo Stato decisa dopo la sentenza del "maxi processo" in quella nuova di sfruttare la debolezza oggettivamente manifestata dallo Stato (perché, per i mafiosi, Mori rappresentava, appunto, lo Stato, stante ciò che lo stesso Mori aveva fatto loro intendere) allorché aveva chiesto loro quali fossero le condizioni per porre termine alle stragi e, quindi, stabilire, appunto, tali condizioni (prime delle quali non potevano che essere il miglioramento della condizione carceraria e l'eliminazione dell'ergastolo) e, poi, "ricordarle" ancora con le successive stragi del 1993 al fine di piegare definitivamente la resistenza dello Stato.

Sangue, bossoli e mare, scrive Tiziana Magrì su “Narco Mafie” il 22 set 2015. La mafia tarantina e la sua storia si articolano su un territorio complesso, strettamente legato al mare e a tutto quello che dal mare può venire. Ripercorriamone la storia recente allo scopo di ritrarre un territorio dove, al novero dei traffici illeciti, si è aggiunto il business portato dai migranti e dall’accoglienza a loro destinata sul suolo italiano. Il 3 luglio scorso, il governo, ha deciso per l’ennesima volta il futuro della città di Taranto, firmando l’ottavo decreto salva-Ilva. Un decreto che, se da un lato dovrebbe garantire 15 mila posti di lavoro, dall’altro salva ancora una volta un colosso aziendale che negli anni, dentro e fuori dalla fabbrica, è stato causa di malattie e morti. Ancora un volta, quindi, scoppia la bolla di sapone di quello che, ciclicamente, media e opinionisti chiamano “caso Taranto”; che d’altronde, suona ormai quasi “città criminale”. La morte di Taranto non è solo una questione del presente: la città sullo Jonio ha alle spalle un passato difficile (abbastanza recente), quello che va dalla fine degli anni Ottanta agli anni Novanta. È il tempo delle pistole fumanti, il periodo di piombo della criminalità tarantina. Una guerra cruenta che ha lasciato sull’asfalto, tra boss, affiliati e vittime innocenti 169 persone. Erano gli anni dei fratelli Modeo (fratellastri, in verità, stesso padre ma madri diverse): Antonio, il Messicano; e poi Riccardo, Giancarlo e Claudio. Sono stati loro a regnare sulla città. Soprattutto Antonio Modeo, in prima fila in Lotta Continua durante gli anni Settanta, ideatore prima e creatore poi della mala tarantina. Una mafia moderna, che vuole uscire dal provincialismo per diventare borghese. Modeo, faccia da duro, si presentava come un uomo ambizioso e intelligente. Soprannominato il Messicano per quella sua somiglianza con Charles Bronson, attore protagonista del film Il Giustiziere della Notte. Correva l’anno 1986 e il clan governava incontrastato sul tarantino. Al Messicano, affiliato alla Nuova camorra pugliese da Raffaele Cutolo in persona e Aldo Vuto, non manca la vena imprenditoriale: con la ditta Italferro Sud monopolizza il mercato della rottamazione e quello della mitilicoltura grazie alla Cooperativa Praia a Mare, estendendo la propria influenza anche fuori dai confini della Puglia. Antonio Modeo, con i suoi fratelli, viene arrestato e processato dal Tribunale di Bari. Ma tra loro i rapporti non sono facili. Sono in guerra per contendersi il monopolio del mercato della droga. Una frattura insanabile, che determina presto cambiamenti di alleanze e strategie tra i due clan neonati: da un lato Antonio, sostenuto dai boss Salvatore De Vitis, Matteo La Gioia, Orlando D’Oronzo, Cataldo Ricciardi e Gregorio Cicale; dall’altro i fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio, appoggiati dal boss dell’alto barese Salvatore Annacondia. È da qui che prende avvio la lunga e sanguinosa faida che trasformerà Taranto. Il 21 agosto 1989, su consenso di Cutolo, viene ammazzato Paolo De Vitis, vecchio capo della mala tarantina. Il giorno dopo, sei colpi di pistola colpiscono a morte Cosima Ceci, madre dei Modeo, nella sua casa al quartiere Tamburi. In questa trama, nell’incapacità di spezzare il filo, si delinea, chiaro, il legame grazie al quale politica e mafia si intrecciano. La Commissione Antimafia porta l’attenzione su Taranto e le sue vicende. Amministratori come Alfonso Sansone, Giancarlo Cito e l’assessore A. F., politico di scuola democristiana, finiscono sotto osservazione. Il malaffare politico è trasversale. Nel 1995, Giancarlo Cito viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e indagato per concorso in omicidio (poi assolto) per l’uccisione del boss Matteo La Gioia (rivale del clan Modeo). Cito, futuro sindaco di Taranto e parlamentare, venne condannato nel 1997 in concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi rapporti con la Sacra Corona Unita. Sarà Salvatore Annacondia, boss della malavita della zona nord del barese (e le cui rivelazioni hanno raccontato molto della mafia pugliese), affiliato al clan dei fratelli Modeo, a rivelare la complicità fra Cito e i Modeo. Il 16 agosto 1990, a Bisceglie, mentre rincasava da una giornata in spiaggia, viene freddato Antonio Modeo, all’epoca latitante. Il quadro della violenta malavita tarantina dell’era Modeo conoscerà l’inizio della sua fine proprio con la morte del Messicano, voluta da Annacondia, con la complicità, non certo di secondo piano, degli stessi Gianfranco e Riccardo Modeo. Da questo momento comandano loro, e dal carcere dirigono la guerra contro il nuovo boss Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis (subentrato al padre Salvatore). La città è in mano ai killer. Tutta l’Italia ha gli occhi puntati su Taranto. Inizia così la caccia ai nuovi mandanti ed esecutori. Inizierà la grande stagione dei blitz e del maxi-processo Ellesponto. I fratelli Modeo (Riccardo, Gianfranco e Claudio), Vincenzo Stranieri, braccio destro di Rogoli, Salvatore Annancondia, e altri esponenti criminali vengono condannati al 41bis, al carcere duro, capo d’accusa: associazione di stampo mafioso. Durante la trattativa Stato-mafia anche i fratelli Modeo parlano. Dal declino dei Modeo emergono cellule indipendenti. Da allora, in molti sono stati scarcerati o ammessi a misure alternative e per la maggior parte rientrati nel vecchio ruolo di gestori di attività illecite. Rispetto agli anni Novanta è la logica criminale a essere cambiata: non più contrasto, ma collaborazione. Identica è invece la vocazione autonoma della criminalità tarantina. Oggi come allora non ha instaurato veri e propri sodalizi con altri soggetti criminali. Non c’è la recrudescenza degli anni Ottanta e Novanta. Piuttosto un esercizio costante di potere sul territorio: l’estorsione, l’usura e il contrabbando sono fenomeni diffusi e più o meno equamente ripartiti tra i diversi clan. La nuova dimensione della mafia tarantina sono gli investimenti nell’economia legale di denaro illecitamente accumulato. Bar, supermercati e, su tutto, sale da gioco e centri scommesse. L’aspirazione è di entrare nei luoghi decisionali. Nell’ultima maxi-operazione degli agenti della squadra mobile di Taranto, condotta in collaborazione con la Dda di Lecce e denominata Alias, sono emersi chiari i rapporti tra mafia e politica. Il clan che tira le fila è quello capeggiato da Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis, entrambi già condannati nel processo Ellesponto per il reato di cui all’art. 416 bis, ed entrambi in libertà dopo oltre vent’anni. I due avevano costruito un’associazione dedita a rapine, estorsioni e traffico di stupefacenti ed erano pronti a scatenare una nuova guerra, anche per vendicarsi di chi negli anni della reclusione gli ha voltato le spalle. Tra i 52 arresti scattati con l’operazione Alias, si fa notare quello di Fabrizio Pomes, ex-gestore del Centro sportivo Magna Grecia ed ex segretario provinciale del Nuovo Psi. Pomes, secondo gli inquirenti, era un fiancheggiatore dell’organizzazione dei boss D’Oronzo-De Vitis per conto dei quali creava cooperative per la gestione della struttura sportiva di proprietà comunale. Nel prosieguo dell’inchiesta, Alias 2, è emerso il nome della neo consigliera provinciale Giuseppina Castellaneta, moglie del fratello di Nicola De Vitis e accusato di estorsione ai danni di Gino Pucci, ex presidente dell’Amiu, l’azienda municipalizzata di gestione dei rifiuti. I clan del vecchio ordine con al seguito nuove leve vogliono, ora come ora, giocare pulito e mettere le mani sull’imprenditoria locale che resiste alla crisi. L’ingerenza della criminalità nel comparto dei lavori pubblici si presenta sotto molteplici aspetti. Un esempio illuminante: i mezzi per la movimentazione terra, che vengono presi a nolo da un’azienda esecutrice dei lavori, sarebbero messi a disposizione da imprese direttamente riconducibili ai clan. In provincia (vero epicentro del potere mafioso è la zona Manduria/Sava), dove i capi indiscussi del litorale jonico fanno ancora riferimento a Vincenzo Stranieri, sottoposto al carcere duro, capo assoluto dello spaccio di stupefacenti su quasi tutto il territorio tarantino. Il tristemente noto pluri-omicidio del 17 marzo dello scorso anno, in cui furono uccisi Domenico Orlando, pregiudicato in semilibertà, la sua compagna Carla Fornari e il suo figlioletto di tre anni, Domenico Petruzzelli, ha dato prova di come la contesa del mercato della droga sia in fase di riassestamento con l’uscita dalla galera dei vecchi leader e la smania dei nuovi intraprendenti boss. Sono proprio le nuove leve ad andare alla ricerca di nuovi accordi e alleanze. I D’Oronzo/De Vitis, ad esempio, sono in relazione con i Mollica di Africo, con cui stanno stringendo accordi per l’approvvigionamento di sostanze stupefacenti dai canali del Sud America, Africa e Sud-est asiatico.

·        La Mafia Lucana.

MAFIA E URANIO, LE CARTE LUCANE SEGRETE. LEO AMATO su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2022.

Dopo 21 anni rivelati i contenuti dei verbali sulle infiltrazioni in Basilicata e il ruolo di tre banche locali nel mirino della strategia della ’ndrangheta, coperti da riserbo i documenti su Rotondella e il deposito di uranio di Trisaia

POTENZA – Ventuno anni dopo si può rivelare che c’è stato un preciso momento storico in cui la Direzione distrettuale antimafia di Potenza ha preso di mira una rete di banche locali, non più esistenti, sospettata di aver trasformato la Basilicata nella centrale di riciclaggio per i clan di ‘ndrangheta delle regioni vicine, ma sulle inchieste sull’«uranio» di Trisaia di Rotondella no, non è ancora il tempo per fare piena luce.

C’è anche un capitolo oscuro della storia lucana nelle migliaia di pagine per le quali nei giorni scorsi la commissione bicamerale Antimafia ha ultimato le procedure di desecretazione e pubblicazione, perché siano a disposizione di storici e ricercatori.

I VERBALI DEL 2001 SULLA ‘NDRANGHETA IN BASILICATA E L’URANIO DI TRISAIA

Si tratta, in particolare, dei verbali della missione condotta a Potenza, a febbraio del 2001, con l’audizione delle principali cariche istituzionali, più inquirenti e rappresentanti delle forze dell’ordine, sulla situazione della criminalità in regione.

Di fronte al presidente della commissione, il senatore dei Democratici di sinistra Giuseppe Lumia, i senatori Euprepio Curto (An) e Luigi Lombardi Satriani (Ds), più il deputato potentino Peppino Molinari (Ppi) e il collega pugliese Nichi Vendola (Rc), sono stati sentiti, in particolare, l’allora procuratore distrettuale Antimafia di Potenza, Giuseppe Galante, e il pm Vincenzo Montemurro, tuttora in servizio nel medesimo ufficio giudiziario.

All’epoca su buona parte delle loro dichiarazioni la commissione decise di apporre quello che in gergo viene chiamato «segreto funzionale», in quanto riferito alle finalità istituzionali della commissione medesima, per distinguerlo dal «segreto istruttorio», che invece viene apposto su richiesta dell’autorità giudiziaria.

A luglio del 2019, quindi, la commissione presieduta dall’ex M5s Nicola Morra ha avviato una rivalutazione generalizzata di tutto il materiale coperto da «segreto funzionale» riferito alla XIII legislatura, quella rimasta in carica dal 1996 al 2001, avvalendosi dell’ausilio di un pool di magistrati, consulenti e finanzieri.

LA DESECRETAZIONE PERMETTE DI SCOPRIRE LE RIVELAZIONI DI GALANTE E MONTEMURRO

Di qui la desecretazione e la pubblicazione, che oggi permette di leggere, per la prima volta, buona parte di quanto venne riferito da Galante e Montemurro e coperto da “omissis” nei verbali successivamente diffusi. Inclusa una serie di circostanze oggetto di attenzione dei pm, che a un certo punto avevano messo sotto la lente 3 istituti di credito locali sospettando operazioni di riciclaggio dei soldi dei clan. Il tutto partire a dalle rivelazioni di un collaboratore di giustizia, il pignolese Gennaro Cappiello. Lo stesso Cappiello che negli anni successivi sarebbe finito nella bufera per le accuse lanciate su due gialli potentini di quegli anni come la scomparsa di Elisa Claps, nel 1993, e il duplice omicidio dei coniugi Gianfredi, nel 1997.

«Un collaboratore di giustizia ha affermato essere a sua personale conoscenza che tutti i soggetti protestati, appartenenti alla criminalità organizzata calabrese, pugliese e campana, avevano la possibilità in tre istituti lucani (…), di aprire conti correnti».

LE BANCHE FINITE NEL MIRINO DELLA NDRANGHETA IN BASILICATA

Dunque non solo la Banca di credito cooperativo della Valle del Melandro, per cui nei mesi successivi all’audizione sarebbero scattate le misure cautelari, ma il processo si è arenato, nel 2012, con la prescrizione della totalità delle accuse. Ma anche altri due istituti di credito che Montemurro menziona, ma che non risultano essere finiti al centro di processi simili a quello della Valle del Melandro. Ovvero la «Banca di Ruoti», riconducibile alla famiglia Salinardi, noti imprenditori del posto che spesso hanno ricoperto incarichi politici a livello comunale, e persino la Banca Mediterranea, della famiglia potentina dei Somma.

Nei verbali, ovviamente, non c’è traccia dell’esito degli accertamenti svolti, da cui non devono essere mersi sufficienti elementi di riscontro alle accuse del pentito.

Ma a un certo punto il pm Montemurro non manca di far notare ai parlamentari l’assenza di un numero sufficiente di investigatori per indagare sugli ultimi due istituti di credito.

«Il Gico, che dovrebbe essere la punta di diamante delle nostre investigazioni… – spiega il pm – al di là della composizione numerica che è di dieci elementi, tre, molto validi, stanno lavorando solo sulla banca della Val Melandro mentre gli altri sette sono persone che prima erano, piantoni e che adesso si trovano a fare i marescialli del Gico. Di fatto, quindi, al di là di tre unità, a Potenza il Gico non esiste. In questa fase, a noi servirebbe il potenziamento non canto numerico ma qualitativo della presenza».

OLTRE ALLE INFILTRAZIONI DI ‘NDRANGHETA IN BASILICATA C’È LA QUESTIONE URANIO

Poi c’è il capitolo sull’uranio e le trame di possibili traffici di materiale radioattivo che a lungo hanno avvolto il centro di ricerche dell’Enea di Rotondella.

«Presi dalla questione che ci sta più a cuore, quella del riciclaggio, abbiamo dimenticato di parlarvi di un’altra questione che riteniamo assai importante, quella dell’uranio».

Così Lumia, sul finire dell’audizione, richiama il procuratore di Potenza e il pm Montemurro. Qui però la parte desecretata del verbale si interrompe con un nuovo “omissis”.

Tra i verbali desecretati sul tema c’è solo quello dell’allora governatore Filippo Bubbico, che aveva provato a sgombrare il campo da dubbi e sospetti di ogni tipo.

«Mi sono già occupato della questione Enea-Trisaia perché il procuratore presso la procura di Matera, dottor Pace, ha sviluppato un’azione significativa sul versante delle illegalità e delle saldature criminali con le ecomafie». Queste le parole di Bubbico. «Proprio in relazione al tema dei traffici illeciti dei rifiuti, abbiamo affrontato il tema della Trisaia. Mi pare opportuno ed evidente che io non conosca i risultati delle indagini, ma la mia impressione è che questo sia un tema chiuso: oggi non esistono pericoli, né vedo le condizioni perché il sito di Trisaia possa essere un luogo in cui gestire operazioni illegali».

«Alla presidenza dell’Enea e al Ministero dell’industria, presso il quale abbiamo trovato grande disponibilità – aveva concluso l’allora governatore -, già negli anni passati abbiamo posto la questione dello smaltimento dei rifiuti radioattivi lì presenti, in modo particolare alcuni metri cubi di rifiuti liquidi. Circa le barre di rifiuto radioattivo, abbiamo preso atto dell’esistenza di un problema di collocazione in condizione di sicurezza sul piano nazionale. Mi sento di poter escludere che oggi la Trisaia possa essere oggetto di azioni illegali o punto terminale di operazioni di questa natura».

·        La Camorra.

Camorra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Attività

Narcotraffico, racket, contraffazione, riciclaggio di denaro, estorsione, contrabbando, corruzione, omicidio, gioco d'azzardo, usura, ricettazione, rapina, frode e gestione dei rifiuti.

Manuale

La camorra è un'organizzazione criminale di connotazione mafiosa originaria della Campania e una delle più antiche e potenti organizzazioni criminali in Italia, risalente al XVII secolo. La struttura organizzativa della Camorra è divisa in singoli gruppi chiamati clan, diversi tra loro per tipo di influenza sul territorio, struttura organizzativa, forza economica e modus operandi. Ogni "capo" o "boss" è il leader di un clan, in cui ci possono essere decine o centinaia di affiliati, secondo il potere e la struttura di ogni clan. Le principali attività della camorra sono il traffico di droga, il racket, la contraffazione e il riciclaggio di denaro. Inoltre, non è insolito che i clan della Camorra si infiltrino nella politica delle loro rispettive aree.

Secondo il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, durante un discorso del 2021 della Commissione parlamentare antimafia, le forze di polizia sono concentrate sui due principali cartelli cittadini, il clan Mazzarella e l'Alleanza di Secondigliano. Quest'ultima è un'alleanza dei clan Licciardi, Contini e Mallardo.

Etimologia del termine.

«Dissi di una simil setta. La camorra infatti, nel significato generale del vocabolo, designa ben altro che l'associazione [...] Il vocabolo si applica a tutti gli abusi di forza o di influenza.

Far la camorra, nel linguaggio ordinario, significa prelevar un diritto arbitrario e fraudolento.»

(Marc Monnier, La camorra: notizie storiche raccolte e documentate, 1862)

Le ipotesi sull'etimologia del termine sono varie:

Secondo l'enciclopedia Treccani e il linguista Massimo Pittau, sarebbe legato per similitudini fonetiche e semantiche al nome dell'antica città biblica di Gomorra. Il passaggio semantico sarebbe avvenuto per traslazione attraverso il significato intermedio di vizio/malaffare e quindi di delinquenza/malavita.

Secondo lo studioso Abele De Blasio, professore all'Università di Napoli, deriverebbe dal termine Gamurra del XIII secolo, indicante un'associazione di mercenari sardi al soldo di Pisa, come riporta il primo tomo del Codex Diplomaticu Sardiniae.

Un'altra corrente sostiene sia connesso ad una bisca frequentata dalla malavita napoletana del XVII secolo.[4]

In un documento ufficiale del Regno di Napoli risalente al 1735, troverebbe riscontro nel significato di tassa sul gioco, imposta dovuta ai protettori dei locali dediti al gioco d'azzardo.

Si pensa anche possa fare riferimento alla gamurra che indossavano i lazzaroni napoletani, un indumento simile alla chamarra spagnola, tipico dell'Italia tardo-medievale e rinascimentale. Nelle antiche commedie teatrali si ritrova spesso questo termine ad indicare un abito o una giacchetta molto corta.

Altri affermano che andrebbe connesso al termine morra, ovvero banda (o anche gruppo o frotta). Per cui, chi ne avesse fatto parte sarebbe stato c' 'a morra (con la banda). Morra, comunque, può significare anche rissa.

Secondo qualche autore campano, potrebbe inoltre derivare da ca' morra e cioè capo della morra. Nella Napoli settecentesca, infatti, il guappo di quartiere doveva risolvere le dispute tra i giocatori della morra (tipico gioco di strada).

Storia.

Le speculazioni sull'origine.

L'ipotesi più accettata vuole che il termine sia nato direttamente in Campania, intorno al XVI-XVII secolo, trovando la sua radice etimologica originaria nello stesso dialetto di Napoli e venendosi a formare dalla giunzione delle parole c' 'a-morra (con la morra), in riferimento all'omonimo gioco di strada. In virtù delle notizie storiche accertate, è assai condiviso datare ai primi anni del XIX secolo la nascita della camorra partenopea intesa come organizzazione criminale segreta, «una sorta di massoneria della plebe napoletana».

Secondo un'altra ipotesi storica, la società segreta che diede poi origine alla Bella Società Riformata si sarebbe invece formata nell'isola di Sardegna, a Cagliari, nel corso del XIII secolo sotto il nome di Gamurra e poi si sarebbe trasferita e diffusa a Napoli intorno al XIV secolo.

A detta di Marc Monnier, rettore della Università di Ginevra e tra i primi ad aver dedicato un testo sulla camorra e ad averla analizzata, il termine camorra sarebbe derivato da gamurra e avrebbe avuto origine non napoletana, bensì sardo-pisana: la prima citazione del termine si ha infatti in un documento medievale pisano. Una delle tante ipotesi storiche della camorra vede questa nascere e svilupparsi in periodo medievale nei quartieri portuali della città di Cagliari intorno al XIII secolo, quando era necessario per Pisa, che era allora riuscita a dirigere de facto la politica locale, controllare gli isolani ed evitare che questi potessero unirsi e creare sommosse; Pisa avrebbe così ingaggiato dei sardi facendoli costituire in bande di mercenari armati, il cui compito era quello di pattugliare i diversi borghi e mantenere così l'ordine pubblico]. Tale modalità di contenimento dei conflitti e gestione di potere sarebbe passata in seguito dalle mani dei dominatori pisani a quelle dei governatori aragonesi: protettorato, gabelle, gioco d'azzardo e tangenti avrebbero fornito loro le entrate necessarie per mantenere in piedi tale organizzazione malavitosa, composta e diretta da capibastone della plebe. Questa ipotesi storica vuole che i gruppi di mercenari sardi abbiano, a un certo punto, lasciato Cagliari e la Sardegna alla volta della Campania, stabilendovisi nel XVI secolo, durante il governatorato spagnolo. A differenza delle altre organizzazioni criminali campane, diffuse soprattutto nell'entroterra rurale, tale organizzazione gruppale attecchì velocemente nel territorio partenopeo, tra la popolazione locale nei quartieri più popolosi, evolvendosi autonomamente in una struttura di famiglie (o clan) capitanate da criminali provenienti dai più bassi strati della società napoletana.

Questi, dando vita alla camorra propriamente detta, oltre a fungere da mercenari pagati dagli alti ceti sociali per esercitare il controllo delle bische, si rendevano allo stesso tempo anche autori di soprusi, abusando del potere loro conferito. Queste bande infatti commettevano illeciti ai danni dei popolani, come raccontato in un documento dell'epoca:

(NAP)

«facimme caccià l’oro de’ piducchie»

(IT)

«ricaviamo denaro dai pidocchi»

(dal libro "La camorra" di Marco Monnier)

I progenitori della camorra ottocentesca esistevano nel XVII secolo ed erano detti compagnoni che si muovevano in quattro e vivevano alle spalle di prostitute, controllando il gioco d'azzardo e facendo rapine. In ogni quartiere napoletano c'era un gruppo di compagnoni di cui era membro anche qualche nobile. Il loro luogo d'incontro era la taverna "del Crispano", presso l'attuale Stazione Centrale di Napoli. Anche il canonico Giulio Genoino, ispiratore della rivolta di Masaniello, si faceva proteggere da compagnoni. Vi erano pure i cappiatori, ladri di strada, e i campeatori, rapinatori con coltelli. Alla fine del XVII secolo a Napoli ci furono 1338 impiccati, 17 capi giustiziati, 57 decapitati, 913 condannati alla galera. Nel periodo del vicereame spagnolo il criminale più noto fu Cesare Riccardi, detto "abate Cesare", a capo di una banda di criminali.

La carestia del 1764.

Il medico e storico napoletano Salvatore De Renzi (1800 - 1872), in un saggio pubblicato nel 1868 sulla carestia nel Regno di Napoli del 1764, imputa alla presenza di camorristi una delle cause della carestia, poiché questi, intervenendo ad accaparrare a fini speculativi il grano ed altri generi alimentari, ne turbavano il libero mercato: "nel seno stesso delle amministrazioni si costituivano numerose consorterie di camorristi, i quali cercavano di profittare dei pubblici bisogni e le carestie avvenivano allora come effetto di deplorabili sistemi annonari e quale conseguenza della immoralità degli uomini ed erano meno scusabili della stessa peste".

La Bella Società Riformata

Nel 1820 la "Bella Società Riformata" si costituì ufficialmente, riunendosi nella chiesa di Santa Caterina a Formiello a Porta Capuana; i camorristi napoletani definivano la loro organizzazione anche come "Società della Umirtà" o "Annurata Suggità" ("Onorata Società") per alludere alla difesa del loro "onore", che consisteva nell'omertà (Umirtà), cioè il codice malavitoso del silenzio e dell'obbligo a non parlare degli affari interni all'organizzazione con la polizia.

Per accedere all'organizzazione era previsto un vero e proprio rito di iniziazione definito "zumpata" (o dichiaramento) che consisteva in una sorta di duello rusticano. Questo si spiega soprattutto con il fatto che i camorristi ebbero sempre l'ambizione di imitare i nobili. Impiegando il coltello o la spada cercavano di dimostrare il loro "valore" in questa sorta di scontri. Le fasi preliminari della zumpata erano l'appìcceco, il litigio, il ragionamento, tentativo di composizione della controversia, banchetto e poi duello. Se il combattimento all'arma bianca si poteva tenere in una qualsiasi zona affollata l'utilizzo di una pistola richiedeva, invece un luogo solitario.

In origine il sodalizio si occupa principalmente della riscossione del pizzo da alcuni dei numerosi biscazzieri, che affollano le strade dei quartieri popolari di Napoli. Ben presto, però, conseguentemente all'unità d'Italia, il fenomeno dilaga e le estorsioni iniziano a danneggiare la quasi totalità dei commercianti. Nonostante le violenze e i crimini perpetrati, i camorristi godono della benevolenza del popolo al quale, in una situazione come quella post-unitaria di totale disinteresse delle istituzioni per i problemi sociali, garantiscono un minimo di "giustizia".

Tra le principali fonti di risorse economiche della camorra si ricordano:

Il “Barattolo” che era la percentuale di circa il 20% sugli introiti dei biscazzieri;

lo “Sbruffo” era, invece, la tangente su tutte le altre attività (dai facchini ai venditori ecc.);

un particolare regime di tassazione per la prostituzione;

il gioco piccolo (cioè il lotto clandestino)

Sotto il regno di Francesco I la camorra godette del favore della casa reale, ad essa erano anche affiliati Michelangelo Viglia valletto del re e la cameriera della regina, Caterina De Simone

Nei primi anni del regno di Ferdinando II divenne famoso Michele Aitollo detto "Michele 'a Nubiltà', costui i giovedì presiedeva una sorta di corte di giustizia in un basso napoletano, per dirimere litigi fra persone del popolo minuto, e talvolta per questa sua funzione pacificatrice si pronunciava anche su persone inviategli da Luigi Salvatores, commissario di Pubblica Sicurezza del rione Porto, e perfino Gennaro Piscopo il prefetto di polizia. Intorno al 1840, Aniello Ausiello di Porta Capuana spadroneggiava. I guadagni alla sua paranza arrivavano dalla partecipazione alle periodiche aste organizzate dall'esercito, che vendeva in quel modo i cavalli di scarto.

Secondo Marc Monnier, "la camorra fu rispettata, usata spesso sotto i Borbone fino al 1848. Essa formava una specie di polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che occupavasi soltanto dei delitti politici. [...] Inoltre la camorra [...] era incaricata della polizia delle prigioni, dei mercati, delle bische, dei lupanari e di tutti i luoghi malfamati della città". Con lo scoppio della rivoluzione infatti alcuni importanti camorristi (quali Luigi Cozzolino detto il "Persianaro", Michele Russomartino detto il "Piazziere", Andrea Esposito detto “Andreuccio di Porta Nolana” e addirittura il capo della camorra del quartiere Mercato Salvatore Colombo, entrato nella setta dell’Unità Italiana) passarono dalla parte dei liberali nella lotta anti-assolutista, partecipando agli scontri di piazza. Ciò determinerà le prime repressioni su vasta scala della camorra a Napoli, portate avanti dai ministri della polizia Gaetano Peccheneda prima (nel 1849-50) e Luigi Ajossa poi (nel 1859-60). La crescente attenzione della polizia borbonica per ragioni politiche porterà a scoprire attività estorsive dei camorristi su molteplici ambiti, oltre a quelli originari nelle carceri e sul gioco: dai vari mercati alimentari, ai servizi di trasporto, all’oreficeria e al contrabbando. In questi anni si consumerà anche il primo delitto eccellente con l'omicidio in carcere dell'ispettore Michele Ruggiero per la rottura dell'equilibro tra camorra e funzionari dello Stato borbonico.

Il ruolo nell'unificazione italiana

Quando nel 1860, Garibaldi sbarcò in Sicilia, la camorra ne approfittò appoggiando i Savoia contro la dinastia regnante dei Borbone. La "ricompensa" nella politica camorristica fu concordata con i malavitosi dal prefetto di Polizia nominato da re Francesco II delle Due Sicilie, Liborio Romano, il quale lasciò il controllo di Napoli alla camorra durante la fase di transizione del regno, al fine di evitare possibili rivoluzioni incoraggiate dai Borbone in esilio, con conseguente saccheggio della città, così come già avvenuto nel 1799 e nel 1848 Il nuovo ministro degli interni nel nuovo governo luogotenenziale, Silvio Spaventa, coadiuvato dal nuovo prefetto di Polizia Filippo De Blasio, ruppe con la camorra e cercò di estirpare il fenomeno e ripristinare la legalità[

«Il 17 novembre furono arrestati per misura di polizia e condotti a Castel Capuano undici camorristi su disposizione del nuovo prefetto Filippo De Blasio [...]. A partire dalla seconda metà di novembre iniziò così, durante la luogotenenza Farini e sotto la guida di Silvio Spaventa, un nuovo ciclo repressivo (rimasto paradigmatico come il primo rigoroso dello Stato liberale), che avrebbe portato lungo i mesi successivi all’arresto di molti camorristi in vari punti della città e dell’immediata provincia, e alla contestuale epurazione delle forze di polizia.»

(Antonio Fiore, Camorra e polizia nella Napoli borbonica (1840-1860))

Nel 1911, si tenne a Viterbo il processo Cuocolo per l'omicidio di Gennaro Cuocolo e Maria Cutinelli e, grazie alle confessioni del camorrista pentito Gennaro Abbatemaggio, vennero inflitte severe pene ai maggiori esponenti dell'organizzazione. La sera del 25 maggio 1915, nelle Caverne delle Fontanelle, nel popolare rione Sanità, i camorristi, presieduti da Gaetano Del Giudice, decretarono lo scioglimento della Bella Società Riformata; in realtà l'associazione era già stata decimata nel corso del processo Cuocolo.

Il XX secolo, il ventennio fascista e il secondo dopoguerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Camorra newyorkese, Pasquale Simonetti, Assunta Maresca e Fascismo.

Mussolini sottovalutò il fenomeno camorristico, tanto che concesse la grazia a molti dei camorristi condannati a Viterbo, sicuro che nel nuovo assetto dittatoriale questi non avrebbero costituito più un pericolo. Molti delinquenti diventarono squadristi entrando a far parte delle squadre fasciste ed ebbero in cambio il silenzio sul loro passato. Nel 1921, proliferano i sindacati padronali da contrapporre a quelli operai. Il fascismo usa una tattica abile. Usa i camorristi per reprimere la delinquenza, con il miraggio di cancellare loro i reati e assicurare impieghi. In molti si prestano a questo disegno.

Negli anni di crescita del fascismo, quando nel partito di Mussolini a Napoli si fronteggiano il movimentismo di Aurelio Padovani con le tendenze istituzionali di Paolo Greco, nei diversi quartieri gli appoggi malavitosi non sono chiari. E, naturalmente, per animarli, servono squadre armate pronte a tutto, che non hanno nulla da perdere. Il primo sindacato padronale è quello dei camerieri. Nasce con l'appoggio di Guido Scaletti, piccolo camorrista della zona dei Quartieri Spagnoli. Arturo Cocco, ad esempio, camorrista del quartiere Sanità aveva fiutato il vento e si era gettato tra le braccia del regime. Il suo ascendente nella sua zona d'origine poteva ben servire a controllare che tutto andasse a dovere e la polizia si avvantaggiava dei servigi di Cocco. Un altro guappo violento, Marco Buonocuore, sparò a un operaio antifascista e ottenne buoni incarichi pubblici. L'iscrizione al Partito Fascista era comunque agevolata, senza tener conto della fedina penale. Al quartiere Sanità, Salvatore Cinicola, detto macchiudella con un passato da guappo, fu ben lieto, in cambio di favori e onori, di diventare informatore della polizia, facendo, come amava ripetere da veleno della malavita. Il 25 luglio del 1943, con la caduta di "Mussolini", la gente del quartiere tentò di linciarlo. Fu proprio Luigi Campoluongo a salvarlo. La vita gli fu risparmiata, ma la gente lo costrinse comunque a girare per via dei Vergini tutto imbrattato di sterco. Anche a Bagnoli ci furono personaggi violenti impegnati a tenere a freno gli operai dell'Ilva (poi Italsider): i fratelli Vittorio e Armando Aubry. In cambio, fino al 1935, ottennero l'appalto delle operazioni di carico e scarico ai pontili della fabbrica. Un controllo che consentiva anche buoni guadagni con il contrabbando, che passava attraverso quella piattaforma. Poi, cominciò la stretta del regime. La mano ferma contro la criminalità, che agli inizi era servita al fascismo per affermarsi. Centinaia di delinquenti, piccoli e grandi, vennero inviati al confino. L'obiettivo era duplice: arrestare i camorristi scomodi, restii ai patti con la polizia: dare all'opinione pubblica dimostrazione di una mano ferma contro la criminalità, legando ancora di più al regime i delinquenti più morbidi. Scrive Paolo Ricci: "La camorra aveva riacquistato parte nella sua consistenza nel marasma del dopoguerra. Tuttavia essa non aderì in un primo momento che in minima parte all'invito dei fascisti.[...] Fu un periodo confuso, in cui in certi quartieri (ad esempio ai Vergini) la camorra (o quello che rimaneva, trasformata, adattata ai nuovi tempi, di essa) si alleò con il popolo nella lotta contro le squadracce d'azione e in altri quartieri, specie in quelli di periferia, invece, i guappi facevano parte delle squadre di azione [...] Nelle fabbriche i padroni e i dirigenti puntavano sui guappi per spezzare l'unità operaia.

A Casignana spararono contro i contadini che avevano occupato le terre. Nell'immediato dopoguerra, il soggiorno obbligato a Napoli, imposto dal governo degli U.S.A. al boss di Cosa nostra statunitense Lucky Luciano contribuì al superamento della dimensione locale del fenomeno e all'inserimento dei camorristi campani nei grandi traffici illeciti internazionali, quali il contrabbando di sigarette in collegamento con il clan dei marsigliesi. Tuttavia, in questa fase, la camorra non ha la struttura verticistica che la caratterizzava nei secoli precedenti, né tanto meno ha un potere decisionale sugli affari che svolge con la mafia, per i quali molto spesso è solo un vettore e si presenta come una pluralità di famiglie più o meno legate tra loro. È ancora l'epoca della "camorra dei campi" e dei mercati. Infatti, una delle figure di spicco del periodo è Pasquale Simonetti, (detto Pascalone 'e Nola per il suo grosso fisico e per la sua origine), un camorrista che controllava il racket dei mercati generali di Napoli, la cui uccisione sarà poi vendicata da sua moglie Assunta Maresca (detta "Pupetta"), il cui processo penale avrà un'eco di livello nazionale.

Gli anni dai '70 ai '90: dalla Nuova Camorra Organizzata al clan dei casalesi. 

Gli anni 1973-1974 videro un boom del contrabbando di sigarette estere, che aveva il suo centro di smistamento a Napoli: infatti nei primi anni settanta numerosi mafiosi palermitani (Stefano Bontate, Vincenzo Spadaro, Gaetano Riina e Salvatore Bagarella) vennero inviati al soggiorno obbligato in Campania, consentendogli di avviare rapporti con Michele Zaza, fratelli Nuvoletta, Antonio Bardellino e altri camorristi napoletani, attraverso i quali acquistavano i carichi di sigarette; addirittura nel 1974 i mafiosi siciliani provvidero ad affiliarli a Cosa nostra in modo da tenerli sotto controllo e lusingarne le vanità, autorizzandoli anche a formare una propria Famiglia a Napoli: secondo il collaboratore di giustizia Antonino Calderone, il capo della Famiglia di Napoli era Salvatore Zaza (fratello di Michele), il consigliere era Giuseppe Liguori (detto "Peppe 'o Biondo", suocero di Michele Zaza) e i capidecina erano Giuseppe Sciorio e i fratelli Nuvoletta.

Nella metà degli '70, dal carcere di Poggioreale, nel quale è rinchiuso per omicidio, Raffaele Cutolo inizia a realizzare il suo progetto: ristrutturare la camorra come organizzazione gerarchica in senso mafioso, sfruttando il nuovo business della droga; nasce così la Nuova Camorra Organizzata (N.C.O.).

La NCO tentò di imporre il controllo su tutte le attività illecite e ciò spinse le organizzazioni contrabbandiere napoletane e siciliane, rappresentate da Zaza, dai fratelli Nuvoletta e da Bardellino, a riunirsi sotto il nome di Nuova Famiglia (NF), per portare guerra alla camorra cutoliana. La guerra tra le due organizzazioni criminali fu spietata e si concluse nei primi anni ottanta con la sconfitta della NCO. Le vittime furono molte centinaia, tra esse anche molti innocenti. In questa fase ci fu anche una connessione, generata dal "Caso Cirillo", tra camorra e Brigate Rosse. Dal 1979 la camorra ha ucciso 3600 persone, tra esse anche molti innocenti.

Nel 1992 il boss Carmine Alfieri tentò di dare alla malavita organizzata nella regione una struttura verticistica creando la Nuova Mafia Campana (NMC), anch'essa scomparsa dopo poco tempo, ma nel corso degli '90 la camorra rafforza la sua struttura di tipo orizzontale (con varie bande territoriali più o meno in lotta tra loro) non verticistica, fatta eccezione per alcuni pochi cartelli, tra cui il clan dei casalesi che si strutturò in modo verticistico, formato da una dozzina di clan con una cassa comune.

Il XXI secolo e le "faide di Scampia".

All'inizio degli anni 2000 l'organizzazione gode ancora di un certo potere, dovuto anche ad appoggi di tipo politico, che le consente il controllo delle più rilevanti attività economiche locali, in particolar modo nell'hinterland napoletano e casertano. Oggi la camorra conta migliaia di affiliati divisi in oltre 150 famiglie attive in tutta la Campania. Sono segnalati insediamenti della camorra anche all'estero, come nei Paesi Bassi, Spagna, Francia e Marocco.

I gruppi si dimostrano molto attivi sia nelle attività economiche (infiltrazione negli appalti pubblici, immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione, riciclaggio di denaro sporco, usura e traffico di droga) sia sul fronte delle alleanze e dei conflitti. Quando infatti un clan vede messo in discussione il proprio potere su una determinata zona da parte di un altro clan, diventano molto frequenti omicidi e agguati di stampo intimidatorio. Il ritorno al contrabbando di sigarette è dovuto ai recenti cambiamenti avvenuti all'interno di alcuni gruppi di camorra. In particolare l'attività è risorta nell'area nord di Napoli, dove opera il gruppo formato dai Sacco-Bocchetti-Lo Russo che, uscito dall'alleanza di Secondigliano, ha recuperato parecchio spazio e deciso di investire in questa attività, visto che i canali della droga sono controllati da altri gruppi, in particolare quello degli Amato-Pagano. Il 4 agosto 2021 è stato arrestato a Dubai il narcotrafficante Raffaele Imperiale, ricercato dal 2016 e alleato per lo spaccio di cocaina proprio con il clan Amato-Pagano. A Napoli città il fenomeno è ancora limitato anche se in crescita, soprattutto nella zona dei Mazzarella (Mercato e Case Nuove). Il 7 febbraio 2008 viene arrestato il boss Vincenzo Licciardi, tra i 30 latitanti più pericolosi d'Italia. Era considerato il capo dell'alleanza di Secondigliano. Nel 1979 la camorra ha fatto cento morti, nel 1980 centoquaranta, nel 1981 centodieci, nel 1982 duecentosessantaquattro, nel 1983 duecentoquanttro, nel 1984 centocinquantacinque, nel 1985 novanototto, nel 1986 centosette, nel 1987 centoventisette, nel 1988 centosessantotto, nel 1989 duecentoventotto, nel 1990 duecentoventidue, nel 1991 duecentoventitre, nel 1992 centosessanta nel 1993 centoventi, nel 1994 centoquindici, nel 1995 centoquarantuno, nel 1996 centoquarantasette, nel 1997 centotrenta, nel 1998 centotrentadue, nel 1999 novantuno, nel 2000 centodiciotto, nel 2001 ottanta, nel 2002 sessatrè, nel 2003 ottantatré, nel 2004 centoquarantadue, nel 2005 novanta. La camorra dal 1979 ha fatto tremilaseicento morti. La camorra ha ucciso più della mafia siciliana, più della 'ndrangheta, più della mafia russa, più delle famiglie albanesi, più della somma dei morti fatti dall'ETA in Spagna e dall'Ira in Irlanda, più delle Brigate Rosse, dei Nar e più di tutte le stragi di Stato avvenunte in Italia.

La situazione corrente.

«Pasquale Villari, nel primo grande affresco sociologico sulla camorra che fu (ed è) "Lettere meridionali", dopo aver descritto le condizioni di vita nel centro storico di Napoli, così concludeva: "Finché dura lo stato presente di cose, la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte."»

Grande risalto ha avuto negli anni 2004 e 2005 la cosiddetta faida di Scampia, una guerra scoppiata all'interno del clan Di Lauro quando alcuni affiliati decisero di mettersi in proprio nella gestione degli stupefacenti, rivendicando così una propria autonomia e negando di fatto gli introiti al clan Di Lauro, del boss Paolo Di Lauro, detto Ciruzzo 'o Milionario. Ma questa faida non è l'unica contesa tra clan sul territorio napoletano. Numerose sono le frizioni e gli scontri tra le decine di gruppi che si contendono le aree di maggiore interesse. A cavallo tra il 2005 e il 2006 ha destato scalpore nella cittadinanza e tra le forze dell'ordine la cosiddetta "faida della Sanità", una guerra di camorra scoppiata tra lo storico clan Misso del rione Sanità e alcuni scissionisti capeggiati dal boss Salvatore Torino, vicino ai clan di Secondigliano; una quindicina di morti e diversi feriti nel giro di due mesi.

Per quanto riguarda l'area a nord della città (quella da sempre maggiormente oppressa dai gruppi criminali), tra i quartieri di Secondigliano, Scampia, Piscinola, Miano e Chiaiano, resta sempre forte l'influenza del cartello camorristico detto Alleanza di Secondigliano, composto dalle famiglie Licciardi, Contini, Clan Bosti, Mallardo, e con gli stessi Di Lauro quali garanti esterni (molto spesso, infatti, gli uomini di "Ciruzzo 'o Milionario", si sono interposti tra le liti sorte fra le varie famiglie del cartello, evitando possibili guerre).

Per le zone centrali della città (centro storico, Forcella) resta ben salda la supremazia del clan Mazzarella, che controlla praticamente tutta l'area ad est di Napoli, dal centro fino al quartiere periferico di Ponticelli, facilitati anche dalla debacle del clan Giuliano di Forcella, i cui maggiori esponenti (i fratelli Luigi, Salvatore e Raffaele Giuliano) sono diventati collaboratori di giustizia. Le loro attività oggi si basano solo sul contrabbando. Nell'altra zona "calda" del centro di Napoli, le zone del quartiere Montecalvario, dette anche "Quartieri Spagnoli", dopo le faide di inizio anni novanta tra i clan Mariano (detti i "picuozzi") e Di Biasi (detti i "faiano"), e tra lo stesso clan Mariano e un gruppo interno di scissionisti capeggiato dai boss Salvatore Cardillo (detto "Beckenbauer") e Antonio Ranieri (detto "Polifemo", poi ammazzato), la situazione sembra essere tornata a un clima di relativa normalità, grazie anche al fatto che molti boss storici di quei vicoli sono stati arrestati o ammazzati.

La zona occidentale della città non è da meno per quanto riguarda numero di clan e influenza sul territorio. Tra le aree più "calde" si trovano il Rione Traiano, Pianura, e lo stesso quartiere Vomero, per anni definito quartiere-bene della città e considerato immune alle azioni dei clan, oggi preda di almeno quattro clan in guerra e saccheggiato dalla microcriminalità comune. Da citare, il cartello denominato Nuova camorra Flegrea, che imperversava a Fuorigrotta, Bagnoli, Agnano e Soccavo, ma che ha subito un duro colpo dopo il blitz del dicembre 2005, quando vi furono decine di arresti grazie alle rivelazioni del pentito Bruno Rossi detto "il corvo di Bagnoli". A Pianura vi è stata in passato una violenta faida tra i clan Lago e Contino-Marfella, che ha portato a numerosi omicidi, tra i quali quello di Paolo Castaldi e Luigi Sequino, due ragazzi poco più che ventenni uccisi per errore da un gruppo di fuoco del clan Marfella, perché stazionavano sotto la casa di Rosario Marra, genero del capoclan Pietro Lago ed erano, quindi, "sospetti".

Nella vasta area metropolitana ormai urbanisticamente saldata alla città, sono numerose le zone in mano ai gruppi camorristici, non solo per quanto riguarda i campi "classici" nei quali opera un clan mafioso (estorsioni, usura, traffico di droga), ma anche per quanto riguarda le amministrazioni comunali e le decisioni politiche (si vedano i numerosi comuni sciolti per infiltrazioni camorristiche).

In alcune zone del Vesuviano e nel Nolano è riscontrata, a tutt'oggi, la presenza di potenti clan locali storicamente operativi sul territorio. Nondimeno, la morte e l'incarcerazione di numerosi storici boss locali (Vollaro, Fabbrocino, i fratelli Russo, D'Avino, Alfieri, Cava, Abate, Galasso e numerosi altri) sembra aver favorito la nascita e/o l'espansione di gruppi criminali autoctoni e della zona orientale di Napoli. La faida Mazzarella-Rinaldi, da San Giovanni a Teduccio si è estesa sino alla zona Nolana/Vesuviana ove sono presenti, in particolar modo nei comuni di Marigliano (soprattutto nel popoloso rione 'Pontecitra') e Somma Vesuviana (complice, per quel che concerne Somma Vesuviana, la perdita di potere del locale clan D'Avino, sfaldato da molti arresti e pesanti condanne), propaggini locali dei predetti clan. A Somma Vesuviana, in località "Parco Fiordaliso", risiedono presunti esponenti del clan Aprea-Cuccaro di Barra.

In Campania, oltre all'hinterland napoletano per influenza sul territorio un ruolo di primo piano è occupato dal clan dei Casalesi, storico sodalizio dell'agro aversano in provincia di Caserta e ormai operativo in gran parte d'Europa; l'organizzazione infatti si pone come un grande cartello criminale di portata internazionale (come più volte riportato dalla DIA e DDA di Caserta e Napoli) gestito dalle famiglie Schiavone e Bidognetti (che hanno ereditato il potere di Bardellino dopo l'omicidio di questi) e dalle altre famiglie alleate che fungono da referenti per le varie province. Tra i vari clan della provincia è da segnalare il clan Belforte quale mantiene il controllo sui traffici e le attività estorsive nei comuni di Caserta, Marcianise e Maddaloni. Al 2013 si stimava che nella regione Campania operino 114 clan e 4.500 affiliati.

Forme di camorra locale radicate sul territorio, sono presenti anche nella città di Salerno tra cui il Clan D'Agostino-Panella nel centro storico nonché altri gruppi nel quartiere Mariconda, dove è presente lo spaccio di sostanze stupefacenti. Nell'omonima provincia, specialmente nell'Agro nocerino sarnese (zona già teatro, nel corso degli anni '80, di numerosi regolamenti di conti consequenziali alla faida tra Nuova Camorra Organizzata e Nuova Famiglia e dove sono presenti vari clan camorristici), a Cava de' Tirreni, nella Valle dell'Irno e nella Piana del Sele; in provincia di Avellino, dove agiscono piccoli gruppi dalle contenute dimensioni e sono egemoni i clan Cava e Graziano di Quindici, per molto tempo coinvolti in una cruenta faida che ha generato numerose vittime nell'area del Vallo di Lauro; e nella provincia di Benevento, dove imperversano il clan Pagnozzi (presente anche in provincia di Avellino, specialmente in Valle Caudina), rispetto al quale sono subalterni piccoli gruppi minori, e il clan Sparandeo di Benevento, considerati egemoni nel Sannio. E' stato - secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli - Antonio La Torre, fratello del boss Augusto, ad attivare in Scozia una serie di attività commerciali in grado, in una manciata di anni, di imporsi come fiore all'occhiello dell'impreditorioria scozzese.

Ipotesi definitorie

Nel Grande Dizionario Italiano dell'Uso (GRADIT) compaiono definizioni alte, come: «1a, organizzazione criminale di stampo mafioso, costituitasi con leggi e codici propri già durante il Seicento, e che attualmente esercita il controllo su attività illecite specialmente nell'area napoletana. 1b estens., associazione di tipo mafioso. 1c estens., associazione di persone prive di scrupoli che per vie illecite si procurano favori, guadagni o sim.: gira e rigira è tutta una c[amorra]!».

Altre definizioni considerate basse sono: «imbroglio», «chiasso», «cagnara».

Sebbene il termine sia impropriamente usato per indicare la società criminale nata a Napoli nel XIX secolo e conosciuta anche come Bella Società Riformata, oggi spesso si tende ad identificare con questo termine un'unica organizzazione criminale simile alla cupola mafiosa siciliana o ad altre organizzazioni di uguale stampo. In realtà la struttura della camorra è molto più complessa e frastagliata al suo interno in quanto composta da molti sodalizi diversi tra loro per tipo di influenza sul territorio, struttura organizzativa, forza economica e modus operandi.

Inoltre le alleanze fra queste organizzazioni, qualora si possano considerare tali semplici accordi di non belligeranza fra i numerosi clan operanti sul territorio, sono spesso molto fragili e possono sfociare in contrasti o vere e proprie faide o guerre di camorra, con agguati ed omicidi.

Struttura 

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La camorra è organizzata in modo pulviscolare con centinaia di famiglie, o clan, ognuna delle quali è più o meno influente a livello territoriale in quasi tutti i comuni della provincia di Napoli e in molti comuni della regione, in particolare della provincia di Caserta. Queste organizzazioni si uniscono e si dividono con grande facilità rendendo ulteriormente difficoltoso il lavoro di "smantellamento" degli inquirenti e delle forze dell'ordine. Questa struttura, caratteristica della camorra fin dal dopoguerra, fu sostituita solo in un'occasione e solo temporaneamente: durante la lotta tra Nuova Camorra Organizzata (NCO) e Nuova Famiglia (NF), un conflitto scatenato da Raffaele Cutolo nel corso del quale la stragrande maggioranza dei clan dovette scegliere con chi schierarsi.

Tutte le volte che si è tentato di riorganizzare la camorra con una struttura gerarchica verticale si è preso come modello Cosa nostra. Questi tentativi sono sempre falliti per la tendenza dei capi delle varie famiglie a non ricevere ordini dall'alto. Per tale ragione è improprio parlare di camorra come di un fenomeno criminale unitario e organico. Lo stesso termine "camorra", quale entità criminale unitaria, è fuorviante, data la natura estremamente frammentata e caotica della malavita napoletana. Fanno eccezione alcuni determinati cartelli di alleanze, come quello dei Casalesi che è formato da una struttura verticistica composta da una dozzina di cosche con a capo 3 famiglie (Schiavone, Bidognetti, Zagaria-Iovine) e una cassa comune, o come l'Alleanza di Secondigliano. Ma anche all'interno di questi stessi cartelli sono nate, negli anni, violente faide che hanno coinvolto le stesse famiglie interne ai gruppi.

Economia.

Secondo recenti dati forniti dall'Eurispes, sembra che la camorra guadagni:

Attività illecite

Valore

Traffico di droga

14.230 milioni €

Imprese e appalti pubblici

7.582 milioni €

Estorsione e usura

5.362 milioni €

Traffico di armi

4.066 milioni €

Prostituzione

2.258 milioni €

Il giro d'affari complessivo delle famiglie napoletane si aggirerebbe intorno ai 30 miliardi e mezzo l'anno.

I dati Eurispes appaiono tuttavia incompleti poiché non considerano due settori cardine dell'economia camorrista: innanzitutto la produzione e la distribuzione di falsi (abbigliamento, CD-DVD, prodotti tecnologici) con canali e sedi in tutti i continenti.

Altro importante settore è quello dello smaltimento illegale dei rifiuti, sia industriali che urbani, attività estremamente lucrosa che secondo alcuni sta conducendo vaste zone di campagna nelle province di Napoli e Caserta verso un progressivo degrado ambientale. A titolo di esempio, che la campagna fra i comuni di Acerra, Marigliano e Nola, una volta rinomata in tutta la penisola come fra le più verdi e fertili, è da taluni ora indicata con il termine di "triangolo della morte".

Il 25 luglio 2011 gli Stati Uniti d'America hanno varato un nuovo piano per il contrasto della criminalità internazionale (strategy to combat transnational organized crime) ed hanno individuato le 4 principali organizzazioni transnazionali più pericolose per l'economia americana posizionando la camorra al secondo posto dopo i Brother Circle russi e prima della Yakuza giapponese e dei Los Zetas messicani con un giro d'affari di 45 miliardi di dollari. Le attività principali della camorra, secondo il governo americano, sarebbero la distribuzione di falsi e il narcotraffico. Per avere un'idea della pericolosità economica della camorra negli Stati Uniti basta pensare che altre organizzazioni italiane che hanno una presenza storica in America, come Cosa nostra e 'ndrangheta, non vengono neanche menzionate.

Secondo lo studio del 2013 condotto da Transcrime, centro di ricerca dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, i ricavi delle mafie italiane ammonterebbero a circa 25,7 miliardi di euro l'anno. Di questi, il 35% è appannaggio della Camorra, il 33% della 'ndrangheta, il 18% di Cosa nostra e l'11% della Sacra corona unita. La Camorra avrebbe perciò la fetta di ricavi più larga all'interno del mercato criminale italiano, superando di poco le organizzazioni calabresi e quasi "doppiando" quelle siciliane.

I rapporti con le istituzioni. 

Questa voce o sezione sull'argomento Campania è ritenuta da controllare.

Motivo: A riprova della presunta collusione tra ambienti malavitosi e politici campani si citano dichiarazioni di pentiti e un processo concluso con assoluzione; un articolo del Mattino non più disponibile; l'opinione di un blog. Fonti più robuste sono fortemente necessarie

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Numerosi sono stati in passato i contatti tra i gruppi camorristici e la politica locale e nazionale. All'inizio degli anni novanta i pentiti Pasquale Galasso e Carmine Alfieri fecero dichiarazioni che misero sotto accusa Antonio Gava, potente capo della corrente dorotea e dirigente della Democrazia Cristiana, successivamente assolto. Secondo l'ex procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore, il 30% dei politici campani è colluso con la camorra. Il dato incrementa notevolmente se si conta che, solo nella Provincia di Napoli, di 51 comuni su 92 sono stati sciolti o interessati da provvedimenti per infiltrazioni camorristiche, con pesanti condizionamenti sulla spesa pubblica e l'imprenditoria legata agli appalti.

Dal 1991, data dell´entrata in vigore della legge, ad oggi sono stati sciolti per camorra in Campania circa 86 comuni. Una media di 4 comuni ogni anno.

L'infiltrazione

Comuni 

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Motivo: Questa lista copre 70 episodi di scioglimento in un periodo di quasi trentacinque anni (Pertini fu presidente dal 1978 al 1985, e l'ultimo caso di scioglimento risale al marzo 2012). Si tratta di poco più di due scioglimenti all'anno, tenendo conto anche di quelli ripetuti. La tabella va dunque contestualizzata e precisata, dato che nella forma attuale trasmette un'impressione errata (con conseguenze anche su altre wiki, vedi discussione). Si consiglia l'inserimento, bibliografato, degli anni di scioglimento per ciascun comune, e la riformattazione della tabella secondo la nuova logica.

Commento: L'intera sezione risulta quasi completamente priva di riferimenti bibliografici puntuali, tanto più necessari, data la complessità e valenza degli argomenti esposti

L'organizzazione riuscì ad infiltrarsi in numerosi comuni della regione, che poi vennero sciolti, alcuni furono:

Acerra (NA)

Arzano (NA) (nel 2008)

Afragola (NA) (nel 1999 e nel 2005)

Battipaglia (SA) nel 2014

Boscoreale (NA) - 2 volte

Brusciano (NA)

Carinola (CE)

Caivano (NA)

Casal di Principe (CE) - 3 volte

Casalnuovo di Napoli (NA)

Casaluce (CE)

Casamarciano (NA)

Casandrino (NA) - 2 volte (una nel 1991)

Casapesenna (CE) - 3 volte

Casola di Napoli (NA)

Casoria (NA) (1999 e 2005)

Castellammare di Stabia (NA

Castel Volturno (CE) - 2 volte

Castello di Cisterna (NA)

Crispano (NA)

Ercolano (NA)

Frattamaggiore (NA)

Giugliano in Campania (NA)

Gragnano (NA) (1 volta nel 2012

Grazzanise (CE) - 3 volte

Gricignano di Aversa (CE)

Liveri (NA)

Lusciano (CE) - 2 volte

Marano di Napoli (NA)

Marcianise (CE)

Melito di Napoli (NA)

Montecorvino Pugliano (SA)

Mugnano (NA) - 2 volte

Nola (NA) - 2 volte

Nocera Inferiore (SA)

Ottaviano (NA)

Orta di Atella (CE)

Pagani (SA) - 2 volte, l'ultima il 22 marzo 2012

Pago del Vallo di Lauro (AV) - 2 volte (1993, 2009)

Pignataro Maggiore (CE)

Pimonte (NA)

Poggiomarino (NA) - 2 volte

Pomigliano d'Arco (NA)

Pompei (NA) - 2 volte

Portici (NA)

Pozzuoli (NA)

Pratola Serra (AV) - (2020)

Quarto (NA)

Quindici (AV) - primo caso in Italia; il Sindaco fu destituito dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, per motivi di ordine pubblico. - 4 volte

San Cipriano d'Aversa (CE)

San Felice a Cancello (CE)

San Gennaro Vesuviano (NA) - 2 volte

San Giuseppe Vesuviano (NA) - (1993, 2009

San Lorenzo Maggiore (BN) - 1994

San Paolo Bel Sito (NA) - 2 volte

San Tammaro (CE)

Sant'Antimo (NA) - 2 volte, una il 16 marzo 2020

Sant'Antonio Abate (NA)

Santa Maria la Carità (NA)

Santa Maria la Fossa (CE)

Sarno (SA)

Scafati (SA) - 2 volte, una nel 1993 e una nel 2017

Terzigno (NA)

Torre Annunziata (NA)

Torre del Greco (NA)

Trentola Ducenta (CE)

Tufino (NA)

Villa di Briano (CE) - 2 volte

Villa Literno (CE)

Volla (NA)

ASL

Le giunte comunali non sono le uniche istituzioni ad essere state oggetto di scioglimento per infiltrazioni camorristiche. Nell'ottobre del 2005, infatti, primo caso in Italia, fu sciolta dal Consiglio dei Ministri l'Azienda sanitaria locale "Napoli 4", che comprendeva ben 35 comuni del napoletano suddivisi in 11 distretti sanitari: Poggiomarino, Casalnuovo di Napoli, Nola, Marigliano, Roccarainola, San Giuseppe Vesuviano, Somma Vesuviana, Palma Campania, Volla, Acerra e Pomigliano d'Arco, per un bacino di utenti di circa seicentomila abitanti.

Eventi famosi.

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Commento: Gran parte della sezione risulta priva di riferimenti bibliografici puntuali, tanto più necessari, data la complessità e valenza degli argomenti esposti

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Faide

prima faida di Afragola, tra i Moccia e i Giugliano: avvenne prima dello scontro fra la NCO e la NF; all'epoca i due eserciti in guerra erano i Moccia e i Giugliano, anch'essi di Afragola. Raffaele Cutolo avrebbe voluto fare un favore alla famiglia Moccia facendo ammazzare l'avvocato Giulio Battimelli.

faida tra la NCO e la Nuova Famiglia: guerra che scoppiò dopo che l'8 dicembre 1978 le principali famiglie malavitose napoletane decisero di confederarsi in un unico cartello denominato Nuova Famiglia per combattere lo strapotere di Raffaele Cutolo. Fu, di gran lunga, la più violenta per numero di morti ammazzati: nel 1979 si registrarono 71 omicidi, 134 l'anno successivo, 193 nel 1981, 237 nel 1982, 238 nel 1983, 114 nel 1984 (più di 1.500 in tutto). La guerra iniziò già nel 1978, anche se di fatto fu il 1980, a sancire l'inizio dell'eccidio che si sarebbe venuto a verificare nel periodo 1978-1983, ovvero quando in ballo non ci fu più solo la scelta di Cutolo di distaccarsi dai siciliani, ma i soldi provenienti dal dopo-terremoto dell'Irpinia nel 1980, la Fratellanza napoletana o Onorata fratellanza, come si chiamava fino a quel momento divento la Nuova Famiglia o NF e non inglobò più solamente i clan Giuliano, Vollaro e Fabbrocino, che fino a quel momento avevano combattuto Cutolo, ma a poco a poco li seguirono anche gli Zaza, gli Alfieri, i Galasso, i Bardellino (i futuri casalesi), i Nuvoletta, i Gionta, nel 1981 anche i Misso e via via molti altri. La guerra si concluse dopo il maxi-blitz contro la NCO avvenuto il 17 giugno 1983, anche se ci furono dei colpi di coda alla fine dell'83 e intorno alla metà dell'84 come l'omicidio di Gateano Ruffa (22 ottobre 1983), l'omicidio di Giovanni Bifulco (30 dicembre 1983) e l'omicidio di Vincenzo Palumbo e Rosa Martino (14 maggio 1984), tutti ovviamente cutoliani dato che la NCO non poteva più reagire per mancanza di una organizzazione interna. La guerra fu vinta nel 1983 dalla Nuova Famiglia.

faida tra i Giuliano e i Misso: combattuta tra il 1979 e il 1984, iniziò quando Luigi Giuliano chiese al suo vecchio amico Giuseppe Misso di schierarsi in suo favore contro Cutolo, ma questi si rifiutò perché non voleva schierarsi con nessuna delle due fazioni, allora i Giuliano per ripicca gli chiesero il pizzo e la risposta di Misso fu alquanto brusca in quanto sequestrò i parenti di Giuliano in un basso e li picchiò. Nonostante ciò, nel 1981 Giuseppe Misso decise di schierarsi contro Cutolo, ma la guerra di camorra andò avanti lo stesso, infatti il 24 settembre 1983 avvenne il triplice omicidio di Domenico Cella, Ciro Lollo e Ciro Guazzo, uccisi alla Sanità. Motivo dell'azione; una rappresaglia contro il clan rivale dei Giuliano che aveva imposto la chiusura delle sedi del Movimento sociale alla Sanità.

faida tra i Giuliano e i Contini: combattuta nel 1984 tra il clan Giuliano e il nascente gruppo di Eduardo Contini e Patrizio Bosti (condannati poi proprio per un duplice omicidio avvenuto nel contesto di questa faida, quello dei fratelli Gennaro e Antonio Giglio). Il tutto cominciò per una storia di controllo di una bisca della zona dell'Arenaccia.

faida di Quindici: faida più che decennale tra le famiglie Graziano e Cava del comune di Quindici, in provincia di Avellino. Iniziata negli anni ottanta, si protrae ancora oggi.

prima faida di Castellammare: Umberto Mario Imparato contro il Clan D'Alessandro. Questa faida portò a diverse decine di agguati mortali, tra cui quello di Michele D'Alessandro in cui morirono quattro suoi guardaspalle (lui si salvò per miracolo) in viale delle Terme a Castellammare di Stabia.

prima faida dei Quartieri Spagnoli: combattuta tra i clan Mariano, detti i picuozzi, e Di Blasi, detti i faiano, alla fine degli anni ottanta; fu una delle guerre più cruente di quel periodo, gli agguati mortali furono diverse decine.

faida tra i Giuliano e l'Alleanza di Secondigliano: violento scontro avvenuto tra i due potenti gruppi nel 1990. Culminò con l'omicidio di Gennaro Pandolfi, dei Giuliano, e del figlio Nunzio Pandolfi, di appena due anni.

faida tra i Clan Gallo-Cavalieri e i Gionta: combattuta tra i clan Gionta e il Clan Gallo-Cavalieri di Torre Annunziata. A scatenare la faida, che continua tuttora, malgrado le inchieste della Procura antimafia e l'incessante lavoro degli investigatori, fu il duplice omicidio di due affiliati ai Gallo, uccisi nel dicembre 1990, cui fece seguito, pochi giorni dopo, l'agguato in cui persero la vita altre due persone appartenenti al gruppo dei Gionta. Dopo anni di tregua tra i due clan, a seguito di un lancio di un uovo nel periodo di carnevale e il successivo pestaggio subito da un ragazzo del clan Gionta, nel 2006 la faida è riesplosa, arrivando all'apice nel 2007 con 4 morti in 2 giorni, dopo alcuni episodi verificatisi nel 2013, agguati e omicidi cruenti ai danni dei Gionta, la faida sembra nuovamente cessata.

prima faida di Pianura: svoltasi tra il 1991 e il 2000 tra i clan Lago, e i clan Contino e Marfella, alleati. Il primo atto risale al 1991: il 21 aprile, a Pianura, furono assassinati due spacciatori. Dopo l'arresto e il pentimento del boss Giuseppe Contino, a continuare l'opera è stato il clan Marfella. In questa seconda fase del conflitto è da inserire il duplice omicidio di Luigi Sequino e Paolo Castaldi, due ragazzi innocenti ammazzati per errore sotto l'abitazione dei Lago, perché scambiati dai sicari dei Marfella per due vedette del clan rivale.

prima faida di Ercolano: guerra tra gli Esposito e gli Ascione, combattuta quasi interamente nel 1990; iniziò con l'omicidio del boss Antonio Esposito e uscirono perdenti gli Esposito dopo l'agguato mortale ai danni del reggente del clan Salvatore Esposito (1960 - 1993), anche se di fatto l'omicidio di Delfino Del Prete, aveva già deciso le sorti della guerra.

faida tra i Misso e l'Alleanza di Secondigliano: faida portata avanti dal boss Giuseppe Misso e dai vertici dell'Alleanza di Secondigliano. La situazione degenerò dopo il duplice omicidio di Alfonso Galeota e Assunta Sarno, moglie di Giuseppe Misso, nel 1992.

Faida di Mugnano: Combattuta nei primi anni '90 tra il clan Ruocco e il rivale De Gennaro, supportato dai Di Lauro; coinvolse Secondigliano quando i Ruocco decisero di uccidere i fratelli Prestieri, compiendo quel massacro noto come Strage del Monterosa (maggio 1992).

seconda faida dei Quartieri Spagnoli: dopo la prima faida, che si concluse senza un vincitore netto, i Mariano dovettero affrontare un gruppo di scissionisti al proprio interno guidati dai boss Antonio Ranieri (detto Polifemo, poi ammazzato) e Salvatore Cardillo (detto Beckenbauer); questi ultimi due furono seguiti da un nugolo di fedelissimi. La violenta faida che ne seguì portò di fatto alla dissoluzione dello stesso clan Mariano a seguito di numerosi omicidi, pentimenti e blitz con decine di arresti negli anni 1993 e 1994.

seconda faida di Ercolano: faida decennale che vede coinvolti i clan Ascione e Birra. È una delle faide più cruente in termini morti ammazzati. In ballo ormai non c'è più soltanto il controllo del territorio: la guerra di camorra va avanti perché tra i malavitosi delle due famiglie c'è un odio profondo e radicato. Nella faida sono coinvolti anche i Papale. Dopo anni di lotta tra i due clan e gli innumerevoli arresti che hanno decimato entrambe le fazioni, ad aver vinto la faida sarebbero gli Ascione-Papale, sebbene in un primo momento si desse come camorra vincente la "cuparella", tanto è che per un certo periodo anche gli Ascione-Papale hanno dovuto rifornirsi di droga da loro. La vera svolta fu nel 2007, dopo l'omicidio di Antonio Papale, quando i "Bottone" decisero di vendicare il fratello morto, tant'è vero che dopo tale episodio si conteranno 10 omicidi e altrettanti tentati omicidi avvenuti tra il marzo 2007 e il gennaio 2011, tutti contro il clan Birra, mentre quest'ultimo non riuscirà a mettere a segno nemmeno un omicidio in favore loro. Il clan Birra, di fatto, non esiste più - alcuni dei suoi componenti sono diventati collaboratori di giustizia, altri sono in carcere, altri ancora sono stati uccisi - mentre il clan Ascione è ancora operante a Ercolano, forte dell'alleanza con i Falanga di Torre del Greco.

prima faida interna ai Casalesi: combattuta nella seconda metà degli anni novanta tra la famiglia Bidognetti e il clan scissionista capeggiato da Antonio Cantiello. La faida provocò il rogo di San Giuseppe quando, nella notte di San Giuseppe del 1997, fu incendiato il bar Tropical ad Ischitella (il cui gestore aveva rifiutato, per ordine degli stessi Bidognetti, di installare all'interno dell'esercizio alcuni video-poker commissionati dalla famiglia Cantiello), in cui morì, bruciato vivo, il giovane cameriere del locale, Francesco Salvo.

seconda faida interna ai Casalesi: scontro tra le famiglie del cartello e la fazione scissionista guidata dal boss Giuseppe Quadrano (poi pentitosi).

faida tra i Licciardi e i Prestieri: conosciuta anche come la faida della minigonna, fu combattuta tra i clan Prestieri e Licciardi e portò ad una ventina di morti in pochi mesi. Tutto cominciò in una discoteca per una battuta di troppo tra due gruppi di giovani riguardo il vestito troppo succinto di una ragazza. I due gruppi di giovani appartenevano a clan di camorra, questo portò prima alla morte del giovane Vincenzo Esposito detto 'o principino, pupillo della famiglia Licciardi, e poi a quella di numerosi affiliati dei Prestieri come ritorsione.

faida tra i Mazzarella e i Rinaldi: un tempo alleati, i Mazzarella da un lato, e dall'altro i Rinaldi, famiglia storica del rione Villa di San Giovanni a Teduccio, fino al 1989 fedelissimi di Vincenzo Mazzarella e fratelli. Tutto filò liscio fino a quando un boss dei Rinaldi non cominciò ad essere troppo ingombrante e fu ucciso. Quest'agguato portò ad una guerra con decine di morti protrattasi fino ad oggi.

faida tra gli Altamura e i Formicola: conflitto violentissimo durato anni svoltosi nel territorio di San Giovanni a Teduccio. Più che per motivi di predominio criminale, la faida è stata combattuta per rancori di tipo familiare. La guerra decapitò entrambe le famiglie, compresi i due boss, e si fece sempre più feroce.

faida tra i Cuccaro e i Formicola: guerra a cui sono riconducibili diversi episodi di sangue. Alla base dei sanguinosi contrasti c'è l'agguato mortale contro Salvatore Cuccaro, potente numero uno della cosca familiare di Barra nonostante avesse soltanto 31 anni, avvenuto il 3 novembre del 1996.

prima faida di Forcella: detta anche "faida tra la Forcella di sopra e la Forcella di sotto", fu uno scontro interno al clan Giuliano che ebbe luogo a metà anni novanta; da una parte i figli di Pio Vittorio Giuliano, dall'altra i figli di Giuseppe Giuliano. Ci andò di mezzo, tra gli altri, anche il patriarca Giuseppe, detto zì Peppe, 63 anni, ammazzato nel corso di un clamoroso agguato a Forcella il 9 luglio del 1998.

prima faida della Sanità: fu combattuta negli anni 1997 e 1998 tra il clan Misso e i clan, alleati tra loro, Tolomelli e Vastarella. Dopo numerosi omicidi, tra cui quello del boss Luigi Vastarella, vi fu l'atto finale con lo scoppio di un'autobomba, una Fiat Uno imbottita di tritolo, che avrebbe dovuto uccidere due boss dei Misso e che invece portò ad undici feriti innocenti.

faida tra i Sarno e i De Luca Bossa: questa faida può essere considerata come una sorta di "spin-off" della faida tra i Misso e l'alleanza di Secondigliano, essendo i primi alleati dei Sarno e i secondi inglobati nell'Alleanza. Dopo numerosi omicidi, la faida culminò con l'autobomba di Ponticelli del 1998, in cui morì un nipote del boss Vincenzo Sarno (vittima designata dell'agguato).

terza faida dei Quartieri Spagnoli: fu la guerra combattuta, tra fine anni novanta e inizio anni duemila, tra il clan Di Biasi, rimasto il clan dominante ai Quartieri dopo la dipartita interna dei Mariano, e i Russo, figli del boss Domenico Russo, detto Mimì dei cani. Numerosi omicidi tra cui quelli dei due patriarchi, Francesco Di Biasi, padre dei faiano, e lo stesso Domenico Russo.

faida dei quartieri collinari Vomero-Arenella: combattuta nei due quartieri bene della città, fino ad allora considerati immuni dalla malavita organizzata; verso la metà degli anni novanta lo storico clan capeggiato da Giovanni Alfano si scisse, formando due distinti schieramenti. Da un lato, gli affiliati di vecchia militanza al gruppo Alfano, dall'altro quelli rimasti fedeli al pluri-pregiudicato Antonio Caiazzo. Diversi sono stati gli omicidi commessi nel corso della faida, conclusasi, però, con un ultimo efferato delitto, tristemente noto come la strage dell'Arenella, avvenuta l'11 giugno 1997, in cui perdeva la vita l'innocente Silvia Ruotolo, che si trovò nel mezzo della sparatoria in quanto stava riportando il figlio a casa dopo averlo ripreso all'uscita della sua scuola, il tutto sotto gli occhi dell'altra figlia della donna, che assistette alla morte della madre dalla terrazza di casa sua; la donna era cugina dei giornalisti Guido e Sandro Ruotolo. Le immediate indagini portavano, in tempo record, all'arresto di tutti i componenti del commando e del mandante: Giovanni Alfano.

seconda faida di Forcella: scoppiò in seguito all'avvento dei Mazzarella a Forcella; alcuni componenti dei Giuliano (tra cui Ciro Giuliano 'o barone) non accettarono di buon grado l'entrata in scena dei Mazzarella. Inevitabile la spaccatura all'interno dell'organizzazione e soprattutto all'interno della famiglia; i Mazzarella si allearono con alcuni personaggi di buon livello della camorra. Dall'altra si organizzarono, per combattere il clan Mazzarella, altri giovanissimi imparentati con i Giuliano. Questo portò ad alcuni omicidi, tra cui quello dello stesso Ciro Giuliano e di Annalisa Durante, vittima quattordicenne innocente morta in un agguato con obiettivo un nipote della famiglia Giuliano.

terza faida interna ai Casalesi: combattuta dal 2003 al 2007 tra le famiglie Tavoletta-Ucciero e Schiavone-Bidognetti. Vide la "strage di San Michele", del 29 settembre 2003, con due morti ammazzati e tre feriti in un solo agguato.

faida di Chiaiano: conflitto svoltosi nel corso del 2003 e 2004 a Chiaiano tra il clan Stabile e il clan Lo Russo, in precedenza alleati sotto la bandiera dell'Alleanza di Secondigliano. Tra gli agguati mortali, si ricorda quello avvenuto sulla Tangenziale di Napoli il 1º giugno del 2004, quando vennero uccisi un uomo che si trovava su un'ambulanza perché ferito a causa di un precedente agguato, e il secondo che lo seguiva in auto.

seconda faida di Castellammare: combattuta tra il clan D'Alessandro, predominante a Castellammare di Stabia, e il clan Omobono-Scarpa dal 2003 al 2005.

Prima faida di Scampia: guerra svoltasi tra l'ottobre 2004 e il settembre 2005 che portò a quasi un centinaio di morti ammazzati, è stata, dopo quella combattuta negli anni ottanta tra la NCO cutoliana e la Nuova Famiglia, la faida camorristica che suscitò maggior clamore mediatico e che accese nuovamente i riflettori dei mass-media nazionali e internazionali sulla malavita organizzata napoletana dopo molti anni di disinteressamento; il conflitto si scatenò quando vari gruppi scissionisti del clan Di Lauro decisero di staccarsi dalla casa madre dopo che i figli del boss Paolo Di Lauro avevano deciso di sostituire alcuni dei leader storici nei principali ruoli chiave con gente a loro più fidata. Questa guerra stravolse gli equilibri criminali della zona nord di Napoli e portò alla nascita di altri gruppi criminali indipendenti, tutti federati nel cosiddetto cartello degli scissionisti di Secondigliano (detti anche Spagnoli, a causa della latitanza in Spagna di uno dei leader del sodalizio), chiamato in seguito anche clan Amato-Pagano. Tra i tanti omicidi avvenuti all'interno della faida, uno dei più cruenti fu quello di Gelsomina Verde, una ragazza di 22 anni totalmente estranea ad ambienti criminali, torturata, uccisa e poi bruciata dai sicari del Clan Di Lauro, solo perché ex fidanzata di uno scissionista.

faida tra gli Aprea e i Celeste-Guarino: combattuta nella zona di Barra tra il clan Aprea e quella che secondo gli investigatori era la fazione scissionista dei Celeste-Guarino negli anni 2005 e 2006.

faida tra il clan Mazzara e il clan Caterino-Ferriero: svoltosi nel comune di Cesa tra il 2005 e il 2009 per il controllo degli affari illeciti nel territorio comunale.

seconda faida della Sanità: combattuta dal 2005 al 2007 tra il clan Misso e la fazione scissionista dei Torino, appoggiati dai Lo Russo di Miano. Con più di venti omicidi in due anni, stravolse completamente gli equilibri della camorra nella zona della Sanità, di Materdei, dei Tribunali. Questa faida portò alla dissoluzione di entrambi i gruppi, dopo i pentimenti dei boss Emiliano Zapata Misso, Giuseppe Misso junior e Michelangelo Mazza per i Misso, e di Salvatore Torino e altri elementi di spicco per la fazione opposta.

Seconda faida di Scampia: iniziata ad agosto 2012 e finita a dicembre dello stesso anno, contò decine di vittime. La nuova faida vedeva contrapposto il cartello degli Scissionisti ad una sua fazione interna, i cui componenti del clan sono stati ribattezzati Girati della Vanella Grassi (dal nome della via del quartiere dove hanno la base operativa e dal termine girato che in gergo camorristico significa colui che ha tradito) oppure gruppo della Vinella Grassi (soprannominata anche così in gergo camorristico) che si sono alleati con il clan Di Lauro (clan spodestato dagli Scissionisti a seguito della faida precedente); tra le vittime ci sono stati il boss degli scissionisti Gaetano Marino (fratello del boss Gennaro Marino detto Genny 'O McKay), ucciso il 23 agosto del 2012 a Terracina dove si trovava in vacanza con la famiglia, Pasquale Romano, ragazzo innocente ammazzato per errore il 15 ottobre 2012 a Napoli nel quartiere di Marianella, perché scambiato per uno spacciatore (vero bersaglio dei killer) a cui assomigliava e Luigi Lucenti, pregiudicato di 50 anni ucciso con tre colpi di pistola il 5 dicembre 2012 da due killer in un cortile di un asilo di Scampia (dove in quel momento era in corso l'annuale concerto natalizio dei piccoli alunni), dove si era rifugiato per sfuggire all'agguato; proprio questo episodio causò molto scalpore e indignazione nell'opinione pubblica, tanto che la faida s'interruppe proprio a seguito di esso (tale episodio ha inoltre ispirato la scena finale della prima stagione della serie televisiva Gomorra - La serie). I vincitori di questa faida furono i Girati, dato che il 15 dicembre 2012 il lancio di alcune bombe a mano da parte degli Abete-Abbinante-Notturno fece calare gli appoggi tra la gente di Scampia al clan e ne decretò la sconfitta dal punto di vista militare.

seconda faida di Pianura: iniziata a fine giugno 2013 e finita nel medesimo anno. La faida conta molte vittime.

terza faida di Forcella: iniziata a marzo 2013 e terminata il 2 luglio 2015 con l'omicidio del baby-boss Emanuele Sibillo (ottobre 1995 - 2 luglio 2015), la faida vedeva contrapposti da un lato il clan Giuliano (figli e nipoti di Giuseppe), il clan Mazzarella, il clan Del Prete ed il clan Buonerba, dall'altro la cosiddetta Paranza dei bambini, così chiamata per via della giovane o giovanissima età dei suoi componenti, afferenti al cartello camorristico formato dai giovani della famiglia Giuliano (nipoti e pronipoti di Pio Vittorio), in conflitto con i loro parenti da molti anni, affiancati dai clan Sibillo, Brunetti e Amirante, quest'ultimi alleati del clan Ferraiuolo-Stolder e appoggiati esternamente dal gruppo Rinaldi di San Giovanni a Teduccio, per il controllo dei rioni di Forcella, Maddalena e Duchesca. La faida si conclude con la cacciata dei Mazzarella da San Giovanni a Teduccio e la vittoria della Paranza dei Bambini a Forcella, nonostante l'agguato mortale ai danni del boss Sibillo.

terza faida di Scampia: iniziata ad ottobre 2015 e tuttora in corso, più che una nuova faida, è la prosecuzione di quella precedente, conclusasi senza vincitori nè vinti, ma solamente interrotta a causa della grande attenzione mediatica derivata da alcuni episodi di sangue verificatisi al suo interno; dalla ripresa delle ostilità si contano già diversi agguati mortali da parte di entrambe le fazioni (composte prevalentemente da giovanissimi e da donne, che hanno preso il posto dei boss arrestati e/o assassinati).

Faida di Miano: iniziata nel settembre 2016 e tuttora in corso, vede contrapposti i clan Nappello (costola dell'estinto clan Lo Russo) e Stabile-Ferrara di Chiaiano; i primi sono sostenuti dai Licciardi, infatti dietro la mattanza di Miano ci sarebbe la regia occulta dei Licciardi.

Faida tra i Vollaro e i Mazzarella: con l'omicidio di Ciro D'Anna, avvenuto il 23 dicembre 2019, è emersa la notizia che il clan Vollaro sarebbe in guerra con il clan Mazzarella, a causa degli interessi di quest'ultimo nell'espandere i loro territori nella zona di influenza dei Vollaro, ovvero la città di Portici storica roccaforte del clan. In passato c'erano già stati degli omicidi che si inquadrano nell'attuale scontro, risalenti addirittura all'anno 2012, dall'omicidio di Vincenzo Cotugno, per poi passare all'omicidio di Lucio Sannino nel 2014, l'omicidio di Vincenzo Provvisiero nel 2017 e infine i tentati omicidi di Carlo Vollaro, nel 2018, e di Giovanni Chivasso, nel 2019.

Stragi.

Gli avvenimenti più importanti furono:

Strage di Sant'Antimo; nel 1982 durante la guerra tra Nuova Camorra Organizzata e Nuova Famiglia fu ucciso il fratello di Giuseppe Puca detto o Giappone, Aniello Puca. Si aprì una piccola ma feroce faida a Sant'Antimo, in meno di 12 ore ci furono 6 morti: Costantino Petito alias Francuccio Puliciotto, Vincenzo Di Domenico alias O'Pazz e Mauro Marra uccisero Mattia di Matteo 33 anni (esecutore materiale dell'uccisione del fratello di Puca), Giovanni Cioffi 23 anni e Franco di Domenico 28 anni. La sera stessa vennero uccise tre donne della famiglia Di Matteo: Angela Ceparano, 48 anni; Patrizia Di Matteo, 18 anni; Francesca Di Maggio, 24 anni; rispettivamente madre, sorella e moglie di Mattia Di Matteo. Dal massacro si salva soltanto un bambino di tre anni. La polizia lo trova piangente dietro un divano accanto al corpo di sua madre Francesca. Moventi del massacro familiare erano lo sgarro fatto al Puca e il fatto che i Di Matteo conoscevano dei segreti scottanti riguardo NCO appresi durante i colloqui col figlio carcerato Antonio di Matteo, in quel momento detenuto con Pasquale D'Amico nel supercarcere di Marina del Tronto ad Ascoli Piceno, dove era detenuto il superboss Raffaele Cutolo. Pochi giorni dopo la strage verrà trovato impiccato Antonio Di Matteo, in un primo momento si pensò a un suicidio, poi si saprà che fu ucciso da Pasquale D'Amico detto O'Cartunato su ordine di Cutolo.

Strage di Torre Annunziata o Strage di Sant'Alessandro: avvenuta a Torre Annunziata (NA), presso il circolo dei pescatori, il 26 agosto 1984, nell'ambito della faida tra le coalizioni Casalesi-Alfieri e Nuvoletta-Gionta (un tempo, tutti alleati nella faida contro la NCO di Raffaele Cutolo). Da un autobus precedentemente rubato, scesero una dozzina di killer inviati da Antonio Bardellino e Carmine Alfieri, che iniziarono a fare fuoco per circa due minuti contro il circolo dei pescatori, luogo di ritrovo abituale degli affiliati del clan Gionta. Alla fine si contarono otto morti e sette feriti gravi.

Strage di Croce di Cava de' Tirreni: avvenuta il 16 maggio 1987 e scaturita dalla faida tra i clan D'Agostino-Panella e Grimaldi di Salerno. Nella strage, eseguita dal clan Grimaldi, morirono Corrado Gino Ceruso, di 37 anni, cognato del boss Amedeo Panella; Ferruccio Scoppetta, 21 anni; e il 24enne Vincenzo Gargano. La strage venne considerata come la risposta all'omicidio del nipote del boss Lucio Grimaldi, Giuseppe Nese, detto "Peppe o' Niro", occorso nel marzo del 1987.

Strage del Venerdì Santo di Torre del Greco: Il 1º aprile del 1988 in un locale di Torre del Greco (NA), furono uccise quattro persone, tra le quali il boss emergente Ciro Fedele; a compiere la strage furono alcuni esponenti del clan rivale dei Gargiulo che vollero così vendicare la precedente uccisione del loro capo-clan, Vincenzo Gargiulo.

Strage di Mariglianella: Il 27 settembre 1988, in una zona periferica del comune di Mariglianella, furono trucidati i fratelli Carmine, Michele e Carlo Pizza, rispettivamente di anni 29, 23 e 21. I tre, di Piazzolla di Nola, pregiudicati e contigui al clan Alfieri, stavano recandosi ad un incontro al quale, oltre a loro, avrebbero dovuto prender parte alcuni appartenenti al clan. Ad un certo punto, l'auto a bordo della quale viaggiavano, una Alfa 2000, fu raggiunta da una pioggia di proiettili che li uccise. L'esecuzione fu particolarmente violenta tanto che, a uno di loro, una scarica di pallettoni staccò la testa. La strage fu ordinata da Carmine Alfieri, che condannò a morte i tre fratelli in quanto rei di volersi staccare dal suo clan per mettersi in proprio.

Strage di Castellammare di Stabia: il 21 aprile 1989 tra Castellammare di Stabia e Gragnano (NA), un commando al servizio del boss Imparato tentò di uccidere il boss rivale, Michele D'Alessandro, nell'agguato morirono quattro guardaspalle del D'Alessandro, mentre lui, pur rimanendo gravemente ferito, riuscì a salvarsi.

Strage di Ponticelli: avvenuta il 12 novembre 1989 nel Bar Sayonara di Ponticelli, quartiere della zona est di Napoli; circa sei killer spararono con armi automatiche tra la folla uccidendo sei persone e ferendone un'altra. Due delle persone decedute erano semplici passanti, totalmente estranei ad ambienti criminali.

Strage di Pescopagano: avvenuta a Pescopagano, frazione di Mondragone (CE), il 24 aprile 1990 all'interno del Bar Centro; alla fine si contarono cinque vittime: tre tanzaniani, un iraniano ed un italiano ucciso per errore, e sette feriti, tra cui il gestore del bar e suo figlio quattordicenne, rimasto paralizzato perché colpito ad una vertebra.

Strage dei Quartieri Spagnoli o Strage del Venerdì Santo: compiuta il 29 marzo 1991 da esponenti del clan Mariano contro un gruppo scissionista interno, nell'agguato morirono tre persone e quattro, estranee al clan, rimasero ferite.

Strage di Piazza Crocelle: avvenuta a Napoli, nel quartiere industriale di Barra, il 31 agosto 1991, nata probabilmente per futili motivi e per contenere le mire espansionistiche della famiglia Liberti, vide tre morti ammazzati, due feriti (tra cui un bambino di 8 anni) ed una donna anziana morta per infarto.

Strage di Scisciano: Il 21 novembre del 1991 alcuni killer del clan Cava, a Spartimento di Scisciano, trucidarono a colpi di Kalashnikov i cugini Eugenio (ex sindaco di Quindici, destituito per rapporti con la cosca Graziano) e Vincenzo Graziano, di 30 e 22 anni, nipoti del sindaco-boss di Quindici Raffaele Pasquale Graziano, e il 21enne Gaetano Santaniello, guardaspalle dei cugini Graziano. Il massacro, portato a termine con modalità estremamente efferate (i killer infierirono sui cadaveri dei malcapitati, arrivando a sfigurare Eugenio Graziano a colpi di kalashnikov), è stato uno dei più terribili atti della faida tra i Cava e i Graziano.

Strage di Acerra: avvenuta ad Acerra (NA), il 1º maggio del 1992 in ambito della faida tra i Di Paolo-Carfora ed i Crimaldi-Tortora. Per vendicare l'uccisione del fratello del boss Di Paolo, un gruppo di sicari del clan uccise cinque persone e ne ferì altre due, sterminando così un'intera famiglia, compreso un ragazzino innocente di appena quindici anni.

Strage del Bar Fulmine a Secondigliano: avvenuta a Napoli, nel quartiere di Secondigliano, all'ingresso del suddetto locale, il 18 maggio 1992. L'agguato costò la vita a cinque persone, mentre altre due vennero gravemente ferite. La reazione alla strage fu l'uccisione di Maria Ronga, madre del potente boss di Mugnano di Napoli Antonio Ruocco, autore dell'assalto.

Strage di Pimonte: il 20 novembre del 1995, a Pimonte, comune dei Lattari, una zona da poco colpita da una cruenta faida che ha provocato quasi 100 morti ammazzati in due anni (quella tra gli Imparato e i D'Alessandro) e dove sono arroccati i fedelissimi del boss Mario Umberto Imparato, che fu ucciso proprio tra quelle montagne, in una masseria è in corso un summit tra camorristi del luogo, un tempo legati al defunto boss Umberto Mario Imparato e poi al fratello Francesco (rimasto vittima di 'lupara bianca'), che viene interrotto dalla Polizia e dai Reparti Speciali dei NOCS, i quali penetrano nella masseria grazie all'aiuto di un delatore in passato affiliato al clan, poi ferito a colpi di pistola dal boss Afeltra, che gli spara dopo aver intuito il tranello. Nasce un feroce conflitto a fuoco, che vede contrapposti i tre criminali da una parte, e dall'altra parte poliziotti e Reparti Speciali dei Carabinieri. Alla fine, moriranno tre camorristi latitanti: Pasquale Afeltra, Giacomo Avitabile e Giovanni Zurlo.

Strage di Lauro o Strage delle donne: avvenuta a Lauro (AV), provocata dalla faida decennale tra i clan Cava e Graziano. La sera del 26 maggio 2002, un'automobile che trasportava alcune donne del clan Cava viene seguita e speronata da un'altra auto guidata da Luigi Salvatore Graziano con alcune parenti, che volevano vendicare il fallito agguato ordito dalle Cava ai danni di Stefania e Chiara Graziano, le due figlie del boss Luigi Salvatore, avvenuto appena un'ora prima, a seguito del quale le Cava si erano liberate delle armi usate; trovatesi senza possibilità di difesa, queste tentarono di scappare a piedi, ma furono assalite dal fuoco dei sicari dei Graziano; alla fine si contarono tre morti (tutte donne del clan Cava, di cui una, Clarissa, aveva appena sedici anni) e cinque feriti.

Strage di San Michele: maturata durante la faida tra il clan Tavoletta-Cantiello e la fazione dei casalesi facenti capo a Bidognetti, avvenne il 29 settembre 2003 a Villa Literno (CE); due sicari appartenenti ai Tavoletta-Cantiello tesero un agguato a cinque uomini dell'altra fazione; di questi, due morirono (Vincenzo Natale, pregiudicato di 25 anni, e Giuseppe Rovescio di 24 anni) ed altri tre furono feriti.

Strage di Casavatore: Il 31 gennaio 2005, avvenne il triplice omicidio di Giovanni Orabona (Casavatore, 12 agosto 1981 - 31 gennaio 2005), Antonio Patrizio (Casavatore, 26 settembre 1979 - 31 gennaio 2005) e Giuseppe Pizzone (Casavatore, 4 luglio 1979 - 31 gennaio 2005), tutti e tre pregiudicati e affiliati al clan Ferone (clan vicino ai Di Lauro). La strage va a inserirsi nel contesto della prima faida di Scampia che vede contrapposti il clan Di Lauro contro quelli degli scissionisti, dopo tale episodio il clan Ferone passerà nelle file degli scissionisti e rappresenterà l'atto conclusivo della faida che vide la vittoria di questi ultimi.

Strage di Castel Volturno o Strage di San Gennaro: la sera del 18 settembre 2008, vengono uccisi in un agguato ad Ischitella, frazione di Castel Volturno, sei extracomunitari da tempo residenti nella zona. L'agguato seguì l'omicidio di Antonio Celiento, avvenuto mezz'ora prima a Baia Verde (altra frazione di Castel Volturno), eseguito dallo stesso gruppo di fuoco.

I rapporti con le altre organizzazioni mafiose 

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Cosa nostra

Vari clan di camorra hanno intrattenuto rapporti, più o meno duraturi, con Cosa nostra. Elementi di spicco della mafia corleonese (come Luciano Leggio, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano, Pippo Calò e Giovanni Brusca) si allearono con i clan camorristici dei Nuvoletta e dei Gionta. Forti erano anche gli intrecci tra Michele Zaza (referente di Cosa nostra in Campania) e i boss palermitani Rosario Riccobono e Stefano Bontate e quelli intercorsi tra Ciro Mazzarella e il padrino catanese Pippo Calderone che, stando alle dichiarazioni di certuni collaboratori di giustizia, sarebbe stato il padrino di uno dei figli di Mazzarella. Ferreo è altresì il rapporto tra alcune organizzazioni camorristiche e le famiglie mafiose di Catania, specie quello con il potente Clan Cappello. Tra le due organizzazioni non sono mancati, inoltre, rapporti di inimicizia; Cosa nostra, difatti, era particolarmente invisa a Raffaele Cutolo, che si oppose alle attività dei mafiosi siciliani in Campania, da lui considerati alla stessa stregua di colonizzatori abusivi.

'Ndrangheta

Nel corso del 900 vi sono stati vari intrecci di favori e di cooperazione tra camorristi e 'ndranghetisti. Negli anni '70, in occasione della prima guerra di 'ndrangheta, il boss reggino Paolo De Stefano chiese e ottenne da Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata, l'omicidio di Don Mico Tripodo, altro boss reggino in carcere a Napoli. Tra famiglie delle due organizzazioni vi furono anche doppie affiliazioni come quella del camorrista Antonio Schettini affiliato al clan di Giuseppe Flachi o di Franco Coco Trovato affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri. Roberto Cutolo, figlio di Raffaele Cutolo, fu ammazzato il 19 dicembre 1990 a Tradate, in Lombardia, da killer inviati da Franco Coco Trovato e Giuseppe Flachi, grossi esponenti della 'Ndrangheta in Lombardia, su richiesta di Mario Fabbrocino, intenzionato a vendicare il fratello, ucciso dieci anni prima per ordine di Cutolo. Per ricambiare il favore alla mafia calabrese, i Fabbrocino e gli Ascione avrebbero ucciso Salvatore Batti, storico rivale dei Trovato e dei Flachi, con i quali il gruppo criminale di Batti era in guerra per il controllo della droga a Milano. Salvatore Batti era tornato nel suo paese d'origine, San Giuseppe Vesuviano, per sfuggire alla faida con i calabresi, che stava concludendosi con la sconfitta della sua organizzazione. L'omicidio del Batti sancì, di fatto, la vittoria di Trovato e Pepè Flachi e dei rispettivi gruppi criminali.

Banda della Magliana

La camorra intrattiene rapporti con le associazioni mafiose operanti nella capitale, quali la Banda della Magliana, in particolare con Massimo Carminati, i Fasciani e i Casamonica. Raffaele Cutolo, nel corso di alcuni processi, indicò Nicolino Selis - uno dei capi della Banda della Magliana, che capeggiava un gruppo operante su Ostia - quale referente della NCO nella Capitale.

Triade cinese

Secondo l'esperto di organizzazioni terroristiche e del crimine organizzato di tipo mafioso Antonio De Bonis, esiste una stretta relazione tra le Triadi e la Camorra e il porto di Napoli è il punto di approdo più importante delle attività gestite dai gruppi cinesi in cooperazione con la camorra. Tra le attività illegali in cui le due organizzazioni criminali lavorano insieme ci sono il traffico di esseri umani e immigrazione clandestina finalizzata allo sfruttamento sessuale e lavorativo di cinesi sul territorio italiano, il traffico di stupefacenti e il riciclaggio di capitali illeciti attraverso l'acquisto di immobili, esercizi commerciali e imprese.

Nel 2017, gli investigatori hanno scoperto un piano tra la camorra e le bande cinesi: queste esportavano rifiuti industriali dall'Italia alla Cina che hanno garantito ricavi per milioni di euro per entrambe le organizzazioni. I rifiuti industriali lasciavano Prato e arrivavano a Hong Kong. Tra i clan coinvolti in questa alleanza c'erano il clan dei Casalesi, il clan Fabbrocino e il clan Ascione.

Mafia nigeriana

I rapporti tra camorra e mafia nigeriana riguardano soprattutto il traffico di droga e la prostituzione. In particolare, i camorristi permettono ai clan nigeriani di organizzare la tratta delle donne sul territorio in cambio di una quota sui guadagni.

Mafia albanese

Dalla seconda relazione semestrale del 2010 della DIA vengono illustrati contatti tra la mafia albanese e il clan Mazzarella, con gli Scissionisti di Secondigliano e il clan Serino di Sarno.

Felice Manti per “il Giornale” il 12 dicembre 2022.

Il pentitismo è morto, parola di pentito. «Prima di parlare mi metto d'accordo con il boss», dice convinto di non essere ascoltato Raffaele Imperiale, detto Lelluccio Ferrarelle, affiliato del clan Amato-Pagano di Napoli, il più importante trader di cocaina dal Sud America ai porti di Rotterdam e Anversa. Chissà se sulla scrivania del Guardasigilli Carlo Nordio sono arrivate le carte della maxi inchiesta di cui hanno scritto nei giorni scorsi Il Fatto Quotidiano e il Domani. 

Il nome in codice è Emma 95 ed è servita a smantellare una fittissima rete di narcotrafficanti italiani e stranieri, che al telefonino chiacchieravano (fin troppo) allegramente mentre gestivano traffici per 900 milioni di euro l'anno tra Olanda, Australia, Dubai e il Sud America, quattro tonnellate ogni trenta giorni dalla Colombia all'Europa, convinti che i telefonini e i software Encrochat e Sky Ecc fossero a prova di decriptazione.

E invece i crypto narcos sono stati fregati dai detective francesi e olandesi coordinati da Europol: non solo due anni di telefonate e messaggini non sono state cancellate, ma i trafficanti sono stati registrati, le loro frasi sbobinate, le loro identità coperte da una stringa alfanumerica smascherate. Ora, le modalità delle procedure di acquisizione di queste intercettazioni in spregio alla legislazione italiana lasciano strada a possibili scontri di carte bollate, come già avvenuto a Napoli e come presto succederà a Roma e a Milano.

Il Riesame di Napoli ha deciso l'inutilizzabilità delle chat, altri tribunali per modalità simili non sono state dello stesso avviso. Un'altra grana per Nordio, che già ha criticato il sistema delle intercettazioni a strascico, su cui non potrà che pronunciarsi, e presto. Seppure teoricamente inutilizzabili, alcune frasi intercettate rivelano come l'intuizione di Giovanni Falcone sia diventata il campo da gioco preferito di chi vuole depistare i magistrati. Basta leggere quello che dice Imperiale il 23 febbraio del 2021. 

L'ex bibitaro finito in Olanda a fare affari con gli Scissionisti sopravvissuti alla mattanza del clan Di Lauro durante la prima faida di Scampia parla con il calabrese Bartolo Bruzzaniti, broker di 'ndrangheta che avrebbe sostituito l'ex re dei narcos Rocco Morabito. E racconta quando nel 2016, mentre era a Dubai, gli trovano in casa due Van Gogh spariti quattordici anni prima dal museo di Amsterdam: «Abbiamo preso la strada di ammissione delle colpe con la restituzione dei quadri perché è l'unico modo per difendersi dai pentiti senza danneggiare nessuno», dice Imperiale, citando come un avvocato «il comma 7 dell'articolo 74» che prevede sconti di pena a chi smantella l'organizzazione».

Due ladruncoli olandesi gli avevano venduto per 350mila euro La spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta del 1882 e Una congregazione lascia la chiesa riformata di Nuenen del 1885, oggi tornati ad Amsterdam. 

Ufficialmente Imperiale collabora con la procura di Napoli dallo scorso ottobre, eppure come scrive il Fatto per sua stessa ammissione prima di parlare chiede «sempre autorizzazione al boss Amato - dice - sono cresciuto con lui...». La frase è vera? È utilizzabile processualmente? C'è da fidarsi di lui? A Nordio l'ardua sentenza.

Nico Falco per fanpage.it il 10 dicembre 2022.

L'organizzazione di traffico internazionale di droga che faceva capo a Raffaele Imperiale poteva resistere senza troppi problemi ad una perdita di 24 milioni di euro, continuando a vendere cocaina senza che le casse ne risentissero: un particolare che ben mostra l'entità del giro di affari e della disponibilità, non solo di contatti e quindi di credito sulla parola, ma anche di contanti. Sarebbe il caso della spedizione in Australia, menzionata anche nell'ultima ordinanza a carico di Imperiale e che sarebbe avvenuta tra il 9 novembre 2020 e il 26 gennaio 2021. Si sarebbe conclusa con un nulla di fatto, forse con un sequestro delle forze dell'ordine. 

A raccontare della spedizione è lo stesso Imperiale, da pochi giorni ufficialmente collaboratore di Giustizia. La cocaina, 600 pacchi (corrispondenti a 600 chili) sarebbe arrivata dall'Olanda con una delle strutture di autotrasportatori. Per il tratto successivo ci avrebbe pensato Giovanni Fontana, collaboratore di fiducia di Imperiale; l'uomo, presidente della società Fontana Service e della squadra di calcio del Villa Literno (che milita nel girone A del campionato Eccellenza) è finito in manette nello scorso novembre, proprio con l'accusa di fare parte del gruppo del narcos di Castellammare di Stabia.

La droga sarebbe stata acquistata in Olanda per conto di tale Mark, contatto australiano di Imperiale. Quattrocento chili, pagati 33mila euro l'uno, ai quali sarebbe stata aggiunto un costo fittizio di 2mila euro al chilo giustificato come spese per il trasporto. Incassati i 14 milioni di euro, Imperiale avrebbe organizzato il carico aggiungendo 200 chili di cocaina dai propri magazzini.

 Mark avrebbe fatto avere i soldi ad Imperiale tramite i "cambisti", che sono incaricati del riciclaggio e del trasferimento di denaro. I soldi vengono accreditati tramite il sistema "Hawala", basato sulla fiducia, solitamente usato da gruppi etnici per spedire denaro nei Paesi d'origine e, in quanto scarsamente tracciato, molto utilizzato per il riciclaggio: il denaro viene consegnato a un cambista, che comunica al suo corrispettivo di mettere quella somma a disposizione del destinatario.

Una volta arrivati in Australia, i 600 chili di cocaina sarebbero stati "tassati": il 20% sarebbe stato "trattenuto come una sorta di dazio dagli importatori locali". I 480 chili rimasti sarebbero dovuti essere pagati all'attracco, a prezzi australiani, circa 150mila euro al chilo: facendo un veloce calcolo, si parla di 24milioni di euro per i 160 chili di Imperiale e 48milioni di euro per i 320 chili di cocaina di Mark.

Una operazione, insomma, dal margine altissimo, considerando che anche quei 200 chili potrebbero essere stati pagati intorno ai 33mila euro al chilo, quindi circa 6 milioni e 600mila euro. Ma all'organizzazione sarebbero rimasti solo gli 800mila euro del costo fittiziamente aggiunto: di quella droga si sarebbero perse le tracce. Al narcos napoletano sarebbe stato riferito di un sequestro, ma non ci sarebbero stati riscontri sulle fonti aperte. "Non so che fine abbia fatto tale merce – dice Imperiale ai magistrati – spero sia stata sequestrata e non rubata".

Depositati i primi verbali: tremano le cosche malavitose. Raffaele Imperiale e Bruno Carbone da latitanti a pentiti: da Dubai alla Siria, la storia dei narcos della camorra. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 6 Dicembre 2022.

Raffaele Imperiale, 47 anni, e Bruno Carbone, 45 anni, hanno deciso di collaborare con la giustizia. I due narcotrafficanti internazionali, arrestati nei mesi scorsi a Dubai e nel nord-ovest della Siria dopo una lunga latitanza, hanno iniziato la propria collaborazione con la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. A riportare la notizia del pentimento di entrambi è il portale Stylo24.it con un articolo a firma di Luigi Nicolosi.

La decisione di passare dalla parte dello Stato è stata ufficializzata questa mattina, 6 dicembre, nel corso dell’udienza celebrata davanti ai giudici della Decima sezione del tribunale del Riesame di Napoli. La DDA partenopea ha depositato tre verbali che i due neo pentiti hanno redatto tra ottobre e novembre.

Tremano i clan camorristici napoletani (ma anche altre organizzazioni criminali italiane) a partire dalla cosca degli Amato-Pagano, gli scissionisti di Secondigliano, e i gruppi loro alleati (Rione Traiano, Parco Verde di Caivano su tutte) che si rifornivano di ingenti quantitativi di cocaina proprio grazie al ruolo dei due broker Imperiale e Carbone che – secondo la ricostruzione della polizia giudiziaria – facevano da collante tra Europa e Sud America, prima con base in Olanda e poi, una volta attivamente ricercati a livello internazionale, a Dubai.

Un vero e proprio terremoto nella malavita partenopea con i due narcors che adesso potranno aiutare magistrati e polizia giudiziaria a ricostruire e cristallizzare i traffici illeciti dei clan che per anni hanno lucrato sulla vendita di droga creando delle vere e proprie piazze di spaccio a cielo aperto operative 24 ore su 24. Dal Rione Traiano al Parco Verde di Caivano, passando per il parco Monaco di Melito e il rione Salicelle di Afragola. Così come potranno fornire delucidazioni anche sui rapporti della camorra con altre organizzazioni criminali europee, a partire dall’Irlanda alla Bosnia.

La decisione di Imperiale e Carbone arriva a distanza di pochi mesi dai rispettivi arresti. Imperiale fu infatti catturato, grazie alla collaborazione delle autorità degli Emirati Arabi (che per anni hanno ostacolato le attività di indagini dei Paesi Occidentali, offrendo “rifugio” anche a presunti criminali), nell’agosto del 2021.

Bruno Carbone, socio di Imperiale, è stato invece bloccato nel marzo 2020 a Kaftin, nel nord-ovest della Siria da Hayat Tahrir al Sham (HTS), una milizia jihadista, affiliata fino a qualche anno fa all’organizzazione terroristica al Qaida, e consegnato – attraverso la mediazione degli Emirati Arabi e della Turchia – alle autorità italiane. La notizia del suo arresto è stata resa nota solo a metà novembre 2022. Non è chiaro cosa ci facesse il latitante Carbone (originario di Giugliano in Campania) in Siria, dove è molto proficuo il traffico di Tramadol e Captagon, sostanze oppioidi ribattezzate “droga del jihad”.

Chi è Raffaele Imperiale: è tutto iniziato da un coffee shop ad Amsterdam

Nato a Castellammare di Stabia il 24 ottobre 1974, inizialmente noto agli inquirenti come “Lello di Ponte Persica“, frazione del medesimo comune partenopeo, o anche “Lelluccio Ferrarelle” o “Rafael Empire“, Imperiale è stato capace di costruire un imponente network di trafficanti internazionali, in particolare di cocaina. L’attività di brokeraggio internazionale ed il rapporto d’affari con la criminalità organizzata partenopea sono stati cristallizzati nella prima decade del 2000, quando sono stati documentati contatti con camorristi del clan Di Lauro di Secondigliano, tra cui Elio Amato ed Antonio Orefice. Tale legame è sopravvissuto alla scissione degli Amato dai Di Lauro nel corso delle tre faide di Scampia.

Negli ultimi 10 anni sono stati numerosi gli arresti ed i sequestri che hanno colpito l’organizzazione di Imperiale: tra questi si ricorda il maxi-sequestro di 1.330 chili di cocaina avvenuto a Parigi il 20 settembre 2013, quando nell’occasione è stato arrestato il fedelissimo Vincenzo Aprea, al quale era stato affidato il compito di sovrintendere all’importazione dello stupefacente proveniente con volo di linea Air France da Caracas in Venezuela.

Il patrimonio illecitamente accumulato gli ha permesso di acquistare sul mercato nero due dipinti di Van Gogh di valore inestimabile, rubati nel 2002 ad Amsterdam in Olanda e ritrovati dalle Fiamme Gialle del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Napoli in una vecchia villa a Castellamare di Stabia nel 2016 e restituiti al museo di Amsterdam dedicato al pittore olandese.

Ossessionato dalla riservatezza (di lui non esistono praticamente immagini ‘pubbliche’), l’unica immagine diffusa delle forze dell’ordine è relativa a numerosi anni fa. Il 22 gennaio 2021, in una intervista rilasciata a Il Mattino, Imperiale  si è dichiarato estraneo alla vicenda, asserendo di aver comprato i preziosissimi quadri in quanto appassionato di Arte.

Vittima da ragazzo di un tentativo di rapimento al quale riesce misteriosamente a sfuggire, eredita dal fratello maggiore un coffee shop ad Amsterdam e da qui inizia la sua carriera criminale, tessendo pazientemente contatti e alleanze con i narcos sudamericani, con il clan Amato-Pagano – destinato a diventare famoso come clan degli Scissionisti – che gli consentono di diventare uno dei maggiori fornitori di cocaina delle piazze di spaccio partenopee, e con organizzazioni criminali di mezza Europa, dalla Bosnia all’Irlanda.

Il giallo dei quadri di Van Gogh e il rapporto con i narcos sudamericani

Secondo il quotidiano olandese De Telegraaf, Imperiale nel 1996 ha rilevato la caffetteria Rockland ad Amsterdam dando il là, come detto, alla sua carriera da broker della droga insieme al pregiudicato dei Paesi Bassi Rick van de Bunt. Sempre secondo il De Telegraaf, il broker utilizzava fino al 2016 i due quadri di Van Gogh come garanzia quando si trattava di cocaina con i clan sudamericani.

Lo stesso Imperiale, tuttavia, nell’intervista a Il Mattino ha smentito questa circostanza: “La realtà è che la storia dei quadri di Van Gogh mi ha giovato processualmente ma nuociuto mediaticamente”. I quadi “li ho acquistati per me, insomma per averli. Chi dice che lo abbia fatto per investire i miei illeciti proventi non sa cli cosa parla”. E poi ancora: “Guardi, vengo da una famiglia di persone per bene, oneste e agiate. Questo ha indirizzato la mia formazione educativa e culturale e mi ha permesso di apprezzare il valore estetico delle cose. Mio padre, quando ero bambino, non di rado mi portava a visitare città storiche e musei. Tutto ciò mi ha reso non insensibile all’arte ed alla pittura in particolare. Per questo i due Van Gogh hanno rappresentato un’opportunità che ho colto senza esitazioni. Il fatto di possederli, tuttavia, superata l’iniziale emozione, ha finito per essere un peso, per questo l’aver contribuito a far sì che il Museo di Amsterdam rientrasse in possesso di tali capolavori, pensi quello che vuole, mi rende orgoglioso”.

Secondo la DEA, l’agenzia federale antidroga statunitense, Imperiale nell’estate del 2017 era presente al matrimonio del mafioso irlandese Daniel Kinahan, andato in scena in un hotel di lusso, dove erano presenti anche altri narco europei.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

(ANSA l’8 dicembre 2022) - "Ho investito in lingotti d'oro...", anche da un noto centro orafo campano attraverso un contatto "...sono arrivato a 40 chilogrammi al mese". E' lo stesso Raffaele Imperiale, 48 anni, narcotrafficante di caratura internazionale a confermare agli inquirenti quanto avevano scoperto dalle chat, e cioé che investiva i proventi della vendita di grosse quantità di cocaina nel più noto dei metalli preziosi. 

Imperiale è noto alle cronache giudiziarie con il soprannome di "boss dei Van Gogh" perchè nel 2016 fu trovato in possesso di due quadri del pittore olandese rubati nel 2022 ad Amsterdam ed il cui valore fu stimato in 130 milioni di euro. Imperiale (arrestato la scorsa estate a Dubai e poi trasferito in Italia), difeso dagli avvocati del Foro di Genova Giovanni Ricco e Maurizio Frizzi, ha avviato un percorso di collaborazione con i magistrati della Procura di Napoli. 

Le sue dichiarazioni su questo business le fa lo scorso 25 ottobre dinnanzi ai magistrati napoletani Maurizio De Marco e Giuliano Caputo e del facente funzioni di procuratore di Napoli Rosa Volpe. "So che a Napoli vendono solo lamine, - dice - i lingotti li ho presi da un'azienda, una fonderia del Nord, vicino Venezia, si tratta di una signora di origini marocchine..." conosciuta, insieme con il marito, "...tramite un calabrese latitante...".

Imperiale dice anche che quest'azienda portava avanti questa attività "di vendita parallela". "Sono arrivato (a comprare) fino a 40 kg di oro al mese", 20-25 chilogrammi (3-4 chili al giorno) dal centro orafo campano, la parte restante attraverso le cryptovalute. Ma "il prezzo cambiava a seconda della stagione, poi mi allontanai... ritenevo rischioso un possibile innalzamento dell'attenzione degli investigatori... alcuni operatori... facevano girare la voce di un interessamento all'oro dei 'signori della droga' ed era facile, pertanto, che queste voci arrivassero alle forze dell'ordine, d'altra parte la grande disponibilità di denaro rendeva fondato il sospetto".

 (ANSA l’8 dicembre 2022.) La cosca calabrese dei Mammoliti acquistava centinaia e centinaia di chilogrammi di cocaina dal narcotrafficate Raffaele Imperiale che di recente ha avviato un percorso di collaborazione con la Procura di Napoli. Lo ha rivelato - confermando le ipotesi degli inquirenti - in uno dei quattro verbali depositati nei giorni scorsi dall'ufficio inquirente partenopeo ai giudici del Riesame di Napoli.

Gli affari, fa sapere il "boss dei Van Gogh" (così soprannominato per essere entrato in possesso di due preziosissime tele del pittore fiammingo, custodite per lungo tempo e poi fatte ritrovare) subirono un'accelerazione nel 2016, dopo l'arresto di Rocco Mammoliti e il subentro alla guida di suo fratello Giuseppe. Le relazioni tra Imperiale e la cosca peggiorarono dopo il furto di un importante quantitativo di droga, ben 140 chili. 

Imperiale spiega ai magistrati partenopei che a mettere a segno il "colpo" erano stati proprio alcuni affiliati calabresi. Lo sgarro non rimase impunito e ci scappò anche un omicidio spacciato per un regolamento di conto per vicende sentimentali. Imperiale e Giuseppe Mammoliti giunsero a un accordo: si sarebbero divise le perdite. Ma comunque dalla Calabria non arrivarono ben 500mila euro. Da quel momento i Mammoliti cominciarono a chiedere quantitativi minori di cocaina, ricevendo però sempre il diniego di Imperiale.

Il narcotrafficante internazionale Raffaele Imperiale, neo collaboratore di giustizia, aveva accesso agli archivi dell'Interpol. A rivelarlo è lui stesso, in uno dei quattro verbali di dichiarazioni depositati qualche giorno fa dalla Procura di Napoli ai giudici del Riesame. Ebbe la necessità di controllare se ci fosse, o meno, un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Raffaele Mauriello, figlio dell'ex killer del clan Di Lauro Ciro Mauriello, diventato ex reggente del clan Amato-Pagano di Secondigliano.

Raffaele era in Spagna e già lavorava per conto di Imperiale. Seppe però che era stata emessa un'ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti: "...feci fare un controllo nei sistemi Interpol, - rivela - tramite un amico marocchino, non aveva ancora l'ordinanza e gli dissi di venire (a Dubai)". A Mauriello venne affidato il compito di gestire, per Imperiale, le relazioni con uno dei gruppi camorristi del Rione Traiano di Napoli e anche con un broker di Secondigliano che acquistava 80-100 chilogrammi di cocaina al mese.  (ANSA)

Il libro dedicato al vescovo anti-camorra. Chi era Don Riboldi, il vescovo anti-camorra che volle stare con gli ultimi. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 17 Novembre 2022 

Tra la fine di quest’anno e l’inizio del nuovo la Chiesa di Acerra, in Campania, promuove diverse iniziative per ricordare Antonio Riboldi, vescovo dal 1978 al 1999. Il 10 dicembre ricorre il quinto anniversario dalla morte; il 16 gennaio 2023 è il centenario della nascita. Il nostro ‘don Antonio’, come amava farsi chiamare, è stato un profeta in senso biblico, perché ha dato speranza a un popolo aiutandolo ad alzare la testa, in particolare i poveri, i deboli e i ‘senza tutto’ come li chiamava lui. Lo ha fatto anzitutto con la Parola, l’annuncio del Vangelo, e con la denuncia profetica. «Insieme con i vescovi campani contribuì nel lontano 1982 a quello storico documento programmatico da cui è partito il cammino nelle nostre Chiese della Campania, “Per amore del mio popolo non tacerò” redatto soprattutto da lui», ha ricordato nel giorno dei funerali il vescovo attuale, mons. Antonio Di Donna. E adesso la parabola umana, sociale, politica, ecclesiale di ‘don’ Antonio Riboldi è raccontata con particolari e testimonianze di prima mano da Pietro Perone, caporedattore de Il Mattino in un libro edito da San Paolo (Don Riboldi 1923-2023 Il coraggio tradito, San Paolo, pagg. 223 euro 18).

Il racconto inizia nel novembre 1982, quando in diecimila marciano dietro al vescovo di Acerra, mons. Riboldi. Manifestano con lui gli studenti, contro la Camorra e contro il suo potere. Il 1982 è l’anno della faida tra la Nuova Camorra di Cutolo e la Nuova Famiglia. I morti ammazzati sono quasi trecento. La voce del vescovo in quegli anni arrivava e si faceva sentire in Parlamento, in dialogo (e in polemica) con i politici, faccia a faccia con i criminali che volevano imporre la loro autorità su ogni aspetto della vita sociale. La lotta di mons. Riboldi fu un successo? Non del tutto, però ha avviato una presa di coscienza indispensabile per i successi giudiziari contro la Camorra, ma è rimasta inascoltata per quello cui don Riboldi teneva di più: voleva una riforma del vivere civile di Acerra, di Napoli, di tutta la Campania. Il bilancio del libro, in fondo, è amaro, perché i problemi di allora restano aperti oggi. Tuttavia il grande pregio del lavoro è di far conoscere l’azione e l’opera di don Riboldi alle nuove generazioni. Già i dati essenziali della biografia indicano la straordinarietà della persona. Era nato a Truggio, vicino Milano.

Diventato sacerdote, entrato nella congregazione religiosa dei Rosminiani, aveva passato qualche anno come viceparroco nei Castelli Romani e quindi nel 1968 era stato inviato in Belice come parroco, in mezzo ai terremotati. Lì in Belice aveva avviato quell’azione pastorale portata a compimento in Campania, nel dare voce a chi voce non ha. Dovunque si trovasse, don Riboldi accendeva un faro sulle situazioni più scottanti e promuoveva processi e percorsi di solidarietà e cambiamento. Come si vede bene a partire dal 1978. In quell’anno Paolo VI lo nomina vescovo di Acerra, mettendo termine a una sede vacante lunga 12 anni. Da qui il piglio deciso di un’azione pastorale che affronta i problemi sociali di una zona infettata dalla camorra: il libro descrive le situazioni e le persone con particolari, con dettagli, facendo letteralmente immergere il lettore nelle vicende di quel pezzo di Italia. Dirompente la capacità del vescovo Riboldi di parlare ai fedeli della sua diocesi che non è proprio dalla sua parte, ai parroci, alle autorità politiche dell’Italia di allora, compresi i sindacalisti e i partiti politici di governo e di opposizione. Erano gli anni della DC e del Partito Comunista, di Martinazzoli e di Berlinguer. I vescovi della Campania nel 1982, come ho ricordato all’inizio, pubblicarono un forte documento di denuncia (“Per amore del mio popolo non tacerò”, 29 giugno 1982) e come scrive nella prefazione al volume l’attuale vescovo di Acerra, mons. Antonio Di Donna, proprio quel testo ha ispirato, negli anni seguenti, l’azione di don Peppino Diana e di altri parroci di Casal di Principe.

Cosa rimane? Il giudizio dell’autore del libro si riassume nel sottotitolo del volume – il coraggio tradito – e nel capitolo dodicesimo – l’urlo nel cassetto – ovvero l’amara considerazione che se tanto è stato fatto per sensibilizzare, per denunciare, per provare a cambiare, la Chiesa e la società italiana nel suo complesso – eccezioni a parte – non hanno però saputo, potuto o voluto arrivare fino in fondo. Eppure l’esempio di don Riboldi ha portato risultati senza precedenti. La storia del vescovo si inscrive nella più generale storia della lotta al crimine organizzato. Nel 1984 arriva il pentimento di Buscetta e a Palermo si apre la stagione dei processi e degli attentati. Per quanto riguarda don Riboldi, il 1986 è l’anno in cui Raffaele Cutolo, in carcere ad Avellino, chiede di incontrarlo e avviare un dialogo di coscienza, che fa rumore perché la “cura d’anime” riesce a incidere anche sui criminali più incalliti. Dunque l’impegno costante del vescovo riesce a scalfire, ad incidere, porta un sussulto, a livello individuale. Ben altro è riuscire a provocare un terremoto collettivo. E infatti la visione amara di Petrone è raccolta in poche frasi, alla fine del libro: «Nel solco di don Riboldi, pezzi della Chiesa restano in trincea, ma dietro di loro, rispetto agli anni Ottanta, c’è solo il deserto che avanza. E se un tempo una parte della politica, insieme con il sindacato, era alleata di chi voleva combattere lo strapotere dei boss, ora è disattenta e contribuisce con le proprie mancanze a scavare solchi profondi che acuiscono la rassegnazione».

In mezzo c’è la trasformazione della criminalità organizzata, cui assistiamo giorno per giorno in questi 40 anni di storia raccontati dal libro. «A Ottaviano – scrive ancora Perone – da decenni non comandano più gli eredi di Cutolo, ma il loro posto è occupato dal clan Fabbrocino che fa affari, oltre che con stupefacenti, estorsioni e usura, con attività imprenditoriali e riciclaggio di denaro sporco. A Somma Vesuviana, da dove partì la storica marcia, i clan De Bernardo e D’Atri sono i ‘portavoce’ dei Mazzarella e dei Cuccaro di Napoli. Brilla per l’immutabilità mafiosa Torre Annunziata, dove sono attivi da oltre cinquant’anni i clan Gionta e Gallo-Cavalieri, contro i quali solo di recente si oppone un nuovo gruppo he si è denominato ‘Quarto Sistema’. A Castellammare, il Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose (…). Ad Afragola risultano profondamente radicati i clan Polverino, Mallardo e Moccia, quest’ultimo protagonista della trattativa per la dissociazione avviata nel ’94 da don Riboldi. (…) Anche ad Acerra nulla è cambiato: la Dia segnala che a contendersi gli affari criminali sono i resti del clan Nuzzo e ogni tanto ci scappa un assassinio o una sparatoria stile Far West tra giovani che girano ‘normalmente’ armati, mentre a tre chilometri di distanza, a Cardito, comanda il gruppo Pezzella alleato con i Ciccarelli del parco Verde di Caivano, la periferia del mondo» (p. 211-212).

Però la Chiesa c’è, oggi tra l’altro con il successore di don Riboldi, appunto mons. Di Donna, e con l’arcivescovo di Napoli mons. Battaglia. Il pregio del libro è di accendere un luminoso faro sui legami e le trasformazioni tra ieri ed oggi in questo pezzo d’Italia che si chiama Campania. È una terra segnata dall’illegalità ma anche dalla presenza di straordinarie risorse umane e altrettanto straordinarie sfide per uno Stato e una Chiesa che vogliano essere credibili e davvero vicini alle persone. Non a caso – nonostante tutto – non sono dimenticate le parole che don Riboldi rivolgeva durante quella grande marcia del 1982, ai politici, ai giovani, a tutti i partecipanti, ai quali tutti citava il profeta Isaia: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa». Che fare allora? La risposta va cercata in un’espressione cara a don Riboldi: “organizzare la speranza”. Parole attualissime che contengono tutto: politica, religione, società, economia, territorio, denuncia, azione, visione del futuro.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

"Mi stupii che un militare potesse arrivare a tanto". La storia di Nicola Barbato, il poliziotto paralizzato dalla camorra. Il pentito: “Carabiniere fece sparire pistola”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Ottobre 2022 

Avrebbe fatto sparire la pistola (mai più ritrovata) utilizzata da due affiliati del clan nel corso di una richiesta di pizzo finita nel sangue, con il ferimento del sovrintendente della polizia Nicola Barbato, all’epoca in forza alla Squadra Mobile ed oggi, a distanza di 7 anni, paralizzato su una sedia a rotelle dopo aver lottato per mesi in ospedale. E’ la gravissima accusa rivolta dal pentito di camorra Genny Carra (nella foto in alto a destra, ndr) al luogotenente dei carabinieri Giuseppe Bucolo, 56enne originario di Catania, finito ai domiciliari nelle scorse ore in seguito a una inchiesta coordinata dalla Dda di Napoli su un giro di usura (tra le vittime anche l’ex capitano del Napoli di Maradona Giuseppe Bruscolotti) e spaccio gestito dallo storico clan Volpe-Baratto, nel quartiere di Fuorigrotta.

Secondo quanto emerso nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di 11 persone firmata dal gip di Napoli Leda Rossetti, Bucolo risultava al soldo dei clan di camorra di Fuorigrotta e del Rione Traiano a partire dal 2003 in cambio di migliaia di euro al mese. Avrebbe rivelato informazioni riservate su indagini, anche in merito a futuri arresti, e “avrebbe anche omesso e ritardato i controlli e sequestri di droga nei confronti degli affiliati alla famiglia malavitosa dei Puccinelli”.

Ma l’episodio più raccapricciante dove sarebbe stato coinvolto il carabiniere è quello relativo al ferimento del poliziotto Barbato avvenuto il 24 settembre del 2015 nei pressi della stazione della Cumana di Fuorigrotta. All’epoca dei fatti, Barbato era impegnato in un’operazione antiracket sotto copertura insieme a un collega. L’agguato avvenne in via Leopardi poco dopo le 20. Barbato era fermo in auto insieme al collega mentre stava effettuando un servizio di osservazione presso un negozio di giocattoli che aveva ricevuto una richiesta di pizzo. Dopo poco un uomo, Raffaele Rende entra nella vettura dei poliziotti aprendo lo sportello posteriore.

Nel giro di dieci secondi esplode diversi colpi d’arma da fuoco prima di fuggire a bordo di uno scooter insieme a un complice. Barbato, colpito alla nuca, verrà soccorso poco dopo e trasportato in condizioni disperate in ospedale. Il responsabile Raffaele Rende, 27 anni, viene arrestato tre giorni dopo, scovato dalla polizia a casa di un parente nel quartiere San Giovanni a Teduccio. Barbato, originario di Gricignano d’Aversa (Caserta), rimase in coma per molto tempo e dopo circa un anno tornò finalmente a casa.

Il carabiniere Bucolo – secondo il racconto di Carra, oggi collaboratore di giustizia dopo un lungo passato alle redine del clan Cutolo del Rione Traiano (è spostato con la figlia del boss Salvatore Cutolo, detto Borotalco) – ebbe un ruolo nelle fasi successive al ferimento di Barbato.

“In occasione degli spari commessi dal Rende Raffaele (condannato per questi fatti) contro i poliziotti a Fuorigrotta di fronte alla Cumana di Fuorigrotta – racconta Carra – posso dire che sono stato io a fornire la pistola, una calibro 9 corto….il Rende dopo il fatto portò la pistola al Volpe (Antonio, vittima di un agguato tra la folla nel marzo 2021) e quest’ultimo chiamò il Bucolo Giuseppe per farla sparire. Andai dal Volpe per reclamare la mia arma ma questi mi raccontò di averla affidata al Bucolo. Io mi stupii che un carabiniere potesse arrivare a tanto, visto che quell’arma aveva sparato contro un poliziotto“.

Carra ha anche aggiunto di essere venuto a conoscenza del suo arresto proprio da Bucolo: “Seppi cioè circa 2 settimane prima che sarei stato arrestato”.

Nel dicembre 2018 Luigi e Giovanna, figli di Nicola Barbato (insieme nella foto, ndr), sono ufficialmente entrati in polizia. “Hanno idealmente ripreso il filo spezzato da quell’organizzazione criminale, vestendo la giubba del padre – scriveva l’account Facebook della polizia “Agente Lisa” -. Nicola rientra tra le vittime del dovere, del terrorismo e della criminalità organizzata e per i congiunti c’è la possibilità di arruolarsi con un iter diverso da quello dei concorsi. Ora questi due ragazzi, che ho conosciuto quando erano a fianco del padre mentre gli appuntavano una medaglia sul petto, hanno frequentato il corso e hanno giurato fedeltà alla Repubblica insieme ad altri che hanno storie simili alle spalle. Benvenuti ragazzi e un saluto affettuoso a papà da tutti noi!”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da ilnapolista.it il 18 luglio 2022.

Il Corriere della Sera Lettura ospita una lunga intervista di Teresa Ciabatti a Giuseppe Misso, detto ‘o Nasone, uno dei maggiori boss della camorra, oggi collaboratore di giustizia. Tre pagine da leggere tutte d’un fiato, come fossero un romanzo che racconta la Napoli degli anni ’90. Misso è un camorrista sui generis: allevatore di colombi, amante della letteratura (scrittori preferiti Céline e Dostoevskij), poeta e scrittore a sua volta. 

Fondatore del clan Misso, ha comandato ufficialmente Napoli dal 1999 al 2003, ma c’è chi dice lo abbia fatto per almeno 20 anni. Dicono di lui che sia stato uno dei capi più sanguinari. Ha iniziato a rubare quando aveva 5 anni. 

«Rubavo per mangiare. In generale rubavo quello che non avevo, anche il presepe. Legno e sughero per le capanne, e i pastori a San Gregorio Armeno. Sono l’ultimo di sette figli. Prima che nascessi, i miei avevano un panificio alla Porta di San Gennaro, stavano bene. I miei fratelli possedevano la bicicletta che, all’epoca, a Napoli, significava essere importante. Poi nel ’43 gli americani bombardano la città. Scendono a bassa quota e mitragliano i civili, tra questi mia sorella Agata, dieci anni. Per il dolore mia madre abbandona il commercio, cadiamo nella miseria. Nel ’47 nasco io. Quasi subito mio padre va in Brasile e non torna più».

Il primo furto con scasso è arrivato a 14 anni, in un negozio di elettrodomestici. Fu arrestato per la prima volta e da allora fu un continuo entrare ed uscire dal carcere. Ha partecipato anche alla prima rivolta nella storia di Poggioreale, nel 1968. In quell’occasione, gli agenti picchiarono duramente i detenuti coinvolti, racconta, che furono trasferiti al carcere di Mistretta, caricati nudi su un treno. Arrivati lì furono messi nel letto di contenzione.

«Una specie di gabbia con le sbarre a cui vieni legato e ammanettato. Disteso su una rete col buco centrale per i bisogni. Direttamente sul ferro. Mi fingo pazzo, al tempo l’ultima chance per uscire. Urlo frasi sconnesse: “La neve ci ucciderà”, “Le formiche mi stanno mangiando la faccia”. Fui trasferito a Barcellona Pozzo di Gotto, manicomio criminale. 

Lì ci sono i matti veri, e qualcuno che finge come me, per esempio Frank Tre dita. Anche a Pozzo di Gotto letto di contenzione e botte. I secondini ci pisciano addosso. Pisciano e sputano nel cibo. Una notte, con un cucchiaio, uno dei matti veri cava un occhio a un altro che dormiva. Si aggira con l’occhio sul cucchiaio, offrendocelo: “Gradisci l’ovetto?”».

Al manicomio criminale riuscì a resistere undici mesi.

«L’essere umano si adatta a tutto». 

Di quanti soldi disponeva in quegli anni?

«Venti, trenta miliardi, non so quantificare. Amavo spendere, e regalare». 

Racconta come spendeva.

«Vestiti dal sarto, scarpe, oggetti di lusso come orologi e statue. A fine anni Settanta avevo la carta Visa con credito illimitato, e una Jaguar bianca col telefono dentro. Dovunque arrivassi, Forcella, Secondigliano, la gente veniva intorno. I bambini circondavano la Jaguar, Peppe Misso, Peppe Misso, chiamavano — e chi l’aveva mai vista una macchina col telefono dentro». 

Chi chiamava dal telefono della macchina?

«Assunta, la mia compagna, per dire di buttare la pasta». 

Dove sono oggetti e vestiti costosi di allora?

«Ho subito due saccheggi da conoscenti e parenti nei periodi in cui ero in carcere. Nel ’92, dopo l’uccisione di Assunta, hanno preso libretti al portatore, gioielli, pellicce. Nel 2003, prima che la casa venisse confiscata, hanno portato via ogni cosa: mobili, vestiti, cravatte. Centinaia di cravatte di Marinella. Addirittura il Dom Perignon, si sono presi il Dom Perignon, casse e casse».

Non resta niente?

«Il carillon. Un cofanetto che, caricato, suonava Il lago dei cigni. Nella casa vuota, non tanto di mobili, ma di Assunta, l’ho fatto suonare». 

Nel 1979, dopo due anni e otto mesi, uscì di prigione e trovò una Napoli trasformata. Da un lato La Nuova Camorra organizzata di Cutolo, dall’altra la Nuova Famiglia, il clan Giuliano-Secondigliano-Fabbrocino-Luigi Vollaro.

«Solo chi c’era sa che prima del ’78 la camorra a Napoli non esisteva. Esisteva la mafia silenziosa con le sue filiali, i Nuvoletta e gli Zaza dediti al contrabbando di sigarette. La camorra nasce con Raffaele Cutolo che battezza in carcere, e si diffonde con una propaganda attraverso televisioni di Stato e giornali. Ogni volta che viene intervistato, nelle pause processuali, Cutolo lancia messaggi, ed emana sentenze di morte». 

Rifiutò di allearsi con Luigi Giuliano «l’amico fraterno, boss», anzi, lo avvertì di lasciare in pace i commercianti di via Duomo.

«Divento socio di Nino Galeota, già proprietario di Uomo, negozio di scarpe, e apro con lui Eurosport, negozio di articoli sportivi. Il patto con Giuliano, da me stabilito e da lui accettato, era che loro non chiedessero il pizzo a Nino Galeota e a nessun commerciante di via Duomo». 

E invece il cognato di Giuliano andò a chiedere il pizzo a Galeota.

«Allora io capisco di non potermi più tirare indietro, sono in guerra… la prima cosa che faccio: salire in terrazzo e distruggere la colombaia. Sapevo di non potermi più prendere cura dei miei colombi». 

Meglio liberi?

«Da ragazzino facevo il giro delle uccellerie per aprire le gabbie. Quando andavo in visita alle persone della Sanità, quelli si affrettavano a nascondere le gabbie. “Se lui li vede, li libera” dicevano. Era vero. Liberavo pure i canarini». 

Torna a parlare del negozio articoli sportivi:

«Da un amico fotografo Nino si fa dare le foto delle azioni salienti delle partite. La domenica, a fine partita, la gente viene a guardare le foto, e compra le scarpe. Il nostro era il negozio dei calciatori del Napoli». 

Misso è quello che mise la bomba sotto casa dell’allora presidente del Napoli, Ferlaino.

«Io e Nino eravamo stremati, una sconfitta dietro l’altra. Il presidente Ferlaino ci stava portando alla rovina. Così mettiamo una bomba di tritolo sotto casa sua, e un’altra allo stadio San Paolo. Non è finita: facciamo volare un aereo sopra la città con lo striscione: “Ferlaino via, Juliano torna”. Poi volantini e manifesti, un assedio». 

Ferlaino si dimise.

«Tornerà pochi mesi dopo, richiamando Juliano, e facendo una squadra come dicevamo noi: nell’84 compra Maradona». 

Di Diego dice:

«Grandissimo giocatore. Non ho apprezzato la sua amicizia con il clan Giuliano, né il momento in cui si rifiutava di riconoscere il figlio, lo dissi a Josè Alberti, il vero responsabile della sua venuta a Napoli, fu lui a convincerlo. Dissi a Josè che non volevo più sentire parlare di Maradona per come si era comportato col figlio. Josè mi rispose: “Ti giuro che lo riconoscerà”».

Gli chiedono quanti morti si porta sulla coscienza.

«Ho condotto una guerra nell’ambito della quale sono state uccise molte persone, non sono in grado di quantificare». 

Attualmente è collaboratore di giustizia, ovvero pentito.

«Non sono un pentito, non ho niente di cui pentirmi. Certe decisioni andavano prese, era giustizia». 

Ha scontato 34 anni di carcere. Racconta cosa gli manca della vita di prima.

«Chiamare la gente: dottore, sindaco, vicesindaco. Chiamarli, e quelli venivano. Oggi non viene più nessuno». 

Ha due figli: un maschio ed una femmina. Il maschio si chiama Marco, in onore di Marco Aurelio. Avrebbe voluto che si laureasse, aveva per lui grandi sogni. Quando aveva 7 anni glielo portarono in carcere e Misso capì subito che era gay.

«Mi basta uno sguardo. Con la vita che ho fatto, capire in pochi secondi se una persona voleva ammazzarmi o no, ho sviluppato una certa conoscenza dell’umanità. Unita alla conoscenza dei colombi. Mi basta uno sguardo per capire se un colombo è maschio o femmina». 

Dopo vari tentativi di nascondere la sua vera natura, il figlio si trasformò in Jessica.

«Si fa crescere i capelli, comincia a truccarsi. In seguito si veste da donna: gonne e tacchi alti. Gli dissi: non potevi chiamarti Marta? Marta è un bel nome, Jessica no. Non mi piace, penso a Jessica Rabbit». 

Oggi Jessica ha un compagno, è felice, va a cena fuori con il padre.

«Per la verità me la sono sempre portata nei migliori ristoranti e non solo. Io mia figlia non l’ho mai nascosta».

Al processo fu denigrato da Luigi Giuliano perché aveva un figlio trans. Ma anche in quell’occasione lui lo difese.

«In Tribunale, davanti a tutti, mi rivolgo al Giudice: “Signor Giudice sì, mio figlio è gay, è per caso una vergogna?”». 

Prima di lei: il destino dei figli omosessuali dei boss?

«Scomparivano». 

Dice che da Napoli manca da un po’, ma analizza comunque alcuni fenomeni, come quello delle stese dei ragazzini.

«Esistono perché i capi li lasciano fare. Se ai capi non facessero comodo, li avrebbero già presi e sciolti nell’acido. Questi ragazzini distolgono l’attenzione dai grandi affari della camorra, come il processo di penetrazione criminale nel circuito finanziario legale. La mafia è finita in quanto sono finite le famiglie, la camorra non finirà mai. Sono ancora tantissimi».

Sotto il programma di protezione ha potuto rifarsi la colombaia, ma per un’epidemia di aviaria ha dovuto distruggerla per la seconda volta.

«Non c’è cosa peggiore che togliere la casa ai colombi. Tu sai che da quel momento loro vanno soli. Alcuni sopravvivono, altri no».

Fabio Postiglione per corriere.it il 13 giugno 2022.

«Si comunica che il suo assistito è deceduto alle ore 7.10». E’ morto questa mattina al carcere di Milano Opera Cosimo Di Lauro, il boss con il codino, per anni capo della camorra di Secondigliano (Napoli) e in carcere dal 2005 quando fu arrestato dai carabinieri in una casa bunker nel quartiere nord della città. Cosimo Di Lauro, 49 anni, figlio del boss Paolo, era detenuto al carcere duro e stava scontando ergastoli per gli omicidi commessi durante la prima faida di Scampia, quella che ha provocato oltre 100 morti in otto mesi.

Il boss con il codino

Cosimo Di Lauro, il boss stragista, la mente che ha voluto la feroce faida tra le Vele di Scampia è morto questa mattina al carcere di Milano Opera. Era in galera dal 21 gennaio del 2005, da quando fu arrestato perché ritenuto il mandante dei primi omicidi che portarono alla guerra tra il suo clan, e l’ala scissionista degli Amato-Pagano. Era al carcere duro e questa mattina i suoi avvocati difensori Saverio Senese e Salvatore Pettirossi hanno ricevuto dall’ufficio matricola un fax classificato come: Urgentissimo. Quattro righe scritte al computer.

Oggetto: «Detenuto al 41 bis Cosimo Di Lauro, nato a Napoli l’8 dicembre 1973. Con riferimento al detenuto indicato in oggetto, si comunica che in data odierna alle 7.10 ne è stato constatato il decesso. Cordiali saluti». Il boss con il codino, che quando fu arrestato indossava giubbotto di pelle e jeans attillati, e che divenne la prima icona del male ai tempi di internet, è morto nella sua cella. Ed è giallo sulle cause della sua morte. Gli avvocati avevano chiesto di sottoporlo a una perizia psichiatrica perché il sospetto è che soffrisse di turbe psichiche ma non è mai stato visitato.

Giallo sulle cause della morte

Aveva turbe psichiche, allucinazioni, rifiutava la terapia, non voleva incontrare i familiari. Nel 2018 gli avvocati di Cosimo Di Lauro, Saverio Senese e Salvatore Pettirossi, avevano chiesto ai giudici della terza Corte d’Assise di Napoli di «sospendere il giudizio e di disporre una perizia psichiatrica» per accertare «le condizioni di salute psicofisica» e la capacità «di stare coscientemente al processo». «Assume dosi massicce di psicofarmaci somministrati da anni come ad un paziente psichiatrico». Per i legali di Cosimo, le cui cause della morte saranno accertate dall’autopsia, in carcere non ci doveva restare, e doveva essere sottoposto a cure specifiche.

E già oltre dieci anni fa, il 15 gennaio del 2008 arrivò la prima perizia di parte «che dimostra come le attuali condizioni di salute, lungi dall’essere nate improvvisamente o per effetto di una simulazione, ma siano piuttosto il risultato di un lento processo». I medici parlavano di ansia, disturbi mentali e comportamenti bizzarri «come ridere a crepapelle anche nel cuore della notte».  

La Procura di Milano ha disposto una consulenza medico legale e tossicologica per chiarire le cause della morte, nonché quali fossero le condizioni di salute nell’ultimo periodo di Cosimo Di Lauro. Il pm di turno Roberto Fontana ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti, un atto «prudenziale» appunto per svolgere l’autopsia e gli accertamenti medico legali e tossicologici. A quanto si è saputo, sul corpo del boss e nella cella non sarebbero stati trovati segni evidenti o elementi che possano allo stato far ipotizzare un suicidio o una morte violenta.

Gli ergastoli

Condannato all’ergastolo per l’omicidio di Massimo Marino, cugino di Gennaro detto «Mekkey». Fu la prima vendetta al duplice omicidio Fulvio Montanino e Claudio Salierno, il primo amico d’infanzia di Cosimo che decise di far assassinare Massimo, perché Gennaro era stato arrestato. Condannato all’ergastolo anche per l’omicidio di Mariano Nocera, uomo del clan Abete-Abbinante. Quest’ultimo ucciso perché non obbedì all’ordine di Cosimo che voleva l’ultima parola su ogni attività nel quartiere.

Era imputato per l’omicidio di Carmela Attrice, mamma di un ras che per nascondere il figlio dalla furia della camorra durante una faida che lasciò al suolo oltre 100 corpi in meno di un anno, fu ammazzata. Cosimo è stato assolto con formula piena dall’omicidio di Gelsomina Verde e dall’omicidio di Attilio Romanò, vittime innocenti della camorra. La prima torturata, uccisa e data alle fiamme perché non volle rivelare il nascondiglio di un uomo del clan avversario che conosceva, e l’altro ucciso in un negozio di telefonia, perché scambiato per un altro.

Roberto Saviano per il “Corriere della Sera” il 14 Giugno 2022.

La notizia della morte di Cosimo Di Lauro , Cosimino, mi ha riportato direttamente nei giorni della faida di Scampia, quando lui si fece Generale di una delle più sanguinose guerre interne accadute in un’organizzazione criminale, una delle più sanguinose della storia umana. 

Era nato fortunato e incoronato: primo figlio del boss Paolo Di Lauro. Era nato l’8 dicembre del ’73, e questo era sembrato al padre un segnale miracoloso: il primo figlio maschio che nasce il giorno dell’Immacolata Concezione.

Cosimo ha tradito tutte le aspettative di suo padre. Cosimo ha sbagliato tutto quello che era possibile sbagliare. Ha tradito persino il suo nome — Cosimo — che viene da kòsmios, moderato. Non fu moderato mai, neanche per un istante, nella sua vita. Cosimo è rispettato solo perché è il figlio di Paolo. 

È chiamato «’o Chiatto», cresce grosso, goffo, non ha mai sparato in vita sua. Sì, certo, in strada ci si «vatte», ci si picchia spessissimo, è un modo per misurare la propria mascolinità, corteggiare, mostrarsi vincenti. Ma Cosimo, se non fosse figlio di re, non riuscirebbe neanche a fare l’autista per una famiglia di camorra.

Dentro di sé ha voglia di emergere, ha una grande rabbia, brama ad essere rispettato da suo padre per ciò che è, non semplicemente perché è nato dal suo sangue. Ha vissuto una vita in competizione, cercando di essere amato dal genitore, che fra tutti i figli, probabilmente, preferiva Vincenzo, trovandolo più capace di gestire la responsabilità del potere. E la madre, fra tutti, era molto legata ai più piccoli, Antonio, e Giuseppe l’unico incensurato.

Proprio mentre il padre è assente, accade l’episodio destinato a diventare cruciale, ce lo raccontano i pentiti: Nunzio, il litigiosissimo fratello di Cosimo, si picchia con un affiliato del clan Licciardi. Lello Amato viene mandato a parlare con questa persona dei Licciardi, per dire che non si devono permettere di toccare Nunzio. 

È stata la regola aurea di tutta la storia della camorra degli ultimi anni: il sangue dei Di Lauro non viene mai messo a terra, perché è il sangue di coloro che portano qui la droga di qualità, e quindi sono i fornitori di ricchezza e lavoro per tutti. Chi fornisce è intoccabile. Ma questo affiliato dei Licciardi, gli risponde minacciandolo di morte: «Se vieni qua un’altra volta ti sparo in bocca».

Lello amato va da Cosimo, riporta quella minaccia, gli dice che una cosa simile non è accettabile e che lui, quindi, avrebbe ucciso questo affiliato dei Licciardi. Cosimo glielo impedisce, dicendo che è lui a decidere chi muore adesso. È il primo atto in scena di Cosimino, che inizia una lenta rivoluzione maltrattando tutti i colonnelli del padre. Il senso è: basta potere ai vecchi. I liberi imprenditori diventano dipendenti. 

Cosimo dà l’ordine: tutti a stipendio, riceveranno soltanto un salario, le piazze tornano alla gestione diretta dei Di Lauro, non si è più liberi tra pari, ma c’è un re e tutti gli sono sudditi. Avviene la scissione. Fulvio Montanino viene mandato a uccidere Luigi Aliberti, con cui divideva una piazza, ’o Luongo.

Chiunque si pone contro di lui deve essere ucciso. Un killer degli Scissionisti, Gennaro Notturno, scappa, e gli uomini di Cosimo tortureranno una ragazza bruciandola, Mina Verde, perché non rivela il luogo dove è nascosto Notturno, con cui ha avuto una relazione. 

La Scissione cerca di far rientrare Paolo Di Lauro a tutti i costi, gli scissionisti vogliono che il padre riprenda il potere, ma Cosimo continua la guerra. Settanta morti in un anno soltanto, in un fazzoletto di terra. Muoiono moltissimi innocenti, persone uccise per scambio di persona, come Dario Scherillo e Attilio Romanò, o Antonio Landieri, che si trovava semplicemente sulla linea di tiro in un agguato.

Cosimo considera tutto questo come la sua vittoria: lo vedevano come un chiattone incapace di uccidere, e invece ora tutti hanno paura di lui. Ma gli affari iniziano ad andare male. L’attenzione mediatica è tantissima, questo porterebbe qualsiasi capo clan a fermarsi, ma non Cosimo, che invece vede la sua vendetta: più violenza c’è, più lui è forte, più i suoi nemici avranno paura e cercheranno una negoziazione, andranno via e gli lasceranno il campo. 

È convinto che persino i morti innocenti giocheranno a suo favore, tanto che diversi pentiti diranno che la sua frase era: «Cchiù sanghe amma fa punt’», più sangue più alto il punteggio. La morte di innocenti non è un problema, perché se la sua furia tocca persino chi non c’entra con le dinamiche di camorra significa che chi invece è coinvolto non avrà scampo di salvezza. 

Dopo tre anni di guerra e di ferocia tra scissionisti e Di Lauro siamo all’epilogo. Quando arrestano Cosimo, nel gennaio del 2005, i carabinieri non riescono a prelevarlo: l’Italia intera raccontò che il quartiere difese il boss, un atto di solidarietà verso il capo, ma non è così semplice.

Ci fu un’effettiva rivolta, ma serviva a dire al capo: non siamo stati noi a parlare, non siamo noi i traditori, prenditela con chi ha davvero tradito il quartiere. Cosimo è stato un sovrano criminale per poco tempo. In questi 17 anni in carcere duro al 41 bis, Cosimo sembrerebbe completamente impazzito: non si lavava più, non voleva più colloqui, non rispondeva agli avvocati. 

Tutti, in realtà, l’hanno lasciato solo. Poteva pentirsi, provare a rimediare, però non voleva essere il primo della sua famiglia a collaborare. Il suo silenzio ha comunque protetto le imprese nate dai suoi soldi, le campagne politiche sostenute dal narcodenaro, i flussi di corruzione che in questi anni hanno deciso appalti, processi, equilibri. Tutto quello che poteva sbagliare ha sbagliato.

Non sappiamo ancora il motivo della morte di Cosimo: infarto, ischemia, suicidio... qualcuno dice autoavvelenamento. Ma qualunque sia la causa della sua morte, il senso è questo: per un camorrista neanche quando si muore arriva la pace. E ora mi sento solo di dire: è così che immaginavi sarebbe stata la vita di chi ha il potere di decidere della vita e della morte di tutti, Cosimì?

Trovato morto in cella il boss della camorra. Era "Genny Savastano". Stefano Vladovich il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

Di Lauro avviò la prima faida a Scampia. Aperto un fascicolo per omicidio colposo.

L'hanno trovato le guardie penitenziarie alla prima ispezione della giornata. Cosimo Di Lauro, il boss di Secondigliano condannato a tre ergastoli, è morto ieri nel carcere di Opera dov'era detenuto in regime di 41bis dal 2005. Figlio di Paolo, Ciruzzo o Milionario, Cosimo era il reggente del clan Di Lauro, gruppo camorristico contrapposto agli «scissionisti». Criminale di spessore, tanto da ispirare il personaggio di Genny Savastano nella serie tv Gomorra. Come Cosimo, Genny è il figlio scelto dal grande boss per guidare l'attività principale del gruppo: traffico di droga, estorsioni, gioco d'azzardo. E come nella fiction, Cosimo Di Lauro inizia una guerra sanguinaria per le strade del quartiere contro gli ex affiliati che non gradiscono il passaggio del testimone dal vecchio al giovane e che provoca un centinaio di morti tra il 2004 e il 2005, anno in cui Di Lauro viene arrestato dalla Dda di Napoli.

Una morte avvolta nel mistero quella di Di Lauro, 48 anni di cui 17 passati dietro le sbarre in regime di carcere duro. Sul corpo nessun segno di violenza, niente che faccia pensare a un suicidio ma nemmeno a un malore. Tanto che il pm Roberto Fontana ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Un atto dovuto o per la Procura milanese Di Lauro è stato ucciso? Magari con cibo avvelenato. Per chiarire le cause della sua morte, oltre all'autopsia, sono stati disposti esami tossicologici e una consulenza medico legale. Per i giudici che l'hanno processato più volte per omicidio Di Lauro si fingeva matto per uscire di galera. «Non rispondeva alle domande, era sempre sporco, assente. In parlatorio mi fissava senza parlare, sin dall'inizio ho sempre avuto la sensazione che fosse uno squilibrato» spiega l'avvocato Saverio Senese, suo legale. Senese ricorda il boss come una persona che non era più in grado di comprendere. Gli ultimi colloqui una decina di anni fa, a Roma. «L'autorità giudiziaria - continua Senese - riteneva stesse fingendo. Se così è stato allora era anche un grande attore». Anche i rapporti con i familiari erano cessati da tempo. Nel 2015 viene presentata una denuncia al Dap e al garante dei detenuti per mettere in evidenza l'immobilismo delle autorità competenti nei confronti del suo stato di salute. Una perizia di parte parla di una grave patologia psichiatrica. A comunicare all'avvocato Senese la morte di Di Lauro poche righe inviate via pec: «Con riferimento al detenuto indicato in oggetto suo assistito, si comunica che in data odierna alle ore 7,10 ne è stato constatato il decesso».

Di Lauro è stato il protagonista della prima faida di Scampia, la guerra di Camorra che ha visto contrapposti da una parte i Di Lauro di via Cupa dell'Arco a Secondigliano, capeggiati dal capofamiglia Ciruzzo, dall'altra la frangia degli scissionisti, detti anche gli spagnoli perché operavano dalla Spagna, capeggiati da Raffaele Amato. Un primo ergastolo per Cosimo arriva per l'omicidio di Massimo Marino, cugino del boss Gennaro, Genny McKay. Gennaro era il braccio destro del padre Paolo e non aveva mai accettato la nuova guida del clan, affidata a Cosimo, primogenito dei quattro figli di Ciruzzo. Dall'ottobre 2004 al gennaio 2005, quando Cosimo viene arrestato, la guerra insanguina i quartieri controllati dal clan e si estende nei Comuni vicini: Melito, Mugnano, Marano, Giugliano e Bacoli, Casavatore e Arzano. Fra le famiglie coinvolte gli Abbinante di Marano, i referenti di Melito, i Pariante, i Ferone.

Per i legali soffriva di disturbi psichici mai curati in carcere. Chi era Cosimo Di Lauro, dalla faida di Scampia (“più morti si facevano più era contento”) alla rivolta dopo l’arresto: “O pazzo o grande attore…” Ciro Cuozzo su Il Riformista il 13 Giugno 2022. 

Cosimo Di Lauro era ‘F1‘. Il primo di dieci figli maschi di Paolo, il superboss di Scampia e Secondigliano che Luigi Giuliano soprannominò “Ciruzzo ‘o milionario” perché si presentò una sera, a fine anni ’80, in una bisca di Napoli con i soldi che gli fuoriuscivano dalla tasche. Era etichettato “F1” nei libri ‘contabili’ della famiglia camorristica che per decenni ha imbottito di droga l’area nord del capoluogo partenopeo, facendo diventare Scampia la più grande piazza di spaccio a cielo aperto d’Europa e ispirando serie, film e libri dopo l’esplosione della faida contro gli Scissionisti avvenuta nel 2004 ‘grazie’ proprio al delirio di onnipotenza di Cosimino e dei suoi fratelli (Vincenzo, Ciro, Marco, arrestato nel 2019 dopo oltre 14 anni di latitanza, Nunzio).

Nato l’8 dicembre 1973, Cosimo Di Lauro è morto a 48 anni nella notte tra domenica e lunedì (12-13 giugno) nel carcere milanese di Opera, dove era ritenuto da tempo in regime di 41 bis. Il decesso stato comunicato attraverso una Pec al legale Saverio Senese questa mattina, pec nella quale veniva specificato che la morte era sopraggiunta alle 7.10. Le cause non sono state rese note ma, secondo le prime informazioni raccolte, sarebbe stato stroncato da un malore. Una morte per cause naturali ma sarà l’autopsia a far luce su tutto. In passato più volte i suoi legali avevano chiesto una perizia psichiatrica (istanza sempre rigettata dai giudici). Cosimo, secondo gli avvocati, da tempo rifiutava contatti all’interno del carcere. Rifiutava di sottoporsi a visite mediche e di presentarsi al colloquio mensile con parenti e, appunto, legali. Ma per gli inquirenti non era pazzo ma stava solo simulando per ottenere qualche agevolazione in gattabuia, considerati i numerosi anni di carcere che doveva scontare in regime di 41 bis.

“Ormai non rispondeva alle domande, era sempre sporco, assente; sin dall’inizio ho sempre avuto la sensazione che fosse uno squilibrato” riferisce l’avvocato Senese all’Ansa che dice di aver avuto l’ultimo contatto con il suo cliente quasi dieci anni fa quando era recluso nel carcere di Rebibbia. “Durante i colloqui mi fissava – ricorda Senese – ma dava la sensazione che non fosse in grado di comprendere. L’autorità giudiziaria riteneva stesse fingendo. Se così è stato allora era anche un grande attore…”.  Nel 2015 venne presentata una denuncia al Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) ed al garante dei detenuti proprio per mettere in evidenza l’immobilismo delle autorità competenti nei confronti del suo stato di salute che, secondo una perizia di parte, era affetto da una grave patologia psichiatrica. Arrestato nel gennaio del 2005, Cosimo Di Lauro è stato ritenuto colpevole, anche attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, di numerosi omicidi: è stato condannato a più ergastoli (alcuni non definitivi).

Per il garante dei detenuti di Milano, Franco Maisto, “non abbiamo mai seguito la sua vicenda perché non è mai arrivata nessuna richiesta da parte dei suoi familiari o dei suoi legali. Ho controllato nel mio ufficio e da quando era a Milano non ce ne siamo mai occupati”.

Secondo i suoi legali Cosimo “aveva turbe psichiche, allucinazioni, rifiutava la terapia, non voleva incontrare i familiari” e, quando richiesero nel 2018 una perizia psichiatrica spiegarono che “assume dosi massicce di psicofarmaci somministrati da anni come a un paziente psichiatrico”. In una perizia di parte visionata dall’Agi e relativa a al 15 gennaio 2008, veniva spiegato che “le attuali condizioni di salute, lungi dall’essere nate improvvisamente o per effetto di una simulazione, ma siano piuttosto il risultato Di un lento processo”. I medici elencavano ansia, disturbi mentali e comportamenti bizzarri “come ridere a crepapelle anche nel cuore della notte”. Comportamenti che andavano avanti dal 2007 e sono degenerati nel corso degli anni anche perché, come spesso capita nelle carceri italiane, non curati con tutte le misure necessarie.

La storia criminale: dalla reggenza del clan all’arresto e la rivolta

A lui il padre Paolo, latitante dal 2002, aveva affidato le redini del clan, in virtù di una semplice regola di famiglia: “Comanda il figlio più grande in libertà, anche se latitante”. Ma la sua gestione troppo accentratrice iniziò a creare malumori tra i colonnelli e fedelissimi di Paolo Di Lauro che portò poi nell’ottobre del 2004 allo scoppio della prima faida di Scampia tra i Di Lauro e gli Scissionisti guidati da Raffaele Amato e Cesare Pagano e foraggiati dai gruppi Marino, Abbinante, Notturno, Abete. Faida che iniziò con il duplice omicidio di Fulvio Montanino (braccio destro di Cosimo) e Claudio Salerno il 28 ottobre 2004. E che andò avanti, tra il 2004 e il 2005, provocando in appena sei mesi oltre 60 omicidi, tra i quali anche quelli di persone che con la criminalità organizzata non c’entravano nulla (Antonio Landieri, Gelsomina Verde, Attilio Romanò).

Il 21 gennaio 2005 Cosimo Di Lauro venne arrestato nel Rione dei Fiori di Secondigliano, fortino del clan ribattezzato ‘Terzo Mondo’. I carabinieri nello scortare il boss in auto dovettero far fronte alla reazione dei residenti, soprattutto donne, che scesero in strada in segno di protesta mentre altri dal balcone lanciarono oggetti contro le forze dell’ordine. Una protesta dal duplice significato: dimostrare la fedeltà al clan, all’epoca in guerra con gli Scissionisti, e dimostrare che non erano stati loro a tradirlo e a fornire informazioni utili alla cattura. A poca distanza, i rivali festeggiarono la notizia dell’arresto con l’esplosioni di numerose batterie di fuochi d’artificio.

Durante la prima faida voluta dai Cosimo e dai suoi fratelli, che all’epoca affidarono numerose piazze di spaccio ai propri fedelissimi, scontentando i senatori del clan, si moriva anche per uno sguardo o per una parentela lontana o perché “nessuno poteva commettere omicidi senza essere autorizzato dal capo del clan Di Lauro”. Secondo le dichiarazioni del pentito Salvatore Tamburrino, fedelissimo del clan Di Lauro e uomo di fiducia di Marco durante la sua lunga latitanza (fu lui a provocare quelle ‘fibrillazioni’ che il 2 marzo 2019, dopo il femminicidio della moglie Norina Matuozzo, portarono all’arresto del boss, quarto figlio di Ciruzzo ‘o milionario, latitante da quasi 14 anni e stanato in un’abitazione di Chiaiano), Cosimo durante la faida “più persone si uccidevano più era contento…“.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

La sua follia avallata dal papà e dai fratelli. Cosimo Di Lauro, la retorica sul camorrista sanguinario come tutti i mafiosi e morto sepolto al 41bis. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 14 Giugno 2022. 

Per il suo legale, “Cosimo Di Lauro o era pazzo o era un grande attore“. Sul primogenito del superboss Paolo, detto Ciruzzo ‘o milionario, in queste ore si sprecano giudizi carichi di retorica. Era un boss, un sanguinario, un uomo che ha ordinato (grazie al racconto di numerosi pentiti) omicidi e stragi di camorra che hanno coinvolto anche persone innocenti. E’ stato l’artefice della prima, sanguinosa, faida di Scampia (oltre 60 morti in appena sei mesi tra il 2004 e il 2005). E’ stato colui che ha bruciato in tre anni l’impero costruito da papà Paolo, mafioso sempre lontano dai riflettori ma in quel periodo latitante e stanato, pochi mesi dopo “F1”, a poche centinaia di metri di distanza.

Cosimo era un criminale che a 32 anni venne arrestato (21 gennaio 2005) nel suo fortino, il rione dei Fiori di Secondigliano, e sepolto al 41bis, a quel carcere duro che equivale quasi a una condanna a morte. E per “F1” così è stato. Giorno dopo giorno, per 17 anni, le sue condizioni fisiche e mentali sono degenerate fino all’epilogo della mattina di lunedì 13 giugno 2022 quando via pec è stato comunicato al suo avvocato, Saverio Senese, la notizia del decesso, avvenuto nella cella del carcere di massima sicurezza di Opera a Milano. Da tempo, per i suoi difensori già a partire dal 2008, era affetto da una grave patologia psichiatrica. Ma le perizie di parte e le istanze presentate dai suoi avvocati sono sempre state rigettate dai giudici che vedevano nel comportamento di Di Lauro jr una simulazione volta a ottenere agevolazioni in carcere. Eppure fino a pochi anni fa Cosimino stava scontando solo una condanna per associazione mafiosa, poi con le ricostruzioni dei vari collaboratori di giustizia sono arrivate le condanne a più ergastoli.

Cosimo con il passare degli anni è stato abbandonato da tutti, lasciato marcire in cella dove si è consumato giorno dopo giorno. Stando a quanto ricostruito, negli ultimi anni “F1” farneticava di giorno e ululava di notte. Era arrivato a fumare quasi 100 sigarette al giorno che – sottolinea l’Ansa- avevano reso i suoi denti neri come il carbone. L’ultima volta che i suoi legali, Saverio Senese e Salvatore Pettirossi, l’hanno visto da vicino risale al giugno del 2019: si recarono nel carcere di Opera dopo aver ricevuto da lui un foglio bianco, una lettera “pulita”. Quando gli avvocati gli chiesero il motivo, Cosimo Di Lauro rispose con frasi farneticanti, prima di salutarli per – disse ai professionisti attoniti – “una riunione importante con alcuni imprenditori che doveva sostenere nella veste di capo di un mondo parallelo”.

Cosimino è morto nell’indifferenza di tutti, anche dei suoi familiari che da tempo – pare – rifiutava di vedere ai colloqui saltuari consentiti ai detenuti reclusi in regime di carcere duro. Non voleva incontrare nessuno. Mangiava poco ed era probabilmente perseguitato dagli orrori commessi in libertà. Per recuperarlo, almeno dal punto di vista mentale, nulla o quasi è stato fatto. Perizie e istanze dei legali a parte, nessuno ha mosso un dito. Nessuna richiesta al garante dei detenuti di Milano negli ultimi anni (Cosimo ha cambiato almeno 5-6 carceri ma era recluso a Opera da diversi anni). Al Riformista Franco Maisto spiega: “Non abbiamo mai seguito la sua vicenda perché non è mai arrivata nessuna richiesta da parte dei suoi familiari o dei suoi legali. Ho controllato nel mio ufficio e da quando era a Milano non ce ne siamo mai occupati”.

Emblematiche in quest’ottica le parole di don Maurizio Patriciello, parroco di frontiera (e sotto scorta) del parco Verde di Caivano, altra zona trasformata dalla malavita in una piazza di spaccio a cielo aperto dopo la repressione dello Stato attuata a Scampia, fortino della famiglia Di Lauro (e non solo di Cosimino). Scrive Patriciello: “È morto. Solo. Dopo 17 anni di carcere duro. Era ancora giovane. È morto. Senza un conforto. Senza una carezza. Senza una preghiera. È morto come un miserabile. Eppure fu ricchissimo. Si chiamava Cosimo Di Lauro. Fu un camorrista spietato, vigliacco, sanguinario. Un vero terrorista. Nessuno mai lo amò. Nemmeno i genitori. Nemmeno i suoi fratelli. Suo padre firmò la sua condanna a morte. Giovani camorristi, fermatevi. Riflettete. Tornate indietro. Pentitevi. Godetevi la vita. Il fantasma di Cosimo Di Lauro vi tolga la pace e il sonno. Fratello Cosimo, so che tanti ti augurano l’inferno. Io, povero prete, ti affido alle mani del buon Dio. Che abbia pietà di te e della tua vita scellerata. E abbia pietà di noi, costretti a convivere con chi, come te, ha insanguinato e insanguina la nostra terra generosa e bella”.

Parole che squarciano la retorica di queste ore che attribuisce a Cosimo Di Lauro la responsabilità di una guerra di camorra avallata in realtà (oltre che dagli stessi Scissionisti) anche dai suoi fratelli (sono 10 i figli di Ciruzzo ‘o milionario e Luisa D’Avanzo, la maggior parte dei quali negli anni successivi ha portato avanti la linea sanguinaria avviata dalla famiglia già negli anni ’90) e dallo stesso papà Paolo, latitante dal 2002 ma arrestato il 16 settembre 2005 (otto mesi dopo “F1”), guarda caso sempre a Secondigliano e a poca distanza da via Cupa dell’Arco e dal Terzo Mondo (o rione dei Fiori). Una retorica che descrive il primogenito come un ragazzo incompreso e voglioso di riscatto criminale, di dimostrare al papà e ai fratelli più piccoli che lui ci sapeva fare.

Cosimo non ha sfasciato nessun impero del clan ma è stato sfasciato dalla camorra che presto o tardi presenta il conto. Faceva parte di un sistema criminale che porta solo a sangue, morte e dolore e che, dagli anni ’70 ad oggi, dà luogo a faide, carneficine e stragi. Cosimino è stato vittima di queste logiche perverse della criminalità organizzata che, vuoi o non vuoi, trasformano umani in persone disumane, disposte a tutto per una vita che viene goduta solo pochi anni prima di finire sotto terra o sepolto in carcere, come Cosimo Di Lauro. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Francesca Fagnani per espresso.repubblica.it il 20 aprile 2022.

Luigi Moccia, “o colletto bianco”, il “papa”, la “mente finissima” di uno dei clan più potenti della camorra torna in carcere. All’alba i Carabinieri del Ros di Napoli, coordinati dalla Procura guidata da Giovanni Melillo, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare per 57 indagati, 36 dei quali in carcere, indiziati a vario titolo di una serie di reati gravissimi: dall’associazione mafiosa, alla detenzione illegale di armi da fuoco, dall’estorsione all’intestazione fittizia di beni di provenienza illecita. 

Il Gico della Guardia di finanza, contestualmente, ha notificato altri due divieti temporanei di esercitare attività d'impresa e sequestrato d'urgenza beni mobili, immobili e quote societarie per un valore complessivo pari a 150 milioni di euro. 

Luigi Moccia, esponente di vertice del clan fino all’estate scorsa era sottoposto al 41 bis, il cosiddetto carcere duro previsto per i reati di mafia, poi era uscito per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Il capo, il “papa” era a piede libero.

In un’inchiesta - pubblicata lo scorso dicembre da L'Espresso - avevamo descritto i molteplici affari di quello che non è solo un clan, dal passato feroce, ma una confederazione camorristica di vastissime dimensioni, per numero di affiliati ed estensione del territorio controllato: Afragola, Casoria, Arzano, Caivano, Cardito, Crispano, Frattamaggiore, Frattaminore e tutti i comuni della cinta nord di Napoli. E poi Roma. 

Non c’è ambito dell’economia dove i Moccia non si siano infiltrati, inquinando il mercato, azzerando la concorrenza, riciclando: dalla distribuzione alimentare ai carburanti, dall’edilizia al mercato immobiliare.

Ma il settore più redditizio per il clan è sempre stato quello degli appalti pubblici che da anni condizionano a livello nazionale e sempre più qualificato, fino a mettere le mani sui treni, sull’Alta Velocità, attraverso una serie di imprenditori dell’area nord-est di Napoli al servizio della famiglia, affidatari di ingenti appalti ad esempio da Rfi (Rete Ferroviaria Italiana), alcuni dei quali addirittura invitati a Roma allo sfarzoso matrimonio della figlia di Angelo Moccia, fratello di Luigi e figura apicale del clan.

A quell’articolo dell’Espresso replicò direttamente Luigi Moccia, con una lunga lettera che iniziava così: «Mi chiamo Luigi Moccia, fratello di Angelo ed Antonio, ed intendo prospettare la mia verità, per la parte stragrande del tutto alternativa ed anzi di autentica smentita di quanto riferito su di me, sui miei fratelli e sull'intero mio nucleo famigliare nell’articolo a firma Francesca Fagnani». 

Della replica di Luigi Moccia vale la pena riportare alcuni passaggi: «È invece una panzana che i miei fratelli ed io si abbia a che fare con quegli appalti che tuttavia - secondo la giornalista - egualmente condizioneremmo da anni a livello nazionale e sempre più in alto (…) Non meno eloquente la circostanza che nessun addebito di appalti truccati od altre irregolarità similari ci è mai stato rivolto neppure in astratta ipotesi di accusa.

Né tocca a me difendere l'onorabilità personale e professionale dei molti imprenditori di livello citati subito poi dalla giornalista quali asseriti rappresentanti di ditte vicine ai Moccia: si tratta effettivamente di familiari e comunque di imprenditori di prim'ordine che - al netto della colpa di non aver anch’essi rinnegato gli annosi rapporti di parentela ed affetto con la mia famiglia - hanno già ampiamente dimostrato in tutte le competenti sedi la pulizia, solidità e serietà delle proprie aziende, peraltro - al di la delle chiacchiere - presenti sul mercato da decenni e con un avviamento ed una storia imprenditoriale invidiabile».

Circostanza a dir poco singolare quella di chi, sottoposto ad un processo per camorra, senta l’esigenza di difendere, al posto loro, «l’onorabilità personale e professionale degli imprenditori considerati vicini alla famiglia Moccia». 

Quello inferto adesso dalla Procura di Napoli al clan Moccia è un colpo durissimo, in attesa ovviamente di vederne gli sviluppi giudiziari e processuali. Viene arrestato il capo, Luigi, viene smantellata una rete di 57 persone, accusate di essere affiliati e favoreggiatori. 

Il clan a base familiare è diretto dal nucleo ristretto dei fratelli Angelo, Luigi, Antonio, Teresa e suo marito Filippo Iazzetta, che si alternano alla guida ogni qualvolta uno di loro sia impedito a farlo, perché latitante o in carcere. In questo momento solo Teresa, assolta, è libera.

La decisione dopo il primo finto pentimento: "Sono stanco". Da boss a pentito dopo l’arresto del figlio, la storia di Luigi Cimmino: l’agguato dove morì Silvia Ruotolo, i libri di Grisham e il legame con l’Alleanza. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

A 61 anni, molti dei quali passati in carcere, ha deciso di collaborare con la giustizia. Di passare dalla parte dello Stato e iniziare a raccontare le vicende interne alla sua organizzazione e più in generale all’Alleanza di Secondigliano e al clan Licciardi, a cui era federato. Luigi Cimmino, ritenuto dagli investigatori uno dei capi clan storici dei quartieri Vomero e Arenella, ha iniziato a parlare con i magistrati della procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, e i primi verbali sono stati depositati dal pm Henry John Woodcock nel corso dell’udienza preliminare per quaranta imputati accusati di estorsione aggravata dal metodo mafioso per aver imposto tangenti e aver controllato gli appalti degli ospedali dell’area collinare di Napoli (Cardarelli, Monaldi, Cotugno, Cto e Policlinico).

Un colpo importante per la Procura partenopea che nei mesi scorsi aveva accarezzato l’idea di entrare nel cuore dell’Alleanza di Secondigliano attraverso le parole di Luca Esposito,41 anni, genero del boss Patrizio Bosti, 62, elemento apicale del Contini-Bosti. Esposito aveva iniziato a parlare con i magistrati salvo poi ritrattare tutto probabilmente dietro le pressioni dei familiari.

Una decisione quella di pentirsi, che Cimmino aveva già preso nel 2018 ma che la Procura bocciò dopo i primi interrogatori perché l’intenzione del boss – secondo la Dda – era quella di ottenere gli arresti domiciliari, evitare il 41bis e riprendere la gestione del clan. Adesso le cose sarebbero cambiate perché il 61enne dice di essere “stanco davvero” e di sentirsi pronto per mettersi alle spalle decenni di malavita. Una decisione sulla quale avrà pesato anche il recente arresto del figlio Diego, finito in carcere nell’ottobre del 2021 nell’ambito del maxi blitz nei confronti di 40 persone, alcune ritenute appartenenti all’Alleanza di Secondigliano, altri pubblici ufficiali e imprenditori, coinvolti secondo le indagini nell’alterazione di gare di appalto ospedaliere, estorsioni alle ditte operanti presso le predette strutture: servizio di trasporto ammalati, onoranze funebri, imprese di costruzione, imprese di pulizie. In carcere 36 persone, 10 ai domiciliari e due divieti di dimora.

Ordinanza che aveva riguardato anche lo stesso Cimmino, in quel periodo tornato in libertà da pochi giorni. Il figlio Diego è accusato di aver riscosso la tangente (circa 400mila euro) che l’organizzazione avrebbe imposto al presidente del consorzio che si era aggiudicato l’appalto di 47 milioni di euro per la manutenzione straordinaria e l’adeguamento funzionale-tecnologico dei padiglioni C, E, G, L, O e S del Cardarelli.

Il boss appassionato dei libri di John Grisham, venne arrestato nel marzo del 2016 a Chioggia (Venezia). I carabinieri della sezione Catturandi del Nucleo Investigativo di Napoli lo trovarono nascosto in un armadio all’interno di un appartamento dove viveva con un operaio casertano incensurato. All’epoca a tradirlo furono alcuni medicinali per la cura del diabete che i militari trovarono all’interno dell’abitazione. I carabinieri sapevano delle patologie del boss e così approfondirono le ricerche, trovandolo nell’armadio.

Cimmino nel giugno del 1997 era l’obiettivo del commando di fuoco facente capo al boss Giovanni Alfano che entrò in azione in Salita Arenella dove era in corso un summit tra gli esponenti del clan Cimmino-Caiazzo. Nell’agguato un proiettile vagante colpì alla testa Silvia Ruotolo, 39enne, che morì poco dopo. In un’intervista rilasciata nel 2011 a Repubblica, Rosario Privato (divenuto collaboratore di giustizia e di recente tornato a Napoli dopo l’uscita dal programma di protezione, ndr), uno dei killer entrati in azione, pentitosi dopo l’arresto avvenuto in Calabria un mese dopo il delitto, racconta a Elio Scribani la storia di un agguato di camorra dove perse la vita Silvia Ruotolo e venne ferito, durante la fuga dei killer, Riccardo Valle, studente universitario.

L’AGGUATO – Killer di fiducia del boss Alfano, Rosario Privato racconta gli attimi che hanno preceduto la tragedia. Il commando partì dalla Torretta dopo la telefonata che segnalò il summit in corso. “Eravamo in cinque su due macchine e avevamo sei pistole”. Una volta arrivati a Salita Arenella vengono esplosi oltre 30 proiettili in due diverse occasioni. Nel primo agguato, dove morì Salvatore Raimondi e venne ferito Luigi Filippini, elementi affiliati al clan rivale, una pallottola di piombo “che era entrata e uscita dalla spalla di uno dei due sulla Vespa” ferì mortalmente Silvia Ruotolo. Attimi concitati dove il killer racconta di non essersi reso conto di nulla, se non dei due a bordo di una Vespa che dovevano essere uccisi perché “pensai che ci avessero scoperti“, aggiungendo che la notizia della morte di una donna innocente l’apprese successivamente dal telegiornale.

IL BAGNO A MARE –  “Dopo l’omicidio – racconta Privato -, quando sono sceso alla Torretta, sono andato al mare per togliere la polvere da sparo dalle mani”.  Braccio destro del boss Alfano, Privato durante la sua carriera criminale ha confessato 40 omicidi. Come killer veniva pagato “9-10 milioni (di lire, ndr) al mese”, poi quando divenne braccio destro del boss riusciva a portare a casa “40-50 milioni al mese“.

L’ARRESTO DEL BOSS TRA LE URLA DA STADIO – Luigi Cimmino è stato arrestato in un primo momento il 20 luglio del 2015 insieme agli altri quattro affiliati. Non passò inosservato lo “spettacolo” andato in scena all’esterno del Comando dei carabinieri della Compagnia Vomero. All’uscita del boss, le donne presenti sul marciapiede di fronte gli dedicarono cori e messaggi d’amore (“Bravo, bravo”, “ti amooo!”). La detenzione in carcere dura appena 11 giorni. Cimmino e i suoi affiliati tornano a casa grazie alla decisione del Tribunale del Riesame che non ha ritenuto sufficienti le prove raccolte dalla DDA partenopea.

La Procura però non si arrende e, grazie anche a ulteriori indizi raccolti dai carabinieri del Vomero, riesce a ottenere un nuovo ordine di carcerazione per Cimmino e per il genero Pasquale Palma. Ordine scattato a febbraio del 2016 con il boss che, consapevole dei rischi che correva, taglia la corda dandosi a una latitanza durata poco più di un mese. Il 5 marzo infatti i militari lo scovano in un appartamento di Chioggia, in provincia di Venezia. Aveva una borsa pronta per una possibile ripartenza e 7mila euro in contanti. Nella stessa giornata a Napoli i carabinieri hanno arrestato Pasquale Palma che si nascondeva in un appartamento in via Matteo Renato Imbriani.

AMANTE GELOSA – Lo stesso Cimmino, nelle indagini condotte dalla Procura e dai carabinieri, è stato condizionato dall’atteggiamento, eccessivamente geloso, dalla sua amante. La donna infatti, temendo di essere tradita, chiedeva esplicitamente al suo boss di chiamarla quando si recava dalle famiglie degli affiliati detenuti per consegnare le “mesate“. Cimmino per dimostrare la sua fedeltà, andò a consegnare due stipendi ad altrettante mogli di detenuti mentre era a telefono con l’amante. L’intercettazione viene così carpita dai carabinieri che ottengono informazioni vitali sulla vicenda. Dalle indagini, inoltre, è emerso che il clan si è anche prodigato per pagare le spese matrimoniali alla figlia di uno dei suoi affiliati storici.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2022.

Di cose spiacevoli Marilena Natale, giornalista casertana sotto protezione dal 2017 per le minacce da parte del boss casalese Francesco Sandokan Schiavone, se ne è sentita dire molte, ma questa l'ha colpita particolarmente.

«Stavo cercando casa a Formia per l'estate e ne avevo trovata una che poteva andare.

Ma quando, dopo aver definito i dettagli, ho detto al proprietario che ho la scorta dei carabinieri, specificando anche che sono una giornalista e non una collaboratrice di giustizia, quello ha cambiato idea. "Sa, gli altri condomini potrebbero impressionarsi", mi ha detto. Mi sono cadute le braccia. Ho lasciato perdere, ma è mortificante». 

Sulla sua pagina Facebook, dove ha raccontato la storia, Marilena Natale, ha ricevuto una valanga di messaggi di solidarietà e anche molte offerte di case da parte di abitanti di Formia indignati per il comportamento del loro concittadino. «Ovviamente ormai lì non posso andarci più, sarebbe pericoloso. Ma mi chiedo: a Formia si è stabilita gente che si chiama Bardellino, Giuliano, Mallardo. I più grossi nomi della storia della camorra. E alla fine il problema sono io perché ho la scorta dei carabinieri? Veramente non ci sono parole».

Che poi lei Marilena Natale - originaria di Aversa, quasi cinquanta anni, collaboratrice di Piuenne News , notiziario di una emittente televisiva locale - la scorta nemmeno la vorrebbe. «I quattro carabinieri che mi proteggono hanno due figli ciascuno. Otto bambini e ragazzi che un giorno, Dio non voglia, potrebbero trovarsi orfani perché il padre doveva difendere me? No. Non sarebbe giusto. 

Io vorrei soltanto che la giustizia fosse veloce, che i processi si concludessero senza rischiare prescrizioni . Questo vorrei, non la scorta». 

Invece deve averla, perché la condanna che pesa su di lei è assolutamente inequivocabile. «Fu intercettato un colloquio in carcere tra Sandokan, (condannato in via definitiva all'ergastolo, ndr ) e due suoi figli che gli raccontavano dei miei pezzi contro il clan. E lui fu molto esplicito: fece con la mano il segno della pistola e puntò le dita alla testa». Una condanna a morte. «In tre giorni mi fu assegnata la scorta. Il tempo che la polizia penitenziaria informasse la Procura antimafia. Non aspettarono un minuto in più. Avevo portato il cane dal veterinario: vennero a prendermi lì». 

Da allora la giornalista ha continuato a fare il suo lavoro, raccontando le realtà di paesi come Melito, Caivano, San Cipriano, Casal di Principe. Storie di quotidiane infiltrazioni nel tessuto civile, nelle amministrazioni locali, nelle attività imprenditoriali. «Quando andavo a scuola erano gli anni della guerra tra Cutolo e Bardellino, e al mio paese ogni mattina vedevo una macchina bruciata, una vetrina fatta saltare con una bomba, un tratto di strada transennato perché c'era stato un omicidio. Fu allora che decisi che nella vita mi sarei occupata di capire e raccontare queste cose. Ora si spara molto meno, ma loro esistono ancora, Anzi, sono molto più forti, e si prendono la nostra vita in altri modi». 

Come con la Terra dei Fuochi.

«Io quei posti li ho visti. Ma ho voluto fare anche un'altra cosa, ho voluto vedere le conseguenze sulle persone».

Una mattina andò al Pausilipon, l'ospedale dove sono ricoverati i bambini malati di tumore. «E lì ho incontrato Aurora, che ha un cancro al cervello. Aveva solo il papà, che non poteva seguirla. Sono riuscita ad averla in affidamento e da sette anni sta con me. Un giorno scriveremo un libro sulle nostre storie». 

Intanto ha un progetto più a breve termine:

«Sì, ho deciso che festeggerò i miei 50 anni con un brindisi davanti alla villa confiscata a Schiavone».

In tutto il quartiere c’è una sola altalena ma è rotta. Dopo le minacce a Patriciello parla Bruno Mazza, ex boss: “Al Parco Verde la vera omertà è delle Istituzioni”. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

“C’è soprattutto paura al Parco Verde, non è tanto l’omertà del cittadino quanto quella dell’Istituzione collusa che sa e non parla. E c’è anche la paura di essere lasciati soli”. Così Bruno Mazza, 41 anni, presidente dell’Associazione “Un’infanzia da vivere”, descrive cosa da sempre succede nel Parco Verde di Caivano. Una periferia nella periferia, abbandonata a se stessa e che periodicamente balza alle cronache più nere. L’ultimo evento le minacce al parroco del rione, Maurizio Patriciello: prima la bomba carta fuori la chiesa poi il cartello con la scritta “Bla, bla, bla. Pe mo (Solo chiacchiere, per ora, ndr)”.

Una brutta frase, un brutto gesto per colpire il cuore della comunità che resiste e lotta contro la camorra e che non cede al silenzio. “Giorni fa ho denunciato ai carabinieri una persona del quartiere che secondo me è l’autore di quella scritta sulla chiesa – racconta Bruno – Ho riconosciuto la sua calligrafia perché da anni imbratta il quartiere con scritte violente di questo tipo. Poi appena nel rione si è sparsa la voce che lo avevo fatto, lui è venuto da me per minacciarmi con un coltello. Allora sono tornato dai carabinieri e ho denunciato anche questo. Ma io resto qua perchè voglio che i nostri bimbi possano vivere un’infanzia spensierata”.

“Patriciello – piega Mazza – dal ’92 a oggi è arrivato qui in un quartiere in grande difficoltà e da allora aiuta tutte le famiglie del quartiere. Si è schierato dalla parte dell’ambiente con le sue battaglie nella terra dei Fuochi. Da qualche mese fa parte del Comitato di Liberazione dalla Camorra nell’Area Nord e sta cercando di portare all’attenzione tutti quei fenomeni all’interno di Parco Verde, non solo la droga”. La popolazione del quartiere ha risposto a quella brutta provocazione schierandosi accanto al parroco e esponendo fuori alla chiesa dei cartelli: “La camorra uccide la bellezza”, “Siamo fatti per qualcosa di più grande: la libertà”.

Bruno racconta che denunciare non è facile in quel contesto. “Pensa che le 14 piazze di spaccio che sono nel quartiere sono nei palazzi dove vivono anche 12 famiglie – racconta – ma tra tutte queste persone solo 1 spaccia. Gli altri sono collusi perché sono a conoscenza di illegalità che non denunciano, ma anche le istituzioni sono a conoscenza di tutto e non intervengono. Le piazze sanno benissimo dove stanno. C’è anche chi ha provato a denunciare ma c’è stato anche il poliziotto corrotto che poi ha detto al capo piazza che quella famiglia ha denunciato”.

“Vorremmo che le istituzioni che rappresentano la legalità venissero nel Parco Verde e che concretamente possano supportare chi ha provato a denunciare o vuole farlo ma che poi è stato lasciato da solo. Dal 2008 con l’Associazione abbiamo denunciato le collusioni tra le istituzioni e la camorra facendo arrestare poliziotti e segnalando un carabiniere”. Bruno conosce bene Parco Verde dove vive e opera con la sua associazione da moltissimi anni. È stato il braccio destro del boss, poi, dopo aver scontato 12 anni di carcere, ha visto altri bambini fare quello che faceva lui, sbagliando. Così ha capito che quella vita non era giusta e che doveva rimboccarsi le maniche per consentire un’infanzia spensierata ai tanti bambini che vivono nel Parco Verde, quell’infanzia che lui non ha mai potuto avere.

Racconta la sua storia e quella del quartiere dall’interno del parco Andersen, la villa comunale del Parco Verde, il simbolo del degrado del luogo. Doveva essere un’area giochi per i bimbi ma ora è solo erbacce e degrado. Ci sono i resti dei giochi: cubi di cemento armato con i ferri che sbucano da ogni lato dove un bimbo potrebbe ferirsi facilmente. E poi l’unica altalena del rione che i bimbi non possono usare perché è rotta. “Abbiamo più volte denunciato lo stato di abbandono di questa struttura – continua Bruno – Nel 2015 la Prefettura di Napoli e Caserta attraverso il progetto ‘Io scelgo la strada giusta’ hanno realizzato all’interno di quest’area un campetto realizzato con i pneumatici fuori uso. Hanno messo anche un’altalena, che però oggi è rotta. E comunque per mille bambini non basta”.

Bruno ha deciso di fare qualcosa e tutti i giorni organizza il doposcuola con i bambini, i corsi di Arte bianca e i giochi ai campetti sportivi che via via verranno riqualificati. “Grazie a Fondazione Con il Sud siamo riusciti a recuperare molte infrastrutture – racconta – Nel 2012 con un progetto dal titolo ‘Insieme per il Parco Verde’ abbiamo realizzato il primo campetto di calcio nel cuore del Parco Verde dove centinaia di bambini fanno attività. Ora ne riqualificheremo un altro in viale dei Tulipani grazie al sostegno di Con i Bambini. Abbiamo una sede che c’è stata affidata dall’amministrazione comunale. E ancora tanti altri progetti per riqualificare, ripulire, rendere più belle le nostre strade”.

Bruno sa che la situazione nel quartiere è difficile ma è certo che “La bellezza necessaria” può cambiare le cose. E lancia l’iniziativa di una cooperativa sociale che possa mettere insieme nel lavoro i giovani del quartiere per mettere su qualcosa di positivo. “Parco Verde può cambiare solo se diamo lavoro ai giovani e se andiamo a realizzare infrastrutture per i bambini, è da lì che bisogna partire”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

"La sera ci siamo solo io e don Maurizio a chiudere il cancello della chiesa. Siamo soli". “Scorta don Patriciello? La camorra vince ancora, qui lo Stato viene a dire solo che non c’è”, intervista a Luigi Leonardi. Francesca Sabella su Il Riformista il 2 Aprile 2022. 

Ora la camorra fa paura, paura davvero. Si accendono abbaglianti, non fari, sul Parco Verde di Caivano e si spegne la speranza di uno Stato che agisce tempestivamente e con continuità sul territorio: don Maurizio Patriciello finisce sotto scorta. Finisce sotto scorta il simbolo della lotta alla criminalità organizzata. Lo ha deciso il ministero dell’Interno dopo la bomba esplosa all’esterno della chiesa del parroco. Un’intimidazione gravissima. Solo qualche settimane fa anche al comandante della Polizia Municipale di Arzano, Biagio Chiariello, era stata assegnata la scorta. Provvedimento valutato necessario dopo le minacce di morte ricevute. Era comparso all’ingresso del Comando un manifesto funebre con il volto del Comandante e il giorno della morte. Entrambi minacciati perché stavano solo facendo il loro lavoro. Viene da chiedersi: oltre alle passerelle, cosa abbiano fatto ministri e procuratori più volte avvistati in quel quartiere.

Proprio ieri il ministro dell’interno Luciana Lamorgese è arrivato a Napoli per incontrare il parroco di Caivano e definire strategie, si spera questa volta concrete, per un territorio martoriato dalla camorra. Don Patriciello ha chiesto fino all’ultimo di poterne fare a meno, ma è stato valutato necessario appunto assegnargli la scorta e lui ha accettato “in spirito di obbedienza”. «Spero che questa decisione possa portare beneficio anche a questo territorio martoriato. Ringrazio chi ha preso questa decisione – ha aggiunto don Maurizio – che però mi rattrista: significa che ormai era diventata necessaria». Il sacerdote ha ribadito di essere “triste” per l’assegnazione di una scorta perché «non so se potrò continuare normalmente il mio apostolato: è una situazione nuova e strana” ha affermato. Quanto alle richieste rivolte a Governo e Regione Campania, don Patriciello ha ribadito che «si tratta di richieste minime, sempre le stesse: installazione delle telecamere di videosorveglianza (“gli spacciatori hanno quelle di ultima generazione, quelle che si vogliono installare qui sono già superate”), assunzione di vigili urbani. Ragiono con gradualità, faccio richieste minime » ha concluso il parroco del Parco Verde. Presenti all’incontro anche il prefetto di Napoli Claudio Palomba e il presidente della Regione Vincenzo De Luca. Accanto a don Maurizio c’era Luigi Leonardi, imprenditore che vive sotto scorta da sei anni per aver denunciato i clan che a lungo l’hanno soffocato, costringendolo a pagare il pizzo. Fino a sequestrarlo per un giorno intero. Da tempo è al fianco di don Maurizio per cercare di salvare un territorio che vive sotto la maledizione della camorra. Ed è lui a raccontare al Riformista la paura, la delusione e la solitudine di un uomo che in nome della legalità finisce sotto scorta.

Luigi, anche don Patriciello sotto scorta, che segnale è?

«Il segnale che l’attenzione dello Stato c’è solo quando succede qualcosa. Arriva sempre dopo. Ora è successa una cosa di una gravità estrema. Fa paura la spregiudicatezza con la quale si compiono questi atti folli. È una delinquenza quella di Frattamaggiore e di Arzano che tende a occupare uno spazio sul territorio che non è il loro. E lo occupano con estorsioni, spaccio, stese».

Cosa ti ha detto don Maurizio?

«Proprio questo, e cioè che ciclicamente c’è un focus sulla criminalità organizzata in queste zone, ma poi i riflettori si spengono e nulla cambia. La camorra c’è sempre, la reazione dello Stato invece è vincolata al gesto estremo. Lui non è contento di avere la scorta perché ha il timore che ora non potrà essere libero di esercitare la sua funzione. Ma la accetta. Don Maurizio chiaramente ha paura».

Cosa simboleggia la scorta a don Maurizio?

«La sconfitta dello Stato. Uno Stato che mette sotto scorta una persona è l’emblema del fallimento. Il messaggio è: non riesco a farti essere libero nel tuo territorio e sono costretto a privarti della libertà per non farti correre pericoli, in questo caso per non farti ammazzare. In questo caso lo Stato dimostra di essere più debole della camorra. Una persona dovrebbe essere libera di fare il suo lavoro perché lo Stato è forte ed è presente e non ricorre alla scorta. E poi c’è l’anti Stato che è sempre presente e sempre più forte e agisce indisturbato. Noi stiamo ancora a parlare delle telecamere che non ci sono».

Lo ha detto anche il procuratore della Repubblica Giovanni Melillo che lo Stato lì è assente…

«Assolutamente sì. Lo ha detto quando è venuto in chiesa da don Patriciello. A Frattamaggiore venne anche il presidente della commissione antimafia Nicola Morra e disse: lo Stato non c’è. Vorrei dire lo Stato sei tu, siete voi. Come fate a dire lo Stato non c’è?».

Torniamo alla paura, tu vivi sotto scorta da sei anni. Cosa si prova?

«Io ho ancora paura. Per don Maurizio e per me. La paura nasce dal fatto che questa gente si muove indisturbata e dalla consapevolezza di essere soli, abbandonati dallo Stato. Questa non è vita. Vivere con la scorta vuol dire sopravvivere. Oggi si parlava di legalità nell’incontro con il ministro Lamorgese, ma noi vogliamo parlare di normalità. Biagio Chiariello è finito sotto scorta perché faceva il suo lavoro, quindi se la normalità è che una persona faccia il proprio dovere c’è qualcosa che non va. E viene anche da chiedersi: quelli che c’erano prima di lui, che cosa facevano?».

Luigi, nella tua vicenda c’è una cosa strana: tu a un certo punto passi da testimone di giustizia a collaboratore di giustizia. Perché?

«Nel 2016 inizia il processo dopo le mie denunce di estorsione. Uno si era appena concluso con l’arresto di 81 persone. Ma veniamo al secondo. Vengo inserito nel programma di protezione come testimone di giustizia e vengono condannate tre delle dieci persone che avevo denunciato, senza l’aggravante del metodo mafioso. Così io risulto poco attendibile. Poi salta fuori che un cugino di secondo grado di mio padre era un “delinquente” e il ministero degli Interni mi informa che “molto verosimilmente anche io potrei essere un delinquente”. In attesa di chiarimenti quindi sono stato etichettato come collaboratore di giustizia. Io sono incensurato, non sono mai stato indagato, non ho ancora visto una prova che possa dimostrare che io sia un delinquente e dopo sei anni ancora attendo risposte. Ho scritto due giorni fa anche a Melillo per questa faccenda».

È a fronte di questa giustizia che molti non denunciano?

«Sì. Io sono in un limbo e spesso mi chiedono chi me l’ha fatto fare di denunciare. La magistratura è completamente scollata dalla realtà e non fa le indagini come si deve. Per fortuna ho la possibilità di pagare le spese processuali».

Il sistema giustizia fa acqua da tutte le parti, la politica?

«La politica non ha deciso di fare la guerra alla criminalità organizzata che si inserisce nei contesti difficili dove le istituzioni sono assenti. Sono venuti tutti qui, ultimamente anche Giuseppe Conte, ma la realtà è sempre la stessa: la sera, nel buio pesto, ci siamo solo io e don Maurizio a chiudere il cancello della chiesa. Siamo soli».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Storie e testimonianze. Mafie e Terra dei Fuochi, i familiari delle vittime: “L’indifferenza può uccidere più di una pistola”. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Marzo 2022. 

«La parola legalità andrebbe sostituita con responsabilità, o meglio corresponsabilità» dice Bruno Vallefuoco parlando ai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. I detenuti sono tutte persone accusate di reati associativi. Le parole di Bruno Vallefuoco lasciano trapelare un dolore che dura da ventiquattro anni, una ferita che non diventerà mai cicatrice e fa male, sempre. Suo figlio Alberto morì nel 1998, ucciso per errore dalla camorra. Era il 20 luglio, faceva caldo e Alberto, ventenne, aveva da poco iniziato un tirocinio al pastificio Russo in via Nazionale delle Puglie, a Casalnuovo. All’ora di spacco la pausa al bar per un caffé prima di tornare a lavoro era una tappa obbligata.

Quel 20 luglio fu fatale: quattro killer armati di kalashnikov e revolver mirano ad Alberto e ai suoi colleghi Rosario Flaminio e Salvatore De Falco. Furono massacrati di proiettili, vittime innocenti di killer che commisero un terribile errore di persona. «La sentenza, anche se dura, non mi ridarà indietro mio figlio – afferma Bruno Vallefuoco -. Nel vocabolario troviamo solo le parole orfano e vedovo, mentre non esiste un termine che indichi lo status di genitore che perde un figlio». Porta addosso una condanna a vita, ma ha aderito al progetto di Libera e del garante regionale Samuele Ciambriello accettando di parlare in carcere ai detenuti. Perché legalità dev’essere sinonimo di responsabilità, e la pena deve tendere a responsabilizzare e non a vendicare. L’incontro a Santa Maria Capua Vetere chiude un ciclo di confronti tra vittime e autori di reato che si sono svolti nei giorni scorsi negli istituti di Poggioreale, Secondigliano, Bellizzi in vista della giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti della camorra che si svolgerà a Napoli lunedì.

Oltre a detenuti e familiari di vittime innocenti, all’incontro di ieri nel carcere sammaritano presente anche una delegazione di studenti e docenti dell’istituto tecnico “Leonardo Da Vinci” di Santa Maria Capua Vetere, a riprova che si può ridurre la distanza tra il mondo fuori e quello dietro le sbarre. «In Italia su 1.040 vittime innocenti di mafie, metà sono campane – ricorda Ciambriello -. È importante parlare di criminalità organizzata e ricordare le vittime innocenti per non restare indifferenti. L’indifferenza è un proiettile che uccide più di un’arma». E un invito a non restare indifferenti arriva anche da Marzia Caccioppoli, mamma di Antonio morto a soli nove anni per una malattia causata dalle tossicità nella cosiddetta Terra dei fuochi. «Sono dieci anni che combatto con don Maurizio Patriciello per la salvaguardia del futuro dei giovani. Antonio, ad ottobre scorso, avrebbe compiuto 18 anni e per una madre di figlio unico è un dolore inspiegabile».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Dopo la bomba all’esterno della Chiesa di Caivano. La camorra contro i Fra Cristoforo, don Patriciello e don Merola: “Noi in trincea da soli”. Francesca Sabella su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

Come un fiore che cresce nel cemento, solo, sfidando il vento, il freddo e le suole di chi lo calpesta. Così Don Maurizio Patriciello non cede ai colpi sferrati dalla mano violenta della camorra. Non si piega. Resta dritto. Unico fiore in un cemento di indifferenza e assenza. Siamo al Parco Verde di Caivano, uno dei territori martoriati dalla criminalità organizzata. È sabato notte quando un ordigno esplode davanti al cancello della chiesa di San Paolo Apostolo, parrocchia guidata da Don Patriciello. Domenica la messa e un fiume di solidarietà per il prete vittima di minacce, poi la telefonata del capo dello Stato Sergio Mattarella.

Tutto bello, se non fosse che nei restanti giorni sono tutti assenti e la Chiesa di Don Patriciello è l’unico presidio di legalità in quel posto. Lo Stato non c’è, non entra in quelle zone, ci passa, le sfiora quel tanto che basta per far vedere che esiste, passerelle inutili. E così ieri è arrivato l’annuncio del prete: «Ho firmato il mio testamento». Non abbassa la testa Don Patriciello, ma la paura che qualcosa di ancora peggiore possa accadere c’è. L’omertà e la paura per il momento la fanno da padrone e così ancora nessuno ha fornito informazioni utili alle indagini per risalire al colpevole del gesto. «Abbiamo messo tutto in conto quando siamo diventati sacerdoti, continuo per la mia strada – ha spiegato Don Patriciello – Alcuni camorristi pensano che dovrei limitarmi a celebrare messa e benedire i loro figli quando vengono uccisi. Non è così, continuo il mio percorso mentre da queste parti continuano le “stese” di giovani pistoleri che terrorizzano i residenti a colpi di kalashnikov. Per quanto mi riguarda – ha concluso il prete di Caivano – se avessi voluto una vita comoda non avrei fatto il prete. Sono solo un povero parroco che annuncia il Vangelo».

È la risposta ai Don Abbondio delle chiese di Napoli, lui prete di frontiera in strada per difendere i deboli dagli oppressori, il Fra Cristoforo dei nostri giorni che non si tira indietro e combatte la violenza. È ciò che ha fatto e continua a fare senza sosta Don Luigi Merola che per quindici anni ha combattuto la camorra a Forcella, terra di nessuno e della malavita, anche lui ha subito minacce di morte e intimidazioni. «I sacerdoti come me o Don Maurizio sono disposti anche a dare la vita pur di combattere il male – afferma – Don Maurizio vive il territorio, conosce il dolore della gente, quel dolore che la politica ignora». Sì, perché lì lo Stato non esiste, a poco servono le operazioni passerella dopo eventi che suscitano clamore mediatico. Due settimane di controllo assiduo del territorio e poi si prosegue con operazioni ad “alto impatto” sporadiche.

«Lo Stato deve essere presente non solo nell’emergenza ma con un progetto a lungo termine – afferma Don Luigi – Lo Stato si limita a mandare forze di polizia, noi abbiamo bisogno di un esercito, ma di un esercito di educatori, assistenti sociali. La repressione non può essere l’unica arma, non può limitarsi a mandare momentaneamente qualche poliziotto in più. Il prefetto valuti la situazione e metta all’ordine del giorno di occuparsi di questo territorio. Se ancora esiste un’agenda della politica si occupino di questo». Si occupi di non lasciare soli i Fra Cristoforo che sfidano il male che qui ha un nome: camorra. «La camorra conosce il territorio meglio dello Stato, ecco perché succede questo – conclude l’ex sacerdote di Forcella – La gente deve capire che solo insieme possiamo combattere la camorra. Se siamo tanti, siamo forti. Non bisogna avere paura, altrimenti vinceranno sempre loro. Non basta più la telefonata di rito delle istituzioni, bisogna intervenire subito. La chiesa ha bisogno di più Don Patriciello. Solo così non ci saranno più le bombe della camorra».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Vita in cella di don Raffaé, che si sentiva Robin Hood ma distribuì solo morte. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2022.

In carcere dai 22 anni, il narcisista boss della Nuova Camorra organizzata Raffaele Cutolo lì era “il professore”. Ringraziò de Andrè per la ballata, lui gli rispose. 

Alla dolce vita in prigione del boss camorrista, Fabrizio De Andrè aveva dedicato nel 1990 la ballata Don Raffaé, dove racconta che la mattina si passava dalla sua stanza a bere il caffè più buono del carcere e a fare due chiacchiere: «Per fortuna che al braccio speciale c’è un uomo geniale che parla co’ me» cantava il brigadiere Pasquale Cafiero, e l’uomo geniale era quel don Raffaè che conquistava i secondini ed era elegantissimo nel suo cappotto cammello, e che poteva essere Raffaele Cutolo, il camorrista di Ottaviano, oppure no, solo un generico capo di fantasia e di malaffare. Ma ascoltando il brano il vero Raffaele Cutolo nel suo narcisismo malavitoso si identificò, e pensando di essere davvero lui l’uomo geniale, scrisse al cantautore genovese ringraziandolo per la citazione così autorevole e precisa.

LA CRITICA MUSICALE SI DIVIDE SULL’ANNOSA QUESTIONE DEL BRANO «DON RAFFAÈ», CONTENUTO NEL DISCO «LE NUVOLE» (1990). IL TESTO FU DAVVERO ISPIRATO DALLA FIGURA DEL BOSS CUTOLO?

De Andrè rispose ringraziando a sua volta, ma senza confermare né smentire e poi la piantò lì, confessando al critico del Corriere della Sera Mario Luzzatto Fegiz che era stato gentile nella risposta ma non voleva proseguire in un carteggio non rituale. Dolce o meno che fosse, la vita del boss Cutolo, è trascorsa quasi tutta in carcere, dove arrivò a 22 anni per un omicidio dopo una rissa stradale, e là dentro veniva chiamato anche il professore perché, pur avendo solo la licenza elementare, almeno lui sapeva leggere e scrivere. In carcere aveva concepito e costruito il suo sistema camorristico, un sogno a suo modo potente di una struttura verticistica poggiata su meccanismi piramidali con diversi gradi (picciotti, camorristi, sgarristi, capizona e santisti), a volte presi dalle Antiche Scritture come ha ricordato Roberto Saviano in un video per il Corriere.

L’acronimo «alla moda» della criminalità

Nco — che sta per Nuova Camorra organizzata, acronimo coniato perché Cutolo pensava fossero alla moda, dalle Br ai Nap all’Eta — puntava a corrompere il più possibile, per diventare forza egemone, un punto di riferimento per i disperati campani. Ha messo a punto per i suoi poveri un welfare parallelo, autonominandosi Benefattore, un Robin Hood vesuviano, a dispetto della lotta cruenta che si è scatenata fra la sua Nco e la Nuova Famiglia, nata per contrastarla, seminando morti sul territorio. «La camorra è disoccupazione. La vera mafia, la vera camorra, stanno a Roma. La camorra è una scelta di vita, un partito, un ideale» aveva detto a Enzo Biagi, in una storica intervista del 25 marzo 1986 nel programma Spot: Uomini, Storie e Avventure. «Ho sempre regalato sorrisi a chi aveva bisogno».

Un piccolo Stato dentro lo Stato

Al di là dell’agiografia personale basata sulla devianza, Cutolo puntava a costruire una sua struttura di potere, un piccolo Stato dentro lo Stato, colluso con pezzi di Stato. Ha incrociato spesso i segreti nazionali, dal caso Moro al sequestro Cirillo, alla Banda della Magliana. Chiuse il cerchio alla sua morte, nel carcere di Parma il 17 febbraio 2021, con un funerale blindato alle 6 di mattina e le strade di Ottaviano tappezzate di manifesti con l’annuncio: «Serenamente si è spento Raffaele Cutolo detto ‘e Monache », in onore del padre Michele detto ‘o Monaco per la sua religiosità, contadino mezzadro nel castello mediceo del comune di Ottaviano già dei Lancellotti di Lauro, poi rilevato dal boss e confiscato dal Comune negli Anni 90.

La scritta "anima benedetta" ha provocato la reazione di alcuni rappresentanti delle istituzioni. Il sacerdote di Caivano don Patriciello: "Non è colpa del parroco di Ottaviano". Ignazio Riccio il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Non accennano a placarsi le polemiche sui manifesti funebri affissi qualche giorno fa a Ottaviano per ricordare, a un anno dalla scomparsa, la figura del boss Raffaele Cutolo, originario proprio del piccolo centro in provincia di Napoli. La frase utilizzata per ricordare ai cittadini la messa di suffragio del capo della Nuova camorra organizzata ha provocato la reazione di diversi uomini delle istituzioni. “Raffaele Cutolo, anima benedetta” è il passaggio sul manifesto incriminato che ha mandato su tutte le furie sia il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli sia il senatore Sandro Ruotolo.

“Noi – ha dichiarato a Fanpage Borrelli – siamo contrari a qualsiasi glorificazione di boss e criminali. I familiari lo ricordano con immenso amore, noi, invece, ricorderemo Cutolo come un boss sanguinario di camorra. Pensiamo alle vittime delle sue malefatte e al cattivo esempio che ha dato a intere generazioni. Altro che anima benedetta”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il parlamentare Ruotolo che, da giornalista, in passato, ha narrato le nefandezze del camorrista. Gli strali dei due esponenti politici, indirettamente, hanno colpito anche il sacerdote che ha celebrato la messa.

Non la pensa allo stesso modo il parroco di Caivano Maurizio Patriciello, da anni in prima fila nella lotta alla criminalità organizzata e nella battaglia contro l’inquinamento ambientale. Come riporta Napoli Today, don Maurizio ha difeso l’operato del prete di Ottaviano, il quale, secondo lui, non ha colpa sulla frase inserita nel manifesto. Le pompe funebri utilizzano i prestampati e modificano solo il nome del defunto. Il parroco, poi, deve fare solo il suo dovere di cristiano celebrando la messa in suffragio della salma. Don Maurizio ha annunciato che si recherà dal collega di Ottaviano per dimostrargli la sua solidarietà.

Raffaele Cutolo, conosciuto con il nomignolo di ‘o professore, è morto un anno fa, a 79 anni, nel reparto sanitario del carcere di Parma dove era detenuto con il regime di 41bis. Dopo la sua scomparsa sui social apparvero anche tantissimi messaggi di compianto ed esaltazione, come denunciato all'epoca sempre dal consigliere regionale Borrelli. I funerali furono celebrati nella notte a Ottaviano, in forma strettamente riservata. La Questura di Napoli, infatti, aveva vietato le esequie pubbliche.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Libriotheca Editore, è stato pubblicato a marzo 2019. Amo in particolare la lettura, il cinema e il teatro; sono appassionato di calcio e tifo Fiorentina.

Roberto Saviano e i manifesti per Cutolo: «L’ultimo tributo al welfare camorrista».

Perché i manifesti di elogio di Raffaele Cutolo apparsi nella sua città non devono generare stupore

Roberto Saviano / CorriereTv il 19 febbraio 2022.

I manifesti di elogio dell’anima di Raffaele Cutolo apparsi ad Ottaviano, quella che fu la sua città, non devono generale stupore. Perché Raffaele Cutolo, in un pezzo di territorio è percepito come l’ultimo Welfare esistente. E’ stato così: la Camorra è stata l’organizzazione, forse l’ultima a Sud che ha risposto immediatamente alla disoccupazione. Assumendo i giovani, certo mandandoli a morte o inserendoli in percorsi criminali ma ha risposto alla disoccupazione: ha investito sui giovani, nel senso che permetteva alle leve di fare carriera se si impegnavano o se erano dedite alla causa. Paradossale tutto questo ma è quello che è accaduto, a prezzo della vita, dalla distruzione di un territorio. Una associazione che elargiva a chi ne aveva bisogno danaro per sopravvivere, per fronteggiare la miseria, per cui, spessissimo, quando muore un boss c’è una doppia interpretazione. Da una parte la società civile, quella più colta, più impegnata, che ne ricorda la violenza, la sopraffazione, la connivenza, la distruzione, l’avvelenamento del territorio. Dall’altra, una parte di società che si ricorda la presenza che lo Stato non ha, la costanza di essere attenta per proprio conto alle esigenze del territorio. 

Quindi ha una sua logica il manifesto in elogio dell’anima di Raffaele Cutolo chiamato tra l’altro “ O’ monaco” e non “O’ professore”. “O’ professore” è il soprannome criminale, “O’ monaco” è il soprannome di suo padre, uomo ligissimo, analfabeta zappatore che viveva come un monaco: da qui il suo soprannome “dedito solo alla terra”, a zapparla e a mantenere la famiglia

Ma Cutolo fu anche giustizia immediata. Qualcuno dirà: «Iin che senso?». Nel ‘81 una bambina, Raffaelina Esposito, scomparve da Ottaviano e la NCO diffuse anche un volantino: era l’epoca delle sigle terroristiche quindi si comunicava con manifesti, rivendicazioni. La Nuova Camorra Organizzata scrisse: «Noi uomini di Cutolo non ammettiamo che si toccano i bambini, liberate la piccola, sennò pagherete». La bambina non viene liberata, la troveranno in un pozzo 10 giorni dopo, uccisa non stuprata.

Partono le indagini, la sua maestra elementare, la maestra di Raffaelina dirà di averla vista l’ultima volta a bordo di una Fiat 127 di color rosso. I magistrati trovano un operaio 37enne, Castiello, che era un dipendente dello zio. Lo interrogano, lui aveva un alibi solido, non aveva elementi di dubbio su questo e lo rilasciano. Qualche giorno dopo viene ucciso e il comunicato è «Giustizia è fatta» firma NCO. Nessuno saprà mai ovviamente se Castiello era coinvolto in questa vicenda. Anzi, secondo la legge Castiello era completamente innocente.

La Camorra lo ammazza con l’obiettivo di dare la sensazione di sicurezza, i bambini sono al sicuro, qui non c’è droga, perché l’eroina e la coca si spaccia solo fuori dal territorio controllato, quindi Napoli, Roma, Milano, Stoccolma, ma non Ottaviano non Casal di Principe, non San Cipriano, non Marano. E dall’altro lato i tribunali, le indagini lente che permettono addirittura a un pedofilo di fare una cosa del genere, noi invece interveniamo subito. In verità successe un caso simile poco distante da Ottaviano, anni dopo con due sorelle, due bambine a dimostrazione che in realtà Castiello fu punito solo per far sembrare efficiente la giustizia camorristica.

Ecco, quel manifesto ricorda tutto questo: ricorda i soldi dati ai terremotati, ricorda i soldi dati alle famiglie bisognose, ricorda l’affiliazione in massa dei disoccupati. Certo, tutto questo per alimentare il potere camorristico; tutto questo a costo della vita, ma tutto questo faceva sentire una parte del territorio non abbandonato, cosa che invece fa sentire lo Stato, la democrazia. Quei manifesti terribili ci devono ricordare questo: le organizzazioni criminali non vincono solo con le pistole, non vincono solo col ricatto, vincono col consenso, con la presenza e anche con un certo tipo di deformata cura. 

Contromanifesti delle Iene su Cutolo strappati ad Ottaviano. Giornalista, ci hanno cacciati e detto che boss era brava persona. Redazione ANSANAPOLI il 22 febbraio 2022.

Alcuni manifesti dove si racconta parte della vita di Raffaele Cutolo, fatti stampare dalla 'Iena' Ismaele La Vardera, nel quale si sottolinea che Cutolo ''non è un'anima benedetta'', sono stati strappati da diverse persone ad Ottaviano (Napoli), dove il giornalista stava svolgendo un servizio televisivo per commentare l'altro manifesto, quello apparso alcuni giorni fa per le celebrazioni religiose ad un anno dalla morte del boss della Nco (Nuova camorra organizzata).

''Dopo i manifesti dei giorni scorsi dove il boss era definito 'anima benedetta' - ha spiegato La Vardera - avevamo pensato ad un 'contromanifesto' dove si spiega chi è stato davvero Cutolo. Stamattina abbiamo chiesto al sindaco Luca Capasso il permesso per affiggere i manifesti e lui ci ha anche messo a disposizione una persona per attaccarli in giro per il paese. Abbiamo cominciato dalla piazza antistante il Municipio e poi proseguito nelle zone periferiche, ma al ritorno abbiamo notato che i manifesti davanti al Comune erano stati staccati.

Li abbiamo rimessi e a quel punto si sono avvicinate alcune persone che ci hanno detto che Cutolo è morto e dovevamo lasciarlo in pace, altri hanno detto che era una brava persona 'rispettabile', ed uno in particolare ha staccato quelli appena riattaccati, ed ha cercato di strapparci il microfono. Altri manifesti sono stati staccati in altri punti del paese. Ci hanno anche detto di andare via''. ''Raffaele Cutolo non è un'anima benedetta - si legge sul manifesto fatto affiggere dalla Iena - E' stato un camorrista fondatore della nuova camorra organizzata. E' responsabile degli omicidi di Mario Viscito, Marcello Torre, Giuseppe Salvia. Si definiva 'un Robin Hood', in realtà è stato un sanguinario criminale. La stessa moglie del boss, Immacolata, ha detto di non seguire la sua strada. Ha passato tutta la sua vita dietro le sbarre. Uomo senza onore e dignità non ha mai chiesto scusa per i suoi delitti e non si è mai pentito. E' morto all'età di 79 anni nel carcere di Parma portandosi dentro la tomba misteri su tanti omicidi non ancora risolti'' (ANSA).

Insieme ad altre donne aveva fatto emerge la rete di orchi che abusa dei loro figli. Chi è mamma coraggio? La storia di Matilde Sorrentino, la donna uccisa perché aveva sporcato l’onore del boss. Redazione su Il Riformista il 3 Febbraio 2022 

Il killer bussò alla porta di casa di Matilde Sorrentino e la uccise con quattro colpi di pistola. Il suo ‘errore’? Essere diventata una testimone di giustizia e aver portato alla luce, insieme ad altre due mamme coraggio (Bianca e Pina), il giro di pedofilia, anche ai danni di suo figlio, presente nel rione dei Poverelli a Torre Annunziata (Napoli) dove numerosi minori vennero abusati anche nella scuola elementare.

Matilde aveva 49 anni ed era madre di due bambini quando venne assassinata il 26 marzo del 2004, sette anni (1997) dopo aver squarciato quel velo d’omertà presente nel quartiere. Lei e le altre mamme coraggio diedero il via alle indagini che portarono alla luce una rete di orchi che aveva agito fino alla primavera 1996: le vittime erano minori di età compresa tra i 6 e i 7 anni. Secondo quanto emerso nelle indagini e nel processo, i piccoli venivano violentati, fotografati e ripresi in video all’interno di case private, garage ed anche nei bagni della scuola che frequentavano. Le piccole vittime venivano anche minacciate con siringhe e coltelli, oltre che legate e picchiate. Matilde e le altre mamme si resero conto che qualcosa nei loro figli non andava e piano piano riuscirono a far emergere le violenze che quotidianamente subivano nel Rione.

Per quell’omicidio il 21 dicembre 2021 è stato condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Napoli Francesco Tamarisco, ritenuto elemento di spicco della malavita di Torre Annunziata, a capo negli anni scorsi di un clan dedito soprattutto al traffico di sostanze stupefacenti. Secondo i giudici di primo grado fu il mandante dell’omicidio di Matilde, uccisa all’epoca dal 26enne Alfredo Gallo, poi arrestato nei giorni successivi e condannato all’ergastolo (determinante fu la testimonianza del figlio della vittima che lo riconobbe dopo averlo visto darsi alla fuga dopo l’agguato). Secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, il killer di mamma coraggio sarebbe stato pagato dal clan Tamarisco 50mila euro per l’omicidio più altri 500 euro al mese (almeno fino a qualche anno fa) dopo l’arresto.

Matilde aveva denunciato anche Francesco Tamarisco per aver abusato sessualmente di suo figlio e altri bambini del rione Poverelli. Quest’ultimo, assolto in Appello dall’accusa di violenza sessuale sui minori, ordinerà, secondo le ipotesi della procura, l’omicidio di Matilde per vendicare l’onore “sporcato” da una denuncia del genere che negli ambienti malavitosi viene condannata con una sentenza di morte. “L’omicidio della Sorrentino ha rappresentato la feroce ritorsione ai danni di una donna che con il proprio coraggio aveva consentito di di svelare una turpe sequenza di violenze ai danni di bambini indifesi, e di assicurare alla Giustizia i relativi responsabili” ha commentato dopo la sentenza di condanna nei confronti di Tamarisco, il procuratore di Torre Annunziata Nunzio Fragliasso.

Per le denunce delle mamme coraggio, vennero condannate 19 persone nel giugno del 1999. Le pene più pesanti furono inflitte a Pasquale Sansone, bidello della scuola, e a Michele Falanga, titolare di un bar. Tuttavia gli imputati vennero scarcerati per la scadenza dei termini di custodia cautelare e poche settimane e Sansone e Falanga vennero uccisi a distanza di 24 ore. Due omicidi decisi dalla camorra  per punire con la morte chi aveva abusato dei minori.

Dopo la morte di Matilde, il marito, i due figli e le altre due mamme coraggio sono stati sottoposti a misure di protezione; tuttavia nel settembre 2013 queste misure sono state sospese poiché si è ritenuto che essi non fossero più in pericolo di vita. L’8 marzo 2012 il Comune di Napoli ha dedicato a Matilde Sorrentino e Teresa Buonocore un monumento floreale nei giardini di Piazza Municipio. Nell’aprile 2013 alla memoria di Matilde Sorrentino e Luigi Cafiero vengono intitolate la piazza appena ristrutturata e il nuovo centro sociale ultimati nel rione Penniniello di Torre Annunziata. Alla memoria di Matilde sono intitolati il Centro Polivalente per anziani e la Casa Alloggio per minori dei Salesiani in Torre Annunziata.

Nel marzo del 2017 viene riconosciuto un risarcimento al figlio di Matilde, che all’epoca degli abusi aveva solo sette anni. Una magra consolazione per un ragazzo che in quegli anni perse la spensieratezza e la presenza di una madre coraggiosa.

Oltre cento i clan di camorra napoletani, ma a comandare sono solo due cartelli. Ignazio Riccio il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

I gruppi egemoni sono l’Alleanza di Secondigliano e la famiglia Mazzarella. Intanto i giudici lanciano il grido d’allarme: "Troppi omicidi, siamo in pochi".

La geografia criminale a Napoli e in Campania è ben definita: i clan della camorra sono frazionati in oltre cento gruppi, anche se a controllare il territorio, in particolare, sono solo due cartelli. L’Alleanza di Secondigliano e il clan Mazzarella imperano, circondati da una serie di piccole organizzazioni alleate. Da un’indagine del quotidiano napoletano Il Mattino emerge un quadro fosco e preoccupante: i due clan, divisi tra il centro di Napoli e le aree periferiche, ormai controllano anche parte dell’economia legale, attraverso il riciclaggio di denaro sporco.

I due clan egemoni

L’Alleanza di Secondigliano, che opera nelle periferie di Scampia, Piscinola e Miano, raccoglie al suo interno le famiglie criminali dei Licciardi-Mallardo-Contini-Bosti. Negli ultimi anni il clan ha allargato i suoi confini riuscendo a controllare anche alcuni quartieri della Napoli bene, come Il Vomero e l’Arenella, mentre una guerra in corso con i Mazzarella si sta combattendo per la conquista di Fuorigrotta. L’obiettivo della camorra è mettere le mani sui finanziamenti edilizi post pandemia da Covid-19; la partita è aperta e si preannuncia molto cruenta. In gioco c’è anche l’altro potente cartello, quello dei Mazzarella, che ha il suo quartier generale nel centro storico di Napoli. Ramificazioni il gruppo le ha create anche fuori città, a Portici e a San Giorgio a Cremano.

I problemi della giustizia

Mentre i clan di camorra si organizzano, arriva il grido d’allarme dei magistrati. Il procuratore generale di Napoli Luigi Riello, come riporta il Quotidiano Nazionale, ha dichiarato a poche ore dalla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario 2022 che la situazione è drammatica. “Napoli è caso nazionale – ha spiegato – troppi omicidi, i clan proliferano e mancano i magistrati”. Per Riello, il numero dei giudici per le indagini preliminari andrebbe triplicato, così come sarebbe indispensabile, per evitare infiltrazioni criminali, costituire una cabina di regia per controllare i fondi del Pnrr.

Ignazio Riccio.  Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Libriotheca Editore, è stato pubblicato a marzo 2019. Amo in particolare la lettura, il cinema e il teatro; sono appassionato di calcio e tifo Fiorentina.

Camorra, il figlio di Rosario "o biondo" racconta la storia della sua famiglia. MARTA SPINA su Il Quotidiano del Sud il 17 Gennaio 2022.  

NEGLI ambienti della mala napoletana, per tutti lui è il figlio di Rosario “o biondo”, il boss di Torretta che riscuoteva il pizzo tra i pontili di Mergellina, di recente condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Ma Antonio Piccirillo, 26 anni, assomiglia a suo padre solo per il colore dei capelli, chiarissimi e folti, quasi da divo di Hollywood.

Perché lui di avere a che fare con la camorra non ne ha mai voluto sapere. E così si è sfilato dall’abbraccio tentacolare della criminalità organizzata, deludendo le aspettative di parenti e amici che gli chiedevano di raccogliere il testimone di suo padre e seguire le sue orme.

Ospite due giorni fa di A.i.me.pe. – l’associazione dei Mediatori penali che ha sede nazionale a Cosenza – prova a spiegare ai corsisti presenti, e ai ragazzi in collegamento video della comunità terapeutica “L’ulivo” di Tortora, che cosa è stata per lui la vita da figlio di un mafioso.

La sensazione di smarrimento, di dolore, di sofferenza che si è trascinato dietro come un bagaglio non richiesto, eppure sempre presente. La rabbia a lungo trattenuta per le ingiustizie subite, che ha ingoiato con rassegnazione, quasi fossero mali inevitabili. «A 17 anni ero in giro con i miei cugini e stavamo dando fastidio a uno straniero: ci fingevamo poliziotti, gli chiedevamo i documenti. Ma era una ragazzata, non volevamo fargli nulla di male. Invece la polizia mi ha fermato, arrestato con l’accusa di furto e portato in comunità, dove sono stato per un anno. Oggi posso dire con forza che ero innocente, e quello è stato un modo delle forze dell’ordine per rivalersi su mio padre».

Il suo no alla mafia Antonio lo urla forte e chiaro ad un megafono due anni fa, durante una manifestazione di protesta indetta a Napoli all’indomani di una sparatoria tra camorristi in cui viene ferita per sbaglio una bambina di quattro anni. A quel punto il fardello già gravoso di dolore, sofferenza e smarrimento si carica di un nuovo peso: quello della paura. La paura delle minacce, delle ripercussioni per sé e per i suoi familiari, persino della morte.

«Quando ho pubblicamente preso le distanze dalla Camorra – racconta alla platea di A.i.me.pe – i compagni di detenzione di mio padre gli dicevano: tuo figlio si è dissociato, sei un morto che cammina. La gente per strada mi sputava addosso, mi chiamavano infame. E io per cinque mesi non sono più andato a trovarlo, per il terrore di incontrare altri camorristi». Il rapporto con sua madre, indignata per quel gesto che vive come un tradimento, si incrina, suo padre si dibatte in carcere tra l’impulso di difenderlo e la fedeltà assoluta al codice mafioso. Antonio è solo, lui e i suoi demoni, ma continua senza sosta a ripetere lo stesso mantra, quello che scandisce a più riprese anche durante l’incontro: «La camorra fa schifo, non ha valori, non ha etica, non è mai stata pulita, non ha mai avuto una morale. Voglio bene a mio padre, ma mi rifiuto di sposare la sua linea d’azione».

Oggi il figlio di Rosario “o biondo” insegue il suo sogno di legalità e giustizia. Inizierà a breve un corso proprio con A.i.me.pe, per diventare mediatore penale. «Voglio lavorare con i minori – dice con lo sguardo sognante – sento di poter capire il loro dramma, visto che in qualche modo è stato anche il mio». Dopo tanto tempo è riuscito a perdonare suo padre, col quale sostiene di avere adesso un rapporto che definisce «sincero, libero, leale».

Forse, appena sporcato da un antico e mai sopito rimpianto: «Con noi è sempre stato buono, ma lo abbiamo vissuto troppo poco; ricordo ancora quando da bambino speravo di vederlo all’uscita di scuola. La sofferenza è la quotidianità per il figlio di un camorrista».

Le mani del clan Zagaria sugli appalti fantasma dell’Asl di Napoli: e i proventi venivano reinvestiti in Toscana. La Guardia di finanza ha eseguito una confisca da sette milioni di euro a due imprenditori considerati contigui al clan dei casalesi e che hanno ricevuto commesse mai realizzate. Tra i regali fatti al braccio destro del boss anche un cavallo. Antonio Fraschilla su L'Espresso l'11 gennaio 2022.

Una indagine che inizia nell’ufficio di un funzionario dell’Asl3 di Napoli e finisce in case di lusso e appartamenti in Toscana. In mezzo ci sarebbe il clan di Michele Zagaria e dei suoi amici. L’ufficio delle misure di prevenzione del Tribunale di Firenze ha messo la parola fine, da un punto di vista finanziario, a una inchiesta che va avanti dal 2015 e che ha scoperchiato gli appalti illegittimi nell’ambito della sanità a Napoli grazie a un funzionario che sarebbe stato corrotto, Sebastiano Donnarumma, attualmente sotto processo.

Giochi e scommesse illegali: arresti, camorra e affari per 5 miliardi. SARA SPIMPOLO su Il Domani l'11 gennaio 2022.

Avrebbero gestito una holding per il gioco online che in due anni ha fruttato una somma enorme, commettendo reati che avrebbero agevolato il clan dei casalesi

Una sorta di multinazionale dei giochi e delle scommesse online. Apparentemente legali, ma gestite in maniera illecita tra l’Italia e l’estero, grazie anche ai contatti con il clan camorristico dei Casalesi. 

È questa l’ipotesi accusatoria della procura di Salerno, guidata da Giuseppe Borelli, che ha portato all’arresto e alla custodia in carcere di 33 persone tra Salerno, Ascoli Piceno, Agrigento, Avellino, Brindisi, Caserta, Catanzaro, Latina, Lecce, L'Aquila, Messina, Napoli, Potenza, Ravenna, Roma e Varese, nonché in diversi stati esteri, in particolare Panama, Romania e Malta.  

Il provvedimento è stato emesso dal Gip del tribunale di Salerno su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, che ha delegato le indagini ai carabinieri salernitani. Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti in materia di giochi e scommesse illegali, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, reimpiego di denaro illecito e auto-riciclaggio. Con l’aggravante, per alcuni di questi reati, di averli commessi per agevolare il clan dei Casalesi. 

Oltre alle custodie in carcere, il giudice ha disposto anche il sequestro preventivo di 11 siti internet e delle società “Europartner” e “IOCOSA LUDUM società cooperativa”, con sede legale a Mercato San Severino (in provincia di Salerno), nonché di 3 milioni di euro nei confronti di Luigi Giuseppe Cirillo e di altri personaggi ritenuti dagli inquirenti suoi prestanome. 

Proprio Cirillo è ritenuto dal giudice «capo e promotore del sodalizio criminale», perché sarebbe stato lui a costituire la società di scommesse illecite grazie ai suoi contatti con il clan mafioso.

Il sistema di cui, secondo gli inquirenti, sarebbe stato a capo, permetteva a milioni di giocatori di scommettere online, su siti internet privi delle autorizzazioni del Monopolio di stato italiano, allocati su diversi server che si trovavano all’estero – pur venendo coordinati da Salerno – in “paradisi fiscali” come Panama e l'Isola di Curacao. 

DUE ANNI DA 5 MILIARDI 

Associandosi alla rete “dbgpoker” – una piattaforma di poker on-line attiva su siti allocati all'estero e non autorizzati ad operare in Italia –, il sodalizio criminale avrebbe abusivamente programmato ed eseguito il gioco delle scommesse, del casinò e del poker Texas Hold'em.

Alcuni giochi risultavano fruibili anche su slot machines e totem che si trovavano in diverse attività commerciali, per lo più nel sud Italia, alle quali veniva imposto dai clan locali di usufruire di questi giochi. Alcune sale giochi individuate in Italia sono state inoltre ricondotte alle due società di Mercato San Severino oggetto di sequestro preventivo.

Attuando un complesso sistema piramidale di gioco online illecito, gli indagati hanno raccolto in due anni oltre 5 miliardi di euro, secondo quanto stimato dagli inquirenti. Se i giochi fossero stati svolti in somma lecita, avrebbero fruttato allo stato italiano circa 500 milioni di euro in tasse.

Cirillo è anche accusato di autoriciclaggio per una serie di investimenti che avrebbe operato con i proventi illeciti del gioco – in particolare nello stato di Panama, dove avrebbe acquistato diversi beni immobili – nonché di aver usufruito dei proventi derivanti dalla vendita di una Lamborghini Murcielago, fittiziamente intestata a una società iscritta nei registri della Repubblica Ceca e ritenuta riconducibile a uno degli indagati. 

Cirillo è anche accusato di detenzione illegale di arma da sparo, in quanto in una circostanza avrebbe minacciato con una pistola un appartenente a un clan rivale che reclamava un credito nei confronti di un suo affine. 

Il Gip contesta agli imputati anche l’aggravante mafiosa, «sotto il profilo dell'agevolazione al clan dei Casalesi, configuratasi grazie alla consapevole fornitura della piattaforma di gioco illegale a soggetti ad esso contigui», che avrebbe contribuito a impolpare le casse dell’organizzazione mafiosa. 

SARA SPIMPOLO.  24 anni, aquilana, ha una laurea in Scienze della comunicazione a Bologna, un tesserino da pubblicista in Abruzzo e ora un percorso di praticantato in corso a Urbino.

·        La Mafia Romana.

"I soldi o ti uccido". Il racket al Colosseo. Ai domiciliari due fratelli accusati di tentata estorsione e lesioni in concorso. La questione degli abusivi all’esterno del Colosseo. Gabriele Laganà l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L’illegalità che prospera all’esterno del Colosseo, uno dei monumenti più importanti e conosciuti di Roma, è un triste fenomeno che sembra difficile da estirpare. Nel corso del tempo le varie giunte che si sono succedute hanno provato a porre un argine con ordinanze e divieti. Basti pensare che nel 2002, durante l'amministrazione Veltroni, si ipotizzò di creare un albo apposito. Proposta simile fu lanciata dalla giunta Alemanno, che firmò anche un'ordinanza per tenere i gladiatori lontani dal monumento.

Ogni tentativo si è rivelato quasi inutile. A riprova di ciò vi è l’arresto, avvenuto nelle ultime ore, di due "saltafila", risultati con precedenti penali. A finire nei guai sono stati due fratelli di 38 e 22 anni gravemente indiziati dei reati di tentata estorsione e lesioni in concorso. Soggetti che già in passato avevano fatto parlare di sé in quanto, nella veste di centurioni, si erano scagliati contro i vigili che li avevano multati.

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, i due avvicinavano le guide turistiche regolari che operano nel Parco archeologico fingendosi intermediari e procacciatori e le minacciavano. Senza fare troppi giri di parole, spiega il Messaggero, i due fratelli "spiegavano" alle loro prede che se volevano continuare a lavorare dovevano pagare una percentuale per ogni persona che visitava il celebre anfiteatro.

E per mettere le cose in chiaro non esitavano ad agire in modo brutale. "I soldi che fai li devi dare a me", avrebbero detto i due arrestati, come riporta ancora il quotidiano, a una delle vittime prima di iniziarla a colpire con un pugno in faccia e calci. Un’azione violenta che si sarebbe consumata in pieno giorno davanti a numerose persone. Non solo. Perché, per evidenziare la propria posizione, sarebbero arrivati anche alle minacce di morte: "Non puoi stare qui, questo è il posto mio, vattene altrimenti ammazzo te, tua figlia. Se hai un marito meno pure lui". E come se non bastasse: "Ti vengo ad ammazzare sotto casa".

Per il momento le vittime accertate sono due guide turistiche regolari e altre due abusive. La prima denuncia risale allo scorso 23 agosto. Quel giorno, infatti, un intermediario turistico abusivo era andato al commissariato Celio raccontando di essere stato aggredito. Per di più il pestaggio era stato ripreso con il cellulare.

Nel corso delle indagini, coordinate dalla pm Silvia Santucci, è emersa la difficile realtà che circonda il Colosseo. Come ha sottolineato il gip, all’esterno del monumento operano in modo abusivo numerosi soggetti che compiono il lavoro di "intermediazione turistica" e di "saltafila". Il modo di agire sarebbe sempre lo stesso: gli irregolari si avvicinano ai turisti e li accompagnano dai complici a comprare i biglietti.

Ed è in questo ambiente che avrebbero agito, secondo l’accusa, i due fratelli poco inclini a preoccuparsi delle conseguenze della loro condotta. A testimonianza di ciò vi sarebbe un episodio accaduto in passato che riguarda uno dei fratelli. Quest’ultimo, invitato dagli agenti a mostrare un documento, si sarebbe vantato di non avere mai avuto conseguenze. "Non mi potete fare un c... -la sanzione è amministrativa, ce n'ho un milione, ma tanto non le pago... non mi hanno fatto un c... quando ho spaccato la spada nella testa di un vigile, che mi fate voi?", avrebbe detto il giovane mentre faceva a pezzi una copia del verbale. Ai due fratelli è stata notificata un'ordinanza di applicazione degli arresti domiciliari.

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 6 dicembre 2022.

Doppio processo per Raul Esteban Calderon, l'argentino accusato di essere il killer di Fabrizio Piscitelli (detto Diabolik) e di Shehaj Selavdi (detto Passerotto). Ieri il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma, Roberto Saulino, lo ha rinviato a giudizio per l'uccisione dell'ex leader degli Irriducibili della Lazio, con l'accusa di omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso. 

Regge quindi il quadro probatorio della Dda, ricostruito grazie alle indagini della Squadra mobile, da cui emerge che è proprio Calderon l'uomo vestito da runner che il pomeriggio del 7 agosto del 2019 ha attraversato correndo il parco degli Acquedotti e freddato con un colpo alla testa Picitelli, mentre era seduto su una panchina. Un agguato mortale che rappresentò uno spartiacque negli equilibri della criminalità organizzata capitolina, dando il via a una lunga scia di vendette sanguinarie. La prima udienza di questo processo, che si celebrerà davanti alla terza sezione della Corte d'assise di Roma, è fissata per il 23 febbraio.

Diabolik era a capo di uno dei gruppi di narcos più potenti della città, ma nell'ultimo periodo si era arrogato il ruolo di fare da burattinaio e garante degli equilibri tra i clan mafiosi romani, come nel caso della famosa pax di Ostia. Per questo motivo si era fatto diversi nemici. Il prezzo pagato a Calderon per eliminarlo, secondo la Procura, è stato di 100mila euro, più 4mila euro al mese versati in contanti nelle mani del sicario. A incastrare l'argentino è stata l'ex compagna. 

In una telefonata intercettata, lo accusava di aver usato una sua pistola, una calibro 9, senza averle detto niente, per uccidere Piscitelli. «Lo sai... hai ammazzato Diabolik con la pistola mia... la 9 per 21, Raul», aveva detto il 23 novembre 2021. Ascoltata dagli agenti della Squadra mobile, la donna ha ribadito quella versione. Anche Enrico Bennato, intercettato, aveva parlato dell'omicidio di Piscitelli, spingendosi fino ad «accusare il fratello Leandro di essere il mandante». «Se vengono qua a fa' casotti ce rimettono la vita Francè!

Tutti e tre ce l'hanno rimessa, Diabolik e quell'altri due... Qua non devono venire a fa' i prepotenti a Casalotti», aveva detto. Poi, aveva descritto l'assassinio del capo ultrà e aveva raccontato che i due albanesi che avevano cercato di uccidere il fratello Leandro nel novembre 2019, gambizzandolo, come reazione all'agguato a Diabolik, erano stati a loro volta eliminati: «Sono morti quelli che hanno sparato a Leandro». Anche Calderon avrebbe potuto fare la stessa fine: «Se lo sa l'argentino tocca ammazzarlo». E ancora: «È scappato, l'ho mandato via in Spagna... ha ammazzato Diabolik... lo sa tutta Roma».

Sempre ieri il gup ha disposto il processo per Calderon per l'agguato dell'albanese Shehaj Selavdi, ucciso alle 10,40 del 20 settembre 2020, mentre si trovava al chiosco Bora Bora, sul lungomare di Torvaianica. L'argentino è stato rinviato a giudizio insieme a Enrico Bennato e Giuseppe Molisso, tutti e tre accusati di concorso nell'omicidio aggravato dal metodo mafioso, a Guido Cianfrocca (il cognato di Molisso accusato di aver procurato l'arma) e a Luca De Rosa (accusato di ricettazione dello scooter utilizzato per il raid). (...)

Estratto dell’articolo Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 15 novembre 2022.  

«Dalla bandana al modo di camminare, gli elementi a carico di Raul Esteban Calderon sono indiscutibili». Secondo la Procura, non c'è dubbio che l'argentino è l'uomo vestito da runner che il 7 agosto del 2019 sparò un colpo alla testa di Fabrizio Piscitelli, mentre quest' ultimo era seduto su una panchina nel parco degli Acquedotti, insieme al suo guardaspalle. Nell'udienza preliminare di ieri i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio di Calderon per omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso e detenzione abusiva di armi. 

«Non è comune avere un filmato di un delitto», hanno sottolineato in aula i magistrati, spiegando che dal video dell'uccisione di Diabolik si riconosce chiaramente Calderon. E poi, a incastrarlo ci sono «le dichiarazioni della ex compagna e le intercettazioni».

Il killer è accusato anche dell'omicidio dell'albanese Selavdi Shehaj, detto Passerotto, avvenuto sulla spiaggia di Torvaianica il 20 settembre 2020. (...) 

LA SORELLA DI DIABLO «Gli atti processuali evidenziano il male in tutte le sue forme un'organizzazione pronta a commettere altri omicidi con freddezza e disinvoltura considerando le vittime designate quali bersagli di tirassegno al luna park - ha commentato la sorella di Piscitelli all'Adnkronos - Come mio fratello possa essersi inserito in questo tessuto criminale così ramificato e tentacolare è una domanda a cui cerco disperatamente di darmi risposta. Se non si fosse perso e avesse conservato i principi familiari, tutte le sue scelte, anche le più intime, sarebbero state molto diverse. In uno dei nostri ultimi incontri era molto consapevole dei suoi disastri esistenziali. Comunque in questo processo è lui vittima di omicidio. Per questo merita giustizia esattamente come l'avrebbe avuta stando in carcere se fosse vivo».

Sul particolare, raccontato dal Messaggero, che il proiettile letale per Diabolik facesse parte di un lotto del Viminale, la sorella spiega che cambia poco rispetto all'impianto accusatorio; «sono invece rimasta sconcertata nel leggere che un appartenente alle forze dell'ordine potesse offrire informazioni a questi personaggi». Sempre ieri la Procura ha chiesto 12 anni di reclusione per Fabrizio Fabietti, socio in affari di droga di Piscitelli, a processo con rito abbreviato per aver acquistato da Roberto Fittirillo (ex della banda della Magliana) 22 chili e mezzo di cocaina nell'arco di dieci giorni, a fine maggio 2018. Fabietti è già stato condannato sei mesi fa a 30 anni per l'operazione Grande raccordo criminale.

Venti secondi per uccidere Diabolik, il video shock dell’esecuzione. La Repubblica il 9 Novembre 2022.

Il sicario accelera il passo quando si avvicina a Fabrizio Piscitelli, 53 anni. Diabolik capo ultras degli Irriducibili, narcotrafficante in ascesa nella ricca piazza romana, è seduto in una panchina del parco degli Acquedotti. È il 7 agosto 2019. Accanto c'è il suo bodyguard e autista cubano. La telecamera immortala la scena. Registra gli ultimi venti secondi di vita del boss. Tanto impiega un killer a uccidere un uomo. L'uomo inquadrato dal sistema di videosorveglianza nelle immagini che Repubblica ha ottenuto in esclusiva è, per i pm, Raul Esteban Calderon. 

Il video shock dell'esecuzione di Diabolik. E il suo autista confessa: "Parlava di un debito da 300 mila euro". Giuseppe Scarpa, Andrea Ossino La Repubblica il 10 Novembre 2022.

L'agguato, lo sparo e poi la fuga del killer nel parco al Tuscolano. Per i pm l'uomo inquadrato dal sistema di videosorveglianza è Raul Esteban Calderon. Altri elementi da considerare: dagli attriti con la criminalità albanese ai soldi che preoccupavano Fabrizio Piscitelli

Il sicario accelera il passo quando si avvicina a Fabrizio Piscitelli, 53 anni. Diabolik capo ultras degli Irriducibili, narcotrafficante in ascesa nella ricca piazza romana, è seduto in una panchina del parco degli Acquedotti. È il 7 agosto 2019. Accanto c'è il suo bodyguard e autista cubano.

La telecamera immortala la scena. Registra gli ultimi venti secondi di vita del boss.

Andrea Ossino Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 10 novembre 2022. 

Il sicario accelera il passo quando si avvicina a Fabrizio Piscitelli, 53 anni. Diabolik, capo ultras degli Irriducibili, narcotrafficante in ascesa nella ricca piazza romana, è seduto in una panchina del parco degli Acquedotti. È il 7 agosto 2019.

Accanto c'è il suo bodyguard e autista cubano. La telecamera immortala la scena. Registra gli ultimi venti secondi di vita del boss. 

Tanto impiega un killer a uccidere un uomo. Il sicario è vestito con una maglietta verde, un capellino nero, pantaloncini grigi e calzettoni bianchi, sui fianchi ha un marsupio nero da dove estrae e ripone la pistola. L'uomo inquadrato dal sistema di videosorveglianza è, per i pm, Raul Esteban Calderon. 

Ecco, la vittima non si accorge di nulla. Intorno le persone che si allenano all'aria aperta, altri sono seduti poco distanti. L'assassino corre quando mette a fuoco Diabolik. Aumenta il passo. Si pianta alle sue spalle. Si ferma, meno di un secondo. Poi si sente un rumore.

Uno sparo. Boom. Piscitelli crolla in avanti. Si affloscia. Si solleva una nuvola di terra, il proiettile dopo aver colpito il boss si conficca vicino a un pino. La reazione del suo autista è immediata. Istintiva. Si alza dalla panchina e scappa.

Corre nella direzione opposta al killer. Nemmeno si volta. Poi si ferma, quando capisce che il sicario va nella direzione opposta. Il killer corre verso la telecamera piazzata in un balcone di un appartamento in via Lemonia. Rallenta prima di scavalcare la recinzione che porta verso la strada. Attraversa la via. Percorre il marciapiede, poi scompare. Esce dall'inquadratura. Le persone al parco rimangono di sasso. Dopo 24 secondi dall'esecuzione in tre si avvicinano al cadavere. Ma si tengono a distanza.

Sono spaventate. L'autista cubano è disorientato. Prima sembra avvicinarsi. Poi ci ripensa, guarda circospetto. Trascorrono altri due minuti da quando Piscitelli è stato ucciso. Il guardaspalle di Diabolik si infila in auto, una Jeep Compass e va via. 

«Questo video - spiega Eleonora Moiraghi, penalista che difende Calderon - consegna solo dubbi sugli autori dell'omicidio e non offre nessun tipo di certezza. Infatti, sebbene sia stato acquisito all'indomani dell'omicidio, sono passati più di due anni prima di indicare Calderon come il presunto autore del fatto».

Andrea Ossino Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 10 novembre 2022. 

Gli appuntamenti, le visite nella sede degli ultrà e i colloqui in altolocati uffici. Le ultime 48 ore di Fabrizio "Diabolik" Piscitelli sono frenetiche.

Parla «dei problemi della Lazio», cerca di farsi un tatuaggio, gestisce un debito sospetto da 300mila euro e attende con impazienza di incontrare una persona al parco degli Acquedotti, in quella panchina dove il 7 agosto del 2019 un sicario travestito da runner lo ha ucciso con un colpo in testa. 

A raccontare gli ultimi due giorni del leader degli Irriducibili della Lazio, al vertice della «batteria di Ponte Milvio » insieme all'amico Fabrizio Fabietti, è il suo autista, un cubano di 32 anni. Non sono trascorse neanche due ore dall'omicidio quando il ragazzo si trova faccia a faccia con la polizia. 

Il suo racconto parte dal 5 agosto, dai pranzi con il socio Fabietti e «l'amico di quest' ultimo chiamato il Freddo » , fino all'incontro con un commerciante in via Valerio Publicola, dove Piscitelli osserva un orologio: « Non va bene - dice - quelli vogliono i soldi» . Poi esce e chiama. È categorico: « Se deve dare 300.000 euro, deve dare 300.000 euro».

Il giorno seguente è convulso. Alle undici «sono andato a prenderlo a casa e siamo andati a prendere Fabrizio Fabietti nei pressi del bar Manhattan di via Tiburtina » , inizia la narrazione. Poi il pranzo « Da Cesare », in piazza Cavour. Breve sosta al posto di blocco dei carabinieri e via verso il «Gus caffè di via dei Cosmati dove Piscitelli aveva un appuntamento per un tattoo » . Il tatuaggio salta e va a vuoto anche la visita dal barbiere. 

C'è un'azienda criminale da mandare avanti. Quindi alle 18 Piscitelli è in quel parco che vive come un ufficio, «in via Lemonia, nello stesso posto dove è stato ucciso ma in una panchina diversa» , spiega l'autista. Diabolik attende qualcuno, è impaziente: « Come mai non è arrivato? Mi sembra strano che questo non sia arrivato», riflette. Squilla il telefono, si allontana e ritorna: « Ha sbagliato giorno dell'appuntamento », spiega. C'è tempo per un'altra puntata dal barbiere. E anche per una visita «alla sezione degli Irri-ducibili di via Amulio». La serata termina all'Eur, con gli amici.

L'ultimo giorno di Diabolik inizia a bordo di « una Jeep Compass di colore bianco» . Ristorante di pesce e appuntamento « negli uffici in prossimità dell'Unicredit» . Poi arriva Fabietti, impegnato « al telefono con un suo conoscente il cui figlio doveva fare un provino calcistico con il Pescara » . Il colloquio finisce improvvisamente quando arriva una chiamata. 

« Stava andando là » , dice Diabolik.

L'appuntamento saltato il giorno precedente può essere recuperato.

E Piscitelli arriva al Parco degli Acquedotti con un'ora di anticipo. Attende, passa Fabietti, in macchina. 

E assiste alla scena narrata dall'autista: « Ho visto un uomo arrivare alle nostre spalle e senza dire nulla ha sparato in testa a Fabrizio » . Il video pubblicato su Repubblica. it è eloquente.

Anche l'identikit che il testimone fornisce è pieno di particolari che tuttavia negli altri cinque colloqui con gli investigatori si affievoliscono e scompaiono: «Non sono in grado di riconoscere la persona che si è resa responsabile dell'omicidio di Piscitelli » . Per i pm si tratta di Raul Esteban Calderon. Per l'avvocato Eleonora Moiraghi non è così. Il testimone non è attendibile, il video non avrebbe valenza probatoria e soprattutto non sono stati considerati altri elementi: dagli attriti con la criminalità albanese fino a quel debito di 300.000 euro. «Esistono altre piste investigative che andrebbero approfondite », ribadisce la penalista.

Da ilquotidianodellazio.it il 9 novembre 2022. 

La sera del 7 agosto 2019, al Parco degli Acquedotti, le telecamere di sorveglianza riprendono un uomo vestito da runner. È il killer di Piscitelli. 

L’omicida, sorprende alle spalle la vittima, si avvicina, punta l’arma e spara. Saranno proprio quelle immagini e alcune intercettazioni a portare gli inquirenti a Calderon, che oggi dovrà presentarsi davanti al gup. 

L’ultimo giallo sulla morte di Diabolik riguarda però il proiettile che l’ha ucciso. Perché la pallottola che è stata sparata da distanza ravvicinata alla testa di Fabrizio Piscitelli era in dotazione del Servizio Scorte.

La circostanza emersa dalle verifiche eseguite dalla Squadra mobile di Roma e dalla procura nell’ambito dell’inchiesta sul presunto esecutore materiale, l’argentino Raul Esteban Calderon, arrestato nel dicembre scorso. 

Tutto da chiarire in che modo quel proiettile fosse finito nelle mani della criminalità. 

Il proiettile, modello 9×19 parabellum, che ha ucciso uno dei protagonisti della criminalità romana, faceva parte delle armi in dotazione al Reparto Scorte.

Chiaramente indicato dagli atti, si tratta di: «Munizionamento da guerra in uso alle forze di polizia, lotto 33/16 assegnato al reparto scorte del Viminale». 

Le indagini sui mandanti sono ancora in corso e va sottolineato che le verifiche non hanno sciolto il mistero del proiettile, né sono riuscite a stabilire a chi fosse in uso. 

Armi e proiettili vengono, acquistati con bandi di gara pubblici e poi assegnati ai singoli uffici.

Potrebbe trattarsi di un’arma persa o rubata a uomini delle forze dell’ordine. Tanto più che la pistola che ha ucciso Diabolik non è mai stata ritrovata. 

Una talpa alla Squadra Mobile?

Emerge anche il dubbio che Calderon e il suo entourage avrebbero potuto contare su una talpa alla Mobile, un poliziotto prossimo alla pensione e con un secondo lavoro in zona Ottavia, posto di maggiore influenza dei fratelli Bennato con cui, secondo l’accusa, Diabolik sarebbe entrato in collisione. 

L’accusa sospetta che sia sua la pistola che ha sparato a Piscitelli. Un’arma che la ex compagna di Calderone e sua accusatrice, aveva sottratto al gioielliere Mangiucca di Torre Maura durante una rapina nell’aprile del 2019 e di cui Calderon si sarebbe impossessato.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 31 ottobre 2022.

«A Roma è pieno. Come è pieno a Milano e al Nord. Roma è piena...», ha raccontato il pentito Antonino Belnome ai pm dell'Antimafia. Roma è piena di famiglie della 'ndrangheta, emanazioni delle cosche di Guardavalle (Catanzaro) che avrebbero colonizzato Anzio e Nettuno già alla fine degli anni Novanta .Modaffari. Perronace. Gallace. Ecco i boss del litorale laziale che, secondo i pm, controllando l'importazione di cocaina, reinvestono in attività commerciali. 

E che dialogando con politici e amministratori infiltrano gli appalti pubblici. L'informativa dei carabinieri del Nucleo investigativo coordinati dall'Antimafia ricostruisce il perimetro degli affari e il profilo delle loro relazioni criminali, facendo anche luce su ambizioni e timori degli affiliati. Così, una conversazione fra le tante rivela la considerazione verso Massimo Carminati (il Nero), l'ex Nar socio in affari di Salvatore Buzzi nell'inchiesta «Mondo di Mezzo» e le perplessità invece su Fabrizio Piscitelli «Diabolik» ucciso al Parco degli Acquedotti il 7 agosto 2019.

A parlarne sono l'indagato Vincenzo Italiano e un amico: «Si dice che lui («Diabolik», ndr ) è il nuovo coso (capo, ndr ) no?», chiede quest' ultimo. Risposta di Italiano: «See...gli piacerebbe». E ancora l'altro: «Il nuovo Cecato de Roma» Quindi, sempre l'amico di Italiano: «Ho letto la biografia» mentre Italiano: «Diabolik?» risposta: «No, quell'altro (Carminati, ndr)...ma lui c'ha certi documenti pesanti proprio», fa notare l'amico. «Eh sì quando li hanno presi dentro le cassette no? Le cassette di sicurezza». 

Il riferimento è al furto nel caveau del tribunale romano risalente al 1999 e che ha innalzato la reputazione di Carminati a livelli leggendari. Prosegue l'amico: «Non stanno a parla' più perché mo piano piano...e poi lo buttano fuori (lo scarcerano) perché se parla come dire...», «Casca tutta l'Italia...» chiosa Italiano il quale si dimostra critico, invece, nei confronti di Piscitelli: «E poi, insomma, questi qua so' andati a fare l'estorsione non so se è andato un altro gruppo che gliela hanno fatta più apposta a Diabolik, capito?

Non lo so il perché e Diabolik ha preso ed è andato, insomma lui è venuto de qua e gliel'ha chiesto a un paesano (il riferimento è a una sorta di tentata espansione di Piscitelli sul litorale, censurata dai due, ndr ). Piscitelli è ritenuto poco affidabile proseguono Italiano e l'amico: «Certe voci dal carcere non so' tanto belle...» Risposta: «No, si sono messi a piangere co' Toffolo (Fabrizio Toffolo l'ultrà condannato in primo grado per la scalata della Lazio, ndr ) se so' puntati er dito a vicenda». 

Alla vigilia della sua esecuzione Piscitelli si conferma, stando almeno alla chiacchierata fra i due, un ingombrante, ambizioso capopopolo della criminalità organizzata. Un aspetto, questo, che era stato evidenziato anche nel corso delle indagini sul suo omicidio.

Oltre a confrontarsi con criminali vecchi e nuovi gli 'ndranghetisti del litorale sono interessati a diventare i referenti del mondo politico: «La capacità del gruppo criminale - scrivono i carabinieri - di infiltrare le pubbliche amministrazioni emerge con tutta evidenza nel corso di una conversazione durante la quale Italiano, parlando con un imprenditore che sta ingaggiando per conto della articolazione di Gallace, affinché fornisca società pulite...evidenzia la capacità di condizionamento esercitata dal loro gruppo criminale nei confronti delle pubbliche istituzioni locali». 

Quanto al boss Bruno Gallace, così avvisava i suoi interlocutori: «Sarò prigioniero dentro Anzio perché sono un ex detenuto che c'ha una sorveglianza speciale... ma le mie orecchie e i miei occhi arrivano dappertutto...».

Nello Trocchia per editorialedomani.it il 4 novembre 2022.

Alla fine dell'intervista, Barbara Mezzaroma non trattiene le lacrime. Piange quando rilegge un messaggio ricevuto dalla madre di un suo dipendente: «Sono orgoglioso che mio figlio lavori con lei». Mezzaroma è un'imprenditrice edile, appartiene a una delle famiglie più note a Roma. 

Mai avrebbe immaginato di aiutare i carabinieri ad arrestare il Nasca, al secolo Roberto De Santis, boss di Ostia, uno che andava in giro a gambizzare rivali, Vito Triassi, vantandosi di aver liberato il litorale dalla mafia siciliana.

L’indagine che ha portato in carcere Nasca non coinvolge solo un esponente della mala, ma anche un imprenditore, Paolo Papagni. 

Alla fine dell’intervista Barbara Mezzaroma non trattiene le lacrime. Piange quando rilegge un messaggio ricevuto dalla madre di un suo dipendente: «Sono orgogliosa che mio figlio lavori con lei». Mezzaroma è un’imprenditrice edile, appartiene a una delle famiglie più note della capitale. Mai avrebbe immaginato di aiutare gli investigatori ad arrestare il “Nasca”, al secolo Roberto De Santis, boss di Ostia. Uno che andava in giro a gambizzare i rivali, come Vito Triassi, vantandosi di aver liberato il litorale dalla mafia siciliana.

L’indagine che lo ha portato in carcere coinvolge anche un imprenditore, Paolo Papagni, fratello del più noto Roberto, presidente di Federbalneari, quest’ultimo estraneo all’inchiesta. 

L’attuale sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, è stato recentemente attaccato proprio per una foto, pubblicata sulla sua pagina Facebook, in cui è stato ritratto mentre conversa con De Santis che, in bici, lo aveva avvicinato durante la campagna elettorale. Gualtieri non sapeva niente del suo interlocutore, e niente sapevano i suoi consiglieri che animano convegni sulle mafie e annunciano guerra aperta al crimine. Annunciano. 

Papagni e De Santis, lo scorso gennaio, sono stati arrestati per estorsione aggravata dal metodo mafioso e da pochi giorni è iniziato il processo a loro carico. Una storia che vede, nei panni della vittima, una delle imprenditrici più in vista di Roma. 

Nella maggior parte dei casi a prevalere è l’omertà, la paura, ma Barbara Mezzaroma ha deciso di denunciare: «Qualcuno mi ha detto: ma tu sei scema, quello ha gambizzato una persona». 

Come è iniziata la sua vicenda?

Paolo Papagni ha insistito tanto per incontrarmi, mi mandava messaggi, mi telefonava. Sapeva del mio progetto edilizio in corso a Ostia (dal valore di 100 milioni di euro, ndr) e, quando ci siamo incontrati, mi ha detto che avrei dovuto vedermi con tale Roberto De Santis. 

Quando sono tornata a casa mi sono informata su chi fosse e sono corsa dalle forze dell’ordine, mio marito lavora alla Direzione investigativa antimafia. Potevo fermarmi lì, ma ho deciso di dare il mio contributo visto che da tempo gli inquirenti inseguivano quel boss senza successo perché parlava pochissimo, dice che non usava un cellulare da 16 anni, era sfuggente, un invisibile, un monaco. 

Lei si è messa a disposizione degli investigatori?

Sì, così ho incontrato nuovamente Papagni che ha cambiato all’ultimo il luogo dell’appuntamento. Mi ha spiegato che avrei dovuto incontrare De Santis per garantirmi una protezione, che non mi avrebbe chiesto un grande contributo economico visto che avrebbe guadagnato con le ditte impegnate nei lavori. Gli ho spiegato che avrei fatto le gare. 

E loro cosa hanno risposto?

Per loro andava benissimo, i soldi che De Santis mi avrebbe chiesto (500mila euro, ndr) avevano un valore di sottomissione al sistema perché il boss avrebbe poi raggiunto le aziende esecutrici applicando il 5 per cento di pizzo. Lui insisteva che avrei dovuto incontrare “Nasca” perché un mio no avrebbe avuto il valore di un rifiuto. Così, dopo che mi sono confrontata con gli inquirenti, ho accettato. L’incontro sarebbe stato fondamentale per le indagini. 

Come è stato l’incontro con il boss?

Mi ha restituito la sua idea di dominio. Diceva che era sopravvissuto 41 anni a Ostia nonostante ammazzamenti e omicidi, inchieste e grazie ai rapporti con la Banda della Magliana e alla sua statura criminale. 

“Sappi che io ho gambizzato una persona (il boss Vito Triassi, ndr) e non ho paura di sparare”, mi ha detto per spaventarmi. Ha aggiunto che gli aveva sparato all’ora di pranzo davanti a tutti e che non lo ha neanche denunciato. È stata un’esperienza impensabile, sono stata due ore con un criminale accanto, ho impiegato mezza giornata per disintossicarmi. 

Cos’altro le ha detto?

Ha precisato che lui veniva da un collegio, così chiamava il carcere, diverso e che non aveva niente a che fare con gli Spada e i Fasciani (clan di Ostia, ndr), ogni tanto provava a fare delle citazioni colte, sbagliava le pronunce, ma era il suo modo per dirsi diverso. Mi ha detto che aveva due, tre sopra di lui, ma non ha fatto nomi. Avevo la sensazione che ci fosse qualcuno in osservazione durante il nostro incontro che è avvenuto all’aperto in pieno giorno su una panchina. 

Che faccia ha il crimine?

Il crimine non ti guarda in faccia, quando lo fa è per spaventarti. Il boss voleva farmi capire che in realtà poteva far parte del mio mondo. Quando mi minacciava abbassava il tono della voce. Metteva le mani dietro le tasche, diventava glaciale e poi mi guardava per capire la mia reazione. Lui è arrivato con le idee molto chiare, mi ha chiesto della tempistica dell’appalto. 

Le era mai capitato di essere vittima di un’estorsione?

Non mi era mai capitato. Io ho visto la sfacciataggine e la naturalezza con cui mi hanno taglieggiato, mi ha impressionato la loro sicumera, erano sicuri di andare a dama. Ho pensato e penso che ci sia un sistema, che molti imprenditori paghino. 

Nasca era chiaro, non aveva bisogno di denaro, anche perché conduceva una vita morigerata, lui voleva far sapere al territorio della mia sottomissione e prendere la gestione dei parcheggi, della vigilanza, del movimento terra in modo da dispensare favori e allargare la schiera dei fedelissimi. Mi ha impressionato la disinvoltura che conteneva un messaggio: “Ci devi stare”. 

La mafia, a Roma, nel 2021. Si aspettava di diventare oggetto di un’estorsione?

Pensavo di esserne immune, pensavo che alcuni racconti fossero esagerati. Ora ho capito che la criminalità, in questi anni, si è consolidata e ha attecchito diventando un pezzo della città. Io non potevo tacere. Dopo aver incontrato questa gente hai un crollo e diventa la peggiore giornata della tua vita. Non è un film, è terribile.

Come hanno reagito i suoi colleghi?

Io penso che tutti paghino e lo deduco da quello che mi hanno detto. La maggior parte delle persone mi ha chiesto perché mi fossi infilata in questa storia, non solo imprenditori, ma anche professionisti. Ho la percezione che qualcuno preferisca non lavorare con me perché farlo a Ostia potrebbe essere pericoloso. Le voglio raccontare cosa è successo subito dopo gli arresti di Nasca e Papagni, quando ancora non si sapeva che fossi io la vittima. 

Cosa?

Alcuni imprenditori di Ostia, preferisco non fare i nomi, mi hanno incontrata e mi hanno detto: “Ma guarda quella cogliona che è andata a rompere le palle a Nasca che è una vita che stava lì senza dare fastidio a nessuno”. La cogliona ero io e ho capito che la mafia ci abita dentro. 

Ha parlato con il sindaco?

L’ho incontrato a febbraio scorso dopo gli arresti. È stato tra le pochissime persone che mi hanno sostenuta. Io avevo paura e mi dicevo: ora mi lasciano sola, andrà tutto all’aria e troveranno altri modi per farmi capire che opporsi è sbagliato. Lui mi ha garantito pieno sostegno. 

Altre manifestazioni di solidarietà?

Zero se non dalle persone comuni. 

Il progetto edilizio è iniziato?

Lo abbiamo proposto nel 2007, è un progetto a impatto zero. Io non mi sento una palazzinara, alcuni colleghi a Roma hanno costruito pezzi della città di cui vergognarsi che attirano illegalità e crimine. Proviamo a lavorare diversamente. 

Lo ha proposto nel 2007?

Sì, circa 15 anni fa, ma forse ci siamo. 

Forse.

Marketing criminale, la trappola del boss "Er Nasca" al sindaco Gualtieri: "Ripulisci Roma". Lorenzo D'Albergo, Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 23 Ottobre 2022. 

Per accreditarsi Roberto De Santis avvicinò l'esponente dem durante la campagna elettorale a Ostia e l'immagine del faccia a faccia è finita pure sui social dell'ex ministro fino a quando il caso è esploso con un'inchiesta della Procura

Un biglietto da visita da mostrare agli imprenditori. Il jolly da sfoderare davanti ai costruttori interessati a fare affari a Ostia. Così Roberto De Santis, il boss che tutti sul litorale chiamano "Nasca", ha usato il sindaco Roberto Gualtieri. Per accreditarsi negli ambienti economici più importanti della Capitale, il braccio destro del criminale, Paolo Papagni, raccontava dell'incontro del socio con l'allora candidato del Pd al Campidoglio. 

De Santis, Gualtieri: "Ignoravo chi fosse. Non permetto di accostare la mia figura alla malavita". Salvatore Giuffrida e Andrea Ossino su La Repubblica il 23 Ottobre 2022.

Nel 2013 il caso di Alemanno ripreso con Casamonica in una cena con le coop sociali

"Non consento a nessuno di accostare la mia figura a poteri opachi e criminali che combatto con impegno politico e civile da sempre ". L'ira del sindaco di Roma Roberto Gualtieri si manifesta immediatamente dopo la pubblicazione della foto su Repubblica che lo ritrae con il boss Roberto De Santis. 

"La mia foto durante la campagna elettorale con un pregiudicato successivamente arrestato e definito "capo della mala di Ostia" è un accostamento pretestuoso che vuole generare il sospetto che mi sia messo in posa con un boss - precisa il sindaco - Come riportato in un passaggio dell'articolo, io ero del tutto ignaro dell'identità del soggetto che, come tanti in campagna elettorale si fermava nei capannelli di cittadini ". E ancora Gualtieri: " Non c'era nessun palco da cui rivolgere domande ma un semplice volantinaggio sul lungomare insieme ai volontari del comitato, durante il quale, il pregiudicato si è fermato tra la folla in mezzo a un capannello di persone".

Nel 2013 un'altra fotografia di un sindaco aveva creato scalpore: quella di Gianni Alemanno immortalato in compagnia di Luciano Casamonica durante una cena organizzata dalle cooperative sociali che si occupano dell'inserimento di detenuti." Una foto senza dubbio imbarazzante" , la definiva la deputata del Pd Ileana Argentin, annunciando un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno, a quel tempo Angelino Alfano. " Sembra poco credibile che non si sia riconosciuto un pluripregiudicato esponente di un clan che a Roma certamente non è anonimo " ', diceva la donna riferendosi ai Casamonica.

"Si tratta di uno schiaffo in faccia, l'ennesimo, a tutti i cittadini onesti di questa città " , aveva commentato il deputato Pd, Marco Miccoli. Duro anche l'allora consigliere comunale del partito, Paolo Masini: " Fino a cinque anni fa i sindaci di Roma si facevano le foto con i Nobel per la pace. Oggi, con Gianni Alemanno, le foto ricordo sono con esponenti della malavita organizzata " . E ancora il collega Dario Nanni aveva detto definito l'immagine "inquietante " e " lascia interdetti " . Ma il tempo passa, i protagonisti della vita politica cambiano, i vertici delle consorterie criminali pure. E mutano perfino le reazioni. La foto del sindaco Pd diventa " indegna", l'accostamento " pretestuoso", l'operazione giornalistica "squallida". 

Certo, tra l'immagine di Gualtieri e quella di Alemanno c'è più di qualche differenza: Luciano Casamonica a quel tempo era incensurato, De Santis no. Ancora: Il sindaco Pd non è andato a una cena pubblica dov'era presente il malavitoso di turno che ha chiesto di mettersi in posa, lo ha incontrato durante un volantinaggio. Inoltre nel primo caso è stato Luciano Casamonica a diffondere la foto del suo faccione affiancato a quello dell'allora sindaco. Nel secondo è stato Gualtieri a pubblicare l'immagine che lo ritraeva, a sua insaputa, in compagnia del signor "Nasca". 

Salvatore Giuffrida e Clemente Pistilli per “la Repubblica – Roma” il 24 Ottobre 2022.

C'è imbarazzo nel Pd e in particolare in quello di Ostia. Quella foto del 29 agosto 2021, sul lungomare, in cui Roberto Gualtieri è stato immortalato mentre veniva avvicinato in campagna elettorale dal boss Roberto De Santis, detto Er Nasca, sta mandando in fibrillazione i dem. È un caso ed è esploso soltanto a margine di un'inchiesta antimafia.

La pezza che con una lettera ha cercato di mettere il consigliere Giovanni Zannola sembra però peggiore del buco e sembra testimoniare ancora una volta come, nonostante gli scandali spuntati fuori dall'indagine sul "Mondo di mezzo", il Partito democratico continui ad amministrare senza avere il polso di quel che accade sul territorio e soprattutto su un territorio così difficile come quello di Ostia.

Quel faccia a faccia tra Gualtieri, impegnato in un volantinaggio durante la campagna elettorale, e De Santis è apparso agli stessi inquirenti come una trappola tesa dal "Nasca" all'allora aspirante sindaco. «Pensa a pulire la città, è troppo tempo che è sporca» , disse il boss all'ex ministro, che in quel momento si trovava vicino a Zannola. E la sua foto vicino a Gualtieri e Zannola finì sugli stessi social del primo cittadino. 

Uno stratagemma di De Santis per accreditarsi, sempre secondo gli inquirenti, mostrando una vicinanza con l'esponente dem che non aveva. Quel che appare grave sul fronte del Partito democratico è però che nessuno dei dem sia riuscito a evitare quella trappola, impedendo lo scambio di battute tra il sindaco e il boss e addirittura di far finire quella foto tra quelle utilizzate per la propaganda elettorale. E qui si arriva a Zannola.

Il consigliere sostiene che conosceva il pregiudicato soltanto di nome. «Non avendolo mai visto di persona, non potevo sapere fosse lui» , specifica, rivendicando «vent' anni di impegno per Ostia» . Proprio la mancata conoscenza del boss sembra però il problema. Il Municipio X è stato travolto dall'inchiesta nota come "Mafia Capitale". L'allora presidente dem Andrea Tassone è stato condannato in via definitiva e quelle vicende gli sono costate anche il posto di lavoro in Acea Luca spa.

In quel periodo Zannola era consigliere municipale ed era considerato l'enfant prodige del partito, punto di riferimento per Ostia Antica, dove coordinava il circolo. Il Municipio venne commissariato per mafia e quel terremoto spalancò le porte del Campidoglio al Movimento 5 Stelle. Il tema della legalità da allora è stato sempre al centro del dibattito a Ostia e sembra dunque un problema che chi rappresenta il Pd in quel territorio non sappia riconoscere per strada i boss che lo popolano.

«All'epoca dei fatti - prova a giustificarsi il consigliere parlando di una condanna di De Santis - non emersero dalle numerose ricerche svolte sul web e dalle pubblicazioni di foto delle stesse, immagini tali da poter immagazzinare in memoria il volto del personaggio». Ma chi governa Roma non può salvarsi affermando che dei criminali che soffocano la capitale non trova tracce chiare facendo una ricerca su Google.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – Edizione Roma” il 22 ottobre 2022.

Una vita da monaco del crimine. Nessun lusso ostentato. Una bicicletta da pensionato per andare in giro a Ostia. Nella sua Ostia. Nessun cellulare da 16 anni per non essere intercettato. Nessun’auto per evitare che qualcuno piazzi una cimice. Eppure tutti lo temono. Criminali inclusi. 

Roberto De Santis, 63 anni, ribattezzato il Nasca, è il re della mala del litorale romano. Detronizzato da un'inchiesta del pm Mario Palazzi e dei carabinieri del nucleo investigativo di Ostia. È stato, comunque, il più longevo - arrestato per ultimo - rispetto agli altri "re" del X Municipio: Carmine Fasciani, Roberto Spada, i fratelli Triassi e Marco Esposito.

Il carcere l'ha visto poco. Finito a Regina Coeli e poi prosciolto per l'omicidio di Pietro Sante Corsello il 26 marzo 1991 in un regolamento di conti con la banda della Magliana. Condannato, invece, per aver gambizzato, il 20 settembre 2007, Vito Triassi, altro nome che conta della mala. E così De Santis si è mosso sempre con una certa libertà. Con una doppia veste, senza avere troppo i fari puntati. Eppure contando. 

Tanto da partecipare come "semplice" cittadino, passando inosservato, a un comizio del candidato sindaco Roberto Gualtieri, il 29 agosto 2021, salire sul palco, fare delle domande e infine incassare una foto postata sui profili social del sindaco. Un modo per il boss, all'insaputa di Gualtieri, per accreditarsi nella sua Ostia. 

Nasca, insomma, c'è ma non si vede. D'altro canto l'astuzia non gli manca, è «andato a scuola» da Francesco Messina Denaro. Il padre del boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, ha raccontato il suo braccio destro Riccardo Paolo Papagni alla costruttrice Barbara Mezzaroma l'anno scorso, mentre le spiegava che, per far affari nel lungomare, bisognava passare da Nasca. 

«Se non avesse fatto il delinquente poteva fare il ministro», ha sottolineato Papagni all'imprenditrice. Nasca, però, ha deciso di percorrere la strada del grande crimine. Quindi, dopo l'apprendistato nelle file della mafia siciliana, è passato a quella campana. La camorra. Quanto meno ad un'alleanza con la famiglia Senese a partire dal 2017 per controllare Ostia.

Nell'ordinanza firmata dal gip Andrea Fanelli, che ha sancito l'arresto di Nasca e Papagni per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, si ripercorre il curriculum criminale. Un'esibizione di potenza offerta con un certo garbo dallo stesso De Santis a Mezzaroma negli incontri avuti per convincerla a pagare per la sua protezione: mezzo milione di euro. Ovvero lo 0,5% di un maxi investimento da 100 milioni di euro per edificare un complesso immobiliare in via dei Quinqueremi. 

Un boss che guarda, con un certo sdegno, i suoi pari. Così si legge nell'ordinanza: « Nasca rimarca la differenza tra lui, i Fasciani e gli Spada che considera poca roba» perché il loro agire « criminale ha messo in pericolo l'equilibrio che dal 1980 De Santis costruisce a Ostia». Ma Nasca è uno che ci sa fare. Non solo nel mondo della mala, ma anche nella politica e tra gli apparati. Questo, almeno, sostiene Papagni sempre con l'imprenditrice. 

Spesso, forse, esagerando anche su alcune conoscenze: «ha appoggi nel mondo politico e legami con i servizi segreti». Il suo braccio destro, per renderlo presentabile a Mezzaroma, gli spiega che Nasca «era intervenuto - si legge nell'ordinanza - ad un comizio del candidato sindaco Gualtieri che si era tenuto ad Ostia nel corso del quale era salito sul palco per rivolgere alcune domande sul programma elettorale al futuro sindaco». 

Tre mesi dopo, dismessi i panni del cittadino modello, De Santis si vantava di aver preso a ceffoni Stefano De Dominicis, alias il Bambino. Un criminale che gli aveva fatto uno sgarro 5 anni prima. Il boss di Ostia era sempre lui. In bicicletta Roberto De Santis in bici sul lungomare di Ostia mentre parla con Roberto Gualtieri nell'agosto 2021 durante la campagna elettorale per il Campidoglio.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – Edizione Roma” il 22 ottobre 2022.

«Posso dì che so leggenda». Affabile. A tratti minaccioso ma mai prepotente. «Io sono quello che ha mandato via la mafia siciliana da Ostia, scrivono sui libri». Scaltro. «Non uso il telefono da 16 anni», per evitare di essere intercettato. Ecco come parla uno dei più potenti criminali di Roma, Roberto De Santis, alias Nasca, ad un'esponente delle più ricche famiglie di costruttori romani, Barbara Mezzaroma.  

Lo fa al parco del Laghetto dell'Eur il 23 ottobre 2021. Nasca è convinto di non essere intercettato. Quindi parla a ruota libera. Invece, con un microfono direzionale, i carabinieri del nucleo investigativo di Ostia ascoltano l'intera conversazione. Ecco ciò che dice a Mezzaroma: «il territorio di Ostia è un territorio molto particolare, molto complesso, sotto certi aspetti però molto semplice. Dipende dal punto di vista, con quali occhi si guardano le cose», spiega De Santis. 

«Io - prosegue - sono una persona molto ascoltata. Oggi possiamo definirla ironicamente una leggenda metropolitana. Usiamo questo termine. Tenga presente che non uso il telefonino da sedici anni, vivo in bicicletta. Vivo con le mie paranoie ma vivo talmente bene. Vivo in mezzo a tante persone che voglio bene, che accudisco di cui mi prendo cura, che soffrono. E quindi mi debbo adoperare quando trovo l'interlocutore giusto. Mi adopero per cercare di armonizzare le varie anime, in modo che le cose vadano» Senza troppi giri di parole il boss arriva al cuore della vicenda. 

 I soldi per la protezione: «Chiedo scusa, il volume d'affari, il ricarico parliamo di ricavi dell'operazione che ammontano? Allora guardi la parcella, stiamo sullo 0,5% sui ricavi. Quindi sui cinquecento mila euro (operazione da 100milioni di euro, ndr). Noi la mettiamo nella condizione di serenità, paga per questo. Le posso dare una certezza del 95% di serenità. Se lei è d'accordo ovviamente! 

Come lei mette il primo cartello (per iniziare i lavori a Ostia, ndr) il primo pezzo di legno che ficca per terra, significa "avemo iniziato" mi manda un acconto di 100 (mila euro, ndr) e poi ogni anno insomma» Nasca poi presenta i gradi di ufficiale del crimine a Mezzaroma. Per chi indaga non bluffa. «Io sono quello che ha mandato via la mafia siciliana da Ostia scrivono sui libri. Guardi io sono quello che detta gli equilibri. E sì, c'era la grande famiglia dei Cuntrera (legata a Cosa Nostra, ndr) e li ho mandati via. Così dicono le leggende».  

De Santis racconta come li ha cacciati. Ha gambizzato il 20 settembre 2007 Vito Triassi, punto di riferimento dei siciliani nel lungomare romano. «Gli ho sparato in una piazza pubblica davanti a duecento. gli ho sparato e si è finita la storia» . Con " orgoglio" rivendica di non aver mai avuto rapporti con le " guardie".  

«È fortunata che ha trovato una persona sana che non ha mai fatto compromessi con l'altra sponda - dice a Mezzaroma - l'altra sponda mi rispetta (le forze dell'ordine, ndr), parlo di tutti i colori. Sono io che devo essere più bravo a fare il mio! Loro fanno il loro, io li rispetto. In questo momento faccio anche comodo perché sono un ammortizzatore sociale». 

Infine fa capire alla costruttrice di avere alle spalle un esercito criminale: «A me non interessano i beni, non mi interessa niente le persone care vanno assistite (chi è in carcere, ndr), chi è più in difficoltà chi è meno fortunato. Uso questo termine, lei comprende cosa possa significare! Ho tante persone che mi vogliono bene in questo momento e posso darle questo punto di riferimento! Ho molte persone, sennò non potevo stare qui e darle certe garanzie!» 

Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 20 ottobre 2022.

Se la Capitale rappresenta un unicum in tema di radicamento delle cosche mafiose, fuori dal grande raccordo anulare inizia un'altra storia criminale, molto più simile al resto del Paese. A spartirsi il Lazio sono principalmente la ndrangheta, infiltrata nelle province nord di Viterbo e Rieti, e la camorra, che si è stanziata nelle province sud di Latina e Frosinone, anche per ragioni di vicinanza geografica. 

VITERBO E RIETI Come emerge del VI e VII Rapporto Mafie nel Lazio, elaborato dall'Osservatorio per la Sicurezza e la legalità della Regione, a Viterbo operano organizzazioni mafiose autoctone e riferibili alla ndrangheta. Un gruppo criminale, promosso dal calabrese Giuseppe Trovato, attuava «pratiche estorsive nei confronti dei negozi di compro oro, dei locali notturni e nel settore del recupero crediti, avvalendosi della ferocia e del peso militare degli albanesi».

La ndrangheta ha esteso i suoi tentacoli anche nella provincia di Rieti. In particolare a Capena, dove, secondo quanto emerso dalle indagini, il clan ha fatto numerosi investimenti nel settore del commercio alimentare, nonché nel settore immobiliare.

LATINA E FROSINONE «Nel sud del Lazio le camorre hanno costituito e rafforzato, negli anni, numerose basi operative, consolidando un reticolo di relazioni e rapporti con parti dell'imprenditoria e della classe dirigente pontina», si legge nel Rapporto. Il territorio che si estende da Formia a Minturno, in provincia di Latina, è da anni interessato da attentati e intimidazioni. Il Mercato ortofrutticolo di Fondi rappresenta «l'illustrazione plastica del condizionamento economico con metodo mafioso». Il comune di Fondi è anche «uno snodo fondamentale del traffico di droga», proveniente dal Sud America (via Spagna). 

«Nella provincia di Frosinone appare prevalente la presenza di gruppi di origine camorristica», si legge nella relazione della Dia al Parlamento del primo semestre del 2021. In particolare, il clan dei casalesi tende sempre di più a «ricercare la collaborazione dei cosiddetti colletti bianchi, ossia degli imprenditori che hanno permesso all'organizzazione di riciclare il denaro illecito proveniente dalle estorsioni, dal traffico dei rifiuti e soprattutto dalle gare d'appalto».

ANZIO E NETTUNO Il Rapporto Mafie nel Lazio definisce Anzio e Nettuno un «laboratorio criminale». Proprio ieri la Procura di Roma ha chiuso le indagini sulle infiltrazioni della ndrangheta in questi due comuni del litorale: 66 persone rischiano di finire a processo. Ai vertici di due distinti distaccamenti delle ndrine di Santa Cristina d'Aspromonte (in provincia di Reggio Calabria) e di Guardavalle (in provincia di Catanzaro) c'erano Giacomo Madaffari, Bruno Gallace e Davide Perronace. I clan puntavano a infiltrarsi nelle amministrazioni locali attraverso il controllo del settore ittico e lo smaltimento dei rifiuti. Avevano anche in progetto di acquistare e importare da Panama circa 500 chili di cocaina nascosti a bordo di un veliero, in origine usato per regate transoceaniche.

I CASTELLI E GLI AMICI DI DIABLO Il territorio dei Castelli Romani, e in particolare la zona di Velletri, «si è caratterizzato negli ultimi tempi per una tentacolare espansione di associazioni criminali che hanno rivelato i connotati tipici di stampo mafioso». È partita da Velletri la contesa tra gli albanesi Elvis Demce ed Ermal Arapaj, che insieme ad Arben Zogu, Dorian Petoku e Daliu Lozlim sono «narcotrafficanti di spicco inseriti da un decennio nel tessuto criminale della Capitale» e «negli anni sono cresciuti accanto a Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, condividendo anche il tifo per la squadra della Lazio».

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 19 ottobre 2022.

Sono centinaia le piazze di spaccio operative nella Capitale 24 ore su 24. La vendita della droga al dettaglio viene considerata dai pusher e dalle vedette un vero e proprio lavoro, tant' è che lo chiamano il cantiere. 

Le numerose indagini delle forze dell'ordine e le sentenze dei giudici hanno portato a individuare un «modello imprenditoriale-criminale» con caratteristiche omogenee nelle piazze di spaccio romane, che prevede una rigida suddivisione dei compiti, l'impiego sempre più frequente di minorenni, l'utilizzo di mezzi tecnologici per eludere i controlli e un diffuso welfare, che garantisce stipendi e assistenza legale ai propri dipendenti in caso di arresto. È quanto emerge nel VI e VII Rapporto Mafie nel Lazio, elaborato dalla Regione, relativo al biennio 2020-2021 e al primo semestre del 2022.

LE 13 ZONE CRITICHE La densità di queste piazze è maggiore in 13 quartieri: Tor Bella Monaca, San Basilio, Montespaccato, Romanina, Acilia, Primavalle, Torre Angela, Tufello, Giardinetti-Borghesiana, Torre Nova, Nuova Ostia, Quartaccio e Bastogi. «Si tratta di piazze di spaccio chiuse, fondate anche sulla fama criminale dei gruppi che gestiscono il traffico di droga e controllano il territorio - si legge nel Rapporto - Nel contempo in alcune zone della Capitale risultano operative piazze di spaccio minori, come ad esempio Laurentina, e altre aperte, ovvero, senza sentinelle, ostacoli fissi e sistemi di sorveglianza più o meno sofisticati: è il caso del Pigneto e di San Lorenzo». Chi gestisce tali piazze, dai clan mafiosi tradizionali a quelli di origine albanese, «ha un'organizzazione quasi aziendale: deve saper tessere alleanze, se necessario anche con matrimoni (oppure convivenze) combinati con altre famiglie criminali. E deve tenere in piedi un welfare criminale parallelo per gli associati».

SAN BASILIO SU GOOGLE Il quartiere di San Basilio riveste un ruolo fondamentale nel sistema di spaccio capitolino. «Incredibile è che il giovane fermato abbia dichiarato di aver individuato il luogo dove poter acquistare stupefacente facendo una ricerca sul motore Google e inserendo la parola chiave piazza di spaccio San Basilio», scrive il gip di Roma Anna Maria Fattori nell'ordinanza cautelare del 5 maggio 2020 a carico del capo banda Emiliano Valtieri (detto Max) e di altri sodali. Quest' ultimo - come emerso dall'indagine - si occupava anche dell'arruolamento e dell'addestramento dei pusher, spiegando loro l'importanza dei bracieri per far sparire la droga all'arrivo delle guardie: «C'è poco da scappà, non scappà. All'ultimo, quando ti stanno a parà (fermare, ndr), butta tutto». 

«L'utilizzo dei minorenni nel circuito dello spaccio produce alcuni svantaggi operativi - si legge nel Rapporto Mafie nel Lazio - fra gli altri: la difficoltà di alzarsi presto la mattina dopo aver fatto il turno, per riprendere la vendita alle 10». 

Lo spregiudicato utilizzo di ragazzini-pusher emerge nell'indagine Torri gemelle 3. «Ho schiaffato tipo 20 minorenni - spiega Christian Careddu - (...) il tempo che si so fatti mangiare, che li hanno bevuti, poi so usciti, si so fatti maggiorenni, si so rimessi sotto ed è partita l'associazione».

SISTEMI DI ALLARME 2.0 Uno dei gruppi di spaccio della periferia est capitolina, finiti sotto inchiesta, utilizzava un ingegnoso sistema di allarme. Le sentinelle segnalavano l'arrivo delle pattuglie attraverso un braccialetto che generava una vibrazione al polso degli spacciatori, per evitare i classici fischi. Nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Roma Alessandra Boffi il 28 aprile del 2020 a carico del capo-famiglia Claudio Cesarini (detto Cacetto) e di altri suoi sodali, c'è un'intercettazione esemplificativa: «Lì so proprio belli da vedè. Cioè tu arrivi, te trovi proprio i personaggi... quello faceva: che ca..o te fischi? Devi fa come ha fatto Giggi: gli compri i braccialetti che fanno la scossa: buum! Invece di urla... e senti la vibrazione». (...)

Estratto dell'articolo A. Mar. per “il Messaggero” il 19 ottobre 2022. 

Raggiungeranno la madre in carcere, i figli di donna Imma la reggente della piazza di via Andersen, al secolo Ada Salvucci. […]. I ricorsi in carta bollata degli avvocati di famiglia non sono bastati a tenere il figlio Ivan Spina di 28 anni e la figlia Melissa Vastante, 25enne, fuori dai guai e a piede libero.

Anche loro, insieme con altri quattro sodali, da ieri sono dietro le sbarre su ordine di carcerazione emesso dalla Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello, tutti con condanne tra i 6 e i 15 anni. Il dominio dei Vastante al Quartaccio mette radici con il capostipite Massimo. […] Rapinatore doc, Vastante aveva scelto come compagna di vita Ada e ne aveva fatto la sua donna Imma. Era lei che si occupava di tenere le fila dello spaccio portando avanti gli affari, anche per mantenere il suo uomo durante la latitanza. Ma soprattutto dopo che il compagno morì in carcere, assunse su di sé ancora maggiore potere e prestigio.

Il gip Gaspare Sturzo donna Imma «con in ruolo di capo e organizzatore dell'associazione» era il riferimento «per la strutturazione dei turni dei venditori e delle vedette» e si occupava della «risoluzione dei problemi che insorgevano durante i turni e della concessione di deroghe nei turni stessi». […] 

L'ordinanza che mise fine al suo regno è del febbraio 2019. Gli agenti di Primavalle misero a nudo il sistema architettato dalla donna per smistare nella piazza aperta di via Andersen cocaina e crack nell'arco delle 24 ore arrestando venti persone. Per eludere la possibilità di essere intercettati, non fidandosi nemmeno delle chat, i sodali parlavano tra di loro con i walkie talkie. […] La droga veniva nascosta in casa, dentro botole segrete mentre i proventi venivano reinvestiti in orologi di lusso. […] 

Elena Panarella per “il Messaggero” il 27 febbraio 2019.

Turnazione dal pomeriggio a notte inoltrata dei pusher, strade presidiate con vedette e droga nascosta in anfratti e mai addosso o nelle botole segrete a casa. E poi quelle parole in codice che davano il via alle danze degli appuntamenti dello spaccio sempre in luoghi diversi e sempre sicuri. 

Ma ieri il castello delle certezze si è frantumato in mille pezzi. La polizia ha fatto scattare un blitz (con tanto di elicottero e cinofili) tra i palazzoni di via Andersen, al Quartaccio, e arrestato 20 persone. Tutte (guarda caso) residenti nella stessa strada. Le indagini, svolte tra il 2017 e il 2018 anche attraverso intercettazioni telefoniche, hanno fatto emergere uno spaccato con numerose analogie con i quartieri napoletani infettati dalle mafie rappresentati nella serie tv Gomorra. Atteggiamenti e gestione del malaffare sulla scia della fiction.

In manette è finita anche Ada Salvucci, compagna di Massimiliano Vastante, detto Sanpipponio o semplicemente pipponio, morto in carcere a Regina Coeli nel 2016.

Vastante, come scrivono gli investigatori, era «conosciuto in tutto il Lazio e nelle regioni limitrofe per la sua elevatissima caratura criminale».

Con una passione per il cinema d' azione: le sue rocambolesche fughe dalla polizia, fin da giovane, sembrano, infatti, scene di un film. 

LE INDAGINI Secondo gli investigatori, Ada Salvucci ha continuato a gestire il traffico di droga nel quartiere insieme ai figli dopo la morte di Vastante.

Le indagini hanno rilevato numerose analogie tra la sua personalità e quella della figura di donna Imma, moglie del boss di camorra Pietro Savastano nella serie Gomorra. Ed è proprio per questo motivo che l' operazione è stata chiamata Donna Imma. Solo che in questo caso non ci sono Ciro Di Marzio e Genny Savastano, Sangue blu o i guaglioni do vicolo. Non è fiction, ma realtà (che troppo spesso supera la fantasia). Le indagini hanno dimostrato ampiamente la capacità del gruppo criminale di produrre reddito attraverso il narcotraffico. Nei mesi si sono susseguiti numerosi arresti di esponenti del clan con relativi sequestri di migliaia di confezioni di coca, crack, hashish e pistole. Il fatturato annuo dell' organizzazione è difficilmente quantificabile ma si parla di milioni di euro. Ieri nel corso delle perquisizioni a casa della Salvucci, sono stati rinvenuti e sequestrati orologi di valore tra cui tre Rolex, un Cartier e un Patek Philippe, oltre a 12mila euro in contanti e un disturbatore di frequenza (Jammer).

L' operazione è stata condotta dagli investigatori del commissariato Primavalle, con l' aiuto degli agenti del Reparto prevenzione crimine Lazio. Le ordinanze sono state richieste dalla Procura-Direzione Distrettuale Antimafia e concesse dal gip. Tutto era cominciato nel 2015 durante le ricerche di Vastante, sottoposto a diverse misure restrittive, che dal 6 agosto di quell' anno era diventato latitante dopo essere fuggito dal Policlinico Gemelli. Gli investigatori cominciarono allora gli appostamenti al Quartaccio dove il latitante risiedeva e i pedinamenti dei suoi familiari. In base alle indagini gli investigatori ipotizzarono che la compagna del latitante, Ada Salvucci, i figli Ivan Spina e Alessandro Vastante, e altre due persone Mattia Carletti e Jacopo Vannicola, avevano intrapreso una attività di spaccio dall' interno dello stabile dove abitavano per mantenere se stessi e la latitanza di Vastante.

Una delle perquisizioni nell' abitazione della Salvucci ha poi permesso di rilevare i dati di alcuni apparati telefonici, ritenuti dagli investigatori i citofoni impiegati dalla donna per mantenere i contatti con il marito. 

L' attività tecnica svolta sugli Imei dei telefoni ha consentito di individuare il latitante, arrestato il 16 aprile 2016, poco prima che lasciasse l' Italia per andare in Spagna. L' uomo è deceduto poi il 2 settembre dello stesso anno nel carcere di Regina Coeli. La cattura e la successiva morte di Vastante non hanno però fermato l' attività di spaccio gestita dalla compagna e dei suoi sodali che anzi si era ampliata e affinata.

Attesa per la pronuncia della Cassazione. Buzzi e Carminati mafiosi? Una bufala, vanno lasciati liberi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Settembre 2022 

Domani, 29 settembre. La cassazione si riunirà e dalla sua decisione si saprà se due persone potranno restare libere o dovranno varcare di nuovo la soglia di un carcere. Sarà un risveglio problematico e pieno di aspettative quello di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, i due che furono protagonisti di quella “Mafia Capitale”, l’invenzione che infangò la capitale d’Italia nel mondo e che in realtà non esisteva.

Ma quella visione albergava nella mente di un gruppo di magistrati coraggiosi, il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto Michele Prestipino, i pm Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. Nomi di prestigio, le cui carriere non saranno mai scalfite da quel flop clamoroso, dopo che avevano scambiato per mafia le attività di un gruppo di affaristi che si davano da fare nel sistema degli appalti all’interno della Regione Lazio. Dopo una vicenda giudiziaria piena di colpi di scena durata ormai otto anni, domani mattina i giudici di legittimità saranno chiamati per la seconda volta a un eventuale ricalcolo degli anni di pena inflitti ai due principali imputati, condannati rispettivamente a 12 anni e dieci mesi (Buzzi) e 10 anni (Carminati) di reclusione.

Il pasticcio tecnico-giuridico nasce proprio in quell’incriminazione per associazione mafiosa che nel 2014 fu un vero terremoto politico con una eco mondiale. All’opinione pubblica non interessava conoscere come fosse formulato un articolo del codice penale, il 416 bis, che oltre a tutto è un unicum nel mondo. Quello che comporta, perché si possa stabilire se un’associazione a delinquere è di tipo mafioso, il fatto che i suoi protagonisti si siano avvalsi della forza di intimidazione e dell’assoggettamento delle loro vittime, con una capacità di presenza effettiva e concreta su tutto il territorio. Nella vulgata di tutto il mondo, tra la gente normale, se si dice che a Roma c’è la mafia, si immaginano i corleonesi armati, i cittadini impauriti e i cadaveri sul selciato. Se in più ci si mettono giornalisti e intellettuali fiancheggiatori dei pm a sfornare libri e fiction televisive, chi mai poi andrà a vedere la differenza tra la divulgazione e la sentenza?

Un punto fermo però è stato messo, il 22 ottobre del 2019, quando la sesta sezione penale della corte di cassazione ha stabilito che “Mafia Capitale” non era mafia. Sconfessata la tesi del procuratore Pignatone, che in seguito andrà a presiedere il tribunale vaticano, continuando a diffondere sui quotidiani le proprie pillole di saggezza giuridica. E il suo aggiunto Prestipino che resterà al suo posto, dopo che il Csm tenterà invano di collocarlo nel ruolo che era stato del suo capo, nomina cassata per via amministrativa. Nessuna macchia scalfirà neppure le carriere dei tre pm, appartenenti alla corrente di Magistratura democratica, Tescaroli oggi aggiunto a Firenze, Ielo nello stesso ruolo a Roma, Cascini al Csm.

Chissà se qualcuno di loro avrà mai pensato a quegli imputati, colpevoli o innocenti che fossero dei reati di corruzione o di estorsione o anche di associazione per delinquere, ma non mafiosi, che avevano trascorso oltre cinque anni nelle carceri speciali, trattati come boss di Corleone. Sarebbe sufficiente questa considerazione, a ritenere che forse il debito con la società è stato pagato a sufficienza. Salvatore Buzzi su tutta la vicenda ha già scritto un libro (Se questa è mafia, con Stefano Liburdi) molto voluminoso perché ricco di carte e documenti. Struggente il racconto personale del momento dell’arresto, suo e della sua compagna, con la loro bambina che li guardava, loro e quei signori in divisa che erano entrati in casa all’alba del 2 dicembre del 2014, dalla cima delle scale. Da quel momento, per 1.784 giorni ha vissuto in regime di massima sicurezza. Giusto, per un mafioso, ritengono i magistrati.

La sentenza di merito ormai non è più in discussione, da quel 22 ottobre di tre anni fa. Dopo che in primo grado il tribunale aveva stabilito che la mafia non c’era ma, quasi a farsi perdonare la decisione che andava controtendenza rispetto all’accusa e agli organi di informazione, aveva erogato i massimi della pena per ogni reato. E poi l’appello che aveva ridimensionato gli anni di carcere ma aveva stabilito che invece la mafia c’era. E infine la cassazione che aveva messo il punto fermo e ingiunto a un’altra corte d’appello di ricalcolare gli anni di carcere. Ed è così che per esempio Salvatore Buzzi si è ritrovato con un fardello di dodici anni e dieci mesi, solo in parte scontati, in seguito a una singolare “reformatio in pejus” della pena non motivata, così come senza spiegazione è rimasta una sua richiesta di patteggiamento.

Ma, se questi calcoli sono l’oggetto della seduta di domani in cassazione, molti dubbi restano su alcuni aspetti politici delle sentenze, con tribunali che non hanno voluto vedere una parte delle raccomandazioni e della corruzione nel mondo degli appalti nella Regione Lazio che lo stesso Buzzi ha confessato e illustrato nel dettaglio, non creduto. È questo l’argomento del nuovo libro, che uscirà tra un mese circa, con un’intervista dello scrittore e regista Umberto Baccolo. Si parlerà anche di un ex Presidente di Regione, eletto al Parlamento tre giorni fa. Con qualche piccolo scoop. Come passerai la giornata di attesa, Salvatore? Con la mia famiglia. Ma intanto, per scrupolo, ho chiuso il mio pub. Ma spero di riaprirlo. Te lo auguriamo, la tua pena l’hai già scontata.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Confermate le condanne definitive per Buzzi e Carminati che ritornano in carcere.  Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Settembre 2022 

Con la sentenza della Suprema Corte sono state confermate così le condanne decise nell'Appello bis nel marzo 2021 accogliendo le richieste della procura generale della Cassazione.

I giudici della Corte di Cassazione hanno respinto i ricorsi delle difese di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati confermando dunque le condanne emesse nel corso del processo di Appello bis del processo “Mondo di Mezzo” condannati rispettivamente a 12 anni e 10 mesi per Buzzi e 10 anni per l’ex Nar Carminati. Il sostituto procuratore generale Lidia Giorgio ha sottolineato nel corso dell’udienza, come già riportato nella requisitoria scritta, il ”curriculum criminale’‘, la ”gravità della vicenda associativa accertata (‘inquinando persistentemente e pesantemente, con metodi corruttivi persuasivi, le scelte politiche e l’agire pubblico dell’ente locale’, definito una ‘mucca da mungere’) e il ”ruolo apicale” ricoperto da Carminati. 

Per quanto riguarda invece il ricorso presentato dalla difesa di Buzzi, il sostituto procuratore generale ha evidenziato il ”ruolo apicale svolto’‘ dall’ex ras delle cooperative ”unitamente al Carminati‘‘ oltre al ”numero e alla gravità delle condotte accertate (…) al pesante e grave inquinamento della cosa pubblica, nonché -tra gli indici rivelatori della peculiare modalità dell’attività delittuosa e della connessa allarmante gravità- all’assoluto disinteresse di Buzzi per i controlli pubblici, al completo ribaltamento della logica ispiratrice del mondo delle cooperative, oltre che all’appoggio di concorrenti ex art. 110 c.p. e di altro gruppo associativo caratterizzato da strategie criminali violente ed estorsive, ovvero l’associazione di corso Francia, per il recupero dei crediti”. 

Con la sentenza degli ermellini giudicanti della Suprema Corte sono state confermate così le condanne decise nell’Appello bis nel marzo 2021 accogliendo le richieste della procura generale della Cassazione. Al processo si era arrivati dopo che la Suprema Corte il 22 ottobre del 2019 aveva fatto cadere per tutti gli imputati il 416bis, l’accusa di associazione mafiosa.

Si conclude così il processo a quasi otto anni di distanza dall’operazione “Mondo di Mezzo” coordinata dalla Procura di Roma, che il 2 dicembre 2014 e poi il 4 giugno 2015 ha portato all’arresto di 37 e 44 persone. All’Appello bis si era arrivati dopo che la Suprema Corte nel 2019 aveva fatto cadere per tutti gli imputati il 416bis, l’accusa di associazione mafiosa. Per Buzzi e Carminati dovrebbero ora riaprirsi le porte del carcere. 

Secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa, Massimo Carminati, presente in Cassazione ad assistere all’udienza, potrebbe usufruire delle misure alternative. Per Salvatore Buzzi invece potrebbero riaprirsi le porte del carcere, per la parte residua di pena da scontare dopo la lunga carcerazione al 41bis. 

Redazione CdG 1947

Mondo di Mezzo: in Cassazione condanne confermate per Buzzi (arrestato nella notte) e Carminati. Fulvio Fiano e Redazione Online su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.

La suprema corte mette la parola fine al processo con l’ultimo riconteggio della pena per i due capi dell’associazione a delinquere: 12 anni e 10 mesi al ras delle coop, che è già tornato in carcere, e 10 anni all’ex Nar. 

Condanne definitive per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati . Finisce così il processo Mondo di Mezzo (inizialmente noto come Mafia Capitale). Dopo nove ore di camera di consiglio, i giudici della Corte di Cassazione hanno respinto i ricorsi delle difese e confermato le condanne stabilite nell`Appello bis, a 12 anni e 10 mesi per Buzzi ed a 10 anni per Carminati. Buzzi è stato poi arrestato nella notte a Lamezia Terme ed è detenuto a Catanzaro: deve scontare 7 anni e 3 mesi di pena residua. Carminati, che era presente in aula, potrebbe andare ai servizi sociali. Si tratta dell’ultimo capitolo della infinita storia processale e dei suoi tantissimi rivoli dovuti anche all’alto numero di imputati, ben 46 (erano oltre 100 gli indagati inizialmente, dei quali 80 raggiunti da misura cautelare), anche se — come vedremo — ci sarà una ulteriore piccola appendice. Era stata la stessa Cassazione a disporre un processo di appello bis per il solo riconteggio della pena dopo l’esclusione della aggravante mafiosa e il riconoscimento di due separate associazioni a delinquere di tipo «comune», finalizzate alla corruzione (quella di Buzzi) e alle estorsioni e altri reati di strada (quella di Carminati). Nessuna correlazione diretta tra le due, dunque, nessuna pressione criminale sui politici capitolini, solo tangenti e accordi illeciti per favorire gli interessi delle coop di Buzzi. Nell’appello bis, conclusosi il 9 marzo 2021, la pena per Carminati era stata così diminuita a 10 anni di reclusione e per Buzzi a 12 anni e 10 mesi. 

Nella sua requisitoria depositata mercoledì la procura generale della Cassazione aveva chiesto di dichiarare inammissibili i ricorsi di Carminati e Buzzi, e aveva fatto invece aperture sulle pene accessorie e la libertà vigilata avanzate dalle difese degli altri sei imputati che non hanno fatto ricorso sulle pene principali avendole concordate: «i fatti riferiti a Carminati permangono gravi». Per quanto riguarda invece il ricorso presentato dalla difesa di Buzzi, il sostituto procuratore generale, Lidia Giorgio, aveva evidenziato il «ruolo apicale svolto» dall’ex ras delle cooperative «unitamente al Carminati» oltre al «numero e alla gravità delle condotte accertate (…) al pesante e grave inquinamento della cosa pubblica, nonché all’assoluto disinteresse di Buzzi per i controlli pubblici, al completo ribaltamento della logica ispiratrice del mondo delle cooperative». Nel primo processo di appello, nel settembre del 2018, Carminati era stato condannato a 14 anni e mezzo e a Salvatore Buzzi erano stati inflitti 18 anni e 4 mesi. Nel 2017, in primo grado (41 colpevoli, 250 anni di pena totale inflitti) Buzzi aveva ricevuto 19 anni, contro i 26 anni e 3 mesi richiesti, e Carminati 20, contro i 28 richiesti.

Gli altri imputati arrivati a questo passaggio in Cassazione sono Claudio Caldarelli (pena di 4 anni e 5 mesi) che chiedeva di ridurre a cinque anni l’interdizione dai pubblici uffici inflittagli invece in durata perpetua, Paolo Di Ninno (3 anni, 8 mesi e 10 giorni) , Alessandra Garrone (moglie di Buzzi, pena di 2 anni, 9 mesi e 10 giorni), Carlo Pucci (pena di 4 anni) e Fabrizio Testa (pena di 5 anni e 6 mesi). Infine, l’ex amministratore delegato di Ama, Franco Panzironi (pena di 3 anni e 6 mesi). Gli ermellini hanno ordinato l’appello ter accogliendo il ricorso della difesa del solo imputato Franco Panzironi, respinti gli altri ricorsi dei sette imputati. Accolta solo la richiesta di eliminare la misura di un anno di vigilanza per Pucci, Testa, Garrone e Caldarelli.

Mondo di mezzo, la Cassazione conferma la condanna. Ma Carminati resta libero, la mia vita invece è cambiata per sempre. Si conclude definitivamente il processo al sistema criminale della Capitale scoperchiato con l’inchiesta de L’Espresso I quattro re di Roma. Salvatore Buzzi finisce in carcere mentre il capo fascista del clan, dopo dieci anni di attacchi e intimidazioni, si avvia verso i servizi sociali. Lirio Abbate su La Repubblica il 30 settembre 2022.

Dopo più di dieci anni da quando tutto è iniziato con “I quattro re di Roma” su L’Espresso è arrivato definitivamente un risultato di giustizia dalla Cassazione. Gli ermellini hanno confermato condanne per il processo al “mondo di mezzo” che a Roma non si erano mai viste attorno a fatti di corruzione. Una storia criminale, violenta, che purtroppo si è scagliata contro la mia vita, modificandola per sempre. Ancora oggi ne pago sulla mia pelle le conseguenze per aver fatto il mio lavoro. 

Da una parte il mondo criminale del fascista Massimo Carminati e dall’altro quello imprenditoriale e istituzionale costituito da una schiera di uomini d’affari che sfruttavano l’opportunità di ottenere appalti sicuri, senza doversi confrontare con la concorrenza. Fronte questo in cui si privilegiava lo strumento della corruzione rispetto a quello dell’intimidazione, che rimaneva però sullo sfondo come extrema ratio.

L’elemento di raccordo tra i due fronti era costituito dall’alleanza trasversale tra Massimo Carminati, proveniente dalle file dell’estrema destra, e Salvatore Buzzi, proveniente dall’estremo opposto. Quest’ultimo a capo di un importante gruppo di cooperative con oltre milletrecento soci. Di questi Carminati era socio occulto, come lui stesso ha dichiarato in aula durate il processo. 

Le cooperative, le conoscenze, l’esperienza e la “faccia pulita” di Buzzi, sommate al prestigio criminale di Carminati e ai suoi storici legami con esponenti dell’estrema destra romana divenuti negli anni personaggi politici o amministratori pubblici, consentivano effetti altrimenti non raggiungibili, tant’è che il fatturato del gruppo era riuscito a lievitare incredibilmente nell’arco di tre anni.

Il risultato più preoccupante era però il “mondo di mezzo”. Buzzi, formalmente legittimato, per la sua attività, a confrontarsi con pubblici funzionari ed esponenti politici, finiva per essere il tramite attraverso cui il “sovramondo”, costituito da colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il “sottomondo” di Carminati, costituito da batterie di rapinatori, da trafficanti di droga e di armi, riuscivano ad incontrarsi nel “mondo di mezzo”. Così lo definiva Carminati, per sintetizzare il particolare ambito in cui agiva il sodalizio, cioè un’area di confine in cui si componevano gli interessi illeciti dei due mondi solo apparentemente opposti e distanti: «è la teoria del mondo di mezzo compà, ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo (...) ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici “come è possibile..?” (...) il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra, le persone di un certo tipo, di qualunque cosa, si incontrano tutti là: (...) nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno, e tutto si mischia».

È proprio in questo “mondo di mezzo” che operavano parti politiche di ogni schieramento perché «la politica è una cosa, gli affari so’ affari!» ed è qui che ottenevano l’elargizione di somme di denaro.

L’accoppiata Carminati-Buzzi, favorita dalla desolante permeabilità del panorama politico amministrativo, aveva pertanto consentito di veicolare “la forza di intimidazione dell’associazione (..) all’interno dei meccanismi di funzionamento propri del mondo imprenditoriale e della pubblica amministrazione, alterando, da un lato, i principi di legalità, imparzialità e trasparenza nell’azione amministrativa e, dall’altro lato, quelli della libertà di iniziativa economica e di concorrenza».

E così fra corruzione, intimidazione e violenza, i testi principali del processo hanno avuto davanti ai giudici in tribunali dei vuoti di memoria, seguiti dai non ricordo. Il teste principale ha temuto di essere ucciso per le accuse che ha rivolto a Massimo Carminati perché ha detto che nessuno lo proteggeva. E per questo ha fatto marcia indietro. È Roberto Grilli, un super testimone, lo skipper romano che ha contribuito a scoperchiare i retroscena del clan di Carminati, che ha parlato ai pm delle azioni criminali del Cecato che insieme al suo braccio destro, Riccardo Brugia, anche lui processato, hanno sempre avuto «a portata di mano» pistole, mitragliatori e fucili. Che gli investigatori non hanno però trovato. 

Oggi, nonostante la conferma della pena definitiva a dieci anni di carcere, Carminati, condannato con l'aggravante di essere dichiarato "delinquente abituale", a dispetto di Buzzi che è stato arrestato, non dovrebbe rientrare in carcere in quanto gli rimarrebbero da scontare meno di cinque anni di reclusione e potrebbe usufruire dell'affidamento ai servizi sociali da parte del Tribunale di Roma. Libero. Come da copione di un film.

Buzzi e Carminati, condanne definitive in Cassazione. Dopo la condanna definitiva in Cassazione, Salvatore Buzzi è stato arrestato a Lamezia Terme. Per lui condanna definitiva a 12 anni e 10 mesi di reclusione. Dieci anni per Massimo Carminati. Valentina Dardari il 30 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Condanne definitive in Cassazione per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati: il primo è stato arrestato a Lamezia Terme dai carabinieri del Ros con il supporto in fase esecutiva del personale del Gruppo carabinieri di Lamezia Terme. La Suprema Corte si è infatti pronunciata rendendo definitiva la condanna emessa il 29 marzo 2021 dalla Corte di Appello di Roma a 12 anni e 10 mesi di reclusione per i reati di associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti e trasferimento fraudolento di valori.

Rigettati entrambi i ricorsi

Buzzi, destinatario di un ordine di carcerazione emesso dalla Procura generale di Roma, è stato arrestato mentre si trovava in una comunità in Calabria e verrà trasferito nel carcere di Catanzaro dove sconterà la pena residua di 7 anni e 3 mesi di reclusione. Per Carminati è stata invece resa definitiva la condanna a 10 anni. I giudici della Seconda sezione penale della Suprema Corte, presieduti da Luciano Imperiali, hanno rigettato entrambi i ricorsi presentati dalle difese degli imputati. In questo modo è stato scritto l'ultimo atto del processo, a quasi otto anni di distanza dall'operazione 'Mondo di Mezzo' che con due retate, la prima avvenuta il 2 dicembre del 2014 e la seconda il 4 giugno del 2015, portò all'arresto rispettivamente di 37 e 44 persone.

Il loro ruolo apicale

I supremi giudici hanno accolto le richieste della procura generale della Cassazione, confermando così le condanne decise nell'Appello bis nel marzo 2021. Nel 2019 la Suprema Corte aveva fatto cadere per tutti gli imputati il 416bis, ovvero l'accusa di associazione mafiosa. Nell'udienza di ieri mattina il sostituto procuratore generale Lidia Giorgio ha evidenziato, come già riportato nella requisitoria scritta, il ''curriculum criminale'', la ''gravità della vicenda associativa accertata ('inquinando persistentemente e pesantemente, con metodi corruttivi persuasivi, le scelte politiche e l'agire pubblico dell'ente locale', definito una 'mucca da mungere') e anche il ''ruolo apicale'' ricoperto da Carminati.

Invece, per quanto concerne il ricorso che era stato presentato dalla difesa di Buzzi, il sostituto procuratore generale ha sottolineato il ''ruolo apicale svolto'' dall'ex ras delle cooperative ''unitamente al Carminati'' oltre al ''numero e alla gravità delle condotte accertate (…) al pesante e grave inquinamento della cosa pubblica, nonché -tra gli indici rivelatori della peculiare modalità dell'attività delittuosa e della connessa allarmante gravità- all'assoluto disinteresse di Buzzi per i controlli pubblici, al completo ribaltamento della logica ispiratrice del mondo delle cooperative, oltre che all'appoggio di concorrenti ex art. 110 c.p. e di altro gruppo associativo caratterizzato da strategie criminali violente ed estorsive, ovvero l'associazione di corso Francia, per il recupero dei crediti''. È invece stato accolto il ricorso di Franco Panzironi, l'unico imputato per il quale sarà celebrato il terzo processo d'appello.

Abbate, il reporter che aprì il caso: “Così Carminati la fa sempre franca”. Redazione L'Identità l'1 Ottobre 2022 

“Carminati continuerà a essere libero di circolare. Forse sarà affidato ai servizi sociali”. A dirlo Lirio Abbate, il direttore dell’Espresso, che quand’era inviato di cronaca giudiziaria, sulle colonne del settimanale fondato da Eugenio Scalfari, ha lanciato quel filone che tutti conoscono come “Mafia Capitale”. 

Come è nata l’inchiesta?

“Il tutto nasce da un fattore giornalistico, capire chi in quel momento aveva il dominio della città da un punto di vista criminale. Così sono arrivato a Massimo Carminati. Fin dall’inizio, però, non l’ho mai definito un mafioso, ma era semplicemente il capo di un clan. Da qui sono nati i quattro re di Roma e la famosa copertina dell’Espresso”. 

Oggi tornano in prigione due dei principali protagonisti di quel mondo. Che effetto le fa?

“Buzzi è tornato in carcere, mentre Carminati è specializzato nell’essere processato e saperne uscire fuori. È un genio nel trovare il modo migliore, tramite i gangli che la giurisprudenza offre, per scontare metà della pena. Nonostante dieci anni di condanna, in cui viene definito un criminale assodato, forse sarà mandato in affidamento ai servizi sociali. Per dirla in breve, continuerà a essere libero di circolare”. 

Mafia Capitale è incentrata su sentenze contrapposte. Cosa ne pensa?

“A dodici anni, da quando è iniziato il processo, si è arrivati a un risultato di giustizia. Stiamo parlando di condanne che a Roma, intorno a fatti di corruzione, non si erano mai viste”.

Come cambia la parola “mafia” nel corso degli anni?

“Deve essere declinata a seconda del territorio. Allo stato si parla di metodo mafioso, cioè di un qualcosa che viene utilizzato anche da clan autoctoni per corrompere o ottenere benefici. Tutto ciò a discapito della società e dei cittadini”.

Da molti anni vive sotto scorta, esiste una criminalità in grado di uccidere un giornalista?

“C’è ancora chi ha paura di chi scrive determinate cose. Mi riferisco ai colletti bianchi, a tutto ciò che fa crimine. Chi indaga, oggi ha molti più nemici che cercano di ostacolare o peggio ancora di imbavagliare”. 

Giacomo Amadori per “La Verità” l'1 ottobre 2022.

Un magistrato ieri ha commentato in modo icastico la notizia del nuovo arresto di Salvatore Buzzi: «L'elemento di vertice di Mafia capitale che vendeva panini alla periferia di Roma». L'ex amministratore della coop 29 giugno era ricoverato in una comunità terapeutica per le dipendenze con il benestare della Asl. 

In base alla legge chi ha meno di sei anni da scontare può essere affidato a centri di questo tipo per motivi di salute. L'ex ras delle coop romane di sinistra da quando era iniziata la sua disavventura giudiziaria si era rifugiato nell'alcol. 

«Ciccio capriccio», come lo chiama la moglie Alessandra, uscita dall'inchiesta con un patteggiamento, con tutti si mostrava ottimista e sempre pronto alla battuta. In realtà, scopriamo adesso, era un uomo schiacciato dagli eventi e che aveva bisogno di bere per continuare a indossare quella maschera.

Buzzi aveva in corso un trattamento presso il Serd del Sant' Eugenio ed era seguito da un medico e da una psicoterapeuta. Secondo la difesa la Asl, vedendo che Buzzi non riusciva a risolvere il problema di dipendenza, aveva chiesto la disponibilità a diverse comunità per un ricovero e, nei giorni scorsi, aveva risposto positivamente il Brutto anatroccolo di Lamezia terme, gestita dalla cooperativa sociale Malgrado tutto.

Qualcuno solleverà dubbi sulla tempistica di questa soluzione arrivata poche ore prima della sentenza. Ma bisognerebbe mettere in discussione il lavoro di medici e psicologici del sistema sanitario. Intanto uno dei legali di Buzzi, Annalisa Garcea, si è rivolta al giudice di sorveglianza per chiedere il rientro di Buzzi in comunità.

Infatti con lui la Giustizia italiana ha mostrato la sua faccia più feroce. Dopo anni di infruttuose indagini sulla presunta mafia degli appalti legati agli immigrati e ad altri lucrosi business ha mandato nella notte a cercare un signore di 66 anni dai modi affabili riparato in un centro di recupero psicologico nelle campagne calabresi e con implacabile solerzia lo ha tradotto prima in commissariato e poi in carcere. 

Con il suo amico Massimo Carminati, leggenda della criminalità romana, è stata, invece, più indulgente e lo ha lasciato fuori dal carcere. Probabilmente sarebbe stato giusto per entrambi rimanere fuori dalla prigione vista l'età. Ma a Buzzi non è stato fatto nessuno sconto, nonostante la famosa mafia del Mondo di mezzo non fosse tale e l'uomo sia stato ritenuto colpevole di aver pagato 65.000 euro di tangenti in tutto a fronte dei fatturati milionari del gruppo di cooperative da lui guidate.  

Ma in questo accanimento c'è, va detto, qualcosa di sospetto. Forse a scrivere una fine tutt' altro che lieta alla propria storia è stato lo stesso Buzzi quando, dopo aver iniziato a collaborare con gli inquirenti capitolini come un vero pentito, ha avuto la pessima idea di chiamare in causa Nicola Zingaretti, mentre il suo avvocato, Alessandro Diddi, andava all'attacco della Procura di Roma e smontava grado dopo grado il teorema della Cupola. 

Nell'estate del 2015 Buzzi rende dichiarazioni su Zingaretti. Il 23 giugno, nel carcere di Cagliari, parla per la prima volta della famigerata gara Cup della Regione Lazio, delle difficoltà a partecipare perché era già stata spartita a monte, della lottizzazione tra maggioranza e opposizione (ma in manette è finito solo un rappresentante della minoranza), delle richieste di mazzette, del presunto ruolo di un ipotetico emissario di Zingaretti.  

Al termine delle 5 giornate di interrogatori i pm esprimono le proprie perplessità su alcune dichiarazioni di Buzzi. Non lo ritengono credibile su diversi punti, ma niente obiettano sulle parole riguardanti la gara Cup. Eppure, se per le accuse riguardanti la gestione degli appalti di Ama, viene preparata dagli investigatori un'apposita informativa che risconta quanto dichiarato dall'allora indagato, sulla gara Cup non vengono effettuati significativi approfondimenti. 

Per la difesa di Buzzi non si poteva dare credito all'imprenditore reatino perché se fosse stato ritenuto credibile le numerose corruzioni contestate avrebbero assunto la qualifica giuridica della concussione e un mafioso «concusso» non è un mafioso. 

Nell'autunno del 2015 inizia il processo e tra i testi della difesa di Buzzi c'è Zingaretti, il quale alla prima chiamata si avvale della facoltà di non rispondere poiché indagato in procedimento connesso, con l'accusa di corruzione proprio per la gara Cup. Ma, abbastanza velocemente, il governatore viene prosciolto e per questo è chiamato a testimoniare il 21 marzo 2017. 

Al termine della sua deposizione la presidente del collegio Rosanna Ianniello chiede il rinvio degli atti alla Procura ipotizzando una possibile falsa testimonianza del governatore. Anche in questo caso la Procura archivia rapidamente. Il primo grado si chiude con pene elevatissime, anche se gli imputati vengono assolti dall'accusa di mafiosità: Buzzi prende 19 anni e 6 mesi e Carminati 20 anni. 

In appello la condanna di Buzzi si riduce a 18 anni e 4 mesi. Anche nel corso di questo processo la difesa prova a far accertare le presunte pastette dietro alla gara Cup, ma Buzzi non viene ritenuto credibile neanche dai giudici di secondo grado, mentre Carminati, che pure viene considerato capo di due diverse associazioni mafiose, è condannato a 14 anni e mezzo.  

Nell'ottobre del 2019 la sesta sezione della Cassazione boccia definitivamente la contestazione di mafia senza rinvio e manda gli atti in Appello il ricalcolo dell'entità delle pene. Nel rideterminare le condanne per l'associazione a delinquere semplice e non mafiosa il Tribunale non parte dal minimo edittale come aveva fatto la Corte d'appello. 

Quindi per un reato meno grave applica una pena maggiore quasi a voler punire il personaggio più che il fatto commesso. Alla fine Buzzi, sottolineano i suoi legali, prende l'11 per cento in più della media edittale, Carminati, che non ha mai parlato del Pd o di Zingaretti, il 40 in meno. Ma ovviamente per le toghe le chiamate di correo politiche non c'entrano nulla.

Il 26 giugno 2020 Buzzi viene scarcerato per decorrenza dei termini e inizia la sua battaglia mediatica contro la presunta ingiustizia subita, affrontando la questione della gara Cup (per cui i giudici non hanno individuato reati, nonostante alcuni patteggiamenti) e del presunto coinvolgimento del Pd in tutta la faccenda.  

Un argomento al centro di un libro ancora alla ricerca di un editore. Nella notte di giovedì la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di Buzzi e Carminati confermando la condanna a 12 anni e 10 mesi per il primo e a 10 anni per il secondo. Buzzi ha già espiato tra detenzione in carcere in alta sicurezza e il semestre agli arresti domiciliari 5 anni 6 mesi e 24 giorni e gli resta un residuo di pena di 5 anni 8 mesi e 21 giorni. 

A Carminati sono state stornate dal conto la liberazione anticipata e quella speciale. A Buzzi no. Per tale motivo solo quest' ultimo è stato ricondotto in prigione, sebbene fosse sottoposto a trattamento terapeutico. Per qualcuno la severità della condanna potrebbe essere la conseguenza dell'ostinazione con la quale Buzzi ha sostenuto la sua ricostruzione della gara Cup, ipotizzando il coinvolgimento diretto di Zingaretti. 

Ma perché un uomo di sinistra come Buzzi, ex elettore del Pci, da sempre impegnato nella difesa dei diritti dei carcerati, avrebbe dovuto mentire solo sul Pd e non sugli altri partiti? Per vendetta? Questo non lo ha mai spiegato nessuno. 

Lo scorso agosto Luca Palamara, sulla Verità, ha rivelato il presunto interessamento diretto di Zingaretti ai retroscena dell'inchiesta Mafia capitale e alla posizione del suo capo di gabinetto Maurizio Venafro. Interessamento concretizzato in un paio di incontri (uno, notturno, sotto la casa del governatore) con lo stesso Palamara e con la collega di Csm Paola Balducci. 

Una settimana fa l'ex capo della 29 giugno aveva organizzato la «serata finale» del suo Buzzi's burger, prima di abbassare le serrande probabilmente per sempre. «Si chiude in bellezza» aveva scritto sulla locandina, celando il suo reale stato d'animo e la sua dipendenza. Poi, un po' impaurito, pur senza perdere il gusto per la battuta, era partito per Lamezia. Dove la Giustizia degli uomini, che occhiuta lo controllava all'alba e al tramonto, due notti fa lo ha prelevato nella sua stanzetta in mezzo ai campi della Calabria.

Buzzi arrestato nella notte, il legale: «Non può stare in cella, sta male». Mondo di mezzo. L’ex Ras delle cooperative sociali condannato in via definitiva è stato arrestato mentre era in cura a Lamezia Terme. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio l'1 ottobre 2022.

I carabinieri del Ros lo hanno raggiunto, una manciata di ore dopo la pronuncia della Cassazione, nel cuore della notte nei locali della cooperativa “Malgrado tutto” di Lamezia Terme, dove Salvatore Buzzi era ospite da qualche giorno per curare una dipendenza da alcol. L’ex Ras delle cooperative sociali, condannato in via definitiva a 12 anni e 10 mesi di reclusione per i reati di associazione a delinquere, corruzione, turbativa d’asta e trasferimento fraudolento di valori, deve scontare un residuo di pena di poco più di sette anni.

«Siamo davanti a un chiaro caso di “efficientismo ad personam” – dice l’avvocato Alessandro Diddi, legale di Buzzi -. In tanti anni che faccio l’avvocato non mi era mai capitato di vedere un simile accanimento. Sono curioso di capire chi è il magistrato che alle 2 di notte aspettava in ufficio la notifica della sentenza di Cassazione per firmare l’ordinanza di arresto». Un ordine di carcerazione eseguito con tempi estremamente rapidi e arrivato su un soggetto che, dice ancora Diddi, «non può andare in carcere, non sta bene. Era in Calabria per farsi curare da un grave problema di dipendenza. Lo certificano decine di visite mediche. E poi l’arresto alle due del mattino. Un’iniziativa, e non è l’unica – rincara Diddi – davvero spropositata visto che si parla di un uomo che si trovava in libertà. Ora metteremo in opera tutte le iniziative per portare il mio assistito fuori dal carcere. Sta male, si sta curando e il carcere non è il luogo adatto».

Mondo di mezzo

Delle due “teste” alla guida del “Mondo di mezzo” individuate dalla distrettuale antimafia della Capitale, Salvatore Buzzi, raccontano le sentenze, rappresentava quella affaristico commerciale, contraltare “pulito” all’ala prettamente criminale guidata da Massimo Carminati, il ciecato protagonista di tante oscure pagine del malaffare romano in salsa fascista dagli anni di piombo in avanti. Arrestato nel dicembre del 2014 assieme ad altri 32 indagati, Buzzi finisce al carcere duro con l’accusa di essere uno dei promotori di una consorteria criminale autoctona che aveva mutuato le tipiche dinamiche del crimine organizzato. Accusa rimasta in piedi fino al luglio del 2017, quando i giudici di primo grado cancellano l’ipotesi di mafia, sancendo la presenza di due distinte associazioni a delinquere in collaborazione tra loro, una guidata da Buzzi grazie ai contatti garantiti dalla cooperativa “29 giugno”, l’altra da Carminati alla testa di una batteria dedita alle estorsioni e alla violenza. Poi nel dicembre del 2018 un nuovo ribaltone, con i giudici della Corte d’Appello che, in secondo grado, accolgono le richieste della Procura generale e resuscitano l’accusa di mafia.

Nonostante questo però, la condanna inflitta all’imputato è più leggera di pochi mesi rispetto al giudizio del primo giudice. Passano pochi mesi ancora, siamo nell’ottobre del 2019, e la sentenza della Corte di Cassazione ribalta ancora tutto: Mafia Capitale non esiste. Archiviata definitivamente l’ipotesi di associazione mafiosa, i giudici del Palazzaccio dispongono un nuovo processo d’Appello che, nel marzo dello scorso anno ridetermina le pene, condannando l’ex ras delle cooperative sociali, intanto reinventatosi ristoratore, a 12 anni e 10 mesi di reclusione. Giovedì infine, la definitiva pronuncia della Cassazione, che ha rigettato il ricorso presentato dai legali di Buzzi e portato al blitz dei carabinieri del Ros a Lamezia, ultimo ciak di una delle indagini più mediatiche della seconda Repubblica.

La sentenza della Cassazione. Buzzi e Carminati condannati dopo la bufala “Mafia capitale”, il blitz di notte in comunità. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Ottobre 2022 

Se la sentenza arriva di notte, c’è già un procuratore con la penna in mano pronto a firmare l’ordine di carcerazione e i carabinieri ancora più pronti con le manette. È così che giovedì dopo la mezzanotte è stato arrestato Salvatore Buzzi. Era in attesa della sentenza della cassazione, così come Massimo Carminati, il coimputato dell’inchiesta che fu “Mafia capitale” ma senza la mafia, in realtà per reati contro la pubblica amministrazione nell’allegra gestione di appalti alla Regione Lazio di Nicola Zingaretti negli anni tra il 2011 e il 2014.

La seconda sezione presieduta da Luciano Imperiali aveva solo il compito di valutare l’entità delle pene, e la loro congruità, visto che tutto quanto questo processo è stato fortemente influenzato dalla bufala costruita da un gruppo di procuratori coraggiosi che vedevano mafia dove c’erano intrallazzi, e boss dove c’erano affaristi. Per fare un esempio, se la pena base per l’associazione a delinquere semplice è di tre anni, perché quella contestata a Buzzi ne vale sette e mezzo? Facile poi, con questo punto di partenza, aggiungendo corruzione e turbativa d’asta, arrivare a quei dodici anni e dieci mesi della condanna. Quelli che, pur sottraendo i cinque e mezzo passati in carcere con l’aggiunta degli sconti per buona condotta, non consentono l’applicazione della misura alternativa al carcere, cioè l’affidamento ai servizi sociali.

Sorte che forse avrà Massimo Carminati, condannato a dieci anni di reclusione, secondo quanto affermano i suoi legali, e che comunque non è stato arrestato in tutta fretta, come invece è capitato a Buzzi. L’ex signore degli appalti era in una comunità che lo ospitava a Lamezia. Alla luce del sole, non si stava certo nascondendo né stava scappando. Noi stessi lo avevamo sentito nei giorni scorsi, mentre stava chiudendo in via preventiva il pub che aveva aperto a Roma nella zona di Tor Vergata, che aveva avuto un buon avviamento da quando due anni fa Buzzi era uscito dal carcere per scadenza termini, dopo 1.784 giorni in regime di Alta Sicurezza. Trattato da mafioso, mentre mafioso non era. Avrebbe meritato un risarcimento per quello svarione, non il carcere di Catanzaro.

Nella seduta di ieri, nella requisitoria il pg della cassazione aveva chiesto la riconferma delle condanne dei due principali imputati, non solo ritenendole congrue rispetto alle imputazioni, ma anche sottolineando di condividere l’impostazione del verdetto data dai giudici del processo d’appello-bis. Cioè quello che aveva avuto il compito, dalla prima sentenza di cassazione, di ricalcolare le pene rispetto alla decisione dei precedenti colleghi che, al contrario dei giudici che avevano emesso la sentenza di primo grado, avevano creduto all’impostazione data all’inchiesta dalla procura di Giuseppe Pignatone, di Prestipino, di Ielo, di Tescaroli e di Cascini. Cioè di coloro che avevano creato il mito negativo di una città di Roma avvolta nei tentacoli della mafia. Così si era creato il paradosso. Perché la corte d’appello-bis che cancellava l’aggravante mafiosa emetteva però condanne più pesanti di quella che processava per mafia. Tale e tanto era stato il condizionamento mediatico di tutta l’inchiesta.

Così ieri il pg, pur ricordando la derubricazione del reato associativo da mafioso a semplice, ha sottolineato la “gravità” del comportamento di Carminati e Buzzi, riconosciuti come capi, al vertice delle associazioni che rappresentavano. E ha descritto il ruolo del fondatore della Cooperativa “29 giugno” per il recupero dei detenuti come “apicale”. E la sua condotta, come molto attiva “nel pesante e grave inquinamento della cosa pubblica, il disinteresse per i controlli pubblici, il ribaltamento della logica del mondo delle cooperative”. Buzzi non ha mai contestato di aver svolto quel tipo di attività illegale, ma ha sempre chiesto che fosse data la giusta dimensione ai fatti per come si erano svolti e a tutti i protagonisti. C’è tutta la vicenda della “gara del Cup”, il Centro unico per le prenotazioni delle visite mediche negli ospedali del Lazio, che andrebbe raccontata. Perché è una grave storia di ingiustizie e camarille tra politici e una parte della magistratura.

Si dovrebbe raccontare perché il Presidente Nicola Zingaretti nel 2014, dopo dieci anni in cui quel centro, pur in costanza di diverse amministrazioni regionali presiedute da Storace, Marrazzo e Polverini, era stato gestito in regime di quasi monopolio da una sola cooperativa del sistema della Lega emiliana, abbia sentito la necessità di indire una gara. Non per trasparenza, secondo la versione di Buzzi, ma per soddisfare gli appetiti delle diverse correnti e sotto-correnti del Pd laziale. Lui lo sa, perché di quel mondo ha fatto parte e a quella gara ha partecipato. E ha anche quantificato la cifra che avrebbe dovuto sborsare, se alla fine non fosse tutto saltato per aria, con la gara annullata e gli arresti.

Tutta questa storia, quando sarà raccontata, magari nel prossimo libro di Salvatore Buzzi, si intreccia anche a un certo punto con un incontro notturno e clandestino tra Zingaretti e il presidente dell’Anm Luca Palamara, di cui lo stesso magistrato ha parlato di recente in un’intervista alla Verità. Eloquenti le sue parole: “L’inchiesta Mafia Capitale, che coinvolgeva anche alcuni dem, aveva creato fibrillazione nei rapporti tra una parte del Pd, quella che comandava, e i vertici della Procura di Roma. E io ho avuto modo di discutere di questi aspetti sia con il presidente Zingaretti sia con Pignatone anche nei giorni precedenti alla partecipazione di quest’ultimo a una conferenza del Pd”. Ma gli uomini del Pd non erano quelli che si difendevano NEL processo? O invece DAL processo, con l’aiuto del sindacato magistrati?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Come si diventa criminali? Le parole di Antonio Mancini. Gianluca Zanella il 28 Settembre 2022 su Inside Over. 

Come si diventa criminali? È da questa domanda che siamo partiti nell’intervista che abbiamo fatto ad Antonio Mancini, ex appartenente di spicco della holding criminale nota come Banda della Magliana, dov’era noto con il soprannome di “Accattone”. Dopo un ennesimo arresto nel 1994, un anno dopo l’estradizione dal Venezuela di Maurizio Abbatino, altro boss della Banda, Mancini comincia a collaborare con la giustizia. Pagato il suo debito, oggi vive da uomo libero a Jesi, nelle Marche, dove – tra le altre cose – si dedica a un’intensa attività di divulgazione nelle scuole e collabora con la Caritas. Ospite nella giornata del 5 novembre del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver, quando (alla presenza anche dell’ex magistrato Otello Lupacchini e dell’ex ispettore di polizia Attilio Alessandri) si parlerà dell’Operazione Colosseo (il blitz che assestò un durissimo colpo alla Banda della Magliana a seguito della collaborazione di Abbatino, ndr), Mancini ci ha rilasciato un’interessante intervista in cui, appunto, ci ha spiegato come si diventa criminali. “Premetto una cosa, prima di trasferirci a Roma, quando ancora vivevamo in provincia di Pescara, ero uno studente modello. Le mie pagelle delle elementari lo dimostrano”.

E poi cos’è accaduto? Come sei diventato un criminale?

“Quando avevo 11 anni mio padre decise che la famiglia si sarebbe trasferita a Roma. Vivevamo in povertà e il trasferimento nella Capitale sembrava l’unica possibilità di riscatto. Peccato che, una volta arrivati a San Basilio, che ancora oggi è una delle periferie più complicate della città, la realtà che ci attendeva era molto diversa dalle aspettative”.

Anche lì c’era povertà?

“No, lì non c’era proprio niente. E quando dico niente, intendo niente. È stato in quel contesto che ha iniziato a maturare il mio istinto criminale. Mio padre la mattina usciva all’alba per andarsi a spaccare la schiena e rientrava quando già era buio. Alla sera mangiavamo sempre una minestra fatta con il dado. Sembrava una strada senza uscita. Poi, però, se mi affacciavo alla finestra, vedevo delle persone che giravano con la Ferrari, che non si alzavano all’alba e facevano quello che volevano. Ho pensato: voglio fare la vita di mio padre o quell’altra? Ho fatto la mia scelta”.

Quand’è stata la prima volta in cui hai sfidato la legge?

“Avevo 13 anni, insieme a un paio di amici abbiamo rubato una Vespa. La prima volante della polizia che ci ha incrociati ci ha fermati e portati dai nostri genitori. Da lì è stata un’escalation”.

Hai avuto un cattivo maestro che ti ha “insegnato” il mestiere?

“Più di uno. A San Basilio, la sera, negli spazi tra i palazzoni, mentre noi ragazzini scorrazzavamo, gli adulti accendevano dei grandi fuochi. Lì intorno si radunavano dei veri e propri ladroni, che di fronte alle fiamme raccontavano le loro imprese e spiegavano come rubare una macchina, come infilarsi in un appartamento, insomma, trasmettevano a noi nuove leve la loro esperienza”.

Quando hai iniziato a fare sul serio?

“Il passo dal motorino alle gioiellerie è stato breve. I soldi mi piacevano, mi piaceva il brivido della rapina. Avevo una mia batteria (gruppo di criminali specializzato nelle rapine, ndr) con cui portavamo a termine i colpi. Ma la svolta c’è stata quando siamo stati notati da un pezzo da 90 nel settore delle rapine: Gianfranco Urbani, soprannominato “er pantera”. Lui apprezzava le mie capacità e in poco tempo entrai a far parte della sua batteria. Con lui facevamo le rapine ai furgoni portavalori, ai treni… insomma, roba forte”.

Da rapinatore, sei diventato un criminale di spessore – e temuto – con l’ingresso nella Banda della Magliana. Quando avviene questa “promozione sul campo”?

“I futuri appartenenti alla Banda della Magliana li ho conosciuti tutti in carcere. La stessa Banda si può dire che è nata lì, in carcere”.

Tornando alle ragioni che ti hanno spinto a intraprendere una carriera criminale, possiamo parlare di una volontà di riscatto indirizzata nel verso sbagliato?

“Indubbiamente si è trattata di volontà di riscatto. Ti racconto un aneddoto. Mio padre, un povero operario, un grande e onesto lavoratore, conosceva un senatore del Pci e, ogni tanto, nell’arco di molti anni, si recava con il cappello in mano nel suo ufficio, dove immancabilmente riceveva la promessa di ottenere, in un futuro prossimo, una casa popolare. Inutile dire che non l’ha mai vista. Io a volte lo accompagnavo, andavamo con la mia macchina, un Bmw, lui insisteva per farmi la benzina. Io gli dicevo “ma che ci andiamo a fare dal senatore, la casa te la posso comprare io”. Ma lui non voleva, lui credeva che un giorno quel senatore gliel’avrebbe data sul serio, la casa. Ecco, sin da bambino c’è una cosa che ho capito: il mondo è dei furbi, ma prima ancora dei forti. Io ho scelto di essere forte. In un mondo di sopraffazione, tra vittima e carnefice ho preferito essere il carnefice”.

Oggi conduci una vita completamente diversa e a differenza di molti altri collaboratori non ti nascondi. Tanto per dirne una, sul citofono c’è il tuo nome e cognome. Cos’ha determinato questa inversione di rotta?

“Vedi, ho vissuto una vita estrema. C’era il sangue, c’era l’adrenalina, c’era la droga. Dopo un’ennesima scarcerazione, nel periodo in cui stava per nascere la mia seconda figlia, ho iniziato a vedere il mondo con occhi diversi. Ero stanco, ero nauseato. I miei amici, quelli che consideravo amici, gli altri della Banda, ancora parlavano di omicidi, di gente da ammazzare. Due di loro si erano scannati a vicenda, penso a Edoardo Toscano e a Enrico De Pedis… io ne avevo abbastanza, non volevo più vedere scorrere il sangue, volevo veder nascere e crescere mia figlia. Ecco, è stata lei a innescare la volontà di cambiare strada”.

E da qui la scelta di collaborare

“Si, ma vedi, il fatto che oggi non mi nasconda, che sul citofono ci sia il mio nome, è perché io non sono scappato da niente e da nessuno, se non da me stesso. La scelta di collaborare non è stata mossa da astio o da rancore, ma solo dalla necessità di scappare, sopravvivere a me stesso”.  

Banda della Magliana, morto il fratello del boss Franco Giuseppucci. Fu accusato di omicidio, chiesa piena. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2022.

Santa Maria in Trastevere stracolma per l’addio ad Augusto Giuseppucci, morto in ospedale. Nel 2019 fu sospettato ingiustamente. «L’unico suo reato vero? Essere il fratello del Negro»

«Ahò, hai saputo? È morto il fratello del Negro!» La voce è circolata in un baleno, tra vicoli e piazzette. «Pace all’anima sua, poveraccio... In fondo tanti gli volevano bene...» E infatti la chiesa dove si sono svolti i funerali, Santa Maria in Trastevere, quella del pranzo di Natale con i senzatetto, era piena: tra i banchi anche tanti malacarne imbolsiti e incanutiti e robuste dosi di nostalgia per i tempi ruggenti, quella degli anni Settanta e Ottanta, epoca in cui a Roma comandavano loro. Augusto Giuseppucci, 68 anni, morto in ospedale domenica 23 ottobre, era noto alle cronache per gli arresti a ripetizione, ma sopratutto per essere stato il fratello del boss, Franco detto il «Negro», nato come lui «fornaretto» nella panetteria del padre e poi diventato uno dei capi storici della banda della Magliana, assassinato a 33 anni (nel settembre 1980) a San Cosimato dalla gang rivale dei fratelli Proietti, i «pesciaroli».

Augusto Giuseppucci aveva dismesso da tempo i panni da duro, anche se per il suo cognome tanti continuavano a rispettarlo (qui che fine hanno fatto gli ex boss della «bandaccia»). Abitava sulla Gianicolense, in via Laura Mantegazza, e le sue condizioni di salute erano precipitate prima dell’estate, in conseguenza di un ictus seguito da complicazioni. A lungo ricoverato al San Camillo, alla fine era stato trasferito allo Spallanzani, dove non si è più ripreso. Separato da molto tempo, aveva un figlio. I funerali svolti il 24 ottobre, con tantissima gente, hanno riportato alla mente di qualche anziano quelli memorabili di «Renatino» De Pedis nel 1990 (qui raccontati da «Franchino il becchino»), ma il contesto ovviamente è cambiato. «Il fatto della Magliana, l’accusa ingiusta di qualche anno fa lo aveva tanto avvilito e prostrato fisicamente...» racconta un trasteverino sulla settantina, che ha conosciuto bene entrambi i fratelli.

Il riferimento è a quanto accaduto ad Augusto Giuseppucci il 10 gennaio 2019, quando in via Castiglion Fibocchi, alla Magliana, all’uscita di un asilo dove la vittima aveva appena lasciato i suoi figli, era stato freddato a colpi di pistola tal Andrea Gioacchini, 34 anni. L’ucciso si trovava su una Yaris con la compagna romena e il killer aveva fatto fuoco con una calibro 7.65 dopo aver affiancato l’auto in sella a uno scooter, con il volto coperto da un casco integrale. Qualcuno aveva notato una somiglianza proprio con Augusto Giuseppucci, non si era fatto i fatti suoi ed era andato dalla polizia: il fratello del boss di «Romanzo criminale» era stato quindi indagato, sottoposto alla prova dello Stub (con esito negativo) e subito dopo prosciolto. No, non c’entrava con il delitto. Ormai «Augustare’», come lo chiamavano tanti a Trastevere, era andato in pensione anche dalle attività illecite.

Nel 2005 aveva fatto scalpore il suo arresto per un giro di droga e rapine in cui, oltre a ultrà laziali e romanisti e a esponenti della banda della Magliana, erano coinvolti personaggi della mafia siciliana di stanza a Roma. Nel 2008, invece, Giuseppucci jr era stato accusato di far parte di una banda di rapinatori, i cosiddetti “sette uomini d’oro” travestiti da postini specializzati in assalti alle banche. In seguito l’inchiesta si era dimostrata fragile, le incriminazioni erano cadute ed era stato il suo avvocato, Cesare Placanica, a scolpire in una dichiarazione quella che in fondo è stata l’essenza della vita da «fratello di»: «Nella giustizia vera Augusto Giuseppucci è stato assolto, mentre in quella mediatica ha pagato l’unico reato per cui non sarà mai considerato innocente: l’essere il fratello del boss Franco Giuseppucci». 

Così è stata stroncata la Banda della Magliana. Gianluca Zanella il 5 Settembre 2022 su Inside Over.

1993. Un anno decisamente particolare nella nostra storia recente. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio a Firenze scoppia una bomba in via dei Georgofili. Due mesi dopo a Milano un ordigno sventra il padiglione di arte contemporanea di Via Palestro. Contemporaneamente, due bombe scuotono – per fortuna senza vittime – la quiete della sera romana, mentre a Palazzo Chigi uno strano black-out fa temere all’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi che sia in atto un colpo di Stato.

Il 1993 è anche l’anno della Falange armata, che sembra colpire un po’ a caso e un po’ no, ma che nessuno riesce a inquadrare; nel 1993, in Somalia, avviene il primo scontro che impegna le forze armate italiane dopo la Seconda guerra mondiale. È la battaglia del “Check point Pasta”, dove mordono la polvere tre militari. Sempre in Somalia, il 1993 si porta via il super agente segreto Vincenzo Li Causi.

Il 1993 è l’anno in cui Donatella Di Rosa, soprannominata Lady Golpe, denuncia un complotto ordito ai massimi vertici militari in cui sarebbe coinvolto (si scoprirà poi che era tutta un’invenzione della donna) il generale della Folgore Franco Monticone, scomparso a Roma il 17 agosto 2022. Il 1993 è anche l’anno di un feroce scontro tra bande, dove per bande si intendono i nostri servizi segreti. In Sicilia, ad Alcamo, due carabinieri finiscono nei guai perché nella casa di uno dei due viene ritrovato un arsenale di dubbia provenienza e una misteriosa fotografia.

1993 è l’anno del “golpe” di Saxa Rubra, quando un gruppo di esaltati viene arrestato perché in procinto di attaccare – con un piano tanto folle da risultare di dubbia autenticità – la sede Rai. Ma il 1993 è anche l’anno di una delle operazioni di polizia simbolo della lotta alla criminalità. Un’operazione che ha pochi precedenti nella storia e che ha portato allo smantellamento di una delle holding criminali più importanti, pericolose e famose del secolo scorso: la Banda della Magliana. Nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1993, infatti, in una Roma blindata scatta l’Operazione Colosseo.

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Il blitz di circa 500 poliziotti, guidati dal giudice istruttore Otello Lupacchini, sorprende nella notte e arresta circa 60 persone. Criminali di prima grandezza, gregari, pesci piccoli e medi. Nella rete finiscono in tanti, così come molti altri riusciranno a fuggire e saranno braccati negli anni a venire. A permettere il sacco, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia unico nel suo genere: Maurizio Abbatino, soprannominato “crispino” e reso famoso da Romanzo criminale con il soprannome de “Il freddo”. Uno dei capi storici della Banda che, arrestato in Venezuela e detenuto a Caracas, sentendosi abbandonato dai suoi sodali e a seguito del brutale omicidio del fratello minore, decide di scardinare dalle radici l’organizzazione che sin dalla fine degli anni Settanta aveva contribuito in modo determinante a organizzare. È grazie alle sue dichiarazioni che vengono ricostruiti fatti fino a quel momento scollegati tra loro, che vengono attribuite responsabilità, che è possibile delineare l’organigramma di un’organizzazione che definire “banda” è assolutamente riduttivo.

Non si può infatti capire cos’è stata la Banda della Magliana se non attraverso i casi sui quali aleggia la sua ombra nera. Crocevia degli Anni di piombo, la Banda – capeggiata da personaggi come Abbatino, Danilo Abbruciati, Marcello Colafigli, Franco Giuseppucci, Renato De Pedis e Antonio Mancini – è stata interlocutrice privilegiata (leggi anche “obbligata”) di mafia, camorra, ‘ndrangheta, servizi segreti più o meno deviati, eversione nera. È stata interlocutrice persino di alcuni settori del Vaticano e di altri della politica.

Il fascino che questa irripetibile stagione criminale ha esercitato sulle generazioni future è dovuto in massima parte al successo prima del libro, poi del film, infine, della serie tv Romanzo criminale, ma non può ridursi solamente a questo. Oltre l’orrore, oltre i morti ammazzati, le estorsioni, i fiumi di droga che hanno inondato Roma e l’Italia intera, a esercitare un fascino perverso è la storia di un gruppo di ragazzi germogliati dal nulla delle periferie abbandonate, piccoli delinquenti che – per furbizia, intuito, predisposizione – hanno capito che da soli non sarebbero andati da nessuna parte. E allora si sono uniti, hanno formato le prime “batterie” che, unendosi a loro volta, hanno dato vita alla Banda.

La sparizione di Emanuela Orlandi, la bomba alla stazione di Bologna, il rapimento di Aldo Moro, l’omicidio di Mino Pecorelli, quello del carabiniere Antonio Varisco, il fallimento del Banco Ambrosiano e la morte del banchiere di Dio Roberto Calvi. Non c’è caso di cronaca nera, mistero irrisolto, complotto in cui non si nasconda a vario titolo lo zampino della Banda.

Sono passati trent’anni, ma il ricordo di quella stagione – e di quella notte – è ancora vivo nella memoria di chi l’ha vissuta direttamente.

“La Banda della Magliana era diventata un grosso problema”. A parlare con noi è Attilio Alessandri. Da poco in pensione, è uno dei poliziotti più decorati alla massima onorificenza per meriti sul campo: per quarant’anni ha operato presso la squadra mobile di Roma nella sezione anti-rapina. Ha partecipato alla fase operativa dell’Operazione Colosseo e, negli anni a seguire, ha avuto a che fare con diversi ex appartenenti alla consorteria criminale (come Massimo Carminati, da lui arrestato dopo il furto al caveau di Roma). Nome in codice “Cobra”, Alessandri, che sulla sua esperienza professionale sta scrivendo un libro, ci ha rilasciato un’intervista esclusiva: “Io e la mia squadra non partecipammo alla fase delle indagini, ma all’interno delle forze dell’ordine l’arresto di Maurizio Abbatino aveva dato a tutti la certezza che sarebbe successo qualcosa di grosso. Fino a quel momento, le indagini sulla criminalità romana si fermavano in un punto e non era possibile andare oltre. Dopo l’arresto di Abbatino il puzzle diventò completo. E quella notte noi colpimmo duro”.

Sulle lunghe e complesse indagini che prepararono il terreno per l’Operazione Colosseo – e che durarono mesi, sin da quando Abbatino venne estradato in Italia nel gennaio del 1992 – una testimonianza fondamentale ce la da il dominus dell’Operazione: l’allora giudice istruttore Otello Lupacchini (a cui, tra le altre cose, va il merito di aver catturato Maurizio Abbatino, ndr) che, con le sue dichiarazioni, conferma e integra anche le parole dell’ex ispettore Cobra: “Si è trattata di un’inversione di tendenza rispetto al passato. Di fronte all’ignavia dei corpi investiganti, che fino a quel momento avevano guardato i vari episodi di criminalità romana come fossero dei fatti isolati, si è gettato uno sguardo generale su almeno 30 anni di storia criminale italiana, collegando qualsiasi episodio all’altro e trovando gli elementi comuni e quelli di diversità, in maniera tale di fornire un quadro completo della situazione e quindi uscire da quella secca di impunità nella quale era stata lasciata la criminalità organizzata romana”.

I componenti di spicco della banda della Magliana: da sinistra, prima fila Franco Giuseppucci, Enrico De Pedis, Maurizio Abbatino, Danilo Abbruciati, Enrico Nicoletti; seconda fila Edoardo Toscano, Marcello Colafigli, Fulvio Lucioli, Vittorio Carnovali, Claudio Sicilia; terza fila Nicolino Selis, Antonio Mancini, Massimo Carminati, Manlio Vitali e Stefano Pompili (Ansa) 

Viene da chiedersi a questo punto se l’intero castello di questa elefantiaca holding criminale sia crollato soltanto grazie alle dichiarazioni di Maurizio Abbatino o se, magari, non si sarebbe potuti giungere prima a un risultato del genere. “Si sarebbe potuto fare prima se ci fossero state le condizioni per farlo”, ci dice il dott. Lupacchini, “intendendosi per condizioni delle mani abili e pulite, non pelose e sudaticce come quelle che si erano occupate fino a quel momento della vicenda, e una forte intelligenza da parte di chi investigava che non sempre c’è stata. E qui bisogna vedere se non c’è stata perché mancava l’intelligenza o perché l’intelligenza stessa era deviata. Dal canto mio, sono dell’opinione che io avessi le mani pulite, abili, un’intelligenza profonda, dei convincimenti precisi e, soprattutto, la volontà di andare avanti dove altri avevano – non so se volutamente o per incapacità – ceduto il passo all’impunità dei criminali”.

Se uomini come Attilio Alessandri e i componenti della sua squadra sono stati risolutivi al momento decisivo, irrompendo nel cuore della notte in case e nascondigli, ammanettando uomini e tenendo a bada la reazione dei familiari presenti al momento dell’arresto, a darci uno spaccato di quella che è stata l’organizzazione a monte dell’operazione è sempre l’ex magistrato Otello Lupacchini, che si è trovato a dover affrontare non pochi ostacoli: “Ostacoli da parte di chi doveva collaborare e che aveva qualcosa da coprire”. Sì, perché una delle specialità della banda della Magliana, e in particolare di alcuni suoi esponenti, era quella di tessere rapporti trasversali. Blandendo, foraggiando, minacciando. A seconda dell’interlocutore, i modi di gestire i rapporti cambiavano, ma il risultato restava sempre lo stesso e quello che solamente molti anni dopo verrà definito da Massimo Carminati come il “mondo di mezzo”, si inspessiva sempre di più: “Per le indagini ricorsi ad una squadra di polizia giudiziaria di cui non facevano parte, salvo uno, poliziotti romani. Non per altro, ma semplicemente perché i fallimenti registrati nel corso degli anni inducevano ad essere molto prudenti nell’esporre ciò che si stava facendo. Il riserbo fu massimo. Quello che abbiamo fatto è stato rileggere parecchi decenni di storia della criminalità romana, cercando tutti i collegamenti tra le varie vicende e verificando che vi fosse qualche attività da fare”.

Con l’Operazione Colosseo viene decapitata un’idra che fino a quel momento aveva tenuto insieme pezzi anche diversissimi tra loro di criminalità italiana. Naturale che nel periodo immediatamente successivo si sia creato un enorme vuoto di potere, una voragine che, nel tentativo di essere nuovamente riempita, ha inghiottito non poche persone. Attilio Alessandri quel periodo lo ricorda bene: “Non fu destabilizzato solo il tessuto della criminalità romana, ma quello di tutta Italia. Come un pugile suonato, l’intero settore criminale barcollò. Estrema destra, mafia, camorra… fu una batosta per tutti. A seguito di quella notte, nessuno di loro sapeva cosa realmente avessimo in mano, per loro era stato un vero choc. Anche persone non indagate fuggirono da Roma, senza curarsi di cosa si lasciavano alle spalle. Per parecchi mesi si percepiva la paura. Avevamo vinto noi, ma sapevamo che non sarebbe durata a lungo. Roma è talmente grande che la criminalità ci ha messo ben poco a riassettarsi e rimettersi in gioco”.

Sul punto approfondisce Lupacchini: “Il vuoto lasciato dal potere criminale della Banda della Magliana è stato occupato quando – per ragioni tecniche – sono entrate altre organizzazioni che non erano tipicamente romane, che hanno cercato di appropriarsi, o in alcuni casi riappropriarsi del territorio. Dopo l’Operazione Colosseo rientrano varie organizzazioni e coloro che erano stati espulsi dal circuito della Magliana e che rappresentavano quelli che potremmo definire – con linguaggio terroristico – i “raccordi”, cioè gente che stava in una posizione subordinata o ancillare. Hanno cercato di appropriarsi del territorio, tanto che ci furono poi delle guerre quando gli ex appartenenti alla Banda sono usciti di galera negli anni successivi. Debbo anche dire che questo è avvenuto nell’ignavia di chi avrebbe dovuto intervenire, perché la tendenza è sempre stata quella di negare che a Roma esistesse la criminalità organizzata”.

Parole, queste, che rimandano al più recente scandalo di “mafia Capitale” e alla vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto in prima persona Massimo Carminati. Uno scandalo che, in un certo senso, ha risvegliato vecchi fantasmi: “Si, è vero”, conferma Lupacchini, “alcuni soggetti coinvolti in mafia Capitale avevano dei trascorsi criminali che affondavano le radici all’epoca della banda. Ma la banda della Magliana in senso stretto venne distrutta con l’operazione Colosseo, ormai non aveva più senso di esistere, anche perché erano cambiate le condizioni geopolitiche che ne avevano determinato la nascita, la prosperità ed il successo”.

Lupacchini parla di “condizioni geopolitiche”. Noi traduciamo con un livello superiore, una strategia occulta che della banda della Magliana si è servita alla bisogna, come braccio armato. Che qualcuno sia rimasto impunito e nascosto nell’ombra ne è convinto l’agente Cobra: “Da soli non potevano fare tutto quello che hanno fatto. Non dimentichiamo l’arsenale all’interno del Ministero della Sanità”. Il riferimento è alla nota vicenda dell’arsenale utilizzato in promiscuità dalla banda della Magliana, dai Nar e persino dal commando brigatista che massacrò il colonnello Varisco, che venne scoperto e smantellato nel 1981 all’interno dei locali del Ministero della Sanità a Roma. Ma di vicende in cui si è intravista la presenza di una regìa molto ben orchestrata ne è piena la nostra storia. Pensiamo, tanto per restare in tema, al furto avvenuto nel caveau della banca interna al Tribunale di Roma nel 1999, portato a termine da una batteria capeggiata da Massimo Carminati.

Su questo argomento, Otello Lupacchini non ha dubbi: “Una regìa c’è sempre stata. La banda della Magliana era un’organizzazione tetragona con idee molto chiare su ciò che voleva, intratteneva relazioni ad alto livello e si esponeva per questo ad essere signoreggiata da detentori del potere”.

Tornando a quello che ha rappresentato – e rappresenta – la Banda della Magliana nell’immaginario comune, viene da chiedersi se la narrazione romanzesca che ne è stata fatta abbia un fondamento nella realtà dei fatti. E su questo Attilio Alessandri ha le idee molto chiare: “Assolutamente no. La ricostruzione romanzesca non ha restituito al pubblico l’orrore di quegli anni, la brutalità di certe situazioni e la cattiveria dei protagonisti. Mi ricordo quando ci chiamarono subito dopo l’omicidio di Edoardo Toscano. Era il 1989, gli avevano sparato a Ostia. Quando trovammo il cadavere, sui polsi – lì dove nel corso degli anni si erano chiuse più volte le manette – aveva tatuata una frase: da una parte “stringi” e da una parte “boia””.

Personaggi pronti a tutto, per i quali la vita non aveva molto valore. Ma anche personaggi che, in qualche modo, hanno lasciato nella memoria di un operatore di lungo corso un ricordo positivo: “Non ho un cattivo ricordo, per esempio, di Gianfranco Urbani, soprannominato “er pantera”. Pur essendo un grosso calibro all’interno dell’organizzazione, uno dei capi storici, comunque era una persona rispettosa e per certi versi simpatica. Sapeva quello che stava facendo. Mi è capitato di arrestarlo diverse volte, anche l’ultima, quando poi è morto in carcere. Ogni volta la prendeva con sportività: faceva il suo lavoro di rapinatore, noi il nostro di poliziotti. C’era rispetto reciproco, non è una cosa né banale, né scontata”.

Il 5 novembre, presso la sede de IlGiornale.it a Milano e nel corso di uno degli appuntamenti del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver, gli iscritti avranno l’incredibile opportunità di incontrare e intervistare alcuni dei protagonisti dell’Operazione Colosseo. Presenti per l’occasione saranno infatti l’ex magistrato Otello Lupacchini, l’ex poliziotto Attilio “Cobra” Alessandri e l’ex esponente della Banda della Magliana Antonio Mancini.

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Autore GIANLUCA ZANELLA

‘Ndrangheta a Roma, «Pignatone, Prestipino, Cortese... stiamo quieti». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

Nei filmati allegati all’inchiesta Propaggine e mostrati dal TgR i boss del primo Locale della criminalità calabrese nella Capitale «maledicono» i magistrati della Dda: «Ci hanno già combattuto ai paesi nostri». 

Le immagini sono nitide, visivamente e per quello che rappresentano: due boss della ‘ndrangheta che in strada a Roma maledicono i magistrati loro avversari: «Pignatone, Prestipino e Cortese (l’ex capo della Squadra mobile, ndr), gli stessi che ci combattevano dentro ai paesi nostri...». In un altro passaggio un uomo nel cortile di una auto officina di Montecompatri ne schiaffeggia un altro e, pistola alla mano, prima spara in aria poi lo sfida a farsi ammazzare con in un film di gangster o, per restare alla nostra delinquenza, come quelle serie tv che raccontano le vite dei malavitosi. I documenti video allegati all’inchiesta «Propaggine» che lo scorso maggio ha smantellato con 43 arresti (e un’altra trentina in Calabria) il primo Locale di ‘ndrangheta capitolina sono stati mostrati ieri per la prima volta dal TgR Lazio. E se pure il contenuto delle intercettazioni era in buona parte noto, l’effetto che rimandano è di forte impatto.

I due boss che dialogano nel traffico pensando così di evitare le intercettazioni ambientali sono Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, rappresentanti di famiglie originarie di Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria. Uno dei bracci più potenti della criminalità calabrese, che a Roma aveva insediato una propria succursale, ma autonoma e a pari livello con le ‘ndrine della casa madre. Uno status rivendicato nel dialogo captato dalla Direzione investigativa antimafia, che ha condotto le indagini coordinata in Procura dalla Dda dal procuratore aggiunto Ilaria Calò e il pm Giovanni Musarò: «Noi siamo qua, guardate quanto siamo belli qua - si ascolta in un’altra conversazione intercettata —. Noi abbiamo una propaggine di là sotto. Noi ci facciamo i c...i nostri. Come gli Spada si fanno i c...i loro, o no?».

Anche il riferimento a una delle famiglie criminali romane per anni egemone ad Ostia e non solo è significativo per soppesare il potere sul proprio territorio di competenza. Il capoclan, che nelle intercettazioni viene definito come «il Papa» da uno degli affiliati, descrive la struttura del gruppo criminale: «Siamo assai pure qua... volta e gira siamo qualche 100 di noi altri anche in questa zona del Lazio».

Nella lotta tra Stato e antistato dalla Calabria sono venuti a Roma anche i temuti antagonisti, l’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone, l’ex capo della Dda e per un periodo suo successore, Michele Prestipino, e il poliziotto che li affiancava anche nelle inchieste reggine: «Dobbiamo stare più quieti... — dicono i boss — sono tutti quelli che combattevano dentro i paesi nostri... Cosoleto, Sinopoli. Tutta la famiglia nostra...maledetti».

Droga, armi, estorsioni, infiltrazioni nell’economia, dal settore ittico alla panificazione, dalla pasticceria al ritiro di pelli e olii esausti riciclando montagne di denaro sono le attività contestate al Locale, all’interno del quale è significativa in particolare la figura di Alvaro, già coinvolto nel 2009 nell’inchiesta sul controllo del Cafè De Paris di via Veneto. Leali e rispettosi i rapporti con le altre organizzazioni criminali romane. Costante il confronto con la «casa madre», con l’accortezza però di limitare al minimo i contatti di persona, sfruttando magari occasioni come matrimoni o funerali «durante i quali — si legge negli atti di indagine — si sono svolti incontri fugaci ma risolutivi; nei casi di estrema urgenza, poi, gli incontri sono stati concordati mediante l’intermediazione di ‘messaggeri». Uno stile votato all’inabissarsi, racchiuso in un altra frase di Alvaro ascoltata dagli investigatori durante una cena in un ristorante sulla Tuscolana, poi sequestrato: «Sulla Ferrari non salgo, io sono terra terra...».

Estratto dell'articolo di Alessia Marani per "il Messaggero – Cronaca di Roma" l’1 Dicembre 2022.

Lo psichiatra ti apre la cella. I primi ad averlo capito e ad applicarlo al welfare dell'organizzazione criminale sono stati quelli della Banda della Magliana. Affascinati (in alcuni casi) più che dalle teorie nazifasciste del professore nero Aldo Semerari alle sue doti di abile conoscitore della mente e del comportamento umano, al punto di stilare perfette perizie per attestare la totale incapacità di intendere e di volere. Quanto basta per uscire dal carcere.

Diciamolo subito, Semerari non fece una bella fine: venne ritrovato decapitato per mano della Camorra nel bagagliaio della sua auto il primo aprile del 1982. Stesso giorno in cui venne trovata morta nella sua abitazione romana la sua collaboratrice Maria Fiorella Carraro che si sparò in bocca con una 357 magnum in circostanze definite da qualche inquirente più che ambigue. Chissà quali segreti sono stati messi a tacere per sempre insieme con loro: amen.

A dire il vero, Semerari prima che con i bravi ragazzi della Magliana strinse contatti con i marsigliesi e, soprattutto, fu consulente nei processi a carico di mafiosi e di camorristi della cosiddetta Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.

Ma ormai nella banda di Abbatino & Co. era diventata prassi ricorrere alle perizie psichiatriche e mediche in genere per ottenere benefici di ogni tipo. Enrico De Pedis, Renatino, si fece fare una diagnosi di un falso tumore, lo stesso Crispino (Abbatino) ottenne l'invalidità civile e si finse addirittura paralitico. Si fece ricoverare per un tumore osseo avanzato, diagnosticatogli dai medici di Regina Coeli, ottenendo gli arresti ospedalieri senza il bisogno di essere piantonato, tanto non poteva muoversi, costretto sulla sedia a rotelle.

Circostanza che non gli impedì nel dicembre dell'86 di architettare con l'aiuto del fratello Roberto un'evasione da manuale dalla clinica Villa Gina nei pressi dell'Eur da cui, come raccontò agli inquirenti una volta pentito, «uscii con le mie gambe». L'operaietto Edoardo Toscano, freddato a Ostia nella guerra di vendette incrociate il 16 marzo dell'89, per l'omicidio di Nicolino Selis si fece riconoscere il vizio parziale di mente. (...)

Il metodo Magliana non sembra, però, tramontato nei decenni successivi. Anzi. Michele Senese O' Pazz inviato dalla Nuova Famiglia a fare fuori i cutuliani a Roma, dalla sua casa al Tuscolano ha fatto scuola: il carcere lo ha scampato più volte grazie alle numerose perizie psichiatriche, dalla dubbia veridicità, che lo indicano affetto da epilessia e schizofrenia. E siccome «a Roma comanda tutto lui o quasi», come ripetuto in più atti di indagine, il welfare criminale delle batterie del narcotraffico continua a bussare alla porta di studi medici e centri specializzati in cerca di certificazioni utili affinando la tecnica.

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per "Il Messaggero – Cronaca di Roma" l’1 Dicembre 2022.

Le comunità di recupero per tossicodipendenti sono diventate un vero e proprio salvacondotto per uscire di galera. I criminali romani che contano lo sanno bene e stanno sfruttando a loro favore questa falla nel sistema. La Procura capitolina ha aperto un'inchiesta, con più di un pm a lavoro per far luce sulla rete di compiacenze su cui possono contare i detenuti: analisti, psichiatri, medici e titolari di alcune comunità terapeutiche. […]

Oltre 20 boss negli ultimi anni sono riusciti a ottenere di scontare gli arresti domiciliari in queste strutture: la scelta, guarda caso, ricade sempre su tre o quattro. E così si ritrovano sotto lo stesso tetto, liberi di stringere nuove alleanze o ricostituire sodalizi che le indagini dell'Arma, Mobile e della Finanza avevano faticosamente smantellato. Molti di loro non solo non hanno mai sniffato cocaina, ma sono dei salutisti. Riescono comunque a farsi certificare una presunta tossicodipendenza, sulla base di analisi cliniche e perizie spesso truccate. Non tutti i detenuti possono permettersi di pagare la retta, eppure questi narcos, non si sa con quali entrate, versano in contanti fino a 2.300 euro al mese.

La comunità Il Merro di Palestrina è di gran lunga quella più gettonata dai criminali di un certo calibro. Ci sono stati Ferruccio, Antonietta e Christian Casamonica, alcuni esponenti del clan Moccia, Salvatore Esposito e Marco Esposito, detto Barboncino, che lì dentro è morto a marzo scorso. Dal 25 giugno 2015 al 17 marzo del 2016 la struttura ha ospitato Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik e il cugino della moglie Carlo Tocca.

Anche il gruppo degli albanesi ha frequentato il centro: Arben Zogu e Massimiliano Rasori; e ancora, Manolo Monterisi, Romano Malagisi, Giovanni Novelli, Danilo Macrì, Giancarlo Tei, Mirko Calì. I primi di agosto il narcotrafficante Ugo Di Giovanni, già arrestato nel 2020 con il boss Michele Senese, O pazz, è stato colpito da una nuova misura cautelare e condotto nel carcere di Velletri […]

Alla guida di questa struttura c'è Francesca Di Paolo, figlia di Luigi di Paolo, un ex infermiere del carcere di Regina Coeli finito nel 2011 in una inchiesta sui maltrattamenti ai detenuti, indagato per avere fatto parte della «squadretta» che si vantava delle violenze fisiche e psicologiche ai detenuti. […]

L'albanese Dorian Petoku, ex socio in affari di Diabolik, che insieme a Salvatore Casamonica e Tomislav Pavlovic aveva cercato di importare dal Brasile in Italia 7 tonnellate di cocaina, di recente è uscito di galera proprio sulla base di una perizia che ne attesta la tossicodipendenza.

La Procura di Roma aveva dato 4 pareri negativi, ma il gip Paolo Andrea Taviano ha disposto per lui il ricovero nel centro di recupero Punto linea verde onlus, a Morlupo, con braccialetto elettronico. Peccato che nel frattempo, a metà ottobre, questa comunità sia stata chiusa su ordinanza del sindaco dopo una serie di controlli effettuati anche dai carabinieri che hanno attestato la mancanza dei presupposti amministrativi.

A gestirla c'era Sofia Carla Machado Alves Moreira, una 55enne dell'Angola con precedenti penali proprio per associazione finalizzata al traffico di droga. Nell'ultimo periodo nei confronti della comunità avrebbero chiesto asilo anche famiglie calabresi sempre più potenti nella zona della Tiberina. Qui si erano conosciuti anche Raul Esteban Calderon, il presunto killer di Piscitelli e la sua compagna Rina. Mentre a Villa Lauricella avevano stretto conoscenza Raul e Fabietti, braccio destro del Diablo.

Petoku è stato quindi portato in un'altra struttura gestita dalla stessa onlus, Il Rifugio, a Sessa Aurunca, in provincia di Caserta. Nel provvedimento il giudice spiega che non ha avuto comportamenti censurabili nel corso della detenzione e che i suoi tessuti piliferi confermano l'assunzione di cocaina. Ma, considerato che è da tre anni in carcere (due in Albania e uno in Italia), non si comprende come dopo tutto questo tempo ci sia ancora traccia di droga nei tessuti. A meno che non ne abbia continuato l'assunzione anche dietro le sbarre e - in questo caso - sarebbe un comportamento quanto meno censurabile. […]

Le organizzazioni malavitose capitoline avrebbero ottimi agganci anche in altre regioni, specie nel Centro Italia, in Umbria e in Toscana. Il primo psichiatra a essere finito sul registro degli indagati è Andrea Pacileo, in servizio all'ospedale San Giovanni, accusato di corruzione, falso e procurata evasione. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, era a libro paga di Elvis Demce, il 36enne albanese capace di importare grossi quantitativi di cocaina. Proprio sulla base di alcune delle consulenze psichiatriche fatte da Pacileo, Demce ha chiesto durante il processo di essere assegnato a una comunità di recupero in quanto parzialmente incapace di intendere e di volere.

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino e Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – Roma” il 3 Novembre 2022.

Un illustre medico al servizio di un potente boss albanese. È successo a Roma. È successo all'ospedale San Giovanni. Andrea Pacileo, rinomato professionista, ha prescritto consulenze truccate a favore di Elvis Demce, alto ufficiale del crimine. Il dirigente medico e psichiatra è stato sul libro paga di uno dei più temuti capi della mala dell'Est insediata nella Capitale. Le sue perizie servivano a farlo evadere dai domiciliari. Questa la tesi degli inquirenti. Il dottore, adesso, è accusato di falso, corruzione e procurata evasione. Il 24 ottobre il suo ufficio è stato perquisito […] 

Perizie e visite mediche firmate dal camice bianco sono state redatte e richieste solo per agevolare Demce, per permettergli di allontanarsi dagli arresti e di incontrare chi voleva.

In altre parole l'ospedale San Giovanni di Roma […] sarebbe stato utilizzato dal criminale albanese per aggirare le disposizioni del tribunale e per parlare in un luogo sicuro, lontano da occhi indiscreti. In cambio, dicono gli investigatori, Demce avrebbe pagato le visite spendendo circa 300 euro per ogni incontro. […]

Estratto dell’articolo di A.O. per “la Repubblica – Roma” il 3 Novembre 2022. 

Il socio del boss Michele Senese, il suo protetto, il figlio di un suo alleato e anche lo scagnozzo di un'altra organizzazione criminale. Sono diversi i pazienti che nel tempo hanno avuto a che fare con il dottor Andrea Pacileo e molti hanno orbitato nel mondo di Michele ' O pazz, soprannome rimediato per via delle numerose perizie psichiatriche dalla dubbia veridicità, grazie alle quali ha più volte scampato il carcere.

[…] molti pregiudicati hanno bussato alla porta del medico in servizio all'ospedale San Giovanni. Lo ha fatto il boss albanese Elvis Demce, per allontanarsi dai domiciliari, dall'abitazione in cui secondo i pm Mario Palazzi e Francesco Cascini riceveva comunque numerose persone, anche qualche familiare di Fabrizio Piscitelli, il leader degli Irriducibili della Lazio ucciso con un colpo in testa al Parco degli Acquedotti, il 7 agosto del 2019 […] Anche Diabolik, come Demce, era stato in cura dal dottor Pacileo. L'elenco dei pazienti è lungo.

C'è Ugo di Giovanni, napoletano trapiantato a Roma, che dalla comunità continuava a gestire la sua importante piazza di spaccio. […] era entrato in carcere nel dicembre del 2020. Appena un mese dopo però, sulla scorta di una cartella clinica, aveva beneficiato di un provvedimento emesso dal tribunale di Roma: braccialetto alla caviglia e stanza riservata in una comunità terapeutica di Palestrina per il recupero di tossicodipendenti. […] 

Anche Alessio Lori, "Il Chiappa", uno degli scagnozzi di Demce, sarebbe stato periziato dal dottor Pacileo. Aveva smesso di mangiare, stava male e gli investigatori non credono fosse una messa in scena. […]

Estratto dell’articolo di A.O. per “la Repubblica – Roma” il 3 Novembre 2022. 

Demce parla delle diagnosi da comprare e di come truccare le analisi con la coca

In tasca ha un certificato che lo descrive come «bipolare, schizofrenico, paranoico, sociopatico, auto e etero lesionista» , ma ambisce a completare il quadro: « Voglio fa pure tossico e alcolista» , dice il boss albanese Elvis Demce mentre sceglie quale diagnosi comprare, anche se dovesse costare «mezzo sacco... 1.000 euro al mese... pero c'hai il culo coperto», rivela in chat. 

Ne parla nel dicembre 2020 con l'ex calciatore Alessandro Corvesi. […] «Comincia a segnarti al Sert come tossico, ad oggi è l'unica cosa che te fa risparmia galera», suggerisce l'amico al capo. Ma è con Massimiliano Rasori, personaggio di spicco della criminalità romana, che viene elaborato il piano.

«Do ‘na botta me faccio mezza grappa a sera e a mattina je vado a piscia» , decide Demce. «[…] L'albanese è un esperto: «Io al carcere de Tolmezzo ho dato 3.000 euro a guardie che quando stava de turno ho simulato l'impiccagione», ricorda. […] Tuttavia Demce deve gestire una grande azienda criminale, e «mica posso pippa e beve tutti i lunedì per un mese», riflette. Quindi la soluzione: «Prendi mezzo grammo di coca e quando vai a pisciare al Sert te la metti sul dito e te pisci sopra al dito poi con il dito mescoli, chiudi, ti lavi le mani e glielo dai, così è perfetto» . […]

Luca Monaco per “la Repubblica - Edizione Roma” l'1 agosto 2022.

Ci sono il capo albanese della nuova criminalità romana Elvis Demce e l'ex calciatore delle giovanili della Lazio Alessandro Corvesi, alle spalle una love story con la showgirl Antonella Mosetti al centro dell'indagine conclusa dai carabinieri del nucleo investigativo di Ostia e che ha portato all'esecuzione di cinque misure di custodia cautelare in carcere disposte dal gip Andrea Fanelli su richiesta dei sostituti procuratori di Roma Mario Palazzi e Francesco Cascini.

Quattro persone, tra i quali Demce e Corvesi, sono accusati di tentato omicidio e una di estorsione. «Perché questo lo mannamo a giocà a briscola e tresette co' San Pietro». E "San Pietro" è Matteo Costacurta, un romano di 38 anni: l'uomo incaricato di eseguire l'omicidio di Alessio Marzani, ora indagato per estorsione. Proprio Marzani, 45 anni, il 22 ottobre del 2022 era stato vittima di un agguato in via Leonardi, ad Acilia.

Due sicari a bordo di un Sh, tra i quali Costacurta ( l'altro non è stato individuato ancora) lo affiancano mentre Marzani pedala in bicicletta, gli scaricano addosso due colpi di pistola, colpendolo sulla parte sinistra del petto e al braccio. La vittima si rifugia dentro a un palazzo.

Un residente gli apre la porta, mentre un vicino chiama i carabinieri dicendo di aver sentito degli spari. I militari trovano Marzani ferito: verrà operato al San Camillo, dimesso con 45 giorni di prognosi. 

Da quel tentato omicidio parte l'indagine dei carabinieri che ha portato all'esecuzione delle cinque misure di custodia cautelare. Gallarello si rivolge infatti a Demce e Corvesi, mettendo sul piatto 45mila euro per assoldare un sicario che uccida Marzani., che pretendeva mille euro al mese ( per un totale di circa 40.000 euro), come risarcimento e mantenimento, probabilmente perché aveva custodito la droga per conto di altre persone.

Le indagini dei militari di Ostia, anche tramite le intercettazioni. avviate a seguito del tentato omicidio, hanno riavvolto il nastro di tutta la storia, dimostrando che il mandante era la vittima dell'estorsione. Secondo l'accusa Gallarello consegna 15mila euro a Demce affinché gli individui una coppia di killer affidabili, capaci di uccidere il nemico. 

L'albanese individua Matteo Costacurta e un'altra persona rimasta ancora anonima che il 22 ottobre di due anni fa, salgono a bordo di un Sh nero e tentato di uccidere Marzano. I due killer pianificano l'agguato proprio insieme a Demce nei dettagli: dalle tempistiche ai mezzi di utilizzare. Nonostante il blitz sia stato pianificato nel dettaglio Marzani si salva.

Estratto dell'articolo di Camilla Mozzetti per "Il Messaggero" l'1 agosto 2022.

L’uomo dei cavalli, con la passione per il polo e le proprietà nell’Olgiata super-chic[…]. Una casa da abitare a Roma Nord, le feste giuste da vivere in estate a Porto Cervo. Il profilo è quello di un uomo fortunato, economicamente protetto (almeno all’apparenza), interessante, ma dalle passioni, si direbbe senz’altro, insane. […] un uomo, con i suoi “credo”, che uccide su commissione, a sangue freddo. «Non vedo l’ora di portare a termine l’incarico». 

 Si fomenta così Matteo Costacurta, classe 1984, quando Alessandro Corvesi, il sodale di Elvis Demce - uno degli albanesi che ha scalato la criminalità romana - gli fa vedere la foto dell’uomo che deve essere ammazzato.

[…] Costacurta, passato ombrato nonostante la vita da copertina, con frequentazioni nell’estrema destra e in quella Roma che un tempo fu il “fortino” di Massimo Carminati e poi di Fabrizio Piscitelli. Il killer non lo fa per professione ma come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Andrea Fanelli mostra «una malvagità che appare addirittura trascendere le finalità economiche della propria attività criminale». 

[…] Soprannominato il “principe” per via delle sue origini nobiliari. Quando Corvesi gli fa vedere la foto di Marzani, il “principe” commenta così: «ha una grandissima faccia di m....», «Durerà poco».[…] Ma quello che colpisce di più è la vita del “principe”. Pur legato agli ambienti di una mala specifica - quella di Demce e probabilmente anche di Piscitelli, considerati i rapporti tra l’albanese e Diabolik - Costacurta non ha apparentemente necessità economiche tali da macchiarsi di un omicidio. 

È figlio unico, suo padre appartiene ad una famiglia nobiliare, lui abita a Roma Nord, è titolare di un bed&breakfast che dista un chilometro appena dalla Basilica di San Pietro, è amministratore di una società chiamata “Polo” e in base alla consultazione del portale Info-Camere gli inquirenti hanno accertato che Costacurta - è scritto nell’ordinanza del gip - risulta «socio-titolare della Roma Polo Club» che si occupa della «promozione ed esecuzione dello sport dilettantistico e del gioco del polo».

Uno dei circoli più esclusivi della Capitale e tra i più antichi d’Italia. Inoltre possiede a Roma diversi appartamenti tra cui alcuni all’Olgiata. Il valore complessivo? Superiore al milione di euro[..]. Nel suo trascorso, frequentazioni di estrema destra a parte, si contano due condanne definitive per detenzione illegale di armi e munizioni (un anno e 6 mesi) e per lesioni personali dolose e danneggiamento (2 anni e 8 mesi con rito abbreviato). 

Demce parlando del “principe” con un uomo non meglio identificato ipotizza che abbia difficoltà economiche e che la vita patinata sia soltanto una copertura: «Qualcosa gli manca per davvero se davvero è così gli manca qualcosa davvero eh. Ce l’ha qualche problema serio». Dei cinque protagonisti, quattro sono accusati di tentato omicidio e uno di estorsione.

Pierangelo Sapegno per “la Stampa” il 2 agosto 2022.

Uccidere a Roma è facile, cosa vuoi che sia. È così che è diventata Roma. Al «Principe», Matteo Costacurta, gli fan vedere la foto di Alessio Marzani, quello che devono far fuori, e lui fa una smorfia: «Ha una grandissima faccia di m... Durerà poco». Ci devi pensare tu, gli dicono. Nessun problema: «Non vedo l'ora di portare a termine l'incarico». 

Matteo lo chiamano «Il Principe», perché suo padre è un nobile veneto di discendenza importante, è figlio unico, ha il sangue blu ed è pieno di soldi, abita a Roma Nord, possiede un mucchio di case, alcune delle quali all'Olgiata, e un B&B a due passi da San Pietro, è amministratore di una società chiamata Polo, socio titolare dell'esclusivo Roma Polo Club, frequenta le terrazze bene e i Vip a Porto Cervo.

Perché mai deve mettersi a fare il killer? Nell'ordinanza firmata dal gip Andrea Fanelli gli viene rinfacciata «una malvagità che pare addirittura trascendere le finalità economiche della propria azione criminale». 

Ma il Principe è venuto su negli ambienti di estrema destra e nel fortino di Massimo Carminati, «er cecato», con il mito degli eroi di guerra e se non c'è una guerra la si fa. Poi valla a capire com' è cambiata Roma e la sua mala.

Chi vuole l'eliminazione di Marzani è un piccolo boss della droga, Daniele Gallarello, che deve pagargli 40mila euro perché quello ha nascosto una partita, s' è fatto il gabbio e non l'ha denunciato, ma lui preferisce sborsarne 45 mila, che sono quelli che gli chiede Elvis Demce, per toglierselo dai piedi. 

Elvis Demce, uno che pare un buzzagro se lo vedi, è l'albanese che vuole diventare il padrone della capitale e sogna l'alleanza con gli eredi di Escobar. Bisogna chiedere a lui se vuoi far fuori qualcuno. Il suo socio è Alessandro Corvesi, un nero che bazzica le memorie di Mussolini, ex giocatore nelle giovanili della Lazio, una love story con la show girl Antonella Mosetti e le stesse frequentazioni di Costacurta.

Per questo suggerisce subito il suo nome al capo per far fuori 'sto Marzani: «Lo mannamo a giocà a briscola e tresette co' San Pietro». Lo chiamano anche così il Principe, San Pietro, per via del bed&breakfast che possiede lì vicino. Quando lo conosce, Elvis lo catechizza subito: «Qualcosa gli manca per davvero se davvero è così, gli manca qualcosa davvero, eh. Ce l'ha qualche problema serio». Proprio lui.

La verità è che sono tutti uguali, in questa città che ha fatto la storia e che è rimasta con i suoi brandelli e il suo mondo di mezzo, «i vivi sopra, i morti sotto e noi in mezzo, un posto dove tutti si incontrano». 

È dalla banda della Magliana che Roma racconta questo romanzo criminale e che è diventata così. Adesso, Elvis non si accontenta più di essere il boss: «Io sono il Dio», dice. «Qua c'è solo una chiesa. Qui pure i sampietrini sono nostri». Il suo mito è Raffaele Cutolo, «'sto grande uomo», che ha creato un impero dal niente e diceva che «era meglio morire dietro le sbarre in dignità che tra lusso e infamità». E come don Rafé voleva diventare.

Lui se ne frega dei soldi: anche li avesse, confessa, «mi mancherebbe sempre qualcosa, perché so' criminale dentro, pure co' 100 milioni in giacca e cravatta, sempre bandito rimango». Però quando viene Gallarello e dice che Marzani pretende mille euro al mese da lui, un vitalizio, capito?, e che s' è fatto arrogante e non lo sopporta più, Elvis gliene chiede 45mila sull'unghia: 5 sono per le spese, 20 per chi guida la moto e gli altri per chi spara.

Va bene, nessun problema, risponde Gallarello. Ma perché uno che ha di suo tutti quei milioni vuole diventare un assassino per ventimila euro? Sulla pagina Facebook di Matteo Costacurta qualcuno ha lasciato scritto una canzone di De Gregori, che non si capisce bene se è un commento o è per vanto: «C'è chi uccide per rubare, chi uccide per amore. Il cacciatore uccide sempre per giocare. Io uccido per essere il migliore». 

Il 20 ottobre del 2020 entra in azione dopo aver preparato con i mandanti l'agguato nei dettagli. Alessio Marzani, 46 anni, quello che vuole farsi rimborsare il suo anno al gabbio e «sta a fà li botti», se ne va in bicicletta per una via di Acilia. Due sicari, a bordo di un «Sh» nero, gli si avvicinano mettendosi al suo fianco. Il killer spara due colpi di pistola: uno lo raggiunge al petto, a pochi centimetri dal cuore, e l'altro al braccio sinistro. Marzani cade in terra, ma si rialza e scappa dentro a un palazzo, chiedendo aiuto.

Un residente gli apre la porta e lo nasconde. Poi chiama il 112. I due sicari sono scappati. Ma i carabinieri ripartono da lì per tornare indietro e ricostruire questo nuovo romanzo criminale. E risalgono al Principe, già accusato di associazione per delinquere e rapina, ritrovato ai margini delle carte di Mafia Capitale, e molto vicino a Luigi Ciavardini, ex Nar condannato per la strage di Bologna. «Il Principe, chi? Matteo?», chiede un amico a Elvis, il dio. Demce ha finito per legarsi a questo nobile con la passione del killer. Sì, lui, risponde fieramente. E l'altro non ci crede: «Ma che stai a dì, quello era uno fuori di testa... Fa le rivoluzioni. Un folle». Storie di Roma. Oggi. 

Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 2 agosto 2022.

«Ma il Principe chi, Matteo?» è la domanda rivolta da un amico al boss della criminalità emergente Elvis Demce. Si parla di Matteo Costacurta e subito affiorano precedenti e pedigree nobiliare. Perché Costacurta (noto nell’ambiente con l’altro nomignolo di San Pietro) non è un personaggio secondario. E il suo coinvolgimento nel tentato omicidio del piccolo pregiudicato Alessio Marzani è solo un altro fotogramma della sua lunga carriera nel mondo della criminalità.

Già accusato di associazione per delinquere, lesioni aggravate, rapina, Costacurta compare tra le carte di Mafia Capitale con frequentazioni nell’ambiente della destra estrema di Massimo Carminati. Investigazioni approfondite lo collocano vicino a Luigi Ciavardini, l’ex Nar condannato come esecutore materiale della strage di Bologna. Ma non disdegna il rapporto con il narcotrafficante ucciso, Fabrizio Piscitelli «Diabolik». 

Costacurta, sposato con una giovane all’apparenza estranea al portato criminale del proprio ambiente («Quella tutta bellina, occhi azzurri, cioè tipo una nobile» sottolinea il solito amico di Demce), gestisce anche un bed and breakfast a Borgo Pio, vicino al Vaticano.

Non manca di strizzare l’occhio all’aristocrazia più tradizionalmente devota agli sport scelti, al punto da risultare titolare della Roma-Polo Club, società dilettantistica dedicata allo sport a cavallo. Figlio unico del veneto Domenico Costacurta e di «donna» Maria Luisa Occhi Ortega, viene reclutato per sparare allo scomodo Marzani alla cifra di 20mila euro. L’agguato andrà a vuoto per un soffio ma cementerà l’amicizia con Demce. 

Proprio quest’ultimo è già in carcere per traffico internazionale di stupefacenti con il peso dell’aggravante mafiosa e deve rispondere anche del progetto di uccidere il magistrato Francesco Cascini che indagava su di lui per un altro omicidio. Le indagini condotte dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Ostia hanno permesso di far affiorare il contesto criminale nel quale è maturato l’ultimo progetto. «Ma che stai a di’ quello era un fuori de testa... Fa le rivoluzioni. Un folle!» diceva l’amico di Demce. Lui, Matteo Costacurta, però sembra avere chiari i propri obiettivi.

Roma, torna in carcere per droga Fabiola Moretti, donna dei boss della banda della Magliana. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.

La donna, prelevata nella sua casa di periferia, deve ancora scontare 9 anni per spaccio di sostanze stupefacenti.  

È stata arrestata per un residuo di cumuli di pena da scontare Fabiola Moretti, donna dei boss della banda della Magliana, da quel Danilo Abbruciati ucciso nel 1982 durante l’agguato al vicepresidente del Banco Ambrosiano (a Milano) al “pentito” Antonio Mancini, nella sua seconda vita autista di pulmini per disabili. Secondo gli investigatori, l’ex “Primula rossa” della gang non ha mai smesso di lavorare nel sottobosco della «mala». I carabinieri della stazione Divino Amore hanno attuato un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti, emesso nei confronti della donna dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma.

I militari hanno raggiunto la donna presso la sua abitazione di via dei Papiri (a Castel di Leva) e l’hanno condotta nel carcere di Rebibbia femminile, dove dovrà scontare un cumulo di pene di nove anni, quattro mesi e 17 giorni di reclusione, per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti in concorso, commesso a Roma continuativamente dal 2014 al 2019. La storia di Fabiola Moretti ha avuto notorietà grazie anche al film «Romanzo criminale» di Stefano Sollima: a lei è infatti ispirato il personaggio di Donatella Caviati.

L’arresto di oggi è l’ultimo di una lunga serie. Nella precedente operazione dei carabinieri insieme alla Moretti era stata arrestata Nefertari Mancini, la figlia avuta dall’ex boss. E, a proposito delle dichiarazioni del padre di sua figlia sul coinvolgimento della banda della Magliana nel sequestro di Emanuela Orlandi (oggi tornato d’attualità con la scoperta del furto della bara di Katy Skerl), era stata piuttosto scettica. Contattata da un cronista del Corriere dopo la morte della vedova De Pedis, la «donna dei capi» aveva invitato a non prendersela con il suo amico di vecchia data «Renatino», assassinato a Campo de’ Fiori il 2 febbraio 1990 (qui un servizio di Fabrizio Peronaci a 30 anni dalla morte) e a lasciare «riposare in pace» il boss defunto.

Il messaggio WhatsApp del maggio 2020 della primula rossa della banda della Magliana, all’indomani della morte della vedova del boss. «Su Renatino scritte cose squallide. Fateli riposare in pace...»

Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.  CorriereTv

Era il maggio 2020, neanche due anni fa. In quelle ore i giornali avevano dato notizia della morte per malattia di Carla De Pedis, la vedova di «Renatino», indiscusso boss della banda della Magliana. E lei, Fabiola Moretti, a quel tempo a piede libero (è stata arrestata oggi 10 gennaio 2022 per droga), in nome delle lontane amicizie non aveva resistito e si era fatta sentire. Voce rauca, marcato accento romanesco: «Signor Fabrizio, mi ascolti bene...» Un cronista di nera parla con tutti, il suo telefono gira. Figurarsi se lei, donna di carattere, la «primula rossa» della «bandaccia», ex compagna sia di quel Danilo Abbruciati freddato durante l’agguato al vicepresidente dell’Ambrosiano nel 1982 sia dell’«Accattone» Antonio Mancini, dal quale ha avuto una figlia, avrebbe faticato a rintracciare un numero di cellulare. La mattina del 13 maggio 2020, così, mi arrivò via WhatsApp il suo audio-messaggio. L’articolo sulla morte di Carla De Pedis doveva averla indispettita... «Senta, sono la signora Moretti...» E subito dopo andava al dunque: voleva onorare la memoria di Carla, la vedova appena defunta, e soprattutto dell’amico di un tempo detronizzato giovanissimo (De Pedis fu ucciso nel 1990, a soli 36 anni, a due passi da Campo de’ Fiori, in una delle tante faide interne alla banda della Magliana). «Ascolti - diceva la Moretti - su Renatino sono state scritte le cose più squallide del mondo... oserei dire... la categoria non la voglio offendere, perché anche lei ci appartiene... Ma ora che so’ morti finalmente tutti e due - concludeva - lasciamoli dormire in pace». Tono deciso. Inflessione verace, da testaccina doc, come lo era stato il boss. Fabiola però in quella chiamata non era arrabbiata: solo amareggiata. L’amarezza di chi un tempo si era sentita potente, venerata, protagonista di una saga criminale senza precedenti, e adesso, pur continuando a «sgarrare», come dimostra l’ultimo ed ennesimo arresto per traffico di stupefacenti, si sentiva rassegnata, sconfitta, destinata all’oblio... 

Estratto dell'articolo di Raffaella Troili per “il Messaggero” il 29 luglio 2022.

Il vizietto non l'ha mai perso. Anzi, l'ex primula rossa della banda della Magliana, Fabiola Moretti, ora soprannominata Zia, nel suo fortino dello spaccio nella periferia sud della capitale, si vantava «quando mi muovo io è tutto apposto» e «io sono entrata con 70 grammi nella Questura e sono uscita». 

Per l'ex compagna del boss Antonio Mancini, passato alle cronache con l'appellativo di Accattone si aprono davvero le porte del carcere questa volta, la pena è di 9 anni e 4 mesi, oltre a 60mila euro di multa. I carabinieri della Stazione Roma Divino Amore hanno dato esecuzione ad un provvedimento di cumulo pene emesso il primo luglio scorso dalla Procura di Roma, ufficio esecuzioni penali.

I carabinieri hanno prelevato la Moretti, 67enne, nella sua casa in via dei Papiri e condotta nel carcere di Rebibbia. La condanna da scontare è legata allo spaccio di sostanze stupefacenti in concorso commesso a Roma dal 2014 al 2019. Altri reati sono ancora pendenti, per la donna che ha fatto parte della banda che per anni ha gestito il traffico di stupefacenti e insanguinato la capitale tra gli anni 70 e gli anni 80 e che provò anche ad accoltellare il fidanzato della figlia. 

Di fatto, lei non ha mai smesso, entrando e uscendo dal carcere, spregiudicata e nota al grande pubblico anche grazie alla serie tv Romanzo Criminale, dove ha ispirato il personaggio di Donatella Caviati. Amante di Danilo Abbruciati - il camaleonte - la Moretti è protagonista di spicco della banda della Magliana dall'inizio. Quando Abbruciati viene ucciso a Milano nell'aprile 1982 legata da una grande amicizia con Enrico De Pedis, si unisce a un altro componente del sodalizio criminale, l'Accattone. Più tardi, per anni, come lui collaborerà all'inchiesta sulla banda.

A lungo negli anni 90 è stata la grande accusatrice dell'ex senatore Claudio Vitalone nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio di Mino Pecorelli («è stato uno dei mandanti»). Il suo nome è legato anche all'inchiesta sul sequestro di Emanuela Orlandi nel giugno dell'83: grazie a lei, gli inquirenti sono arrivati a Sergio Virtù, ex autista di Renatino De Pedis, considerato uno degli autori materiali del sequestro rimasto irrisolto. (...)

Mafia capitale è l’alleanza  ‘ndrangheta - camorra: bombe, politica e massoneria. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 06 giugno 2022

Omicidi, vittime intimidite con armi da guerra, ritorsioni. Le due mafie oggi più potenti a Roma e nel Lazio hanno stretto un patto. Ecco chi comanda e chi sono i complici, tra politica, imprese e massoneria 

Omicidi, vittime intimidite con armi da guerra, ritorsioni. Le due mafie oggi più potenti a Roma e nel Lazio hanno stretto un patto. Nuovi documenti investigativi rivelano strategie, accordi, chi comanda e chi sono i complici, tra politica, imprese e massoneria.

il patto di ferro sancito dalle due mafie, che qui nella città dei palazzi del potere è diventata una cosa sola: cooperano nei traffici, condividono business, usano stessi canali per il riciclaggio e per gli investimenti finanziari legali. E poi ci sono gli appalti, anche per lo smaltimento della spazzatura, come racconta un pentito.

Non mancano le interferenze nelle campagne elettorale, i voti offerti ai candidati sindaci dei paesi limitrofi alla capitale, gli incontri  e i favori chiesti a senatori da imprenditori collusi con entrambe le organizzazioni.

La ‘ndrangheta nel Lazio e la campagna elettorale per l’uomo di Durigon a Latina. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani l'08 giugno 2022

Sergio Gangemi è un imprenditore sul cui conto c’è molto da raccontare. È uomo d’azione, organizzatore di spedizioni punitive. Ma è anche soprattutto custode di relazioni con l’imprenditoria, la finanza e la politica.

Durigon è il ras del movimento nel Lazio, nel cerchio magico di Salvini nonostante i sospetti sulla sua campagna elettorale delle politiche del 2018 cui hanno contribuito due personaggi di Latina poi indagati in inchieste che hanno sfiorato il clan Di Silvio.

Tra i collaboratori che hanno fatto da prestanome di Gangemi c’era anche Di Marcantonio, l’ex sindacalista portato da Durigon nell’Ugl, che secondo il pentito avrebbe sostenuto la campagna del leghista Fanti nel 2016

Estratto dell'articolo di Alessia Marani per “il Messaggero” il 3 novembre 2022.

L'argentino Raul Esteban Calderon, detto Francisco, avrebbe ucciso Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, per trecentomila euro e i soldi li avrebbe tenuti nascosti ai piedi del letto della figlioletta dietro al battiscopa della cameretta. È il suo amico Amleto T. (non indagato), intercettato dalla Squadra Mobile grazie a un virus trojan inserito nel suo telefonino a dirsi convinto che sia stato proprio Francisco ad avere sparato al Diablo il 7 agosto del 2019 sulla panchina del Parco degli Acquedotti. 

Lo riconosce anche nei frame delle immagini riprese dalla telecamera di via Lemonia e pubblicate sui giornali in cui viene inquadrato il killer in fuga: «Dalle movenze... co' quella magliettina... a me pare proprio lui.. er modo...». Non solo: lo indica come «avido» per non avere voluto dividere il denaro con altri «per fare il signore lui... ha voluto fa' a vita.. almeno avesse sistemato quarcuno». (...) 

TELEFONI SILENZIATI Domani nell'aula bunker di Rebibbia, ci sarà l'udienza preliminare per decidere sul rinvio a giudizio chiesto dalla Procura del presunto killer, accusato, con Enrico Bennato e Giuseppe Molisso, anche della morte di Selavdi Shehaj ucciso in spiaggia a Torvaianica il 20 settembre del 2020. I due procedimenti sono stati uniti. Secondo l'ex compagna di Francisco a scatenare la rappresaglia contro Diabolik sarebbe stato lo scontro tra il gruppo del Diablo e quello di Leandro Bennato, fratello di Enrico, entrambi nipoti del boss di Primavalle Walter Domizi. 

A proposito di Leandro, la Mobile alla ricerca di tracce per ricostruire i movimenti di personaggi che potrebbero avere avuto ruoli nella vicenda, annota che il 7 agosto del 2019, giorno della morte di Piscitelli, non c'è alcun tipo di traffico che possa geolocalizzarlo; l'ultima chiamata precedente è del 26 luglio e il telefono non tornerà a parlare se non il 17 settembre. Uno strano silenzio?

Tanti i punti ancora da cristallizzare nell'inchiesta. Innanzitutto manca la cosiddetta pistola fumante. 

IL VIDEO E LA PISTOLA L'arma del delitto non è stata mai ritrovata. E secondo una perizia della difesa di Calderon (la stessa di Enrico Bennato) non sarebbe del tipo indicato dagli inquirenti, ovvero corrispondente a quella sottratta all'ex compagna dell'argentino. Inoltre, una consulenza tecnica svolta sul video che riprende gli autori dell'omicidio dell'albanese, fornirebbe una ricostruzione del fatto diversa rispetto a quella narrata da Enrico Bennato, il quale, dimostrano i tabulati dei telefoni in suo uso, sempre stando alla difesa, non era neppure a Torvaianica il giorno e nell'orario dell'omicidio.

Tre arresti per l’omicidio di Torvaianica. Legato all’esecuzione di «Diabolik». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 4 Agosto 2022.

«Meglio di un’automatica. Non si blocca, fidate. Sembra un giocattolo... giocattolo che fa pulizia e toglie il sentimento» commentano in chat (la crittografata Sky ecc) due uomini. Si parla della «7,65 a tamburo» utilizzata per far fuori con un blitz scenografico l’albanese Selavdi Shehaj, «Simone», sulla spiaggia di Torvaianica, il 20 settembre 2020 e la conversazione permette di ricostruire un altro pezzo di storia del narcotraffico romano in seguito all’omicidio di Fabrizio Piscitelli «Diabolik». A scambiarsi messaggi sono il presunto killer argentino di quest’ultimo, Raul Esteban Calderon e Guido Cianfrocca suo possibile complice.

La conclusione è nell’ordinanza di misure cautelari che, mercoledì, ha portato in carcere Cianfrocca ma anche un protagonista della scena criminale cittadina, quel Giuseppe «Barba» Molisso, leale braccio destro di Michele Senese «o’ pazz’» e ritenuto il vero mandante dell’agguato a «Simone». L’accusa, ipotizzata dalla Dda capitolina e corroborata dalle indagini del Nucleo investigativo di via in Selci, è quella di un omicidio in stile mafioso, sanguinosa rivincita per lo schiaffo inferto al socio in affari Leandro Bennato, colpito mesi prima da due proiettili e vivo per un soffio.

Dall’inchiesta emerge un Molisso estremamente pericoloso «come evidenziato dai tre collaboratori di giustizia Diego Refrigeri, Andrea Ronelli e Simone Pinto». Osserva la gip Francesca Ciranna che il luogotenente di Senese «avendo assunto un ruolo predominante nel panorama criminale romano, soprattutto nel settore del narcotraffico, rifornendo stabilmente buona parte delle piazze di spaccio presenti nel quartiere di Tor Bella Monaca, è divenuto persona molto temuta, pericolosa e forte che non ha problemi a ricorrere all’uso della violenza anche attraverso l’utilizzo delle armi da fuoco». É «Barba» a procurare a Calderon l’arma per portare a termine l’omicidio e a spronare Cianfrocca, suo cognato. Mentre è il trentaquattrenne Luca De Rosa a dare una mano nel rintracciare l’indispensabile scooter per muoversi agili nel traffico dopo l’agguato. Un contributo sanzionato con una misura più lieve (l’obbligo di firma) sebbene De Luca dialoghi con gli altri su un piano paritario, inviando, tra l’altro, selfie a Molisso nella chat.

É un fatto che in seguito all’omicidio di «Diabolik» al parco degli Acquedotti a Roma si è tornati a sparare. Riposizionamento dei gruppi in seguito alla scomparsa di un capo carismatico? É possibile. Il fatto poi che tra i criptati interlocutori attivi su Sky ecc compaia anche il giovane albanese Elvis Demce, a colloquio con Molisso, aiuta a pesare ulteriormente la figura di quest’ultimo. Motivante alla maniera di un capo:«Sei un grande amico mio» si complimenta con Calderon dopo l’agguato.

Fabrizio Piscitelli “Diabolik”, un nuovo tassello: ecco chi ha voluto la sua morte. Dall’indagine sui mandanti dell’omicidio di Selavdi Shehaj, la trama degli interessi dietro la scia di delitti che insanguina la Capitale. Il riassetto dei clan sotto l’egida di Michele Senese. Francesca Fagnani su L'Espresso il 3 Agosto 2022.

L’omicidio di Selavdi Shehaj, alias Simone Passerotto, ucciso a Torvajanica da Raul Esteban Calderon nel settembre del 2020 - lo stesso killer che aveva sparato a Fabrizio Piscitelli l'anno precedente- ora, grazie alle indagini svolte dai Carabinieri del Nucleo investigativo di via in Selci, ha anche dei mandanti: Giuseppe Molisso ed Enrico Bennato, che hanno pianificato tempi e modi dell'omicidio. Le ragioni vanno cercate nella lunga scia di sangue partita dall'omicidio del 7 agosto del 2019, quello di Diabolik, un pezzo da novanta del crimine romano, come del resto lo è Giuseppe Molisso, entrambi cresciuti sotto l'ala protettrice (finché lo è stata) di Michele Senese, il re della camorra a Roma. 

La morte di Piscitelli ha dato il via ad una spirale di vendette che si è conclusa in mezzo alla gente davanti allo stabilimento balneare Bora Bora, con due colpi di una pistola cal. 7,65 browing alla testa dell'albanese Passerotto, colpevole del tentato omicidio a Leandro Bennato, il 14 novembre del 2019. Un agguato probabilmente deciso insieme a Fabrizio Fabietti, il braccio destro del Diablo, per vendicarne la morte.

Da quel giorno, gli uomini di Bennato e della banda degli albanesi di Diabolik decidono che Fabietti deve morire. E sarebbe morto se a salvarlo pochi giorni dopo non fosse stato l'arresto da parte del Gico di Roma della Gdf nell'ambito dell'operazione "Grande raccordo criminale". L'operazione del Nucleo investigativo di Roma oggi rappresenta un altro tassello fondamentale di un puzzle difficile da ricostruire, quello dell'omicidio di Fabrizio Piscitelli, in cui tornano nomi, volti, interessi. L'aver individuato i mandanti dell'omicidio dell'albanese Shehaj fa ipotizzare che la soluzione è vicina anche per quell'omicidio eclatante, definito da subito dal Procuratore Michele Prestipino come "mafioso e non di strada". 

L’ALLEANZA MAFIOSA CHE COMANDA ROMA. “Diabolik” e lo sgarro al boss della ‘ndrangheta prima di essere ucciso. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 07 giugno 2022

Fabrizio Piscitelli, ucciso con un colpo alla testa il 7 agosto 2019 nel parco degli acquedotti a Roma, zona dove comanda tutto un uomo solo e il suo clan, Michele Senese detto il pazzo.

Quello che Domani può ricostruire è la convergenza di interessi del cartello criminale che controlla Roma, camorra e ‘ndrangheta, che ha benedetto la ‘fine’ di Piscitelli. A partire da intercettazioni che spiegano questa convergenza.

«Sta a rompe er cazzo», dice un mammasantissima della mafia calabrese, di stanza sul litorale da decenni.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

LA GRANDE ALLEANZA CRIMINALE. ‘Ndrangheta e camorra, la mafia capitale tra matrimoni faraonici, battesimi e summit ai funerali. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 09 giugno 2022

I boss amano Roma, fanno affari e si sposano. Smoking, Ferrari, rigorosamente rosse, e champagne. I malacarne di camorra e ‘ndrangheta che hanno occupato la capitale, riempiono di bomboniere e fiori le chiese e cantano nei ristoranti allestiti di tutto punto.

L’utilità di ritrovarsi a bivaccare diventa l’occasione per confrontarsi sull’andamento degli affari e costruire il futuro criminale. E così anche ‘la mangiata’ occasionale sostanzia la cosca oltre ai ricoveri ospedalieri e, persino, ai funerali.

Tra gli invitati affiliati, boss e sodali, ma anche imprenditori e un ex dipendente della presidenza del Consiglio dei ministri GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Mafia nella Capitale: quali sono i clan e come agiscono. Alessandro Imperiali l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.

Le famiglie mafiose presenti a Roma e i settori principali dove fanno affari. Dallo spaccio all'immigrazione passando per i carburanti.

La direzione investigativa antimafia (Dia) ha presentato in Parlamento il consueto rapporto sui legami criminali relativo al semestre gennaio-giugno 2021 nella Capitale. Da quanto emerge a Roma non c'è un solo clan. Abbiamo sia i gruppi appartenenti a quelle che una volta erano la Banda della Magliana e la Banda della Marranella. Ci sono quelli autoctoni come i Casamonica e i Gambacurta. E infine, non manca la cosiddetta mafia tradizionale.

Quando si pensa ai mafiosi, tuttavia, va abbandonata l'idea dei gangster violenti col grilletto sempre carico dal momento che tra i criminali pullulano i colletti bianchi e gli imprenditori. Ad accomunare la criminalità romana è il metodo utilizzato: infiltrarsi e contaminare il tessuto economico legale con usura e riciclaggio attraverso relazioni affaristiche imprenditoriali. La pandemia ha lasciato ancora più spazi nel sistema degli affari romani. Lo si legge chiaramente nel rapporto: "I sodalizi mafiosi grazie anche agli stretti rapporti di collaborazione con professionisti e imprenditori compiacenti probabilmente paiono affinare sempre più le proprie capacità di reinvestimento dei proventi illeciti a fini di riciclaggio, evasione ed elusione fiscale". Ciò significa che nel Lazio e in particolare a Roma coesistono sia realtà autoctone che la 'ndrangheta, la camorra, la mafia e la sacra corona unita e che hanno come principale fine infiltrarsi nell'economia della Capitale, possibilmente senza doversi sporcare le mani. Si tratta di una presenza non omogena ma allineata con quella che è la densità abitativa della Regione. Ovviamente le mafie sono maggiormente pervasive nelle aree urbanizzate e caratterizzate "dalla presenza di più significativi scambi economici e commerciali".

Senza dimenticare che Roma resta il centro politico e amministrativo nazionale. Per questo l'essere limitrofi con la Campania è un facilitatore della proiezione delinquenziale di alcune espressioni camorristiche.

Come agiscono Procura e Forze dell'ordine

Come riporta RomaToday il questore di Roma Mario Della Cioppa in merito ha dichiarato: "La situazione complessiva di notevole disagio dell’imprenditoria e degli esercenti le attività commerciali, ha indotto le organizzazioni criminali a penetrare tali settori sfruttando l’oppressione debitoria”. Oltre a implementare il circuito del riciclaggio di denaro illecitamente acquisito con la conseguenza di alimentare anche quello dell’usura. La Procura, insieme alle altre forze di polizia, ha come arma principale di contrasto la confisca dei beni. "Le indagini patrimoniali funzionali all’applicazione delle misure di prevenzione del sequestro e la successiva confisca dei beni illecitamente acquisiti, proprio per stroncare il tentativo della criminalità di incunearsi nei meandri di economie in crisi, ulteriormente espandendo la propria illecita ricchezza in tutte le sue forme".

Inoltre, un altro fattore da non sottovalutare è la presenza delle carceri di Rebibbia e di Viterbo. Questi istituti di internamento ospitano numerosi detenuti sottoposti a regime differenziato. Dal momento che in questi casi i familiari dei colpevoli tendono ad avvicinarsi quanto più possibile, il territorio spesso finisce per essere vittima di infiltrazioni.

Gli affari

La criminalità è fortemente radicata nel tessuto imprenditoriale. A dimostrazione di ciò ci sono alcuni provvedimenti interdittivi antimafia nei confronti di ditte operanti nella gestione di società cooperative agricole, del ciclo dei rifiuti, degli autotrasportatori, delle costruzioni edili, della gestione di strutture alberghiere, della ristorazione e via dicendo.

Senza dimenticare il traffico di sostanze stupefacenti che continua ad essere il principale affare perpetrato dai sodalizi anche grazie agli aeroporti e ai porti presenti nella Regione. In merito si può ricordare l'operazione Manila che ha permesso di smantellare l'unione formata da alcuni soggetti romani e calabresi che per rifornire le piazze romane importavano grandi quantità di droga dal Marocco attraverso la Spagna.

Importanti anche gli interessi legati al gioco d'azzardo lecito e illecito. I legami sono stati dimostrati dal provvedimento di confisca eseguito dalla guardia di finanza e dai carabinieri tra i mesi di dicembre 2020 e gennaio 2021 durante l’inchiesta “Babylonia” (2017-2018) della DDA di Roma. Questa ha squarciato il velo che nascondeva la profonda infiltrazione criminale del settore delle scommesse e della ristorazione nella Capitale. Questo provvedimento ha mostrato come beni con valore pari a circa 300 milioni di euro fossero riconducibili a soggetti contigui alla camorra napoletana, alla criminalità organizzata barese e romana e a frange inquinate dell’imprenditoria della Capitale.

Senza dimenticare che la criminalità è entrata in pianta stabile anche nel mondo dei carburanti. L'operazione Petrol-Mafia spa, conclusa l'8 aprile 2021 dalla guardia di finanza, ha mostrato gli interessi di sodalizi mafiosi di diversa estrazione nel mercato e nella commercializzazione di carburanti e del riciclaggio di centinaia di milioni di euro in società petrolifere intestata a prestanome insospettabili.

In merito, invece, al mondo della prostituzione e dell'immigrazione clandestina va tenuto conto delle organizzazioni albanesi, cinesi, nigeriane, sudamericane, nordafricane e romene. Oltre che a operare nel mondo dello spaccio degli stupefacenti, il principale indotto arriverebbe loro dall'immigrazione clandestina, fonte di sfruttamento della prostituzione e del lavoro nero. In questo ambito non c'è una gerarchia. Sembra come se le organizzazioni operanti sul territorio siano consapevoli della possibilità di agire in autonomia.

I Clan

I gruppi criminali autoctoni principali della Capitale sono i Casamonica, famiglia di origine sinti e rom, per molto tempo sottovalutata e negli ultimi anni colpiti duramente da magistratura e forze dell'ordine con arresti e sequestri di beni. L'ultimo arresto di alcuni di 19 di loro risale al 17 gennaio 2021. Inoltre, nel corso della redazione del documento sono stati qualificati ufficialmente come un'associazione criminale di tipo mafioso. Durante il processo Gramigna del luglio 2018 le condanne nei loro confronti superano i 400 anni di reclusione.

Attivo nella Regione anche il gruppo Gambacurta, presente in particolare nei quartieri Montespaccato, Boccea e Aurelia. Nel 2018 con l'operazione Hampa sono state arrestate 58 persone appartenenti o affiliate alla famiglia. Solo il loro capo ha ricevuto 30 anni di reclusione.

Da open.online il 19 ottobre 2022.

Nel pomeriggio di lunedì 17 ottobre quattro donne della dinastia dei Casamonica hanno scatenato una rissa con la titolare del Rosy Bar in via Pietro Marchisio a Cinecittà est. Il Messaggero racconta che le donne, dai 20 ai 40 anni con due ragazzi, già il sabato precedente avevano lasciato l’esercizio senza pagare il conto. Graziella Crialesi, nel frattempo ricoverata all’ospedale Pertini con sei giorni di prognosi, le ha affrontate davanti al figlio. 

Secondo il racconto del quotidiano è stata un’escalation: prima le offese e le minacce, poi calci e pugni: «Vengono a marcare il territorio, si sentono i padroni». Nell’occasione avevano ordinato caramelle e té: «Un’altra volta avevano preso due birre. Ma è il principio. Non hanno rispetto, quando glielo dici, smettono per qualche giorno e poi ricominciano». 

La donna racconta che le Casamonica avevano preso l’abitudine di usare il bagno dell’esercizio per preparare dosi di stupefacenti da vendere. Stavolta le ha affrontate: «Mi hanno strattonato e dato un calcio per non dire quello che ho sentito uscire dalla loro bocca, gli ho risposto e ho tirato anche io un calcione, sono un’ex pesista del resto e soprattutto: non ho paura». 

Successivamente sono arrivati gli uomini, mentre volavano tavolini e sedie. E le minacce: «Noi siamo i Casamonica, la piazza la gestiamo noi, ti bruciamo il locale, hai finito di vivere, il quartiere è nostro, mentre andavo via con la polizia due piccoletti in motorino mi hanno sputato…». Il giorno dopo la polizia ha pattugliato il bar. Lei non ha intenzione di arrendersi: «Quando sono arrivata mi hanno spiegato che con loro funziona così. Mi dispiace ma non mi va giù».

“No, non pago la protezione”. Barbara Mezzaroma, l’imprenditrice che piega il racket di Ostia. L'Espresso il 21 Marzo 2022.

Al lavoro su un grande cantiere nel litorale romano, la costruttrice ha ricevuto le pressioni del patron dei balneari affinché incontrasse e si mettesse in affari con un padrino che chiedeva mezzo milione di euro. Ma lei denuncia l’estorsione e li fa arrestare.

Rifiuta di piegarsi alle imposizioni del “capo dei capi” di Ostia e lo denuncia ai carabinieri. È un fatto inedito nella Capitale, soprattutto sul litorale, e la protagonista è un’imprenditrice di 49 anni che ha rifiutato di sottostare al ricatto mafioso: le veniva offerta “protezione” per un grande cantiere che sta per aprire a Ostia in cambio del pagamento di 500mila euro.

Mirko Polisano per “Il Messaggero” il 27 marzo 2022.

Fuochi d'artificio per il boss morto. C'è chi ha festeggiato a piazza Gasparri la scomparsa di Marco Esposito, detto Barboncino, il capoclan vicino a Diabolik considerato l'elemento di spicco del gruppo degli Emergenti quelli che volevano sfilare la corona da re dello spaccio dalle teste degli Spada e dei Fasciani. 

E ora gli equilibri di quella pax criminale sul mare di Roma, sancita anche dal summit di Grottaferrata tra Fabrizio Piscitelli El Diablo, capoultrà della Lazio ucciso al parco degli Acquedotti nell'agosto del 2019, e dai Casamonica rischiano di traballare e nuovi scenari potrebbero delinearsi nello scacchiere criminale di Ostia.

È da poco passata la mezzanotte, nel giorno in cui è venuto a mancare - forse stroncato da un infarto - Barboncino e qualcuno a Ostia Nuova festeggia - in stile Gomorra - con i fuochi d’artificio.

Non una novità da queste parti: un messaggio in codice per la criminalità, visto che nel gergo malavitoso vengono esplosi quando arriva un carico di droga da spartirsi, ma anche per arresti eccellenti o quando i proiettili colpiscono i pezzi da novanta. 

Fu così nel 2011, dopo il duplice omicidio di Baficchio e Sorcanera: i cadaveri di Franco Antonini e Giovanni Galleoni erano stati da poco rimossi dal marciapiede di via Forni quando nelle vicinanze partì una batteria di fuochi d’artificio. Era il modo di festeggiare una vittoria degli Spada sulla famiglia dei Baficchi, i nemici di sempre.

Nella notte, tra venerdì e sabato il copione si è ripetuto quando nel quartiere si è appresa la morte di Marco Esposito alias Barboncino, l'amico di Diabolik ma soprattutto il rivale di sempre proprio degli Spada. 

Colui che aveva sfidato gli zingari facendo assaggiare a uno di loro il sapore del piombo. Nel luglio del 2013 lancia la sfida agli Spada sparando a una gamba Ottavio Spada.

Un atto di guerra, uno «sgarro» che il clan sinti non gli ha mai perdonato. Dopo gli arresti del clan Spada, Barboncino si allea con la camorra, avendo vincoli di sangue con il napoletani di Acilia e tenta la scalata per la conquista del feudo di piazza Gasparri dove inizia a gestire il traffico di droga, prima di finire anche lui in carcere nella maxi operazione Eclissi portata a termine dai carabinieri del Gruppo Ostia, all'epoca guidati dal colonnello Pasqualino Toscani.

Alcuni interrogativi restano aperti: chi ha organizzato i fuochi d'artificio per festeggiare la morte di Esposito? L'episodio ha chiamato in causa anche gli agenti della polizia di Ostia - allertati da qualcuno - che si sono recati sul posto per capire cosa stesse accadendo ma all'arrivo delle volanti qualcuno ha bruscamente interrotto lo show. 

La dipartita di Barboncino potrebbe fare aprire una nuova stagione di sangue sul litorale, nonostante le famiglie storiche siano state «decapitate» con i vertici assicurati alla giustizia. 

Nello scacchiere criminale compaiono ancora gli eredi degli Spada e i napoletani di Acilia. Intanto, domani per i funerali di Barboncino la Questura di Roma sta vagliando un piano di sorveglianza riservata sulle esequie.

Cronache. Spada libero per un cavillo. A Ostia fuochi per il boss. Scarcerato in attesa del processo d'Appello bis. È polemica per i festeggiamenti in piazza. Stefano Vladovich il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Roma. Roberto Spada, il boss del clan omonimo, è libero. In attesa dell'appello bis per associazione a delinquere di stampo mafioso, Spada torna nella «sua» Ostia Ponente. E piazza Gasparri, feudo della famiglia di origine sinti, lo festeggia con mezz'ora di fuochi d'artificio in suo onore.

Dei sei anni di pena per aver preso a testate nel 2017 il giornalista della trasmissione Nemo Daniele Piervincenzi e aggredito il cameraman, ne ha scontati meno di cinque tra buona condotta e riduzioni varie. Il 29 settembre ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, Udine, dov'era detenuto dopo una condanna all'ergastolo, confermata in terzo grado nel gennaio scorso, come mandante di un duplice omicidio di stampo mafioso avvenuto a Ostia nel 2011. Unico dei 17 imputati per mafia a vedersi accolta la richiesta di appello bis dopo la sentenza di Cassazione. Insomma, in attesa del nuovo processo Spada viene scarcerato per un cavillo.

Fuori dalla cella per aver espiato la pena per quella testata, costata la frattura del setto nasale a Piervincenzi. Sarà un caso ma gli stessi festeggiamenti vengono organizzati, sempre a piazza Gasparri fra le case popolari, alla morte di Giovanni Galleoni detto «Baficchio» e Francesco Antonini detto «il Sorcanera», assassinati in strada il 22 novembre del 2011.

Due omicidi che restano impuniti per anni, fino a quando dei collaboratori di giustizia, Michael Cardoni e Tamara Ianni, 40 anni, moglie e marito, Paul Dociu e Antonio Gibilisco, si presentano in Procura per raccontare anni di crimini commessi dagli Spada. Una famiglia emergente e numerosa, da sempre agli ordini del boss «don» Carmine Fasciani. L'ascesa del clan abruzzese imparentato con i Casamonica e i Di Silvio comincerebbe quando vengono eliminati i concorrenti più fastidiosi nel business delle case comunali di via Antonio Forni, nella gestione del gioco d'azzardo e dei videopoker. Per togliere di mezzo i presunti killer di Paolo Frau, ex banda della Magliana, ovvero «Baficchio» e il «Sorcanera», Carmine e Roberto Spada chiedono aiuto al fratello Ottavio, ad Amna Saber Abdelgawad Nader, «l'egiziano» e ad Alvez del Puerto Ruben Nelson, uruguayano. Secondo la Dia i primi due sparano uccidendo i banditi rivali mentre Roberto Spada fa da palo. Con l'operazione Eclissi della Dda finiscono in manette 31 persone del clan. Le accuse, tutte confermate in Cassazione, sono estorsione, usura, gestione illegale degli alloggi popolari del Comune di Roma, racket delle spiagge e delle slot machine, minacce, lesioni e duplice omicidio.

Ma il «ritorno» del boss scatena polemiche a non finire. «Festeggiassero come vogliono - commenta il presidente del X Municipio Mario Falconi - Ostia non è più il terreno di conquista della malavita». Per Angelo Bonelli, deputato di Verdi e Si, «la scarcerazione di Spada è un fatto gravissimo. A Ostia tutti sanno che cosa hanno rappresentato e compiuto gli Spada, seminando il terrore con la violenza. Che Roberto Spada sia stato scarcerato per un cavillo è un fatto inaudito, chiediamo che il ministero della Giustizia disponga una verifica approfondita. Chi ha commesso reati gravi non può essere scarcerato». «Chiediamo il riconoscimento almeno della pericolosità sociale e una sorveglianza speciale con obbligo di firma - spiega Maricetta Tirrito del Comitato Collaboratori di Giustizia - È un bruttissimo segnale per il territorio e per chi combatte la mafia. La mafia non deve vincere mai».

Niccolò Carratelli Grazia Longo per “la Stampa” il 7 ottobre 2022.

Tutti, tra i palazzi intorno a piazzale Gasparri, affacciato sul mare di Ostia, sanno che Roberto Spada è tornato. C'è chi negli ultimi giorni lo ha visto passeggiare tra le barche del vicino porto e chi lo ha incontrato al bar. Il resto del quartiere ha saputo della sua scarcerazione dopo la festa in piazza di domenica sera, con tanto di fuochi d'artificio, per celebrare il ritorno del capo di quello che la Cassazione ha sancito essere un clan mafioso a tutti gli effetti.

Spada, 43 anni, in realtà è uscito dal carcere di Tolmezzo (Udine) più di due settimane fa, il 20 settembre, dopo aver scontato quasi 5 dei 6 anni di pena per la famosa testata al giornalista tv Daniele Piervincenzi. Era il 7 novembre 2017, l'aggressione (con metodo mafioso, secondo la sentenza di condanna) avvenne davanti alla palestra Femus, in via Antonio Forni, all'epoca il quartier generale degli Spada. 

Finita sotto sequestro, è ormai abbandonata da anni. Sui muri esterni sopravvivono alcuni murales colorati, tra cui quello che raffigura due pugili che incrociano i guantoni. Intorno è il deserto, solo saracinesche abbassate, fatta eccezione per un piccolo supermercato, una tabaccheria e il bar «Millenium», che ha visto tempi migliori. 

A un tavolino è seduto Giorgio, 68 anni, vive qui da sempre: «Guardi che desolazione, in 10 anni le attività hanno chiuso una dopo l'altra - racconta - i fatti del 2011, le inchieste, gli arresti, hanno segnato la fine del quartiere, non abbiamo nemmeno una farmacia a portata di mano». 

Nel 2011, proprio qui in via Forni, sono stati uccisi due esponenti di un clan rivale degli Spada, un duplice omicidio per cui è finito sotto processo lo stesso Roberto Spada. Ma lo scorso 19 settembre è arrivata la sentenza d'appello bis, che lo ha assolto per gli omicidi, evitandogli l'ergastolo (inflitto, invece, al fratello Ottavio), ma lo ha condannato a 10 anni per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.

Se la Cassazione confermerà questo verdetto, Spada dovrà tornare in carcere. Intanto, però, è un uomo libero: al momento, confermano fonti giudiziarie, non è sottoposto ad alcuna misura restrittiva, anche se la polizia ha sollecitato l'attivazione nei suoi confronti della sorveglianza speciale con l'obbligo di firma. Oltre a essere uscito di prigione un anno prima, infatti, grazie ai premi per la buona condotta e all'attività sociale dietro le sbarre, è stato ritenuto «socialmente non pericoloso». 

«È una sconfitta dello Stato - tuona Maricetta Tirrito, portavoce del Comitato collaboratori di giustizia -. Più volte abbiamo chiesto di sapere quali attività sociali Spada abbia svolto in carcere per interiorizzare l'importanza della lotta alla mafia, ma non abbiamo ottenuto risposta. Il fatto che ora lui possa girare tranquillamente per le strade di Ostia è un pugno nello stomaco. Lo hanno festeggiato con i fuochi d'artificio, a conferma che il suo potere è rimasto immutato. Mai avremmo immaginato una cosa del genere». 

Per i vicini di casa di Spada, invece, è tutto normale. «È un bravo ragazzo, mai avuto problemi con lui - dice il signor Fabio, appena uscito da un portone in via Guido Vincon -. L'ho visto questa mattina a passeggio sul lungomare, ma è inutile che lo cerchi, con i giornalisti non parlerà mai». 

Pochi metri più in là c'è un cancello nero aperto, sovrastato da due cavalli rampanti in pietra. Nel cortile interno altre sculture: leoni, aquile e animali vari. Seduti fuori sul marciapiede una donna e un ragazzo, impossibile capire il grado di parentela: «Siamo della famiglia e non facciamo interviste - spiega lei -. Roberto non c'è, non lo abbiamo visto, sta sempre in giro». Ci sconsigliano di fermarci ad aspettare davanti a casa, «ora è meglio se vai via».

All'incrocio, 50 metri più avanti, incontriamo Carlo, macellaio in pensione, indica una delle tante saracinesche chiuse: «Ho lavorato qui per 50 anni, conosco tutti, anche Roberto certo, fin da quando era ragazzino - ricorda -. Aveva un carattere dolce, poi chissà... Comunque qui la gente gli vuole bene. L'ho salutato ieri al porto, mi ha detto "sono contento di essere di nuovo a casa". Ma era smagrito, provato, il carcere duro è una brutta cosa».

Anche colpire con una testata un giornalista, ci permettiamo di far notare. «Guardi, quel tizio è venuto diversi giorni di seguito qui a provocare. E se stuzzichi troppo il lupo, alla fine te mozzica». Mentre il sole tramonta su Ostia, alla fermata dell'autobus ci sono tre ragazzi sui 14 anni, alle prese con uno spinello. «Sapete dove possiamo trovare Roberto Spada?». Smorfia e risatina: «Chi? Non lo conosciamo».

I Casamonica. Maxiprocesso clan Casamonica, per la Corte d’ Appello di Roma “È mafia”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Novembre 2022

È stata confermata anche in appello l'accusa di associazione mafiosa per clan dei Casamonica, gruppo criminale si Roma. Nell'ambito del processo sono imputate circa 40 persone.

I giudici della Corte d’Appello di Roma hanno confermato l’accusa di mafia per il clan Casamonica. La sentenza è arrivata dopo oltre sei ore di camera di consiglio. A rappresentare l’accusa nel maxiprocesso il sostituto procuratore generale Francesco Mollace, con i pm Giovanni Musarò e Stefano Luciani applicati nel procedimento, che nel corso della loro requisitoria avevano ribadito le accuse per il clan: dall’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all’estorsione, l’usura alla detenzione illegale di armi. Con la sentenza pronunciata oggi pomeriggio nell’aula bunker di Rebibbia, i giudici hanno confermato l’impianto accusatorio accogliendo il ricorso della procura su quattro posizioni riconoscendo il 416bis, ed escludendo soltanto l’aggravante di essere un’associazione armata.

Il clan Casamonica

I Casamonica sono arrivati a Roma nel 1939 da Tortoreto, un piccolo paese in provincia di Teramo. Luciano Casamonica, il capostipite di questa famiglia, si stabilì nella zona Sud Est di Roma. Il clan è diventato negli anni uno dei gruppi criminali più importanti della Capitale. Una galassia formata da “diversi nuclei familiari in autonomia tra di loro ma tutti riconducibili a una medesima discendenza e connotati da un comune senso di appartenenza e da uno spirito di mutuo soccorso”. Le attività illegali sono state tutte portate avanti “nel quadrante sudest della Capitale, nei quartieri Arco di Travertino, Appio, Tuscolana, Romanina: Il comune senso di appartenenza di tali nuclei – si legge nelle motivazioni – è diffusamente conosciuto e percepito da coloro che risiedono in tale area della città e che sono vittime dell’azione criminale dei singoli associati come un elemento di rafforzamento della forza intimidatrice del gruppo, poiché connotato da un numero potenzialmente enorme di associati, ciascuno pronto ad intervenire a sostegno delle pretese criminali del singolo in caso di bisogno“. 

“L’indagine della procura di Roma ha posto fine allo strapotere dei Casamonica. Un clan da anni a braccetto con Banda della Magliana e poteri forti della capitale”, aveva detto Mollace nel suo intervento nelle scorse udienze. Un clan, aveva sottolineato il pm Musarò, “con una forza di intimidazione impressionante. La ‘galassia’ Casamonica è quella peculiare struttura dell’organizzazione che porta i diversi gruppi ad unirsi quando c’è ‘bisogno’”. Un clan, aveva sottolineato il pm Musarò, ”con una forza di intimidazione impressionante. La ‘galassia’ Casamonica è quella peculiare struttura dell’organizzazione che porta i diversi gruppi ad unirsi quando c’è bisogno”. Proprio Musarò, nella sua requisitoria dello scorso maggio 2021, citò anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Massimiliano Fazzari (ex affiliato) e Debora Cerreoni (moglie di Massimiliano Casamonica, membro di spicco del clan e “gagè”, mai accettata dal clan seppur parte integrante del gruppo) che descrissero la struttura e le modalità con cui agiva il clan. 

In primo grado, il 20 settembre 2021, erano state comminate 44 condanne per oltre 400 anni carcere. Al maxiprocesso si è arrivati dopo gli arresti compiuti dai carabinieri del Comando provinciale di Roma nell’ambito dell’indagine ‘Gramigna’, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda Michele Prestipino e dai sostituti procuratori Musarò e Luciani.

La condanna più alta, a 30 anni, è andata a Domenico Casamonica, ai vertici del clan romano. Condanne pesanti anche per Massimiliano Casamonica 28 anni e 10 mesi, 24 anni a Pasquale Casamonica, 26 anni e 2 mesi a Salvatore Casamonica, 15 anni e 8 mesi a Liliana Casamonica, 16 anni e 2 mesi a Giuseppe Casamonica, 16 anni e 6 mesi a Guerrino Casamonica.

“E’ una sentenza equilibrata. Sono state escluse alcune aggravanti e altre confermate, è stata confermata l’impostazione accusatoria. La procura di Roma ha svolto un gran lavoro e questo è un grande risultato”. A dirlo il sostituto procuratore generale di Roma Francesco Mollace commentando la sentenza d’Appello. “Una sentenza che si incanala nel solco di altre sentenze come quelle sui clan Spada, Fasciani, Gambacurta che hanno riconosciuto l’esistenza della mafia nel territorio laziale”, ha aggiunto Mollace.

“Non credevo che i giudici potessero essere più conformisti di quelli di primo grado, ma ci sono riusciti. Sono deluso”. Ad affermarlo l’avvocato Giosuè Bruno Naso difensore, tra gli altri, di Domenico Casamonica, dopo la sentenza d’Appello del maxiprocesso. “Il problema non sono le accuse dei pm – prosegue – ma il conformismo dei giudici“. Redazione CdG 1947

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 7 giugno 2022.

Pompose, kitsch e spesso costruite senza uno straccio di autorizzazione. Ma non solo. Le ville dei Casamonica, nel feudo del quartiere Quadraro, erano attaccate abusivamente ai contatori e rubavano corrente elettrica senza sosta. In via del Quadraro, al civico 110, le villette della famiglia di origine Sinti erano alimentate illegalmente. Furti a quattro zeri. Undici le persone indagate.

Consumi che hanno raggiunto la cifra record, per la villetta di Luciano Casamonica e della moglie Annunziata Spada, di 10mila e 800 euro. A tutto ciò si devono aggiungere i 600 euro di danno, per aver scassinato il contatore, Acea Areti spa, e aver agganciato un cavo che arrivava fino al loro appartamento. Ma il caso Luciano e Annunziata non è isolato. Altri parenti li hanno emulati. Stessa identica dinamica. 

E così la procura, il pubblico ministero è Vincenzo Barba, ha chiuso le indagini per furto aggravato. In tutto sono undici le persone coinvolte per un totale di 60mila euro di energia rubata fino al 20 novembre 2018. Il giorno in cui il comune di Roma ha abbattuto molte delle ville abusive del clan proprio al Quadraro scoprendo così gli allacci clandestini realizzati dal clan.

Armando Casamonica e Libera Sarachiella, sempre residenti in via del Quadraro, hanno evitato di pagare bollette da 10mila e 400 euro. « Si impossessavano di energia elettrica altrui - si legge nel capo d'imputazione per 50mila chilowattora» . Stessa furto messo a segno da Vincenzo Spinelli. È accusato, anche lui, di aver rubato poco più di 10mila euro. Il primato assoluto è, però, di Marco Spinelli. Proprietario di un villino, sempre al civico 110. Lui è stato il più vorace di tutti. Nello stesso lasso di tempo si è portato a casa 23mila euro di corrente pari a «100mila chilowattora». A Mirella Casamonica e a Teodoro Bevilacqua gli inquirenti contestano furti meno esosi, " appena" 3mila euro.

Alcune delle ordinanze delle ville demolite a novembre del 2018 risalgono addirittura agli anni Ottanta. Ma le regge dei " sovrani di Roma sud" nessuno aveva avuto mai il coraggio di toccarle. Quattro anni fa il Campidoglio, guidato da Virginia Raggi, aveva sferrato un duro colpo ai Casamonica, anche sulla scia delle maxi - operazioni di procura di Roma e carabinieri portate a termine nello stesso anno.

 L'area su cui avevano lavorato le ruspe era soprattutto quella adiacente a via del Quadraro, alle spalle del Parco di Torre del Fiscale vicino alla ferrovia Roma- Napoli, in parte proprietà del demanio delle Fs, dove i Casamonica - e le loro ramificazioni in Di Silvio, Spada e Spinelli - avevano ottenuto i diritti di superficie. Otto le ville che erano state rase al suolo tutte su due livelli, che andavano dai 150 ai 400 mq. In tutto erano stati impegnati 500 agenti di polizia locale. A distanza di tempo da quel blitz adesso piovono sulla testa del clan nuove accuse. Per undici componenti della famiglia si profila all'orizzonte un nuovo processo per furto aggravato di energia elettrica.

Alessia Marani per “il Messaggero” il 28 maggio 2022. 

Non sarà metodo mafioso (questa volta), ma di sicuro è metodo Casamonica, quello con cui Diego, 43 anni, il figlio Guido e il nipote Marco, entrambi 23enni, hanno mangiato a provato a dormire a sbafo in un hotel, la notte del 9 marzo a Latina. Erano partiti da Roma con le rispettive mogli e compagne, chissà quali affari di famiglia andavano a discutere nel Sud pontino o, magari, si trattava semplicemente di una gita in compagnia.

Di certo, però, è che hanno agito alla loro maniera. E quando hanno prenotato per la cena lo hanno fatto a nome di Ferdinando Ciarelli, pregiudicato del posto in combutta con i Di Silvio, altro clan rom con fama di terrore. Tanto per essere chiari. Sono entrati in un bistrot nel pomeriggio e in un ristorante a cena con attiguo albergo, si sono seduti e hanno cominciato a ordinare ogni ben di Dio, pesce, frutta e dolci, tutto annaffiato da fiumi di champagne. In un caso hanno voluto che il sommelier aprisse loro una preziosa bottiglia Giulio Ferrari 2008. 

«Lo sai chi sono io? Lo sai chi sono i Casamonica? Io sono Casamonica Marco e quando chiedo qualcosa è gradito che venga esaudito», la formula magica per non pagare il conto. Resa ancora più efficace mettendo la mano tra collo e spalla del gestore, premendo con forza. 

Il cognome era stato fatto notare esibendo il Greenpass. Tradotto: minacce, accompagnate inoltre dall'estorsione a uno dei ristoratori da cui hanno preteso 700 euro, da un altro si sono fatti consegnare 160 euro. Per questi episodi gli uomini della mobile del capoluogo pontino, su richiesta della locale Procura, hanno arrestato i tre.

Diego è finito in carcere, per gli altri due il gip ha disposto gli arresti domiciliari. All'operazione hanno collaborato anche gli agenti della mobile di Roma e del commissariato Romanina. Le indagini sono partite dalla denuncia dei due titolari del ristorante. Gli imprenditori pontini non sono rimasti zitti, non hanno subito inermi, hanno reagito.  

Non un fatto scontato: in passato c'è chi ha prima denunciato e poi ha fatto un passo indietro; moltissimi gli episodi raccontati o di cui sono stati testimoni personale di cucina e camerieri ma che, per paura, non sono mai stati manifestati alle forze dell'ordine. «È vero che non ero tenuto, ma praticamente sono stato obbligato - ha messo a verbale A. C., una delle vittime - in pratica me li ha estorti, perché mi ha fatto capire col metodo tipico della malavita che avrei dovuto farlo per non incorrere in problemi... non dandomi scelta».

Per il gip «la spregiudicatezza e la refrattarietà al rispetto delle regole del vivere ponendosi al di sopra delle stesse, non curanti peraltro della possibile presenza di altre persone, sono oltremodo indicativi della personalità» degli indagati. Diego non fa mistero nemmeno dei 7 anni appena trascorsi in galera. Anzi, invita A. C. a sedersi al tavolo con lui, gli versa da bere e lo mette al corrente dei suoi trascorsi.  

Non solo. Spiega che gli affari gli vanno con la vendita di auto a Ostia. Quel 9 marzo, in un caso il conto era di 600 euro, nell'altro addirittura di 1610. Dal receptionista dell'hotel pretendono 300 euro, promettendo che il denaro gli sarebbe stato restituito: «Che non ti fidi di zio?», la domanda beffarda. Ma stavolta il metodo non ha funzionato fino in fondo.

Michele Marangon per corriere.it il 27 maggio 2022.

Estorsione e tentata estorsione: con queste accuse tre esponenti della famiglia Casamonica, ben radicata nella Capitale ma con legami in tutto il Lazio, sono stati arrestati, su disposizione della procura di Latina, dalla squadra mobile di Latina, in collaborazione con la squadra mobile di Roma e il commissariato Romanina. 

Una scorribanda in terra pontina, dove i tre non hanno pagato il conto di una costosissima cena al mare, è valsa il carcere per Diego Casamonica, 43 anni, e i domiciliari per Guido Casamonica, 23 anni, e Marco Casamonica, 23 anni.

Le indagini sono partite grazie alla denuncia di due imprenditori, titolari di un ristorante nella zona lido di Latina. Gli imprenditori hanno raccontato che la sera del 9 di marzo scorso, gli indagati, dopo essere stati a cena nel loro locale, hanno tentato di farsi consegnare circa 700 euro in contanti, vantando l’appartenenza alla famiglia Casamonica. 

Le vittime, intimorite dalle richieste e dall’atteggiamento del resto del gruppo, hanno accettato che gli indagati andassero via senza pagare il conto della cena consumata, pari a circa 1.600 euro.

Come ricostruisce la procura i tre «vantando la loro appartenenza alla famiglia Casamonica, e dunque palesando la caratura criminale degli appartenenti a tale sodalizio, si rivolgevano ad uno dei soci e ai camerieri che avevano servito loro piatti costosi e bottiglie di champagne, e chiedevano provocatoriamente di scendere in cantina a prendere altre bottiglie costose, uscendo poi dal ristorante senza pagare.

Stesso comportamento anche nei confronti del receptionist di un albergo, dove è ubicato il ristorante, ma l'impiegato si è rifiutato di consegnare il denaro in cassa, che gli era stato richiesto». 

Nel corso delle indagini gli agenti hanno accertato un'altra tappa del gruppo: nel pomeriggio, gli indagati si erano trattenuti per varie ore, effettuando diverse consumazioni, all’interno del bistrot nel centro storico di Latina.

Anche qui, «ostentando la propria appartenenza alla famiglia Casamonica, e dunque lasciando implicitamente presagire gravi conseguenze in caso di opposizione allo loro richieste, costringevano il proprietario a farsi consegnare il denaro che questi custodiva in tasca, circa 160 euro; poi si erano allontanati senza pagare le consumazioni, cibo e bevande costose, per circa 600 euro». 

In particolare, secondo le indagini, Diego Casamonica aveva reso noto il suo passato criminale, precisando di essere uscito da due mesi dal carcere, dopo sette anni, rivolgendosi alle vittime con fare minaccioso ed intimidatorio; mentre gli altri indagati più giovani e incensurati, hanno approfittato della fama criminale connessa al cognome che portano e lo stato di soggezione e sudditanza determinato nelle vittime per i comportamenti tenuti dal 43enne.

"Ora vedrai chi sono i Casamonica" e gli tagliano l'orecchio davanti ai bambini di 7 e 8 anni che implorano pietà. Arrestati i figli del boss "Pelè". Romina Marceca su La Repubblica il 25 maggio 2022.

Non si sono fermati nemmeno davanti a un bambino che urlava a squarciagola: "Basta, voglio papà". Un pianto a dirotto, due figli di 7 e 8 anni nel panico, davanti al padre sfregiato in mezzo alla strada dai Casamonica. Giuseppe e Antonio, figli di Guerrino Casamonica detto Pelè,  sono stati arrestati dalla squadra mobile su ordinanza del giudice Ezio Damizia.

Romina Marceca per “la Repubblica - ed. Roma” il 25 maggio 2022. 

Non si sono fermati nemmeno davanti a un bambino che urlava a squarciagola: «Basta, voglio papà». Un pianto a dirotto, due figli di 7 e 8 anni nel panico, davanti al padre sfregiato in mezzo alla strada dai Casamonica. 

Giuseppe e Antonio, figli di Guerrino Casamonica detto Pelè, sono stati arrestati dalla squadra mobile su ordinanza del giudice Ezio Damizia. L'accusa è di violenza privata con l'aggravante del metodo mafioso.

Le indagini sono state coordinate dalla Dda della procura di Roma. «Ma lo sai che io sono un Casamonica? Ah, non hai paura? Allora adesso te lo faccio vedere io, pezzo di merda», è stata la farse con cui uno dei due fratelli ha affrontato la vittima. 

I due uomini, 18 e 20 anni, hanno messo in campo tutta la violenza che contraddistingue il clan nella serata di Pasqua scorsa. Non soltanto davanti a quei bambini ma anche a un loro figlio, in braccio alla madre. Tutto per una precedenza che Giuseppe Casamonica vantava nei confronti della vittima, un egiziano di 59 anni. Ha chiamato a raccolta la famiglia, in strada è sceso il fratello, a Capannelle, dove vivono i parenti.

I calci e i pugni non sono bastati. I due Casamonica che prima hanno detto all'automobilista "Ma lo sai che io sono un Casamonica, tu non li conosci i Casamonica?" gli hanno voluto dare una lezione perché l'egiziano non ha mostrato riverenza nei confronti di due uomini del clan. Giuseppe lo ha bloccato dalle spalle e quando già il papà egiziano era a terra il fratello Antonio gli ha mozzato l'orecchio.

La vittima era in auto con la moglie e i due figli. Tutta la scena dell'aggressione e anche l'audio sono stati registrati da una telecamera sulla strada. Erano da poco trascorse le 20. Giuseppe Casamonica taglia la strada all'egiziano mettendo la sua Fiat 500L di traverso in via Bellico Calpurnio, ad angolo con via Flavia Demetria dove abitano i Casamonica. «Mamma, papà», si sentono urlare i bambini. «Faccia di merda, cacasotto del cazzo, vieni qua», gli dice uno dei Casamonica. 

«Chiamate la polizia, ci sono i bambini» , dice disperata la moglie. Ma nulla. La folla guarda e poi davanti alla polizia alcuni cercheranno di essere il più vaghi possibile. Il timore dei mafiosi diventa «clima di omertà e reticenza» sulla quale confidano i Casamonica. Tanto che nessuno dei due si è posto il problema di fermarsi davanti a quel padre col viso ridotto a una maschera di sangue.

I poliziotti e la procura, però, dalla loro parte avevano anche la testimonianza della figlia dell'egiziano che ha raccontato: «Ho pregato l'uomo a petto nudo di lasciare papà ma lui mi ha risposto che il giorno di Pasqua si poteva 'menare' mio padre. Mi ha anche minacciata di picchiarmi e che aveva un coltello». 

L'orrore è stato poi cristallizzato da quelle immagini che in poco più di un mese hanno convinto la Dda a chiedere la custodia cautelare in carcere. 

Francesca De Martino per “il Messaggero” il 19 Maggio 2022.

Un membro della famiglia Casamonica si è ritrovato a essere beffato e derubato sotto il naso da un romeno. Il ladro era convinto di aver fatto un bel colpo, portandosi via due giorni fa una costosa bicicletta elettrica, incatenata in una via trafficata del Quadraro. 

Non poteva certo immaginare che il proprietario fosse un componente della numerosissima famiglia dei Casamonica, nota e temuta per i suoi trascorsi criminali. Mentre rubava la bici, la vittima, Amabile Casamonica, 48 anni, ha visto tutta la scena ed è riuscito nel giro di pochi minuti ad acchiapparlo e a farlo arrestare dai poliziotti.

Ieri Lazar Bogdan Bejinaru, 39enne originario della Romania, per questi fatti è finito a processo per direttissima davanti al Tribunale monocratico di Roma. Il giudice ha convalidato l'arresto del giovane e disposto l'obbligo di firma due volte a settimana. Il pm Silvia Santucci contesta all'imputato il furto aggravato.

I fatti si sono consumati il 17 maggio scorso. Sono appena passate le sei di pomeriggio quando l'imputato, secondo quanto emerge dal verbale, si trova a passare davanti al civico 53 di via dei Consoli, in zona Quadraro, e nota una bicicletta elettrica del valore di quasi duemila euro, parcheggiata in strada. È ben chiusa, con tanto di lucchetto antifurto.

Ma, nonostante la via trafficata, riesce a liberarla dalle catene e a portarsela via. È convinto, forse, di aver fatto il colpo della giornata. Per la cronaca, alcuni componenti del clan familiare dei Casamonica (che aveva il suo quartiere generale a vicolo di Porta Furba) lo scorso settembre sono stati condannati per associazione mafiosa.

Amabile Casamonica - estraneo ai fatti per cui i membri della sua famiglia si sono trovati sul banco degli imputati vede il ladro all'opera e gli corre dietro. All'inizio non riesce a fermarlo, poi poco dopo lo incontra nel quartiere, lo riconosce e chiama gli agenti di polizia del commissariato Appio Nuovo. I poliziotti, dopo pochi secondi, grazie all'aiuto della persona offesa, intervengono sul posto e mettono in manette il 39enne.

Per il pm, in base a quanto si legge dal capo d'imputazione, l'imputato «al fine di trarne profitto» si sarebbe impossessato di una bicicletta elettrica «del valore economico di 1.750 euro, sottraendola al proprietario che l'aveva lasciata parcheggiata, regolarmente chiusa». La difesa ha scelto un rito alternativo e Lazar Bogdan Bejinaru verrà giudicato dai magistrati di piazzale Clodio il prossimo giugno. 

Casamonica, così da clan ignorato sono diventati re di Roma tra coca e usura. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 22 aprile 2022

A Pasqua, a Roma, alcuni appartenenti alla famiglia Casamonica hanno tagliato il lobo dell’orecchio a un cittadino di 59 anni che passava in una delle strade feudo del clan, via Flavia Demetria. Lo hanno riempito di botte.

Nonostante arresti, sequestri, abbattimenti e le condanne per mafia, per i Casamonica Roma è ancora roba loro. Un controllo che, in alcune zone, è totale e una impunità che resta caratteristica della famiglia criminale. 

I Casamonica, chi? Quelli dell’aggressione? Quelli della testata? Ma quella mica è mafia, hai mai visto un mafioso dare un cazzotto o una “craniata”? Quelli non sono mafiosi, non sono romani, non sono manco italiani. Non sono. Ecco, semplicemente non sono. Nel sonno della ragione, Roma ha giocato la parte della protagonista: ignorando per anni la nascita, crescita e imposizione delle grandi famiglie criminali nel suo territorio.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

"Pensavo che Vittorio Casamonica fosse il Papa". Le reticenze dei musicisti del funerale-show. Valeria Di Corrado su Il Tempo il 26 febbraio 2022

L’omertà può portare addirittura alla blasfemia. A settembre il tribunale di Roma ha inflitto condanne per 400 anni di carcere a 44 imputati affiliati al clan Casamonica, riconoscendo l’associazione mafiosa. Nonostante ciò, i romani continuano ad aver paura dei Casamonica. Lo dimostra il fatto che uno dei musicisti che suonò la canzone del film «Il padrino» ai funerali di Vittorio Casamonica, l’altro ieri è arrivato al punto di dire ai giudici: «Pensavo che quello ritratto nei manifesti fosse papa Bergoglio».

Avevano fatto il giro del mondo le foto della carrozza con finiture d’oro trainata dai cavalli neri, dei petali di rosa lanciati dall’elicottero e dei manifesti funebri affissi alla chiesa Don Bosco con su scritto «Vittorio Casamonica Re di Roma» e «Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso». Era il 20 agosto 2015 e la Capitale si fece trovare impreparata di fronte a questa sfrontata ostentazione di potere del clan familiare di origine sinti, arrivato nella Capitale dall’Abruzzo e dal Molise nei primi anni ’60. Quel funerale che celebrava Vittorio Casamonica, come se fosse un boss, fece da input all’indagine «Gramigna» dei carabinieri che, lo scorso 20 settembre, ha portato la decima sezione penale del Tribunale di Roma alla condanna ad oltre 400 anni di carcere dei 44 imputati - riconducibili al ramo della famiglia residente a Porta Furba - con accuse che vanno (a vario titolo) dall’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all’estorsione, l’usura e la detenzione illegale di armi. Il 16 giugno 2020, nell’operazione «Noi proteggiamo Roma», vennero arrestate altre 20 persone affiliate al gruppo dei Casamonica che esercitava il suo potere nella zona della Romanina. 

Il processo relativo a questo secondo filone è iniziato giovedì. I primi testimoni citati dalla Procura sono stati i componenti della banda musicale chiamata a suonare al funerale-show. Francesco Procopio, ex carabiniere e capo della banda musicale che prende finanziamenti dalla Regione Lazio per i progetti destinati ad assistere i bambini con disabilità, ha in qualche modo ritrattato le dichiarazioni che aveva fatto ai carabinieri a febbraio 2016. All’epoca aveva detto che non era d’accordo ad eseguire brani insoliti per delle esequie, come la colonna sonora del film «Il Padrino», «My way» di Sinatra e «Così parlò Zarathustra», ma che aveva «accettato quanto imposto per evitare problemi» perché si sentiva «responsabile verso gli altri membri della banda», tanto da temere per la sua incolumità.

Sul banco dei testimoni, invece, ha corretto il tiro: «Non ci hanno minacciato, ci incitavano a suonare e io sentivo le pressione. C’era gente ammassata intorno a noi e rischiavamo di prendere lo strumento nei denti. Io non sapevo nemmeno di chi fosse il funerale. Quando ho visto i manifesti sulla chiesa, credevo che quello vestito di bianco fosse Papa Bergoglio». «Le ricordo che lei ha l’obbligo di dire la verità», ha ammonito il presidente del Tribunale. Pure l’altro musicista, Antonio Farallo: «Ci hanno chiesto quei brani con un tono deciso, ma non perentorio. Non era un’imposizione». Ai carabinieri, a marzo 2016, aveva detto: «I parenti hanno usato un tono perentorio per obbligarci a suonare i brani imposti».  

Casamonica re pure in prigione a Rebibbia. Il Tempo il 15 dicembre 2019.

«I Casamonica a Rebibbia fanno il bello e il cattivo tempo. Se la comandano con le guardie». La vita da boss che conducevano quando erano a piede libero - come dimostrano le auto fuori serie e le ville arredate con stucchi, marmi, soprammobili kitsch, drappeggi e sedie stile Luigi XIV - i componenti del clan sinti continuavano a farla anche da reclusi. Il carcere di Roma, infatti, era per loro una prigione «dorata», in cui il loro potere mafioso riusciva a intimorire anche gli agenti della polizia penitenziaria. Lo ha spiegato chiaramente Massimiliano Fazzari, testimone di giustizia nel maxiprocesso al clan dei Casamonica, partito dall'indagine «Gramigna» dei carabinieri di Frascati - che aveva portato a due ondate di arresti: il 17 luglio 2018 e il 15 aprile scorso - e che ora vede 44 imputati con accuse che vanno dall'associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all'estorsione, all'usura e alla detenzione illegale di armi. Nell'udienza di ieri Fazzari è stato sentito come testimone, in video-collegamento da una località protetta, ripreso di spalle mentre rispondeva alle domande del sostituto procuratore di Roma Giovanni Musarò. Il «pentito», prima di parlare dei suoi rapporti con il clan, ha ripercorso le sue origini: «La mia è una storica famiglia di 'ndrangheta, in rapporti con i Pesce e i Bellocco di Rosarno, e i Mancuso di Limbadi. Mio padre era affiliato, ma finché era vivo non volle che anche io fossi "battezzato" dalla 'ndrangheta. Io ho sempre vissuto nel Lazio. Un giorno mio zio Esterino mi propose il "battesimo" e per tranquillizzarmi mi disse: "A Roma i morti non interessano a nessuno. Fanno rumore, alzano solo l'attenzione delle forze dell'ordine. Non è come in Calabria. Può capitare qualche gambizzazione". Io rifiutai la proposta, perché non escluse la possibilità di dover uccidere. Non mi interessava comandare. Quando mi servivano soldi, vendevo cocaina e marijuana». «Una volta però - ha ricordato Fazzari ai giudici - mi sono trovato in difficoltà perché uno era scappato con la droga. Tramite la mia ex compagna Noemi Ranieri, che era amica della moglie di Massimiliano Casamonica (Debora Cerreoni), gli chiesi un prestito di mille euro, pattuendo il 20% di interessi. Era il 2011. Andai nella loro villa di vicolo di Porta Furba». A distanza di tre anni, tra fine 2014 e inizio 2015, Fazzari venne arrestato e si ritrovò a Rebibbia insieme a Massimiliano Casamonica e al fratello Giuseppe. «Uno spesino (colui che fa la spesa) mi portò un foglietto con su scritto: "Tempo 2 o 3 giorni e sali sopra da me". Firmato Massimiliano. Il giorno dopo le guardie mi spostarono al reparto G12, dove c'erano i Casamonica. Loro se la comandavano in carcere. Addirittura, durante l'ora d'aria, era Massimiliano che decideva chi doveva giocare a tennis con lui. Una volta mi invitò a mangiare in cella con lui e mi fece una mezza minaccia: "Prima che tu vai a parlare con qualcuno, noi già lo sappiamo"». Un avvertimento chiaro. Fazzari, infatti, in quel periodo aveva iniziato a scrivere delle lettere al dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, per chiedere di avviare una collaborazione. I muri di Rebibbia, però, a volte «parlano». Il sospetto di Fazzari è che la «voce» si arrivata proprio alle orecchie dei Casamonica. «Giuseppe aveva un lavoretto in carcere - ricorda il «pentito» - era stato incaricato di raccogliere con il carrello le lenzuola sporche dalle varie celle. Un giorno le guardie mi dissero di andare a portare le mie al reparto G9, visto che non erano passati a ritirarle. Lì ci trovai Giuseppe Casamonica. Prima guardò alle mie spalle per vedere se ero stato accompagnato da una guardia; accortosi che ero solo, mi fece un ghigno minaccioso, perché loro già sapevano che volevo collaborare. Me lo confermò anche la mia compagna, riferendomi che se la sarebbero presi con mia madre. Io, a quel punto, buttai le lenzuola per terra, senza avvicinarmi, e me ne andai». Anche fuori di galera il clan sinti aveva i suoi appoggi. «Erano agganciati con le caserme - ha spiegato Fazzari al collegio - avevano dritte sui movimenti delle guardie e si regolavano per lo spaccio. Un giorno Simone Casamonica mi disse che aveva rapporti con i finanzieri e di essere amico di uno di un finanziere in particolare». SESSO, BOTTE E TRAFFICI VARI NELL'AREA VERDE DI REBIBBIA L'area verde di Rebibbia, dove avvengono i colloqui tra i carcerati e i loro parenti, è una «zona franca» dove può accadere di tutto. Lo ha confermato ieri ai giudici del Tribunale di Roma Massimiliano Fazzari. L'episodio descritto ha come protagonisti Debora Cerreoni e il marito Massimiliano Casamonica, in quel momento recluso. Qualcuno in carcere gli aveva spifferato che la donna dalla quale aveva avuto tre figli (una «gaggia», termine dispregiativo da loro usato per indicare i non rom) lo stava tradendo. Per questo, una volta trovatasela di fronte nell'area verde del penitenziario, Casamonica l'aveva picchiata, senza che nessun agente della penitenziaria se ne accorgesse. Dopo quell'ennesima violenza, la Cerreoni aveva deciso di scappare a Bologna e denunciare tutto, diventando anche lei collaboratrice di giustizia. Il testimone, su domanda del sostituto procuratore Giovanni Musarò, ha spiegato: «Forse c'è un punto cieco per le telecamere nell'area verde». D'altronde questo «buco nero» era già emerso dall'interrogatorio di Salvatore Fragalà (dell'omonimo clan) del 30 ottobre 2017, sempre con lo stesso pm: «Nell'area verde di Rebibbia nuovo complesso, è un parco. Le guardie stanno dentro il gabbiotto, non passano... non vengono mai. Tante volte abbiamo trovato noi dei detenuti che facevano sesso (...) Quindi lei può immaginare, lì puoi fare qualunque cosa. Io scendo con una busta, dentro ci può stare qualunque cosa e io la dò. La famiglia non viene perquisita, come a Rebibbia reclusione, la stessa cosa: hanno trovato stecche di sigarette nei pacchi in uscita».

DALLE MINACCE AL CRONISTA AL CARCERE. Orologi, girocollo e case: confiscato il patrimonio di Guerino Casamonica. NELLO TROCCHIA su Il Domani l'11 febbraio 2022

«Le case, ma quali case. Prima o poi vi sparano in bocca», urlavano in strada i Casamonica mentre provavano a spiegare la titolarità delle ville faraoniche che abitavano. Ville che oggi la divisione anticrimine capitolina ha confiscato su disposizione del tribunale.

A Roma, a un passo da Morena, Giuseppe Casamonica e la moglie Anna Di Silvio vivevano in via Flavia Demetria in una reggia con piscina, statue e sfarzo.

Quando chi scrive è andato a chiedere conto di ricchezze e ruolo nel clan, il Casamonica rispondeva con insulti di ogni genere: «Pidocchioso, infame, non ti azzardare più a venire», diceva prima di venire fermato da quattro poliziotti in borghese.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Michela Allegri per "il Messaggero" il 12 febbraio 2022.

Gioielli, automobili, orologi, arredi in oro massiccio, sculture d'argento. Ma anche ville gigantesche arredate in stile barocco, con piscine, garage pieni di macchine di lusso, pavimenti e colonne di marmo pregiato. Il tesoro del clan Casamonica, accumulato in decenni, è finito ora nelle casse dello Stato: ieri la sezione Misure di prevenzione del Tribunale ne ha disposto la confisca per un valore di 20 milioni di euro.

Non ci sono solo soldi e beni di lusso: ci sono anche attività commerciali, bar, distributori di benzina, locali, appartamenti. E dagli atti emerge anche il trasferimento all'estero una buona parte dei guadagni illegali, nel tentativo di sfuggire a sequestri e confische. Il clan - si legge in una sentenza - aveva accumulato un vero e proprio tesoretto nel Principato di Monaco.

GLI INVESTIMENTI «Hanno grossi investimenti all'estero», ha raccontato ai magistrati una collaboratrice di giustizia. E, in effetti, in passato gli inquirenti avevano trovato conti correnti a sei zeri accesi presso la Societè Generele Bank and Trust e riconducibili al gruppo Casamonica. L'inchiesta aveva dimostrato che, «nel corso degli anni, erano stati depositati presso la banca monegasca diversi milioni di euro provenienti da attività illecite, in primis l'usura e il narcotraffico condotto tra l'Olanda, la Germania, la Spagna e l'Italia», si legge nell'atto. 

Una strategia «predeterminata, volta a sottrarre i profitti illecitamente realizzati da eventuali azioni giudiziarie». I beni confiscati ieri sono riconducibili a Giuseppe Casamonica, al figlio Guerrino, detto Pelè, e a Christian Casamonica. Il provvedimento segue il sequestro disposto dal Tribunale nel giugno 2020, quando diversi componenti del clan erano stati arrestati. Il passo successivo era stato, nel luglio 2021, la condanna con rito abbreviato, tra gli altri, di Guerrino e Christian Casamonica rispettivamente a 10 anni e 2 mesi di reclusione e a 8 anni.

Tra le accuse, oltre all'associazione mafiosa, c'erano l'usura, l'estorsione, l'intestazione fittizia di beni. Giuseppe Casamonica, invece, lo scorso settembre è stato condannato a 20 anni e mezzo di carcere. Nel corso delle indagini era emersa anche una sproporzione incredibile tra i beni dei membri del clan e i redditi dichiarati. Da qui gli accertamenti contabili che hanno portato alla confisca. 

LA VILLA Il provvedimento è un durissimo colpo per la famiglia sinti che per anni ha spadroneggiato nella zona est della Capitale: sono stati definitivamente messi i sigilli a Villa Sonia, la maxi-villa alla Romanina, quartier generale del clan. Era la dimora super lusso di Pelè, con piscina, giardino, marmi, arredi barocchi, già condonata. Nel patrimonio tolto al clan ci sono anche la villa di Giuseppe Casamonica e una a Monterosi, ora assegnate a finalità sociali.

Confiscata anche la dimora di Christian Casamonica, insieme a tre appartamenti a Roma e provincia. Il Tribunale ha disposto per i tre anche la sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza. Dopo la diffusione del provvedimento, il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha sollecitato «un ritorno dei beni alla comunità». Mentre il sindaco Roberto Gualtieri ha commentato: «Andiamo avanti tutti insieme sul cammino della legalità e della giustizia». 

Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 19 maggio 2022.

«La devo dà a tutta Roma». Era questa la mission di Fabrizio Fabietti e Fabrizio Piscitelli, a capo dell'organizzazione di narcotraffico che inondava la Capitale di droga. Lo storico ultrà degli Irriducibili della Lazio (detto Diabolik) è stato ucciso il 7 agosto 2019 con un colpo di pistola alla testa nel parco degli Acquedotti, mentre Fabietti ieri è stato condannato a 30 anni di reclusione. 

Lo ha deciso la prima sezione penale del Tribunale di Roma, al termine del processo scaturito dall'indagine Grande raccordo criminale del Gico della Finanza, che il 28 novembre 2019 aveva portato a 51 arresti. La banda usava telefoni criptati e aveva a sua disposizione una batteria di picchiatori per punire chi sbagliava.

Oltre a Fabietti (per il quale il pm Edoardo De Santis aveva chiesto 30 anni di reclusione), sono state condannate altre sei persone: Adamo Castelli dovrà scontare 10 anni di carcere, Alessandro Savioli 8, Danilo Perni 6, Ruben Alicandri 8, Windy Fantill 9 anni e 4 mesi e Ardita Haxhkaj 10 mesi di reclusione. Tuttavia i giudici non hanno riconosciuto l'aggravante del metodo mafioso. 

L'ACCUSA DI MAFIA A differenza del processo che si è concluso ieri in primo grado con rito ordinario, un anno fa in rito abbreviato erano arrivate condanne dai 18 ai 5 anni di reclusione per una quarantina di imputati per i quali era stata invece riconosciuta l'aggravante del metodo mafioso. Secondo quanto emerso dalla maxi inchiesta della Dda di Roma, la banda di narcotrafficanti operava principalmente nella zona Nord della Capitale per rifornire le piazze di spaccio e recuperare i crediti.

Per questo erano stati assoldati picchiatori, anche ex pugili, tra cui cittadini albanesi.

L'associazione poteva contare su un flusso costante di droga proveniente dal Sud America (la cocaina da Colombia e Brasile) e dal Nord Africa (hashish dal Marocco), garantito dai fornitori abituali. 

LA SOCIETÀ DEL CRIMINE Erano «una vera e propria società del crimine, dove l'imprenditore Fabrizio Fabietti, il quale in accordo con il socio Fabrizio Piscitelli () realizza lo scopo sociale, vale a dire la commercializzazione di stupefacenti sul territorio laziale», avevano scritto i giudici del Riesame spiegando che «si è in presenza di un organismo efficiente in grado di avere il monopolio dello smercio di droga a Roma».

Attorno a Diabolik e il suo braccio destro «si muovono decine di acquirenti, i quali riforniscono le varie piazze di spaccio di quartiere». Il sodalizio era in grado di movimentare migliaia di chili di stupefacente: è stata ricostruita la compravendita di 250 chili di cocaina e 4.250 di hashish, per un valore al dettaglio di circa 120 milioni di euro.

Erano «un'associazione tra le più potenti, ricche e spregiudicate operanti sul territorio capitolino», si legge nell'ordinanza che aveva portato agli arresti. 

I PICCHIATORI C'era un gruppo di soggetti che aveva un compito specifico: recuperare i crediti dovuti per l'acquisto della droga. Compito che mettevano in pratica con una serie di estorsioni, pestaggi e violenze. Agghiaccianti le frasi intercettate: «Vabbè spariamogli, che dobbiamo fare?». O ancora: «Oh gli ho preparato una macchina, li massacriamo tutti eh».

'Ndrangheta nel Lazio, anche Diabolik cercava aiuto alle cosche calabresi.  Il Quotidiano del Sud il 17 Febbraio 2022.

LA “riconosciuta autorità criminale del sodalizio” emerge anche dal fatto che “un ristoratore di Anzio” vittima di un’estorsione, e il suo socio occulto Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik (ucciso il 7 agosto del 2019 nel parco degli Acquedotti, ndr.), si erano rivolti” al gruppo “per cercare aiuto e sostegno”. Lo scrive il gip di Roma Livio Sabatini nell’ordinanza di custodia cautelare con cui ha disposto 65 arresti nell’ambito dell’operazione condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo di Roma e coordinata dalla Dda di Roma, con i procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò, contro clan di ‘ndrangheta nei comuni del litorale romano. L’indagine ha anche svelato rapporti dubbi tra gli esponenti delle cosche e alcuni politici e amministratori.

Il ristoratore “già conosceva Bruno Gallace ed era sì legato al punto da organizzare la festa di compleanno della figlia di quest’ultimo all’interno del suo locale in modo gratuito in segno di riverenza (20 giugno 2019 ‘omaggio nostrò) – si legge – La vicenda testé esaminata risalta l’autorità criminale del locale di ‘ndrangheta sul territorio: invero, l’estrema particolarità dell’estorsione con il coinvolgimento di terze persone che avevano agito nonostante fossero a conoscenza della cointeressenza di Fabrizio Piscitelli e la richiesta di intervento formulata dallo stesso Piscitelli recatosi al cospetto di Bruno Gallace nonché la richiesta di aiuto rivolta” dal ristoratore socio occulto di Diabolik “a Gregorio Spanò evidenziano la notorietà del locale di ‘ndrangheta ed il riconosciuto potere di controllo esercitato” sul litorale romano.

Una degli arrestati, Francesca Romagnoli, convivente di Bruno Gallace ”esternava il suo disappunto per la condotta del ristoratore e di Piscitelli (”con questi vai a fà le cose ma poi porti la gente a fà le prepotenze ad Anzio?”). Un altro arrestato, finito in carcere ”giudicava avventato il comportamento di Piscitelli il quale, gravato dalla misura di sorveglianza personale si era recato ad Anzio creato una situazione pericolosa (‘tu c’hai la sorveglianza, vai in un posto e vai a fà casino?’)”. 

Alessia Marani per “il Messaggero” il 9 giugno 2022.

Concessi i domiciliari al presunto mandante dell'omicidio di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik. Leandro Bennato è fuori dal carcere dal 26 maggio. La motivazione? «Ragioni di salute della madre», secondo il giudice di sorveglianza. 

Scampato miracolosamente a un agguato in via di Boccea nel novembre 2019, Bennato era poi finito in carcere nella maxi inchiesta su un giro di droga che per la Procura era gestito proprio dall'ex capo ultrà della Lazio, ucciso nel parco degli Acquedotti il 7 agosto 2019, e dal sodale Fabrizio Fabietti. 

Leandro, nipote di Walter Domizi, noto come Il Gattino, plenipotenziario boss di Casalotti, è anche il fratello di Enrico, alla sbarra per l'omicidio dell'albanese Shehaj Selavdi (Torvaianica, settembre 2020) e a sua volta accusato in concorso con l'argentino Raul Esteban Calderon - l'esecutore materiale - del delitto di Piscitelli. Enrico, intercettato dalla Mobile, aveva parlato dell'omicidio del Diablo spingendosi fino ad «accusare il fratello Leandro di essere il mandante», come scrive il gip De Amicis nell'ordinanza di arresto del sudamericano.

L'ex compagna di quest' ultimo aveva spiegato anche il perché: «Mi ha detto di aver ucciso Diabolik - ha riferito alla Dda - e Leo (Leandro, ndr) era il mandante, il motivo era personale. Leo era considerato infame da Piscitelli». Il prezzo pagato al sicario argentino sulle cui tracce si erano messi anche i carabinieri di Torvaianica, per eliminare il Diablo sarebbe stato di 100mila euro e 4mila al mese. Lo spirito ribelle di Leandro non si sarebbe placato nemmeno dietro le sbarre: con altri 8 detenuti, nel marzo 2020, aizzò una rivolta a Rebibbia. La notizia della sua scarcerazione sorprende i familiari di Piscitelli.

«Il lavoro incessante degli inquirenti rischia di essere vanificato - dice Maria Assunta, la madre di Fabrizio - da quel che ho potuto leggere dai giornali il nome di Bennato non è nuovo tra i criminali di spicco, protagonista di una evasione e di una latitanza; ancor prima come cittadina penso che, o le notizie riportate sono menzogne, o in questa città si può fare tutto e basta capitare nell'aula giusta di un tribunale per farla franca, mentre noi finiremo per abituarci alla normalità di spari in pieno giorno. Credo sia lecito chiedersi come fa un giudice di buona coscienza a dare i domiciliari a un soggetto che presumibilmente dovrà rispondere anche di omicidio. Forse il male assoluto era solo Fabrizio?». 

Che Piscitelli sia stato ucciso solo per aver dato dell'infame a qualcuno, è una tesi che non la persuade: «Se così fosse Fabrizio non sarebbe quel personaggio coinvolto in tanto malaffare come tratteggiato». E forse non convince neppure gli investigatori che non hanno mai smesso di indagare. Manca all'appello chi ha teso la trappola nel parco, chi ha accompagnato Calderon e bisogna capire se la morte di Diabolik sia stata sentenziata da ranghi più alti, della Camorra e/o della ndrangheta.

Francesca Fagnani per “L’Espresso” il 22 maggio 2022.

La criminalità a Roma è una rete interconnessa di soggetti che si muovono in un rapporto di mutua assistenza criminale, salvo imprevisti. I sodalizi malavitosi convivono l'uno accanto all'altro, spartendosi il territorio in modo più fluido che altrove, in un equilibrio che favorisce gli affari e allontana i problemi, almeno fino a quando i guai qualcuno non se li va a cercare, perché fa il furbo, perché non paga la stecca, per un debito o per un credito o perché alza troppo la testa. E a quel punto, allora, si spara. 

Il mondo del crimine romano è una matassa ingarbugliata, dove i nemici si alleano e gli amici si tradiscono. Dove se sgarri con i tuoi sodali più che con i tuoi rivali, sei morto.

E infatti Fabrizio Piscitelli è morto, gli hanno sparato mentre era seduto su una panchina, in un parco della Tuscolana, dove è cresciuto e dove si sentiva protetto. 

L'esecutore materiale è stato arrestato, ma mancano ancora i mandanti. Seguendo i fatti di sangue che da quel 7 agosto del 2019 si sono susseguiti a Roma, è forse possibile oggi ipotizzare la cerchia entro la quale si è deciso quell'omicidio; il killer, l'argentino Raoul Esteban Calderon è stato arrestato lo scorso dicembre, per la morte di Piscitelli e per quella di Shehaj Selavdi, a Torvajanica, individuato grazie alle indagini della squadra mobile di Roma e dei carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati, coordinati dalla procura di Roma.

La pista del killer albanese, battuta per mesi e seguita anche da chi scrive era sbagliata. A tradire il Diablo non sono stati gli albanesi. «Roma non vuole padroni», si è sempre detto, anche se le indagini e la strada raccontano tutt' altro, perché a decidere i carichi di droga e il prezzo per le piazze, a dirigere decine di batterie, a stabilire alleanze, a dirimere controversie, a concedere protezioni o farle venire meno sono in pochi e sempre gli stessi, da anni: a cominciare dai Senese, il clan di camorra più forte a Roma dagli anni '80, da cui dipendono alcuni pezzi da novanta della mala romana. 

Il capo indiscusso è zio Michele, detto 'O Pazz' (per la sua abilità ad evitare il carcere attraverso false perizie psichiatriche) che negli anni ha costruito un impero del narcotraffico, guidando il cartello anche dal carcere: nascondeva i pizzini anche nelle scarpe.

Senza dire - come abbiamo appreso - di una visita autorizzata di Michele stesso ai genitori, con i quali ha pranzato comodamente a casa sua, nel fortino del Quadraro, sia pure, ovviamente, alla presenza delle forze dell'ordine. 

Sotto l'ala protettrice del clan di Afragola sono cresciuti pesi massimi del crimine romano, come Giuseppe Molisso, Roberto De Santis, detto Nasca, Roberto Giordani, detto Cappottone, Ugo di Giovanni e Fabrizio Piscitelli, per tutti Diabolik. Riferibili al cartello dei Senese ci sono altri soggetti di grande spessore come Alessandro Capriotti, alias Er Miliardero e i fratelli Enrico e Leandro Bennato, nipoti di Walter Domizi, "il gattino", boss della zona Casalotti-Primavalle. Un filo rosso sangue unisce alcuni di questi nomi e ci porta, ancora una volta all'omicidio del Diablo.

La strategia del clan dei Senese è sempre stata quella di consentire ampi spazi di autonomia ai propri sodali, dissimulando così il controllo esercitato sulle loro azioni, ma non è concepibile assumere iniziative di rilievo senza il loro assenso. 

Giuseppe Molisso, napoletano, classe '82 è il personaggio di maggior caratura criminale del cartello, considerato il vero erede di Michele 'O Pazzo. Pericoloso e temuto per la sua facilità nel ricorrere alle armi: «Peppe è uno che ti spara», dice il collaboratore di giustizia Diego Refrigeri. Nel 2010 Molisso era già saldamente a capo di numerose batterie operanti nel traffico di droga, tra Cinecittà e il Tuscolano, ma negli ultimi anni il suo prestigio era notevolmente cresciuto a Tor Bella Monaca, il più fiorente mercato della droga a Roma, grazie alla sua capacità di stabilire rapporti diretti per l'approvvigionamento di cocaina; tra i suoi canali spagnoli potrebbe esserci addirittura Antonio Gala, boss campano attualmente latitante, considerato uno dei re del narcotraffico internazionale.

Molisso è stato arrestato lo scorso gennaio, nell'ambito di un'indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo di via in Selci, coordinati dalla Dda di Roma, dalla quale è emerso a suo carico un duplice tentato omicidio che forse potrebbe fornire una chiave di lettura importante per decifrarne un altro: quello di Piscitelli. 

Giuseppe Molisso, da quanto emerge nelle sue chat decriptate, risulta essere il mandante del tentato omicidio dei fratelli Alessio ed Emanuele Costantino, figli di Andrea detto "Er Verdura", pregiudicato attivo soprattutto nell'usura. I fratelli si erano resi colpevoli del pestaggio di un nipote di Molisso, per di più filmando l'accaduto in un video che poi aveva fatto il giro del carcere dove è recluso loro padre.

Un'onta da lavare con il sangue; Peppe decide allora di affidare il compito a un killer che conosce molto bene, tanto che nelle chat si chiamano reciprocamente "amico": Raul Esteban Calderon, lo stesso che sparò a Diabolik e a Shehaj, alias "Simone Passerotto", a Torvajanica. Dopo aver concordato ogni dettaglio dell'agguato con Molisso, Calderon il 13 luglio scorso si presenta con uno scooter guidato da un complice, davanti al Roxy bar in viale Alessandrino, tra la gente e a volto scoperto. Il messaggio vale per tutti: il capo si rispetta. Anche stavolta il killer spara alla nuca, ma l'urlo dell'altro fratello fa spostare Emiliano che viene colpito alla spalla e alla mandibola. Calderon esplode un altro colpo, ma la sua calibro 9x21 si inceppa. Ha fallito e scappa.

Le vittime non hanno dubbi sul responsabile dell'agguato, ma si guardano bene dal denunciarlo alle forze dell'ordine: «Alessio l'hanno puntato in faccia. Volevano ammazza' a tutt' e due, André solo lui po' fa' ste cose!», dice Fabiola Nori, la madre dei ragazzi, durante un colloquio intercettato in carcere, al marito Andrea Costantino, che quando capisce chi c'è dietro all'agguato ai figli, terrorizzato scoppia a piangere: «Comanda tutto lui!», dice. 

Nel giorno del fermo dell'argentino, Emanuele Costantino, intercettato, dice: «L'omicidio de Diabolik uguale me lo stava a fa' a me, identico!». La forza di Peppe Molisso è tale che può ordinare un omicidio senza subire ritorsioni. Sopra di lui, del resto, ci sono solo i Senese. Molisso che ha vissuto per molti anni a Cinecittà, si era poi trasferito a Grottaferrata, dove vivevano proprio Fabrizio Piscitelli e Alessandro Capriotti, detto Er Miliardero, per la montagna di soldi che è riuscito ad accumulare tra narcotraffico e truffe.

Anche Capriotti è un uomo dei Senese ed è proprio lui che Piscitelli attendeva seduto tranquillamente sulla panchina nel Parco degli Acquedotti, quel 7 agosto, come abbiamo scritto mesi fa senza ricevere finora smentite. Er Miliardero all'appuntamento non si presenterà mai, a differenza invece del killer argentino. 

Difficile non ipotizzare che abbia fatto da esca e che non condividesse la sentenza di morte decisa per il capo ultrà. A quanto ci risulta, quel giorno Diabolik avrebbe dovuto riscuotere da Capriotti la tranche di un pagamento, era una stecca sulla droga o su altro? È possibile che Piscitelli facesse da mediatore tra Capriotti e gli albanesi, con cui ultimamente Er Miliardero aveva problemi tali da ricevere pesanti intimidazioni? Come lui nessuno parla, del resto, in un clima di omertà spaventoso.

Tra i punti ancora chiarire, ce n'è uno di particolare interesse. Se ormai è noto che a sparare è stato Calderon, chi era il complice che attendeva fuori dal parco in motorino per assicurargli la fuga? Seguendo gli intrecci dei fatti criminali, verrebbe da ipotizzare che quel giorno ad accompagnare Calderon fosse un altro uomo riferibile al cartello dei Senese: Enrico Bennato, braccio armato di suo fratello Leandro, boss di Primavalle, una zona storica della mala romana, dove la droga circola a fiumi.

Seguiamo i fatti. Pochi mesi dopo l'omicidio di Fabrizio Piscitelli, mentre Leandro Bennato è in macchina in via Boccea viene raggiunto da due uomini in scooter che gli sparano alle gambe. A sparare è Shehaj Selavdi, accompagnato da un complice. Leandro capisce che l'agguato è una vendetta di Fabrizio Fabietti, braccio destro di Piscitelli, per vendicarne la morte. Da quel giorno scatta la caccia all'uomo, Leandro cerca Fabietti ovunque. Il socio del Diablo si sente un uomo morto e non sbaglia.

Da quanto si è appreso, il giorno prima del suo arresto, Fabietti commette un'imprudenza: va a cena fuori con la moglie senza guardaspalle e per un soffio non viene raggiunto da Bennato, che quella sera si aggirava intorno a casa sua in macchina in compagnia del killer argentino, pronto con il colpo in canna. A salvargli la vita sono stati gli uomini del Gico di Roma della Guardia di finanza, che quando lo arrestano nell'ambito dell'indagine Grande Raccordo Criminale lo trovano nascosto nel vano del condizionatore, in pigiama e immerso nella sua urina, per la paura che fosse arrivato, come per Piscitelli, il suo momento.

Ma la spirale di violenza non si ferma, perché il 20 settembre del 2020 tocca a Shehaj morire, freddato da Raoul Esteban Calderon , accompagnato ancora una volta da Enrico Bennato, che intercettato dai carabinieri, finisce per denunciare se stesso e suo fratello Leandro come mandante dell'omicidio di Fabrizio Piscitelli, dell'albanese Shehaj e del suo complice, di cui ad oggi non si sa nulla: «È morto pure quello, a sede' sulla panchina, stava a fuma' la sigaretta, ha preso la revolverata qui dietro e l'altri due de quelli là che hanno sparato a Leandro sono morti». Amen.

I fratelli Bennato non erano gli unici a voler eliminare Fabrizio Piscitelli, che era diventato un problema per molti dei suoi sodali. Non rispettava le regole, andava a prendersi i miglior uomini dalle batterie altrui, soprattutto spacciatori, si era dato un ruolo da mediatore per una pax mafiosa ad Ostia senza averne avuto l'investitura dall'alto, aveva mandato in tilt insieme a Fabietti il mercato della droga, abbassando troppo i prezzi, mettendo in difficoltà tutte le piazze di Roma e poi si sentiva talmente forte e autonomo da non pagare come gli altri o in misura minore la stecca ai Senese. Era un guaio quel Diabolik per il suo stesso cartello, per Giuseppe Molisso, per i fratelli Bennato e per Alessandro Capriotti sicuramente, ma nessuno lo avrebbe toccato se zio Michele avesse voluto cambiare il finale, salvandolo. Forse aveva sbagliato troppo per essere difeso, ma di fatto la sua corsa per prendersi Roma si è fermata su una panchina, nel quartiere dove è cresciuto.

Il killer di Diabolik provò a uccidere anche i fratelli Costantino. In carcere il mandante: Giuseppe Molisso. Valeria Di Corrado su Il Tempo il 24 gennaio 2022.

I carabinieri del comando provinciale di Roma hanno eseguito il fermo di indiziato di delitto emesso dalla Dda di Roma a carico di Giuseppe Molisso, pluripregiudicato 39enne originario di Napoli ma domiciliato a Grottaferrata, ritenuto il mandante del tentato duplice omicidio dei fratelli Emanuele e Alessio Costantino, avvenuto il 13 luglio scorso in viale dell'Alessandrino. Coindagato per lo stesso reato (aggravato dal metodo mafioso) e accusato di essere il sicario che ha sparato: Raoul Esteban Calderon, il 52enne pregiudicato di origini argentine arrestato il 13 dicembre scorso poiché considerato l'esecutore materiale degli omicidi dell'ex ultrà della Lazio Fabrizio Piscitelli, ucciso al parco degli Acquedotti il 7 agosto 2019, e di Shehaj Selavdi, avvenuto a Torvajanica il 22 settembre 2020.

«L’omicidio de Diabolik uguale, me lo stava a fa a me! Identico». È quanto afferma in una conversazione intercettata Emanuele Costantino. «Tale espressione consente di ritenere - si legge nell'ordinanza del giudice - che Emanuele Costantino abbia verosimilmente ricondotto a Calderon, che aveva agito a volto scoperto, anche l’agguato consumato ai propri danni e del fratello Alessio, tanto da far similitudini con l’omicidio di Fabrizio Piscitelli».

Travisato da un cappello e da una mascherina, il killer si era avvicinato ai tavolini di un bar dove erano seduti a prendere un aperitivo i due fratelli (figli di Andrea Costantino, detto "er Verdura", "soggetto di elevata caratura criminale detenuto a Rebibbia al momento del fatto" e pluripregiudicato per reati di usura, anche in concorso con il clan Pagnozzi). L'uomo aveva puntato una pistola calibro 9x21 alla nuca di Emanuele Costantino premendo il grilletto due volte. In quello stesso istante la vittima, allertata dal fratello, aveva girato repentinamente la testa e i proiettili gli avevano perforato la spalla destra e la mandibola sinistra, andando a impattare contro il vetro del locale pubblico. Il killer ci aveva quindi riprovato mirando alla testa di Alessio Costantino, ma l’inceppamento dell’arma lo ha costretto alla fuga a bordo di uno scooter condotto da un complice. Emanuele, trasportato al pronto soccorso dell’Ospedale Umberto I, fortuitamente riportava lesioni non letali.

Le indagini, svolte dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma tramite pedinamenti e intercettazioni ambientali e telefoniche, hanno consentito di ricostruire il movente (riconducibile a dissidi sorti a seguito del pestaggio di un nipote di Molisso), la dinamica del delitto, le modalità con cui era stato incaricato il sicario. Le perquisizioni, che sono state eseguite in occasione dell’esecuzione del provvedimento a carico di Calderon, hanno consentito di rinvenire e sequestrare tre orologi di lusso, del valore di circa 50mila euro, e di 20mila euro in contanti. Ieri il fermo di Molisso è stato convalidato dal gip del Tribunale di Roma che ha emesso a suo carico un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Questi era uscito di galera poco più di un anno fa, dopo aver scontato una pena a 11 anni per detenzione e spaccio di stupefacenti; definito da un collaboratore di giustizia: "una persona che conta a Tor Bella Monaca per il rifornimento di più piazze".

Il 15 luglio scorso, due giorni dopo il tentato omicidio, la madre dei fratelli Costantino si presenta nel carcere di Rebibbia per avere un colloquio con il marito, Andrea Costantino, al quale riferisce di aver capito che il mandante è Peppe, il quale aveva ripristinato in questo modo il suo potere nella zona. "Dovevano dimostrarlo al monno intero". "Alessio lo hanno puntato in faccia - spiega la moglie - Volevano ammazzà a tutti e due, André. E solo lui po' fa ste cose... A viso scoperto so annati (...) Se no aspettavano davanti al night miei figli, li facevano a tutti e due". I fratelli infatti aiutano il padre nella gestione dello strip club "Blue Night", in via San Getullo (zona Settecamini), e del ristorante "Lady Champagneria", in via Flaminia (zona ponte Milvio). Calderon e Molisso, da quanto emerso dalle indagini, avevano pensato di tendere l'agguato mortale proprio all'uscita di questi due locali, ma poi le chiusure dovute alla pandemia li avevano indotti a cambiare programma. Quando Emanuele Costantino finisce ai domiciliari a Nettuno, i due "ipotizzano di raggiungerlo presso l'abitazione e farsi aprire la porta indossando divise da carabinieri".

«Particolare rilievo - scrive il gip Tamara De Amicis - riveste poi l’esternazione della donna (la madre dei due ragazzi), quando, capita la caratura criminale di Raoul Calderon riferiva testualmente al marito "C’ho i brividi solo a pensarci…"». «I commenti riportati inducono a ritenere che la famiglia Costantino sia a conoscenza di maggiori dettagli rispetto a quanto riferito agli operanti nell’immediatezza del fatto, ma che per paura, tenuto conto della caratura criminale degli aggressori, abbiano preferito tacere e aspettare che gli stessi venissero individuati dalle forze dell’ordine», si legge nell’ordinanza. Lo dimostra anche un colloquio in carcere tra i figli e il padre. Emanuele si dice disposto a sborsare anche del denaro: "Tocca risolverla sta situazione e vivere tranquilli (...) O te fai 30 anni o mori... che sei matto a pa'?". Alessio è più pessimista: "Qua, noi, a Roma, non ce potemo più sta"

 Il gip, nel motivare la convalida del fermo, sottolinea come «le modalità e le ragioni dell’agguato sono tipiche del metodo mafioso del controllo del territorio». «La gravità indiziaria a carico di Calderon e di Molisso è derivata dall’acquisizione delle chat scambiate su telefoni criptati» e la decisione di uccidere i fratelli Costantino ha avuto «una genesi lontana e una preparazione lenta e tenace», durata circa un anno.

Droga, estorsioni e progetto di sequestro di un minore per controllare le piazze. “Io sono Dio”: chi è Elvis Demce, l’uomo di Diabolik che con una pioggia di droga voleva prendersi Roma. Riccardo Annibali su Il Riformista il 19 Gennaio 2022. 

Elvis Demce era un uomo di Diabolik, e sulle sue orme voleva prendersi Roma con una pioggia di droga. Non c’era solo Demce ma anche altri albanesi appartenenti a quei due clan che stavano cercando di emergere a costo di uccidersi a vicenda per impossessarsi del dominio di Fabrizio Piscitelli.

Lo scettro lo voleva solo uno e Demce si vedeva già sul trono della Capitale senza dividere niente con nessuno. Descritto come violento, spregiudicato, pronto a uccidere perché “il Dio sono io”. Aveva tentato di fare fuori il suo connazionale e rivale nel 2019, il capo dell’altro gruppo, Ermal Arapaj. Adesso sono tutti e due in carcere per droga, estorsioni (e per Demce e il suo gruppo anche l’aggravante mafiosa).

L’operazione per l’arresto è stata condotta dai carabinieri del nucleo investigativo di Roma e del gruppo Frascati che hanno raccolto un grande successo. Le due bande spadroneggiavano tra Prenestino, litorale Pontino, i Castelli Romani e Velletri, dove gestivano gli affari di droga. La grande quantità di denaro e la lotta per il predominio sul territorio avevano portato i boss dei due gruppi ad odiarsi a tal punto da programmare l’uno il delitto dell’altro.

Durante il periodo in cui Demce era agli arresti per un omicidio (dal quale è stato poi assolto), Arapaj si era preso la sua piazza. Per questo un killer tentò di ucciderlo ma senza successo e Arapaj aveva ferito anche il killer. Invece il progetto di far fuori Demce è naufragato con gli arresti. L’avrebbe aspettato una Steyr calibro 40 e 12 proiettili. “Lui vuole il potere, qui ci sto io. Non mi muovo, tu te ne vai”, diceva. “Con questa sei sicuro che muore”, gli aveva consigliato la moglie mostrandogli la pistola.

Odio, estorsioni, incendi e i progetti di sequestro per chi non pagava i debiti. Al centro di tutto la droga che veniva direttamente dalla Colombia. Per due fratelli pusher di San Basilio in debito per 100mila euro Demce aveva deciso una punizione efferata: “Prendetegli il fratello di 15 anni, sequestratelo e staccategli tutte e due le braccia”. Demce vantava contatti con i camorristi del clan Mazzarella per i quali avrebbe cercato di recuperare alcuni crediti. Ma il suo cruccio era fare fuori Arapaj. Ai suoi nel 2020 spiegava: “Qua c’è solo una chiesa. Qui pure i sampietrini sono nostri“. E, ancora: “Gli devi dire che prima ti faccio a pezzi e poi pezzo pezzo ti butto dal balcone. Quando parlo io è Cassazione, è morte. È uscito l’Isis. Mo andateve a chiudere tutti quanti”. E sempre parlando di Arpaj mimava: “Gli dovete levare tutti i denti”.

Demce seguiva le orme del suo padrino anche nei locali che frequentava. Quelli di Ponte Milvio come il Coco Loco dove lavorava Adrian Pascu, ucciso a colpi di pistola nell’adrone di un palazzo di Primavalle i primi giorni dello scorso dicembre. Una vera e propria esecuzione. Donna chiave nel gruppo di Arapaj, per gli investigatori, è una colombiana, vedova di un trafficante di cocaina dei Castelli Romani. Si era impegnata per far giungere in Italia cocaina dal suo Paese, dalla Spagna e dalla Grecia. Andò male e Arapaj meditava vendetta. “La prendo in ostaggio e fanculo. O mi da i soldi oppure…”. Riccardo Annibali

Camilla Mozzetti per "il Messaggero" l'11 gennaio 2022.  

Un fortino della droga che presta il nome all'ultima operazione dei carabinieri, diretti dalla Direzione distrettuale antimafia, nel cuore del IX Municipio in cui il traffico di stupefacenti segue le più conosciute narrazioni che da anni si rincorrono a Tor Bella Monaca o San Basilio. Eccola una nuova piazza di spaccio modello Scampia dove il reticolo di palazzoni popolari protegge e copre vedette e pusher.

Santa Palomba, tra via dei Papiri e via degli Astrini: qui ieri mattina all'alba è scattata l'operazione fortino condotta dai carabinieri della compagnia Pomezia e dai militari della stazione Divino amore a seguito di un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 21 indagati (18 finiti in carcere, due ai domiciliari e un'ultima persona costretta all'obbligo di presentazione alla pg). 

Sono tutti accusati di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e, in alcuni casi, di spaccio e detenzione ai fini di spaccio in concorso. Tra gli arrestati c'è anche l'ex primula rossa della banda della Magliana, Fabiola Moretti, che in questo comprensorio alla periferia sud di Roma ci vive insieme ai figli - Nefertari Mancini, Ilary Mazza detto Lillo - e al genero, Giuliano Bevilacqua, finiti anche loro nelle maglie dell'operazione dei militari che ha alzato il velo su una nuova roccaforte criminale.

Un comprensorio composto da 400 appartamenti, dislocato nel perimetro di una vasta area industriale, circondato da rovi e fossati, con un unico accesso controllato h24 da vedette che si danno il cambio e avvertono dell'arrivo delle forze dell'ordine. Una conformazione questa che «ha favorito - secondo il gip Roberto Ranazzi - il formarsi di due gruppi ben organizzati di persone che vi abitano di svolgere attività come furti, estorsioni e traffico di stupefacenti. Reati in parte subìti dal resto dei residenti che non reagiscono per timore di ritorsioni violente». 

A tenere in mano le redini delle due fazioni che a volte interagivano tra loro «a volte in competizione - si legge ancora nelle carte - e a volte in collaborazione» due uomini: Alessandro Faina e Alessandro Fabeni con Fabiola Moretti impegnata nel reperimento della droga per entrambi.

Gli equilibri della piazza di spaccio sono questi: il mercato gestito dal Faina e l'altro dal Fabeni opera «nella medesima zona in base ad una precisa suddivisione dei clienti - scrive ancora il gip nell'ordinanza di custodia cautelare - per modo che non tutti possono acquistare da chiunque».

Dopo l'arresto di uno dei due leader, il Faina, l'altro, il Fabeni, inizia a dettare le regole secondo un modello che non è quello «centralizzato e verticale instaurato dal Faina con rigide linee di trasmissione degli ordini bensì - si legge ancora nell'ordinanza - il modello della rete grazie alla quale più moduli di trafficanti agiscono in sinergia orizzontale tra loro». 

Ed è qui che la Moretti fa lo scatto in avanti, la vecchia per alcuni, la leader per altri che parte alla volta di Napoli per acquistare cocaina e hashish grazie al tramite di una sua ex compagna di cella. «Quando mi muovo io è di più di apposto! Hai capito?», dice senza sapere di essere intercettata l'ex primula.

Nel fortino di Santa Palomba, la base dello spaccio è l'unico bar del comprensorio, il Circolo Soriano, luogo di contrattazione per l'acquisto di sostanze stupefacenti dove si raccolgono le ordinazioni nel corso dell'intera giornata che vengono poi demandate ai pusher. Il bar risulterà essere fornito di sistema di vigilanza con telecamere nascoste nelle cassette dell'energia elettrica e nelle plafoniere che coprono l'intero perimetro e riprendono l'unica parte di ingresso al comprensorio, mentre lei, la Moretti, indica anche quanto e a che prezzo i figli devono passare la droga.

C. Moz. per "il Messaggero" l'11 gennaio 2022.

I suoi ultimi avversari la chiamavano la «vecchia», ma in barba all'età - che pure c'è, 67 anni da compiere il prossimo luglio - la sua presenza è tutt' altro che di intralcio. Procaccia i fornitori, scende a patti con loro, va personalmente a ritirare la droga fino a Napoli e alza la testa quando qualcuno le chiede di pagare subito e in fretta. L'esperienza criminale del resto non le manca. E Fabiola Moretti - ex primula rossa della banda della Magliana - l'ha mostrata ancora una volta finendo al centro dell'ultima operazione dei carabinieri della compagnia di Pomezia che l'hanno arrestata con l'accusa di far parte di un sodalizio criminale dedito allo spaccio di stupefacenti. 

Lei, la donna che fu prima l'amante di Danilo Abbruciati - il camaleonte - passato a miglior vita il 27 aprile 1982 quando fu ucciso a Milano nell'agguato, poi fallito, al vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone. E sempre lei, Fabiola, legata da una profonda amicizia a Renato De Pedis che si unirà, dopo la morte di Abbruciati, con un altro membro della banda: Accattone, al secondo Antonio Mancini in una relazione duratura eppure complicata. Dal carcere negli ultimi trent' anni è entrata ed uscita.

Dopo Mancini anche lei ha iniziato a collaborare all'inchiesta sulla banda della Magliana e il suo nome figura in tanti altri misteri italiani: dall'omicidio del giornalista Mino Pecorelli alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il carcere, appunto, la sua seconda casa che vive sempre per traffico di sostanze stupefacenti ma non solo. Qualche anno fa fu arrestata di nuovo perché provò ad accoltellare il fidanzato della figlia ed oggi esce fuori dalle carte del gip Roberto Ranazzi come una donna «leader del suo gruppo familiare» dove militano i figli e il genero «che vive del narcotraffico del quale fa professione».

«Io sono entrata con 70 grammi nella Questura e sono uscita», dirà a mò di vanto e senza sapere di essere intercettata dai militari il 23 ottobre di tre anni fa. L'indagine sul fortino di Santa Palomba, alle porte di Roma, è nella fase clou e la Moretti, che opera per uno dei due gruppi criminali dediti allo spaccio all'ombra di un complesso di edilizia popolare che ricorda il modello Tor Bella Monaca e la più lontana Scampia, si occupa di tenere in rapporti con i fornitori. Incalza uno di loro che da Napoli le chiede il pagamento delle varie consegne di cocaina e hashish in un tempo troppo ravvicinato.

Intercettata mentre discute del pagamento della droga con la sua intermediaria su Napoli dirà che i soldi «Mica nascono sugli alberi», aggiungendo poi che di lei e del suo gruppo ci si può fidare. «Adesso devi pigliare questi 4.500 ma noi sabato ti abbiamo portato i soldi ... dacci il tempo di farli!». Impartisce con tono severo e senza esitazione ordini ai figli che la seguono sulla strada dello spaccio. 

Fermata durante le indagini dei carabinieri mentre è in auto con il genero viene trovata con 105 grammi di cocaina nascosti nel reggiseno. Prova a mettere al riparo i figli perché da donna navigata nel settore sa benissimo che dopo il suo fermo i militari sarebbero andati a casa delle persone a lei più vicine. E così è stato. I carabinieri compirono una perquisizione a casa della figlia trovando materiale per il confezionamento della droga. E la Moretti le dirà rimproverandola: «Sei una deficiente, gli hai fatto trovare il fumo le bilance».

Sempre alla figlia darà indicazioni su come tagliare la droga appena arrivata «Guarda eee dice la Moretti aggiungi perché dice che è troppo, troppo, troppo, troppo, capito come?» e prosegue poi: «è sprecato così eh, capito come a mamma? Casomai non toccare niente che ci penso io quando arrivo sennò rovini tutto». E infatti la ragazza non si azzarderà a far nulla prima del ritorno della madre, che ordina quantitativi di cocaina come se fossero latticini - le «mozzarelle» - o hashish chiamandolo pongo. La stessa materia con cui solitamente giocano i bambini.

Camilla Mozzetti per ilmessaggero.it il 10 gennaio 2022.

La droga era la "mozzarella" oppure il "pongo" (nel caso si trattasse di hashish) e ad acquistarla era lei in persona che si recava a Napoli usando come tramite con il fornitore un'ex compagna di cella. E' stata arrestata questa mattina all'alba Fabiola Moretti, un tempo membro della Banda della Magliana ed ex compagna di quel boss, poi pentito, che è passato alle cronache con l'appellativo di "Accattone", al secolo Antonio Mancini. La Moretti faceva parte di un sodalizio criminale che da tempo gestiva il traffico di stupefacenti alla periferia sud della Capitale.

In un agglomerato di case popolari alle porte di Pomezia in cui due distinti gruppi facevano affari a suon di cocaina e hashish. L'operazione dei carabinieri della compagnia di Pomezia su richiesta della Direzione distrettuale antimafia della Procura di Roma è scattata all'alba di oggi: 21 le misure cautelari emesse (18 in carcere, due ai domiciliari e un obbligo di presentazione alla pg) e tra le persone coinvolte anche l'ex donna del boss della Magliana e pure la figlia avuta con Mancini, Nefertari. 

Le indagini, condotte dai militari del Nucleo Operativo della Compagnia di Pomezia e della Stazione Roma Divino Amore hanno accertato, tra i mesi di febbraio e novembre del 2019, l'esistenza di due distinti gruppi criminali dediti allo spaccio di sostanze stupefacenti nel quadrante sud della Capitale e la “base” comune dei due gruppi – autonomi e all'occorrenza collaborativi l'uno con l'altro nelle azioni illegali - era proprio quel complesso di case di edilizia popolare di via dei Papiri e via degli Astrini che, per la loro stessa conformazione, veniva denominato “il fortino”.

Un insieme di palazzi per un totale di 400 appartamenti circondato dalla campagna dentro cui il “sistema” veniva portato avanti neanche fosse una replica del modello “Scampia”. Gli odierni indagati, attraverso un sistema di vedette, potevano infatti avvistare, anche a lunga distanza, qualsiasi veicolo o movimento da loro ritenuto sospetto, rendendo particolarmente complesso ogni tentativo di controllo ed avvicinamento da parte delle forze dell'ordine.

Le intercettazioni

La Moretti all'interno del “sistema” portava avanti un'attività di leader perché come si legge nell'ordinanza del gip, operava per rifornire di droga entrambi i gruppi occupandosi di reperire le sostanze chiamandole, con l'illusione di non farsi scoprire, “latticini” o “pongo” nel caso si trattasse di hashish. Il potere della donna è ben sintetizzato in alcune intercettazioni: «Quando mi muovo io è di più di apposto! Hai capito?» dice la Moretti ad un'altra donna.

Per l'acquisto della droga l'ex donna del boss della Magliana si reca a Napoli dove una sua ex compagna di cella funge da intermediaria con il fornitore e quando la droga è pronta dà indicazioni alla figlia Nefertari su come tagliarla e lavorarla. «Guarda eee – dice la Moretti alla figlia – aggiungi perché dice che è troppo, troppo, troppo, troppo, capito come?» e aggiunge poi: «è sprecato così eh, capito come a mamma? Casomai non toccare niente che ci penso io quando arrivo sennò rovini tutto».

Secondo l'accusa era lei a rimediare le sostanze stupefacenti per le piazze di spaccio di Roma sud. Dalla Banda della Magliana a consulente della droga: l’ultimo blitz contro “zia” Fabiola Moretti. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 10 Gennaio 2022.  

Si recava da Roma a Napoli di persona, per acquistare la droga. Fabiola Moretti, ex Banda della Magliana e compagna prima del boss Danilo Abbruciati, conosciuto come ‘Er camaleonte’, poi di Antonio Mancini, passato alle cronache come ‘Accattone’, è stata arrestata oggi dai Carabinieri della compagnia di Pomezia.

Secondo le accuse, la donna faceva parte di un’organizzazione criminale, formata da due diversi gruppi, che gestiva il traffico di sostanze stupefacenti soprattutto nella periferia sud della Capitale.

L’arresto

Per Fabiola Moretti, detta ‘la zia’, è stata disposta la custodia cautelare in carcere: l’accusa è di traffico di droga. Le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e condotte dai Carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia di Pomezia e della Stazione Roma Divino Amore, hanno consentito di accertare, tra i mesi di febbraio e novembre del 2019, l’esistenza di due distinti sodalizi criminali dediti al traffico di stupefacenti e allo spaccio al dettaglio. Uno gestito dal 32enne ‘Er Faina’ che riusciva a dare le proprie direttive dal carcere. L’altro con a capo ‘Chicco’, che utilizzava la sua famiglia e persone ‘d’esperienza’ nello spaccio di droga, tra cui anche la ‘Zia’ Moretti. La “base” era collocata nel complesso di case popolari di via dei Papiri e via degli Astrini chiamato “il fortino”.

L’ex primula rossa della Banda della Magliana si occupava di recuperare forniture di stupefacenti a vantaggio proprio e di entrambe queste associazioni. Secondo il gip Fabiola Moretti è ‘leader del suo gruppo familiare’ e ‘vive del narcotraffico del quale fa professione‘. 

L’operazione dei Carabinieri

I Carabinieri della Compagnia di Pomezia hanno dato esecuzione ad un’ordinanza applicativa di 21 misure cautelari (18 di custodia in carcere, 2 agli arresti domiciliari ed un obbligo di presentazione alla P.G.) alle prime ore dell’alba di oggi 10 gennaio, emessa dal G.I.P. del Tribunale di Roma su richiesta della Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia. Gli indagati sono gravemente indiziati, a vario titolo, di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, nonché, in alcuni casi, di spaccio e detenzione ai fini di spaccio in concorso. Tra questi anche Fabiola Moretti.

Il ‘fortino’, grazie alla sua posizione isolata, con i caseggiati circondati dalla campagna, permetteva agli indagati di avvistare per tempo qualsiasi veicolo ritenuto sospetto, rendendo quindi difficile i tentativi di controllo da parte delle Forze dell’Ordine. Gli indagati avevano dato vita a una struttura ben organizzata con cui procurarsi e smerciare cocaina, hashish e marijuana.

Le indagini sono state condotte anche attraverso le intercettazioni, un sistema di video ripresa a distanza e attività di osservazioni che hanno permesso di ricostruire le relazioni e le attività degli indagati. Le attività tecniche sono state poi corroborate da numerosi riscontri, soprattutto attraverso il controllo degli acquirenti che ha consentito ai Carabinieri di censire un continuo via vai di persone che si rivolgeva al ‘fortino’ per comprare dosi a qualsiasi ora.

Le intercettazioni

Proprio in alcune delle intercettazioni raccolte dai Carabinieri, in cui gli indagati usavano perlopiù un linguaggio ‘criptico’ o ‘simbolico’, la Moretti definiva la droga ‘latticini’ oppure ‘pongo’ nel caso si trattasse di hashish. Per l’acquisto delle sostanze stupefacenti l’ex compagna del boss della Magliana in più di una circostanza si sarebbe recata a Napoli, con una ex compagna di cella come intermediaria con il fornitore, per poi dare indicazioni alla figlia Nefertari su come tagliarle e lavorarle. “Quando mi muovo io è di più di a posto! Hai capito?” dice la Moretti a un’altra donna in una delle intercettazioni. 

Anche la figlia 28enne è nei guai come la madre, secondo le indagini ‘pusher’ per lo spaccio al ‘fortino’.

Il nome di Fabiola Moretti è legato a varie vicende della cronaca nera romana: è stata l’accusatrice dell’ex senatore Claudio Vitalone nell’inchiesta sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e ha collaborato alle indagini sulla scomparsa di Manuela Orlandi. La donna era già stata arrestata per traffico di droga in passato. Mariangela Celiberti

Dalle immagini si vede la fasciatura al polpaccio destro. Omicidio Diabolik, spuntano le foto dell’esecuzione di Piscitelli e la fuga del killer. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2022.  

Ci sono diverse immagini, catturate il pomeriggio del 7 agosto 2019, che potrebbero incastrare l’argentino Raul Esteban Calderon, accusato di aver ucciso Fabrizio Piscitelli, l’ultrà laziale noto come “Diabolik“, assassinato nel Parco degli Acquedotti a Roma più di due anni fa.

Come riporta il Corriere della Sera, queste immagini, estratte dalla telecamera di sicurezza sistemata su un palazzo di via Lemonia, mostrano Piscitelli e il suo socio cubano seduti su una panchina nel parco.

Sono le 18.44 e 34 secondi del 7 agosto 2019. Le prime immagini mostrano Piscitelli seduto sul lato destro della panchina, in maglietta e pantaloni corti, probabilmente impegnato con uno dei due telefonini che aveva con sé, e il cubano al suo fianco. A pochi metri di distanza, si intravede la sagoma dell’assassino, che si avvicina ai due correndo. Piscitelli e il cubano non si accorgono di essere stati raggiunti da quello che sarà il killer del capoultrà laziale.

Alle 18.44 e 36 secondi, il sicario, che indossa una maglietta verde, è arrivato alle spalle dei due e un secondo dopo esplode il colpo di pistola che risulterà fatale per Diabolik. Il cubano resta seduto, mentre Piscitelli si ripiega su se stesso, cadendo dalla panchina.

Alle 18.44 e 38” il cubano si alza e un secondo dopo scatta in avanti correndo verso la sua destra. Il killer invece si intravede soltanto, alle 18.44 e 39”, nascosto da un pino mentre scappa nella direzione opposta. Le telecamere poi riprendono la fuga del sicario.

L’assassino arriva davanti alla staccionata del parco, la supera con un salto e raggiunge via Lemonia. Il sicario, che indossa occhiali da sole, cappello, maglietta verde, pantaloni gialli e scarpe bianche, passa davanti alla telecamera per raggiungere il complice che lo attende a bordo di un motorino. Da un ingrandimento della stessa immagine, si distingue bene il colore dei pantaloni e la fasciatura al polpaccio destro. Secondo gli inquirenti, la benda era stata posizionata per coprire un tatuaggio che l’argentino Raul Esteban Calderon, sospettato di essere l’autore del delitto, ha proprio in quel punto. Da precauzione per non essere riconosciuto, quella vistosa benda sarebbe diventata uno dei principali indizi nei suoi confronti.

Secondo l’accusa, che ha analizzato le immagini, c’è una “chiara compatibilità” tra le fattezze e le movenze dell’indagato e quelle dell’assassino.

Questi fotogrammi arriveranno la prossima settimana al tribunale del Riesame, per discutere la scarcerazione avanzata dalla legale di Calderon. L’argentino, arrestato dal giudice su richiesta della Procura di Roma, è indiziato del delitto di Diabolik: l’accusa, infatti, ritiene valide le intercettazioni e le dichiarazioni della sua ex convivente e altri dialoghi fra pregiudicati registrati dalle microspie della polizia.

Contro il presunto sicario argentino c’è altro: a tradire il 52enne è stata anche l’ex compagna, madre della figlia minorenne e sua sodale in parte della carriera criminale, quando Calderon era un rapinatore di gioiellerie.

In una telefonata intercettata la donna avrebbe accusato il sicario di averle preso la pistola di nascosto per poi usarla nel pomeriggio del 7 agosto 2019 per uccidere Piscitelli con un singolo colpo di pistola alla nuca. Arma, una calibro 9×21, che ad oggi non è ancora ritrovata. Ex compagna che poi, scrive Il Messaggero, ha messo tutto a verbale ed è stata poi condotta in una località protetta.

“M’hai rubato la pistola per fa n’omicidio de m…!“, dice in una intercettazione l’ex compagna di Raul Calderon. “Lo sai hai ammazzato Diabolik con la pistola mia, la 9X21, se me fai passà li guai so’ ca..i tua Raul, quando te fai trent’anni lo vedi come stai male? Co’ questo addio bello? E fa che nessuno mai me viene a bussà perché dico tutto quello che so“, dice la donna. “Tu stai male – è la replica di Calderon – te rendi conto de quello che dici… Dillo… urlalo brutta tr…”. “A Raul… forse non hai capito che lo sanno tutti? Te devi andà a fà trent’anni perché non me li voglio fa’ io per te? Hai usato la pistola della rapina“, ribatte ancora l’ex compagna, che proprio per la questione dell’omicidio di Piscitelli romperà la relazione col 52enne argentino

·        La Mafia abruzzese.

Morti sospette, milioni truffati. La mafia e gli affari d'oro sugli allevamenti in Abruzzo. Linda Di Benedetto su Panorama il 23 Novembre 2022.

Aziende inesistenti, animali spostati da una parte all'altra per eludere i controlli, fondi europei incassati senza i requisiti necessari. Il nuovo business della criminalità organizzata I fondi europei destinati agli allevatori sono il nuovo business delle mafie che hanno intascato in questi anni centinaia di milioni di euro. Una vasca di soldi che avrebbero dovuto servire a risollevare l’economia montana mentre invece l’hanno distrutta. Tra le regioni più colpite da questo fenomeno c’è l’Abruzzo. In Abruzzo la “mafia dei pascoli” ha messo in ginocchio gli allevatori. Il sistema creato dalle organizzazioni criminali per accaparrarsi la terra svenduta nelle aste dai comuni ha fatto guadagnare milioni di euro di fondi europei alle mafie, grazie alla costituzione di società fittizie. Aziende agricole fantasma che spesso sui pascoli non allevano ne producono assolutamente nulla, o nel migliore dei casi ci raccontano gli allevatori spostano da una parte all’altra il bestiame (sempre lo stesso). Ma la gravità di questa truffa colossale che sta distruggendo l‘economia allevamenti in Abruzzo. Agricola è anche la violenza usata da questi soggetti per accaparrarsi la terra. Gli allevatori infatti hanno denunciato nel tempo intimidazioni, minacce, incendi e animali avvelenati senza che nessuno abbia fatto chiarezza su questi episodi. Morti sospette Emiliano Palmieri un allevatore di 28 anni di Ofena in provincia dell’Aquila è stato trovato impiccato ad un albero il 16 maggio 2022 ma due settimane prima aveva subito una brutale aggressione riportando una profonda ferita alla testa causata da una pistola di quelle utilizzata per la macellazione. Prima di questo episodio ignoti avevano avvelenato due cavalli di sua proprietà. Stessa sorte è toccata ad un altro allevatore sempre in provincia dell’Aquila a Pizzoli che pochi giorni dopo la morte di Palmieri è stato trovato impiccato nella sua stalla. Le indagini Le mani della mafia sui Pascoli abruzzesi sono solo la punta dell’iceberg di un sistema spartitorio che riguarderebbe diverse regioni italiane e che sta facendo morire il sistema agricolo. Solo in Abruzzo nelle ultime settimane sono state adottate interdittive antimafia dalle Prefetture dell’Aquila e di Pescara, nei confronti di aziende e società agricole. L’ultima interdittiva antimafia emessa dal Prefetto di Pescara Giancarlo di Vincenzo è molto dettagliata. Il provvedimento emesso nei confronti della società agricola Frassino collegata ad altre 4 società riconducibili ai fratelli Berasi evidenzia attraverso le sentenze il legame del Clan dei Casalesi di Eraclea (Verona) con i due fratelli. Il sistema scrive il prefetto era di avere all’interno di ogni società un soggetto locale del territorio dove si decideva di operare. Un fattore ricorrente anche nelle altre società. Il sistema dei pascoli è anche ben descritto in una relazione redatta nel 2018 da un gruppo di ricerca scientifica dell’Università dell’Aquila, “Evidenze di fenomeni criminogeni in riferimento ai pascoli montani e ai contributi europei della Politica Agricola Comune (PAC)” che incrocia più di mille testimonianze di agricoltori con nomi e società che hanno in mano i pascoli e che sono riconducibili a presunte famiglie mafiose in tutta Italia e che mettono in evidenza così, il paradosso per cui contributi europei finiscono nelle tasche di chiunque ma non degli allevatori. «L'idea che mi sono fatta, dalle segnalazioni raccolte durante la ricerca sul campo e poi, ancor più chiaramente, con il lavoro fatto per ricostruire i trasferimenti dei titoli Pac in capo a soggetti segnalatici in varie regioni d'Italia, è che si tratta di un unico modello criminale organizzato in reti che, d'intesa, si spartiscono l'intero territorio nazionale, sotto il controllo di 'Ndrangheta, Camorra, Mafia e varie consorterie criminali della Puglia»- commenta la ricercatrice dell’Università dell’Aquila che ha condotto lo studio sui Pascoli

Un sistema noto anche alla regione Abruzzo «Dal mio insediamento nel 2019 come assessore all’agricoltura ho ascoltato per mesi il grido di allevatori locali e operatori del settore, stanchi di essere vessati da un vero e proprio sistema che, pur nel rispetto formale della legge, poco aveva a che fare con l’allevamento»-dichiara Emanuele Imprudente, vicepresidente della giunta regionale dell'Abruzzo e assessore all'agricoltura Affari d’oro Le tante società fantasma si trovano per la maggior parte a Foggia, Reggio Calabria e in provincia di Verona e si sono aggiudicate all’asta nei comuni dell’Abruzzo i pascoli, pagando un affitto di poche migliaia di euro a fronte di contributi milionari. La Pac 2015-2020 (Politica Agricola Comune) per gli aiuti agli allevatori attribuisce infatti un titolo a ogni ettaro di superficie ammissibile. In Italia i pascoli sono ben 3,2 milioni di ettari e il valore dei titoli varia da diverse migliaia di euro, a titoli di neppure un centinaio di euro a seconda delle produzioni agricole. Da qui è chiaro il giro di affari e l’interesse delle mafie che con queste società spesso costituite appositamente per fruire dei titoli Agea (agente pagatore italiano) che elargisce finanziamenti europei riescono a guadagnare soldi facili. Cifre stimabili anche in un milione di euro l’anno per un’attività di pascolo o coltura che spesso non esiste. Uno dei tanti casi raccolti dai ricercatori dell’Aquila e descritto da un allevatore riguarda tre ditte individuali che hanno percepito in 5 anni 5.567.000 milioni di euro. Una somma che dovrebbe corrispondere a delle realtà produttive importanti e invece come previsto dal sistema messo su in questi anni sono società sull’orlo del fallimento. Un altro caso invece riguarda un’altra società che percepisce circa 400mila euro l’anno ma nel suo pascolo non ha nulla. Mentre un’altra azienda ha percepito dal 2011 al 2016 circa 60 milioni di euro. Un business che avrebbe fatto incassare alla criminalità organizzata centinaia di milioni di euro. 24/11/22, 09:06 Morti sospette, milioni truffati.

A raccontarci la sua storia è un agricoltore colpito in prima persona. « Nel 2011 feci il primo esposto alla prefettura su quello che stava accadendo in Abruzzo ma non successe nulla. Poi Nel 2013 come rappresentante del Cospa Abruzzo presentai presso il comando compagnia carabinieri di Sulmona, alla presenza del Nucleo Antifrode Comunitarie una querela per alcune minacce ricevute tramite una telefonata da un personaggio con un accento spiccatamente settentrionale ma la procura aquilana dietro una breve, anzi brevissima indagine decise di archiviare »- ci racconta Dino Rossi presidente dell’Associazione Allevatori Cospa Abruzzo la prima a denunciare Poi cosa è accaduto? «Queste società che sembrano scatole cinesi rilevano i pascoli dai comuni abruzzesi e poi o non ci allevano nulla o spostano il bestiame da una parte all’altra. Molti allevatori sono stati intimiditi, per impedire che prendessero i pascoli. A me personalmente hanno bruciato una autopressa e una pala macchina ma credo si siano sbagliati con il mio vicino che era il ragazzo di Ofena ritrovato impiccato. Queste società come le dicevo vanno al comune e fanno offerte ma non hanno bestiame. Ad esempio nel comune di Villa Santa Lucia degli Abruzzi c’è una società che non ha mucche ma prendono comunque soldi. Idem nel comune di San Benedetto in Perillis dove un’azienda grazie al pascolo incassa 400mila euro l’anno di contributi europei ma non ha animali e nessuno controlla». Cosa spera si faccia? «Si spera che si inizi a fare chiarezza a tutta questa storia tenuta sommersa per lunghi anni a vantaggio di personaggi che non hanno nulla a che fare con il mondo dell’allevamento, partendo da nord a sud dell’Italia per soffermaci nella nostra regione e più precisamente nel comune dell’Aquila con i beni separati di paganica, tanto da generare una decina di aziende fantasma. Ma non finisce qui. Ad avere un portafoglio titoli c’è anche il parco nazionale Abruzzo Lazio Molise, forse ha intenzione di accedere ai fondi UE una volta che si sono liberato di quei pochi allevatori rimasti sul territorio che potrebbe distruggere un patrimonio zootecnico nazionale e compromettere la produzione di carne di latte». Cosa abbiamo scoperto Facendo una rapida verifica sono moltissime le aziende agricole che gestiscono i pascoli abruzzesi ad avere al loro interno sempre gli stessi amministratori del nord (due) con un terzo soggetto solitamente abruzzese. Abbiamo provato a contattare l’unico amministratore di cui è stato possibile reperire il numero e che compare in queste società con un altro socio ma non ha voluto dirci nè il numero delle società, nè dei dipendenti, nè del bestiame ritenendoli fatti privati.

·        La Mafia Emiliano-Romagnola.

LA DENUNCIA DELLA PROCURATRICE. La ’ndrangheta e l’Emilia Romagna «terra di mafia» tra complicità e negazionismo. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 25 gennaio 2022.

L’Emilia Romagna? «Terra di mafia». In molti storceranno il naso, esclameranno: «Che esagerazione!».

Comprensibile se i nuovi interpreti della criminalità mafiosa sono imprenditori ben vestiti, con fluente parlantina in lingua italiana (il dialetto è riservato solo per riunioni più intime di cosca) e frequentatori della borghesia delle cittadine tagliate dalla via Emilia.

La definizione «distretto di mafia» è stato coniato pochi giorni fa dalla procuratrice generale di Bologna, Lucia Musti, dall’inizio della sua carriera in prima linea nella lotta alle cosche nordiche.

GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini. 

·        La Mafia Veneta.

Andrea Priante per corriere.it il 21 ottobre 2022.

Il «bad boy» è tornato. O forse è solo caduta la maschera da eterno Faccia d’angelo. Nel suo peregrinare da un carcere all’altro, oggi Felice Maniero è rinchiuso a Pescara, dove sta scontando la condanna a quattro anni per i maltrattamenti ai quali ha sottoposto la compagna. 

L’arresto era scattato nell’ottobre del 2019, dopo un decennio trascorso da uomo libero: sotto falso nome si era trasferito a Brescia e aveva messo in piedi diverse società. Imprenditore, marito, padre di famiglia: era riuscito a far credere a tutti d’essersi redento, che i trascorsi da boss della Mala del Brenta fossero soltanto un amaro ricordo. E invece.

La prima a demolire la sua nuova immagine, era stata l’ex compagna, raccontando gli anni d’inferno vissuti con lui: «Una mattina mi ha colpito con schiaffi, buttata a terra e preso a calci e per i capelli. “Colonnello, 100 flessioni!”, diceva. Mi ha colpita con un pugno in bocca... Sono rimasta con lui in uno stato di paura costante, ho perso sette chili…».

Da allora per Maniero non si sono solo riaperte le porte del carcere, ma anche quelle delle aule di giustizia. Nei confronti dell’ex boss, infatti, all’improvviso emergono una dopo l’altra vecchie e nuove denunce, che tratteggiano il ritratto di un ex boss ancora violento, spaccone e prepotente. Mercoledì mattina a Brescia è iniziato il processo che lo vede imputato insieme a uno dei figli per bancarotta fraudolenta. 

Stando all’accusa nel 2016 avrebbe distratto beni e risorse per centomila euro dalla sua società, la Anyacquae srl, che vendeva casette per l’acqua ai Comuni di mezza Italia. L’udienza è stata rinviata al 4 aprile perché il giudice ha accolto alcune eccezioni presentate dal suo difensore, l’avvocato Rolando Iorio.

Ma è stato solo l’inizio del tour de force che nei prossimi mesi costringerà Maniero a girare tra i palazzi di giustizia del Veneto, della Lombardia e della Toscana. Il Corriere è riuscito (con non poche difficoltà) a ricostruire l’impianto di accuse che il 68enne si prepara ad affrontare, alcune delle quali riguardano episodi accaduti quando già si trovava in carcere per i maltrattamenti alla ex. Si comincia tra tre settimane. 

L’8 novembre è chiamato in tribunale a Firenze per un’aggressione che si sarebbe consumata un paio d’anni fa: quando l’ex boss si trovava nella prigione di Sollicciano avrebbe ferito un altro detenuto colpendolo con il telecomando. A dicembre lo attendono i giudici di Venezia per rispondere della diffamazione di una giornalista, che Maniero avrebbe calunniato attraverso un giornale locale.

A febbraio del 2023 a Brescia dovrà rispondere del pestaggio di un poliziotto avvenuto nel 2016 (quindi prima del suo ultimo arresto) nel parcheggio di un supermercato. Pare stesse litigando con un automobilista e, quando un agente in borghese ha tentato di riportarlo alla calma, Maniero l’avrebbe malmenato, per poi risalire sulla sua Bmw e andarsene via come nulla fosse.

A Pavia Faccia d’Angelo deve invece rispondere di sequestro di persona nel carcere di Voghera, nell’inverno del 2019, ai danni di un detenuto che avrebbe tenuto lo stereo a un volume troppo alto, e la musica – sempre stando all’accusa – avrebbe infastidito Maniero a tal punto da spingerlo a scatenare il pandemonio in cella. Infine, di nuovo nel Bresciano, dovrà rispondere di un’altra aggressione accaduta il 19 agosto del 2019 (un paio di mesi prima del suo arresto): l’ex dipendente di una delle sue società sostiene che l’ex boss l’avrebbe raggiunto nella sua abitazione e poi picchiato. 

Su questa storia esiste anche una contro-querela di Maniero che a sua volta accusa l’uomo di lesioni, ma per quest’ultima denuncia la procura ha chiesto l’archiviazione, contro la quale il legale di Felicetto ha presentato opposizione: il gip deciderà il 17 febbraio.

L’avvocato Rolando Iorio – lo stesso che difende il mostro del Circeo, Angelo Izzo – non vuole entrare in alcun modo nel merito dei procedimenti. «Mi limito a constatare il fatto che Maniero ha i fari puntati addosso, l’impressione è che nei suoi confronti ci sia ormai un clima di persecuzione». Diversa la lettura che ne fa chi, dal fronte investigativo, conosce molto bene l’ex boss. 

Michele Festa è il poliziotto (ormai in pensione) che per ben due volte riuscì ad arrestarlo: «È caduta la maschera. Maniero è sempre stato irascibile, quando perdeva la testa era davvero difficile tenerlo a freno. Ci riuscivano le persone a lui più vicine: la madre, la moglie, gli uomini della Mala che gli erano più fedeli… Oggi è solo, incarcerato, ha problemi economici e probabilmente non ha nessuno in grado di tenere a bada il suo deterioramento psichico».

Le mani delle mafie sul Veneto: è la regione del Nord con il record di infiltrazioni. Ventimila aziende in mano alle cosche, comuni infiltrati, colletti bianchi a libro paga, tassi di riciclaggio pari al Sud. La scalata dei boss al nord-est è dimostrata da uno studio commissionato da Luca Zaia, e poi nascosto. Luana De Francisco e Antonio Fraschilla su L'Espresso il 13 giugno 2022.

«A rovinarci è stato il soggiorno obbligato per i mafiosi negli anni Settanta». L’ex segretario della Liga Veneta Ettore Biaggiato risponde così su “Il Mattino di Padova” a chi fa notare che in Veneto un po’ di mafia in fondo c’è. Sono trascorsi cinquant’anni comunque dai tempi dei «confini» per i picciotti e forse la causa di quanto sta accadendo ai giorni nostri non è proprio questa.

Il Nord-Est che piace a Cosa nostra: logge, ricatti, arsenali e inchieste “dimenticate” dai giudici. Andrea Tornago su L'Espresso il 13 giugno 2022.

Il caso più eclatante inizia nel 2008 quando un pentito racconta dei ricatti di un luogotenente che lavora alla procura di Padova ed è legato all’allora presidente della Regione

Inchieste antimafia che nascono in Sicilia e muoiono in Laguna. Figli di boss che si muovono a proprio agio tra armi, droga e affiliati. Servitori dello Stato che spifferano, ricattano e pilotano le indagini. Nord-Est, terra vulnerabile ai giochi e ai segreti delle mafie.

Una delle vicende più eclatanti risale al 2008: un’importante famiglia mafiosa decide di investire 8 milioni di euro per la riqualificazione del porto di Chioggia, dove in un’area industriale dismessa sorgeranno 80 appartamenti.

L’allarme del senatore veneziano doc: «Difendiamo il Veneto dalle infiltrazioni mafiose». «Attenti al fenomeno dei colletti bianchi e alle false fatturazioni per ottenere i ristori dallo Stato». Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022. Galeotta fu l’intervista pubblicata sulle pagine interne di un quotidiano locale. Un senatore della Repubblica, Andrea Ferrazzi, 52 anni, veneziano doc, che senza giri di parole e a costo di farsi nemici i suoi elettori, dice pane al pane e vino al vino. Che «ora sono veneti gli imprenditori mafiosi». Cioè persone nate e cresciute in Veneto, «con un cognome veneto».

TERRA DI CONQUISTA

Apriti cielo. Nella regione che più di altre mostra il sudore sulla fronte quelle parole suonano come un affronto. E poco importa che siano dettate dalla conoscenza dei fatti. Da vice-presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie Ferrazzi ha infatti letto le carte. Sa di cosa parla. Cita le relazioni della Direzione distrettuale antimafia. Sgretola pregiudizi bilaterali radicati da sempre. E lancia un appello: «Difendiamo il mio Veneto dalle infiltrazioni mafiose e facciamolo ora, ora che le persone della nostra regione coinvolte nelle inchieste sono ancora una piccola minoranza».

Le parole del senatore, esponente del partito democratico, seguono a ruota quella del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. La descrizione del Veneto come «nuova frontiera di conquista della ‘ndrangheta», un’infiltrazione facilitata dal fatto «che non si incontra alcuna resistenza sul piano sociale».

Andrea Ferrazzi conosce le calli di Venezia e il suo territorio. È laureato in Economia aziendale all’Università Ca’ Foscari. La sua intervista al Mattino di Padova non è una voce dal sen fuggita, bensì un’analisi di cosa potrebbe accadere se nella sua regione non si sviluppassero gli anticorpi.

«Abbiamo una cultura e un sistema refrattario a questi fenomeni malavitosi, siamo cresciuti con il valore del lavoro e della laboriosità – dice – ma dobbiamo saper cogliere i cambiamenti. Le organizzazioni mafiose seguono i flussi, vanno dove la ricchezza si produce. E sebbene la stragrande maggioranza degli imprenditori veneti abbia interiorizzato quei valori, dobbiamo dire che ci sono altri imprenditori che fanno da intermediari e utilizzano metodi mafiosi. C’è un fenomeno di “colletti bianchi” che merita di essere approfondito».

IL CLAN VENETO DEI NUOVI CASALESI

Al Sud le mafie sono riuscite a ramificarsi diventando forti lì dove lo Stato è più assente, dove mancano i servizi e il lavoro. Il Veneto ha una qualità della vita e un reddito pro-capite imparagonabile se raffrontato ad alcune zone del Mezzogiorno dove le organizzazioni criminali prosperano. «Serve un nuovo sforzo investigativo che sappia cogliere le nuove tipologie della mafia. Che indaghi anche sui rapporti con la finanza e sui flussi. Gli ‘ndranghetisti seguono i soldi e dove ci sono i soldi cercano di infiltrarsi».

Ferrazzi ha il merito di non nascondersi dietro un dito. Crede in un federalismo in cui lo sviluppo del Nord e quello del Sud siano entrambi funzionali. «La crescita del Mezzogiorno è un vantaggio per la crescita del Nord». Non ha timore di sollevare la polvere nascosta sotto il tappeto.

Le prove si stanno accumulando da tempo. Le indagini sulla cosiddetta “Camorra eraclea” che portarono a 24 condanne, in totale 130 anni di carcere, svelarono un tessuto sociale permeabile alla malavita. Il clan dei casalesi perfettamente integrato e riproposto in salsa veneta. Il settore più a rischio rimane quello delle piccole e medie imprese, i “gioielli” veneti.

Il Covid ha aggravato la situazione. False fatturazioni, imprese fasulle create all’istante per ottenere i ristori dallo Stato. «Si sono insediate in materia stabile sul nostro territorio – dice Ferrazzi – sono presenze che mettono in difficoltà chi ha continuato a lavorare onestamente, chi con tutto questo non vuole avere niente a che vedere. C’è poi una grande disponibilità delle mafie ad investire i proventi illeciti cercando di acquistare imprese locali. Questo dobbiamo impedirlo».

Sotto accusa finiscono così anche quelle banche che non sostengono gli imprenditori. La soluzione? Creare un sistema che garantisca un forte sostegno finanziario a chi oggi patisce gli effetti della pandemia. E al tempo stesso rafforzare le inchieste della Guardia di finanza e delle forze dell’ordine. Il Tribunale di Venezia viaggia a rilento «perché non ha più personale», denuncia Ferrazzi. Gli appalti pubblici dati per chiamata diretta non garantiscono il massimo della trasparenza. E se pensiamo che stanno per essere messi a terra gli investimenti del Piano di ripresa e resilienza non c’è da stare troppo allegri.

IL RISCHIO DI “SEDERSI”

Che l’allarme sia venuto da un parlamentare veneto come Andrea Ferrazzi ha indubbiamente un significato particolare. Una sorta di auto-da-fe che costerà inimicizie e antipatie al senatore veneziano, spesso impegnato in missioni al Sud dove lo smaltimento dei rifiuti pericolosi e la gestione delle ecomafie fanno sempre gola. In Veneto questo problema riguarda solo alcune falde acquifere nella zona del Vicentino dove è scattata un’emergenza ambientale ma la gestione del ciclo dei rifiuti continua a solleticare l’interesse delle mafie.

Ferrazzi mette in guardia gli imprenditori locali dal rischio di sedersi sugli allori del passato. «Il modello Nordest si rivelerà vincente solo se sarà in grado di modernizzarsi e stare al passo con la concorrenza europea. La pubblica amministrazione è migliorabile».

Che sia urgente intervenire è fuori discussione. È di ieri un decreto restrittivo emesso nei confronti di un imprenditore edile. Operava in Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e Liguria. Una vicenda simile, purtroppo, a tante altre. Un 48enne appartenente alla ‘ndrangheta del Nord, residente a Cremona, al servizio della consorteria locale, con ditte e società intestate a compiacenti prestanome. I primi accertamenti avrebbero appurato l’esecuzione di lavori edili «finalizzati all’infiltrazione nell’economia locale e nazionale con operazioni di false fatturazioni».

·        La Mafia Milanese.

 

La Polizia di Stato arresta a Milano, 10 persone per associazione per delinquere di stampo mafioso. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Dicembre 2022

I reati contestati associazione a delinquere di stampo mafioso, coercizione elettorale, traffico di droga, tentata estorsione, tentato omicidio e altri reati tutti aggravati dal metodo mafioso

La Polizia di Stato di Milano, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica del capoluogo lombardo, sta eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip di Milano Fabrizio Filice su richiesta dai pm dal pm Stefano Ammendola e Paolo Storari e coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci, nei confronti di diverse persone ritenute responsabili, a vario titolo, dei reati associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di sostanze stupefacenti, tentata estorsione, tentato omicidio, ricettazione, porto illegale di armi, furto aggravato, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, intestazione fittizia e coercizione elettorale, usura, tutti aggravati dalla contestazione della mafiosità.

La complessa attività investigativa svolta dai poliziotti della sezione “Criminalità organizzata” della Squadra Mobile guidata dal vicequestore Nicola Lelario e dal dirigente Marco Calì, ha fatto luce sulle dinamiche della Locale di ‘ndrangheta di Pioltello (MI), feudo indiscusso delle famiglie Maiolo/Manno e sulle attività criminali di un altro soggetto riferibile alla famiglia di Cosa Nostra dei Pietraperzia (EN) collegata ai Rinzivillo.

Nel blitz di oggi della Polizia, tra i 10 arrestati compare Cosimo Maiolo il presunto boss della locale di ‘ndrangheta di Pioltello (Milano) , che avrebbe fatto “campagna elettorale” nel 2021 a favore del candidato sindaco per il centrodestra della cittadina Claudio Fina (non risultato eletto) organizzando “un banchetto elettorale anche per l’aspirante assessore all’urbanistica Marcello Menni” e “invitando le comunità di albanesi e pakistani a votare per Fina e Menni“, entrambi accusati “in concorso” di coercizione elettorale con aggravante mafiosa.

Il loro “programma” era quello di convogliare i voti delle comunità stranieri di Pioltello. Voti di pakistani, ma anche di cittadini provenienti da Bangladesh, Ecuador e Romania su Fina e Menni: “Ci sono sicuramente pakistani che possono… albanesi che possono votare… – diceva Fina intercettato -. Bangladesh.. e poi hanno un sacco di soldi (..) anche Ecuador..”. Maiolo confermava: “Ecuador ce l’abbiamo pure… . Allora mi sa che ci siamo.. Romeni, egiziani… Ecuador… Albanesi … Bangladesh … Marocco..”. “Egiziani – diceva Fina – sono quelli più numerosi qua…“.

L’attività investigativa della Mobile di Milano, ha riportato a galla vecchi metodi e rivelato nuove consorterie, evidenziate nell’ordinanza firmata dal gip Fabrizio Filice. Sette dei dieci arrestati sono accusati di associazione mafiosa, gli altri reati variano dal furto al traffico di droga al tentato omicidio, dell’albanese Tritan Leka avvenuto nel novembre 2019. 

Il 58enne reggente della locale di ‘ndrangheta di Pioltello, scherzando pensava in grande, ma neanche troppo: “Mi faccio la lista civica per me senza… registrata mi metto… capo della ‘ndrangheta… Votate al capo della ‘ndrangheta Cosimo Maiolo!”. L’impegno in politica era effettivo ma la campagna elettorale, condotta insieme al suo braccio destro Luca Del Monaco, puntava a convogliare voti sul candidato del centro-destra Claudio Fina, incontrato a pranzo il 23 settembre 2021, alla vigilia dello scrutinio. Presentazioni, convenevoli, promesse e un impegno comune: “Speriamo che ce la facciamo dai…“, auspicava don Cosimo Maiolo. E Fina rispondeva : “Ma sì dai Redazione CdG 1947

Rho, blitz contro la 'ndrangheta del clan Bandiera: 49 arresti. Anche una donna a capo della cosca: «È la prima volta». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 22 novembre 2022.

Estorsione, traffico di droga e intestazione fittizia di beni. Operazione contro la Locale di 'ndrangheta di Rho che Gaetano Bandiera stava ricostituendo dopo anni di detenzione. L'inedito ruolo delle donne. 

«Io ti mangio il fegato a te e a quei due infami di m…a. Io oggi vengo a casa tua e ti ammazzo di botte, capito o no? Che forse non hai capito chi sono io... forse non mi conosci bene, non giocare... non me ne fotte un c…o che mi stanno ascoltando... non voglio neanche più i soldi però a casa mia ti ricordi che mi portano un pezzo di te». È una delle intercettazioni agli atti dell'inchiesta della Dda che hanno visto gli agenti della squadra mobile, coordinati da Marco Calì, far scattare un blitz per eseguire 49 misure cautelari, emesse dal gip del Tribunale di Milano su richiesta dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia. 

L’obiettivo dell’operazione è smantellare la Locale di 'ndrangheta di Rho, che Gaetano Bandiera, già condannato nell’operazione Infinito, dopo anni di detenzione stava provando a ricostituire. Diversi i reati contestati agli indagati, dall'associazione a delinquere di stampo mafioso al traffico di sostanze stupefacenti. Quindi estorsione, minacce, violenza privata, incendio, detenzione e porto illegale di armi e intestazione fittizia di beni.

C'era una donna tra i capi del clan della `ndrangheta di Rho, anche «più spietata degli uomini». Lo ha detto il pm della Dda di Milano, Alessandra Cerretti. «Uno degli elementi di novità è il ruolo delle donne - ha spiegato - abbiamo 5 donne tra le arrestate e ad una donna è stato contestato il ruolo di capo e promotore dell'associazione mafiosa». È «il braccio destro di Cristian Bandiera, figlio di Gaetano, lo sostituisce in una serie di attività, ha sotto di sé due associati ai quali da direttive». È la «prima volta che in Lombardia verifichiamo il ruolo operativo e organizzativo di un donna» nei clan. 

Mafia a Rho, i metodi «arcaici» del clan Bandiera: teste di maiale e capretto mozzate per intimidire i nemici. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 22 novembre 2022.

Il «messaggio» dei vertici per scoraggiare i destinatari a collaborare con la giustizia. I magistrati: operazioni con capillare suddivisione dei ruoli. 

Intimidazioni con teste di maiale e capretto. È una 'ndrangheta «vecchia maniera», che usa metodi arcaici, quella raccontata nell'ordinanza del gip Stefania Donadeo, il magistrato che ha disposto 49 arresti nei confronti di uomini ritenuti affiliati alla cosca «Locale» di Rho controllata dal clan Bandiera. A conferma dei macabri avvertimenti è riportato un episodio con protagonisti i vertici dell'associazione mafiosa, il boss Gaetano Bandiera, il figlio Cristian Leonardo Bandiera, Luigi Capitanio e Antonio Mazza, protagonisti di una minaccia, con una testa suina, verso un uomo «per farlo desistere da richieste di sostegno economico e da un'eventuale collaborazione con la magistratura». 

Un'operazione che ha richiesto una capillare suddivisione dei ruoli. A ciascuno un compito: i due Bandiera sono, «gli organizzatori»; Mazza è «il custode della testa nel suo box»; Capitanio e Procopio sono «gli esecutori materiali». È il 17 maggio 2021 quando Procopio viene contattato dalla dipendente di una salumeria della zona («È lei che ha chiesto la testa?») che gli comunica che il giorno successivo avrebbe potuto ritirarla. 

Il giorno dopo, la sera del 18 maggio, «gli esecutori» depositano il pacco nel box di Mazza ma prendono tempo consapevoli del rischio di poter essere identificati, quindi eliminano i riferimenti al luogo d'acquisto: i rivenditori di carne, infatti, nell'immediatezza avrebbero potuto fornire dettagli essendo la testa un «taglio» poco venduto, tra le parti meno nobili del maiale. 

Dopo il buon esito della missione, da una conversazione emerge che, per rendere più efficace il «messaggio mafioso», gli indagati hanno mozzato un orecchio alla testa di maiale». Un avvertimento simile, ma con una testa di capretto con in bocca un biglietto riportante minacce di morte, è stato ideato per spaventare un'altra vittima.

Mafia, Draghi: «Nel nord Italia si è radicata quella imprenditrice». Dalla Lombardia al Veneto, dal Piemonte alla Liguria: al Nord, ha detto il premier, la mafia «si impossessa di aziende in difficoltà, si espande in nuovi settori, ricicla denaro sporco». LIA ROMAGNO su Il Quotidiano del Sud il 26 maggio 2022.

Dal Sud al Nord, dalla coppola al doppiopetto, dalle riunioni “carbonare” con gli affiliati ai vertici aziendali: i tentacoli della mafia si allungano sull’intera Penisola e si radicano nel tessuto economico, soprattutto nelle regioni settentrionali. In occasione del 30° anniversario della Dia, la Direzione investiga antimafia, nata da un’idea di Giovanni Falcone, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, accende il faro su quello che non è più solo un “fenomeno” meridionale: le mafie hanno “conquistato” il Nord e i loro uomini hanno indossato la grisaglia e si sono fatti imprenditori. Ora ci sono anche i fondi del Pnrr si cui tentano di mettere le mani – dal Nord al Sud – e la sfida per lo Stato sale di livello.

«Rispetto a trent’anni fa, la mafia ha assunto forme nuove, ma altrettanto temibili», dice il premier intervenendo al convegno “Il ruolo della finanza nella lotta alla mafia», organizzato dalla Dia a Palazzo Pirelli, a Milano, alla presenza tra, gli altri, del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, del capo della Polizia, Lamberto Giannini e del direttore della Dia, Maurizio Vallone, di Maria Falcone, del presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e del sindaco di Milano, Giuseppe Sala.

Accantonato lo stragismo e il terrorismo, ora, sottolinea il premier, le mafie «si insinuano nei consigli d’amministrazione, nelle aziende che conducono traffici illeciti, al Nord e nel Mezzogiorno. Inquinano il tessuto economico, dal settore immobiliare al commercio all’ingrosso. Controllano il territorio con la violenza, soffocano la libera concorrenza».

Draghi ricorda l’insegnamento del giudice Giovanni Falcone, di “seguire la traccia dei soldi”: «Dobbiamo continuare a farlo per proteggere l’economia italiana, i cittadini, le imprese».

E la traccia dei soldi porta nelle regioni settentrionali, dove ha esteso il suo raggio di attività: è la «mafia imprenditrice», come la chiama Draghi: «Le cosche, come quelle della ‘ndrangheta, si sono diffuse nel Nord Italia – in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Veneto, in Valle d’Aosta, in Trentino Aldo Adige. Si impossessa di aziende in difficoltà, si espande in nuovi settori, ricicla denaro sporco, rende inefficaci i servizi, danneggia l’ambiente. Per questo – afferma il premier – il contrasto alla criminalità organizzata non è solo necessario per la nostra sicurezza. È fondamentale per costruire una società più giusta».

Alle risorse pubbliche da sempre nel mirino della criminalità si aggiungono ora quelle europee del Recovery Fund. L’allerta del governo, e non solo, è altissima, assicura la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. «E’ un nuovo banco di prova – osserva – ma abbiamo tutti gli strumenti per impedire che le mani delle mafie possano allungarsi sulle risorse destinate alla ripresa del nostro Paese».

Il governo, dal canto suo, sottolinea il premier, «per proteggere i fondi del Pnrr» ha messo in campo procedure semplificate, migliorato il sistema di contrasto alle infiltrazioni, rafforzato i controlli. «Ampliamo gli strumenti a disposizione dei prefetti, come la prevenzione collaborativa, senza creare, però, nuovi ostacoli per le imprese». In gioco, sottolinea, c’è la difesa della «straordinaria opportunità che il Pnrr ci offre», ma anche «la nostra credibilità verso i cittadini e i partner europei».

Sulle risorse del Pnrr si fonda la speranza per lo sviluppo del Meridione dove le radici mafiose sono profondissime e difficili da estirpare. E sono la base dell’ambizione del governo Draghi di riavviare la convergenza tra le due Italie per spingere la crescita del Paese tutto. «La terza componente della strategia» di Giovanni Falcone contro la mafia, ricorda la sorella Maria, aveva al centro «un adeguato sviluppo del Mezzogiorno»: «Non l’abbiamo ancora realizzato», sottolinea. «Credo e spero che questi soldi che arriveranno con il piano europeo di aiuti all’Italia servano davvero a riscrivere la storia del nostro Mezzogiorno – aggiunge quindi -. Spero che questo flusso di denaro non si disperda in rivoli e rivoletti, che non finisca nelle mani dei mafiosi, ma che sia il potenziale necessario per creare lo sviluppo».

Intanto la battaglia contro la criminalità organizzata è ancora lunga. Lo ammette la ministra dell’Interno: «La mafia ha avuto in questi anni cocenti sconfitte, ma non è ancora vinta». Ne sottolinea la “nuova” «dimensione affaristica»: la presenza economica nel tessuto economico, evidenzia, si è fatta più aggressiva: «Le segnalazioni di operazioni sospette relative al periodo 2019-20 si aggiravano intorno al 12-15%, nel 2021 siamo già al 16%». Fabrizio Testa, ad di Borsa Italiana, stima in due punti di Pil italiano il volume d’affari legato alle attività illegali e ne rileva i danni sul sistema economico: «La presenza delle organizzazioni mafiose in un territorio – dice – ne mina lo sviluppo nel lungo periodo».

La potenza economica delle consorterie criminali, sostiene Lamorgese, «è anche conseguenza della globalizzazione dei mercati e della capacità di trasferire ricchezze illecite». Per questo è importante «costruire una risposta comune» sul piano internazionale fondata su «una omogeneità di regole e di comportamenti fra i vari Paesi».

«Le mafie hanno riconvertito le loro organizzazioni strutturandosi come vere e proprie multinazionali con sedi in ogni parte del mondo – spiega il capo della Polizia, Lamberto Giannini – Il traffico di stupefacenti le ha arricchite in modo inimmaginabile, sfruttando la globalizzazione della finanza: hanno letto il cambiamento dei tempi. Sono le nuove frontiere del crimine». La crisi economica scatenata dalla pandemia ha creato nuove occasioni di business sulla pelle degli imprenditori in difficoltà: «Ha aggiunto ulteriori difficoltà all’esercizio della libertà delle imprese – dice Giannini – Le nostre imprese sono a rischio di essere aggredite dalle mafie non solo attraverso i metodi coercitivi ma in maniera più subdola», ad esempio «con il finanziamento a tassi usurai». Anche per questo, ha affermato, «dobbiamo agire con forza, seguendo il solco tracciato dalla straordinaria visione di Giovanni Falcone e di altri colleghi che hanno pagato con la propria vita».

Il premier Draghi mette nel mirino la mafia d'affari del Nord. Le mafie vanno dove ci sono affari, potere e possibilità di relazioni "eccellenti". Lo storico Nicaso: «Bene, ma avrebbe dovuto esprimere solidarietà a Gratteri». ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 26 maggio 2022.

«Le mafie si insinuano nei consigli d’amministrazione, nelle aziende che conducono traffici illeciti – al Nord e nel Mezzogiorno». Ha pronunciato la parola “Nord” prima di “Mezzogiorno”, Mario Draghi. E, forse, è proprio questa la vera novità che è emersa dal discorso del premier nella sede di Milano Dia. Ed è emblematico anche il luogo in cui il discorso viene tenuto, in occasione dei 30 anni dell’istituzione della Dia e dei cinque della sede di Milano.

Certo, il fenomeno è datato, ma è la prima volta che un presidente del Consiglio indica come priorità del governo la lotta alla mafia imprenditrice, fenomeno che chiama in causa pezzi di società civile delle regioni settentrionali, quelle che una volta venivano chiamate le “aree non tradizionali” di espansione delle mafie italiane e in particolare della ‘ndrangheta (peraltro l’unica organizzazione criminale ad essere presente in tutti i continenti).

Perché imprenditori, politici e funzionari del Nord, che si muovono in una vasta e vischiosa zona grigia, con le mafie vanno a braccetto e ci fanno affari. E perché è ormai superata la visione secondo cui l’espansione delle mafie in aree diverse da quelle della loro genesi storica sia equiparabile a una patologia contagiosa, alla stregua di un esercito che invia nei territori di conquista dei presìdi.

La situazione è alquanto diversa. Lo sa bene Antonio Nicaso, lo storico delle organizzazioni criminali che insieme al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, su questi temi ha scritto un libro dal titolo significativo, “Complici e colpevoli”. Ma, prima ancora, è stato protagonista, insieme allo stesso Gratteri e al numero due di Eurojust, Filippo Spiezia, di un forum organizzato dal Quotidiano del Sud. Magistrati e studiosi di questo calibro, incalzati dal direttore Roberto Napoletano, affermarono, nel maggio 2020, che il salto di qualità contro una mafia deterritorializzata non è più rinviabile. Un concetto che ancora non fa parte del dominio conoscitivo del legislatore europeo, altro tema di quel forum.

Oggi Draghi però dice che «l’Italia può e deve avere un ruolo guida a livello europeo nella lotta alla criminalità organizzata» perché «siamo all’avanguardia nella legislazione antimafia e nella protezione dei testimoni e dei loro familiari, uno strumento fondamentale per la giustizia sin dai tempi del maxiprocesso» tant’è che lo riconosce anche il primo ministro olandese Mark Rutte che, come ricorda il premier italiano, ha annunciato che i ministri olandesi verranno in Italia per imparare dai nostri esperti. Chi non vuole capire che le mafie che non sparano sono altrettanto pericolose, insomma, di quelle sanguinarie che tengono sotto scacco interi territori del Meridione d’Italia (“al Sud i delitti e al Nord gli affari”, è un vecchio leit motiv) non ha colto che c’è un fenomeno autonomo che chiama in causa tratti peculiari delle società del Nord Italia e del Nord Europa. Le mafie vanno là dove c’è la polpa, cioè gli affari, il potere, e la loro possibilità di mimetizzarsi è accresciuta non solo dalle loro competenze di illegalità ma anche dalle relazioni di complicità nella sfera (apparentemente) legale dell’economia, della politica, delle istituzioni.

Basta leggersi le cronache degli ultimi anni, che danno notizia di arresti eccellenti di politici e imprenditori sempre più propensi ad accreditarsi per la loro reputazione mafiosa, e ricordare che il processo più grande contro le mafie in Italia degli ultimi 30 anni si è celebrato nella grassa Emilia. I modelli di insediamento cambiano a seconda dei contesti territoriali ma la sostanza non cambia.

«Le cosche come quelle della ‘ndrangheta si sono diffuse nel Nord Italia – in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Veneto, in Valle d’Aosta, in Trentino Aldo Adige. Qui si è radicata la “mafia imprenditrice”, come ha denunciato il questore di Milano Petronzi. Si impossessa di aziende in difficoltà, si espande in nuovi settori, ricicla denaro sporco, rende inefficaci i servizi, danneggia l’ambiente. Per questo, il contrasto alla criminalità organizzata non è solo necessario per la nostra sicurezza. È fondamentale per costruire una società più giusta». Dice le stesse cose che dicono Gratteri e Nicaso, Draghi.

Ma il professor Nicaso le accoglie con un «sentimento misto». Perché, da un lato, «finalmente Draghi comprende l’importanza della lotta ai capitali mafiosi che mi auguro possa diventare prioritaria nell’agenda politica. I soldi della mafia – spiega lo storico – sono diventati componente strutturale del capitalismo globale. Non parliamo più, infatti, dei fondi dei sequestri di persona reinvestiti in traffici di droga ma di miliardi che finiscono nell’economia legale con una facilità impressionante, ed è per una logica perversa che vengono ammazzati uomini come Falcone. Perché Falcone ha cominciato a mettere il naso nelle banche e allora si è cominciato a dire che voleva rovinare l’economia, e questo gioco coinvolgeva settori non legati al mondo mafioso che attuarono una vendetta trasversale contro chi voleva seguire le strade del denaro. Quando le mafie investono e riciclano non danno fastidio, ma questa è la grande sfida».

Nicaso valuta pertanto «positivamente» il discorso di Draghi, anche se «ora bisogna affrontare il problema e trovare soluzioni». Il suo però è un sentimento misto perché, d’altro canto, Draghi lo ha «profondamente deluso perché quando si è saputo dei progetti di attentati a Gratteri né lui né il ministro della Giustizia gli hanno espresso solidarietà. Mi ha veramente sorpreso – rincara la dose il professore – Non succede da nessuna parte che uno dei più importanti magistrati subisca qualcosa del genere e che il capo del Governo non senta il bisogno di esprimere solidarietà a nome del Paese». Per Nicaso è «negativo anche il segnale della Cartabia. Una cosa è non essere d’accordo con Gratteri sulla riforma, ma in questi casi dovrebbe emergere il senso dello Stato. È qualcosa di disgustoso che non pensavo potesse succedere in un Paese come l’Italia, senza verità e senza memoria. E poi – aggiunge con amarezza – andiamo a commemorare Falcone Borsellino. Queste ipocrisie del potere devono finire, la memoria se non diventa azione non vale molto, altrimenti non abbiamo imparato nulla dal passato».

Eppure sui contenuti del discorso di Draghi anche lo storico delle mafie concorda. Perché Draghi segue la strada di Falcone, quella dei soldi, quando dice che sono obiettivi al centro dell’azione di governo, «in cima alle priorità», gli interventi di circa 300 milioni di euro in programma nel Pnrr per il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. «Restituiamo questi beni alla comunità per ospitare nuova edilizia residenziale pubblica, centri culturali per i giovani, asili nido e centri antiviolenza per le donne e i bambini. Istituiamo un Osservatorio Permanente sui beni sequestrati e confiscati, per garantire un’informazione affidabile e aggiornata», dice il premier. Un tema su cui l’Italia è in grado di fare scuola in Europa.

Osserva Nicaso: «È una grande intuizione quella dei beni confiscati, i cui proventi negli altri Paesi finiscono nelle casse dei dipartimenti della giustizia e ne finanziano le attività, da noi vengono restituiti alle comunità a cui quei beni sono stati sottratti con la violenza, un messaggio forte anche dal punto di vista simbolico. Ma la gran parte dei beni confiscati non viene riutilizzata e rischia di marcire e la legge va modificata altrimenti si rischia di dare un segnale negativo alle comunità».

Resta qualche nota dolente, anche alla luce della mancata nomina di Gratteri a procuratore nazionale antimafia, che però non sorprende Nicaso. «Non lo nominarono neanche procuratore di Reggio Calabria, quando non appartieni a correnti in magistratura parti sfavorito». Intanto, un fatto nuovo c’è. Almeno in termini propositivi. Il governo indica tra le priorità della sua agenda la lotta a quella strategia della sommersione che ha consentito ai boss di infiltrarsi nei gangli dell’economia del Nord e che è stata ripetuta in Europa.

Piero Colaprico per “il Venerdì di Repubblica” il 15 aprile 2022.

Vallanzasca, Epaminonda, Turatello, la banda della Comasina, i sequestri, la droga, i night, le evasioni, il sangue versato. Sin dalla prima delle cinque puntate di La mala, banditi a Milano, su Sky Documentaries e Now dal 17 aprile, emerge un piccolo, ma non trascurabile dettaglio: è proprio vero che Angelo Epaminonda detto "il Tebano", in quel di Santa Margherita Ligure, volle regalare un leoncino a Bettino Craxi. E cioè è vero che un capo gangster della metropoli pensasse di poter avvicinare senza troppi patemi un presidente del Consiglio.

Noi lo sapevamo, ma a confermarlo chiaro e tondo davanti alle telecamere è nientemeno che Lello Liguori, e cioè il grande impresario e creatore di locali notturni, personaggio che nessuno è mai riuscito a imbrigliare.

La docuserie, che ha per sottotitolo "Il racconto di una città criminale tra il 1970 e il 1984", scritta da Salvatore Garzillo, Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, dettaglio dopo dettaglio restituisce a Milano quello che a Milano la fiction ha tolto. Nel senso che libri e serie come Romanzo criminale e Suburra, godibili e ben narrati, hanno trasformato Roma, nell'immaginario, nella capitale italiana anche del male assoluto. Nella realtà oggettiva dei fascicoli giudiziari e delle tragedie che hanno causato, la banda della Magliana o "Er cecato", rispetto alle gang di Milano, hanno decisamente pesi "minori". E la serie Sky lo dimostra allineando i fatti, nudi e crudi.

E andando a sentire sia un "prezzemolone" come l'ex vicecapo della polizia Achille Serra, ma anche un vecchio piedipiatti come Antonio Scorpaniti della sezione Omicidi; sia l'invecchiatissimo "bel René" versione detenuto, sia altri banditi come Tino Stefanini, Osvaldo Monopoli e Rossano Cochis (morto nel frattempo in mare); recuperando sia i servizi tv di Enzo Biagi, sia sentendo altri giornalisti, da Mimmo Carulli di Fotogramma a Umberto Gay di Radio Popolare.

Quando si sente dire che il Tebano spiegava "in questura non ho amici, ma dipendenti", e si sa che tra i suoi poliziotti a libro paga c'era proprio l'autista di chi gli dava la caccia, allora si comprende quale nido di vespe potesse essere questa città, oggi così diversa da quella degli anni di piombo, dei rapimenti, degli oltre cento morti ammazzati all'anno: «Ho fatto la guerra a Turatello, poi sono il primo che è andato a piangere», confessa Vallanzasca. Ma le lacrime le hanno versate le tante vittime e, se così si può dire, anche l'intera città.

Chi era Pippo Micalizio: dalla lotta alle mafie del nord a ispettore sull'orrore del G8. Piero Colaprico su La Repubblica il 15 agosto 2022. 

Pippo Micalizio incarnava, se così si può dire, “il poliziotto democratico moderno”. C’era stata, nel dopoguerra, la polizia militare, con i suoi marescialli che conoscevano la strada e non raramente menavano le mani.

Il sindacalista del Siulp

Negli “anni di piombo” c’era una polizia che, per coprire la politica e gli ordini gerarchici, taceva e stava a testa bassa. Micalizio era entrato in servizio nel ‘69, l’anno della strage di piazza Fontana (12 dicembre, Banca dell’agricoltura di Milano, compiuta dai neofascisti e per anni falsamente attribuita agli anarchici), ed è stato uno storico sindacalista del Siulp. E cioè del più numeroso e forte sindacato di polizia, quello che di fatto ha tolto le stellette dalle divise, smilitarizzato la polizia, coinvolto i semplici agenti in alcune decisioni, specie sui turni di lavoro.

All'ufficio Immigrazione

Non amava l’ostentazione del potere, ma dentro i suoi uffici faceva sentire la sua “mano”. A Milano aveva cominciato come responsabile di quello che si chiamava Ufficio immigrazione, l’attuale Ufficio stranieri, e c’era stato a lungo: anche in questo caso, in anni in cui l’immigrazione arrivava a cambiare il volto delle città, e di Milano soprattutto, aveva impresso un rispetto verso quelli che considerava futuri cittadini e pugno di ferro per i troppo furbi. Più volte ha colpito chi favoriva l’immigrazione clandestina. Nelle conferenze stampa, eterna sigaretta in mano, voce roca, impercettibile accento siciliano, gomiti larghi sulla scrivania, spalle leggermente curve, bisognava strappargli le parole di bocca.

La lotta alla mafia del nord

Era stata una sorpresa vederlo succedere al vulcanico Achille Serra come capo della Mobile, ma seduto su una delle poltrone più operative di Milano, al primo piano della palazzina interna della questura di via Fatebenefratelli, Micalizio aveva puntato subito i riflettori sulle penetrazioni della mafia al Nord, sul narcotraffico (capo della sezione era Massimo Mazza, che avrebbe fatto carriera anche nell’antiterorismo), su quella che si chiamava microcriminalità, ma era anche quel tipo di criminalità di strada che rende complicata la vita dei cittadini. Idee chiare, sempre poche parole nelle conferenze stampa, ma aveva cominciato a sorridere di più: ed era prodigo di discorsi privati, se capiva che l’interlocutore era interessato a comprendere i fenomeni socio-criminali, per lui Milano era una delle capitali della mafia e quello che contava a Palermo contava a Milano (e viceversa).

L'informativa sul sodalizio Cosa Nostra-'ndrangheta

Uno così, d’improvviso, lasciò il suo incarico per la neonata Dia, direzione investigativa antimafia. Un inedito italiano, sul modello del Fbi: se la mafia si muoveva su tutto il territorio, era bene avere investigatori che facessero lo stesso. E fu lui, restando sempre dietro le quinte, a fornire i migliori investigatori per lavorare notte e giorni sulle stragi di Giovanni Falcone prima (23 maggio 1992) e di Paolo Borsellino (19 luglio) poi. Nel marzo del 1994 scrisse un’ “informativa”, come vengono chiamati alcuni documenti riassuntivi, per stabilire come Cosa Nostra, responsabile dei massacri palermitani e delle bombe a Roma, Firenze e Milano di quel funesto 1993, avesse legami solidi con la ‘ndrangheta.

Gli attentati per far decadere il 41bis

E aveva intuito, aiutato anche da vari “pentiti”, un legame tra quegli attentati per far decadere il carcere durissimo (art.41 bis), attentati voluti dai boss di Corleone e dalla Cupola, con altre azioni simili del passato, quando anche criminali avevano piazzato bombe sui treni. La sua informativa suggeriva di non guardare solo al “già noto”, e cioè ai palermitani, ma anche all’Aspromonte, specie ai clan di Platì (che a Corsico, vicino Milano, avevano e hanno alcuni terminali potenti).

La più grande inchiesta contro i clan di Platì

Platì – bisogna ricordarlo - era stato anche un punto di riferimento per la più grande inchiesta realizzata a Milano contro la ‘ndrangheta: grazie al magistrato Alberto Nobili, al poliziotto Massimo Gallo, al Mazza già citato e a Micalizio, era stato sferrato un attacco ai clan dominati dai Papalia grazie al pentimento di Saverio Morabito. Il quale aveva contribuito pesantemente con le sue rivelazioni a svelare non solo l’organigramma, omicidi, sequestri come quello clamoroso di Cesare Casella (due anni, dall’88 al ’90, ostaggio dei clan), ma anche le abitudini più private di sgarristi e santisti. Morabito, un “manager calibro 9”, adesso è tornato in galera e anche quella stagione d’indagini così penetranti appare lontana. L’ultima venne firmata da Ilda Boccassini, con i Ros, ed emerse dai filmati investigativi un giuramento di affiliazione in diretta.

L'ispettore ministeriale sulla tragedia del G8

Micalizio, occhialoni da miope, spesso di foggia squadrata, giacche chiare, era diventato in breve un uomo del quale le stretture di polizia si fidavano per portare trasparenza. Venne mandato lui, come ispettore ministeriale, a valutare la tragedia del G8 di Genova (luglio 2001), con l’irruzione dei poliziotti alla Diaz e il pestaggio di chi dormiva: un “modus operandi” che a lui, cresciuto con l’idea del poliziotto al fianco del cittadino, ripugnava. Era rimasto a Roma, Dia, Sco (servizio centrale operativo) e altri incarichi, una carriera dentro gli uffici, silenziosa come sempre, e come sempre molto efficiente, finché un tumore l’ha stroncato nel 2005, a soli 60 anni.

(ANSA il 16 agosto 2022) - La donna di 48 anni scomparsa domenica all'isola d'Elba, Marina Paola Micalizio, figlia del superpoliziotto Pippo Micalizio, è stata ritrovata in vita oggi, nel secondo pomeriggio, tra gli anfratti di una scogliera nella zona di Procchio (Livorno). E' quanto si apprende da fonti di soccorritori. La zona rocciosa marina in cui è stata trovata è molto impervia ed è la stessa area, non molto distante, del punto del ritrovamento del suo cane, morto, forse per annegamento. 

Dopo averla individuata, la donna è stata evacuata via mare con una imbarcazione, proprio per la difficoltà a recuperarla via terra. Poi, dalla spiaggia di Procchio è stata portata con un'ambulanza del 118 all'ospedale dell'isola, a Portoferraio per valutare le sue condizioni cliniche e prestarle eventuali cure. In questa fase sono completamente da accertare i motivi per cui la donna sarebbe rimasta dispersa per oltre un giorno e come sia finita in fondo agli scogli in un punto poco visibile anche dall'alto. Per le ricerche l'isola è stata sorvolata da un elicottero e un drone dei soccorritori.

Elba, ritrovata la figlia dell’ex super poliziotto Pippo Micalizio: è rimasta in mare almeno 16 ore. Marina Paola Micalizio, 48 anni, era scomparsa da 24 ore. La donna è stata trovata in un anfratto della scogliera dell'isola d'Elba. Si pensa ad un allontanamento volontario. Rosa Scognamiglio il 15 Agosto 2022 su Il Giornale.

È viva e sta bene Marina Paola Micalizio, 48 anni, la figlia del superpoliziotto Pippo Micalizio scomparsa da circa 24 ore mentre si trovava in vacanza all'Isola d'Elba. La donna è stata ritrovata tra gli anfratti di una scogliera in località La Guardiola di Marciana Marina (Livorno). Sarebbe stata lei stessa a fornire le generalità ai soccorritori. Ora è ricoverata in ospedale per gli accertamenti di rito.

Il ritrovamento

Il ritrovamento è avvenuto nel tardo pomeriggio di oggi (lunedì 15 agosto). La 48enne, avvistata dall'elicottero, si trovava in una zona molto impervia dell'isola. Al punto che i soccorritori sarebbero dovuti intervenire via mare, con una imbarcazione di servizio, per portarla in salvo. Dopo aver raggiunto la terraferma, sulla spiaggia del Procchio, la donna è stata prelevata con una ambulanza del 118 e poi trasferita all'ospedale dell'isola, a Porteferraio, per essere sottoposta ad eventuali cure.

Le ipotesi sulla scomparsa

Marina Paola Micalizio ha fatto perdere le sue tracce da ieri pomeriggio (domenica 14 agosto). Non è ancora chiaro, però, se sia stato qualche conoscente della donna a lanciare l'allarme oppure un familiare che ha provato a rintracciarla al telefono. Il suo cellulare è stato trovato questa mattina all'alba sulla scogliera. Anche il cagnolino della 48enne è stato rinvenuto senza vita sugli scogli, in un punto poco distante dalla spiaggia della Guardiola: è probabile che sia morto per annegamento. Quanto alla circostanza della scomparsa, invece, sembrerebbe verosimile l'ipotesi dell'allontanamento volontario. Al riguardo non sono trapelate ulteriori indiscrezioni. Le ricerche, coordinate dai Vigili del Fuoco e dai carabinieri della Forestale, hanno coinvolto anche la protezione civile, l'unità cinofila e l'Anpas. L'isola è stata perlustrata dall'alto anche con un drone e un elicottero.

Marina Micalizio, ritrovata la figlia del ‘superpoliziotto’ Pippo: era scomparsa sull’isola d’Elba. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Agosto 2022. 

È stata ritrovata e sta bene Marina Paola Micalizio, 48enne figlia di Pippo Micalizio, ex ’super poliziotto’ morto nel 2005 e autore di alcune delle più grandi maxi operazioni contro mafia e ndrangheta al Nord, da lui dirette a cavallo tra gli anni ottanta e novanta.

Di lei non si avevano più notizie da circa 36 ore, svanita nel nulla sull’isola d’Elba. All’alba di Ferragosto era stato trovato morto vicino a degli scogli nella zona di Guardiola il suo cane, e non distante era stato recuperato anche lo smartphone della donna. 

Delle ricerche si stavano occupando vigili del fuoco, carabinieri forestali (in quanto la scomparsa era stata segnalata in zona boschiva) e gli uomini della capitaneria di porto. Secondo quanto riferisce il Corriere della Sera, Micalizio è stato ritrovata questa sera, infreddolita, tra degli scogli in una zona difficile da raggiungere, tanto che è soccorsa e portata via da un gommone.

Secondo le prime informazioni dei soccorritori, la 48enne sarebbe scivolata giù da un sentiero insieme al suo cane che nella caduta è deceduto. Marina sarebbe quindi finita in mare e avrebbe raggiunto uno scoglio in una zona impervia da dove è molto complicato tornare alla terra ferma, complici anche le correnti e la conformazione della costa e difficilmente individuabile dall’alto

Marina Micalizio si trovava in vacanza presso la villa di famiglia sull’isola, dove da sempre trascorreva le sue estati.

Il padre Pippo era diventato una sorta di leggenda vivente tra le forze dell’ordine, tanto da guadagnarsi l’appellativo giornalistico di “superpoliziotto” con le operazioni contro la criminalità organizzata nel Nord Italia.

Dopo due decenni di grandi inchieste in prima linea, venne promosso a Roma e nominato vice direttore della Direzione investigativa antimafia (Dia) e diventò numero uno dei Servizi centrali antidroga. 

Nel 2001 ricevette un incarico politicamente delicato, venendo inviato a Genova come ispettore per gestire le indagini post G8 sull’irruzione di poliziotti e carabinieri nella scuola Diaz e sulle violenze all’interno della caserma di Bolzaneto. Nel 2003 su proposta dell’allora ministro dell’Interno Beppe Pisanu, venne nominato prefetto e collocato fuori ruolo presso la presidenza del Consiglio.

Su iniziativa dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1994 gli venne conferita l’onorificenza di commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Addio a Flachi, il boss della Comasina. Luca Fazzo il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il gangster salì tutti i gradi senza bisogno di ammazzare nessuno.

È difficile dire di un gangster che era simpatico e intelligente. Ma Pepè Flachi (nella foto) aveva entrambe queste caratteristiche, senza le quali non avrebbe conquistato il ruolo di assoluto predominio nella criminalità milanese che nessun altro dopo di lui ha più avuto. Era un duro, ma salì tutti i gradi senza bisogno di ammazzare nessuno. Quando si impegnò in una guerra sanguinosa, lo fece quasi malvolentieri e forse sapendo in cuore suo che da quella guerra non sarebbero usciti vincitori: chi non finiva sottoterra sarebbe finito in galera e una intera generazione criminale si sarebbe autocancellata dalla scena. Andò a finire proprio così.

Flachi se ne va ieri, a 71 anni, in una stanza d'ospedale, ultimo approdo dei guai di salute che dal carcere dove scontava l'ergastolo lo avevano portato in una comunità, a combattere una battaglia già persa con il Parkinson e col cancro. L'ultima volta che era apparso in tribunale, in un corridoio davanti al giudice di sorveglianza, era già segnato, piegato. Sapeva di essere un sopravvissuto: i ragazzi che negli anni Settanta e Ottanta avevano accompagnato la sua ascesa - gente allegra e tosta come Michele Raduano e Salvatore Batti - erano già da un pezzo sottoterra e Flachi sapeva ormai che la sua fine era ormai prossima, che sarebbe stata solo meno sbrigativa.

Nascevano tutti come rapinatori e sul piano etico il giudizio peggiore che si portano addosso è di essersi arricchiti col traffico di eroina, sulla pelle delle centinaia di ragazzi che schiattavano di overdose. Il quartiere di Flachi, quello dove era approdato in calzoni corti da Reggio Calabria agli inizi degli anni Sessanta, era la Comasina: e da lì, narra la leggenda, scacciò Renato Vallanzasca quando dopo l'ennesima evasione si presentò in cerca di appoggi. Ma da lì il suo prestigio e il suo potere si erano estesi a tutta Milano. Chissà quanto sarebbe durata se quel guerrafondaio di Franco Coco Trovato non lo avesse trascinato nella guerra di sterminio contro Salvatore Batti, il suo amico di un tempo che aveva osato presentarsi nel bar di Coco dicendo «Franco, fammi un chinotto»: e non stava chiedendo una bibita gassata.

Si sterminarono a vicenda e nei regolamenti di conti ci andarono di mezzo anche passanti innocenti. Quando Batti venne raggiunto e giustiziato a Napoli, la guerra finì. Subito dopo, iniziarono i pentimenti e gli arresti. E un'epoca finì.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

·        La Mafia Albanese.

Pagine di storia italiana nell’organizzazione delle mafie. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.   

«Mafia Connection», del reporter Nello Trocchia, è un viaggio che tocca Campania, Sicilia, Puglia e si spinge fino in Albania. Ricostruendo la storia dei boss e dei clan più feroci 

Il racconto delle organizzazioni criminali come chiave e strumento per ricostruire pezzi della storia nazionale recente. È questa la chiave scelta da Nello Trocchia, temerario giornalista d’inchiesta, per «Mafia Connection», un viaggio di quattro puntate nei risvolti più inquietanti delle varie «mafie» italiane (sabato, ore 21.25, Nove). Ideata da Carmen Vogani e prodotta da Videa Next Station, la miniserie affonda nelle radici classiche dell’inchiesta giornalistica tv mescolate al linguaggio più contemporaneo del documentario. Come già avvenuto in precedenti lavori realizzati per il canale del gruppo Discovery, la figura di Trocchia è centrale: mette voce e corpo a servizio della narrazione, elemento di raccordo di storie che si articolano in traiettorie molteplici e complesse. Nel primo episodio, i riflettori si sono accesi sui traffici dei narcos albanesi, una mafia più nascosta rispetto a quelle più «tradizionali».

Con un linguaggio semplice, che talvolta sembra cedere a toni enfatici, Trocchia ricostruisce genesi e ascesa dei clan albanesi, i tanti salti di qualità che li hanno portati dalla criminalità comune all’essere tra i gruppi più spietati, temuti e ricercati in tutto il mondo. È nel mare, osserva giustamente Trocchia, che la mafia albanese ha costruito la propria fortuna; quel mare che da corridoio per scappare dalla povertà si è trasformato in luogo privilegiato degli affari. La vicenda della mafia albanese affonda nelle immagini celebri della Vlora, stipata all’inverosimile nel porto di Bari nell’estate del 1991; da lì si dipana un percorso che porta i clan albanesi a stringere accordi con quelli locali e a ritagliarsi spazio nel business della prostituzione. Con testimonianze di pentiti, forze dell’ordine e vittime, il documento di Trocchia è avvincente e didascalico. Nei prossimi episodi, le mafie più classiche: pugliese, siciliana fino alla Camorra.

ESCLUSIVA: PARLA L’EX MINISTRO PRIMA DI FINIRE IN CARCERE. Su Nove l’inchiesta “I narcos albanesi” che sparano e corrompono i politici. Il documentario sui narcos: «Io non ero corrotto», parla l'ex ministro albanese in carcere.

«Io corrotto? Io se ero corrotto non venivo in Italia a chiedere alla guardia di Finanza di monitorare il territorio», dice l'ex ministro dell'Interno albanese Saimir Tahiri pochi giorni prima del suo arresto. Parla in esclusiva nel documentario 'I Narcos Albanesi' che andrà in onda sabato 24 settembre su Nove. GAIA ZINI su Il Domani il 23 settembre 2022

«Se ero corrotto? Non venivo in Italia a chiedere alla guardia di Finanza di raddoppiare i sorvoli per monitorare il territorio. Ho chiesto a tutti i paesi europei di aiutarci per combattere i traffici di droga», dice l'ex ministro dell'Interno albanese Saimir Tahiri pochi giorni prima del suo arresto.

Parla in esclusiva nell’inchiesta 'I Narcos Albanesi' che andrà in onda sabato 24 settembre su Nove, alle 21:25, con il racconto di Nello Trocchia. 

«A me hanno messo le bombe e non è successo mai in Albania un fatto del genere, la marijuana non è una storia di criminali, ma di povertà», dice Tahiri nel documentario, firmato da Carmen Vogani, Lorenzo Giroffi (che cura la regia) e Marco Carta. 

«Se ero corrotto? Non venivo in Italia a chiedere alla guardia di Finanza di raddoppiare i sorvoli per monitorare il territorio. Ho chiesto a tutti i paesi europei di aiutarci per combattere i traffici di droga», dice l'ex ministro dell'Interno albanese Saimir Tahiri, pochi giorni prima del suo arresto. Parla in esclusiva nell’inchiesta “I narcos albanesi” che andrà in onda sabato, 24 settembre, su Nove, alle 21.25, con il racconto di Nello Trocchia.

Tahiri, pochi giorni dopo l’intervista, finisce in carcere perché condannato per abuso d'ufficio a 3 anni e 4 mesi, accusato di legami con un gruppo criminale dedito al traffico di marijuana verso l'Italia. 

«A me hanno messo le bombe e non è successo mai in Albania un fatto del genere, la marijuana non è una storia di criminali, ma di povertà», dice Tahiri nel documentario, firmato da Carmen Vogani, Lorenzo Giroffi (che cura la regia) e Marco Carta. 

L'ex ministro del governo del premier socialista di Edi Rama, in carica fino al marzo 2017, è stato coinvolto nelle indagini condotte in Italia, e che hanno portato, nell'ottobre dello stesso anno, allo smantellamento di un'organizzazione criminale composta da italiani e albanesi dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti e di armi. 

Tahiri è sospettato di aver avuto legami con due membri dell'organizzazione, i fratelli Moisi e Florian Habilaj, il primo arrestato in Italia. Gli Habilaj sono parenti dell'ex ministro, il cui nome spuntava parecchie volte nelle intercettazioni effettuate dagli inquirenti italiani.

Nel maggio del 2018, Tahiri si è dimesso dal parlamento, finendo subito dopo agli arresti domiciliari, per essere poi indagato a piede libero. Il suo legale Maksim Haxhia ha definito scandalosa la sentenza annunciando ricorso. 

LA MAFIA ALBANESE

L’ex ministro, oggi in carcere, racconta le paghe che i narcotrafficanti garantiscono ai contadini, 5 mila euro all’anno solo per coltivare la marijuana nei campi trasformati in piantagioni, soldi che in Albania rappresentano una cifra enorme. Così i trafficanti sono riusciti ad aumentare la produzione e a diventare nel settore tra i primi esportatori nello scacchiere criminale internazionale. 

La mafia albanese ha iniziato negli anni Novanta la sua ascesa inarrestabile con assalti a portavalori, furti in appartamenti, rapine in villa fino a diventare trafficante di essere umani e a gestire il grande affare della prostituzione.

Una delle vittime parla nel documentario e racconta le violenze, gli abusi, l’uccisione dei familiari per aver osato denunciare. Le origini della mala albanese sono come supporto alle organizzazioni criminali italiane che si sono servite della manovalanza albanese per guidare furgoni, per il contrabbando fino agli accordi per il traffico di stupefacenti. 

A partire dagli anni novanta la mafia foggiana parla con quella albanese e si serve delle tariffe convenienti offerte per trasportare droga, ma anche per ammazzare rivali. «Se fai un lavoro normale lavorando tanto puoi guadagnare fino a 300 euro al mese, ma facendo il criminale puoi guadagnare la stessa cifra in una minuto. Per questo molti ragazzi sono attratti da questa vita, vita mondana, soldi sempre e potere», racconta un ex narcotrafficante. 

I narcotrafficanti albanesi sono armati fino ai denti e spietati con chiunque provi a fermarli, per anni sono stati considerati criminali di serie b, ma attraverso il vincolo dell’appartenenza e della fedeltà sono riusciti a reclutare un esercito di fedelissimi. 

Fedelissimi che si occupano della gestione, dello stoccaggio e del controllo dei porti di tutta Europa dove passa l'oro del secolo: la cocaina.

La mafia albanese ha il feudo in Albania, il centro di potere, ma ormai ha portato la guerra per la droga fino in Ecuador. I narcotrafficanti albanesi fanno affari in Europa, detengono quasi il monopolio del traffico di marijuana, hanno scalato la piramide criminale con agguati e seminando il terrore.

Cosa succede in Ecuador? Nell’inchiesta, grazie al contributo di giornalisti locali, viene ricostruita la battaglia per bande che si consuma dall’altra parte del mondo dove il presidente, Guillermo Lasso, ha proclamato lo stato d’emergenza per fermare il caos e la paura che regnano in quel territorio. «Il nostro stato, le strade del nostro paese hanno un solo nemico: il narcotraffico, più del 70 per cento delle morti violente nel nostro paese è collegato al grande affare del traffico di droga», dice Lasso. 

Da sempre il sud-America è il paradiso dei trafficanti, gli albanesi si sono buttati nella mischia da oltre un decennio, ma una crisi così non si era mai vista. In Ecuador, nel 2021, ci sono stati circa 1900 omicidi, 328 nei primi tre mesi del 2022.

«Qui sta succedendo di tutto, prima c’erano pericoli come furti, rapine, ma non fino a questo punto. Ci sono agguati, omicidi, ci sono persone che non girano più per strada con i bambini perché impaurite dai proiettili vaganti», dice una cittadina.  

LE INTERCETTAZIONI DEI BOSS

'I narcos albanesi' è il primo dei quattro documentari di 'Mafia connection', una serie, prodotta da Videa Next Station, che Nove trasmetterà ogni sabato sera, un progetto nato da un'idea di Trocchia e Vogani. Saranno trasmesse le intercettazioni esclusive tra boss albanesi e baresi, oltre all’interrogatorio originale del primo pentito, le testimonianze inedite di operatori portuali, familiari di vittime e narcotrafficanti. 

Alessia Marani, Michela Allegri per “il Messaggero” il 18 maggio 2022.

Feroci e «brutti forti» come li aveva definiti Massimo Carminati parlando con il fido Riccardo Brugia intercettato dai carabinieri nell'inchiesta Mondo di mezzo. Tanto da convenire che con loro era meglio trattare. 

«Sono andato da questi prima che prendono la pistola e sparano», gli diceva il Guercio. Quando una mattina del novembre 2018 la Dda fa sparire i 10 chili di fumo consegnati la sera prima a Roberto Virzi, mascellone, perché li custodisse, appunto, in una cantina di La Rustica, Carlomosti - naturalmente ignaro dell'intervento degli uomini dell'Antimafia - va su tutte le furie a arriva a mettere persino una ricompensa da 10mila euro per chi può aiutarlo a stanare l'infedele. «Se non si sbriga a riportarmi i 10 di fumo - tuona - io mi abbasso a toccare le figlie ti giuro! Gli prendo a torturare in bocca le figlie, gli entro dentro casa e lo ammazzo!

Gli faccio zompare le ginocchia, lo mando in giro senza denti, senza naso, senza orecchie... ma proprio non è che gli do una botta a lui, gliene do una quindicina... deve morire crivellato», dice agli interlocutori della banda. E se non era chiaro, allo stesso Mascellone precisava: «Ti strappo la carotide... a me dieci chili non me li leva neanche Totò Riina». Ad aiutare Carlomosti a vendicarsi si precipita Armando De Propris, il padre di Marcello, uno dei ragazzi condannati per l'omicidio di Luca Sacchi. «Se viene vicino a me io te lo rompo tutto!», gli assicura. 

Che la banda di La Rustica non andasse per il sottile emerge in tutta la sua brutalità nella vicenda di Maurizio Cannone, l'ex sodale accusato di non avere pagato una partita di droga per 64mila euro. Fagiolo viene invitato a casa di Carlomosti e qui spogliato, legato, costretto a stendersi sui teli di plastica nel soggiorno trasformato in stanza delle torture: «Ora prendiamo il trapano e vedi che ti facciamo». Daniele, alias bestione, scatta fotografie e con una videochiamata chiede il riscatto al fratello e alla compagna di Cannone, e mostrare anche ai suoi amici, compreso Fabrizio Fabietti, il narcos in affari con Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik.

Prima di torturare Cannone, però, Carlomosti «come forma di rispetto», scrive il gip Tamara De Amicis, aveva chiesto tramite Pallagrosi, l'autorizzazione a Michele Senese. Il baciccio si recava in via Telegono residenza di Vincenzo Senese e di Raffaella Gaglione, rispettivamente padre e moglie di Zio Michele, e otteneva il nullaosta. Pallagrosi rendicontava del colloquio intercorso, in particolare con il fratello di Michele, Angelo, nel corso del quale Cannone veniva letteralmente scaricato dal clan: «Vabbè tutti l'hanno fatto una merda, dalla figlia, alla moglie, il padre». 

Racconta di avere ricevuto l'indicazione di uccidere il fagiolo utilizzando uno stiletto, arma storicamente utilizzata per uccidere i rispettivi rivali nel Medioevo, sgozzandoli come maiali. Dopo avergli fatto capire di avere appena parlato al telefono con Michele (che è in carcere), Pallagrosi viene edotto: «Questo te lo devi fare di stiletto... perché sennò non lo paghi intero».

Sotto l'ala dei Senese, al tempo, lavorava anche Diabolik.

Tramite i fratelli Fabbrini prospetta a Carlomosti la possibilità di collaborare per la commercializzazione della cocaina. Fabbrini riferisce a Daniele: «Mi ha detto pure: Digli a tuo cugino che se gli serve la cosa... c'abbiamo pure la cosa, 33.5, 34 gliela do», stabilisce il prezzo. Non solo. Piscitelli si offre di pensare lui a Cannone, del quale è creditore: «Con il terrore lo continuo io». 

Tra i vessati della banda c'è pure William Casinelli, ultrà della Roma, uno dei fermati - e poi rilasciati - dalla polizia inglese per gli scontri coi tifosi del Liverpool a Londra nell'aprile 2018. Il ragazzo viene chiuso in auto, pestato di botte, costretto a consegnare due Rolex e un Piguet, nonché a trasferire la proprietà del suo Suv a Federico Rossetti, alias ragno. Parlando di un pusher nordafricano il sodalizio ascoltato dai carabinieri di via In Selci dice: «Abbiamo sfondato un negro, gli abbiamo menato col Bullock». A un altro debitore Carlomosti prospetta: «Ti scarico una nove in bocca, sgozzo tua madre».

Luca Monaco e Andrea Ossino per “la Repubblica – Roma” il 21 maggio 2022.

«Fai del bene e scordalo, fai del male e pensaci» . Una massima che nella testa di un criminale del calibro di Daniele Carlomosti, 43 anni, assume un significato del tutto singolare. Come del resto l'intera esistenza del "bestione", il boss di La Rustica, una vita equamente divisa tra le fiction e la realtà. 

Un giorno sul set come comparsa in Romanzo criminale, l'altro nella stanza delle torture allestita dentro un appartamento popolare in via Naide 116. Il luogo dove abita e dove sevizia i cattivi pagatori: è la base dell'organizzazione che controllava lo spaccio nella borgata di Roma Est e che Carlomosti gestiva con il pugno di ferro.

«Fagiò io ti taglio le dita con le tronchesi » , ringhia l'11 dicembre 2018 a Maurizio Cannone, un pusher indebitato con i pezzi grossi della mala romana ( Diabolik compreso) che non si decide a saldare un debito per una fornitura da 64mila euro di hashish. 

Cannone è incaprettato su un telo di plastica perché il pavimento non si sporchi di sangue. Un episodio accertato dalle indagini dei carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci che due giorni hanno sgominato l'organizzazione capeggiata dal "bestione": con sei persone finite in carcere, otto ai domiciliari e 31 indagati.

L'inchiesta coordinata dalla Dda è iniziata nel 2018, proprio quando Carlomosti, fisico statuario, appassionato di immersioni e kickboxing, faceva la comparsa "Come un gatto in tangenziale", la commedia con Paola Cortellesi e Antonio Albanese premiata con il Nastro d'Argento. 

Certo Bastogi, la borgata raccontata dal film diretto da Riccardo Milani, è più a Nord. È una realtà non meno difficile rispetto a La Rustica, dove " Il bestione", moglie e figli a carico, è nato e cresciuto. Non senza attriti familiari. Controversie, specie quelle con il fratello Simone, 39 anni, che Carlomosti decide di dirimere a colpi di pistola calibro 7.65.

«Bum, gli ho tirato una botta racconta a un amico senza sapere che i carabinieri di Roma lo ascoltano - ho visto solo che è rizzompato dentro, l'ho lisciato di tre centimetri dalla testa » . Gli spara dal balcone. 

Con la stessa facilità con la quale il 31 agosto dà fuoco alla Twingo del padre. Cuore nero, sul set indossa disinvolto la divisa delle Ss. Sorride in foto abbracciato al «compagno» Claudio Amendola sul set del lavoro di Albanese. Ancora i selfie con Christian De Sica, Alessandro Gassmann, Tom Hanks, la partecipazione in Gangs of New York con Leonardo Di Caprio. Adesso colleziona Rolex e altri cronografi di lusso. Non disdegna le armi, quelle vere per "gli affari" e i fucili da softair per passione: durante il primo confinamento quando fotografa « Andrà tutto bene » scritto con i proiettili in fila sul divano, sognando un altro set.

Michela Allegri Alessia Marani per il Messaggero il 18 maggio 2022.

Crudeli, capaci di impugnare la pistola e sparare addirittura al fratello, prendendo la mira dal balcone di casa. Con il sangue freddo abbastanza per ricoprire una stanza di teli di plastica e trasformarla in una camera delle torture, dove seviziare per ore chi non pagava i debiti di droga. Non è la sceneggiatura della serie tv Dexter, ma succedeva nella Capitale, in un appartamento in zona Collatina. 

«Quelli sò brutti forti compà», aveva sentenziato già nel 2013 il re del Mondo di Mezzo, Massimo Carminati, al suo braccio destro Riccardo Brugia, parlando del gruppo di Daniele Carlomosti, arrestato ieri insieme ad altre 13 persone dai carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci su richiesta della Dda di Roma. Per l'accusa, era il capo di un'organizzazione criminale di spessore, in grado di importare droga dal Marocco e che con i rivali aveva la fama di essere spietato.

LA BANDA Tra gli arrestati, anche Armando De Propris, imputato - poi assolto - nel processo per l'omicidio di Luca Sacchi: era accusato di essere il proprietario dell'arma utilizzata dal figlio Marcello e da altri due pusher per uccidere il personal trainer romano nel 2019. Secondo gli inquirenti, già 9 anni fa Carminati sosteneva fosse necessario trovare un'intesa per evitare problemi. E i carabinieri del Ros avevano annotato diversi incontri, quasi tutti nei bar trendy del quartiere Parioli. 

Anche Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, uno dei narcos più potenti della Capitale, ucciso con un colpo di pistola al parco degli Acquedotti, portava rispetto. Aveva chiesto a Carlomosti l'autorizzazione per «terrorizzare» un debitore e aveva affari con la banda. A Roma, fino al 2019 i conti si regolavano ancora con le pallottole: nelle 359 pagine di ordinanza di custodia cautelare si susseguono gambizzazioni, tentati omicidi, minacce, revolver scaricati in direzione dei nemici.

Ma il gip Tamara De Amicis sottolinea che anche i nuovi signori della malavita stavano attenti a non pestare i piedi a chi manteneva il potere dato dalla caratura criminale: Michele Senese, che pure dal carcere continuava a comandare. È ai suoi familiari che Fabio Pallagrosi, braccio destro di Carlomosti, si rivolge per avere l'autorizzazione a togliere di mezzo Maurizio Cannone, colpevole di non avere onorato un debito da 64mila euro e un tempo molto legato alla famiglia del boss. 

Il 7 dicembre 2018, in segno di «rispetto tributato a Michele Senese» - annota il gip - va a casa del padre e della moglie a porre la questione per conto di Carlomosti. Il giudice annota che Pallagrosi non ottiene solo il via libera, ma anche un consiglio: fare fuori Cannone utilizzando uno «stiletto, arma convenzionalmente utilizzata per uccidere i rivali». È Pallagrosi a riportare la conversazione: «Questo te lo devi fare di stiletto... perché sennò non lo paghi intero».

LE SEVIZIE Il passo successivo è il sequestro di Cannone: viene rinchiuso nella stanza delle torture, destinata a chi non onorava i debiti. Nell'appartamento degli orrori una camera era stata rivestita con teli in plastica, per non lasciare tracce di sangue. Le sevizie erano state ascoltate dagli investigatori grazie a un trojan piazzato nel cellulare di uno degli indagati. Era l'11 dicembre 2018. 

La vittima era stata legata, spogliata, costretta per ore a subire minacce e violenze. «Basta Daniè... Mi gira la testa - implorava Cannone - mi stai ammazzando». I carcerieri, intanto, lo minacciavano e dicevano di avere a disposizione ogni tipo di arma: pistole, kalashnikov, ma anche forbici, un trapano, delle tronchesi. Cannone era stato fotografato e filmato, e gli scatti erano stati inviati ai suoi familiari e ai suoi amici, chiedendo - e ottenendo - un riscatto. Le intercettazioni sono agghiaccianti: «Ti taglio prima a pezzi e poi mi vado a prendere i soldi dalla famiglia tua... ti sto ammazzando, stai per morire, ora telefoni a casa e dici di farmi entrare», dice Carlomosti.

Gli episodi di violenza sono tantissimi, come un recupero crediti per droga in cui la vittima, un ultrà della Roma, viene obbligata a consegnare due orologi di lusso e un'auto. Addirittura, Carlomosti progetta di uccidere il fratello Simone - pure lui indagato - e cerca di sparagli prendendo la mira dal balcone di casa, mentre l'altro è affacciato alla finestra. 

Ed è proprio dallo scontro tra i fratelli per la conquista della piazza di spaccio a La Rustica che è scaturita una vera e propria guerra tra bande tra il 2017 e il 2019: auto bruciate, scontri a fuoco, gambizzazioni, minacce e vendette. Un sodale di Carlomosti, addirittura, propone di ingaggiare un killer proveniente dalla Calabria, che avrebbe portato a termine il lavoro per soli 500 euro. Le accuse contestate vanno dall'associazione dedita al narcotraffico all'estorsione, dal tentato omicidio alla detenzione illegale di armi. Il tutto, per la Procura, sarebbe aggravato dall'utilizzo del metodo mafioso. Circostanza che, però, non è stata riconosciuta dal gip.

A. Mar. per “il Messaggero” il 18 maggio 2022.

«Siamo quattro gruppi in tutta Roma. Io copro questa parte qua, l'amico mio fa la parte di Roma Sud e i Castelli, un altro fa Cinecittà». 

Daniele Carlomosti aveva ben chiare le idee e i confini delle piazze di spaccio che gestiva insieme ai suoi sodali, italiani e albanesi, in condominio anche con il gruppo Fabietti/Piscitelli sotto la benedizione di Michele Senese.

La Rustica era il suo regno, il bar Uno su mille di via Filippo Meda a Pietralata, la base logistica distaccata, ma Daniele e i suoi non disdegnavano nemmeno di stringere affari davanti a un caffè seduti da Panella in via Merulana o al chioschetto di Collina Lanciani, oppure seduti su una panchina del parco Peter Pan al Tiburtino. Soprattutto potevano contare sul fidato Luca Ferrara, lo chef che oltre a gestire un locale a San Lorenzo, lavorava nella pizzeria Avanti un altro di via Dameta. Con lui Daniele condivideva, oltre alla droga, la passione per la cucina. 

SPARI E ROGHI Il gigante o bestione come è soprannominato Daniele per il fisico possente e il collo taurino, aveva messo su un imponente narcotraffico e oliava il sistema che faceva arrivare a Roma via Marocco e Spagna fiumi di droga, in particolare l'hashish. Per cui aveva bisogno di covi caldi e freddi (una cantina in via Appia, un'altra in via Naide) dove custodire lo stupefacente e le armi, ma anche di luoghi di incontro dove intessere nuove e vecchie relazioni, stipulare affari con i fornitori e ricevere gli acquirenti, come appurato dai carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci sulle sue tracce dai tempi dell'operazione box, quando lo arrestarono insieme con l'ex calciatore Alessandro Corvesi dopo avere scoperto un garage pieno di droga all'Infernetto.

Tornato libero, Daniele nel suo appartamento di via Delia aveva ricavato la stanza delle torture in cui umiliò e quasi ammazzò l'ex sodale Maurizio Cannone reo di non avere saldato una partita di droga per 64mila euro. Il condominio popolare era diventato il teatro della sanguinosa faida con il fratello Simone, costretto a trasferirsi e a lasciare quartiere. In via Naide, all'interno dello stesso complesso residenziale, il 27 novembre del 2017, Daniele dal balcone del quinto piano sparò più colpi di 7,65 indirizzandoli contro il fratello Simone, affacciato alla finestra dell'edificio di fronte. Solo per una casualità non lo ammazzò. 

Dieci giorni prima aveva invece mirato alle gambe di Giuseppe Setteceli (non indagato), amico del fratello: «Dov' è Simone?» gli aveva chiesto prima di premere il grilletto. Come ritorsione, Simone sparò sulle auto in sosta di Daniele e della moglie Romina Faloci. Una rappresaglia proseguita con l'incendio della Harley Davidson di Simone e della Twingo del padre, Paolo, nonché la gambizzazione di Manolo Brunetti (non indagato). Quando c'era da stipulare affari coi fratelli Fabbrini, poi, bastava passare all'officina di famiglia in via dei Faggi a Centocelle.

IL MERCOLEDÌ Il bar Uno su mille era un luogo ritenuto sicuro e la banda ci si incontrava sebbene qualcuno avesse avanzato il sospetto che le guardie potessero avere piazzato una ambientale: «Vabbè, stiamo attenti». Il gestore è Erminio Romanelli, anche lui tra i quattordici arrestati ieri nel maxi blitz di carabinieri e Dda. Il gip lo accusa di avere «fornito costante e continuato supporto logistico agli esponenti del gruppo di Carlomosti e di quello di Massimiliano Gregori, mettendo a disposizione il proprio bar e fungendo lui stesso da mediatore agli incontri riservati». Al bar aveva lavorato anche la compagna di Gregori e il mercoledì, si legge ancora nelle carte, era «il giorno concordato per i pagamenti relativi all'attività di narcotraffico.

Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 19 maggio 2022.

Nemmeno le mura degli ospedali facevano da barriera agli affari di droga del gruppo criminale di La Rustica capeggiato da Daniele Carlomosti, arrestato martedì insieme ad altre 13 persone dai carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci, su richiesta della Dda di Roma. Maurizio Cannone (detto Fagiolo), ex sodale accusato di non avere pagato una partita di droga per 64mila euro, era stato ricoverato al Policlinico Umberto I dopo che Carlomosti lo aveva invitato a casa sua, spogliato, legato e torturato nel soggiorno coperto da teli di plastica per non far sporcare le pareti di sangue. 

«Lo sai che ho fatto l'altro giorno? - si vantava, non sapendo di essere intercettato - Ho sequestrato il Fagiolo 5 ore, a mazzate di baseball l'ho preso! L'ho frantumato tutto, testa, orecchie, naso, gambe, braccia, mani, piedi. Qua. Legato dentro i sacchi. Abbiamo videochiamato la moglie mentre lo prendevamo a mazzate. Se entro le 4 non mi mandi i soldi te lo prendi a pezzi!».

Non contento di questa ferocia, e avendo Cannone chiesto di differire il pagamento del debito, il 13 dicembre 2018 Carlomosti lo fa minacciare di ulteriori ritorsioni fisiche se non avesse saldato la tranche di 20.000 euro per il giorno seguente. Dice persino di voler fare irruzione nel Policlinico e sequestrarlo: «Lo vado a prendere dentro l'ospedale, me lo trascino di forza dove mi pare a me. 

Diglielo: quello lunedì a pranzo ti viene a prendere dove stai». Non sono solo minacce. Effettivamente, nel pomeriggio del 17 dicembre, si presenta all'Umberto e si fa aiutare da un suo amico, impiegato come operatore tecnico di Servizi Diagnostici, a rintracciare il reparto e la stanza in cui è ricoverato Cannone.

Il tecnico interroga la banca dati interna e riferisce a Carlomosti che il paziente era stato dimesso il giorno precedente, alle 17. Per ricompensarlo, il boss gli regala 2 grammi di cocaina: «Mi serve un bel grammo, pure due, per darglielo a questo dell'ospedale». 

LA CASA A FABIETTI Tra le persone vicine a Cannone che si offrono di aiutarlo a estinguere il debito con Carlomosti c'è anche Fabrizio Fabietti, socio in affari di narcotraffico del defunto Fabrizio Piscitelli (detto Diabolik) e condannato ieri a 30 anni di carcere nell'operazione Grande raccordo criminale. «Ha detto che gli sta vendendo a Fabietti una casa che c'ha a Cinecittà, che il Comune...50mila euro», riferisce Carlomosti, parlando di un appartamento di proprietà della famiglia di Cannone, probabilmente una casa popolare. 

I CELLULARI CRIPTATI Il gruppo criminale di La Rustica pensava di farla, visto che utilizzava dei cellulari criptati provenienti da Dubai, forse gli stessi che usavano Fabietti&Co. Carlomosti riferisce di come Daniele Fabbrini fosse stato contattato da vari esponenti della criminalità romana da questi telefoni: «È venuto di corsa da Latina. Dico tutta Roma mi ha chiamato! Perché ci sono dei telefoni con un sistema da Dubai hanno fatto... che è criptato, loro ci si mandano le foto che si cancellano. Non le tiri fuori».

Rinaldo Frignani per corriere.it il 17 marzo 2022.

Era lei a tenere la «Scatola di Babbo Natale». Una cassa nascosta dove c’erano soldi e libri mastri della banda di pusher. Da «cantante più famosa del secolo in Albania» nel 1999 a due partecipazioni a Sanremo (2003 e 2007) all’arresto per associazione a delinquere. La parabola di Elsa Lila, ora a Rebibbia. 

Quarantuno anni, originaria di Tirana, figlia di famosi musicisti, a Roma studentessa, pop star e adesso in carcere: gli agenti della Squadra mobile, coordinati dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia, le hanno notificato ieri mattina nella sua casa a San Lorenzo l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Maria Paola Tomaselli. 

In cella sono finite altre otto persone, un destinatario è morto e altri tre, compreso il capo banda albanese, Arindi Boci, detto «Rindi», sono latitanti. Per chi indaga Lila era la contabile del gruppo. Non risultano per ora contatti diretti con la droga (soprattutto hashish e marijuana) gestita con riunioni della cupola in un paio di locali di Acilia e nascosta in un box auto a Torrevecchia e in un altro a Casal Bernocchi, come anche in un appartamento in via Stresa, alla Camilluccia, ma il giudice la considera pienamente «partecipe del sodalizio» e «persona di fiducia» proprio di Boci, al quale offre nell’estate 2019 la sua casa per nascondersi dalle forze dell’ordine («Vai, fiodati di là, cambia posto»), e con il quale si confida di non aver paura della polizia in caso di perquisizione «ma dei ladri», che avrebbero potuto rubare la «Scatola» con i soldi che servivano anche per l’assistenza legale dei sodali arrestati. Che utilizzavano telefonini criptati per non essere ascoltati. Al punto che uno di loro confidandosi con un complice afferma: «Se si aprono questi (le memorie), fanno un carcere nuovo a Roma!».

E proprio sulle forze dell’ordine e sulla possibilità di corromperle, la cantante ha le idee chiare: «A me dello Stato non viene nessuno a controllarmi, mi conoscono, ho ottimi rapporti». In un caso «mi hanno fatto una multa (al suo b&b) ma mi hanno detto di non pagarla che non avrebbero fatto i controlli». Perché qui «come in Albania, un amico/aggancio con lo Stato serve, perché ti salva qualsiasi sia il governo, bisogna trovare il modo visto che anche qui c’è tanta gente venduta».

Se Boci, che era stato rassicurato proprio da Lila sui timori di essere intercettato («Ci sono strumenti che trovano le spie»), è tuttora ricercato, in carcere è invece finito anche il pugile Petrit Bardhi, detto «Titi», 47 anni: per chi indaga faceva parte del gruppo di albanesi con Arben Zogu e Dorian Petoku, - «Riccardino» e «Pluto» - in affari con Fabrizio Piscitelli, «Diabolik», il capo ultrà laziale ucciso nel 2019, per la gestione dello spaccio a Ponte Milvio e delle slot machine nei locali pubblici. Allora come oggi i contatti più importanti erano con i clan di Acilia. Ma in questo caso Bardhi, che ha presieduto ad alcuni vertici anche a Centocelle grazie ai suoi contatti nella Capitale reperiva i clienti all’organizzazione, ma reggeva anche le comunicazioni con gruppi napoletani e calabresi.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 17 febbraio 2022.

Un uomo in ginocchio, lo sguardo basso, una pistola alla tempia sorretta da un braccio teso e tatuato. La ferocia della mafia albanese che sta scalando la criminalità romana è in questa foto estratta dal server usato per le comunicazioni segrete dalla banda di Elvis Demce. 

Il sistema di messaggistica «Sky Ecc», espugnato dai carabinieri del Nucleo investigativo in collaborazione con Europol, sta fornendo agli investigatori spunti, tracce e conferme di reati su un perimetro molto più ampio di quello che a metà gennaio ha portato in carcere per narcotraffico lo stesso boss chiamato Spartaco , già in affari con Fabrizio Piscitelli Diabolik , insieme a 26persone. 

La vittima nell'immagine, scattata con un telefono e circolata tra gli associati come un «meme» del quale ridere, è un romano di 41 anni, detto il Gelataro per aver lavorato in un bar nonché «reggente» della piazza di spaccio «Dei due Leoni» a Tor Bella Monaca. È sospettato di aver fatto il nome degli albanesi in Questura.

Al suo rapimento, con il fine di estorcergli 50mila euro, partecipano Demce, Alessio Lori detto Chiappa , Cristiano Zeppettella Braccio , Nikolin Shkrepi alias Frato/cugino e un altro soggetto identificato solo come Pongo . Le intenzioni sono da subito chiare: «Lo andiamo a pija, lo buttamo da qualche parte, non lo famo ritrovà più a sto infame». 

Ma prima Lori chiede a Demce il permesso di agire: «Me dai l'ok, lo faccio tremà, lo porto in mezzo a un prato, gli metto il ferro in bocca». Lori incarica del rapimento Pongo: «Me lo carica e me lo porta. Gli dico: "ho la sicurezza che sei 'na spia, brutto infame". Lo faccio piscià sotto. Se non dà i soldi lo apriamo, vuoi che ti mando la foto?».

Detto fatto, a missione compiuta la banda ne ride assieme: «Ho mandato i vocali con Frato che sto infame parlava e piagneva, Frato gli diceva "infame, stai co' via Genova (sede della squadra mobile, ndr), ahahhah». 

I carabinieri annotano che: «Per fornire ulteriore conferma della potenza criminale del sodalizio da lui capeggiato, Demce inoltra la foto anche a un suo sodale, scrivendogli di aver ricevuto le sue scuse e i soldi e spiegandogli che questa è la fine che fanno le persone che non lo rispettano». 

Ancora più inquietante il proposito di uccidere il pm Francesco Cascini, titolare insieme al collega Mario Palazzi dell'indagine «Aquila Azzurra» che poi ha smantellato il gruppo. «Sabato è la festa mia.. che mi fai per regalo?» chiede un affiliato a Demce alludendo al progetto di eliminare «Il pm che me vo vede morto». Le chat intercettate mostrano anche la pistola e il fucile mitragliatore che dovevano servire allo scopo: «Ce fa c... co' a macchina blindata, je la trito».

La primogenitura dell'idea era stata di Alessandro Corvesi, già nella Primavera della Lazio ed ex della showgirl Antonella Mosetti, arrestato a luglio a Ponte Milvio con 27 chili di cocaina: «Hanno mai ucciso un pm? Sono scortati? Lo voglio uccide. Lo sparo fuori a piazzale Clodio». E Demce, dopo aver convenuto che «Stanno cercando de distrugge la cerchia nostra», ma appurata la difficoltà di un attentato, propone un'alternativa: ingaggiare una prostituta per girare un video compromettente con il quale ricattarlo: «A questi per faje male più che sparaje, faje qualche video o ave qualcosa per tenerli x le palle».

Andrea Ossino per “la Repubblica” il 17 febbraio 2022.  

L'arresto va vendicato. Il magistrato che ha chiesto la condanna deve essere punito. Poco importa se i pm «sono scortati», se «sono protetti», se hanno la «macchina blindata». Basta procurarsi un fucile da guerra, perché «quando me parte a ciavatta co questo vado a sparare a Cascini fori a piazzale Clodio».

Un boss albanese e un aspirante calciatore, intercettati, lo dicono chiaramente: sono pronti a prendere le armi e a uccidere uno dei magistrati del pool Antimafia, Francesco Cascini. E vorrebbero ammazzarlo fuori dal tribunale romano di piazzale Clodio. Anzi, vorrebbero fare fuori anche il fratello del pm, Giuseppe Cascini, oggi membro del Consiglio superiore della magistratura. In passato il Consigliere era un pubblico ministero in forze alla procura di Roma, un investigatore capace di fare condannare all'ergastolo uno dei criminali più sanguinari della capitale, Elvis Demce.

E adesso l'albanese vuole vendicarsi. Conversa con un ex giocatore della Primavera della Lazio, Alessandro Corvesi, ricordato anche per la relazione con la showgirl Antonella Mosetti. E lo fa liberamente, pensando di non essere intercettato. L'albanese si sente al sicuro perché utilizza un'applicazione per i messaggi criptati, "Sky Ecc". 

Non può sapere che il mese dopo aver pronunciato i suoi propositi, nel marzo 2021, l'Europol avrebbe coordinato «le attività svolte dalla polizie francese, belga e olandese », trovando il server che racchiude i messaggi di migliaia di criminali, anche quelli tra Demce e l'ex calciatore. Parte delle conversazioni sono state depositate nel procedimento che un mese fa ha portato all'arresto di 27 persone, tra cui il protagonista della Gomorra albanese della capitale, Elvis Demce, 36 anni.

I carabinieri del Nucleo Investigativo hanno scoperto ogni cosa: Alessandro Corvesi, che nel febbraio 2021 è stato arrestato con 27 chili di cocaina e oltre 200 mila euro in contanti, vuole vendicarsi con il pm che si è occupato del suo caso, Francesco Cascini. Nutre «un evidente sentimento di astio», scrivono i carabinieri, «tale da ingenerare nello stesso la volontà di pianificare un progetto omicidiario ai danni del magistrato». Ne parla «con il capo dell'organizzazione, Elvis Demce, il quale sembra offrire al suo interlocutore pieno appoggio per l'esecuzione dell'agguato, sebbene poi proponga di ricattarlo previa acquisizione di materiale compromettente». 

Anche Demce ha i suoi sassolini nella scarpa con la famiglia di magistrati. Ritiene Giuseppe Cascini, il fratello di Francesco, responsabile della sua condanna all'ergastolo per un omicidio da cui poi è stato assolto in Appello. Condividono un nemico: «Sono due fratelli pm, uno più infame dell'altro, con in comune da distruggè a noi, la cerchia nostra », scrivono. Il 24 febbraio Corvesi è deciso: «Lo voglio uccide». E cerca di capire come fare: «Hanno mai ucciso un pm? Loro sono scortati? Sono protetti?».

E Demce: «Certo che so protetti, scorta e macchina blindata». Le parole del capo confondono Coversi. Da un lato è disposto a pagare «un'ingente somma di denaro», pur di sa pere dove abita il magistrato. Dall'altro dice «non se po' uccidere». Demce ha la soluzione: «Queste tipo Nency ce potrebbero da na mano - dice - A questi per faje più male che sparaje, faje qualche video o avè qualche cosa per ricattarli e tenerli per le palle. Sarebbe il top». Il piano B è chiaro, scattare foto o video compromettenti per ricattare i pm. Ma non convince gli interlocutori.

Demce parla della faccenda anche con un altro criminale, Massimiliano Rasori. «Le conversazioni fanno trasparire come il capo dell'organizzazione non abbia abbandonato il proposito omicidiario nei riguardi del magistrato, anzi evidenziano come egli si sia procurato già delle armi da guerra potenzialmente idonee a perforare le blindature delle auto di scorta dei magistrati». I due interlocutori si scambiano anche le foto delle armi: una pistola e un fucile. Ma non metteranno mai in atto il loro piano. La faccenda è comunque allarmante. È «un attentato contro le Istituzione e in particolare contro i magistrati». È «l'aspetto più grave e inquietante emerso nell'intera attività di indagine». 

Daniele Autieri per “la Repubblica - ed. Roma” il 21 Febbraio 2022.  

«Quelli so' brutti forte compa'». La frase pronunciata il 17 aprile del 2013 da Massimo Carminati ed entrata nel libro collettivo delle massime di strada, segna l'origine di quella "marcia su Roma" che il clan degli albanesi ha inaugurato ormai dieci anni fa con l'obiettivo (raggiunto) di scalare le gerarchie criminali. 

Dal pregiudicato Tomislav Pavlovic, il tizio "brutto forte" di cui Carminati parlava con il suo compare Riccardo Brugia, fino a Elvis Demce, il boss che insieme al socio in affari Alessandro Corvesi voleva sparare ai magistrati Francesco e Giuseppe Cascini, la scalata degli albanesi racconta come è cambiata la città. 

I primi segnali risalgono al 2013, quando dietro l'immagine della "fabbrica da spritz" vengono invece fatte le prove generali per un nuovo laboratorio criminale: la batteria di Ponte Milvio.

Da un lato i napoletani dei fratelli Genny e Salvatore Esposito dall'altro Fabrizio Piscitelli e alle spalle il boss della camorra romana Michele Senese. 

«Su Ponte Milvio - riporta l'ordinanza del Ros dei carabinieri dell'indagine Mondo di Mezzo - opera una batteria agguerrita e pericolosa con a capo Fabrizio Piscitelli alias Diabolik e della quale fanno parte soggetti albanesi». 

Serate interessanti, quelle vissute al Coco Loco, il locale dove lavorava Adrian Pascu, l'albanese ucciso a rivoltellate nel dicembre scorso mentre entrava nell'androne di un palazzo a Primavalle. 

Uno di quei luoghi simbolo dove tutto si confonde, da Diabolik ai Senese, amici fin da quando giocavano insieme nel campetto della parrocchia al Tuscolano, e in mezzo a loro gli albanesi, così scaltri da usare i napoletani come una scala mobile criminale.

Il 22 luglio del 2015 il Gico della Finanza arresta nove persone per traffico internazionale di droga. Lo zoccolo duro è composto dai fratelli Guarnera, i boss con un passato tra i Casalesi, ma c'è anche un ramo albanese, costituito da Arben Zogu (per gli amici Riccardino), Petrit Barghi (Titty) e Ettore Abramo (Pluto). Gli inquirenti segnalano Riccardino come uno degli appartenenti alla "batteria di Ponte Milvio".

Tra gli arrestati spunta anche Elvis Demce, l'uomo che voleva sparare ai pm davanti al tribunale di Piazzale Clodio. Seguendo le orme di Piscitelli, Demce riesce a conquistare una fetta importante del traffico di droga, erede naturale di Dorian Petoku, l'uomo che il 13 dicembre è al ristorante "L'Oliveto" di Grottaferrata dove Piscitelli e Salvatore Casamonica concordano le regole della pax mafiosa sul litorale.

Uscito di prigione, Demce è a pieno titolo il successore della scuola albanese, grazie ai legami con la Colombia ma anche a un esercito addestrato a prendere la coca in Olanda o Spagna e trasportarla fino a San Basilio e Tor Bella Monaca. 

«Sono Pablo Escobar», si autocelebra. E posta bancali pieni di soldi mentre i carabinieri annotano che «il denaro contante nella foto è pari ad 1 milione di euro». 

A 5 milioni invece ammonta il guadagno che avrebbe fruttato la polvere bianca trovata in casa dell'ex calciatore Corvesi. È "il patrimonio della family" dicono gli albanesi ricordando nei pizzini la "cassa per i carcerati", quella per le armi, "o i soldi per i ragazzi".

«Amo levato i soldi a mezza Roma», si vanta Demce, disposto ad ingaggiare una guerra aperta con il suo rivale storico, anch'egli albanese, Ermal Arapaj. Siamo nel 2019 e Diabolik viene ucciso con un colpo alla testa al Parco degli Acquedotti. La strada sussurra «il re è morto. Lunga vita al re» senza tenere conto dell'arrivo di un nuovo dio e dei suoi discepoli.

«Qua c'è solo una chiesa - dice Demce ai suoi - qui pure i sanpietrini sono nostri». Roma si mette in fila alla corte del boss tanto che dopo la morte di Diabolik la moglie va più volte a trovare l'albanese costretto a casa per i domiciliari. 

Una circostanza sulla quale si deve ancora fare luce, mentre nessuno dubita ormai della forza e della potenza di fuoco del clan albanese. «Molti sono figli di albanesi che hanno lavorato qua e quindi conoscono bene la lingua, conoscono bene il territorio. E poi rispetto alla malavita romana sono cattivi, cioè non si inculano nessuno». Parola di Massimo Carminati, profeta in patria, suo malgrado. 

·        La Mafia Russa-Ucraina.

Roberto Saviano, l'Ucraina e la mafia: la sua ossessione non è in malafede, ma offende. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.

Se fossero soltanto le divagazioni provinciali di un facoltoso influencer di Rai3 potremmo anche soprassedere: ma c'è qualcosa di più grave e distorto nella lettura "antimafia" con cui Roberto Saviano pretende di spiegare che la guerra in Ucraina trova causa in un conflitto tra organizzazioni criminali delle due parti, unite nell'avvantaggiarsene. Intendiamoci: in ogni urgenza di crisi ben può darsi l'insinuazione di interessi illeciti, ma non è questo il punto. Il punto è che c'è qualcosa di ossessivo e di pervertito nel vagheggiare di mafia mentre i civili scavano trincee e raccolgono schioppi e bottiglie incendiarie per contrastare sessanta chilometri di linee corazzate nemiche.

Non c'è malafede in queste investigazioni del romanziere anticamorra, ma restano offensive per come trascurano e dunque sviliscono, il fatto concreto di un popolo in armi contro un'operazione militare che non diventerebbe più giusta se non desse profitto alla criminalità, proprio come quella resistenza non dovrebbe essere giudicata in un modo o nell'altro secondo che faccia o no l'obliquo interesse di un'altra cosca. A Saviano «dispiace» ha detto proprio così, rilanciando con un video quel che ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera- che nel dibattito pubblico, attardato su questi dettagli che sono i bombardamenti, la moltitudine dei profughi, le città che si preparano all'assedio, non ci sia abbastanza spazio per l'esegesi dei pizzini in cirillico. Lì dove c'è la guerra hanno dispiaceri più immediati.

Da sussidiario.net il 2 marzo 2022.  

Roberto Saviano: “Guerra in Ucraina? Colpa della mafia”. La risposta di Anne Applebaum

In studio a Che tempo che fa, oltre a Roberto Saviano, per trattare il tema della guerra in Ucraina, c’era come ospite anche Anne Applebaum, giornalista e scrittrice che ha vinto il premio Pulitzer nel 2004. 

La saggista americana, attraverso un post su Twitter, inizialmente aveva attaccato il collega. “Sono appena stata in un programma televisivo italiano in cui qualcuno ha ipotizzato che tutta questa guerra sia una battaglia tra la mafia russa e la mafia ucraina. Intuisco che tutti noi vediamo gli eventi attraverso una lente nazionale”, aveva scritto.

A distanza di qualche ora, tuttavia, ha cancellato il tweet e ne ha pubblicato uno di rettifica. “Il giornalista italiano: Era Roberto Saviano, un vero e coraggioso esperto di criminalità organizzata. Le sue parole mi sono state tradotte male. Stava spiegando che la Crimea e il Donbas sono stati letteralmente colonizzati dalla mafia russa, il che è ovviamente vero”. Successivamente ha condiviso un articolo in cui vengono proposti i suddetti argomenti. 

Lo scrittore ha infine confermato il disguido: “Solita disinformazione cialtrona: Anne Applebaum (bastava verificare) ha avuto una traduzione sbagliata. Ci siamo chiariti per email, mi ha invitato a continuare a scrivere di ciò che ho realmente detto, si è dispiaciuta e infatti ha cancellato il tweet nato dal fraintendimento”, ha scritto.

Le mafie. L'ossessione di Saviano: vede le mafie pure in guerra. Paolo Bracalini l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.

E il "premio Pulitzer" stana la lettura troppo provinciale: "Analisi con una lente nazionale...".

Dopo anni passati sotto scorta e la fama ottenuta dai libri sulla criminalità organizzata è comprensibile che Roberto Saviano veda l'ombra della mafia un po' ovunque, anche dietro la guerra in Ucraina. Per il pubblico italiano non sorprende l'analisi che lo scrittore ha fatto l'altra sera, ospite di Fazio in Rai. «Tutta questa vicenda ha un grande assente, ossia la mafia russa che da sempre è gemella con le organizzazioni criminali ucraine - ha spiegato Saviano -. Questo è davvero l'oggetto che manca dal dibattito, perché la negoziazione avvenuta prima della rivolta di Maidan del gas tra Ucraina e Russia era fatta dalla più grande organizzazione mafiosa russa, governata da Semion Mogilevich, la Solncevskaja bratva, che significa brigata del sole». Saviano le ha definite «prove reali» del fatto che «Semion Mogilevich è il vero capo, ucraino, di una organizzazione russa», e che il gas che veniva venduto all'Ucraina era intermediato dalla mafia russa. Sarebbe stata la rivolta di Maidan a far saltare tutto.

«Crimea e Donbass sono territori completamente governati da organizzazioni criminali. Non sto raccontando nulla che scopriamo ora, eppure nel dibattito non c'è. Le truppe in questo momento sono affiancate dalle organizzazioni criminali. Le organizzazioni criminali ucraine e quelle russe sono gemelle e infatti sostenevano il Presidente prima della rivolta di piazza Maidan. Lì, quando il popolo ucraino è insorto, sono saltati gli accordi con la società che vendeva il gas all'Ucraina». Per questo, sostiene lo scrittore, non si può spiegare la guerra tra Mosca e Kiev senza parlare della mafia. «Nel dibattito che stiamo facendo non possiamo tenere fuori una forza non solo così eclatante, ma che aveva determinato l'equilibrio in Ucraina filo-russo fino a quando non c'è stata la rivolta della piazza europeista. E l'Europa, invece, continua a raccogliere i soldi degli oligarchi sulle proprie piattaforme finanziarie. È su questo che deve accendersi il focus nuovo sul racconto di questa guerra» ha concluso l'autore di Gomorra.

Collegata nello stesso momento c'era anche la giornalista americana Anne Applebaum, premio Pulitzer per la saggistica con il libro Gulag. Lì per lì la scrittrice non ha detto niente, ma poco dopo sui social ha fatto capire di essere rimasta stupita della chiave di lettura mafiologica di Saviano. «Sono appena stata in un programma televisivo italiano in cui qualcuno ha ipotizzato che tutta questa guerra sia una battaglia tra la mafia russa e la mafia ucraina. Intuisco che tutti noi vediamo gli eventi attraverso una lente nazionale». La Applebaum ha usato la cortesia di non citare direttamente Saviano, ma di fatto lo ha asfaltato accusandolo di dare una lettura provinciale dell'invasione russa dell'Ucraina. Del resto anche per la pandemia Saviano aveva tirato in ballo la mafia («La pandemia aiuta l'economia criminale», scrisse).

Le mafie gemelle di Ucraina e Russia e i traffici di droga, gas e oro. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.   

Guardare come si comportano i clan significa capire la guerra. Per decenni ciò che ha tenuto uniti i due Paesi è la criminalità organizzata, con proventi miliardari. Le commistioni con la politica e i metodi di Putin per controllare lo strapotere dei boss.

Quando nel marzo 2016 chiesi a Garry Kasparov, uno dei più grandi scacchisti della storia, il ruolo della mafia russa, lui rispose: «Tanto, sulle questioni fondamentali agiscono sempre su ordine del vertice». E chi è il vertice, mi affrettai a chiedere? «Ovviamente, Vladimir Putin», mi rispose Kasparov, stupito di doverlo ribadire. Mi chiedo come sia possibile che nel dibattito internazionale sia del tutto assente la domanda fondamentale: qual è il ruolo delle organizzazioni mafiose in questa guerra? Nessuno che si chieda come sia possibile che, in un territorio da sempre completamente egemonizzato dai cartelli criminali, questi non siano né citati, né conosciuti, né considerati dai reporter e dal dibattito politico. Ciò che per decenni ha tenuto unite Ucraina e Russia è la mafia. E questa guerra è una guerra che ha la sua vocazione mafiosa dietro il mascheramento geopolitico del conflitto con la Nato con l’Europa. Guardare come si stanno comportando i clan mafiosi significa capire la guerra. È così sempre: in Afghanistan, nella guerra in Jugoslavia, in Siria, in Congo. Identifica le mafie, osservale e scoverai i veri interessi.

«Michas» e «The Brain»

Nonostante la memoria dell’Holodomor, il terribile olocausto della fame che il governo bolscevico russo ha perpetrato sugli ucraini tra il 1932 e il 1933 (ammazzando di stenti sei milioni di persone) la criminalità organizzata russa e ucraina da sempre sono state gemelle. La più importante organizzazione mafiosa russa, la Solncevskaja bratva, ossia la Brigata del Sole, è governata da una diarchia: il russo Sergej Michajlov, detto «Michas», e l’ucraino Semyon Mogilevich, detto «The Brain». Per comprendere d’immediato la loro potenza economica riporto di seguito alcuni dati provenienti da diversi studi condotti fra il 1996 e il 2011 dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine: 1 miliardo di dollari è il guadagno annuale dall’esportazione di eroina in Cina, 8 miliardi di dollari sono i proventi della mediazione della vendita dell’eroina afghana, 620 milioni di dollari il profitto ricavato dal legname russo tagliato illegalmente per il mercato cinese delle costruzioni. Questi elencati sono solo la superficie della loro attività. La massa di soldi che l’organizzazione ricava, li ricicla e investe in Europa, negli Usa e in Israele. Solo nel 2018, per esempio, ha riciclato 50 milioni di euro di beni immobili in Spagna, meta prediletta dagli affiliati della Solncevskaja insieme alla Svizzera, dove Michajlov «Michas» è proprietario di una lussuosa villa (del resto su Wikipedia è segnalato come businessman; quello che è considerato il capo di una delle organizzazioni più potenti del mondo dal 1991 al 1994 ha lavorato alla Parma Foods, una joint venture russo-italiana).

L’alleanza del gas

Cos’è che ha permesso nei decenni passati che si creasse la grande alleanza politica russo-ucraina delegandola nelle mafie? La risposta è: il gas. La società di intermediazione di gas, RosUkrEnergo ( che ha sede in Svizzera e il cui 50% delle azioni è del colosso del gas russo Gazprom), fu creata nel 2004 dall’ex presidente ucraino Leonid Kuchma e da Vladimir Putin. Trasportava il gas dal Turkmenistan alla Naftogaz, la società nazionale ucraina di petrolio e gas; Naftogaz doveva comprare da questa società di intermediazione russa e doveva vendere solo in Ucraina il gas. La RosUkrEnergo che vendeva gas agli ucraini (e non solo, anche a diversi paesi dell’Est) lo vendeva a un prezzo più alto rispetto a quello di mercato, e informalmente obbligando tra l’altro a darlo gratuitamente alle zone filorusse di Crimea e Donbass. L’alleanza si basava sostanzialmente sui tre pilastri: Mogilevich, il boss ucraino ai vertici della mafia russa, l’appoggio di Vladimir Putin e quello di Dmytro Firtash. Quest’ultimo era l’intermediario tra il governo ucraino, Gazprom e il primo ministro ucraino (dal 2002 al 2007 e poi dal 2010 al 2014) Viktor Janukovyč. Nel 2009 ufficiali del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) fecero un’indagine sull’appropriazione indebita di 6,3 miliardi di metri cubi di gas naturale di transito accusando Naftogaz Ukrainy di aver rubato quei 6,3 miliardi di metri cubi di gas. Sì, perché l’alleanza mafiosa sotto il potere della Solncevskaja bratva non garantiva solo la distribuzione dei dividendi della RosUkrEnergo (dal 2005 al 2007 1.753 miliardi di dollari) ma, rubando il gas in transito attraverso l’Ucraina verso altri Paesi permetteva alle varie bratva mafiose di venderlo di contrabbando alle società di importazione gas di mezzo mondo. Guadagnavano dal gas legale e dal gas rubato (che andava a carico dei contribuenti ucraini che dovevano pagarlo).

Il mediatore in fuga

L’Ucraina era trattata come una colonia da cui estrarre grandi rendite senza pagare le tasse; i fondi venivano depositati in paradisi fiscali offshore. Dymitri Firtash, il grande mediatore del gas è fuggito dall’Ucraina, rifugiandosi in Austria per evitare l’estradizione, ed è accusato negli Stati Uniti di corruzione per 500 milioni di dollari. Firtash era legato al presidente della campagna di Trump, Paul Manafort, e ha come avvocato a sua disposizione Rudolph Giuliani, legale di Trump condannato nel 2021 per aver «comunicato dichiarazioni manifestamente false e fuorvianti a tribunali, legislatori e all’opinione pubblica in generale (…) in relazione al fallito tentativo di rielezione di Trump nel 2020». È Firtash stesso ad aver svelato che l’alleanza russo-ucraina si basava su un accordo mafioso, e questo lo sappiamo grazie ai preziosi documenti pubblicati da Wikileaks: durante un incontro riservato con l’ambasciatore USA William Taylor, nel 2008, ammise che era Mogilevich il vero potere della società di intermediazione. L’Ucraina, ha affermato, è «governata dalle leggi della strada». All’ambasciatore americano Firthas descrisse che era impossibile avvicinarsi a qualsiasi funzionario governativo ucraino senza incontrare contemporaneamente anche un membro della criminalità organizzata. Tutte queste confessioni, Firtash le face nell’ottica di mostrare all’amministrazione americana, che sapeva da tempo impegnata a indagare su di lui, che agiva solo su «costrizione», che era la prassi balcanica agire sempre in concordanza con la mafia e che senza il boss Mogilevich niente si poteva muovere nel gas, pur specificando più volte che con lui non aveva mai avuto rapporti diretti. Ovviamente, uscito il cablogramma, Firtash spaventato di essere stato involontariamente la prova che il mondo cercava sulle informazioni su RosUkrEnergo ha negato al mondo intero di aver detto nulla del genere.

L’«imprevisto» Maidan

Cosa ha interrotto questo schema del gas mafioso che ingabbiava l’Ucraina? L’imprevisto che persino Solncevskaja bratva non poteva prevedere è stata la rivoluzione di piazza Maidan del 2014, quando l’Ucraina in rivolta denunciò i brogli elettorali di Janukovyč, costringendolo a scappare a Mosca. L’inaspettata insurrezione del popolo ucraino legato al desiderio europeista fece saltare il banco dell’accordo mafioso: «Va detto — afferma il politologo britannico Taras Kuzio, tra i maggiori esperti mondiali delle dinamiche che stiamo descrivendo — che l’Ucraina, prima della rivolta di Maidan del 2014, era diventata uno stato mafioso neo-sovietico». L’Europa, sotto il ricatto del gas russo, lasciò sola l’Ucraina in questa nuova stagione di indipendenza ma soprattutto di liberazione dal potere mafioso. Anzi, le banche europee e svizzere accolsero i soldi dell’Organizacija (termine con cui viene definito l’insieme delle diverse organizzazioni russe). L’Austria accoglie Firtash. Il sostegno europeo all’Ucraina è stato più di forma che reale, in questa dinamica lo spazio che la Nato e gli USA vedono per poter portare avanti la propria politica internazionale.

Contrabbando sul Mar Nero

I vory (padrini) stanno approfittando della tensione al confine tra Ucraina e Russia per aumentare il proprio potere. La Crimea è il centro del contrabbando tra Europa e Russia: traffico di droga e merce chiamata per anni «la Sicilia ucraina» (riferendosi al potere di Cosa Nostra). Mark Galeotti, uno dei maggiori studiosi della mafia russa, ha scritto: «La Crimea è la prima conquista della storia condotta da gangster che lavorano per uno Stato». I famosi soldati senza insegne che fanno scorribande non sono altro che membri della Solncevskaja bratva di Mogilevich e Michas. Viktor Shemchuk, ex procuratore capo della regione, ricorda: «Ogni livello del governo di Crimea è mafiosizzato. Non era insolito che una sessione parlamentare iniziasse con un minuto di silenzio in onore di uno dei ‘fratelli’ (affiliati) assassinati». Il Mar Nero e Odessa sono i grandi spazi in cui si articolano diversi traffici: circolano la benzina venduta di contrabbando, tonnellate di carbone scavato illegalmente caricato su navi pronte a dirigersi in mezzo mondo, eroina, oro. Tutto ciò che può evadere il peso del fisco in cambio di una tassa ai vory mafiosi. Tutto ciò che deve entrare illegalmente in Europa passa da questi luoghi. Buco nero di merci, eroina, materie prime. La giornalista russa Yuliya Polukhina fa una sintesi chiara: «I beneficiari di questa guerra sono i politici, gli oligarchi e i gangster. Carbone, oro, benzina e tabacco. Questo è ciò per cui si battono nell’Ucraina orientale». La conquista del Donbass e della Crimea è servita soprattutto a proteggere gli affari. Gli affiliati hanno innescato un’insurrezione per poter creare repubbliche autonome a Donetsk e Lugansk, ma non sono altro che repubbliche di mafiosi, governate per procura da Mosca. I leader della rivolta, come riporta Galeotti, hanno tutti nickname che avevano quando erano dentro la bratva: Motorola, Batman, Shooter.

Putin e «i drogati»

Il 17 aprile 2015, Radio Svoboda intervista un volontario russo che aveva creduto alla propaganda di Putin, all’illusione di andare a combattere contro i fascisti ucraini: «Quando arrivi lì, ti rendi subito conto che non si tratta di unità militari, ma di vere e proprie bande» L’ex generale della polizia ucraino Vladimir Ovchinsky commenta: «Ora si sta verificando una sorta di nazionalizzazione della mafia». Eppure Putin nell’accusa alle autorità ucraine le definisce «banda di drogati e neonazisti». Quel passaggio sui «drogati» è chiaramente riferito al ruolo che l’Ucraina svolge come transito del narcotraffico ma ignora che è la mafia russa ad organizzarlo. Ma potrebbe esserci di più, forse i cartelli ucraini si stanno sfilando dalla storica alleanza con le bratva di Mosca? La mafia ucraina è in scissione come il Paese? Ha deciso di non sottostare ai gruppi crimeani? Di sottrarsi al dominio delle famiglie di Donetsk? Questo è il vero tema da comprendere nelle prossime ore. Mark Galeotti nel libro The Vory: Russia’s Super Mafia scrive: «L’Ucraina è … un Paese in cui tutte le principali organizzazioni criminali russe hanno interessi, operazioni, partner e persone, e dove anche la cultura del vory è ancora presente. Solntsevo ha un rapporto di lunga data con il “clan Donetsk” criminale-politico, che era la base di potere dell’ex presidente Viktor Janukovyč».

Il patto tra Stato e criminali

Le strutture criminali ucraine sono simili a quelle russe, sebbene su scala ridotta e in un territorio in cui la maggioranza delle organizzazioni opera a livello locale: allo stesso modo, però, sono in simbiosi con una classe politica profondamente corrotta e mirano al controllo oligarchico dell’economia. «Il flusso di droga attraverso Donbass, verso l’Ucraina, e poi verso l’Europa, non si è ridotto di un solo punto percentuale, anche mentre i proiettili volano avanti e indietro attraverso la linea del fronte», dichiara un ufficiale dell’SBU a Mark Galeotti, parlando degli scontri del 2014 nella regione. Il crimine organizzato russo si compone di diversi livelli. Putin, già dalla fine del 1999, ha smesso di portare avanti la politica della lotta al crimine, che pure l’aveva animato nei primi anni al potere. Un livello di strada viene genericamente perseguito, ci sono processi, arresti, se c’è stupro, se ci sono omicidi che allarmano la popolazione e perseguito lo spaccio in strada se compromette la pace sociale, ma in carcere sostanzialmente le organizzazioni governano tutto, continuano ad affiliare e proteggono i loro detenuti uccidendone i rivali. Chi si muove al livello più alto di organizzazione invece diventa interlocutore privilegiato con un unico vincolo: non deve mai creare problemi allo Stato e al suo capo. Se creano problemi al governo o si alleano con oppositori volendo sostituirlo verrebbero considerati come nemici dello Stato e sarebbero semplicemente annientati con l’aiuto di tribunali, polizia, sentenze. In realtà, la mafia russa non coincide completamente con lo Stato, la mafia russa è una delle infinite articolazioni del potere istituzionale russo, con cui è in dialettica. Solncevskaja bratva di Mosca, la Bratski Krug (circolo dei fratelli) di San Pietroburgo e la Tambov Gang, i grandi nemici della Solncevskaja, sono le anime che dominano affari e vita della Russia insieme ai loro satelliti in Georgia, Kazakistan, Cecenia, Ungheria, Serbia, Bulgaria, Cekia.

Tagliare teste e punire

Putin usa ed è usato dalle organizzazioni criminali, i vory sono fondamentali per la sua internazionale criminale con cui sabota i nemici o influenza gli amici. Non solo nelle operazioni in Donbass, ma anche in Montenegro, quando avvenne tramite cartelli criminali locali alleati delle bratva un tentativo di colpo di Stato nel 2016, per evitare che l’area aderisse alla Nato. Ciclicamente lo stesso Putin teme lo strapotere dei membri dell’Organizacija, contro cui agisce solo quando gli creano problemi, quando non riesce a schermarli dalle magistrature occidentali che trovano prove dei loro affari mettendo a rischio la reputazione del governo o peggio quando agiscono sostenendo i suoi rivali politici. Per tenere sotto controllo, Putin deve ciclicamente tagliare teste e punire. Nel 2016, per esempio, la polizia russa ha fatto irruzione nell’appartamento di uno dei suoi alti ufficiali, il colonnello Dmitry Zakharchenko, che era a capo di un dipartimento all’interno della sua divisione anticorruzione. Lì hanno trovato 123 milioni di dollari: così tanti che gli investigatori hanno dovuto sospendere le ricerche mentre cercavano un contenitore abbastanza grande da trasportare tutto quel denaro. In realtà non erano soldi suoi, era solo il custode del fondo comune, l’obshchak, di una banda di «Lupi mannari»: così sono chiamati gli uomini della mafia dentro la polizia.

Mafia e politica

Putin deve ricordare ai vory che è lui che dà l’autorizzazione alla loro vita; ovviamente sa benissimo che sarà finita quando il suo potere dipenderà dai vory. Per ora questo equilibrio è mantenuto perché le bratva russe e i vory continuano a fare affari sulle risorse naturali e sulle concessioni date dallo Stato: questa è la «dipendenza» della mafia russa dal potere politico in cui si mischia e confonde. Gestiscono cose il cui profitto devono smezzare con le istituzioni e tra l’altro delegare alle organizzazioni spesso significa permettere un’efficienza verticale che nessun’altro potrebbe garantirti. Come descrive bene Taras Kuzio nel libro Ukraine: Democratization, Corruption, and the New Russian Imperialism il ruolo dei vory è sempre solo quello di risolvere problemi, chiedi e ti sarà dato. La realtà della Solntsevo negli anni ha stretto alleanze e levigato attriti con le già fiorenti mafie locali ucraine: «L’Ucraina — scrive Galeotti — è un buon esempio, un Paese in cui tutte le principali associazioni russe hanno interessi, operazioni, partner e persone, e dove anche la cultura vory è ancora presente. Solntsevo ha un rapporto di lunga data con il “clan Donetsk” criminale-politico, che era la base di potere dell’ex presidente Viktor Janukovyč, per esempio». Il rapporto tra mafia e politica è talmente stretto che persino eventi traumatici, come l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014 e i successivi scontri nel Donbass, avvengono con il sostegno attivo dei vory locali. Se potessi chiedere a Semyon Mogilevich come finirà questa guerra, avrei certamente l’opinione più aggiornata, più utile, più profonda che potremmo ottenere, che nessun analista, nemmeno le informazioni che i Servizi americani hanno fatto trapelare ai giornali, riuscirebbero a dare. Osservare le dinamiche criminali, in questo caso, significa guardare al cuore pulsante delle questioni. Guarda la mafia, vedi il crimine; guarda attraverso la mafia, vedi il destino dell’economia del tuo tempo.

·        La Mafia Nigeriana.

Da blitzquotidiano.it il 25 febbraio 2022.

Ha fatto arrivare in Italia una ragazza nigeriana promettendole un posto di lavoro in un bar, poi l’ha costretta a prostituirsi per ripagare il debito. Quindi l’ha sequestrata in un appartamento a Bari, l’ha violentata, messa incinta e poi l’ha cacciata di casa impendendole di portare con sé i documenti e pure il figlio nato dallo stupro che ha subito dal suo aguzzino.

L’uomo, detto “Fred” o “Friday”, di 43 anni, ritenuto tra i capi della mafia nigeriana, è stato arrestato dalla Squadra mobile di Reggio Calabria. Con l’accusa di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale.

L’arresto del boss nigeriano

L’arresto dell’uomo, che è indagato anche per associazione a delinquere, è stato disposto dal gip Vincenza Bellini. Assieme al fratello detto “Felix” di 32 anni, e ad altri soggetti che si trovano in Libia e in Nigeria, avrebbe reclutato in patria ragazze da condurre con l’inganno in Italia. Nell’inchiesta sono indagati altri tre nigeriani, due donne di 30 e 22 anni, e un uomo di 25.

La ragazza nigeriana e i riti voodoo

Le vittime venivano legate mediante rito voodoo e tenute in uno stato di completa prostrazione psicologica per poi avviarle alla prostituzione. Una di loro lo ha denunciato e ha raccontato agli investigatori di essere stata “sottoposta in Nigeria – riassume il giudice – ad un rito di magia nera per vincolarla al rispetto dell’impegno di pagare la somma di 25mila euro”.

Stando alle indagini del pm Amerio, ci sarebbe stata una vera e propria cerimonia in cui la ragazza, all’epoca ventunenne, e la sua famiglia sono state minacciate di morte nel caso in cui avessero infranto il giuramento.

 

“La mafia nigeriana è sempre più potente per colpa del politicamente corretto”: l’accusa dello zio di Pamela. Davide Ventola il 22 gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.

“Mantenere alta l’attenzione” sul fenomeno della mafia nigeriana e “cercare sempre più di comprenderne i meccanismi, altrimenti si rischia di trattare con politica ipocrisia un fenomeno-quello mafioso-che è sempre più transnazionale”. E’ quanto afferma all’Adnkronos l’avvocato Marco Valerio Verni, a pochi giorni da una nuova operazione contro la mafia nigeriana che ha portato, stavolta a Palermo, a quattro arresti.

Verni, che è zio e legale della famiglia di Pamela Mastropietro, la 18enne romana che si era allontanata da una comunità di Corridonia e i cui resti furono ritrovati chiusi in due trolley a Pollenza (Macerata), fatti per i quali è stato condannato all’ergastolo in primo grado e in appello Innocent Oseghale, da tempo studia il fenomeno della mafia nigeriana e ha sollevato spesso interrogativi anche rispetto alla vicenda della nipote che però, su questo fronte, non hanno, almeno al momento, trovato riscontri in sede giudiziaria.

“Gli arresti effettuati a Palermo lo scorso 18 gennaio, ma non solo (essi sono appena gli ultimi in ordine di tempo) – sottolinea Verni – dimostrano ancora una volta, semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, di quanto ormai le organizzazioni criminali nigeriane, anche di tipo mafioso, siano molto radicate anche e soprattutto nel nostro Paese, che costituisce decisamente il porto d’Europa per chi proviene soprattutto dal continente africano e di come esse siano le principali promotrici di alcuni reati gravissimi, tra i quali la tratta di esseri umani, la riduzione in schiavitù, il sequestro di persona, lo sfruttamento della prostituzione nonché il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.

“Inutile negare, in nome di un presunto politicamente corretto, che una immigrazione irregolare e mal gestita non possa contribuire, e pure in gran misura, alla crescita di questa, come di altre mafie etniche (sia nello stretto senso giuridico sia nel senso polisemico del termine), le quali, naturalmente, collaborano con quelle nostrane o, comunque, in riferimento ad altri Paesi, con le organizzazioni criminali del luogo, spesso, addirittura, arrivando a soppiantarle”, prosegue.

“Particolare preoccupazione desta la sinergia tra la mafia nigeriana e la criminalità albanese, per trasportare dall’Est Europa tonnellate di sostanze stupefacenti (marijuana in primis) e, attraverso la Puglia e la dorsale adriatica smistarle poi nelle piazze di spaccio italiane. Per tornare agli importanti arresti di Palermo -continua Verni- occorre ribadire, ancora una volta, l’importanza della collaborazione e degli strumenti legislativi che il nostro ordinamento prevede per incentivare la denuncia da parte delle vittime straniere dei summenzionati reati”.

“La mafia nigeriana e quella albanese hanno creato una sinergia”

“Il richiamo è, evidentemente, all’articolo 18 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, rubricato ‘Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero’ che consente al ‘Questore, anche su proposta del procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, di rilasciare uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale’ – aggiunge l’avvocato Verni – Nel caso di specie, non a caso, il tutto è partito dalla denuncia di una ragazza nigeriana, accompagnata da un pastore pentecostale (un connazionale) a cui la vittima si era rivolta per sottrarsi ai suoi aguzzini”.

“Occorre mantenere alta l’attenzione su questo fenomeno, e cercare sempre più di comprenderne i meccanismi – conclude – altrimenti si rischia di trattare con politica ipocrisia un fenomeno-quello mafioso-che è sempre più transnazionale, con buona pace degli eroi che, per combatterlo, hanno donato la loro vita, tra cui il grande Paolo Borsellino di cui sarebbe ricorso, proprio nei giorni scorsi, l’ottantaduesimo compleanno ed al quale va, naturalmente, il doveroso ricordo ed omaggio. Perché, d’altronde, lui continua a vivere nei cuori di tutta la brava gente”.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Gli agenti della Polizia di Stato hanno eseguito un'ordinanza cautelare in carcere per quattro persone di nazionalità nigeriana accusate a vario titolo, dei delitti di tratta di persone, riduzione in schiavitù, sequestro di persona, sfruttamento della prostituzione nonché favoreggiamento all' immigrazione clandestina, reati aggravati perché commessi da persone ritenute appartenenti all'associazione nigeriana di tipo mafioso denominata Black Axe.

L'operazione della Polizia, nata dalle indagini condotte dalla sezione Criminalità straniera e prostituzione della Squadra mobile di Palermo, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, nasce dalla denuncia di una ragazza nigeriana, accompagnata da un pastore pentecostale connazionale, cui la vittima si era rivolta per sottrarsi ai suoi aguzzini. La giovane ha raccontato di violenze subite nel suo paese d'origine ad opera di persone appartenenti ad un'organizzazione segreta 'cultista', nonché delle modalità con cui era riuscita a giungere clandestinamente in Italia, per poi essere destinata alla prostituzione.

Dal racconto della donna è emerso che la vittima era stata segregata nel suo paese d'origine da un gruppo di uomini appartenenti al secret cult denominato Black Axe, riuscendo a liberarsi grazie all'intercessione di un connazionale, dietro l'impegno a recarsi in Italia come "schiava" di quel gruppo. 

Per questo motivo era stata sottoposta a rito vodoo promettendo di restituire 15mila euro, somma necessaria per raggiungere illegalmente il nostro Paese. A Palermo, approfittando dello stato di soggezione e sotto la minaccia di morte e violenze, sarebbe stata costretta a prostituirsi, e i soldi venivano consegnati per la restituzione del 'debito'.

La donna è riuscita a sottrarsi ai suoi presunti aguzzini, rivolgendosi al pastore che per questo motivo avrebbe ricevuto anche minacce di morte. Il provvedimento è stato eseguito in collaborazione con la squadra mobile di Taranto, in quanto tre dei destinatari del provvedimento restrittivo erano attualmente residenti nella cittadina pugliese.

Palermo, i boss nigeriani contro il pastore che salva le prostitute: "Ti uccidiamo in chiesa". Lui accusa: "Mafiosi stupidi". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

Padre Mike ha convinto un'altra ragazza a denunciare gli aguzzini ed è scattato il blitz della squadra mobile. "Io non ho paura, ho fiducia nelle autorità. Palermo è la città dell'accoglienza". I padrini della mafia nigeriana volevano morto il pastore Mike Ifeoluwa Oputteh, il giovane animatore della Chiesa Pentecostale di via del Vespro. Perché non ha mai smesso di aiutare le ragazze finite nei giri della prostituzione, gestiti dai clan. Qualche tempo fa, un boss lo chiamò al telefono e urlò: «So chi sei e dove abiti.

·        La Mafia Colombiana.

Da blitzquotidiano.it il 7 giugno 2022.

La Guardia di finanza di Trieste ha sequestrato 4.3 tonnellate di cocaina e ha fermato 38 persone tra Europa e Colombia. Sequestrati inoltre quasi 2 milioni di euro in contanti. Sono 4.300 i chilogrammi netti di cocaina sottoposta a sequestro, che viene considerato dagli investigatori uno dei più importati mai avvenuti in Europa. 

La cocaina dalla Colombia a Trieste

Si stima che questa quantità di cocaina abbia un valore di circa 96 milioni di euro, comprata dai gruppi criminali acquirenti. Sul mercato italiano la vendita al dettaglio ne avrebbe più che duplicato il valore finale, arrivando a un prezzo di almeno 240 milioni di euro.

Nel corso dell’operazione, oltre a diversi veicoli, tra cui un tir e un suv del valore di oltre 100mila euro, sequestrati anche 1,8 milioni di euro in contanti. Risorse finanziarie e patrimoniali sottratte alla disponibilità di agguerrite organizzazioni criminali grazie al lavoro degli specialisti della Guardia di finanza. 

L’operazione infligge un duro colpo al gruppo più importante tra i narcos colombiani. Le indagini, protratte da più di un anno e iniziate con la cooperazione della magistratura e della polizia colombiana, con l’Agenzia statunitense Homeland Security Investigations, hanno ricostruito la fitta rete di rapporti tra i produttori di cocaina sudamericani e gli acquirenti in Italia e in Europa. Facenti capo a noti contesti di criminalità organizzata operanti in Veneto, Lombardia, Lazio e Calabria. 

Il giro di droga

Individuati importanti broker e grossisti e vari addetti al trasporto, tutti oggetto delle misure restrittive. Impiegati agenti sotto copertura, che si sono infiltrati nell’organizzazione. Simulando di gestire la parte logistica dei traffici. 

La raccolta delle prove resa possibile attraverso ben 19 consegne controllate consecutive. Sviluppatesi fra maggio 2021 e maggio 2022. Individuati importanti mediatori nel sistema del narcotraffico mondiale e un cospicuo numero di vettori che operavano in Italia e all’estero.

Omicidio del giudice paraguayano Pecci, condannati a 23 anni e 6 mesi i colpevoli. Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica il 23 Giugno 2022.

Cinque uomini e una donna sono stati individuati come colpevoli, ma solo quattro sono stati arrestati dopo lunghe indagini. A incastrarli per aver ucciso Pecci il 10 maggio, mentre era in luna di miele in Colombia, ci sono oltre 200 elementi di prova.

Cinque uomini e una donna. Sono i killer del giudice paraguayano Marcelo Pecci, assassinato il 10 maggio scorso sulla spiaggia dell'isola di Barú, 45 minuti di volo da Catagena de Indias, in Colombia, mentre si trovava in viaggio di nozze con la moglie, la cronista investigativa Claudia Aguilera. Formavano il commando che ha pedinato, compiuto il sopralluogo, eseguito una delle azioni più spettacolari degli ultimi anni in America Latina.

Marcelo Pecci, ucciso in spiaggia in Colombia il procuratore antidroga paraguayano. Chiara Barison su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.

Il paraguayano Marcelo Pecci era in luna di miele a Cartagena. Illesa la moglie, la giornalista Claudia Aguilera, in attesa del loro primo figlio. Diffuso identikit di uno dei due killer e offerti 500mila dollari a chi fornirà informazioni utili. 

Stava passeggiando sulle spiagge dell’isola di Barù, al largo delle coste colombiane di Cartagena, quando due uomini gli hanno sparato. E’ morto così Marcelo Pecci, il procuratore paraguayano di origini italiane che si occupava della lotta alla mafia e al traffico di droga. Ad assistere impotente all’omicidio c’era la moglie, la giornalista Claudia Aguilera, con cui era sposato dallo scorso aprile. Poche ore prima dell’assassinio la donna aveva annunciato con un post Instagram di essere in attesa di un bambino.

La coppia si trovava in luna di miele quando è stata raggiunta via mare da due sicari, probabilmente a bordo di una moto d’acqua. «Uno di loro è sceso e ha sparato a Marcelo due volte, una in faccia e una alla schiena», ha raccontato la moglie, rimasta illesa, al quotidiano El Tiempo. Nel tentativo di fermare l’esecuzione è intervenuto anche un membro della sicurezza del Decameron Barú Hotel presso il quale alloggiavano i neosposi. La polizia colombiana ha diffuso la foto di uno dei due presunti assassini: indossa un paio di bermuda neri e un cappello modello panama beige. Alle persone che dovessero fornire informazioni utili per l'identificazione dei due ricercati sarà offerta una ricompensa di circa 488mila dollari. «Il modo in cui hanno agito gli assassini, in cui lo hanno giustiziato, è tipico della mafia. Non vedo altra spiegazione», ha denunciato il presidente dell'Associazione paraguaiana dei pubblici ministeri, Augusto Salas.

Il ministro della Difesa colombiano Diego Molano ha annunciato che un' unità investigativa è stata inviata a Cartagena per identificare i responsabili dell'omicidio. Il capo della polizia colombiana, il generale Jorge Luis Vargas ha annunciato che le indagini saranno condotte in collaborazione con la polizia statunitense e paraguayana. Il presidente del Paraguay Mario Abdo Benítez ha definito l'accaduto su Twitter «un codardo assassinio». Gli ha fatto eco la ministra degli esteri colombiana Marta Lucía Ramírez che ha fatto sapere che le autorità stanno lavorando per chiarire «le motivazioni di questo atroce delitto».

Pecci, 45 anni, era specializzato in criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro e finanziamento del terrorismo. Ultimamente, si era occupato della sparatoria avvenuta a un concerto lo scorso gennaio in cui era rimasta uccisa la moglie di un calciatore, sospettata di essere una trafficante di droga. Nel 2020 aveva condotto le indagini del caso in cui fu coinvolto l'ex calciatore brasiliano Ronaldinho, accusato di aver tentato di entrare in Paraguay con un passaporto falso.

Narcostati. Cosa c’è dietro l’omicidio del procuratore antimafia Marcelo Pecci. Pietro Mecarozzi su L'Inkiesta il 13 Maggio 2022.

Secondo le ricostruzioni, l’attentato porta la firma dei cartelli del narcotraffico, contro i quali il Paraguay, crocevia del traffico di droga destinato ai mercati europei, asiatici, australiani, combatte una guerra sempre più difficile.

Due colpi a freddo, uno in faccia e uno alla schiena. Così è stato ucciso Marcelo Pecci, procuratore antimafia del Paraguay con origini italiane, mentre passeggiava sulla spiaggia dell’Isla Barú, a sud della città colombiana di Cartagena. Due sicari sono arrivati a bordo di una moto d’acqua, panama in testa e pistole in mano. Lo hanno ucciso mentre era in luna di miele, di fronte ai bagnanti e alla moglie, che gli aveva da poco annunciato di essere incinta.

Pecci era specializzato in criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro e finanziamento del terrorismo: era uno dei più importanti pubblici ministeri del Paraguay. Negli ultimi mesi era stato responsabile di casi legati ad A Ultranza PY, la più grande operazione antidroga della storia del paese, e stava indagando sulla sparatoria avvenuta ad un concerto lo scorso gennaio in cui era rimasta uccisa la moglie di un calciatore e un presunto trafficante di droga.

Si era inoltre occupato del caso in cui fu coinvolto l’ex calciatore brasiliano Ronaldinho, accusato di aver tentato di entrare in Paraguay con un passaporto falso (2020), nonché delle indagini sull’omicidio della figlia del governatore di Amambay a Pedro Juan Caballero (2021).

La ministra degli Esteri e vicepresidente di Colombia, Marta Lucia Ramirez, ha affermato che le autorità stanno lavorando per ricostruire «i motivi e gli autori di questo crimine atroce». Una esecuzione che, anche se non c’è l’ufficialità, è certamente legata al lavoro che stava svolgendo il procuratore e che porta la firma dei cartelli del narcotraffico.

Il ministero della Difesa colombiano presieduto da Diego Molano ha riferito come un’unità investigativa criminale sia stata inviata sul posto per indagare. Jorge Luis Vargas, direttore generale della Polizia nazionale colombiana, ha comunicato che seguirà da vicino la vicenda e ha già incaricato delle indagini cinque investigatori di alto profilo. Per dare maggiore slancio alle indagini, la stessa polizia ha pubblicato l’identikit dei due sicari e disposto una ricompensa di quasi 500mila dollari.

«Dalle modalità di esecuzione e dal messaggio lanciato penso si tratti di un delitto di stampo mafioso da parte dei narcos paraguaiani in alleanza e con il consenso dei colombiani. Le organizzazioni criminali dei due Paesi sudamericani hanno molti affari in comune, soprattutto nel campo del traffico internazionale di stupefacenti e nel riciclaggio, ambiti in cui stava indagando a fondo proprio Pecci», puntualizza Vincenzo Musacchio, criminologo e ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services, che con Pecci ha condiviso la menzione speciale al Premio Internazionale “Giovanni Falcone” di San Paolo del Brasile il 7 dicembre del 2015. 

Il Paraguay è 137esimo su 179 paesi nella classifica della corruzione percepita in una nazione (Corruption Perception Index), e da decenni è impegnato in una guerra contro il “narco-Stato” interno dei cartelli. «In Paraguay le organizzazioni criminali sono coinvolte in vari affari illeciti, non solo il traffico di droga, che rappresenta il punto dove si annoda il legame più diretto e quantitativo con la violenza. Solo nel primo mese dell’anno in corso ci sono stati trenta omicidi, tra giornalisti, forze dell’ordine e ora anche magistrati, da parte di sicari. In pratica uno al giorno. È una mattanza. La popolazione paraguaiana non è più al sicuro da nessuna parte, poiché non di rado persone innocenti, compresi i bambini, restano vittime collaterali di regolamenti di conti tra cosche criminali dedite al narcotraffico».

Il Paese è il crocevia del traffico di droga destinato ai mercati europei, asiatici, australiani. Dal giugno 2020 al novembre 2021 sono stati sequestrati tra Anversa e Malta 44.986 chili di cocaina: arrivavano dal Paraguay. Secondo le ultime indagini nazionali, le guerre per i traffici di droga hanno causato la maggior parte delle morti per omicidi. Stragi che sono all’ordine del giorno ad Amambay e Concepción, tappe cruciali per il trasferimento della cocaina. Secondo un rapporto pubblicato da Terere Cómplice nel 2021, scritto dall’investigatore Jorge Rolón Luna, gli omicidi nelle zone in cui l’attività di traffico di droga è elevata sono «principalmente omicidi su commissione».

Rolón Luna, ex direttore dell’Osservatorio per la sicurezza dei cittadini del Paese, ha scritto che «gli omicidi per mano dei sicari sono dovuti a un’intensificazione del traffico di droga, alle controversie tra i cartelli per il controllo di territori, rotte e attività commerciali, e all’assenza di tregue tra clan».

Quello di Pecci è pertanto l’ennesimo campanello d’allarme di un’emergenza che sembra difficilmente arginabile: «I narcotrafficanti hanno infettato la struttura dello Stato, come riconosciuto da alti funzionari governativi. Questa mafia si è diffusa anche sul territorio, ben oltre le tradizionali aree di violenza, come l’Alto Paraná e Amambay. Il “clan Rotela” dedito al traffico e allo spaccio di stupefacenti è quello più feroce e meglio organizzato sia militarmente sia economicamente. Oggi in Paraguay fa paura».

Le guerre tra organizzazioni criminali rivelano inoltre che, da diversi anni, la polizia è incapace di garantire i minimi requisiti di ordine pubblico. «A livello europeo e internazionale il segnale è altrettanto preoccupante se solo pensiamo al fatto che nel secondo semestre del 2021 sono stati sequestrati in Europa circa quarantamila chili di cocaina spediti direttamente dal Paraguay. Lo Stato sudamericano è anche un grande produttore di marijuana. Per gli abitanti di alcuni piccoli Comuni del sud del Paese la produzione di sostanze stupefacenti rappresenta anche una forma di sostentamento familiare considerata la povertà di quelle zone. Queste mafie in questo modo riescono ad ottenere anche consenso sociale», continua Musacchio.

Un attentato molto allarmante, avvenuto in Colombia per colpire il Paraguay, in quanto «le mafie si sono consorziate, e le strategie antimafia e antidroga a livello internazionale non mi pare abbiano ottenuto grandi risultati. Il problema non è affatto di facile risoluzione».

·        La Mafia Messicana.

La violenza dei narcos minaccia il turismo messicano. Marco Valle l'1 Novembre 2022 su Inside Over.

Per il Messico il turismo rappresenta il sette per cento del PIL. Un ottimo affare e tanti, tanti soldi. Persino durante la pandemia, grazie ad una politica “aperturista”, gli stranieri sono continuati ad arrivare (e a spendere) e la repubblica centroamericana è divenuta la settima meta mondiale del turismo. Una crescita formidabile che ha il suo cuore nello Stato federale di Quintana Roo e più precisamente nella Riviera Maya, 130 chilometri di spiagge stesi tra Cancun, Playa del Carmen e Tulum e punteggiati da 120.0000 camere d’albergo che solo l’anno scorso hanno ospitato ben 13 milioni di turisti. Una risorsa preziosa per un Paese ancora afflitto da gravi problemi strutturali, inquinato da una corruzione diffusa e massacrato da una violenza efferata quanto rapace.

Ed è proprio la violenza — principalmente frutto velenoso del narcotraffico dei cartelli — a minacciare la Riviera. Nell’ultimo anno il tasso d’omicidi nella regione è arrivato a 46 casi su centomila abitanti rispetto ad una già non invidiabile media nazionale del 27. Una mattanza che fatalmente ha coinvolto anche turisti d’ogni nazionalità — canadesi, statunitensi, francesi, indiani, giapponesi —, per lo più (ma non sempre…) vittime casuali di regolamenti di conti tra le diverse gang o spettatori incolpevoli di macabri ritrovamenti tra gli ombrelloni e sulle strade. Alla base il traffico di stupefacenti. “Nove omicidi su dieci sono legati alla vendita di droghe”, spiega il procuratore regionale, Oscar Montes de Oca. “Il turismo ha sviluppato un mercato enorme che ha scatenato una guerra tra i terminali locali delle grandi organizzazioni criminali, tra tutti il cartello di Jalisco e quello di Sinaloa. I più pericolosi”.

Insomma tanta domanda e tantissima offerta. Per rendersene conto basta una passeggiata nel centro di Cancun o Playa del Carmen. Ad ogni angolo vi è qualcuno che vende la “roba”: marijuana, cocaina, anfetamine d’ogni tipo e ad ogni prezzo. Un mercato a cielo aperto a lungo tollerato o, quantomeno, poco ostacolato dalle forze dell’ordine.

Sino ad oggi. L’escalation criminale ha allarmato non poco l’industria del turismo e, omicidio dopo omicidio, le pressioni sul governo regionale e su quello centrale si sono fatte sempre più forti sinché quest’estate lo Stato ha deciso d’intervenire “prima che succeda qualcosa d’irreparabile”.  Ai 5000 agenti della polizia regionale (considerati sensibili alle lusinghe del denaro…) sono stati aumentati di botto gli stipendi (da 7000 pesos a 18.000) e forniti nuovi equipaggiamenti, nelle zone considerate sensibili sono state installate 2200 telecamere, spiagge e centri turistici sono pattugliati 24 ore su 24 da 1500 militi della Guardia nazionale e da un battaglione di fanteria di Marina in assetto da guerra. Risultato provvisorio?  Gli arresti sono triplicati e la curva criminale sembra essersi abbassata.

Ma i problemi, per ammissione delle stesse autorità, restano aperti. Lo straordinario quanto caotico sviluppo urbano della regione (solo Tulum cresce annualmente del 14 per cento e ha triplicato la popolazione in un decennio) facilita il riciclaggio di denaro sporco e alimenta la corruzione: in passato due governatori del Quintana Roo, Mario Villanueva e Roberto Borge, sono finiti in galera rispettivamente per traffico di droga e truffa aggravata….

L’attuale governatrice Maria Lezama, molto vicina al presidente federale Lòpez Obrador, assicura che inasprirà la strategia securitaria e la lotta contro il malcostume e il clientelismo. Una mossa necessaria, anzi obbligata se si vuol preservare l’industria turistica e garantire nuovi investimenti nel settore. In primis l’apertura del nuovo aeroporto internazionale di Tulum — quello di Cancun è ormai intasato — e la realizzazione del “Tren Maja”, la nuova ferrovia ad alta velocità lunga 1500 chilometri che unirà entro il 2023 le principali attrazioni turistiche del Messico meridionale. Opere importanti e molto costose che la ferocia dei narcos rischia di trasformare in desolate “cattedrali nel deserto”.

Estratto dell'articolo di Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 2 settembre 2022.  

La Reina del Sur sono io, ora pagatemi il dovuto. Sandra Ávila Beltràn non ha gran che da rallegrarsi per il passato di Regina del Pacifico, quando per trent' anni ha navigato sulla cresta del traffico di droga tra il Messico e la Colombia, accanto ai signori del narcotraffico, diversi dei quali sono stati suoi amanti.

Lungo il percorso ha perso due mariti e un fratello, tutti uccisi da bande rivali. È sopravvissuta in modo rocambolesco ad un attentato e si è fatta sette anni di carcere tra gli Usa e il Messico, due dei quali in solitaria. Nel 2017 è tornata in libertà e vive in condizioni apparentemente modeste, [...] Ma quando si tratta di mettere le mani su parte dei proventi di uno dei serial televisivi di maggior successo mai prodotto dalla tv in lingua spagnola, il vecchio orgoglio della signora Beltràn emerge intatto dalla nebbia della memoria.

La donna dice, e con ogni probabilità ne ha piena ragione, che il canovaccio della serie è tutto preso dalla sua biografia, e per questo chiede in tribunale che Netflix e Telemundo le paghino il 40% dei profitti delle due prime serie, andate in onda tra il 2011 e il 2016, prima di procedere alle riprese della terza, in programma per il prossimo ottobre. [...]

Terza nella linea generazionale di signori della droga, fu costretta a lasciare i corsi di musica classica e di giornalismo, quando fu rapita all'età di diciassette anni da un giovane spasimante, in carriera nel traffico della droga, che non sopportava di averla lontana. Lei era bella e seducente, esperta cavallerizza almeno quanto lo era nell'uso delle pistole. Dopo l'assassinio del primo amante ha vissuto gli anni leggendari che l'hanno incoronata come le Regina del Pacifico, titolo che si è conquistata stivando nove tonnellate di coca su una nave cargo in partenza dal porto di Colima.

La polizia ha avuto a che fare con lei per la prima volta nel 2002, quando scoprì che la donna stava negoziando il rilascio del figlio rapito da una banda criminale, in cambio di cinque milioni di dollari. [...] Fu arrestata nel 2007 a Città del Messico dopo anni di caccia, ma la procura riuscì a portarla in tribunale solo con l'accusa di riciclaggio di denaro, e a condannarla a cinque anni di reclusione. 

Simile fallimento negli Usa, dove la Beltràn fu estradata nel 2012, e dove la procura di Chicago non riuscì a provare la sua colpevolezza nel traffico di droga. In Messico ha poi scontato altri due anni di reclusione, sempre per riciclaggio. [...]

 Alla fine dei conti a spingerla a presentare denuncia è forse più la normalità forzata che l'indigenza. Il suo è un tentativo di reclamare per sé la fama di una posizione sociale che ha perso, dopo trenta anni di vita violenta e sciagurata. 

Messico, catturato il re della droga Caro Quintero, simbolo dei narcos. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.  

L’operazione è costata la vita a 14 militari. Il boss aveva creato negli anni ’70 il cartello di Guadalajara. Per lui gli Usa avevano offerto anche una taglia da 20 milioni di dollari. 

Rafael Caro Quintero, il narco dei narcos, è di nuovo in trappola. Il padrino è stato catturato dai marines messicani a San Simon, nello stato di Sinaloa. A scovarlo nella boscaglia un segugio, Max, che ne ha seguito le ultime tracce. Un’operazione durante la quale è precipitato – per cause non accertate – un elicottero: morti 14 militari.

Il boss rappresenta la storia dei trafficanti messicani. Nato nell’ottobre del 1952 nei pressi di Badiraguato, ha creato negli anni ’70 l’ormai scomparso cartello di Guadalajara. All’epoca agiva insieme a “personaggi” diventati poi famosi nel firmamento nero: Miguel Angel Felix Gallardo e Ernesto Fonseca Carrillo. Un’organizzazione poderosa impegnata nel giro della marijuana e per questo finita nel mirino degli Stati Uniti che invierà suoi agenti ad aiutare le autorità locali. Uno dei funzionari Dea, Enrique Kiki Camarena, verrà sequestrato nell’85, sottoposto a torture feroci, quindi assassinato. Un delitto attribuito a Quintero e ai suoi complici. Poco meno di un mese dopo il gangster sarà arrestato in Costa Rica, poi trasferito nel proprio Paese e condannato a 40 anni di galera. Ma non li sconterà tutti. Cosa non strana in uno stato indebolito da corruzione e collusioni. Un tribunale lo libererà nel 2013 usando cavilli legali. Uno sfregio alla Giustizia, un insulto alle vittime di una fazione pericolosa. Due anni dopo verrà emesso un nuovo mandato di cattura mentre gli americani offriranno una taglia di 20 milioni di dollari. Una volta fuori il criminale ha ripreso parzialmente le sue attività, anche se sulla scena ci sono padrini ben più determinati. Sul suo ruolo più recente sono emerse valutazioni diverse: per Washington ha continuato ad avere un peso mentre per i messicani cercava solo di restare a galla in un quadro frammentato, con il cartello di Sinaloa spaccato dalle faide e assediato dai rivali di Jalisco.

Quintero era e resta però un simbolo, basti pensare alle serie Netflix dedicate alla sua realtà, gli Usa non erano disposti a dimenticare. E adesso sono molti che ipotizzano un patto tra i due paesi: la cattura è arrivata pochi giorni dopo un incontro tra Joe Biden e il presidente Obrador. Situazione possibile, ma anche scontato che vengano diffuse voci in questo senso. Dietro ogni grande blitz contro i re della droga c’è sempre lo scenario dell’intervento dei «gringos». Che possono fornire dritte e supporto tecnologico nell’individuazione di latitanti eccellenti. E il fatto che Rafael sia stato preso dai marines messicani è un indizio ulteriore: il Pentagono e le agenzie investigative statunitensi collaborano strettamente con la Marina, ritenuta meno corrotta di altri apparati. Gli Stati Uniti hanno già avanzato una richiesta di estradizione a Città del Messico, passo inevitabile. Magistrati e poliziotti vorranno fare molte domande a Quintero, un uomo che sa molto e non solo di questioni di droga.

Era nella top10 dei più ricercati dagli Stati Uniti. Caro Quintero, preso il re della droga fondatore del cartello di Guadalajara: su di lui taglia da 20 milioni. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2022. 

Rafael Caro Quintero, uno dei 10 boss della droga più ricercati dall’Fbi statunitense, è stato catturato in Messico in una vasta operazione di polizia. Accusato negli States di aver ordinato il rapimento, la tortura e l’omicidio dell’agente speciale della Drug Enforcement Administration (DEA) Enrique “Kiki” Camarena nel 1985, Caro Quintero è stato catturato dai Marines messicani a San Simon, nello stato di Sinaloa.

Il pericolo boss della droga, 69 anni, è anche il co-fondatore del famoso cartello della droga di Guadalajara e attualmente gestirebbe un braccio del famigerato cartello di Sinaloa. Già processato e condannato a 40 anni di carcere in Messico, nel 2013 un tribunale locale ne aveva ordinato il rilascio per un cavillo legale, dopo che aveva scontato 28 anni. Una decisione annullata dalla Corte Suprema messicana quando era già troppo tardi: il re del narcotraffico si era già detto alla fuga.

Per tentare di fermarlo gli Stati Uniti avevano anche posto una taglia da 20 milioni di dollari sulla sua testa, fino all’epilogo odierno e la cattura. Ora a Washington si aspettano l’estradizione, già ‘concessa’ lo scorso anno da un tribunale messicano, che aveva detto sì all’estradizione respingendo un appello degli avvocati di Caro Quintero.

A ribadirlo è stato anche il segretario alla Giustizia americano Merrick Garland, ringraziando le autorità messicane per la cattura. Caro Quintero col tempo era diventato anche un ‘simbolo’, con il gigante dello streaming Netflix che aveva raccontato nella serie ‘Narcos’ il barbaro omicidio dell’agente della DEA Enrique “Kiki” Camarena.

L'uomo era molto noto e stimato. Imprenditore italiano ucciso in Messico, l’albergatore e scrittore Raphael Alessandro Tunesi freddato nell’agguato. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Luglio 2022. 

Raphael Alessandro Tunesi è stato freddato a colpi di arma da fuoco mentre stava andando a prendere le figlie da una scuola della comunità, il Colegio Escriba. L’uomo d’affari di origini italiane era proprietario di un noto hotel nello Stato messicano meridionale del Chiapas. L’agguato si è consumato venerdì, intorno a mezzogiorno. Lo hanno reso noto le autorità locali.

L’imprenditore viveva da anni in Chiapas, era sposato con una donna messicana con la quale aveva avuto tre figlie. Era anche considerato un esperto di cultura maya, epigrafista e conferenziere, consultato da politici e intellettuali. Aveva scritto diversi libri tra cui El arte Maya. Il suo Quinta Chanabnal a Palenque era un albergo di lusso. Era ispirato ai templi maya e al suo interno erano stati girati anche diversi film. L’anno scorso aveva partecipato al forum “Messico-Italia 500 anni di dialogo culturale” organizzato dal ministero della Cultura, sulle relazioni tra l’Italia e il Messico dalla conquista ad oggi.

Un amico di famiglia ha raccontato all’Afp che era molto stimato nella comunità. Lo stesso amico, che ha chiesto di rimanere nell’anonimato per questioni di sicurezza, ha aggiunto che la criminalità organizzata aveva chiesto il pagamento di un “derecho de piso” a negozianti e imprenditori nella zona molto visitata da turisti nazionali e stranieri per il suo sito archeologico, tra i più importanti della cultura Maya. Racket.

Le moto utilizzate dai sicari per l’agguato sono state ritrovate in una zona chiamata “La Cañada”, dove sono stati rinvenuti anche proiettili e abbigliamento usati nel raid. Quando sul posto sono arrivati gli agenti, l’uomo era già senza vita all’interno della BMW crivellata di colpi. Dopo l’omicidio imprenditori di vari settori, tra cui quello alberghiero di Palenque, hanno denunciato il clima di insicurezza che si è venuto a creare nella zona ed hanno chiesto che gli assassini di Tunesi vengano trovati e chiamati a rispondere dell’omicidio.

Sul posto, “gli agenti di polizia che sono arrivati lo hanno trovato all’interno di un veicolo con diverse ferite da proiettile”. L’ufficio del pubblico ministero ha dichiarato in una breve nota di aver avviato un’indagine sul caso.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.  

Italiano ucciso in Messico: chi era Raphael Alessandro Tunesi, albergatore ed esperto dei Maya. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 2 Luglio 2022.

Tunesi amava la storia e l’arte locale. È stato ucciso a bordo della sua auto mentre aspettava le figlie. Non è esclusa la pista della rappresaglia di gang di estorsori

La vita di Raphael Alessandro Tunesi si è fermata alle 14 di venerdì vicino alla scuola La Escriba, Palenque, stato messicano del Chiapas. L’imprenditore italiano era a bordo della sua auto e doveva prendere le figlie quando è stato colpito a morte da un paio di sicari arrivati in moto. Uno degli assassini ha esploso almeno tre colpi centrando il nostro connazionale, con la vettura fermatasi di traverso al lato della strada costeggiata dalla vegetazione. La vittima era piuttosto nota nella zona che ospita resti archeologici importanti.

La famiglia e la passione per i Maya

Sposato da 21 anni con Elizabeth, tre figlie, Tunesi gestiva l’hotel Quinta Chanabnal, un piccolo albergo di lusso in «tema» Maya. Aveva studiato a lungo questa civiltà, parlava il dialetto indio, conosceva aspetti che attirano visitatori da ogni parte del mondo. Infatti aveva organizzato incontri, mostre, eventi proprio per raccontare un’epoca affascinante mentre nel 2014 insieme ad Antonio Aimi aveva scritto un libro, «L’Arte Maya», una testimonianza ulteriore del suo legame con il territorio.

Perché l’hanno ucciso?

La Farnesina segue la situazione e auspica che possa essere fatta luce. Tutto però dipende da chi indaga. La cronaca messicana con centinaia di migliaia di omicidi racconta di un’infinità di moventi, di delitti senza una spiegazione apparente e di casi risolti in modo frettoloso dalle autorità, decise a dare una spiegazione rapida quanto fragile. Nel dramma di Tunesi non può essere esclusa la rappresaglia feroce di una gang di estorsori, qualcuno ipotizza che El Italiano – come era stato soprannominato – sia stato freddato per non essersi piegato al pagamento del pizzo, una piaga dilagante che ha contagiato anche le zone frequentate da stranieri.

Il cooperante bresciano

Nel Chiapas, peraltro, vi sono stati molti episodi di violenza e nel luglio di un anno fa venne assassinato il cooperante bresciano Michele Colosio, figura generosa, con un’esistenza dedicata agli altri. L’aumento di attività turistiche, il flusso di viaggiatori e l’indotto diventano il bersaglio di network ben organizzati. Fenomeno criminale in crescita anche nello Yucatan, lungo la fascia costiera che da Cancun scende fino a Playa del Carmen. Gruppi collegati ai cartelli, bande «autonome», elementi affiliati a organizzazioni straniere si contendono traffici d’ogni tipo, spaccio di droghe, e ovviamente la «tassa» sui commerci, sui negozi, sui locali pubblici.

Stranieri nel mirino

Il numero degli stranieri bersaglio di attacchi si è moltiplicato. Alcuni innocenti, estranei all’illegalità, finiti nel mezzo non per loro scelta. Altri complici, come è stato di recente per alcuni canadesi d’origine asiatica puniti in un regolamento di conti all’interno di un complesso residenziale. Brutta fine anche per una coppia forse coinvolta in truffe con crypto-valuta: li hanno sgozzati. Misterioso, infine, quanto avvenuto a Tamasopo, a est di San Luis Potosi. La polizia ha scoperto i rottami carbonizzati di un elicottero usato di solito per tour turistici: a bordo i corpi inceneriti di quattro persone. Avevano le mani legate dietro la schiena, nelle vicinanze pare vi fosse una «cartolina» di rivendicazione, modus operandi usato dai narcos per «spiegare» i loro attacchi.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2022.

La vita di Raphael Alessandro Tunesi si è fermata alle 14 di venerdì vicino alla scuola La Escriba, a Palenque, stato messicano del Chiapas. L'imprenditore italiano era a bordo della sua auto e doveva prendere le figlie quando è stato colpito da un paio di sicari arrivati in moto. 

Uno degli assassini ha esploso almeno tre colpi centrando il nostro connazionale, un bersaglio facile. Lo hanno portato in ospedale, ma non ha avuto scampo.

La vittima era piuttosto nota nella zona che ospita resti archeologici importanti. Sposato da 21 anni con Elizabeth, tre figlie, gestiva l'hotel Quinta Chanabnal, un albergo-boutique in «tema» Maya.

Tunesi aveva studiato a lungo questa civiltà, parlava il dialetto indio, conosceva aspetti che attirano visitatori da ogni parte del mondo. Infatti, come esperto, aveva organizzato incontri, mostre, eventi proprio per raccontare un'epoca affascinante mentre nel 2014, insieme ad Antonio Aimi, aveva scritto un libro, L'Arte Maya , una testimonianza ulteriore del suo legame con il territorio e la sua lunga storia. Lo confermano anche le parole di dolore e commozione espresse da molti nei confronti di un uomo che aveva «creduto» nel Chiapas. Perché lo hanno ucciso? 

La Farnesina ha auspicato che possa essere fatta luce, l'ambasciata si è mobilitata per seguire la vicenda, passi in linea con situazioni sempre delicate. Tutto, però, dipenderà da chi indaga.

La cronaca messicana con centinaia di migliaia di omicidi racconta di un'infinità di moventi, di delitti senza una spiegazione apparente e di casi risolti in modo frettoloso dalle autorità decise a dare una spiegazione rapida quanto fragile per togliersi di dosso la pressione. A maggior ragione se il fatto di nera supera i confini nazionali. Nel dramma di Tunesi non può essere esclusa la rappresaglia feroce di una gang di estorsori. 

Voci - inverificabili - riferiscono di pressioni da parte di una società perché cedesse la sua proprietà. I veleni sono una costante, a volte diventano depistaggi. Qualcuno ipotizza che El Italiano - come era stato soprannominato - sia stato freddato per non essersi piegato al pagamento del «pizzo», una piaga dilagante che ha contagiato anche le zone frequentate da stranieri.

Nel Chiapas, peraltro, vi sono stati molti episodi di violenza e nel luglio di un anno fa venne assassinato il cooperante bresciano Michele Colosio, figura generosa, con un'esistenza dedicata agli altri. Le attività turistiche il target di network ben organizzati. Fenomeno criminale in crescita anche nello Yucatan, lungo la fascia costiera che da Cancun scende fino a Playa del Carmen. Gruppi collegati ai cartelli, bande «autonome», elementi affiliati a organizzazioni straniere si contendono traffici d'ogni tipo, spaccio di droghe, e ovviamente la «tassa» sui commerci, sui negozi, sui locali pubblici. Il numero degli stranieri bersaglio di attacchi si è moltiplicato.

Alcuni innocenti, estranei all'illegalità, finiti nel mezzo non per loro scelta. Altri complici, come è stato di recente per alcuni canadesi d'origine asiatica puniti in un regolamento di conti all'interno di un complesso residenziale. Brutta fine, una settimana fa, per una coppia forse coinvolta in truffe con cripto-valuta: li hanno sgozzati. 

Misterioso, infine, quanto avvenuto a Tamasopo, a est di San Luis Potosi. La polizia ha scoperto i rottami carbonizzati di un elicottero usato di solito per tour turistici: a bordo i corpi inceneriti di quattro persone. Avevano le mani legate dietro la schiena, nelle vicinanze pare vi fosse una «cartolina» di rivendicazione, modus operandi usato dai narcos per «spiegare» i loro attacchi. Sono dei killer e si comportano da terroristi.

Guido Olimpio per corriere.it l'8 luglio 2022.  

Primi arresti per l’omicidio di Alessandro Tunesi, l’imprenditore italiano caduto in un agguato in Messico: in manette la moglie, accusata di essere la mandante, e i due presunti esecutori. Proprietario di un hotel di lusso a Palenque, grande esperto della cultura Maya e innamorato del Paese, Tunesi era stato sorpreso da una coppia di killer in moto vicino alla scuola delle figlie. 

Gli assassini lo avevano atteso lungo una stradina secondaria per poi sparare tre proiettili. Nelle ore successive si era ipotizzato che il delitto fosse collegato a minacce da parte di estorsori o di qualcuno che voleva impossessarsi della proprietà.

Nelle scorse ore la Procura federale ha emesso un comunicato per annunciare la svolta con la cattura del terzetto. Per le autorità non vi sarebbero dubbi: sarebbe proprio la consorte, Elizabeth, ad aver organizzato l’eliminazione anche se al momento non è chiaro il movente. 

Sarà importante esaminare con maggiore attenzione il dossier e le prove. Mentre non si esclude nulla, c’è un atto ufficiale da parte degli inquirenti.  

In Messico le soluzioni lampo inducono sempre ad essere cauti, a seguire con grande prudenza. Il dramma di Tunesi ha superato i confini nazionali, ha avuto una grande copertura mediatica per la figura della vittima e l’area dove è avvenuto il crimine. Le autorità hanno così tutto l’interesse a trovare una risposta.

Svolta sull’albergatore italiano ucciso in Messico: arrestata la moglie, accusata di essere la mandante. La Stampa l'8 luglio 2022.  

Svolta in Messico sul caso dell'omicidio dell'imprenditore italiano Raphael Alessandro Tunesi, assassinato a Palenque, nello stato del Chiapas, il primo luglio scorso. Le autorità hanno arrestato la moglie messicana dell'uomo d'affari, Elisabeth Gomes, come mandante dell'omicidio, e due uomini indicati come autori materiali dell'imboscata. Ad annunciare la cattura dei tre presunti responsabili del crimine è stata la Procura generale dello stato del Chiapas, che in una nota ha riferito che la polizia ha eseguito giovedì «un mandato di cattura emesso dal giudice nei confronti di due uomini e una donna quali probabili autori dell'omicidio» di Tunesi. Secondo la procura, il lavoro investigativo e di intelligence ha consentito di chiarire i fatti e quindi ordinare l'arresto di Elisabeth 'N', moglie dell'imprenditore di origine italiana, in quanto mandante, e Gerardo Antonio 'N' e Luis Martín 'N' quali autori materiali». Gli arresti sono stati effettuati nelle città di Tuxtla Gutiérrez e Palenque, nel Chiapas. I catturati sono stati presentati davanti a un giudice nella città di Catazajá, che deve definire la loro situazione giuridica nei prossimi giorni. Tunesi, imprenditore alberghiero e soprattutto importante studioso della cultura Maya, è morto in un'imboscata in piena regola su una strada deserta, colpito a morte da una raffica di proiettili sparati da spietati sicari in motocicletta. E' stato ucciso mentre, a bordo della sua Bmw, si dirigeva verso la scuola 'La Escriba', da dove stavano per uscire due delle sue tre figlie, tutte nate dalla moglie che oggi è accusata di aver ideato il suo assassinio, che ha avuto risalto mediatico in Messico e oltre. Nato a Monaco e cresciuto a Milano, è stato l'interesse per la cultura precolombiana durante gli studi universitari che ha portato Tunesi a trasferirsi in Messico. Lì ha incontrato sua moglie circa 20 anni fa, quando con i genitori aveva ricevuto appoggio per la costruzione di una casa di vacanze a Palenque. Fu durante i lavori per l'abitazione che conobbe Elizabeth, che lo incoraggiò a trasformare il progetto in un hotel a cinque stelle. Oggi il Boutique Hotel Quinta Chanabnal, integrato da otto suite in stile maya, è considerato il più bello e lussuoso di Palenque. Grazie alle sue conoscenze, era molto stimato dalla comunità italo-messicana e aveva partecipato a molte iniziative organizzate dall'ambasciata d'Italia a Città del Messico.

La tragica storia dei 43 studenti scomparsi in Messico. E per cui i familiari cercano giustizia. I ragazzi sparirono mentre andavano a una manifestazione nel 2014. Attaccati dalla polizia. Ma i parenti contestano la versione ufficiale, accusano il governo, l’esercito e i troppi depistaggi. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 16 Maggio 2022.

Più che i Narcos, è stato lo Stato. Sono passati più di sette anni dalla notte in cui 43 studenti della Scuola normale rurale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero, in Messico, sono scomparsi. Ma la verità su che cosa sia accaduto il 26 settembre 2014 è ancora avvolta nella nebbia. Sarebbero dovuti arrivare a Città del Messico il 2 ottobre, per partecipare alla manifestazione in ricordo del massacro. 

B.L. per “il Messaggero” l'1 marzo 2022.

Le autorità di pubblica sicurezza dello Stato messicano di Michoacán hanno aperto un'indagine dopo che nelle reti sociali è circolato un video riguardante la fucilazione di 17 persone che sarebbe avvenuta domenica a San José de Gracia, nel comune di Marcos Castellanos. I media messicani riferiscono che le vittime sarebbero persone che avevano appena partecipato ad una veglia funebre e che sono state portate a forza fuori da un edificio. Secondo alcune ipotesi, potrebbe trattarsi di un regolamento di conti fra bande di narcotrafficanti. 

La vicenda è resa complicata dal fatto che, una volta sul posto, le forze dell'ordine hanno trovato solo proiettili di armi di vario calibro, ma nessun cadavere. Inoltre il luogo del presunto massacro sarebbe stato ripulito con detergenti. Per cercare di chiarire l'accaduto è in corso un'operazione congiunta dell'esercito e della Guardia nazionale, ha reso noto via Twitter il segretariato alla pubblica sicurezza di Michoacán, con «l'obiettivo di individuare i possibili autori e creare le condizioni affinché il personale della Procura possa svolgere le procedure che consentano di chiarire questi fatti».

In Messico la violenza continua a macinare record. L'attività delle bande criminali e dei cartelli dei narcotrafficanti è sempre più fuori controllo, in gran parte dei 32 Stati che formano il Paese. Gli ultimi due anni sono stati i più violenti di sempre. Non sono mancati episodi emblematici, che hanno suscitato una forte impressione. Continuano a esser spesso coinvolti sacerdoti, operatori pastorali, chiese. 

Nel Chiapas, ad Acacoyagua, una catechista, Margeli Lang Antonio, è stata uccisa in una sparatoria avvenuta nella chiesa dell'Immacolata, nella parrocchia di San Marco Evangelista. Qualche giorno prima due giovani studenti erano stati sequestrati, torturati e uccisi a Città del Messico. In precedenza, aveva fatto scalpore il massacro avvenuto a Minatitlán, nel Veracruz: 13 persone massacrate durante una festa di compleanno. Nel piccolo stato del Morelos, a sud di Città del Messico, la violenza appare da tempo fuori controllo. Si uccide in pieno giorno, o nei ristoranti.

CRESCE L'INSICUREZZA Secondo un'indagine la percezione di insicurezza per i cittadini messicani è arrivata all'89%. È pericoloso prendere i soldi a uno sportello bancomat, o perfino sedersi al bar di pomeriggio. Il Paese è in mano ai grandi gruppi criminali, che non hanno diminuito i loro affari, ma li hanno invece diversificati. Non c'è solo il narcotraffico, ma anche la tratta e il traffico di persone, i sequestri, la pirateria, i furti di auto, e altro. Si tratta di gruppi sempre più flessibili e raffinati.

Difficile fronteggiarli, soprattutto, per i rapporti e le contiguità con pezzi di Stato, o anche solo per le omissioni del potere, ma anche per la manovalanza che deriva da giovani a cui mancano altre prospettive, e per la facilità di riciclare denaro. Così aumentano gli omicidi, spesso per motivi banali, a volte per regolamenti di conti o per tentativi di estorsione. Settimanalmente in varie parti del Paese emergono fosse comuni di desaparecidos.

Messico, cimitero di giornalisti. «Penna e taccuino le sole armi» non rassegnatevi, vi aiuteremo. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2022. 

La didascalia della foto dice: parenti e amici della giornalista Lourdes Maldonado assassinata il 23 gennaio 2022 a Tijuana. Davvero vedete parenti e amici? Io vedo telecamere, macchine fotografiche, l’ennesima scena da immortalare per tenere il conto dei caduti in una guerra impari. 

27 gennaio 2022: lo scatto dall’alto di Guillermo Arenas documenta il momento della sepoltura della giornalista messicana Lourdes Maldonado, 48 anni, nel cimitero Monte de los Olivos di Tijuana, sua città natale nella Baja California, in cui ha trovato la morte quattro giorni prima, freddata a colpi di pistola

Ogni settimana sul magazine «7» Roberto Saviano presenta una foto da condividere con i lettori della rivista e del Corriere. «Una foto — spiega — che possa raccontare una storia. La fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla». Pubblichiamo online la rubrica uscita su 7 del 4 febbraio, per i lettori di Corriere.it

Vista dall’alto, cimitero di Monte de los Olivos, Tijuana, Messico. La didascalia della foto che vedete nella pagina accanto dice: parenti e amici della giornalista Lourdes Maldonado, 48 anni, assassinata il 23 gennaio 2022, raggiunta da colpi di arma da fuoco all’interno di un’auto a Tijuana. E conclude: il Messico è uno dei Paesi più pericolosi in cui esercitare la professione di giornalista. Ma guardate bene questa foto, guardatela con attenzione. Davvero vedete parenti e amici? Davvero vi sembra una scena di dolore e commozione? Davvero vi sembra una situazione unica, come unico è ogni funerale? Io vedo telecamere, macchine fotografiche, vedo l’ennesima scena da immortalare per tenere il conto dei caduti in una guerra combattuta ad armi impari. Da una parte chi ha potere economico, militare, politico e criminale e dall’altro chi usa penne, taccuini, videocamere, computer per raccontare ciò che accade, per provare a capirci qualcosa, per denunciare e non perdere la speranza.

LOURDES MALDONADO È STATA FREDDATA A COLPI DI PISTOLA A TIJUANA: TERZA VITTIMA NEL 2022. E CE N’È GIA UNA QUARTA

Io vedo rassegnazione. Proprio così, rassegnazione. Come si fa - direte - a vedere rassegnazione in una foto in cui nemmeno i volti delle persone ritratte sono perfettamente distinguibili? Eppure c’è. Non lacrime, non disperazione, ma la consapevolezza che chi scrive, a certe latitudini, non morirà di vecchiaia. Mi hanno colpito le parole del giornalista e scrittore turco Can Dündar — minacciato dal regime di Erdogan, arrestato nel 2015 e dal 2016 in esilio con un mandato di cattura pendente sul suo capo in Turchia — che, riferito alla condizione dei giornalisti messicani, ha affermato: «In Turchia almeno i giornalisti li arrestano, in Messico li uccidono». Questo la dice lunga sul prezzo che paga chi racconta le organizzazioni criminali, chi decide di raccontare i meccanismi del potere, potere criminale e potere politico, che talvolta finiscono per consorziarsi, talvolta per coincidere. Un prezzo che non è quasi mai evidente, un prezzo che sottende un pericolo quasi mai percepito fino in fondo dalla società civile.

DICEVA IL DISSIDENTE TURCO CAN DÜNDAR: «IN TURCHIA ALMENO I REPORTER LI ARRESTANO, DA VOI LI UCCIDONO»

Solo la morte decreta il tuo impegno e spesso, come nel caso dell’ultimo giornalista ucciso in Messico, il quarto dall’inizio del 2022 - non Lourdes Maldonado, ma un altro ancora dopo di lei - ti strappa via anche l’appellativo di giornalista, che è troppo “alto” secondo alcuni, che magari pone al centro del dibattito anche la tutela della libertà di espressione oltre al rammarico per una persona ammazzata a sangue freddo. Prima di Lourdes Maldonado era toccato al collega José Luis Gamboa Arenas, il 10 gennaio, ucciso a Veracruz. Poi al fotografo Alfonso Margarito Martínez Esquivel, il 17 gennaio, ammazzato fuori dalla sua casa a Tijuana. E dopo Lourdes, il 31 gennaio 2022, a cadere è stato Roberto Toledo, un avvocato di 55 anni che ha collaborato con la testata giornalistica Monitor Michoacán, ucciso a colpi di arma da fuoco nello Stato occidentale di Michoacán, nel comune di Zitácuaro, da tre uomini in un parcheggio vicino allo studio legale dove lavorava.

«È morto, ma non era un giornalista», si è affrettato a dire un politico locale. E invece no. Lo era eccome. Armando Linares, direttore di Monitor Michoacán, testata per cui Toledo faceva servizi giornalistici, ha affermato che Toledo aveva prodotto videoreportage per il web in cui denunciava le autorità locali. «Ha mantenuto un basso profilo, viste le minacce che avevamo ricevuto», ha detto il direttore di Monitor Michoacán in un’intervista alla testata messicana Milenio. Inoltre, in un video reperibile online, Linares afferma che dopo tutte le minacce ricevute dai suoi giornalisti, se dovessero esserci altri omicidi riterrà direttamente responsabili le autorità locali. «Uno dei nostri colleghi — dice — ha perso la vita perché tre persone gli hanno sparato in modo vile, in modo codardo. Alla famiglia del nostro collega dico che andremo fino in fondo».

Ripete la parola «collega», la ripete per rimarcare appartenenza, contro la volontà di creare divisioni tra chi fa informazione, tra chi merita attenzione e protezione e chi invece non la meriterebbe. E conclude con una frase che può sembrare retorica, ma che non lo è; una frase disperata, una richiesta di aiuto a cui dobbiamo, nonostante la siderale distanza che crediamo ci sia tra noi e il Messico, prestare ascolto: «Noi non abbiamo armi, la nostra unica difesa sono una penna e un taccuino».

Narcos, depistaggi e 007: ecco la versione di Pazienza. Gianluca Zanella il 28 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Nel suo ultimo libro "La versione di Pazienza", Francesco Pazienza racconta di quando ricevette una soffiata per individuare la prigione dell'agente Kiki Camarena, la cui storia viene raccontata nella serie Tv "Narcos - Messico".

Tra le sue tante – spesso discusse – frequentazioni, Francesco Pazienza, forse il più celebre faccendiere italiano, già collaboratore personale del direttore del Sismi Giuseppe Santovito e, a seguire, consulente (ovviamente personale) di Roberto Calvi, il patron del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto un ponte a Londra, ce ne sono alcune insolite addirittura per lui. Come quella con Pablo Escobar, che – nel corso di una cena nella villa del futuro dittatore nicaraguense Manuel Noriega – gli propose di riciclare i soldi del Cartello di Medellin.

Nel suo ultimo libro (La versione di Pazienza, edito da Chiarelettere), l’ex 007 compone un affresco ricco di nomi, date, circostanze e intrighi. Ma discostandoci per un attimo da questioni più squisitamente nostrane (come il depistaggio per la strage alla stazione di Bologna o, appunto, il crack dell’Ambrosiano), nel libro si trova un racconto inedito e per certi aspetti sconvolgente di un’avventura vissuta da Pazienza nel 1985.

Ormai lasciata l’Italia da quasi tre anni e trasferitosi a New York, dopo aver bazzicato l’ambiente degli spioni, Pazienza torna a dedicarsi al suo primigenio amore: l’alta finanza. Mettendo a frutto la sua conoscenza delle lingue, l’enorme rete relazionale intessuta nell’arco di un decennio e – ovviamente – quella che lui definisce “una faccia da tolla”, il faccendiere dei misteri ricomincia a viaggiare in lungo e in largo. Tra aerei privati, yatch, alberghi di lusso, gemelli d’oro e camicie su misura, nel febbraio 1985 si ritrova a Città del Messico. Una sera, mentre è nella hall, viene avvicinato da un messicano visibilmente guardingo, che si presenta come un maggiore della polizia federale americana. L’uomo sussurra che ha qualcosa da dirgli, qualcosa di molto importante. Pazienza cade dalle nuvole, l’uomo allora aggiunge che non si fida dei suoi superiori, perché sono tutti collusi con i cartelli dei narcos che spostano tonnellate di cocaina dalla Colombia in giro per il mondo.

Incuriosito, invita l’agente a confidarsi. L’uomo non se lo fa ripetere due volte e gli dice di sapere dove sia tenuto prigioniero un agente americano della Dea, l’agenzia federale antidroga: Enrique “Kiki” Camarena Salazar. Il nome non dice nulla a Pazienza. Sarebbe divenuto celebre anche in Italia solamente più di trent’anni dopo, quando Kiki Camarena diventa protagonista della serie tv Narcos – Messico.

Intuita la gravità della situazione, Pazienza si attiva per fare qualcosa. Cerca un telefono e chiama New York, presso l’ufficio del Customs Service, dov’era precedentemente entrato in contatto con alcuni rappresentanti. Parla della situazione con un agente. Dall’altra parte del telefono, lo stupore dei suoi interlocutori è palpabile. In America si sta parlando molto di quel rapimento a opera del signore della droga Miguel Angel Felix Gallardo. Le autorità statunitensi sembrano brancolare nel buio e adesso arriva un italiano a offrire la soluzione sul piatto. Non capita certo tutti i giorni.

“Li sentivo parlottare al di là della cornetta”, ci racconta Pazienza, “mi aspettavo di ricevere istruzioni immediate. Dopotutto avevo detto che l’agente che mi aveva dato la soffiata era disponibile subito a seguirmi a New York. E invece cosa fanno? Mi dicono di richiamare l’indomani. Per quanto sorpreso, riagganciai”.

Il giorno seguente stessa scena: Pazienza chiama gli uffici del Customs Service e anche stavolta i suoi interlocutori tergiversano: “Mi chiesero quando fossi tornato a New York, mi dissero che della questione bisognava parlare a voce. Gli dissi che il mio rientro era imminente, ci demmo appuntamento nei loro uffici di lì a qualche giorno”.

Effettivamente Pazienza rientra negli Stati Uniti pochi giorni dopo, portandosi dietro l’agente messicano che diceva di conoscere i dettagli del rapimento sempre più agitato, spaventato dal fatto che qualcuno potesse scoprire il suo doppio gioco.

Una volta a New York, Pazienza sistema l’uomo in un albergo e si reca con il suo avvocato americano presso gli uffici del Customs Service siti nel World Trade Center. Una volta entrato, la trappola: “Mi dichiararono in arresto. C’era un mandato di cattura internazionale nei miei confronti. I due agenti, mentre me lo dicevano, non riuscivano a guardarmi in faccia, erano in imbarazzo”.

Nello sconcerto generale, fatta questa inaspettata premessa, gli agenti vengono al dunque e chiedono a Pazienza di parlare di Camarena. “Gli risposi in modo colorito che non avrei aperto bocca”. Comprensibile.

Tutto questo accade il 4 marzo 1985. Il corpo martoriato di Kiki Camerana verrà ritrovato ad Angostura il giorno dopo. Logico immaginare che, se anche Pazienza avesse parlato, per l’agente della Dea non ci sarebbe stato nulla da fare. Certo, se gli agenti del Customs Service si fossero attivati nel corso della prima telefonata, magari il povero agente antidroga si sarebbe salvato. “Non immaginavo che il senso di colpa mi avrebbe accompagnato per tutta la vita”, confessa Pazienza, “è probabile che mentre mi trovavo seduto negli uffici del Customs Service, Camarena fosse già morto, ma ancora oggi mi pento per quella risposta dettata dall’impeto del momento”.

Quel 4 marzo 1985 segna per Francesco Pazienza l’inizio di un percorso terminato solamente nel 2007. Da quel giorno, infatti, prende avvio l’odissea giudiziaria che lo porterà prima in carcere negli Usa, dove condividerà la cella con mafiosi del calibro di Tano Badalamenti, fino ad arrivare in Italia – estradato con metodi che racconta dettagliatamente nel suo libro -, dove passerà in carcere oltre 12 anni, di cui sei in isolamento, con un intermezzo di nove mesi al 41bis.

Condannato a tre anni per il crack del Banco Ambrosiano e a dieci anni per il depistaggio nelle indagini sulla strage di Bologna, Pazienza si è sempre difeso attaccando a testa bassa i tranelli e le ipocrisie di un sistema di cui ha fatto parte e che l’ha sacrificato sull’altare del compromesso. L’ha fatto in passato con un libro – Il Disubbidiente – scomparso subito dopo la pubblicazione dal mercato, lo fa oggi – carte alla mano – con un libro che promette di riaprire il dibattito su molti argomenti spinosi del nostro passato recente.

Gianluca Zanella nasce a Roma. Editor e agente letterario, collabora dal 2015 con alcune tra le principali realtà editoriali italiane. Già collaboratore e inviato per AISE (Agenzia internazionale stampa estera), dal 2021 collabora con il Giornale.it occupandosi di inchieste. È fondatore del format

·        La Mafia Cinese.

Le scatole cinesi del lusso: c’è del marcio nel distretto dell’alta moda. Un’indagine della procura di Firenze sulle aziende fantasma che producono accessori per le grandi marche promette sviluppi clamorosi: gli inquirenti stanno ricostruendo la filiera che inizia dall’importazione in nero di pellame, passa dal riciclaggio nelle banche dello Stato di Xi Jinping e arriva nei negozi. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 10 gennaio 2022.

Questa storia inizia al primo piano di una palazzina di Sesto Fiorentino. Il 4 settembre del 2019 la Guardia di Finanza entra in uno studio di commercialisti seguendo le tracce di un possibile giro di false fatturazioni ed evasione fiscale di piccole aziende cinesi nel settore del manifatturiero tra Prato, Firenze e Arezzo. Nulla di nuovo sotto il sole, una operazione quasi di routine da quelle parti.